Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

LE RELIGIONI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LE RELIGIONI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Dei.

Il Nome di Dio.

Dio è morto.

L’ultima Religione.

Chi odia Gesù.

I Miracoli.  

Miracoli ed affari.

Comunione e Liberazione.

I Vizi Capitali.

Il Diavolo e l’Esorcismo.

L’inquisizione.

La Blasfemia.

Il Sacramento della Confessione.

Chi ha paura dei simboli cristiani?

La Mattanza dei Cristiani.

Il Vaticano ed il Covid.

Il Papa Santo.

Il Papa Emerito.

Il Papa Comunista.

I Cristiani ed i Comunisti.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

La Democrazia Vaticana: I Conclavi.

I Preti.

I Cardinali.

Gli Scismi Minacciati.

Il Vaticano e l’Italia.

I Giornalisti di Dio.

Il Vaticano non evade l’Imu.

Vaticano e Bilanci.

Gli Scandali Vaticani.

Il Vaticano e la Giustizia.

Il Vaticano e la Mafia.

Vaticano e Massoneria.

Il Papa e l’Immigrazione.

Vaticano e Gay.

Vaticano e Gender.

Vaticano e donne.

La Chiesa ed il Matrimonio.

Le Suore.

Vaticano ed Ecologia.

Il Concilio tra i cristiani.

Il Sovrano Militare Ordine di Malta.

La Chiesa Ortodossa.

Le chiese evangeliche.

I Mormoni.

Le Sette.

Scientology.

Confucio.

Buddha.

Il Vaticano e gli Ebrei.

Il Vaticano e la Cina.

Il Papa e l’Islam.

L’Islam e le donne.

L’Islam ed il Terrore.

L’Islam e la Musica.

 

 

 

 

 

LE RELIGIONI

SECONDA PARTE

 

·        La Democrazia Vaticana: I Conclavi.

Il prossimo Papa? Può deciderlo il "grande centro". Francesco Boezi il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'elezione del prossimo Papa, al netto di tante ricostruzioni, può giocarsi nel mezzo. I moderati avranno un ruolo decisivo anche per il soglio di Pietro. Chi sarà il prossimo Papa? Non sappiamo se sia un esercizio di stile della stampa di settore o se effettivamente esista qualche elemento in grado di testimoniarlo: sono settimane che, attorno alle vicende della Santa Sede, si parla soprattutto di conclave, di "schieramenti vaticani", di equilibri cardinalizi, di correnti, di tensioni dottrinali, di distinguo e così via. Forse, a contribuire, sono state le voci sulle "dimissioni" di papa Francesco - quelle che poi non si sono verificate - e tutti i retroscena di contorno - quelli smentiti puntualmente - , sulla malattia del pontefice. Il risultato comunque non cambia: è iniziato il topo-papa. Pure se Jorge Mario Bergoglio è ancora sul soglio e non ha alcuna intenzione di dimettersi. Il toto-papa è peggio del toto-Quirinale. Se per il primo le variabili sono infinite come per il secondo, il Quirinale ha almeno il vantaggio di avere una scadenza. Per lo "scranno" più alto del Vaticano non c'è una data, un periodo utile o un semestre bianco: è tutto lasciato alla volontà di Dio. Tuttavia, volendo anche noi provare ad esercitarci con questo filone, diremmo che ha ragione Francesco Antonio Grana quando, nel suo libro intitolato "Cosa resta del Papato. Il futuro della Chiesa dopo Bergoglio", che è stato presentato su Il Messaggero, annota quanto segue: "È evidente che le fazioni, quella progressista delusa per le mancate aperture del pontificato di Francesco, quella conservatrice che vuole un ritorno al regno ratzingeriano e quella bergogliana che, invece, vuole proseguire l’opera riformatrice del Papa latinoamericano, si stanno già organizzando per non farsi trovare impreparate nel momento in cui inizierà la Sede Vacante". Una ricostruzione sacrosanta che condividiamo. C'è un però: quelli che vengono chiamati "ratzingeriani", che fanno così parte del gruppo dei "conservatori", si contano ormai sulle dita di una mano. Al contempo, è sussurrata l'organizzazione di un nuovo Concistoro tramite cui il Santo Padre potrà creare altri cardinali. Non si sa il "quando", ma è noto che si farà. E le scelte operate da Bergoglio in questi anni hanno sempre guardato con favore a porpore capaci di rappresentare la "Chiesa in uscita". Che il prossimo pontefice sia un ratzingeriano, insomma, è del tutto improbabile. Che il successore di Bergoglio, invece, sia un "bergogliano", sarebbe del tutto naturale. Ma non è detto. Dal prossimo Concistoro capiremo pure quale sarà lo stato di salute della Chiesa italiana al prossimo Conclave: questo è un fatto certo. Ad oggi, né l'arcivescovo di Milano né il patriarca di Venezia fanno parte dell'assise cardinalizia. Come italiani, per così dire, abbiamo un peso specifico relativo, forse il più debole della storia. Nonostante questo, continuano ad essere avanzate le ipotesi del cardinal Matteo Maria Zuppi e del cardinale Pietro Parolin: sono loro due i cardinali del Belpaese che possono giocarsela secondo i più. Ma occhio pure alle nuove nomine con cui Francesco intenderà procedere. Se a prevalere dovesse essere il "fronte progressista", di nomi buoni per il papato ce ne sarebbero molti: dal cardinal Luis Antonio Tagle al cardinal Reinhard Marx, passando per una sfilza di nomi che abbiamo provato a riassumere con questo articolo. Capiamoci: significherebbe che la maggioranza elettiva del primo pontefice gesuita della storia ha assestato un altro colpo alla storia della Chiesa. E ad oggi resta sul serio la prima suggestione in campo. Perché i ratzingeriani, che non arrivano a dieci per intendersi, possono aspirare al limite ad un'altra soluzione, che non è di ripiego ma che non li vede coinvolti in prima persona. La strategia dei conservatori potrebbe essere questa: giocare di sponda con la maggioranza silenziosa, ossia con l'insieme di cardinali che non propende per il correntismo dottrinale. Ecco, se i ratzingeriani dovessero allearsi con coloro che progressisti non sono, la partita si presterebbe a tutta una serie di eventualità, e il Papa eletto potrebbe essere, per così dire, un moderato. Ai ratzingeriani, stando a quello che circola negli ambienti e che viene rivelato in maniera esaustiva in più occasioni da anni, andrebbe bene così. Perché a più di tanto i conservatori non possono aspirare. Ecco perché, a ben vedere, il prossimo conclave non si giocherà sulla contrapposizione tra i due fronti e basta, ma pure sulle volontà del "grande centro". Il prossimo Papa passa da una dialettica di questa tipologia. Ma quanto "grande centro" sarà presente in seguito al prossimo Concistoro? Forse meno di quello che spererebbero i ratzingeriani.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento

Le stranezze del Conclave: così la Chiesa ha eletto i suoi Papi. Dal Conclave senza tetto di Viterbo alla mancata elezione del cardinal Siri: le storie singolari dell'elezioni dei Papi nelle vicende della Chiesa. Francesco Boezi, Martedì 29/12/2020 su Il Giornale. Si dice che per eleggere Pio III, Francesco Tedeschini Piccolomini da Siena, i cardinali abbiano concordato in bagno il nome del vincitore, ma di storie singolari è condita buona parte della voce "Conclave" nella storia della Chiesa cattolica. Nel caso di Piccolomini siamo nel settembre nel 1503, mentre in quello della mancata elezione del cardinal Giuseppe Siri abbiamo fatto un bel viaggio nel tempo, arrivando al 1958. Siri all'epoca è il porporato di Genova. Un tempo del resto il Papa creava cardinali sulla base della storicità delle diocesi. Oggi non è più così, Bergoglio ha modificato la prassi, preferendo la pastorale alle origini, e Genova, così come Milano e Torino, sono senza porpora di rappresentanza. A meno che non si conti Angelo Bagnasco, che di Genova però è l'ex arcivescovo. Fatto sta che Giuseppe Siri, principe dell'antimodernismo, è al centro di una teoria dei retroscenisti che lo vedono eletto. Così, però, non è, dato che il Papa scelto in quell'assemblea cardinalizia è Roncalli, passato alla storia come Giovanni XXIII. Eppure chi ha visto un male o comunque qualcosa di sconveniente nel Concilio Vaticano II, che proprio papa Roncalli inaugurata, racconta volentieri che Siri, il presunto eletto per davvero, è stato costretto a rinunciare, dopo regolare votazione. Molto di questa versione, che non è mai stata dimostrata, muove dal fatto che Siri avesse un ottimo rapporta con papa Pacelli, ma anche il cardinal Angelo Scola doveva essere eletto nel 2013 per via della sua prossimità dottrinale con Benedetto XVI. Sappiamo com'è andata a finire, con papa Francesco. Conosciamo anche l'errore in cui è inciampata la Cei, con quel comunicato d'augurio per l'elezione di Scola, alla fumata bianca di quel Conclave. Del Conclave che ha eletto Joseph Ratzinger si è parlato parecchio per via del "diario segreto" del cardinale rimasto anonimo. Per farla breve: il tedesco è l'erede naturale del pontificato di San Giovanni Paolo II, ma i progressisti gli contrappongono l'arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, che tuttavia chiede di non essere più votato dopo i primi scrutini, consentendo ai sacri palazzi di aprire le loro porte a Benedetto XVI. Una sorta di secondo round tra modernisti e non, secondo certi tradizionalisti, con l'esito trionfante dei conservatori, a differenza di quanto accaduto tra Siri e Roncalli, in cui invece i conservatori, nonostante la "vittoria", avrebbero perso. Sono semplificazioni ma rendono bene l'idea dello scontro conciliare, che non può precedere per ovvie ragioni il Vaticano II ma che in qualche forma accompagna la Santa Sede dalla sua fine. Per fotografare i momenti salienti davvero particolari della storia dei Conclavi, bisogna però guardare a Viterbo. L'anno è il 1268. Solo che la questione si prolunga fino al 1271. Parecchi anni dopo - come ripercorso da IlMessaggero - si opterà per un processo post-datato. L'accusa è quella sequestro di persona. L'imputato è il podestà della città laziale. Sì, perché i principi della Chiesa sono stati reclusi per tre anni circa. L'Italia ai tempi è quella dei guelfi e dei ghibellini, e i viterbesi non sono troppo disposti ad attendere un esito che non arriva. La situazione di partenza è complessa - troppi schieramenti vaticani - e l'assise cardinalizia non è propensa alle accelerate. Si tratta pure di guardare a quello che il mondo fuori vorrebbe. Se dipendesse dai cardinali, in buona sostanza, la cosa si prolungherebbe ad libitum, in attesa che ogni incognita politico-ecclesiastica si risolva. Ai viterbesi però l'andazzo non piace, così prima sigillano la riunione - "cum clave" deriva proprio da questa scelta,, dato che i porporati sono stati "clausi", ossia chiusi - , poi tagliano le quantità di cibo e bevande ed infine rimuovono un pezzo sostanzioso di tettoia nel palazzo in cui avviene l'elezione, in modo tale che le persone riunite debbano tenere conto anche dell'intemperie e dei loro effetti. Viene eletto così Gregorio X, Tebaldo Visconti da Piacenza che promulgherà una Costituzione Apostolica centrale per le vicende dell'Ecclesia.

·        I Preti.

Domenico Agasso per “La Stampa” il 28 novembre 2021. «La mia nipotina Gaia di 2 anni non se ne rende ancora conto, ma l'altra, Sofia, che ne ha 7, ha capito che qualcosa di strano è successo». La stranezza è che Maurizio Scala, per tutti «Momo», 66 anni, pensionato, vedovo, responsabile del servizio ai senza dimora della Comunità di Sant' Egidio a Genova, è un nonno che da ieri mattina è prete. In chiesa erano presenti quattro generazioni: le due nipoti, la figlia Valeria (38 anni) e Sergio, il padre 92enne. Per ordinare sacerdote Momo sono arrivati in Liguria da Bologna il cardinale arcivescovo Matteo Maria Zuppi, che ha presieduto l'ordinazione, e dal Vaticano monsignor Vincenzo Paglia, consigliere spirituale della Comunità, che ha concelebrato. E da Roma sono giunti i vertici di Sant' Egidio, il fondatore Andrea Riccardi e il presidente Marco Impagliazzo, seduti con 500 persone nella basilica dell'Annunziata, tra cui molti di quei senzatetto che vengono serviti dalla mensa della Comunità o che Maurizio incontra tutte le sere lungo le strade di Genova. Per Zuppi, «la scelta di Momo è arrivata in una stagione della vita in cui generalmente contano di più i bilanci che i progetti». Riccardi evidenzia come «Momo sia un presbitero, com' era nel cristianesimo degli inizi, un anziano consigliere che guida gli altri credenti». Don Maurizio, da dove possiamo cominciare per conoscere la sua storia? «Dall'esperienza di 45 anni con Sant' Egidio, che significa tenere insieme il Vangelo e l'impegno accanto agli indigenti. Un percorso umano e spirituale che fino a nove anni fa ho condiviso con mia moglie Roberta». 

Ci racconta qualcosa di voi?

«Ci siamo sposati giovani. A 38 anni Roberta si ammala di un grave tumore cerebrale. Inizia un lungo calvario che durerà diciassette anni. Con mia figlia la accompagniamo e curiamo in casa fino all'ultimo. Tempi difficili, ma caratterizzati anche da una certa serenità; siamo stati sostenuti da tanti amici straordinari». 

Come ha vissuto il vuoto?

«La vita è andata avanti, mia figlia mi ha fatto dono di due bellissime nipotine, e io ho continuato a dare il mio contributo nella Comunità, occupandomi anche dei giovani, della crescita dei gruppi di Sant' Egidio in altre città del nord Italia». 

Dove e come è nata la sua vocazione?

«Dalla lunga esperienza di incontro con i poveri. E poi, negli ultimi anni difficili per la nostra società, in particolare durante la pandemia, ho compreso quanto ci sia bisogno di futuro. Il domani come sarà? Ci chiediamo. Io penso che la ricostruzione potrà essere illuminata da Gesù. E così ho sentito che Dio mi chiedeva un ulteriore passo, mi poneva un nuovo fronte: non più solo servizio agli sventurati ma anche servizio all'altare. Mi sono sentito chiamato a trasmettere la gioia di Dio anche in questa veste». 

E ora come si sente con l'abito ecclesiastico?

«Raggiante. Sono in pensione da due anni e sento energie e forza, sarebbe un peccato sprecarle con il pensiero "sono arrivato": non sono arrivato a un bel niente, anzi, spero che il bello debba ancora venire. Anche perché ho ancora qualche sogno che mi piacerebbe realizzare». 

Sua figlia come ha reagito?

«Mi ha detto: "Sento che questo passo dà pienezza alla tua vita". Ero felicissimo di queste sue parole». 

Quanto pensa a sua moglie?

«Sono certo che Roberta in Cielo è contenta, conosceva bene il mio amore per il Vangelo e per gli ultimi. Sarà "partecipe" anche di questo mio nuovo tempo». 

Che prete vuole essere?

«Essere sacerdote vuol dire per me fare sentire la vicinanza di Dio a tutti, soprattutto a chi sente il peso delle ferite della vita».

La storia di Maurizio Scala: da pensionato a sacerdote. Maurizio Scala, pensionato, vedovo, nonno di due bambine e una vocazione che nasce dall'esperienza di 45 anni con Sant'Egidio. Oggi la sua ordinazione a Genova. Il Dubbio il 28 novembre 2021. È stato ordinato sacerdote oggi a Genova Maurizio Scala, detto “Momo” responsabile del servizio ai senza dimora della Comunità di Sant’Egidio a Genova. Sessantaseianni, pensionato, vedovo, nonno di due bambine e una vocazione che nasce dall’esperienza di 45 anni con Sant’Egidio, che lui stesso ha contribuito ad avviare nel 1976 a Genova. Per la celebrazione, presieduta dall’arcivescovo di Bologna card. Matteo Zuppi e concelebrata dall’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della pontificia accademia per la vita e da numerosi sacerdoti, si sono raccolte nella basilica dell’Annunziata, storica sede della comunità cattolica nel capoluogo ligure, quasi 500 persone. Tra loro, oltre al fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi e al presidente Marco Impagliazzo, molti amici, quei poveri che don Maurizio incontra tutte le sere nel servizio ai senza dimora a Genova.  

La storia di don Maurizio Scala

Dopo aver contribuito a creare il gruppo della Comunità di Sant’Egidio a Genova, alla fine degli anni Settanta, Maurizio Scala ha saputo tenere insieme l’impegno accanto ai poveri, la formazione dei giovani, il supporto alla formazione e alla crescita dei gruppi di Sant’Egidio in altre città del Nord Italia, la formazione spirituale. Anche la lunga malattia della moglie, che Momo ha curato in casa fino all’ultimo momento, non gli ha impedito di rimanere un riferimento per i giovani e gli adulti della Comunità in Liguria. Dopo essere rimasto vedovo, don Maurizio ha intrapreso il nuovo percorso di formazione fino all’ordinazione sacerdotale di oggi.

Il Cardinale Zuppi parla della scelta di don Maurizio Scala

«La scelta di Momo – ha detto il cardinale Zuppi – è arrivata in modo sorprendente, in una stagione della vita in cui generalmente contano di più i bilanci che i progetti». Raggiante, il nuovo sacerdote Maurizio Scala ha ricordato come la sua vocazione sia nata dalla lunga esperienza di incontro coni poveri insieme a Sant’Egidio: «vorrei tenere insieme il sacramento dell’altare con quello dei poveri – spiega – perché essere sacerdote vuol dire per me fare sentire la vicinanza di Dio a tutti, soprattutto a chi sente il peso delle ferite della vita».

Antonio Grizzuti per "la Verità" l'11 ottobre 2021. Non sembra avere freni l'emorragia di vocazioni in Italia. Cifre alla mano, sono sempre meno numerosi i sacerdoti nel nostro Paese. E come se non bastasse, la crisi economica e la disaffezione verso la Chiesa alimentata anche dai recenti scandali ha inferto un duro colpo alle offerte per il clero. Orientarsi nella selva di dati non risulta sempre cosa facile, e a volte i conti tornano a causa dell'incongruenza dei numeri riportati dalle fonti ufficiali, ma una cosa è certa: il numero di preti nel tempo appare in costante diminuzione. Secondo i dati presenti sul sito della Conferenza episcopale italiana, nel 2019 la comunità dei presbiteri in Italia è scesa sotto quota 40.000 membri (per la precisione 39.804 unità). Solo dieci anni fa erano quasi 10.000 in più. Dal 1990 a oggi, il numero totale dei sacerdoti è calato di circa 15.000 unità, subendo una contrazione del 27%. Colpito sia il clero cosiddetto «secolare», composto da coloro che non sono vincolati a un particolare ordine, che quello «regolare», composto dai religiosi tenuti all'obbedienza di una regola. Crollo verticale delle nuove ordinazioni dei preti secolari, diminuite di un terzo nel primo quindicennio del nuovo millennio. Stesso trend anche per i seminaristi (maggiori e minori), diminuiti del 31%, i religiosi non sacerdoti (-21%) e le religiose di sesso femminile (-29%). Decisamente impietosi i dati forniti dall'Istituto centrale per il sostentamento del clero, che si occupa di erogare le risorse necessarie a integrare il reddito dei presbiteri nei limiti stabiliti dalla Cei. Nel 2018 i preti diocesani totali erano 33.941, ma solo 30.985 dichiarati abili a prestare servizio a tempo pieno in favore delle diocesi. Gli altri, malati o troppo anziani per servire le comunità. Quindici anni fa se ne contavano ben 5.200 in più. Una contrazione pari al 14,5% nel giro di appena tre lustri. Unica nota positiva, la crescita del diaconato con ben 4.700 diaconi, dei quali quasi nove su dieci risultano sposati. Secondo il professor Franco Garelli, il vuoto vocazionale fa ancora più paura se si considera l'invecchiamento del clero italiano. «I preti con oltre 80 anni erano il 4,3% nel 1990, mentre sono il 16,5% nel 2019», ha affermato in un recente articolo il docente di Sociologia dei processi culturali all'Università di Torino, «i preti con meno di 40 anni erano 14% del clero nel 1990, mentre rappresentano non più del 10% nel 2019». Per contro, rileva Garelli, l'età media dei preti diocesani è passata dai 57 anni del 1990, ai quasi 60 anni nel 2010 e ha superato i 61 anni nel 2019. Un processo di invecchiamento verificatosi «a seguito della diminuzione dei nuovi ingressi o dal calo delle vocazioni», avvenuto «in modo un po' beffardo» a margine del Concilio Vaticano II quando il trend delle vocazioni era ancora in crescita e svariate diocesi italiane pianificavano la creazione di nuovi seminari o l'ampliamento di quelli già esistenti. Sul piano territoriale, le cifre riportare dal professor Garelli evidenziano una redistribuzione dei prelati dalle Regioni settentrionali in favore di quelle meridionali. Fatta eccezione per il Lazio (+11%), nel trentennio 1990-2019 a nord di Roma si assiste a un vero e proprio profondo rosso: -35% in Piemonte, -32% in Liguria, -29% in Emilia Romagna e a seguire Triveneto (-28%), Marche (-27%) e Toscana (-24%). Tendenza opposta per il Mezzogiorno, con una crescita addirittura in doppia cifra per la Calabria (+12%) e incrementi significativi in Campania, Puglia e Basilicata (+7%). E laddove cresce numericamente, il clero presenta un'età media più bassa: un decennio separa i preti «giovani» della Basilicata (55,9 anni) da quelli decisamente più anziani del Triveneto (65,4 anni). Pessime notizie anche sul versante delle offerte ai sacerdoti. L'aggiornamento annuale pubblicato dall'Istituto centrale per il sostentamento del clero parla chiaro: nel giro di poco più di un quindicennio le erogazioni liberali da parte dei fedeli sono passate dai 19,2 milioni di euro del 2002 ai 9,6 milioni di euro del 2018, in leggera ripresa rispetto al punto più basso (9,4 milioni di euro) toccato nel 2017. Nello stesso periodo, a fronte di un aumento di 209 unità per quanto riguarda i sacerdoti che hanno percepito l'intera retribuzione (circa 22.400 euro per i sacerdoti abili a prestare servizio a tempo pieno), i preti che hanno ricevuto un'integrazione sono diminuiti di ben 7.000 unità.

·        I Cardinali.

DAL FILIPPINO TAGLE AL GUINEANO SARAH ECCO CHI CONTA DI PIÙ TRA I CARDINALI. Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 23 agosto 2021. Sempre in agitazione il "borsino" delle quotazioni dei porporati ai primi posti nelle gerarchie. Bisogna però sempre ricordare l'antico detto: «Chi entra papa in conclave, ne esce cardinale», che molte volte è stato puntualmente rispettato. Una cosa è certa: con le numerose nomine di papa Francesco la composizione del collegio cardinalizio è diventata sempre più internazionale, sempre meno eurocentrico. In accordo con il dettato del Papa, ossia dare spazio alla "periferia" della Chiesa, ecco uomini scelti dalle Mauritius, dal Laos, da Capo Verde, da Haiti...Praticamente sconosciuti, coerenti con i punti salienti del "programma" di Francesco: dialogo interreligioso, attenzione agli ultimi, emergenza climatica. I nomi dei "papabili"? Sottoposti agli equilibri instabili della Curia, dalle voci che si rincorrono nei sacri palazzi. Resta comunque nella lista dei "più in vista" il filippino Luis Antonio Gokim Tagle. Il Papa lo chiamò a presiedere il sinodo straordinario sulla famiglia nel 2014 e quello ordinario del 2016; a conclusione del sinodo dei giovani del 2018, fu il primo eletto per l'Asia nel consiglio preparatorio del sinodo successivo. Altro nome in primo piano è quello del cardinale Robert Sarah, originario della Guinea, prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Autore di bestseller, conta moltissimi ammiratori ma anche molti detrattori, soprattutto tra i bergogliani "duri e puri". È opinione diffusa, tuttavia, che per i critici di questo papato in nome della tradizione sarebbe un ottimo candidato, ma in un collegio cardinalizio nominato per più della metà da Bergoglio stesso sarebbe difficile ottenere i due terzi dei voti. Alcune voci accrediterebbero il segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Pietro Parolin o l'arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Maria Zuppi, due italiani che però mal si accorderebbero con l'idea di proseguire sulla linea di globalizzazione della scelta di un futuro Pontefice.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 14 agosto 2021. Da fine giugno a metà luglio, gli occhi dell'apparato vaticano sono tradizionalmente puntati sul "bollettino" con cui la segreteria di Stato annunzia i trasferimenti dei nunzi, le promozioni dei consiglieri e dei ministri, le assunzioni nel corpo diplomatico della Santa Sede. Quest' anno, ad inizio agosto, non ce n'è traccia. Quello della diplomazia con la tonaca è stato per secoli un meccanismo ben oliato, con tempi e tappe di un sincronismo perfetto. Tre anni erano necessari per essere diplomati dalla Pontificia Accademia Ecclesiastica e in diciotto anni si diventava nunzio. Chi rallentava il passo, veniva gentilmente messo fuori organico. Un cursus honorum severo e selettivo, ma i risultati si vedevano ed erano universalmente apprezzati. Le cose sono cambiate, in peggio, dal 21 novembre 2017 quando papa Francesco ha istituito la terza sezione della segreteria per le questioni attinenti al personale diplomatico e a chi si prepara a farne parte. Nel 2020 la Pontificia Accademia Ecclesiatica (istituzione che funziona dal 1701) ha diplomato 16 allievi, ma solo 4 sono stati assunti. Sembra che per far carriera nel corpo diplomatico del Papa, attualmente occorrano almeno tre requisiti: essere polacco o di un Paese culturalmente limitrofo, avere opzioni ecclesiologiche molto passatiste, essere un assiduo frequentatore del "club della birra" animato dal vescovo Jan Pawlowski, responsabile della sezione. Così, si ottengono carriere fulminanti. Sarà un caso, ma il 95 per cento dei nuovi nunzi è in possesso di tali requisiti e ha meno di 50 anni. Considerando che andrà in pensione a 75 anni, cosa ci riserva la diplomazia vaticana del futuro? Uno scherzo da prete à la polonaise fatto al Papa che ha messo la Chiesa polacca sotto indagine o una traduzione moderna del detto diplomatico, ma mafioso: calati juncu ca passa la china (piegati giunco che passa la piena)? 

Chi era il cardinale Richelieu. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 26 giugno 2021. L’espressione eminenza grigia, dal francese éminence grise, è parte integrante del vocabolario universale dell’umanità. L’eminenza grigia è una figura, solitamente anziana – sebbene il grigio sia più un riferimento alla natura caliginosa del personaggio che all’età –, che affianca e supporta costantemente, ma riservatamente, il capo di Stato, fornendogli consigli, suggerendo politiche da adottare e formulando strategie da implementare. L’eminenza grigia è il consigliere per antonomasia, una persona che, essendo più realista del re, spesso e volentieri può combaciare con o sovrapporsi ad altre figure simili, quali sono il potere dietro alla corona e il grande burattinaio. Ogni capo di Stato che si rispetti ha una o più eminenze grigie: loschi ma preparati figuri, battezzati alle arti sacre della guerra e della diplomazia, che sanno come muoversi nel mondo, che conoscono le leggi del bellum omnium contra omnes e che aiutano i loro re Davide ad affrontare e vincere i Golia di turno. Ma da dove proviene questo modo di dire che ha segnato l’immaginario collettivo (non soltanto occidentale)? Da quell’epoca di grandi stravolgimenti politici, guerre religiose e rivalità dinastiche che ha fatto la storia dell’Europa: la guerra dei trent’anni. E colui che, più di ogni altro, avrebbe lavorato per eternare il proprio nome, spingendo la posterità a ricordarlo come l’eminenza grigia, fu il cardinale Richelieu, colui “che faceva tremare con la sua politica la Francia e l’Europa”.

Le origini del mito. Il cardinale Richelieu, al secolo Armand du Plessis, nasce a Parigi il 9 settembre 1585 da una famiglia della piccola nobiltà di Poitou. Suo padre, François, era signore di Richelieu e sua madre, Susanne, proveniva da una famiglia di giuristi. Non avrebbe mai avuto il modo di conoscere realmente suo padre, morto in battaglia durante le guerre di religione francesi, mentre il futuro cardinale aveva soltanto cinque anni. Immiserito e di salute cagionevole, il piccolo Armand fu inviato dalla madre al collegio di Navarra (Parigi) per studiare filosofia all’età di soli nove anni. Conclusi gli studi, il giovane avrebbe voluto intraprendere la carriera militare, ma un improvviso dono proveniente dall’allora re Enrico III, per commemorare la vita e la morte di François, lo avrebbe infine condotto verso la Chiesa. Investiti del titolo di reggenti della diocesi di Luçon, i restanti du Plessis optarono per iniziare Armand alla carriera ecclesiastica. Accettato l’onere-onore, non prima di aver studiato nei dettagli il cattolicesimo e di aver ottenuto un via libera ad hoc da parte di Paolo V per via della giovane età, Armand fu intronizzato vescovo di Luçon nel 1607. Una carriera scelta da altri per lui, quella del clero, ma che lui, Armand, avrebbe fatto propria e dimostrato subitaneamente di amare con ardore. Ad esempio, poco dopo aver assunto la guida della diocesi di Luçon, Armand diventò il primo vescovo di Francia ad implementare le riforme istituzionali prescritte e delineate dal Consiglio di Trento. E fu precisamente qui, all’interno dell’influente Chiesa cattolica, che Armand fu introdotto alle arti sacre della guerra e della diplomazia segreta, venendone completamente stregato. Qui, all’ombra di campanili e sagrestie, avrebbe imparato ogni segreto utile a diventare l’uomo più potente di Francia dal frate cappuccino François Leclerc du Tremblay, anche noto come l’eminenza grigia, dal quale avrebbe preso anche il soprannome.

La scalata ai vertici del potere reale. Nominato dai chierici di Poitou quale loro rappresentante agli ultimi Stati generali del diciassettesimo secolo, quelli dell’anno domini 1614, quivi poté mostrare alla Francia che contava il proprio volto, le proprie idee e il proprio acume. Nel dopo-stati generali, non a caso, entrò a far parte della corte di Luigi XIII in qualità di grande elemosiniere. Una volta fatto ingresso alla corte del re, il giovane ma saggio vescovo entrò nelle grazie di Concino Concini, il capo del governo di Luigi XIII, aiutandolo nell’elaborazione di strategie attinenti alle relazioni internazionali del regno. Dalla gestione degli affari religiosi a quella degli affari esteri il passo fu relativamente breve: nel 1616 fu nominato Segretario di Stato. Ma l’incarico sarebbe stato mantenuto soltanto per poco tempo: una volta assassinato Concini, rimasto vittima di un intrigo di palazzo, Armand fu destituito. Il re, comunque, lo avrebbe richiamato rapidamente, affidandogli l’incarico di mediare tra lui e la regina, che, sconvolta dall’omicidio di Concini, aveva dato inizio ad una ribellione tra gli aristocratici. Il vescovo-stratega riuscì nell’ardua impresa di riportare la regina a più miti consigli, restaurando la pace in famiglia e nel regno con il trattato di Angouleme. A partire da quel momento, saggiate ufficialmente le sue abilità diplomatiche e la sua lealtà alla Corona, Luigi XIII lo avrebbe impiegato come proprio consigliere – un ruolo ricoperto fino alla morte.

Il vescovo-stratega. Il cardinale Richelieu avrebbe dato prova di essere più realista del re, o meglio di possedere ciò che soleva definire il senso per la raison d’Etat (ragion di Stato), poco dopo essere divenuto il consigliere di Luigi XIII. Aveva capito che per evitare che la Francia venisse soverchiata dall’accerchiante dinastia Asburgo, che all’epoca regnava sia sulla Spagna sia sull’Austria, la Corona parigina avrebbe dovuto scendere a compromessi con i propri nemici, utilizzando l’astuzia e l’imprevedibilità come armi. Fu così che, allo scoppio della crisi valtellinese, per evitare che il ramo spagnolo degli Asburgo prendesse il controllo dell’odierna Lombardia, il cardinale decise di supportare le armate dei Grigioni (svizzeri protestanti). Un cattolico, per di più appartenente al clero, che aveva cacciato dei cattolici con l’aiuto di protestanti: una prima assoluta di “ecumenismo strategico“, in un’epoca bagnata dal sangue delle guerre religiose, che lo avrebbe reso un nemico, quasi un eretico, agli occhi del Papa, ma che lo avrebbe reso grande in Francia. Politica estera a parte, il cardinale aiutò il re ad accelerare il processo di centralizzazione del potere, suggerendogli di ridurre l’influenza della nobiltà feudale nell’ottica di prevenire rivolte in tempi di crisi. Chiunque avrebbe potuto essere una potenziale quinta colonna al servizio altrui, soprattutto i piccoli nobili alla costante ed avida ricerca di maggiori ricchezze, perciò il cardinale persuase il re della necessità di privare i castelli delle loro fortificazioni, indebolirne le armate e controllarne le finanze. Rimanendo sul fronte interno, il cardinale, realizzando l’incredibile potere di quello strumento allo stato embrionale chiamato stampa, spinse il re a imporre dei controlli sulla pubblicazione dei contenuti – una censura ante litteram – onde evitare la diffusione di notizie esiziali per l’ordine costituito. Non meno duro sarebbe stato nei confronti della minoranza ugonotta, effettivamente supportata da Londra in chiave antifrancese, che, dopo averla sconfitta a La Rochelle, decise di privare dei diritti politici e di protezione. I protestanti avrebbero continuato ad essere tollerati, come stabilito dall’editto di Nantes del 1598, ma il lungimirante cardinale li aveva messi nella posizione di non nuocere alla sicurezza dello Stato. Divenuto ufficialmente duca di Richelieu nel 1629, a seguito delle innumerevoli vittorie conseguite in una varietà di fronti simultaneamente, il cardinale avrebbe trascorso gli anni successivi a combattere contro l’accerchiamento della Francia da parte della dinastia Asburgo, divenendo il più grande sostenitore di una Germania mantenuta divisa e frammentata in centinaia di staterelli in guerra tra loro. Quest’ultimo fu il motivo per cui, allo scoppio della guerra dei trent’anni, il cardinale persuase il re a parteciparvi: Parigi doveva impedire la materializzazione di una nuova potenza nel cuore d’Europa – Berlino –, che, stesa su una terra ricca di risorse naturali e forte di una mentalità improntata all’efficienza e di una cultura militare di tutto rispetto, avrebbe potuto egemonizzare l’intero continente. Sullo sfondo dello stato di guerra permanente fuori e dentro la Francia, il cardinale dovette affrontare una serie di minacce alla propria vita. Consapevole di essere inviso alla piccola nobiltà, nonché alla stessa famiglia del re e alle corti di tutto il continente, Richelieu creò un ristretto ed esclusivo sistema di spionaggio personale – non al servizio del re, ma al proprio – che, negli anni, si sarebbe rivelato fondamentale, sventando complotti, intrighi e tentativi di assassinio. Richelieu, diplomatico, stratega e capo di uno dei servizi di spionaggio più efficienti ed estesi di tutta Europa – rispondenti non ad uno Stato, quanto ad un solo uomo –, grazie alla propria rete di spie sarebbe riuscito a sopravvivere a diversi attentati contro la sua vita e, cosa non meno importante, a prevedere la trasformazione di propri seguaci in nemici, come l’insospettabile Henri Coiffier de Ruzé, un marchese, amico di famiglia, che il chierico avrebbe fatto giustiziare a seguito della scoperta di un complotto ordito con gli Asburgo di Spagna. Morì sul finire della guerra dei trent’anni, il 4 dicembre 1642, a soli 57 anni, a causa di una salute cagionevole mai fortificatasi. Morì circondato da invidie e inimicizie, perché dotato di un’intelligenza fuori dal comune, che gli permise di prevedere il futuro come un chiaroveggente, ma non prima di lasciare un ultimo dono al mondo: il cardinale Giulio Mazzarino. Quest’ultimo, iniziato dall’eminenza grigia alle arti della strategia e della diplomazia, avrebbe raccolto il legato del maestro e tentato di portarne avanti la lungimirante agenda per l’Europa basata sul mantenimento in stato di divisione delle terre germaniche, sul rafforzamento dello Stato centrale francese e sul doppio contenimento degli Asburgo di Spagna ed Austria.

Gli insegnamenti di Richelieu. Richelieu ha lasciato una mole di insegnamenti alla posterità, un bagaglio immane di lezioni in materia di statismo, diplomazia e geopolitica da cui sarà possibile attingere per sempre. Perché, oggi (e domani) come ieri, il vissuto dell’eminenza grigia (ci) rammenta che: Il nemico del mio nemico è mio amico – gli svizzeri, gli olandesi e gli svedesi protestanti contro gli Asburgo cattolici.

La religione, come ogni altra cosa nelle relazioni internazionali, è semplice politica – Stati cattolici possono combattersi tra loro, ed un protestante può aiutare l’uno a vincere l’altro. Accadde nell’Italia settentrionale, con il supporto francese alle forze svizzere in chiave antiaustriaca, ma anche negli attuali Paesi Bassi, con l’aiuto agli olandesi in chiave antispagnola, e con il regno di Svezia, alleato contro gli Asburgo. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio – avere un controspionaggio personale e parallelo che veglia sugli organi spionistici ufficiali può risultare salvavita, permettendo di stanare doppiogiochisti e sventare intrighi di palazzo altrimenti impossibili da scoprire. Prevenire è meglio che curare – privando feudatari e piccoli nobili dei loro eserciti, e sguarnendo le loro fortezze, lo stratega con il rosario voleva impedire che proliferassero quinte colonne potenzialmente letali nei territori di Francia. La stessa strategia sarebbe stata impiegata nei confronti degli ugonotti, una minoranza protestante permeabile alle infiltrazioni esterne, specialmente inglesi, e dunque da monitorare e spogliare di alcune concessioni. Possedere lungimiranza – cercando di evitare l’unificazione dei territori tedeschi sotto un’unica bandiera, il cardinale avrebbe voluto impossibilitare l’emergere di una superpotenza nel cuore d’Europa, di gran lunga più pericolosa di Austria, Inghilterra e Spagna, e la storia successiva gli avrebbe dato ragione. L’imprevedibilità è un’arma – il cardinale Richelieu seppe sorprendere i rivali di Francia ricorrendo all’impiego di mercenari, ufficialmente sul libropaga inglese, per operare sabotaggi nelle terre tedesche. Ricostruire dalle fondamenta può essere più conveniente di un restauro – diffidente nei confronti del sistema Francia basato sul duopolio di alta borghesia e nobiltà feudale, l’eminenza grigia persuase il re della necessità di limitare il raggio d’azione politico-militare dei più abbienti, finanche privandoli dei loro eserciti, e creò un nuovo sistema di riscossione dei tributi basato sulle figure degli intendenti in sostituzione del precedente centrato sugli ufficiali locali, notoriamente corrotti e inaffidabili. L’importanza di trasmettere i sogni – trovando nel futuro cardinale Mazzarino il proprio erede, da Richelieu iniziato alle arti dell’inganno, della diplomazia, della guerra e dello statismo, la visione di una grande Francia concepita dal cardinale-stratega sarebbe sopravvissuta e avrebbe prosperato negli anni a venire. I suoi contemporanei lo avrebbero odiato, attentando più volte alla sua vita, ma la storia avrebbe dato ragione ai suoi sforzi: la Francia, alleandosi tatticamente con le forze protestanti durante la guerra dei trent’anni, sarebbe uscita dal conflitto come una grande potenza in ascesa. La dinastia Asburgo, condotta all’astenia finanziaria perché mirabilmente trasformata da accerchiatrice ad accerchiata, nel dopoguerra sarebbe entrata in un lungo periodo di declino. Altrettanto determinante si sarebbe rivelata l’agenda di Richelieu per gli affari interni, con il processo di accentramento e riorganizzazione funzionale alla costruzione della macchina burocratica più avanzata d’Europa e con l’avanguardistica rete spionistica utile per i successori a scovare quinte colonne e agenti stranieri e a completare la foggiatura del futuro Stato. Per i motivi di cui sopra, il cardinale Richelieu è ritenuto da alcuni storici il padre degli stati-nazione europei. L’eredità dell’eminenza grigia, però, è molto più vasta e tangibile. A lui è debitore la scuola del realismo politico – essendo stato un teoreta professante del muscolarismo, della ragion di Stato e dell’amoralità in politica –, a lui si deve la presenza del francese nell’America settentrionale – vide del potenziale nelle missioni dell’esploratore Samuel de Champlain, supportandolo nella fondazione della città di Québec, perciò ivi si trova un fiume che porta il suo nome – ed è sempre a lui, o meglio alla sua idea di una Germania frammentata per il bene dell’Europa, che pensarono Roosevelt e Stalin nel secondo dopoguerra, avallando la bipartizione dello stato tedesco – inizialmente diviso in quattro parti.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it. Ha più di ottant'anni ma la grinta di un leone e, ancora una volta, l'anziano cardinale di Hong Kong, Zen Ze Kiun ha preso carta e penna per una lettera aperta al cardinale Robert Sarah e aprire un altro fronte. Minacciando di arrivare a Roma e incatenarsi davanti a Santa Marta per protesta. L'ennesima spina nel fianco per il Papa. «Dolore e indignazione invadono il mio cuore a sentire certe incredibili notizie: hanno proibito le messe private a San Pietro?» Zen fa riferimento al recente provvedimento emanato dalla Segreteria di Stato su ordine di Papa Francesco che, per rendere più ordinate le messe in basilica, ha permesso solo 4 celebrazioni giornaliere senza folla, per via del coronavirus, ma soprattutto ha vietato la prassi finora seguita da preti, missionari, vescovi, cardinali in transito a Roma di andare liberamente all'altare a celebrare una messa come è sempre stato per secoli e secoli. Del resto un luogo di culto nasce proprio per accogliere preghiere, celebrazioni, riti.

Zeh è a dir poco furioso: «Se non fosse per le restrizione imposte dal Covid io prenderei il primo volo per venire a Roma e mettermi in ginocchio davanti alla porta di Santa Marta finchè il Santo Padre faccia ritirare quell'editto». Zen ricorda che quando arrivava a Roma in passato di mattina preso entrava in baslica e celebrava la messa. «Qualche volta con le lacrime pregando per i nostri martiri viventi in Cina ora abbandonati e spinti nel seno della chiesa scismatica dalla Santa Sede, così si presentava quel documento del giugno 2020 (l'Accordo siglato con il governo di Pechino ndr) senza firme e senza la revisione della Congregazione per la Dottrina della Fede". Zen arriva alla conclusione che l'editto - come lo chiama lui - è segno di uno strapotere da parte della Segreteria di Stato. «Via le mani sacrileghe dalla casa comune di tutti i feeli del mondo. Si accontentino di giocare la diplomazia mondana con il padre della menzogna e facciano pure della Segreteria di Stato un covo di ladri ma lascino in pace il devoto popolo di Dio. Poi cita un passo del Vangelo di Giovanni. Due sole parole: "Era notte"».

Io, Parolin: il Vaticano secondo il numero due di papa Francesco. I passi in avanti con gli Usa e i contatti con Biden, le frenate della Cina e la nuova rottura sulle nomine dei vescovi. E poi l’incontro con Draghi e i suoi ministri sulle risorse alle scuole cattoliche. Gli scandali vaticani e i fondi tolti alla segreteria di Stato: "Noi non siamo sconfitti". Carlo Tecce su L'Espresso il 19 marzo 2021. Pietro Parolin nel 2013 è stato scelto da Bergoglio come segretario di Stato. Don Pietro Parolin era un viceparroco di Schio quando venne giù a Roma a studiare con addosso un marcato accento veneto. Orfano di padre, a dieci anni, per un incidente stradale. Entrò in seminario da ragazzino. La madre insegnante allevò il fratello e la sorella di otto mesi. Così era la provincia nel vicentino. «In valigia riposi aspettative più modeste. Oggi il mio è un servizio al Papa e alla Chiesa». Il suo destino è affidato a Jorge Mario Bergoglio. Se gli dice resta, resta. Se gli dice lascia, lascia. Il cardinale Pietro Parolin, il segretario di Stato, il primo ministro di Francesco, è la massima autorità diplomatica del Vaticano. Quasi da otto anni riceve i capi del mondo in una saletta alla Prima Loggia del palazzo apostolico. Quando il tempo sta per scadere osserva di sottecchi un orologio con pendolo da parete, di quegli esemplari antichi che vanno a molla e sferragliano in un modo che rende solenne le parole. Parolin era in un ristorante di Caracas con dei prelati venezuelani la sera del 13 marzo 2013 quando il cardinale Bergoglio si affacciò dal balcone di piazza San Pietro per presentarsi col nome di Francesco. Parolin era nunzio in Venezuela e pensò d’istinto, guardando il televisore nel trambusto di stoviglie, che Jorge l’avrebbe richiamato a Roma per un ufficio in Curia, poi rimase altri mesi in un Venezuela inquieto dopo la morte di Hugo Chavez e alla vigilia di una guerra civile. La seconda domenica di giugno, al solito, la nunziatura di Caracas aprì la chiesa per la messa. Cinque ragazzi con un sacco a pelo la occuparono. Erano contestatori di Nicolas Maduro, volevano discutere con Francesco. Il Papa aveva convocato a Roma tutti i diplomatici vaticani e Parolin fu costretto a posticipare il viaggio per trattare con i ragazzi. Ci fu uno scambio: io consegno una lettera a Francesco, voi lasciate la chiesa appena rientro. Parolin partì con un giorno di ritardo, sbarcato a Fiumicino si precipitò alla sala Clementina e si posizionò in fondo. Fu l’ultimo a salutare papa Bergoglio: e tu, chi sei? Non si ricorda: io sono Parolin. Mi avevano riferito che non saresti venuto. Meglio, dovrei parlarti. Ci vediamo nel pomeriggio nella mia stanza a Santa Marta. «La mia vita si è svolta all’insegna delle sorprese di Dio. Come per la richiesta del Santo Padre di essere il suo segretario di Stato». Con un motu proprio, lo scorso dicembre, Francesco ha sottratto alla segreteria di Stato la gestione dei fondi papali, inclusi gli immobili, e l’ha trasferita all’Apsa, la struttura che amministra il patrimonio vaticano. Altra conseguenza dello spericolato acquisto di un palazzo di Londra e di una caterva di milioni sperperati, scandali che hanno provocato indagini, rogatorie, perquisizioni, dimissioni più o meno spontanee. Come quelle di Angelo Becciu, già Sostituto agli Affari Generali, che ha perduto i galloni di prefetto, le prerogative cardinalizie e si prepara al processo: «Spero che il tribunale stabilisca la verità», ha ripetuto Parolin. Però la segreteria di Stato ne esce già monca. L’ordine di Francesco ha inciso senza lacerare. Lo si reputa coerente con le richieste dei cardinali nelle congregazioni tenutesi prima del conclave e con il disegno di Bergoglio per la segreteria di Stato dopo la stagione di Tarcisio Bertone. «Abbiamo vissuto la decisione del Papa con serenità e obbedienza, dispiaciuti soltanto che qualcuno - ha raccontato Parolin - ci abbia descritto come sconfitti. Non è vero. Siamo i primi a desiderare che tutto proceda con trasparenza e correttezza. La segreteria di Stato continuerà a essere il punto di riferimento delle nunziature apostoliche anche nella nuova situazione, per l’importante funzione che svolgono a beneficio delle Chiese locali, per la tutela della libertà religiosa e per la pace. Una funzione che il Papa sostiene e promuove». I finanziamenti per le nunziature, come garantito da Bergoglio, saranno predisposti dall’Apsa consultata la segreteria di Stato. La visione di Francesco non è mutata: la Chiesa è oltre la Curia. «Auri sacra fames», esecranda fame di oro. Anche Gesù aveva bisogno del denaro per i suoi discorsi itineranti, si fa notare in Vaticano, il problema della Chiesa è che sono mancati i controlli. Al clero vanno impedite le decisioni discrezionali. Perciò il Papa ha delegato la vigilanza proprio all’Istituto per le opere religiose, più noto con l’acronimo di Ior, l’organismo che ha innescato l’inchiesta sul palazzo di Londra. Quasi otto anni, quasi perché, dopo quel pomeriggio di giugno a Santa Marta, Parolin fu nominato il 31 agosto 2013 e si insediò, dopo un intervento chirurgico a Padova e con una messa concelebrata col Papa nella cappella di Santa Marta, il 18 novembre a 58 anni e 10 mesi, il più giovane dai tempi di Eugenio Pacelli, che fu papa Pio XII. Cosa si rimprovera dei quasi otto anni in segretaria di Stato? Nella stanza c’è un vivace e infingardo sole ancora invernale che abbaglia in combutta con la tappezzeria acquamarina. L’orologio con pendolo da parete fa più rumore di un attimo prima. «Mi interrogo spesso sul Venezuela e mi domando se si poteva fare di più». Il Venezuela non ha pace, la gente ha fame. Lì Parolin ha trascorso gli anni migliori, i più spensierati. Maduro arroccato, l’opposizione divisa. Il Vaticano ha mediato, invano. Non c’era una scelta precisa, e non ha scelto. La Cina l’ha scelta. Mike Pompeo, il segretario di Stato, l’emissario di Donald Trump, in campagna elettorale irruppe nel palazzo apostolico dopo che in una intervista intimò alla Santa Sede di non rinnovare l’accordo provvisorio con la Cina di Xi Jiping. Il Vaticano comprese che l’aggressione era un tentativo, bizzarro e disperato, di mobilitare il voto degli evangelici e dei conservatori cattolici contro Joe Biden. Pompeo ascoltò Parolin descrivere il posto del Vaticano nel pianeta: noi abbiamo altri mezzi e altri fini. Voi volete essere la prima potenza economica, noi dobbiamo essere la prima potenza morale. Il 22 ottobre 2020, con un comunicato disgiunto, l’ambasciata cinese a Roma e il Vaticano di papa Francesco hanno confermato la proroga biennale dell’accordo provvisorio. Il patto non riattiva le relazioni diplomatiche, interrotte col maoismo, tant’è che il Vaticano riconosce Taiwan, ma è di valore pastorale per superare, per esempio, la dicotomia fra la Chiesa cattolica o sotterranea perché clandestina e la Chiesa statale, detta patriottica. In passato i vescovi cinesi erano ordinati senza il consenso papale. Un atto da scomunica. Con il documento, sottoscritto per la prima volta tre anni fa, si è attribuita al Papa una sorta di accettazione finale. Non una cessione di sovranità di Pechino, ma una timida condivisione sulle questioni di fede. Seppur il testo sia segreto, pare che in ottobre il regime comunista abbia promesso il rispetto dei luoghi di culto dei cattolici, spesso devastati nelle zone più rurali. In Cina sono stimati 12 milioni di cattolici e una mole, inestimabile, di proprietà che furono requisite con Mao. Ogni spiraglio con la Cina è una vittoria per il gesuita Bergoglio, da sempre disponibile a incontrare Xi Jiping, e Parolin lo sa bene. I progressi cinesi, però, a volte sono lenti, altre si azzerano. Nella cattedrale di San Michele a Tsingtao, nella provincia di Shandong, il 23 novembre monsignor Thomas Chen Tianhao è stato consacrato vescovo davanti ai vertici dell’Associazione patriottica con la vecchia formula: il mandato conferito dal Consiglio nazionale senza menzionare né il Papa di Roma né la Santa Sede. Più di una provocazione: una sottile ritorsione dopo la condanna papale della persecuzione cinese del popolo musulmano degli uiguri. Però il Vaticano ha vidimato, anche come segno di distensione, l’investitura di Chen Tianhao e l’ha considerata in comunione con Francesco, ma il 22 dicembre si è celebrata un’identica cerimonia per Liu Genzhu nella piazza della contea di Hongdong. E la Santa Sede fin qui ha taciuto. Il peggio sta per arrivare. Un regolamento amministrativo, che sarà in vigore dal primo maggio, ridefinisce le nomine in Cina per le confessioni di qualsiasi religione e per i cattolici non si fa alcun cenno al ruolo del pontefice. La fronda contro papa Francesco si ciba anche dei complessi risvolti della vicenda cinese, dunque si evitano polemiche mediatiche, ma diverse clausole dell’accordo non sono applicate da Pechino. La Conferenza episcopale americana, fra le più agguerrite con Francesco, rimpiange Donald Trump e l’ha dimostrato nel giorno dell’insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden, il secondo presidente cattolico dopo John Fitzgerald Kennedy. Mentre il Papa spediva il suo messaggio di congratulazioni, monsignor José Horacio Gomez, il capo dei vescovi americani, denunciava le pericolose ambiguità di Biden sui temi etici. In Vaticano, invece, hanno già avviato un dialogo informale con la Casa Bianca e il presidente ha assicurato che alla prima occasione in Europa farà tappa da Francesco (in giugno ci sarà il G7 in Cornovaglia). La Cina è sempre una rivale degli Stati Uniti, ma il Vaticano potrà agire con minori pressioni. «Con Pechino sono stati compiuti piccoli passi in avanti, anche se la pandemia - ha ammesso Parolin - ha rallentato un po’ i contatti. Era giusto iniziare e proseguire questo cammino». La ricorrenza dei Patti lateranensi con l’Italia cade l’11 febbraio. Quest’anno a Roma c’erano due governi quel giorno. Il premier Giuseppe Conte era in carica per il disbrigo degli affari correnti. Il premier Mario Draghi stava compilando la lista dei ministri. Il Vaticano ha atteso il nuovo esecutivo per cortesia e curiosità. Anche se Draghi ha rapporti diretti con papa Francesco e una rodata consuetudine con diversi porporati, Parolin l’ha conosciuto soltanto nella cerimonia posticipata del due marzo a palazzo Borromeo, l’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Il protocollo imponeva la presenza del ministro degli Esteri e dunque il premier era accompagnato da Luigi Di Maio. Come forma di riguardo per i vescovi, però, Draghi ha portato con sé altri ministri - Roberto Speranza (Salute), Elena Bonetti (Famiglia) e Patrizio Bianchi (Istruzione) - per riprendere l’incendiario argomento delle scuole cattoliche impoverite dalla pandemia. La Conferenza episcopale italiana aveva protestato con inedita veemenza contro il governo Conte per ottenere più risorse degli oltre 300 milioni di euro stanziati per i 12.457 istituti paritari, di cui il 64 per cento sono cattolici con 570.000 alunni, in gran parte bambini. I genitori hanno smesso di pagare le rette poiché non esiste la didattica a distanza per la materna e i vescovi temono il collasso del sistema cattolico. In un decennio, e la pandemia non ha prodotto ancora i suoi danni, 1.416 scuole hanno chiuso. Draghi ha frequentato il liceo dei gesuiti di Roma. Non è un neofita. Il governo è disposto a reperire più denaro per gli istituti cattolici. Vale la libertà delle iniziative private, prescrive l’articolo 33 della Costituzione, ma «senza oneri per lo Stato». Il Vaticano suggerisce la distinzione fra le scuole paritarie che offrono un servizio pubblico (non profit) come le cattoliche e quelle che mirano pure al fatturato come le straniere. La ministra Bonetti, da sempre attenta alle esigenze della Chiesa, ha convinto l’uditorio vaticano. Il ministro Bianchi, da buon prodiano, l’ha stupito, si è mostrato generoso sottolineando che non c’è «differenza fra istituti statali e cattolici nel concetto di servizio pubblico». Parolin ha apprezzato il bilaterale con Draghi e i suoi ministri: «Mi ha colpito la sensibilità nei confronti della famiglia e dell’educazione, compresa la scuola cattolica». Palazzo Chigi ha fretta anche di organizzare il Giubileo del 2025, sono pronti già con comitati, progetti e tavoli. Gli appuntamenti storici a Bergoglio non piacciono molto, preferisce i momenti storici come quelli con l’Ayatollah Al Sistani in Iraq. Monsignor Rino Fisichella, esperto di eventi, ha confessato che l’obiettivo del 2025 sarà completare le opere incompiute del 2000. Parolin ha rammentato che nel 2033 comincia il terzo millennio dalla resurrezione di Gesù. Allora don Pietro sarà segretario di Stato, parroco alla Santissima Trinità di Schio o un Papa italiano dopo mezzo secolo? Le lancette dell’orologio con pendolo a parete si sovrappongono. Un frastuono. È il segnale che congeda l’ospite.

Filippo Di Giacomo per “Il Venerdì di Repubblica” l'8 marzo 2021. Le carte inedite del cardinale Carlo Maria Martini, l'indimenticabile arcivescovo di Milano scomparso nel 2012, presto saranno pubblicate. Usando fogli e agende scadute, il porporato prendeva nota e appunti di tutto ciò che faceva, ed era conosciuta l' abitudine di "revisionare" con accuratezza i suoi scritti e di bruciare quelli che non passavano il riesame. Ma questo rinnovato interesse per il pensiero di Carlo Maria Martini servirà a evitare che le sue intuizioni sulla Chiesa e la modernità cadano nell' oblìo? In un' intervista fatta dopo la sua morte, il cardinale Camillo Ruini negò di essere stato suo "antagonista", come si diceva: «Sarebbe un immiserirlo. È stata una grande personalità, un leader mondiale, con molti registri: spirituale, biblico, dialogico, pratico; Martini era anche uomo che sapeva governare in concreto. Innamorato di Cristo, del Vangelo e della Chiesa, oltre che dell' umanità». Tuttavia, persino a Milano dopo i successori Tettamanzi e (in parte) Scola, non sembra che al «leader mondiale con molti registri» vengano ricondotte le grandi domande culturali e pastorali sia della Chiesa ambrosiana sia di quella romana. A parte qualche citazione interpretativa sulla Parola di Dio, la comprensione della modernità e il rinnovamento da lui postulato per la Chiesa Cattolica non hanno interessato alcuno. Neanche papa Francesco verso il quale, nel conclave del 2005, Martini fece confluire i voti (una sessantina) che i cardinali elettori gli stavano attribuendo. Forse è riuscito a farsi ricordare, ma solo per la sua vita pubblica, il cardinale Ruini. Ha appena compiuto novant' anni: qualcuno si faccia insegnare da lui come si fa.

Camillo Ruini compie 90 anni: «Da sacerdote mi innamorai. Con sofferenza, ho resistito».  Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 19/2/2021. I 90 anni del cardinale ed ex presidente dei vescovi: «La Littizzetto? Mi divertiva. Draghi è una svolta positiva». Per i novant’anni del cardinale Camillo Ruini, «Rubbettino» pubblica a sua firma «Conversazioni sulla fede e sull’Italia», la raccolta delle sue interviste più significative. Nove di queste sono uscite in questi anni sul Corriere della Sera. Si muove con il girello, le gambe sono incerte, ma la testa sempre quella è. Camillo Ruini (Sassuolo, 19 febbraio 1931) compie novant’anni.

Cardinal Ruini, qual è il suo primo ricordo privato?

«Un prato, una palla, un filo spinato su cui la palla andò a finire; a Piandelagotti, sull’Appennino modenese, dove ero in villeggiatura con mia madre Iolanda. Avevo due anni e mezzo».

Qual è invece il suo primo ricordo pubblico?

«La guerra d’Etiopia. Dichiarata nel 1935, quando avevo quattro anni e mezzo. Abissinia, Negus... nomi che restano impressi».

Come ricorda la figura di Mussolini?

«Mussolini e il fascismo non mi piacevano; specialmente da quando l’Italia entrò in guerra. Dicevo ai miei compagni di scuola che l’avremmo perduta, e per questo un dirigente fascista di Sassuolo si lamentò con mio padre Francesco, che era favorevole al regime». 

Suo padre la rimproverò?

«Mi raccomandò di essere più prudente, ma non mi rimproverò. Aveva anche lui i suoi dubbi, aiutò gli ebrei che conosceva a mettersi in salvo dalle leggi razziali».

Come viveste, lei e la sua famiglia, durante la guerra civile?

«È stato il periodo peggiore. Da entrambe le parti si sono compiuti atti di inaudita crudeltà e ferocia. Per grazia di Dio, la mia famiglia è stata risparmiata, probabilmente perché mio padre era un medico molto stimato e generoso, che curava gratuitamente parecchi poveri. In quel periodo si è prodigato per curare i feriti delle due fazioni».

Lei si è mai innamorato o fidanzato?

«Fidanzato mai. Sono stato attratto fortemente da alcune donne, ma ho sempre cercato di resistere e, pur soffrendo, ci sono riuscito, con l’aiuto decisivo del Signore».

Attratto prima o dopo essere diventato sacerdote?

«Anche dopo. L’attrazione per le donne è inestirpabile nell’uomo e di per sé non è affatto un peccato».

Quando e perché decise di farsi prete?

«Ho deciso nell’ultimo anno di liceo, in modo molto rapido, pensando che mettermi al servizio di Dio fosse la cosa migliore».

È vero che i suoi genitori erano contrari?

«Erano profondamente contrari. Per loro fu un grande dolore. Ma non posero veti, anche se avrebbero potuto, dato che ero minorenne. Poi, vedendomi felice, furono felici anche loro».

Come ricorda Pio XII?

«Pio dodicesimo è stato il Papa della mia giovinezza e del mio sacerdozio. L’ho ammirato moltissimo, e l’ho difeso con tutte le mie forze dagli attacchi della sinistra politica e anche dai malumori interni alla Chiesa, che ho scoperto con sorpresa quando sono entrato in seminario a Roma».

È vero però che lei è stato un giovane prete «di sinistra»?

«Non direi proprio. È vero che alcuni lo pensavano, perché ero aperto alle nuove idee e al pensiero critico. In effetti è diffusa la convinzione che questi atteggiamenti possano ritrovarsi solo a sinistra».

Come visse il Concilio?

«Con gioia ed entusiasmo. E ho lavorato per farlo conoscere, invitando a Reggio Emilia alcuni protagonisti dei dibattiti conciliari».

L’esito del Concilio è stato tradito?

«No. Nel complesso il suo esito non è stato tradito, e viene progressivamente assimilato; anche se molto lavoro rimane da compiere. Tradiscono invece il Concilio sia i tradizionalisti, sia coloro per i quali il Concilio rappresenterebbe una novità radicale rispetto alla precedente tradizione della Chiesa».

Come ricorda il primo incontro con Giovanni Paolo II?

«Era l’autunno del 1984. L’invito a cena del Papa mi giunse del tutto inaspettato. Giovanni Paolo II mi rivolse tante domande; risposi con una franchezza che lui apprezzò molto. Da allora i nostri rapporti sono diventati sempre più intensi».

Come lo ricorda come persona?

«Misericordioso: perdonava tutti, anche quelli che gli facevano cattiverie. Grande senso dell’umorismo. Intelligenza sbalorditiva».

Ad esempio?

«In qualsiasi Paese andassimo, parlava la lingua: francese, spagnolo, portoghese, inglese, slovacco... Con Ratzinger parlava in tedesco. In Ucraina parlò fluentemente ucraino. Finalmente in Ungheria scoprimmo che pure lui non parlava il magiaro. Leggeva due libri contemporaneamente».

Come si fa a leggere due libri contemporaneamente?

«Leggeva quello difficile e si faceva leggere ad alta voce quello più facile, magari un classico della letteratura».

Di sinistra era considerato il cardinal Martini.

«Lo era, anche psicologicamente. L’ho sempre stimato molto: grande intellettuale, con grandi capacità di governo. Aveva un rapporto dialettico con Giovanni Paolo II, che però l’aveva voluto a Milano».

Lei è stato il presidente dei vescovi italiani per sedici anni. Che bilancio fa? C’è qualcosa che non rifarebbe?

«Il bilancio non spetta a me. Posso dire che ricordo quegli anni con grande piacere e gratitudine al Signore per i risultati ottenuti. Non cambierei la direzione di marcia che del resto, prima che da me, veniva dal Papa. In alcune occasioni temo di aver avuto la mano troppo pesante con chi si opponeva».

In quali occasioni?

«Quando vedevo che un nostro collaboratore prendeva decisamente una direzione diversa, lo sostituivo».

Qualcuno la rimprovera di aver sostenuto troppo Berlusconi. Cosa risponde?

«Non ho sostenuto Berlusconi o qualche altro politico come tale. Ho cercato di realizzare alcune cose; e in questo mi sono trovato non di rado in sintonia con Berlusconi».

Come sono oggi i rapporti con Prodi? Lei celebrò le sue nozze, ma ci fu la rottura sul referendum sulla fecondazione assistita: «Sono un cattolico adulto...» disse l’allora premier.

«Oggi i nostri rapporti sono scarsi ma buoni. Da giovane sacerdote a Reggio Emilia sono stato molto legato a lui e alla sua famiglia di origine. Le nostre strade si sono diversificate molto prima del referendum sulla procreazione assistita, quando la crisi della Dc diventò irreversibile e Romano si collocò a sinistra, diventando rapidamente il leader di quello schieramento. Che sosteneva posizioni etiche e antropologiche che non potevo condividere».

È vero che Cicchitto una volta le disse che avrebbe dovuto fare il segretario di Forza Italia?

«Cicchitto me l’ha detto non una ma parecchie volte (Ruini sorride). Pur avendo su alcuni temi idee assai diverse, siamo amici da anni e ne ho molta stima: lui più di me capisce di politica».

Quando Luciana Littizzetto la chiamava Eminenz, le dava fastidio o la divertiva?

«Decisamente mi divertiva. Irritava invece varie persone a me affezionate».

In morte di Welby non poteva comportarsi diversamente? Celebrare il funerale religioso?

«In coscienza non potevo agire diversamente. Welby ha deciso di porre fine alla sua vita con piena lucidità e consapevolezza. Mi rendevo conto che negargli il funerale religioso mi avrebbe attirato forti critiche, ma questo non mi ha mai spaventato. E soprattutto il funerale religioso è una cosa assai diversa dal giudizio di Dio. Per la salvezza eterna di Welby ho pregato molto».

Quando vide Wojtyla l’ultima volta?

«Il mattino prima che morisse. Non era più al Gemelli, era tornato in Vaticano. Chiesi la sua benedizione. Tracciò a fatica un segno di croce. Ho pregato un poco, poi sono uscito perché stava troppo male e non volevo affaticarlo ulteriormente».

Il Conclave cui lei partecipò fece la scelta giusta?

«È stato un conclave permeato dalla gioia e dalla gratitudine a Dio per il pontificato di Giovanni Paolo II e per l’apoteosi finale alla sua morte. L’elezione del cardinale Ratzinger è avvenuta rapidamente e con poche opposizioni. Riconoscevamo in lui il più qualificato collaboratore e continuatore del Pontefice defunto. Anche oggi ritengo che sia stata la scelta giusta».

Cosa provò quando Ratzinger si dimise?

«Ho provato totale sorpresa. Sconcerto. E dolore. Poi ho pensato che pochi giorni dopo sarebbe stato eletto il nuovo Papa, e così il trauma sarebbe stato superato».

Oggi lo vede ancora?

«Lo vedo un paio di volte all’anno, e il nostro legame affettivo è sempre più forte».

Che cosa pensa davvero lei di papa Francesco?

«Forse non ho con lui quella spontanea sintonia che avevo con Giovanni Paolo II e anche con Benedetto XVI. Ma di lui penso molto bene. Ammiro la sua dedizione alla Chiesa, ai poveri, alla fraternità tra tutti gli uomini e i popoli. In una parola, in Francesco riconosco il mio Papa, senza riserve».

La Chiesa italiana oggi è in declino? La sua autorevolezza, la sua influenza sulla società sono in declino?

«Purtroppo un certo declino è innegabile. Le cause sono molte. La principale è la forza della secolarizzazione, anzi della scristianizzazione che attraversa le società occidentali e si allarga anche oltre; ad esempio in America Latina. Non dobbiamo però rassegnarci, tanto meno disperare. Occorre insistere nell’evangelizzazione e prendere posizioni chiare, coraggiose e realistiche sui problemi che interessano alla gente. Soprattutto, dobbiamo aver fiducia nel Signore che non abbandona il suo popolo».

Ogni tanto qualcuno progetta un partito cattolico. C’è spazio oggi?

«Personalmente ritengo che lo spazio non ci sia, o sia tanto piccolo che occuparlo sarebbe ben poco significativo o persino controproducente».

Un anno e mezzo fa lei fu molto criticato quando disse che era giusto dialogare con Salvini, e che lui doveva maturare. È quello che è accaduto?

«Salvini nelle circostanze presenti ha agito con saggezza e determinazione, senza dare spazio alle molte provocazioni di cui è stato oggetto. Oggi è una risorsa importante, non solo per il suo partito».

Conosce Draghi? Come giudica la svolta del suo governo?

«Ho parlato con Draghi, se ben ricordo, una volta sola, parecchi anni fa. Ho di lui grande stima. Penso che la svolta del suo governo sia stata molto positiva per l’Italia e per il suo futuro».

Lei si è espresso contro il ritorno al proporzionale. Perché?

«Perché renderebbe l’Italia ancor meno governabile di quello che già non sia».

Alla fine non ci saranno preti sposati, tanto meno donne sacerdote. Ma come frenare allora il calo delle vocazioni?

«Il calo delle vocazioni è un fatto gravissimo, che può avere effetti devastanti sul radicamento della fede nella popolazione. Però è un’illusione pensare di porvi rimedio abolendo la regola del celibato, o aprendo alle donne il sacerdozio: nelle Chiese protestanti ciò è praticato da molto tempo, e la situazione è peggiore della nostra. La via perché nascano vocazioni passa attraverso la preghiera e la cura pastorale dei giovani e delle famiglie, perché considerino la chiamata di un figlio al sacerdozio non una disgrazia ma un dono di Dio».

La pedofilia non ha fatto molto male alla Chiesa?

«La pedofilia ha danneggiato terribilmente la Chiesa. Sarebbe sbagliato però collegare la pedofilia al celibato. La pedofilia è diffusa soprattutto all’interno delle famiglie e tra gli uomini sposati».

Pure in Vaticano gli scandali, anche finanziari, non sono finiti. Come mai?

«La Santa Sede sta cercando di farli finire. Ma una vittoria definitiva sul peccato, e in particolare sul grande male della corruzione, non è realizzabile in questo mondo, come ci ha detto chiaramente Gesù stesso».

Lei è stato anche presidente della Commissione di inchiesta su Medjugorje. Che idea si è fatto? È davvero la Madonna che parla?

«L’idea che ci siamo fatti è che all’inizio fossero autentiche apparizioni mariane. Poi potrebbero essere entrate in gioco dinamiche psicologiche, note agli studiosi. Comunque da Medjugorje continua a sgorgare un torrente di bene».

Si è mai imbattuto in un miracolo o comunque in una manifestazione soprannaturale, che la ragione non riusciva a spiegare?

«Mi è accaduto più volte. In questi giorni ho letto le relazioni dei due miracoli in base ai quali Giovanni Paolo II è stato proclamato beato e poi santo. Entrambi, e specialmente il secondo, sarebbero incredibili se non fossero documentati scientificamente al più alto livello. Così proprio il progresso delle conoscenze mediche non fa svanire la nostra conoscenza del soprannaturale; anzi, la consolida».

Qual è il secondo miracolo di Wojtyla?

«A una donna del Costarica, Florybeth Mora Díaz, si ruppe un aneurisma cerebrale. Aveva il cervello devastato dall’emorragia. La notte stessa dopo la beatificazione di Giovanni Paolo II la donna sentì una voce che le diceva: “Alzati”. Si alzò, e stava in piedi. I medici non ci credevano, pensavano di aver scambiato i referti con quelli di un’altra paziente. Dovettero constatare che era avvenuto qualcosa di inspiegabile, il cervello non era più devastato. Ora quella donna sta benissimo».

Lei ha paura del Covid? E della morte?

«Del Covid non ho avuto troppa paura, e sono già stato vaccinato...».

Dove?

«A casa mia, la settimana scorsa, da una dottoressa mandata dal Vaticano. Della morte ho certamente paura, e ancor più del giudizio di Dio. Mi affido alla sua misericordia. Prego. E cerco di essere un po’ più buono».

Come finirà la Storia? Gesù tornerà, e troverà ancora la fede sulla Terra? 

«La fede cristiana pone alla fine della Storia il ritorno di Cristo, la resurrezione dei morti e il giudizio universale. Riguardo al modo in cui tutto questo accadrà, dobbiamo essere molto sobri: potremo conoscerlo solo allora, quando ne faremo esperienza. Gesù ha lasciato aperta la domanda se al suo ritorno troverà ancora fede sulla Terra; tanto meno possiamo pretendere di dare noi la risposta. Possiamo e dobbiamo pregare e operare affinché la luce della fede non si spenga in noi e nei nostri fratelli».

Come immagina l’Aldilà? Non ha mai avuto dubbi sulla resurrezione dei corpi?

«Non possiamo immaginare l’Aldilà, perché non ne abbiamo esperienza e più radicalmente perché l’Aldilà è Dio stesso, a cui speriamo di essere uniti per sempre. Per la fede, la resurrezione dei corpi è qualcosa di assolutamente reale, ma non di “fisico”. Non è un ritorno alla vita di questo mondo. Su questa, come su altre verità della fede, ho sempre avuto delle tentazioni, dalle quali il Signore in questi ultimi mesi spero che mi stia liberando. Tentazioni, non dubbi».

Che differenza c’è?

«Il dubbio implica la sospensione dell’assenso di fede; e da questa il Signore mi ha preservato».

«Diceva Cardinal Martini, ogni uomo è un’infinita possibilità: anche i criminali». Il Dubbio il 17 Febbraio 2021. Pubblichiamo un estratto del libro “Un’altra storia inizia qui” che la nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha scritto insieme ad Adolfo Ceretti. E così il percorso imprevedibile dei pensieri coraggiosi e lungimiranti di Carlo Maria Martini – descritti dall’amico Adolfo Ceretti in questo volume in modo raffinatissimo – ha raggiunto anche me. Quel pensiero profondo e innovativo sulla giustizia, sul male, sulla colpa, sulla pena, sul carcere, sulla riconciliazione mi ha raggiunta ora, anche se, inevitabilmente, mi ha lambita sin dagli anni della sua presenza a Milano: quelli sono anche gli anni dei miei studi giuridici e dei miei primi passi nella carriera accademica nel capoluogo lombardo, ma in quella fase i miei interessi erano rivolti altrove, professionalmente concentrati su altri rami del diritto. Non è sufficiente essere esposti a riflessioni pro fonde per esserne perturbati; occorre che il terreno sia preparato perché una parola, un’idea, un pensiero, pur sublimi, si radi chino e si accendano in chi ascolta. E per comprendere una riflessione sulla realtà dei delitti e delle pene “bisogna aver visto”, come osservava Piero Calamandrei in un celebre intervento sulla situazione del carcere pubblicato sulla rivista Il Ponte nel 1949 (CALAMANDREI, 1949). Anche per Carlo Maria Martini è iniziato così, dall’aver visto. Anzi: dall’aver visitato. Noto studioso e biblista, uomo di pensiero e di riflessione, Martini inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore, per il risuonare in lui Vangelo secondo Matteo che tante volte ha ripetuto nei suoi scritti e nei suoi interventi: «Ero in carcere e mi avete visitato». «Venendo a Milano, ho voluto iniziare la visita pastorale alla città e alla Diocesi cominciando proprio dal carcere di San Vittore, quale segno emblematico delle contraddizioni e delle sofferenze della società. Mi urgevano e mi urgono dentro le parole di Gesù: “Ero in carcere e mi avete visitato» (cfr. Matteo 25, 43). L’azione del visitare nel pensiero di Carlo Maria Martini ha una valenza umana e religiosa profondissima: lungi dalla formalità dell’atto di cortesia che talvolta il linguaggio comune evoca, descrive un rapporto coin volgente, come quello biblico di Dio che visita il suo popolo. «Il termine “visitare” va compreso naturalmente nel suo profondo e ricco significato biblico: Dio “visita” il suo popolo perché lo vuole incontrare, vuole stare con lui e condividerne la vita, vuole provvedere ai suoi bisogni e soccorrerlo nell’angoscia, vuole liberarlo dalla prigionia». Similmente: «Visitare i carcerati vuol dire prendersi cura di loro, recarsi nella casa dei prigio nieri, intrattenersi con loro per amicizia, offrire ad essi un possibile servizio, liberarli». È singolare notare che il verbo utilizzato dalla versione greca di Mt 25,36 e Mt 25,43, in corrispondenza del verbo latino visitare, è episkeptomai, verbo che, nella sua gamma semantica, include il “vedere con attenzione”. Da questa parola deriva il termine con cui ancora oggi si indica il munus episcopale del vescovo racchiude in sé, come suggerisce il verbo greco, le azioni di andare a vedere, visitare, ma anche aiutare i più deboli provvedendo ai loro bisogni. È di grande suggestione pensare che l’arcivescovo di Milano abbia iniziato la visita pastorale della città immedesimandosi fino in fondo con quel compito che sin dal nome che lo designa evoca, quasi letteralmente, l’atto di visitare piegandosi su chi soffre di più. È l’esperienza del carcere, ripetutamente e regolarmente visitato, la sorgente del suo pensiero così carico di idee nuove tanto nella sua dimensione teologica e biblica quanto in quella civile e sociale. È dal vedere che sorge l’idea. Idea viene dal greco idéin, che pure significa vedere. Quando ci si lascia coinvolgere dall’esperienza di ciò “che abbiamo udito, veduto, contemplato e toccato”, scrive Jean Vanier, sorgono le grandi domande. Sono soprattutto le “esperienze paradossali” di un “mondo sottosopra” a destare le domande e “le idee vengono quando ci si mette in ricerca, si fanno le domande” (VANIER, 2015, pp. 9- 24). Di qui la potenza creativa e innovativa del conoscere visitando. S i parva licet, anche noi giudici costituzionali, di recente, abbiamo visto, grazie a una encomiabile e inedita iniziativa della Corte costituzionale che ha preso avvio con una visita al carcere di Rebibbia il 4 ottobre 2018. Il viaggio della Corte costituzionale nelle carceri italiane (CORTE COSTITUZIONALE, 2018) ci ha portati in numerosi istituti di detenzione, dove abbiamo incontrato le persone ristrette, la Polizia penitenziaria, i direttori, gli educatori, i volontari. Abbiamo osservato i luoghi, abbiamo condiviso tempo ed esperienze, abbiamo dialogato e molto ascoltato. A chi scrive, il 15 ottobre 2018, è capita to di oltrepassare per la prima volta quella tante volte fu varcata dal cardinale Martini negli anni del suo episcopato. E così, avendo visto, è ora possibile rileggere con una consapevolezza accresciuta le parole e i pensieri di Carlo Maria Martini che, precorrendo i tempi con lungimiranza profetica, anticipava riflessioni che oggi incominciano a trovare accoglienza – benché ancora timida e incerta – nel dibattito pubblico sul carcere, sul senso della pena, sulle esigenze di sicurezza della società. Ciò che si scopre visitando il carcere è la consapevolezza che dietro le mura che recludono vive un mondo paradossale, un mondo sottosopra, per riprendere le espressioni di Jean Vanier; dove, per fermare la violenza, si deve compiere un atto di forza; dove, per tutelare i diritti, si debbono limitare i diritti; dove, per assicurare la libertà, si deve restringere la libertà; dove, per proteggere i deboli e gli indifesi, si devono rendere deboli e indifesi gli aggressori e i violenti. Il carcere è una realtà drammatica che costringe a fare verità [/ CAP3- 1] è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata. In seguito al primo incontro della Corte a San Vittore, è nato un rapporto con tante persone che abitano e animano quell’istituzione. Un gruppo di detenuti ha dato vita a un’iniziativa che è stata chiamata Costituzione viva: in questo ambito, dete nuti provenienti da ogni dove si trovano a riflettere con regolarità sui valori fondativi della nostra convivenza civile, guidati da alcuni docenti. (…). Il dramma del carcere non tollera formalità e finzioni, non sopporta discorsi di circostanza o richiami superficiali a buoni sentimenti. Visitare un carcere è una esperienza esigente: chiede una partecipazione integrale, di tutta la persona, con la sua professionalità e la sua umanità. Il carcere è un luogo dove accade che a ogni visita le domande che si destano sono assai più numerose e complesse delle risposte che si possono offrire. Significativo è che nel docufilm che racconta il viaggio in Italia della Corte costituzionale uno dei giudici, a un certo punto della sua visita, afferma: «Sento la drammaticità delle vostre domande e l’inevitabile inadeguatezza delle mie risposte». È dal senso di inadeguatezza rispetto ai problemi visti e dal lasciarsi inquietare dall’impatto con un frammento di realtà sconosciuta, contraddittoria e spiazzante che nascono nuovi interrogativi e di lì, for se, nuove idee: «Dopo gli incontri con i detenuti o in occasione degli scambi epistolari con loro, emerge ogni volta la domanda: è umano ciò che stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve davvero alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere?» (MARTINI, 2003, pp. 10 e 80). La genesi dei “pensieri alti” di Martini – per attingere ancora una volta ad alcune felici espressioni di Adolfo Ceretti – si radica suo pensiero. Perciò, tra i moltissimi insegnamenti innovativi del cardinale, che hanno gene rato molti cambiamenti in Italia e altrove e che molto ancora potrebbero generare di fronte alla bruciante “domanda di giustizia” (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003) del nostro tempo, vorrei anzitutto insistere sul metodo che traspare dagli scritti che abbiamo la fortuna di poter leggere e meditare. I contributi di Carlo Maria Martini in materia di giustizia penale, oggi meritevolmente raccolti nel volume Non è giustizia (MARTINI, 2003), sono ricchi e numerosi e si contraddistinguono per la complessità della sua riflessione: mai esclusivamente giuridica, anche se mai priva di precisi riferimenti all’ordinamento vigente; mai meramente pragmatica, anche se contraddistinta da una conoscenza di prima mano di tante situazioni personali e istituzionali; mai esclusivamente teologica, anche se profondamente intrisa e pervasa dalla “Parola”, come Martini ama va ripetere. In ogni caso, dal punto di vista metodologico, il suo apporto al problema della giustizia non si esaurisce mai in una dimensione puramente intellettuale o speculativa. Del resto, il problema non può esse re affrontato in chiave teorico- speculativa: Martini lo afferma chiaramente nel suo dialogo con Gustavo Zagrebelsky, nell’edizione conclusiva della Cattedra dei non credenti del 29 maggio 2002, pubblicata in un prezioso volumetto dal titolo La domanda di giustizia. Invero è proprio Gustavo Zagrebelsky ad aprire le sue riflessioni con la constatazione che “giustizia” è un concetto inafferrabile, ineffabile, inattingibile sul piano concettuale (MARTINI ZAGREBELSKY, 2003, p. 4), anche se continuano a sovrabbondare gli studi che si testimonianza del bruciante bisogno e della “fame e sete di giustizia” che attraversano tutte le vite umane, personali e collettive (MARTINI ZAGREBELSKY, 2003, p. 12). Ogni tentativo di accostarsi al tema sul piano meramente speculativo è infecondo e destinato a fallire, perché la giustizia non è tanto un’idea che si colloca fuori di noi, ma “un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva” (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003, p. 16). Questa osservazione metodologica è la prima a essere ripresa e rilanciata dal cardinal Martini nella sua replica in quella medesima occasione (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003, p. 52), osservando che il senso della giustizia nasce paradossalmente da un’ingiustizia subita da noi o da chi ci è caro e che consideriamo parte di noi. Ed è lì, nell’ingiustizia subita, che mette le sue radici la regola aurea, di matrice biblica (Mt 7,12), del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, (…) Il primo punto fermo del pensiero di Martini porta innanzitutto in primo piano una visione realistica della persona umana, una visione capace di guardare senza infingimenti al male che nasce dentro il cuore dell’uomo (MARTINI, 2003, p. 128), senza mai perdere la fiducia e la speranza nella possibilità di un cambiamento. Martini non smette di ribadire che l’uomo, ogni uomo, è peccatore e che “l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (Gen 8,21); ma con altrettanta insistenza non smette neppure di ripetere che ogni persona è anche sempre recuperabile. Per questo, egli afferma, “Dio giudica il colpevole ma non lo fissa nella colpa identificandolo in essa” (MARTINI, 2003, p. 45). Dalla sapienza biblica, oltre che dalla sua conoscenza diretta e personale di tanti detenuti, egli trae la convinzione che “l’uomo vale, che l’uomo è educabile, che l’uomo può essere salvato”. E anche quando fosse colpevole, l’uomo «non è bestia da domare, bersaglio da colpire, delinquente da condannare, nemico da sconfiggere, mostro da abbattere, parassita da uccidere» ( MARTINI, 2003, p. 64). È sempre da stimare, da comprendere, da valorizzare, da responsabilizzare, perché l’uomo è sempre in divenire e non esiste nulla di irreversibile quando si parla di persona umana. È l’ammonimento rivolto, in forma poetica, da padre David Maria Turoldo nella poesia Salmodia contro la pena di morte, citata Non è giustizia (MARTINI, 2003, p. XVIII), come anche dal direttore della Casa di reclusione di Milano- Opera, Silvio Di Gregorio, nella sua Introduzione al catalogo della mostra fotografica di Margherita Lazzati Fotografie in carcere. Manifestazioni della libertà religiosa (LAZZATI, 2019, p. 5): Nessuno uccida la speranza neppure del più feroce assassino perché ogni uomo è una infinita possibilità. Da questo sguardo colmo di fiducia sulle potenzialità di recupero, sempre presenti, anche se spesso latenti, in ogni perso na quand’anche si fosse macchiata dei più ripugnanti delitti, consegue una concezione della pena radicata nella convinzione che chi sbaglia può sempre correggersi; sicché la pena deve guardare sempre al futuro, è chiamata a svolgere una funzione pedagogica ed educativa ed è volta a sostenere – con il tempo e con l’aiuto di presenze costruttive – un reale cambiamento della persona (ad esempio, MARTINI, 2003, pp. 32- 33 e 50- 51).

·        Gli Scismi Minacciati.

Chiesa, papa Ratzinger rompe il silenzio: «Deve demondanizzarsi e trasmettere la fede». Redazione lunedì 26 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. È durissima la reprimenda rivolta dal Pontefice emerito Benedetto XVI alla “sua” Chiesa, quella tedesca. Tanto più significativa poiché giunta ad interruzione di un lungo silenzio e messa nero su bianco in forma di risposta alla rivista Herder Korrespondenz. Papa Ratzinger non ha usato mezze parole né espressioni edulcorate per rivolgersi alle gerarchie cattoliche della Germania. Sbaglierebbe, tuttavia, chi vi intravedesse una implicita critica a Bergoglio. Tutt’altro: la Chiesa tedesca è da tempo sull’orlo di uno scisma su motivi di rilevante valore teologico e pratico, come la fine del celibato dei preti e l’apertura del sacerdozio alle donne. A dividerla da Roma è anche l’atteggiamento nei confronti delle unioni omosessuali.

Così Ratzinger alla rivista Herder Korrespondenz. Da qui l’esortazione di Ratzinger a dare vita ad una Chiesa che deve parlare «con il cuore e lo spirito». E che, soprattutto, sappia «demondanizzarsi». E qui le parole del Papa emerito si fanno amare. «Perché – spiega – finché nei testi ufficiali della Chiesa parleranno le funzioni, ma non il cuore e lo Spirito, il mondo continuerà ad allontanarsi dalla fede». Sullo sfondo, appunto, il cammino sinodale della Chiesa in Germania. Papa Ratzinger osserva che ci si attende «una vera e personale testimonianza di fede» degli operatori ecclesiastici. E critica duramente il fatto che negli ospedali, nelle scuole e nella Caritas «molte persone sono coinvolte in posizioni decisive che non supportano la missione della Chiesa. E spesso oscurano la testimonianza di questa istituzione».

La Chiesa tedesca nel mirino del Pontefice emerito. Addirittura micidiale la bordata finale. «I testi ufficiali della Chiesa in Germania – conclude infatti Benedetto XVI – sono in gran parte scritti da persone per le quali la fede è solo ufficiale». Nelle sue osservazioni, Ratzinger prende anche le distanze da un discorso tenuto nel 2011 a Friburgo. In quell’occasione parlò della necessità per la Chiesa di una “entweltlichte Kirche“, una Chiesa distaccata dal mondo. Una terminologia sulla quale ora il Papa esprime dubbi, sottolineando che quel termine non spiegava forse a sufficienza il carattere positivo di questa distanza dal mondo.

Una bufera scuote la Chiesa: cosa svela l'ordine del Papa. Francesco Boezi il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Tra tradizionalisti e progressisti, la Chiesa si trova di fronte a un'altra grande prova dopo la decisione del Papa sulla Messa in rito antico. Il ridimensionamento della Messa in latino è un caso e la bufera era prevedibile. La contesa non è solo liturgica: la Chiesa cattolica vive un momento in cui alcune distanze siderali, peraltro preesistenti, si manifestano continuamente e in maniera sempre più dura. Due visioni contrapposte, con tutte le loro sfumature, che possono essere notate anche solo a livello comunicativo. In realtà, i progressisti non stanno esultando più di tanto. Dopo la mossa del Papa, prevale il silenzio nella "sinistra ecclesiastica". Nessuno spumante stappato, insomma, ma un'esultanza strozzata che può avere comunque un suo particolare significato. Perché il sommerso attorno al rito antico, al netto degli atteggiamenti pubblici, è già tutto sulla scena e si è depositato in anni di polemiche ecclesiologiche. Traditionis Custodes - questo il nome del "Motu proprio" di Francesco - è per i tradizionalisti la più classica delle gocce capaci di far traboccare un vaso considerato ricolmo da tempo. Interpretare la reazione della "destra ecclesiastica" è più semplice. Per i conservatori è in atto ciò che le avvisaglie avevano raccontato con anticipo: più o meno da quando papa Francesco è stato eletto sul soglio di Pietro. Il tam-tam sulla imminente crisi del Messale romano ha origini pluriennali: questo - dicevano certi ambienti tradizionalisti - sarà il pontificato che depennerà la cosiddetta "Messa tridentina". O comunque la sconvolgerà - insistevano - per come la conosciamo. Da destra, sempre per semplificazione, erano anche certi che questi sarebbero stati gli anni della "Messa ecumenica", dell'ordinazione dei laici, delle diaconesse e così via. Forse la verità risiede nel mezzo. Il Papa non ha dato seguito alla rivoluzione in cui la sinistra ecclesiastica continua a sperare. Su questa storia del vetus ordo, tra chi legge la scelta del Pontefice come una legittima e necessaria limitazione e chi invece ne fa un dramma, ce ne passa. Ma la polarizzazione interessa tutta la Chiesa cattolica ed è risalente nel tempo.

Le reazioni. Il Summorum Pontificum di Benedetto XVI - Motu proprio diventato forse anche più rappresentativo delle sue iniziali intenzioni - era definito "sotto attacco" prima ancora che Jorge Mario Bergoglio ragionasse sulla normativa. Tanto che durante questo pontificato sono nate iniziative, blog ed eventi a vario titolo che sembravano mettere le mani avanti su un'imminente smobilitazione normativa. La fase odierna è quella in cui la "destra ecclesiastica" rivendica la ragione. Nel contempo, se i progressisti sorridono, lo fanno tacendo. Chissà perché. Poi si rincorrono le voci come quella rilanciata dal blog Campari e De Maistre secondo cui il Motu proprio di Bergoglio sarebbe opera di ambienti precisi: viene chiamata in causa l'ipotesi dell'Ateneo di Sant'Anselmo. I retroscena troveranno ulteriore spazio.

Cattolici, i tradizionalisti non conoscono crisi vocazionale. La querelle sul rito antico non è certo finita. Il mantra tradizionalista è che il Motu proprio dell'Emerito deve essere difeso. E anche se l'ondata dei contrari alla mossa del Papa non è ancora stata organizzata, non possono essere escluse iniziative plateali. C'è chi pensa anche a una maggiore partecipazione, con qualche forma di protesta, al pellegrinaggio annuale del Summorum Pontificum che ha caratura internazionale. Nel comunicato del coordinamento nazionale si legge la parola "resistenza". Ce ne sono tanti altri, ma quel termine può raccontare un obiettivo, che poi è quello di non riporre nel dimenticatoio il rito antico. Di fare in modo, insomma, che la mossa del Papa non significhi "cancellazione", come tanti critici scrivono in queste ore.

I perché della mossa di Francesco. Molti si interrogano su cosa abbia spinto Sua Santità a muoversi in questo modo. C'è chi pensa che Francesco abbia fatto bene. E che dunque sarebbe giusta la riforma della possibilità di celebrare secondo il Messale romano, estendendo le facoltà decisionali dei vescovi ed introducendo l'obbligo di costituire parrocchie ad hoc. È il caso del religioso Rosario Vitale, che sostiene che Bergoglio abbia agito con giudizio per almeno due ragioni: "La prima perché ritengo sia giusto che la Chiesa abbia un rito unitario, che faccia risaltare, per citare le parole del Santo Padre, 'la comunione anche nell'unità di un solo Rito'". Dopodiché - annota Vitale - è la ratio stessa del Summorum Pontificum del papa emerito che sarebbe ormai passata in secondo piano: "Non sussiste più la ragione per cui Giovanni Paolo II con il documento Ecclesia Dei e Benedetto XVI con il Summorum Pontificum avevano permesso il ritorno al vetus ordo, che come sappiamo era quello di arginare lo scisma messo in atto da monsignor Lefebvre all'indomani del Concilio. Per cui - conclude il religioso - la decisione del Santo Padre mi trova pienamente d'accordo".

Quella scure di papa Francesco Chiuso l'istituto tradizionalista. Insomma, la questione dei lefebvriani - cui Francesco era sembrato persino vicino durante alcune fasi di questo pontificato - non sarebbe più di attualità secondo alcuni sostenitori della mossa del Papa. Dunque ben venga il nuovo Motu Proprio, tenendo conto dell'ubbidienza che chi è consacrato deve sempre perseguire nei confronti del Santo Padre.

Le "distorsioni" su cui è intervenuto papa Francesco. Francesco, nel normare il vetus ordo, ha anche citato alcune "distorsioni" liturgiche. Chi e come ha distorto le indicazioni sulla Messa antica dettate dal pontefice polacco e da quello tedesco? Perché Bergoglio nel presentare Traditionis Custodes cita quelle "distorsioni"? Vitale sul punto è lapidario: "Non possiamo parlare di errori liturgici perché l’uso del messale edito nel 1962 è stato permesso dai documenti che prima ho citato - premette - , tuttavia c’è da dire che la facoltà che nacque con lo scopo di ricucire uno scisma venne ben presto interpretata da molti come possibilità per tornare a rispolverare il vetus ordo. Vi fu certamente un errore di valutazione, e anche sotto questo punto di vista un abuso". San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero dunque assecondato l'utilizzo del Messale romano con il fine esclusivo di evitare eccessive fughe verso la Fraternità San Pio X. Non solo: il terzultimo ed il penultimo pontefice avrebbero, con l'Ecclesia Dei e con il Summorum Pontificum, tentato di costruire un "ponte" con i lefebvriani. Quasi come se la Messa antica costituisse un segno imperituro di dialogo verso chi aveva deciso di percorrere strade alternative dopo il Concilio Vaticano II.

Un membro Cei attacca la Messa di Ratzinger. L'ex pontefice non è intervenuto sul punto. E sarebbe stato clamoroso il contrario. Hanno tuttavia detto la loro due cardinali considerati "conservatori", ossia il cardinal Raymond Leo Burke e l'ex prefetto della Dottrina della Fede, Gherard Ludwig Mueller. Il porporato americano, come si legge sul blog di Aldo Maria Valli, ha parlato di "durezza" in relazione al Motu proprio di Francesco. Il "principe della Chiesa" teutonico, come si apprende da Katolisch.de, sarebbe parso invece critico nei confronti della riforma del Papa gesuita. È la dimostrazione di come la preoccupazione di quei fedeli che si sbracciano dopo l'annuncio della rivoluzione sia condivisa anche da alcuni alti-ecclesiastici.

Quelle "ferite riaperte" dal Motu proprio di Francesco. Padre Federico Pozza dell'Istituto Cristo Re di Firenze premette di aver letto il Motu proprio soltanto due volte. Questo però consente comunque al monsignore di notare come Traditiones custodes intervenga "per disciplinare la celebrazione della Santa Messa secondo il Messale del 1962 da parte dei sacerdoti diocesani che hanno scoperto l'uso più antico del Rito Romano dopo il Motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI". La riforma sanerebbe dunque una sorta di gap normativo. "L'intervento del 2007 - spiega però don Pozza - poneva fine ad un'inutile guerra liturgica in seno alla Chiesa, e questo nuovo provvedimento potrebbe riaprire ferite che si stavano risolvendo". Le ferite che, secondo alcuni, Joseph Ratzinger aveva risanato proprio attraverso il suo di Motu sulla cosiddetta tridentina.

Perché oggi tutti riscoprono la grandezza di Ratzinger. Ma oggi Benedetto XVI non è più il vertice della Chiesa cattolica. E Traditionis Custodes ha suscitato i commenti più disparati. Tra questi, appunto quello del cardinal Burke, che ha parlato di "durezza". Cosa ne pensa monsignor Federico Pozza? "Dal tenore del Motu proprio e dalla lettera che lo accompagna - afferma l'ecclesiastico- , effettivamente il nuovo testo normativo parte da una visione molto pessimistica dei cattolici legati a questa legittima e mai abrogata espressione liturgica". Il dato secondo cui la riforma di Bergoglio intervenga con estrema decisione è dunque condiviso. Poi la speranza, almeno tra coloro che vorrebbero continuare a celebrare secondo il vetus ordo: "L'esperienza, in generale, di questi ultimi 14 anni è stata ricca di bei frutti spirituali e pastorali. Certamente - chiosa Pozza - è auspicabile che le Congregazioni romane tengano conto di questi frutti e che non mortifichino i fedeli che con spirito di reale comunione ecclesiale hanno scoperto i tesori spirituali dei libri liturgici anteriori alla riforma del 1970". La sensazione è che in tanti, pur tenendo conto delle indicazioni del Santo Padre, continueranno a celebrare il rito antico.

Chi è il cardinale Mueller, l’ultimo ratzingeriano. Francesco Boezi su Inside Over il 29 agosto 2021. Il cardinale Gherard Ludwig Mueller è un conservatore. L’affermazione può sembrare superflua, ma nell’attuale contesto dell’assemblea cardinalizia non lo è affatto. Se non altro perché i cardinali conservatori, nel prossimo Conclave, dovrebbero rappresentare una conclamata minoranza. Forse si conteranno con le dita di una mano.Il porporato teutonico era stato scelto da papa Francesco per guidare la Congregazione per la Dottrina della Fede. Poi, dopo cinque anni di mandato, Jorge Mario Bergoglio non ha rinnovato l’incarico all’alto-ecclesiastico tedesco, preferendo il gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer: il Papa ha impiegato qualche tempo per procedere con la successione. Comunque sia, dal momento della “cacciata” in poi, Mueller è entrato di diritto in un elenco: quello composto da coloro che qualcuno ha chiamato cardinali “misericordiati”, ossia i porporati che sono stati ridimensionati dalle scelte dell’ex arcivescovo di Buenos Aires. Si pensi al cardinale Raymond Leo Burke o, in misura diversa, al cardinal Antonio Canizares Llovera. In questa fase, il cardinale Mueller, che è un ratzingeriano, si sta distinguendo per la critica a Traditionis Custodes, il Motu proprio tramite cui il Santo Padre ha limitato le facoltà di celebrare la Messa antica, disponendo che saranno i vescovi a decidere se autorizzarne o meno la celebrazione. Secondo quanto riportato dal blog di Sabino Paciolla, il cardinale, su Traditionis Custodes, ha scritto quanto segue, all’interno di una sua riflessione: “Invece di apprezzare l’odore delle pecore, il pastore qui le colpisce duramente con il suo bastone”. Sono toni di chi non ha paura di diffondere la sua opinione, al netto della gerarchia curiale. Mueller ritiene, come tanti altri, che la Messa antica sia attualissima e magari anche foriera di frutti vocazionali. Tra i vari episodi di cui è stato protagonista nei confronti del Santo Padre e delle polemiche che hanno riguardato la sua azione, ci si ricorderà del cardinale per un’intervista rilasciata a Il Corriere della Sera. In quella circostanza, Mueller ha segnalato l’esistenza di una “fronda” di curiali disposti ad organizzare un’ opposizione al Papa, creando un “gruppo” ad hoc. Questi ecclesiastici avrebbero voluto proprio il cardinale teutonico come referente, ha rivelato l’interessato. Ma, facendo emergere quel tentativo, che avrebbe portato ad una frattura interna semi-ufficiale, Mueller ha di fatto ribadito la sua assoluta fedeltà al Santo Padre. 

Le origini e la formazione. Il cardinale Gherard Ludwig Mueller è nato nel 1947 ed è originario di Magonza. Come altri suoi colleghi cardinali, Mueller ha una formazione teologico-filosofica. Per un prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sarebbe stato strano il contrario. Il porporato tedesco è un allievo del cardinale Karl Lehmann, che, durante gli anni di San Giovanni Paolo II (ma non solo durante quelli), è stato spesso annoverato tra i critici progressisti dell’operato del Papa polacco. Lehmann è stato considerato uno dei “grandi elettori” dell’odierno pontefice. Storico presidente della Conferenza episcopale della Germania, Lehmann è noto alle cronache pure per essere stato associato al gruppo della “mafia di San Gallo”. Almeno così è stato definito dal cardinale belga Godrfried Danneels. Si tratterebbe di un gruppo di porporati impegnato a far passare battaglie dottrinali progressiste, in specie tra i vertici della Chiesa cattolica. Poi, certe teorie del complotto o simili, hanno addirittura sparato più in alto, parlando di “mafia di San Gallo” in relazione a strategie elettorali riguardanti il soglio di Pietro. Ma si tratta di suggestioni mai dimostrate. Anche perché non ci si potrebbe mettere d’accordo, magari in modo vincolante, tra gruppi, per eleggere il successore di Pietro, peraltro prima del Conclave. Fatto sta che, considerando le battaglie portate avanti da Mueller in questi anni, viene naturale chiedersi cosa c’entri con gli insegnamenti di Lehman, che ha fatto anche da controcanto a Joseph Ratzinger. Bene, Mueller è un uomo che ha fatto del dialogo una cifra stilistica. Nessuno può mettere in discussione l’ortodossia dottrinale del cardinale. Ma il porporato di Magonza è spesso stato un “ponte” tra le teorie teologiche progressisti e quelle conservatrici. Per intenderci: Mueller ha avuto modo di apprendere molto anche dal peruviano Gustavo Gutierrez, che ha contribuito alla fondazione della teologia della liberazione. E forse è proprio per questa sua caratteristica che Bergoglio lo aveva selezionato tra tanti “candidati” come traghettatore tra l’impostazione ratzingeriana e quella che poi, nel tempo, sarebbe divenuta l’impronta bergogliana dell’ex Sant’Uffizio. Ma se dovessimo nominare un solo maestro del porporato teutonico, nomineremmo Joseph Ratzinger. Una curiosità: Mueller è stato arcivescovo di Ratisbona, la città da cui Benedetto XVI ha pronunciato la nota “lezione” sull’islam.

La strana "cacciata" dall'ex Sant'Uffizio. La particolarità della “cacciata” di Mueller non riguarda tanto la “rimozione” di in sé, perché capita nelle logiche curiali che un cardinale non venga confermato da un Papa. La “stranezza”, per così dire, è relativa alle tempistiche. In molti, infatti, si stupirono che papa Francesco avesse evitato di assegnare un secondo mandato ad un ecclesiastico cui aveva affidato un incarico centrale per la Chiesa cattolica. Difficile, per la tradizione della Santa Sede, che un prefetto dell’ex Sant’Uffizio svolga quel ruolo per soli cinque anni, senza almeno un secondo mandato. Ma l’esperienza di Mueller nella prefettura che fu di Joseph Ratzinger è stata breve. Non si è mai ben capito il perché della scelta del Papa, considerando pure come il cardinale tedesco non abbia mai agito attraverso fughe in avanti o critiche feroci rispetto alla linea del pontefice. Qualche ricostruzione giornalistica ha chiamato in causa delle divergenze d’impostazione tra Mueller ed il primo pontefice gesuita della storia: si sarebbe trattato di una disputa sulle modalità di gestire la battaglia contro gli abusi. L’ex Sant’Uffizio ha un ruolo decisivo in quell’ambito. Ma, in specie tra i tradizionalisti, ha prevalso la versione secondo cui il cardinale non sarebbe stato riconfermato per divergenze dottrinali. Certo, Mueller – come abbiamo già ribadito – proviene dalla scuola ratzingeriana. E su alcune questioni dottrinali che sono state aperte durante questo pontificato non ha voluto tacere. Tuttavia il porporato tedesco, ad esempio, non aveva sottoscritto i Dubia su Amoris Laetitia né intrapreso azioni plateali, magari di contrasto, durante la sua permanenza all’ex Sant’Uffizio. Almeno per quello che è emerso al livello pubblico.

La linea intransigente. Presentare una carrellata delle posizioni espresse dal cardinale Gherard Ludwig Mueller, significa immergersi nel conservatorismo ecclesiastico. Il cardinale sembra temere ad esempio che la Chiesa cattolica si stia trasformando in una Ong. In relazione a questa affermazione, il porporato tedesco non ha esitato nel criticare la possibilità che le benedizioni alle coppie vengano estese pure a quelle omosessuali. Più in generale, Mueller non si è risparmiato nel criticare alcune intenzioni del Sinodo biennale della Conferenza episcopale tedesca. In quadro come quello tedesco, che è sempre più “protestantizzato”, Mueller rappresenta un’eccezione, significativa, ma pure sempre un’eccezione. I critici del Sinodo, come nel caso dei cardinali conservatori presente in assemblea cardinalizia, si contano sulle dita di una mano in Curia. Ma Mueller è arrivato ad etichettare il “Concilio biennale” dei teutonici come privo di “legittimazione”. Attenzione, poi, alle idee di Mueller in materia di dialogo con le altre confessioni religiose. Si discute molto di quanto Bergoglio abbia gerarchicamente equiparato il cattolicesimo all’islam attraverso più di una dichiarazione formale. Prescindendo se l’operazione di Francesco corrisponda o no al vero, Mueller ha sostenuto pubblicamente che i cristiani non hanno la facoltà di pregare alla maniera dei musulmani, perché “i fedeli dell’Islam non sono figli adottivi di Dio per mezzo della grazia di Cristo, ma solo suoi sudditi”. L’intervento rientra nel più complesso macro-argomento del multiculturalismo, che l’alto ecclesiastico ha affrontato più volte. Il cardinale è un conservatore pure in bioetica. Infine, nel 2019, il nativo di Magonza ha reso noto un “Manifesto della fede”, che è stato scritto per reagire nei confronti di una “confusione” tanto imperante quanto persistente nei contesti ecclesiastici. Qualcuno ha interpretato quel documento come una mossa diretta a Bergoglio.

La mano tesa di papa Francesco. Siamo nel febbraio 2020. Lo scontro tra progressisti e conservatori procede, com’è spesso accaduto durante il pontificato dell’argentino, a fasi alterne. Esistono momenti di picco e momenti in cui la battaglia tra “schieramenti” sembra assopirsi. Mueller all’epoca è già un ex prefetto. Papa Francesco compie un passo inaspettato. Con il Sinodo sull’Amazzonia alle spalle, Bergoglio comunica al cardinale, peraltro attraverso una lettera pubblicata pure dalla stampa, di aver letto con interesse un altro documento che Mueller aveva scritto, proprio in funzione dell’appuntamento sinodale che avrebbe potuto discutere pure di abolizione del celibato. Curioso notare come il cardinale non fosse affatto allineato con chi, nel corso del Sinodo, avrebbe voluto approvare tutta una serie di modifiche dottrinali che poi sarebbero state riproposte, in larga parte, con il Sinodo tedesco. In quei mesi, si è discusso abbastanza di come papa Francesco avesse forse perso l’appoggio dei progressisti, cercando di tendere la mano dei confronti del mondo conservatore, che Gherard Ludwig Mueller ben sintetizza. 

La battaglia di Burke: il "principe" dei conservatori. Francesco Boezi il 22 Agosto 2021 su Il Giornale. Il cardinale è al centro delle cronache per aver contratto il Covid. In questi anni, il porporato si è distinto per numerose battaglie che gli hanno assegnato il ruolo di guida dei conservatori. Il cardinale Raymond Leo Burke è al centro delle cronache per via del Covid-19. Il porporato ha contratto l'infezione ed è stato ricoverato negli Stati Uniti, dove è costretto anche all'ausilio del respiratore. Proprio nella giornata di ieri, però, è arrivato un aggiornamento importante: l'alto ecclesiastico americano è uscito dalla terapia intensiva, così come riportato da molti media cattolici. Buona parte della stampa progressista si è soffermata sulle recenti posizioni di Burke in materia di vaccini. E una parte del mondo cattolico ha criticato la linea scelta da alcuni mezzi d'informazione. Almeno di quelli che, nel dare la notizia della malattia del consacrato, hanno posto l'accento sul pensiero del "principe della Chiesa" riguardo le vaccinazioni. I cattolici più vicini a Burke stanno lanciando iniziative di preghiera per l'alto ecclesiastico. Preghiere che peraltro lo stesso cardinale ha richiesto. Tutto questo però dimostra che si è innescato un meccanismo mediatico simile a quello riservato a Boris Johnson all'epoca del ricovero. Qualcosa che è valso pure per Donald Trump e Jair Bolsonaro. C'è un punto che forse va chiarito. La linea della Chiesa cattolica sui vaccini non è espressa dal porporato americano ma dal Papa, che proprio in questi giorni ha dichiarato che "vaccinarci è un modo semplice di promuovere il bene comune e di prenderci cura gli uni degli altri, specialmente dei più vulnerabili", così come si legge pure su @pontifex, ossia l'account pontificio su Twitter. Jorge Mario Bergoglio è anche in prima linea per la liberalizzazione dei brevetti vaccinali, in funzione dell'estensione dell'accessibilità dei vaccini alle periferie del mondo. Insomma, non esistono dubbi su quale sia la posizione del Vaticano sulle misure da prendere per contrastare la pandemia.

Il cardinale conservatore. Per comprendere chi sia il cardinal Burke, più che rimarcare le sue dichiarazioni sui vaccini, conviene guardare alle battaglie portate avanti in tutti questi anni. Anzitutto Burke è uno dei quattro membri dell'assemblea cardinalizia che ha firmato i "dubia" su Amoris Laetitia, l'esortazione apostolica che ha aperto dottrinalmente alla comunione per i divorziati risposati. Una sottoscrizione che ha contribuito a sviluppare la fama di "conservatore" del patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta. Per quanto non sia mai esistita una vera e propria "opposizione" a Bergoglio, Burke è di certo associabile a quella parte di Chiesa cattolica che ha preso posizione in senso critico su alcuni provvedimenti presi durante questo pontificato. In ambito politico, Burke si è distinto durante la campagna elettorale americana per la sua rigidità, dove ad esempio ha espresso parere contrario sul "diritto alla comunione" di Biden. Il neo presidente Usa è favorevole all'aborto, e dunque per il cardinale statunitense non dovrebbe ricevere l'eucaristia. Il punto è stato discusso anche ai livelli apicali dell'assemblea vescovile americana, mentre la Santa Sede ha frenato le velleità dei vescovi conservatori.

Burke, in ambito "politico", è stato considerato un "trumpiano". In realtà, più che per le simpatie verso l'ex presidente degli Usa, il cardinale si è sempre distinto per l'intransigenza in bioetica. Il che va di pari passo con le critiche al progressismo normativo e culturale di portata Dem.

Le battaglie sulla Messa e sul multiculturalismo. Di recente, l'alto ecclesiastico americano si è pronunciato su Traditionis Custodes, il Motu proprio di Francesco che disciplina sulla Messa antica. Sul vetus ordo e sul suo ruolo all'interno della tradizione cattolica, Burke ha scritto un documento in cui - come si legge sul blog di Sabino Paciolla - si fa presente pure che: "Uno spirito scismatico o uno scisma vero e proprio sono sempre gravemente malvagi, ma non c’è nulla nell’UA che favorisca lo scisma. Per quelli che hanno conosciuto l'UA (la Messa in rito antico secondo l'abbreviazione statunitense ndr) in passato, come me, si tratta di un atto di culto segnato da una bontà, verità e bellezza plurisecolari". Il cardinal Burke si è schierato con chi ritiene che la cosiddetta tridentina non debba essere messa in discussione. La voce del porporato non è stata l'unica a levarsi, ma è stata di sicuro tra le principali. Le battaglie affrontate da Burke sono molte ed è difficile procedere con un'elencazione esaustiva. Il cardinale è un critico del multiculturalismo, ad esempio. Ma, più in generale, la dottrina cristiano-cattolica ha rappresentato il principale terreno di scontro tra il consacrato statunitense e gli emisferi progressisti, in specie in contemporanea con questo pontificato. Il cardinale non è un teorico del dogma del dialogo con l'islam. E neppure un aperto simpatizzante della linea aperturista in materia di fenomeni migratori. Nel 2019, ha persino chiesto che venisse limitato "l'ingresso degli islamici". Tutte posizioni che hanno contribuito ad annoverare il cardinale tra gli elenchi della "destra ecclesiastica".

Il nodo vaccini. In merito ai vaccini, come ripercorso da Aska News, il porporato americano aveva dichiarato che "deve essere chiaro che la stessa vaccinazione non può essere imposta, in modo totalitario, ai cittadini". Non solo, perché Burke aveva assecondato il parere secondo cui i vaccini avrebbero potuto prevedere "una sorta di microchip che deve essere posto sotto la pelle di ogni persona, in modo che in qualsiasi momento possa essere controllata dallo Stato in merito alla salute e ad altre questioni che possiamo solo immaginare”. Inoltre, il cardinale si era soffermato sulla derivazione dei vaccini da linee cellulari provenienti da feti abortiti, manifestando contrarietà. Pure su questo aspetto, però, la Santa Sede è stata chiara, definendo gli ambiti di liceità.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

Tutti contro tutti, tema: Sinodo in Germania. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Tema: il Sinodo della Chiesa tedesca. Ultimo atto (per adesso), interviene il cardinale tedesco Walter Kasper, teologo di fama, ora in pensione, ed in una lunga intervista spiega il suo punto di vista assai critico verso quello che sta accadendo nella Chiesa in Germania, con il Sinodo in corso e le vagheggiate possibilità di “scisma”. A dire la verità, lo “scisma” piacerebbe tanto a molti giornalisti, che si troverebbero a “coprire” un evento di cui non hanno memoria, essendo accaduto 500 anni fa e loro purtroppo non erano lì! In ogni caso il cardinale Kasper non ha fatto i conti con l’acume e le analisi teologiche del prof. Andrea Grillo, che ne smonta le argomentazioni pezzo per pezzo. Nell’intervista – spiega Grillo – il cardinale Kasper “rispolvera il più classico degli argomenti dell’antimodernismo: ‘perché il Cammino sinodale…non ha esaminato le questioni critiche alla luce del Vangelo?”. Per quanto importanti possano essere le nozioni delle scienze umane “la norma è solo Gesù Cristo, nessuno può porre un altro fondamento”. Per quello che ho letto del Cammino sinodale, mi pare che il riferimento alla ‘norma Gesù Cristo’ non sia mai mancato. Che da un uomo così colto e così prudente possa venire un argomento così rozzo sembra quasi incredibile. Se ad un Sinodo, per di più di natura nazionale, si oppone l’obiezione di ‘non seguire il Vangelo’ e di non avere “Cristo come norma”, si solleva una questione talmente viscerale e pesante, da screditare l’intero fenomeno, senza alcuna possibilità di appello. Di fatto si cade nella logica di una accusa ‘di scisma/eresia’, basata però su un grave pregiudizio. La domanda giusta da sollevare dovrebbe essere ‘quale mediazione istituzionale’ deve essere posta dalla Chiesa perché Gesù Cristo resti la norma? Come è possibile che il card. Kasper abbia dimenticato che il “mondo”, con il suo sapere e le sue forme di vita, non è solo ‘perdizione’ per lo Spirito, ma anche luogo dello Spirito”.

Insomma il cardinale Kasper ne esce proprio malconcio. Ma è il segno di quanto i problemi sono seri, soprattutto tra chi vorrebbe ingessare la realtà e la Chiesa mentre la spinta della Storia non si può certo ignorare…

Mondo cattolico a diverse velocità. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 19 Giugno 2021. Gira proprio a diverse velocità (il mondo cattolico!). I vescovi Usa si intestardiscono sul tema della comunione e mandano a dire al Vaticano che non conta nulla. Il cardinale Ladaria manda una lettera dicendo che un documento sull’uso della comunione non è opportuno? E loro vescovi ieri a grande maggioranza (168 contro 55) votano per stilare un testo. La comunione diventa un tema politico? E ai vescovi sta bene. Ma a pensarci bene, se non dai a Biden cattolico la comunione, che cosa cambia? Nessuno lo sa, ma come al solito sarebbe una vittoria ideologica. Poi avrai dozzine di deputati fedifraghi, magari cornificatori di mogli e mariti, favorevoli alla pena di morte e alle armi, contro ogni riforma del sistema sanitario, ma li vedrai compatti tutti in fila a fare la comunione. E il Papa, alla fine, si trova una fronda piuttosto consistente e nessuno strumento di lavoro se non l’arma spuntata della “sinodalità”; molto suggestiva ma scarsa quanto a efficacia. Poi abbiamo un’altra velocità, del tutto diversa, data dai teologi dell’Appello Salviamo la Fraternità – Insieme, che sotto l’egida della Pontificia Accademia per la Vita, con l’arcivescovo Vincenzo Paglia e mons. Pierangelo Sequeri, chiedono che venga presa sul serio l’enciclica Fratelli Tutti e da qui parta un rinnovamento profondo della teologia. Dell’importanza del tema si è accorto il teologo Andrea Grillo che sul suo blog muove anche dei rilievi critici al documento, però nella sostanza comprende bene la centralità di un approccio nuovo ed inclusivo in teologia. E forse cominciamo a capire che sarebbe ora di tralasciare le “diverse” teologie – dogmatiche, fondamentali, morali… – e andare verso un approccio integrato. Scrive Grillo: questo appello a salvare la fraternità “può raggiungere diversi risultati, grazie alla sua impostazione formale. Può suscitare dialogo e confronto perché è già in sé frutto di questo dialogo e di questo confronto. Credo si possano individuare due obiettivi espliciti di un tale sviluppo, che mi sembrano del tutto condivisibili: – da un lato favorire un “lavoro teologico” chiaro, audace e paziente, “creativo e ospitale”, che sappia dialogare in modo davvero radicale con la cultura contemporanea, per rileggere la tradizione con un atto audace e paziente di “traduzione”; – dall’altro che abbia una incidenza ecclesiale capace di pensare e realizzare quelle riforme di cui la Chiesa confessa il bisogno da almeno 60 anni e la cui esecuzione non può non essere preparata da un “pensiero della fede” alla altezza della sfida. Per raggiungere questi due obiettivi, occorre aprire un dibattito, nella libertà e con rispetto, sulle tre parti qualificanti di questo testo, ossia sulla “descrizione della condizione ecclesiale e culturale” (SF 1-14), sull’appello ai Discepoli (SF 14-19) e sulla Lettera aperta ai Saggi (SF 19-23). A ciascuna di queste parti vorrei dedicare un commento specifico nei prossimi giorni”. Leggerò con interesse le prossime considerazioni di Grillo! E vediamo dove ci portano le due velocità!

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 19 giugno 2021. Niente più comunione per il presidente degli Usa Joe Biden, così come per gli altri personaggi pubblici di spicco che non aderiscono al dettame fondamentale della chiesa cattolica. La conferenza dei vescovi negli Stati Uniti ha deciso di definire con uno scritto quali devono essere le linee di «coerenza eucaristica» alle quali devono rispondere i fedeli più in vista nella comunità culturale, in quelle della politica e dello spettacolo, per continuare ad avere accesso al sacramento. Lo ha fatto nonostante il monito emesso dal Vaticano che incoraggiava ad evitare di esprimere un orientamento in materia, e al termine di tre giorni di dibattito acceso, e spesso rivelatore dei risvolti politici che la decisione implica. L' iniziativa di compilare il documento è stata votata dal 72% dei 433 prelati (155 contro 55, con 6 astenuti), tra quelli ancora in carica e quelli che sono in pensione. Se la stessa percentuale voterà lo scritto una volta compilato il prossimo novembre, la direttiva sarà adottata da tutte le diocesi degli Stati Uniti. Le disposizioni non saranno vincolanti. Quando la stessa questione fu proposta nel 2004, la conferenza a grande maggioranza (183 voti contro sei) decise di non decidere, e lasciò che fossero i singoli vescovi a scegliere caso per caso se e a chi continuare ad amministrare il sacramento. Il cardinale Wilton Gregory ad esempio, che è arcivescovo della comunità di Washington, ha già detto ripetute volte in passato che non intende negare la comunione a Joe Biden, uno dei più ferventi cattolici ad aver mai abitato la Casa Bianca. Ora che la questione è tornata in primo piano comunque, e con il dibattito destinato ad arroventarsi ulteriormente in vista del voto finale che si terrà a novembre, la spaccatura evidenziata dal confronto degli scorsi giorni continuerà ad approfondirsi, e avrà un’influenza determinante sul parallelo percorso politico in vista delle elezioni di metà mandato del 2024. Biden non è l'oggetto specifico del provvedimento. Ne è coinvolto per le posizioni a favore del diritto di scelta delle donne in caso di aborto che ha sempre patrocinato nel corso della sua carriera politica. La nuova composizione della corte Suprema, sbilanciata da una forte maggioranza di giudici conservatori, ha rinfocolato la speranza del movimento antiabortista che da decenni si batte per far revocare il parere espresso dalla consulta nel gennaio del 1973 in merito al processo «Roe contro Wade», quello che aprì al tempo le porte degli ospedali alla pratica dell'interruzione della gravidanza. Il movimento conservatore all' interno della chiesa statunitense ha appoggiato la campagna che sembra in grado di ricompattare le file dell'ortodossia religiosa, a loro giudizio compromessa da decenni di eccessivo permissivismo da parte delle autorità religiose, e negli ultimi anni minacciata dal liberismo ideologico che i conservatori attribuiscono a Papa Francesco. Il partito repubblicano che dopo la sconfitta di Trump è alla ricerca di una nuova leva per rilanciare l'immagine del partito, è ben felice di sposare la causa, e di chiedere sulla base dell'attacco finale all' aborto il consenso delle urne per il 2024. I risvolti politici sono emersi fin dall' inizio della discussione nel seno della conferenza episcopale, quando l'ex vescovo di San Angelo in Texas Michael Pfeipfer ha chiesto ai colleghi di concentrarsi sulle «iniziative a favore dell'aborto del nostro presidente, specialmente quella che riguarda l'infanticidio». Biden naturalmente non ha mai proposto o firmato provvedimenti che riguardano l'infanticidio, ma la bufala circola liberamente nei siti oltranzisti che alimentano il calore del dibattito. Il voto finale sulla questione il prossimo novembre non ha un esito scontato. Più probabile è la frattura che provocherà all' interno della comunità cattolica, la quale rappresenta un quarto dell'elettorato nazionale negli Stati Uniti.

Laura Zangarini per "corriere.it" il 15 giugno 2021. Il Vaticano ha ammonito i vescovi conservatori americani a frenare le loro pressioni per negare la comunione ai politici che sostengono i diritti all'aborto, tra cui il presidente Joe Biden, secondo leader alla Casa Bianca a essere cattolico praticante. Ciononostante, i vescovi americani insistono e si prevede che impongano un dibattito e forse un voto in materia in una conferenza virtuale che inizia mercoledì e che potrebbe scavare un solco tra la Santa Sede e la Chiesa cattolica Usa. Ne dà conto il «New York Times». La «crociata» è guidata da alcuni vescovi le cui priorità sono chiaramente allineate con quelle dell'ex presidente Donald Trump e che vogliono ribadire la centralità dell'opposizione all'aborto nella fede cattolica dettando una linea dura. Tra loro l'arcivescovo José Gomez di Los Angeles, presidente della conferenza episcopale Usa, che il pontefice non ha mai promosso al rango di cardinale. «La preoccupazione in Vaticano è di non usare l'accesso all'eucarestia come armapolitica», spiega al Nyt Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, gesuita molto vicino al Santo Padre. Papa Francesco ha detto questo mese che la comunione «non è la ricompensa dei santi ma il pane dei peccatori». E il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ha scritto una lettera ai vescovi americani avvisandoli che un voto su tale questione potrebbe «diventare una fonte di discordia piuttosto che unire l'episcopato e allargare la chiesa negli Stati Uniti».

Il Papa è accerchiato. Ora è "guerra" sul presidente Usa. Francesco Boezi il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. I vescovi Usa vicini a vietare la comunione a Joe Biden per le sue posizioni. Dal Vaticano però fermano tutto. Papa Francesco si ritrova tra due fuochi. Dicono che il presidente Joe Biden non sia in procinto d'incontrare papa Francesco, ma che dal Vaticano abbiano comunque deciso di allungare una mano in sostegno del capo della Casa Bianca. Se dipendesse da certi vescovi statunitensi, a Joe Biden non spetterebbe la comunione. Il leader Dem è, infatti, un aperto sostenitore dell'aborto. Tanto basterebbe agli oltranzisti della dottrina per vietare la concessione di quel sacramento che è così centrale per la fede cattolica. Il cardinale conservatore Raymond Leo Burke aveva preso in considerazione la faccenda in tempi non sospetti, ossia quando era ancora in campagna elettorale. Per i conservatori - Burke compreso - non c'è troppo da discutere: non si può far finta di nulla. Non si può cioè evitare di constatare le posizioni anti-cattoliche di questo o di quel leader. Poi Biden ha vinto le presidenziali, e con i primi provvedimenti ha dimostrato che non avrebbe badato troppo alle inclinazioni idealistiche dei tradizionalisti. Le politiche pro life targate Donald Trump? Scardinate. Era solo l'inizio. Nel corso di questi giorni, il presidente Usa sta spingendo affinché il Senato americano approvi l'Equality Act, che i presuli a stelle e strisce vedono come fumo negli occhi. Il dibattito, anche per via dello spazio riservato alla questione dal New York Times, impazza. Il clima è per certi versi simili, anche se con i doverosi distinguo, a quello che in Italia si respira sul Ddl Zan. La Conferenza episcopale americana lo ha scritto nero su bianco sul proprio sito istituzionale:"Sebbene questo sia uno scopo degno (quello di combattere discriminazioni in materia di genere, ndr), l'Equality Act non lo serve. E invece di rispettare le differenze nelle credenze sul matrimonio e sulla sessualità, l'Equality Act discrimina le persone di fede proprio a causa di quei principi religiosi o culturali". Questo è solo l'ultimo capitolo di una ruggine creatasi sin dall'insediamento, con le prime scelte di Biden che non hanno soddisfatto le aspettative degli attenti vescovi americani. Allora i presuli si sono riuniti all'interno di una commissione ad hoc. Un organo tramite cui monitorare le mosse di Biden. Una delle ultime è l'Equality Act, che si pone nel campo giuridico di quelli che i ratzingeriani chiamano con preoccupazione "nuovi diritti". Com'è spesso capitato in questi anni, i cattolici si dividono in due fronti: coloro che la pensano come l'arcivescovo di Los Angeles José Gomez, che fa un po' da capofila, e coloro che propendono per l'arcivescovo Wilton Gregory, un ecclesiastico che di recente Bergoglio ha creato cardinale. Troppo facile dare a Gomez del conservatore e a Gregory del progressista: le sfumature sono sottili. Di sicuro esistono diverse sensibilità. La Congregazione per la Dottrina della Fede, comunque sia, si è pronunciata. E di certo non lo ha fatto senza badare alle direttive del Papa. Il cardinale Louis Ladaria, come ha riportato Aska News, ha posto un freno alle intenzioni di Gomez e degli altri presuli che stanno ipotizzando d'intervenire sul diritto di Biden al sacramento della comunione. All'interno di questo passaggio, a ben vedere, c'è la mano allungata dal Vaticano in favore di un presidente che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto comportare il ritorno ad un dialogo pieno tra Santa Sede e Stati Uniti, dopo l'epoca del bilateralismo diplomatico dell'ex tycoon repubblicano. Ma quindi a Biden verrà negata la comunione? Esistono elementi per asserire il contrario. La scelta sarebbe troppo ingombrante. E la Chiesa cattolica darebbe prova di essere poco "misericordiosa", com'è invece previsto dalla impostazione del Papa e dalla sua pastorale. Il fatto è che con Joe Biden sarebbe dovuto tornare il cattolicesimo alla Casa Bianca dopo l'epoca Kennedy. Il pluralismo religioso, che è anche cattolico, ha reso tuttavia possibile nel tempo che un candidato presidente, poi Commander in Chief, si dica cattolico nonostante sostenga la liceità dell'aborto. Qualcuno la chiama incoerenza. Altri intravedono segni dei tempi e di secolarizzazione. In fin dei conti, cambia poco. Perché da Roma hanno già dettato la linea. E la linea di Roma, ossia quella del Papa, almeno sino allo sbandierato ritorno delle Chiese nazionali, è quella che conta.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento...

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” l'11 giugno 2021. Ai tempi di papa Francesco udire la parola "scisma" equivale a volgere rapidamente lo sguardo alla Germania e agli Stati Uniti. Le terre cattoliche germaniche sembrano nuovamente abitate da emuli di Lutero pronti come lui a scommettere che «se esiste l' inferno, Roma ci sta sopra». Non è vero, però di polemica in polemica, di mugugno in mugugno, è la Chiesa tedesca che cerca di porsi, agli occhi dei media internazionali, come il fronte avanzato del cattolicesimo moderno. In realtà, ha fatto notare il teologo Marcello Neri, le discussioni nella Chiesa tedesca dimostrano una sola cosa: lo stallo della strategia pastorale e culturale del cattolicesimo degli ultimi cinquant' anni. Esattamente ciò che papa Francesco cerca di spiegare al resto dei fedeli iniziando dai vescovi italiani, così occupati con sé stessi da non accorgersi che i riferimenti ai quali si richiamano sono diventati irrilevanti nel vissuto delle persone che dovrebbero ascoltarli. Anche la Chiesa americana, in apparenza sul fronte opposto di quella tedesca e più scaltra nell' utilizzo di termini politicamente corretti anche in ambito teologico, finge di coltivare uno scisma latente di stampo conservatore e irriga con i suoi ricchi mezzi tutti i rigagnoli che predicano una Chiesa alternativa a quella che segue l' attuale successore di Pietro. In realtà, in entrambi i casi è la diminuzione del sostegno economico (pubblico e fiscale in Germania, privato e fiscale negli Usa) ad animare i furori ideologici di destra e sinistra: la tassa per il culto non arriva, le donazioni diminuiscono. E chi potrà mai pensare ad uno "scisma" in Chiese dove vescovi e teologi si barcamenano tra una trovata mediatica e l' altra sapendo che a Roma un' autorità più liberale della loro li garantisce economicamente e li lascia sbandierare senza problemi e contraccolpi ogni tipo di dissenso?

Franca Giansoldati per “il Messaggero” l'11 giugno 2021. Scacco matto in due mosse. Il cardinale tedesco Reinhard Marx ha incassato ieri la piena e totale solidarietà del Papa: resterà a capo della sua ricca diocesi di Monaco di Baviera ancora più saldo e influente di prima. Le dimissioni che aveva presentato a Francesco una settimana fa protestando per la lentezza e l'immobilismo con i quali il Vaticano avanza sul terreno delle riforme in primis la lotta agli abusi sessuali e la richiesta trasparenza nei processi non solo sono rientrate ma lo hanno rafforzato ulteriormente. Questo significa che il processo sinodale che l' arcivescovo di Monaco ha promosso e avviato in Germania due anni fa quando era presidente della Conferenza Episcopale (in disaccordo con Roma) andrà avanti più spedito che mai nonostante l' opposizione di quei vescovi contrari ad annacquare il magistero tradizionale per fare spazio a temi tabù come la benedizione delle coppie gay, i preti sposati, le donne sacerdotesse, l' inter-comunione con i luterani, quest' ultima una bega che va avanti irrisolta dai tempi di Lutero. Ieri Papa Francesco ha preso carta e penna per trasmettere «all' amato fratello» Reinhard tutta la sua comprensione, la stima e il sostegno alle sue idee. Francesco ha naturalmente ammesso con dolore il totale fallimento della Chiesa sul fronte della pedofilia. La situazione del resto è sotto gli occhi di tutti, a fronte di leggi rigorose ci sono ancora conferenze episcopali molto tiepide nel metterle in pratica, creando una situazione mondiale non omogenea, a macchia di leopardo. Il Papa fa capire di essere sulla stessa lunghezza d' onda di Marx. Il che equivale ad un endorsement o, come qualcuno azzarda esagerando, una investitura per un prossimo conclave. Il cardinale super progressista aveva denunciato che la Chiesa è arrivata ad un punto morto. Francesco nella lettera gli fa eco dicendo che la politica dello struzzo non porta a nulla. «Il mea culpa davanti a tanti errori storici del passato lo abbiamo fatto più di una volta dinanzi a molte situazioni anche se non abbiamo partecipato di persona a quella congiuntura storica. E questo stesso atteggiamento ci viene chiesto oggi. Ci viene chiesta una riforma, che in questo caso non consiste in parole, ma in atteggiamenti che abbiano il coraggio di entrare in crisi, di accettare la realtà qualunque sia la conseguenza». La lettera in spagnolo e tradotta in tedesco non entra (volutamente) troppo nei dettagli, si limita però a fornire alcune indicazioni importanti e dare un orientamento politico generale non secondario per lo scenario futuro che la Chiesa in Germania dovrà affrontare a breve: come gestire il rivoluzionario cammino sinodale che, ovviamente, non si baserà solo sulla piaga degli abusi. In questi due anni la base cattolica tedesca si è espressa a favore di tutto quello che Roma non vuole: abolizione del celibato, sacerdozio femminile, benedizione di coppie gay.

L'ombra tra America e Vaticano: esplode il "caso Biden". Francesco Boezi il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. Il Vaticano spegne le velleità dei vescovi conservatori sulla comunione a Biden. Ma tra Santa Sede ed episcopato americano esiste un problema sulla figura del presidente. Joe Biden, il cattolico, non ha mai dato segni di nervosismo per questa storia della comunione. Però negli Stati Uniti se ne discute. Tanti, in specie i conservatori che operano presso l'episcopato americano, pensano che l'eucarestia non possa essere concessa a chi si dice pro aborto e pro eutanasia. Il caso è di scuola. Da quando Donald Trump ha salutato la Casa Bianca, i vescovi americani hanno iniziato a monitorare Biden e le sue politiche. Il fatto che abbia destrutturato passo passo le disposizioni pro life del predecessore può non aver aiutato. Comunque è nata una commissione vescovile, la cosiddetta "commissione Biden", che si è proposta anche lo scopo di studiare a fondo gli indirizzi politici del presidente Dem. Cattolico significa universale, ma non nel senso che tutto va bene. Poi dev'essere successo qualcosa. O comunque la commissione deve aver manifestato volontà di impedire la comunione al successore di The Donald. Al termine dei primi lavori era trapelata una riflessione in corso. I toni comunque non erano stati proprio concilianti. Non si spiega altrimenti la presa di posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede che, dopo aver tuonato contro le benedizioni alle coppie omosessuali dei vescovi tedeschi, ha deciso che era il caso d'intervenire sulla querelle presidenziale e dottrinale americana. Negli Usa prevalso (o comunque ha fatto capolino con una certa incidenza) la linea rigida dell'episcopato americano. E l'ex Sant'Uffizio ha subito spento le fiamme, Il cardinal Ladaria, come riporta la rivista gesuitica America Magazine, è stato chiaro, ammonendo i vescovi sui loro compiti. Per il cardinale i presuli "dovrebbero raggiungere e impegnarsi in un dialogo con i politici cattolici all’interno delle loro giurisdizioni che adottano una posizione pro-choice riguardo alla legislazione sull’aborto, l’eutanasia o altri mali morali, come mezzo per capire la natura delle loro posizioni e la loro comprensione dell’insegnamento cattolico", come si legge sul blog di Sabino Paciolla, che ha affrontato la questione con tutti i particolari del caso. Il porporato che Bergoglio ha scelto per guidare la Congregazione che fu di Joseph Ratzinger, pur lasciando qualche margine alle decisioni dei vescovi degli States, ha anche aggiunto che "sarebbe fuorviante se una tale dichiarazione desse l’impressione che l’aborto e l’eutanasia da soli costituiscano le uniche questioni gravi dell’insegnamento morale e sociale cattolico che richiedono il massimo livello di responsabilità da parte dei cattolici". Significa che i presuli a stelle e strisce non sono nella facoltà di "scomunicare" Joe Biden. Se Ladaria, nel caso delle benedizioni alle coppie gay dei vescovi tedeschi, era apparso a favore dei conservatori, oggi dal Vaticano arriva una voce che guarda alla bioetica con uno sguardo meno monolitico. Equilibrio è forse la parola chiave per spiegare le recenti prese di posizione di una delle Congregazioni essenziali della Santa Sede (non che le altre non lo siano). Per ora non è arrivata una vera e propria reazione dei vescovi conservatori, ma è possibile che qualcuno abbia storto il naso. Biden, per la destra ecclesiastica, è il fautore di quella "colonizzazione ideologica" che lo stesso papa Francesco contesta. Ma insomma la lettera di Ladaria eviterà possibili incidenti diplomatici o imbarazzi liturgici: si pensi al presidente degli Stati Uniti d'America che non riceve la comunione durante una Messa per avere il quadro completo della discussione. Ci si sbraccerà in ogni caso. Il fatto che aperture su eutanasia e aborto non vengano considerate condizioni sufficienti per non accedere alla comunione susciterà le critiche della base dei conservatori. Non sarà strano assistere a commenti sull'"ennesimo" attacco alla dottrina del corso bergogliano. La materia è complessa e Ladaria ha lasciato intendere che il primo compito è dialogare. I tradizionalisti direbbero che il "dogma" del dialogo vuole superare in gerarchia la verità delle scritture e che non può. Emerge una forte polarizzazione: l'era Trump non è finita. O meglio, l'ex presidente può non abitare più presso la Casa Bianca, ma il dibattito americano è fortemente animato da spirito di contrapposizione. E forse è anche per questo che il cardinal Luis Francisco Ladaria, che comunque motiva dottrinalmente il suo, che non è un semplice punto di vista, ha evitato di fornire supporto alla via oltranzista.

La Germania “sfida” Roma. Lorenzo Vita su Inside Over il 9 maggio 2021. Potenza internazionale e impero universale. Germania e Vaticano tornano a incrociare i loro destini e a farlo con i toni dello scontro. Non una novità nella storia della Chiesa cattolica. Ma oggi la rivolta assume connotati diversi, che si inseriscono nel quadro di una guerra tra chiese all’interno della Chiesa, cambiamenti culturali e una lotta tra mondo progressista e conservatore che travalica la questione dottrinale per ergersi a problema di natura transnazionale e sociale.

La Chiesa tedesca e la spinta progressista. Da molto tempo una larga fetta della Chiesa tedesca si è imposta come alfiere delle visioni più moderniste. Una scelta di molti cardinali tedeschi, fra le quali spiccano eminenti personalità, in cui si inquadra l’idea della benedizione per le coppie omosessuali organizzata a partire da lunedì 10 in alcune diocesi. La presa di coscienza della parte più ribelle del clero tedesco arriva in una fase storica di profonda crisi e trasformazione della Chiesa, che rischia di perdere completamente la linfa vitale nella grande “patria” europea. Un percorso che si va a intersecare tra l’altro con un pontificato considerato da più parti come profondamente innovativo rispetto a quelli precedenti anche sui temi come quelli dei diritti civili. Il regno di Francesco è stato per certi versi anche sovraesposto in questa narrazione da gran parte dei media. Molto spesso con l’interesse di portare il Papa dalla propria parte politica piuttosto che per un’attenta analisi delle affermazioni del pontefice. La domanda, in ogni caso, sorge spontanea: perché proprio durante il pontificato che si è mostrato più aperto sulle tematiche sociali e dei nuovi diritti, una parte della Germania cattolica preme per avere nuove e rivoluzionarie aperture, a partire dalla “sfida” della benedizione delle coppie omosessuali? C’è solo un voler sfruttare i tempi?

Una potenza economica. Escludendo da questa analisi il dibattito dottrinale, la risposta può essere trovata sotto il profilo politico. La Chiesa tedesca è una delle grandi potenze della cristianità europea e mondiale. La sua forza non deriva soltanto dal legame con un Paese che rappresenta ancora oggi la locomotiva d’Europa, ma anche per una precisa questione di natura finanziaria. Croce e delizia della cattolicità tedesca, il finanziamento della Chiesa teutonica deriva, infatti, dall’imposta ecclesiastica. In pratica, le istituzioni religiose riconosciute come corporazioni di diritto pubblico hanno il potere di imporre ai fedeli che si dichiarano appartenenti a quella religione una sovrattassa sull’imposta sul reddito delle persone fisiche che sarà incassata dagli Stati federali e poi versata alle varie Chiese. Il sistema così studiato ha portato a due effetti: da un lato all’aumento esponenziale delle ricchezze (molto superiori a quelle della Chiesa italiana, per esempio); dall’altro alla perdita di fedeli che non avevano più intenzione di pagare questo surplus di tasse e che possono evitarlo solo abbandonando formalmente la Chiesa. Questa vera e propria potenza finanziaria della Chiesa ha spesso creato non pochi imbarazzi. Lo stesso Benedetto XVI, figlio della Germania cattolica, aveva manifestato un certo dissenso per questa imposizione fiscale. Ma il sistema è rimasto invariato continuando a riversare miliardi in una formazione che si è così resa non solo sempre più indipendente economicamente da Roma, ma anche politicamente. E oggi, il frutto di questa forza economica e politica è anche nella scelta di imporre continuamente un pressing sul Vaticano su temi particolarmente delicati e su cui sta invece puntando la parte ultraprogressista della Chiesa tedesca che si erge a tutela non solo delle coppie omosessuali nella cattolicità, ma anche di una serie di fenomeni sociali e culturali che sono sempre più simili alla new left mondiale.

Una sfida anche geopolitica? Il connubio tra potenza economica, visione culturale progressista e convergenza con una certa leadership politica, in particolare della nuova amministrazione americana, è interessante anche dal punto di vista geopolitico. La Germania di oggi sembra potersi ergere, sia con l’avvento dei Verdi come potenziale partito leader, sia con l’avvento di una visione progressista, come nuovo modello. Un nuovo paradigma europeo che piace all’America di Joe Biden e che si contrappone a tutto quel cosmo conservatore più affine ai rivali dei democratici ma anche ai rivali strategici degli Stati Uniti. La svolta ecclesiastica non può essere considerata decisiva, né estremamente repentina. Anche parlare di scisma per quanto riguarda la benedizione delle coppie omosessuali in alcune parrocchie rischia di essere frutto di una sopravvalutazione. Tuttavia, è abbastanza evidente che dalla Chiesa cattolica tedesca sia partito un input da non sottovalutare anche in funzione di un nuovo assetto culturale europeo e della stessa cristianità nel Vecchio Continente. L’apertura a nuovi modelli culturali e ai temi dei diritti civili può essere considerata, da alcuni, come un modo di aprirsi a un cambiamento in atto nella società per cercare di fermare l’emorragia di fedeli. Ma non va sottovalutato anche il piano più pragmaticamente politico: con l’evoluzione nel campo progressista, il clero tedesco, forte anche finanziariamente, diventa anche il simbolo di una nuova Ecclesia. E la nuova Ecclesia può simboleggiare un cambiamento anche politico della Germania, e quindi dell’Europa. L’impero universale della Santa Sede rischia dunque di trasformarsi nel teatro di una sfida ben più complessa e articolata del puro dibattito di dottrina sulle persone omosessuali.

C'è un pericolo di "scisma"? Il vento che spaventa la Chiesa. Francesco Boezi l'11 Maggio 2021 su Il Giornale. La spinta propulsiva della Chiesa tedesca anima il dibattito. E ora la parola "scisma" non è più un tabù persino tra alcuni ecclesiastici. Un pericolo che viene ventilato da tempo ma che mai come oggi era stato dibattuto in pubblico. Scisma - abbiamo già avuto modo di scriverlo - non è una parola da usare con nonchalance. Per la Chiesa cattolica, ogni divisione può essere, e anzi è, drammatica. Lo dice spesso anche il Papa che il verbo greco diaballo, cioè separare o dividere, è l'attività propria del demonio. I cattolici dunque non scorporano, semmai universalizzano, unendo. Da un po' di tempo a questa parte, però, sono stati gli stessi ecclesiastici a supporre la declinazione pratica di quel termine, disegnando prospettive che nessuno tra i consacrati e i fedeli si augura. Capiamoci: ad oggi non esistono le condizioni per ipotizzare che uno scisma sia sull'uscio della storia o che uno scisma risieda nei piani e nelle strategie di questo o di quell'attore ecclesiastico. Esiste una dialettica pubblica che spesso coinvolge quella espressione. E bisogna prenderne atto in termini di cronaca "vaticana". Per ultimo è stato il cardinal Camillo Ruini, che ha scelto le pagine de Il Foglio per avvertire quantomeno di un "rischio". In pochi, qualche mese fa, si sarebbero aspettati che la modifica dottrinale attorno cui potrebbe ruotare l'unità della Chiesa universale per il futuro verta dalle parti delle "benedizioni per le coppie omosessuali". Quello è l'obiettivo divenuto mainstream in queste ultime settimane. E utilizziamo "obiettivo" perché è la Chiesa progressista, in specie quella tedesca, che sta premendo affinché quella tipologia di benedizione venga concessa in via ufficiale. Roma, nel senso del Vaticano, si è già espressa. Ma dagli ambienti ecclesiastici teutonici non è pervenuta un'accettazione senza polemiche della posizione diffusa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Anzi, sembra che parte della Chiesa tedesca, al netto dei suoi vertici, abbia promosso per il 10 di maggio una sorta di controffensiva, con una benedizione collettiva. Non esattamente quello che in gergo si chiama segnale di distensione, in questo caso non politico nel senso laico ma dottrinale sì. Prima di Ruini, era stato il cardinal Gualtiero Bassetti, odierno presidente della Conferenza episcopale italiana, a parlare di "altre strade", rivolgendosi a coloro che usano criticare l'azione di papa Francesco. ma la Chiesa tedesca non fa parte dei critici di Jorge Mario Bergoglio. Lo "scisma", che sarebbe dovuto provenire dalle rivendicazioni della "destra ecclesiastica", potrebbe trovare spazio nelle velleità della sinistra ultraprogressista. Dalle benedizioni alle coppie omosessuali si potrebbe passare ad ulteriori richieste. Tra quelle di una parte della Chiesa tedesca, possono essere annoverate: l'abolizione del celibato sacerdotale, la creazione di "sacerdotesse", la progressiva laicizzazione della gestione delle parrocchie, con possibile estensione della facoltà di distribuire sacramenti in favore dei laici, e dunque la creazione di "viri probati", e così via. Il cattolicesimo non sarebbe più quello che abbiamo conosciuto. Il Papa, che viene tirato in ballo dagli opposti "schieramenti", per ora non ha mosso ciglio, se non appellandosi al senso di unità. Ripercorrendo i fatti di questi otto anni di pontificato, è possibile notare come, a parte le aperture contenute in Amoris Laetita e le frasi favorevoli alle leggi che introducono nei sistemi giuridici delle leggi sulle unioni civili, il Papa non abbia per ora assecondato le spinte culturali dei progressisti senza freni. Qualcuno può sostenere che Francesco certo non abbia sposato le istanze e la narrativa dei conservatori, soprattutto su multiculturalismo e politiche migratorie. Tuttavia, a conti fatti, e almeno sino a questo momento, alcune battaglie dei progressisti che operano all'interno della Chiesa non sembrano essersi imbattute in difese piazzate male. Anche per questo motivo, è divenuto quasi più semplice dibattere di uno "scisma" proveniente da sinistra, mentre l'ipotesi dello "scisma" di destra ha perso nel tempo in sostanza. Molto di quello che accade di questi tempi lascia intendere che lo strappo - nel caso dovesse davvero verificarsi - possa compiersi per via di volontà progressiste. Ma è anche possibile che tutto questo processo faccia parte, in modo più banale, di un fenomeno di scosse di assestamento dovute ad un'istituzione immutabile che è in evoluzione. In questo secondo caso, però, sarebbero i cosiddetti tradizionalisti e i conservatori a poter decidere di percorrere di "altre strade". Nessuno tra i cattolici - è bene ribadirlo - può sperare in uno "scisma". Bisogna limitarsi a sottolineare quanto questa parola venga utilizzata di questi tempi da alcuni attori istituzionali (o ex istituzionali) della Chiesa cattolica. Un termine che, tuttavia, se si è cattolici non può non essere accostato al "rischio".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento.

Così la Chiesa tedesca ha "tradito" Ratzinger. Francesco Boezi l'11 Maggio 2021 su Il Giornale. La Germania ha del tutto abbandonato la "dottrina Ratzinger". Sacche di resistenza del conservatorismo provano ad evitare il trionfo progressista. Dicono che con Joseph Ratzinger sul soglio di Pietro la Chiesa avrebbe affrontato l'avvento del progressismo con un atteggiamento diverso. Lo dicono, certo, ma forse sono i tempi a dettare l'agenda di tutti. Persino a una istituzione così granitica come la Chiesa cattolica, che è costretta oggi a porsi problemi culturali e dottrinali poco immaginabili sino a qualche decennio fa: cambiamenti di paradigmi complessivi che presentano concetti innovativi e "nuovi diritti", in un contesto dove la cultura occidentale non è più quella considerata tradizionale. Per dirla meglio: forse Benedetto XVI, che dell'avvento dei "nuovi diritti" e del progressismo esasperato aveva iniziato a parlare molto tempo fa, aveva previsto il calendario culturale del futuro. E allora si spiega meglio il perché della rinuncia: il "mite professore" di Tubinga potrebbe aver scelto di fare un passo indietro, per consentire ad energie nuove di affrontare l'avvento effettivo dei suoi pronostici. Altri, in maniera più ideologica, si limitano a constatare come l'avvento del laicismo e della secolarizzazione sia ormai un fatto compiuto. Sono tutte suggestioni, ma magari neanche troppo. Certo fa specie pensare che molte delle richieste di cambiamento interne alla Chiesa, buona parte dell'alleanza stipulata tra quel progressismo e certe velleità ecclesiastiche, provengano dalla Germania. Non che Ratzinger non si sia mai confrontato in punta di dottrina con i suoi compatrioti ecclesiastici, anzi. Basti ricordare i raffronti con il cardinale Walter Kasper. Ora però la strada sembra libera. Comunque in Germania esistono ancora coloro che si definiscono "ratzingeriani". Per quanto la definizione in questione possa prestarsi male ed essere frutto di semplificazioni. Chi si oppone al "Sinodo biennale" - quello tramite cui la Conferenza episcopale tedesca potrebbe arrivare ad adottare tutta una serie di cambiamenti in barda alle indicazioni del Vaticano - può essere definito "ratzingeriano". Se non altro perché il fronte conservatore è tuttora composto, sulla scia del pensiero dell'emerito ma non solo, da persone contrarie all'abolizione del celibato sacerdotale, alla concessione della benedizione per le coppie omosessuali e così via. Al netto di ogni singolo punto sollevato, è la tendenza generale degli episcopati tedeschi ad aver preso le distanze dal "ratzingerismo". L'elenco delle cose cui sono contrari i "ratzingeriani" è lo stesso che contiene le modifiche in cui spera chi ratzingeriano non è (e forse non è mai stato). Del resto lo aveva messo nero su bianco lo stesso pontefice emerito: "Lo spettacolo delle reazioni della teologia tedesca è così sciocco e così cattivo che è meglio non parlarne. I veri motivi per cui vogliono silenziare la mia voce non voglio analizzarli". Il virgolettato - come riporta Aska News - è contenuto in Benedikt XVI.- Ein Leben (Benedetto XVI – Una vita), l'ultima opera biografica di Peeter Seewald. Ratzinger ha continuato a scrivere, dunque a dire la sua, anche dopo aver rinunciato al soglio di Pietro, e forse questo non è andato a genio a tutti. Poi c'è la versione di chi sostiene che la Germania progressista sia la favorita di Francesco: i fatti ad oggi dicono che nessuna delle richieste derivate dalla dialettica interna al "Sinodo biennale" è stata approvata dal pontefice regnante. Vedremo alla fine del "Concilio", cioè quando i tedeschi riuniti comunicheranno di aver preso decisioni, che potranno essere "vincolanti" o no. Dipende dalle possibili marce indietro rispetto alle intenzioni, che pure di "vincoli" si erano occupate. Certo la Chiesa immaginata oggi dal progressismo teutonico, dalle benedizioni per le coppie omosessuali alla laicizzazione della gestione parrocchiale, passando soprattutto per l'abolizione del celibato sacerdotale, non è quella che i conservatori vorrebbero. E se è vero che Ratzinger è stato uno strenuo difensore del conservatorismo dottrinale, allora il sillogismo diviene elementare. Più in generale, la Chiesa teutonica sembra intenzionata all'abbraccio al mondo, mentre Benedetto XVI pareva convinto della possibilità di traghettare il cattolicesimo oltre il guado del relativismo anche mettendo in discussione l'influenza sul globo dell'Ecclesia. Che il "relativismo" secondo categorie ratzingeriane sarebbe arrivato era chiaro. Le differenze dipendono dalle modalità di ricezione.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 25 aprile 2021. In Germania (sull'orlo dello scisma) si stanno fortemente radicalizzando le posizioni tra coloro che sono favorevoli alle riforme per un maggiore ruolo delle donne nella Chiesa e coloro che vorrebbero, invece, evitare il sacerdozio femminile. Da un paio d'anni in qua, da quando è stato avviato dai vescovi un cammino sinodale che potrebbe sfociare nell'adozione di misure contrarie al Magistero, il tema della questione femminile sta diventando sempre più macroscopico, fino a tirare in ballo la libertà di stampa. L'agenzia dei vescovi Kna ha sintetizzato la partita in gioco mettendo in evidenza la bufera che ne è scaturita, partendo dalla analisi di una autorevole teologa, Johanna Rahner la quale ha sentenziato: «chiunque non voglia cambiamenti non è altro che un razzista». L'accusa di razzismo nemmeno troppo velata che ha rivolto a cardinali e vescovi che avanzano con il freno a mano tirato e che aderiscono alla dottrina classica della Chiesa ha scatenato un putiferio. Il vescovo di Passau, Stefan Oster, è stato uno dei primi a scagliarsi contro l'accusa di razzismo. «Ciò che è grottesco è che noi vescovi, ai quali spetta la speciale responsabilità di difendere la dottrina, permettiamo pure il finanziamento (con i soldi della Chiesa) di certi media cattolici ai quali forniamo così un grande palcoscenico per essere definiti 'razzisti'». Il vescovo Oster ha così aperto senza volerlo un altro fronte, in seno alla Chiesa tedesca, a proposito della libertà accademica e della libertà di stampa. Naturalmente acuendo ancora di più la battaglia. La teologa non si è data per vinta e parlando a una conferenza di donne la scorsa settimana ha formulato una tesi. Partendo dal presupposto che «occorre parlare della discriminazione in atto contro le donne e che le donne nella Chiesa non sono quelle che possono cambiare le cose» ne consegue che gli uomini avrebbero dovuto «fare della questione della giustizia di genere la loro questione». Secondo la teologa gli uomini di Chiesa avrebbero però bisogno di «uscire dall'indifferenza verso i loro privilegi e dalla zona di comfort». Ecco perchè «chiunque non voglia cambiare non è altro che un razzista». Le parole della teologa e la successiva presa di posizione del vescovo Olster per limitare la libertà di stampa nella Chiesa ha fatto divampare l'incendio. L'Associazione della stampa cattolica tedesca (GKP) in primis ha messo in luce: "Coloro che affermano che la diffusione di contenuti impopolari sono una ragione per mettere in discussione il finanziamento dei media della chiesa rivelano una comprensione premoderna, autoritaria e dirigista della comunicazione". Il gruppo cattolico di riforma "Wir sind Kirche" ("Noi siamo la Chiesa"), ancora più duro, ha aggiunto che è «rivelatore che il vescovo di Passau, nel mezzo del processo del Cammino sinodale in Germania, rivolga minacce contro i teologi che la pensano diversamente e anche contro i media cattolici che sono disposti a impegnarsi nel dialogo». Infine il potente gruppo di riforma "Maria 2.0" ha dato manforte parlando di una «intollerabile invasione della libertà di pensiero e di parola» e di una mancanza di rispetto per la libertà di stampa e di espressione nella Chiesa. A gettare acqua sul fuoco è dovuto intervenire il presidente dei vescovi tedeschi, l'arcivescovo di Limburg, Baetzing chiedendo alla illustre teologa di moderare un po' i termini perchè la questione, posta in quel modo, «non porterebbe frutti».

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 6 aprile 2021. «Lo scisma in Germania? Di fatto è già iniziato. Tecnicamente possiamo parlare di scisma quando è in atto un processo che porta a distaccarsi dalla comunione gerarchica, dal Papa». Il cardinale Walter Brandmuller, presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche, grande conoscitore delle dinamiche della Chiesa, ha pochi dubbi su quello che sta accadendo. «Lo scisma, in parole povere, è la negazione della comunione gerarchica al vescovo o al Papa, cosa che sta succedendo sotto i nostri occhi, basta vedere anche le dichiarazioni o le prese di posizioni di tanti vescovi tedeschi».

Da tempo ci sono richieste di riforme sostanziali per esempio sul fronte del celibato sacerdotale, dell'ordinazione femminile e anche, ultimamente, la benedizione delle coppie gay...

«La domanda più pressante di queste riforme nasce soprattutto dai funzionari del cattolicesimo organizzato, dai movimenti, dal Comitato centrale dei cattolici tedeschi che poi sono per la stragrande maggioranza dipendenti delle strutture ecclesiastiche perché, non dimentichiamo, che la Chiesa cattolica è il secondo datore di lavoro dopo lo Stato in Germania. Per tornare allo scisma bisogna stare attenti a non confondere due aspetti, lo scisma e il dissenso sul piano dottrinale a proposito della dottrina, perché in questo caso si tratta di eresia. Nel caso tedesco abbiamo entrambi questi aspetti».

Magari è solo una fase di crisi passeggera...

«La situazione in Germania a mio parere è compromessa perché non solo vi è la negazione della comunione gerarchica, ma vi è anche dissenso sul piano magisteriale. A volte ci possono essere dei dissensi che non necessariamente implicano uno scisma. Questo caso, invece, è tutto nuovo e a mio parere preoccupante».

La distanza con Roma si potrebbe amplificare ulteriormente?

«Come le dicevo: in questo caso abbiamo anche il dissenso a livello dogmatico sulle verità di fede. Cosa che implica il delitto di eresia. Quello che accade in Germania è sia scisma che eresia sotto il profilo dogmatico».

Perché sono arrivati a tanto secondo lei?

«Chiedono da tempo il sacerdozio femminile, la comunione ai risposati divorziati, la accettazione dell'omosessualità, la benedizione delle coppie gay. E' uno scivolamento sulle posizioni protestanti, forse vogliono una Chiesa unita con i protestanti».

E la questione sul celibato sacerdotale?

«Pur non trattandosi di una questione dottrinale si tratta sempre di tradizione apostolica. Inaccettabile».

Secondo lei chi si unirà a questo scisma?

«Non saprei con precisione. Posso però affermare con certezza che la maggioranza dei cattolici tedeschi è indifferente a tutto questo. Abbiamo una società altamente secolarizzata, la partecipazione alla messa domenicale riguarda al massimo il 10 per cento delle persone. Chi aderisce alle tesi progressiste sono persone legate al Comitato Centrale cattolico ma la maggioranza dei fedeli è indifferente, mi creda. Il secolarismo galoppa veloce e la distanza dei fedeli dalla Chiesa è aumentata».

Tecnicamente quando viene avviato uno scisma?

«E' un processo. Non c'è un atto singolo. Gli scismi storici si sono concretizzati con il tempo partendo dal fatto che si non riconoscevano più l'autorità del Papa e della gerarchia. L'inizio di un atto scismatico è questo, poi le forme si realizzano in modo diverso. Per esempio il grande scisma di occidente nel 1054 non è stato il frutto di un unico momento. Non si è cristallizzato in una certa data ma piuttosto è stato un processo formalizzato poi nel XII secolo».

E poi c'è stato anche Lutero...

«Quella era una eresia, più che uno scisma. Lutero negava dogmi fondamentali, egli rifiutava i sacramenti eccezion fatta per il battesimo e l'eucarestia. In ogni caso è difficile contare gli scismi nella storia. Nella Chiesa antica per esempio sono stati tanti e poi coi secoli sono andati diminuendo».

E lo scisma di Lefebvre?

«I lefebvriani sono molto fedeli ma non riconoscono negli sviluppi del Vaticano II che, secondo me, è stato mal interpretato nel senso che non distinguono tra il valore dogmatico e vincolante delle quattro costituzioni dogmatiche e di quei testi di contenuto disciplinare pratico che sono di carattere pastorale giuridico e che perciò sono sottomessi al cambio della storia».

Ma lei non pensa che sia giusto assegnare alle donne nella Chiesa un peso maggiore rispetto a quello che hanno sempre avuto finora, cioè quasi zero?

«In futuro le donne possono avere un ruolo di grande importanza. Possono essere responsabili delle finanze della Chiesa, per esempio. Possono dirigere lo Ior ma non possono ricoprire un ruolo di Segretario di Stato o un prefetto di congregazione perchè è indispensabile l'ordinazione sacerdotale. Possono avere ruoli di vertice in tutti i ruoli dove si tratta di una conseguenza dell'ordine sacro».

La Chiesa continuerà a essere sempre così maschilista?

«La Chiesa ha due livelli, il dogma dei sacramenti e la sua posizione nella società odierna. La donna potrà avere ruoli di vertice nel secondo campo, senza alcun problema. Ma non potrà mai fare il prete, il vescovo...»

Nemmeno la cardinalessa?

«C'è un dibattito. Ma l'elezione del papa nel conclave è un atto di altissimo ministero pastorale legato al sacramento dell'ordine».

Povere donne, sempre ai margini...

«Siamo molto più poveri noi uomini, pensi che noi non riusciremo mai a partorire...»

·        Il Vaticano e l’Italia.

"Per i cristiani la politica è un campo minato. Identità cattolica a rischio: servono risposte forti". Serena Sartini il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e segretario personale di Benedetto XVI, interviene sui temi etici sollevati da Berlusconi: "Senza il cristianesimo non esisterebbe la libertà e neppure il liberalismo". «La politica è un campo minato per un cristiano» ma resta «la più alta forma di carità», come diceva Paolo VI. Per questo, «è necessario che i cristiani siano presenti nella politica con le loro convinzioni e con la loro testimonianza». In tal senso, «non esiste una politica cristiana, ma solo politici cristiani». Sul dibattito in tema di identità cristiana sollevato da Silvio Berlusconi, interviene monsignor Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare del Papa emerito, Benedetto XVI. «Fare politica con convinzioni cristiane - osserva l'arcivescovo - è la forma più raccomandabile e anche desiderabile nei nostri giorni». Parla delle radici cristiane, del laicismo e del relativismo, di una identità cristiana a rischio. E citando Benedetto Croce («Non possiamo non dirci cristiani») afferma: «Il suo messaggio è attualissimo».

Il tema dei valori non negoziabili è stato un cavallo di battaglia del Papa emerito Benedetto XVI. Lei lo ha accompagnato in tutti questi anni. Quali sono i valori che esprimono l'identità di un autentico cristiano?

«Rispondo con una controdomanda: oggi si conosce ancora il significato più profondo dell'espressione valori non negoziabili? Si sa cosa essa significhi? Quali siano questi valori? Comunque sia, in fin dei conti, non dipende tanto dall'espressione in sé, che può cambiare o variare, piacere o non piacere, quanto invece dal suo contenuto: questo è ciò che conta. Vale a dire, certamente anche e anzitutto nella nostra epoca i valori cristiani sono da difendere e da vivere: ma vivere con e per i valori cristiani è il punto più importante, fondante. Essi restano parola morta se non vengono incarnati nella propria vita e nella propria realtà quotidiana. In termini concreti, i valori cristiani danno al nostro essere una dignità incancellabile, una grandezza unica e un senso profondo».

In una società, come quella italiana ed europea, segnata da laicismo, dall'individualismo, dall'edonismo, quanto è difficile esprimere e testimoniare la propria identità cristiana?

«L'identità di tutto il continente europeo non si comprende senza il cristianesimo, ciò vale in particolar modo nel caso dell'Italia. La fede cristiana ha formato la sua cultura, ha permeato la sua storia in un legame quasi indissolubile. Indubbiamente, la fede cristiana è un fatto personale e intimo, non può e non vuole avere corsie preferenziali, ma è un fatto che ha segnato e segna il cuore anche dell'uomo contemporaneo. Se si abolissero i valori cristiani, si abolirebbe nello stesso tempo anche il valore sociale dell'amicizia, della solidarietà, del sostegno reciproco, che sono gli elementi fondanti dell'esistenza personale ed individuale e della costituzione della società. La fede è propriamente legame, fiducia e affidamento. È la decisione di seguire e di essere fedele, riconoscendo una verità in cui la propria vita è data, accettata e compresa. La fede è un antidoto efficace a tutti questi ismi, nella loro accezione negativa».

Come è possibile, per un vero cristiano, testimoniare la propria fede nella politica, nella dimensione economica e sociale?

«Paolo VI affermava: La politica è la più alta forma di carità. Questa espressione ed il suo contenuto essenziale sono stati ripetuti e fatti propri successivamente da tutti i Papi, fino a Papa Francesco. Tuttavia, è anche vero che la politica, per diversi motivi, è un campo minato per un cristiano. Ma proprio per questa infida motivazione è necessario che i cristiani siano presenti nella politica con le loro convinzioni, con la loro testimonianza, con un'ortoprassi conseguenziale. Lì s'incontrano opinioni, idee, ideologie, atteggiamenti ed esperienze diverse, a volte opposti e ostili. La politica è nient'altro che una fotografia realistica della società in cui viviamo. Non possiamo cercare, tanto meno creare isole felici per fare una politica cristiana. D'altronde, non esiste neanche una politica cristiana, esistono solo politici cristiani, cioè uomini e donne che hanno una formazione, una educazione cristiana e di conseguenza, una convinzione e una coscienza cristiana, che sono il fondamento per il loro agire in politica. Qui si dovrebbe notare la differenza. La propria fede nell'uomo politico si manifesta nel contenuto del suo agire, nel comportamento personale, nelle decisioni per le quali si impegna e lotta. Fare politica con convinzioni cristiane è la forma più raccomandabile e anche desiderabile nei nostri giorni. E ciò vale per tutti i campi della politica: economia, finanza, cultura, vita sociale, sport...».

L'identità cristiana è oggi a rischio?

«Dalla domanda sul laicismo risulta chiaramente che l'identità cristiana è a rischio. Ma lamentarsi non serve, non cambia niente. Questa constatazione deve piuttosto dare un impulso, un incentivo forte a fare tutto il possibile perché il rischio trovi risposte adeguate, chiare, coraggiose e forti. È una sfida che va vissuta nella quotidianità, con coraggio: si deve combattere, ma soprattutto testimoniare pur nell'incontro e nel confronto dialogico con realtà differenti ed antitetiche».

Il tema delle radici cristiane in Europa è ancora attuale?

«Attualissimo, direi! Per sincerità e completezza dobbiamo però affermare che non sono solo le radici cristiane, ma le radici giudaico-cristiane che hanno formato il nostro continente e anche l'Italia. Senza il cristianesimo non esisterebbe la libertà, neanche il Liberalismo. Il cristianesimo ha in sé la premessa per i più importanti dei nostri valori: l'uomo come immagine di Dio è il fondamento per la dignità umana, la libertà, l'uguaglianza, la tolleranza, la solidarietà, il rispetto. Non dimentichiamo che il nostro corretto comportamento nei confronti degli altri, indipendente dallo stato personale, dall'origine, dalla razza, dalla pelle, dalla cultura, dalla religione, dalle idee politiche, dipende dalla rivoluzione cristiana. E non è mai utile né produttivo recidere le radici dalle quali siamo cresciuti».

Quale è la strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano?

«Non è opportuno e neanche necessario creare in modo esplicito una strategia per i cristiani. Cadremmo in forme di integralismo. Sembra banale e semplicistico, ma non lo è: basta vivere e praticare la fede. Chi vive la fede in modo intelligente, convincente e con un senso dell'umorismo è un testimone silenzioso ma molto efficace. I contemporanei sono ipersensibili per questa forma di evangelizzazione silenziosa, afona, ma reale. Conta l'esempio personale senza grandi parole e gesti. Ci vuole poco, ci vogliono una formazione robusta ed una prassi abitudinaria e costante ispirata della fede. Sarà da esse che susciteremo negli altri domande e quesiti di carattere ontologico. L'esempio personale è la strategia, voglio usare il suo termine, da proporre e da applicare!».

Benedetto Croce scrisse il volume «Perché non possiamo non dirci cristiani». È ancora attuale questa citazione?

«Penso proprio di sì. È attualissimo e quanto mai opportuno riproporlo alla meditazione condivisa!» Serena Sartini

DAGOREPORT il 9 febbraio 2021. La storiella del “Vaticano prima sponsor di Conte” è una sacra balla. Del resto, pur essendo devoto di Padre Pio nonché allievo di Villa Nazareth, piccola fucina di élite cattoliche (progressiste) che fu del cardinale Achille Silvestrini, durante ben due governi da lui presieduti Conte non è mai stato ricevuto da Bergoglio in “udienza ufficiale” ma ha incontrato il pontefice solo in udienza privata. Inoltre, tradizione vuole che il premier uscente da Palazzo Chigi vada a salutare il Papa, la cosiddetta “visita di cortesia”. Sul perché del mancato feeling tra Conte e il Pontefice argentino, le voci sono varie e avariate tra le quali ci sarebbe il suo rapporto con padre Antonio Spadaro, direttore gesuita della rivista "La Civiltà Cattolica’’, collaboratore de “Il Fattoquotidiano” e sponsor di Conte, aggiungere la rete di potere del suo mentore Guido Alpa malvista nella sacre stanze e infine si sussurra tra gli addetti ai livori anche di un misterioso atto riservato presso un tribunale della Santa Sede. Infatti il Draghi allievo dell’istituto Massimiliano Massimo, rigoroso liceo dei gesuiti, non ha nulla a che vedere con il “partito di Spadaro”, attuale direttore de ‘’La Civiltà Cattolica’’, lo storico quindicinale che una volta era la voce della segreteria di stato per trasformarsi poi in una rivista di politica che aborre il salvinismo e ha visto nell’Avvocato di Pio(tutto) il messia. Oggi, tra il gesuita Bergoglio che conosce bene Draghi per averlo nominato membro dell'Accademia delle Scienze Sociali, e il gesuita Spadaro, corre il black-out. Del resto, il  mondo gesuita di riferimento di Draghi era piuttosto quello di padre Bartolomeo Sorge, padre Roberto Tucci e soprattutto di padre Gianpaolo Salvini che per oltre un quarto di secolo è stato alla guida di “La Civiltà Cattolica” per poi finire nelle mani liquidatorie di Spadaro. Quindi oggi dietro le Sacre Mura, il cerchio magico di Papa Francesco è ben felice del Conte Trombato e del prossimo arrivo di San Mario Draghi.

Francesco, i gesuiti e Draghi: spunta l'"ombra" di Ratzinger. Il Papa e il premier hanno molte visioni in comune, a partire dalla crisi economica. Ed è un asse che parte da lontano. Francesco Boezi, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale.  Non sarà una perestrojka nel senso letterale del termine, ma è chiaro che una riorganizzazione complessiva è percepita come necessaria. Il Recovery Fund è l'opportunità concessa all'Italia (e non solo) per ripensare il sistema economico-lavorativo. Se ne parlerà per qualche anno, mentre gli effetti delle scelte che il nuovo esecutivo sta per prendere saranno quantomeno trentennali. La politica si è affidata a Mario Draghi, che ha una visione piuttosto nota: meno sussidi, più investimenti. Un po' sul modello di Keynes. L'esecutivo presieduto dall'ex presidente della Banca centrale europea, in specie per mezzo dei ministri tecnici, gestirà e destinerà i fondi messi a disposizione dall' Unione europea. Il Papa, dal canto suo, parla volentieri della sua visione del mondo, anche in materia economia, in termini di prospettiva generale. Sono due attori del panorama geopolitico continentale e, per certi versi, sembrano avere parecchie idee in comune. Non solo: Jorge Mario Bergoglio ha reso Mario Draghi un membro ordinario dell'Accademia delle Scienze sociali. Era il luglio del 2020. Che il Vaticano sia in grado di anticipare tempi e temi della politica non è poi una così grossa novità. Ma la Santa Sede, in questi ultimi anni, era apparsa particolarmente vicina alla figura del premier Giuseppe Conte, soprattutto durante la seconda fase: il cosiddetto Conte bis. La Chiesa cattolica però non scende nell'agone della politica, almeno non nel senso tradizionale del termine. Al netto delle reazioni non sempre entusiastiche dei commentatori filo-Bergoglio all'avvento del governo Draghi, è probabile che l'esecutivo italiano e le istituzioni del Vaticano continuino a collaborare nella maniera di sempre (se non di più). Se è vero che esiste un rischio spaccatura su Draghi tra gli ambienti ecclesiastici, è vero pure che è stato lo stesso Francesco ad introdurre Draghi come laico di riferimento in Vaticano con la nomina. I due, insomma, non possono essere in conflitto (e non lo sono). Ma qualche differenza di fondo sembra persistere. Per quanto Draghi - come ricordato più o meno da tutti i quotidiani nazionali - sia stato formato in un collegio gesuitico.  C'è un "però": quando l'ex arcivescovo di Buenos Aires si riferisce al mondo che verrà, sembra propendere per l'ambientalismo, la redistribuzione delle ricchezze, i popoli periferici come quelli amazzonici, la critica al neo-liberismo, quindi una sorta di solidarismo economico, la fratellanza universale, che si declina pure in chiave economica con la redditualità universale, e così via. Un mondo, dunque, frutto di una rivoluzione copernicana. Vale anche per l'economia, come ha fatto notare Fox News per la diffusione dei vaccini anti-Covid19 su scala globale: Bergoglio vuole che tutti abbiano diritto all'accesso alle cure, a prescindere dalle zone del mondo in cui si risiede. Sono elementi compatibili con quelli che ha in mente Mario Draghi? Bergoglio ragiona su scala globale, ma è chiaro che la strada che papa Francesco vorrebbe tracciare guarda anche all'Italia. Il premier ha lanciato un messaggio preciso: l'istituzione di un ministero per la Transizione ecologica verte dalle parte delle idee di papa Francesco. E "ambientalismo" è già una delle parole chiave ripetuta in più circostanze di questi primi giorni di nuovo corso a Palazzo Chigi. L'economia solidale di papa Francesco deve dunque confrontarsi con il "neo-liberismo" di Draghi. Bergoglio è il vescovo di Roma. Il successore di Pietro non può che pensare al mondo intero, ma l'Italia costituisce un banco di prova per la Chiesa cattolica, che non a caso sta per organizzare un Sinodo italiano: il Santo Padre sembra intenzionato a sconvolgere alcune logiche acquisite degli ambienti clericali italiani. Può la "rivoluzione copernicana" invocata dal Santo Padre non attecchire proprio nel cuore pulsante del cattolicesimo? Ovviamente no. Ecco perché diventa utile chiedersi su quali basi possa poggiare la dialettica tra il pontefice e l'economista chiamato a guidare l'Italia fuori dal guado di una crisi che rischia di cronicizzarsi. Ettore Gotti Tedeschi è l'uomo giusto con cui parlarne. Banchiere, economista ed ex presidente dello Ior: il professore esordisce subito chiarendo che la teoria, in questa fase, è destinata ad occupare un ruolo secondario. I fondamentali economici registrati di questi tempi non prevedono che si discorra troppo. Sul rapporto tra il pontefice e l'ex presidente della Bce, Gotti Tedeschi afferma che "sarà, o diverrà, un rapporto pragmatico, riferito cioè alla concreta soluzione dei problemi, senza pregiudizi ideologici. Per fare solidarismo e distribuire ricchezza , bisogna prima crearla. Son convinto, anzi non ho dubbi, che Draghi farà anzitutto il bene del Paese nelle complesse circostanze in cui si trova ad operare". Prima di aiutare i poveri, in poche parole, è necessario creare le condizioni per poterlo fare. Poi c'è un dettaglio, che non è sfuggito ad alcuni osservatori. Come ha fatto notare Andrea Muratore su InsideOver, la "dottrina Draghi" comprende pure un commento a Caritas in Veritate. Un'enclica cui Ettore Gotti Tedeschi ha contribuito. L'economista è convinto che Draghi possa basarsi in economia sulle tesi ratzingeriane: "Ne son certo perché sono tesi razionalissime. Per Benedetto XVI - continua Gotti Tedeschi -, l’economia è solo uno strumento in mano all’uomo, è l’uomo che, dando senso all’uso dello strumento, lo trasforma in un mezzo per realizzare il bene comune. Benedetto XVI in Caritas in Veritate sollecita l’uomo a imparare a gestire gli strumenti a sua disposizione. Altrimenti saranno gli strumenti a gestire l’uomo, prendendo 'autonomia morale'. Ed è evidente - chiosa l'ex presidente dello Ior - che uno strumento non possa avere autonomia morale. Il messaggio finale di Benedetto XVI - chiosa il banchiere -, con cui conclude Caritas in Veritate, è che una crisi come quella attuale non si risolve cambiando gli strumenti, ma anzitutto cambiando il "cuore", l’intento morale dell’uomo che li usa", Dobbiamo aspettarci un Draghi ratzingeriano. Si tratta comunque del confronto tra due visioni: una centrata sull'assistenzialismo (o solidarietà) alle "periferie economico-esistenziali", in pieno stile sudamericano, l'altro sull'occidentalismo, che potrebbe anche basarsi su paradigmi tradizionali, che al Papa non sono mai piaciuti troppo. Ma Gotti Tedeschi sgombra il campo dai dubbi sul ventilato "scontro", che non ci sarà: "Io credo che Draghi sappia perfettamente che nel mondo globale negli ultimi decenni sono cambiate le 'regole del gioco' e sappia perfettamente cosa significhi il nuovo multilateralismo indispensabile, pertanto quale ruolo l’Europa, e quindi l’Italia, possa avere , e come, nel contesto globale. Non credo ci sia un disaccordo di principio fra le due visioni, anzi credo che debbano venir ben pianificate e attuate insieme , in modo adeguato". La possibilità di una sintesi è dunque dietro l'angolo. E tutto questo al netto di quelle che sono apparse come critiche provenienti da ecclesiastici o laici vicini alla "Chiesa in uscita": "Io sono certo che I promotori dell’iniziativa di Assisi non stiamo minimamente pensando di influenzare, se non con indicazioni di carattere morale, quello che verrà deciso dal professor Draghi", chiosa Ettore Gotti Tedeschi. Pragmatismo, è bene ribadirlo ancora, è l'obiettivo comune, la parola, che farà da collante. Una congruenza notata pure da Benedetto Delle Site, che rintraccia ulteriori congruenze: "Non dimentichiamo - annota il giovane imprenditore romano -, che il Prof. Mario Draghi si è formato alla scuola di Federico Caffè, economista e accademico italiano ammiratore del modello delle socialdemocrazie scandinave. Oggi quel modello è superato, tuttavia proprio Draghi lo scorso marzo scrivendo sul Financial Times è tornato a sostenere la necessità del ricorso ad un debito produttivo per affrontare la pandemia, mentre Papa Francesco di lì a poco avrebbe lanciato un appello all’Europa di un tenore non dissimile". Una similitudine che investe tanto i toni quanto i programmi: Francesco e Draghi hanno già esposto le soluzioni teoriche al problema. Rimedi molto simili, magari declinati attraverso toni e contesti diversi, com'è normale che sia: "Forse - fa presente l'imprenditore noto anche per il suo impegno come animatore di iniziative ispirate alla Dottrina sociale della Chiesa - un punto di accordo potrebbe essere questo: entrambi ritengono i sussidi e l’assistenzialismo dannosi, ma sono favorevoli a politiche pubbliche in sostegno dell’economia reale e delle nuove generazioni, affinché queste ultime siano in grado di esprimere e accrescere i loro talenti. In questo senso, potremmo dire che entrambi reputano fondamentale che le risorse del Next Generation EU non vadano sprecate alimentando spese di breve periodo in vista dei prossimi appuntamenti elettorali". Giovani, occupazione, ambiente: a pensarci bene, questo potrebbe essere il trittico in grado di accomunare i programmi di Draghi e Bergoglio. Il Recovery Fund sarà gestito dalle mani del governo Draghi, ma il placet del Vaticano, dinanzi a certi investimenti, potrebbe assecondare il disegno politico-economico delle istituzioni laiche. Il Santo Padre è considerato, per certi versi, un "populista di sinistra". Bergoglio ha di sicuro combattuto il "sovranismo" di destra per mezzo di avvertimenti e dichiarazioni. Draghi, in parole povere, è soprattutto un uomo del fare. Il perno - come osservato da Delle Site - potrebbe essere fornito proprio dalle considerazioni economiche ratzingeriane: "Le tesi ratzingeriane sull’economia - ha argomentato il vicepresidente dell'Ucid che, attraverso il dirigente del Coordinamento Giovani Donne, Simona Mulè, ha già chiesto al nuovo governo l'apertura di un tavolo affinché i fondi strutturali siano impiegati di concerto con le maggiori organizzazioni imprenditoriali giovanili - sono un tesoro prezioso per le nostre classi dirigenti, perché non restano nel perimetro dell’economia ma affrontano la dimensione antropologica e ontologica della crisi in atto. Da qui anche l’accento sui pericoli della tecnocrazia, ultimo stadio del naturalismo, che va riducendo il governo dell’umanità ai suoi soli aspetti materiali. La dottrina sociale della Chiesa non offre soluzioni specifiche, ma princìpi e criteri di orientamento che ognuno mette in pratica diversamente, con la propria responsabilità". Potrebbe essere Benedetto XVI a mettere d'accordo le visioni di due uomini, che comunque hanno già in comune la radice gesuitica e non solo.

Dai gesuiti al Papa, il tifo del Vaticano. Sostegno da Oltretevere per l'incarico: "Saprà unire la politica". Serena Sartini, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Già quando si era aperta la crisi di governo, in Vaticano si faceva il nome di Mario Draghi. Una scelta che avrebbe unito il Paese, persona che gode di stima in Italia e all'estero, e che sicuramente, riferiscono dalle sacre stanze, «saprà spendere al meglio le risorse del Recovery Plan». La notizia dell'incarico affidato da Sergio Mattarella a Mario Draghi di formare un nuovo esecutivo è stata accolta «positivamente» Oltretevere. In primis dal Papa che proprio lo scorso luglio aveva nominato l'ex governatore della Bce membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, il think tank vaticano che Draghi aveva già frequentato negli anni passati. «Un economista esperto, proprio quella personalità di alto profilo invocata da Mattarella e che saprà unire le forze politiche per il bene del Paese», assicurano dal Vaticano. Lo stesso Bergoglio, nella recente intervista al Tg5 aveva rivolto un invito all'unità. «La lotta politica è una cosa nobile, i partiti sono gli strumenti. Quello che vale è l'intenzione di fare crescere il Paese. Ma se i politici sottolineano più l'interesse personale che l'interesse comune, rovinano le cose». Il rapporto di Draghi con la Chiesa, e in particolare con i gesuiti, è forte. L'economista non ha mai interrotto il filo che lo lega al mondo cattolico romano. Draghi ha frequentato il prestigioso Liceo Massimiliano Massimo all'Eur, a Roma, e ha mantenuto diverse relazioni con religiosi della Compagnia di Gesù. In un momento di crisi sociale ed economica legata alla pandemia serve unità, per poi «andare oltre» e formare un governo politico, auspica padre Antonio Spadaro, gesuita, direttore de La Civiltà Cattolica, persona molto vicina al Papa. «Quello a cui abbiamo assistito - dice - è stato un momento di crisi non solo di governo ma della politica. L'Italia sta vivendo un momento difficile e per uscire da questo pantano in cui ci siamo trovati, Mattarella ha fatto ricorso a una risorsa importante della nostra democrazia. Una persona che ha tanta stima sia nel nostro Paese che in Europa, persona molto seria, capace di aggregare anche forze politiche diverse sulla base di un progetto. L'ideale per la nostra Italia è avere un governo politico - prosegue Spadaro - viviamo una fase di crisi della politica e anche dei singoli partiti. Forse, però, questa fase risulta essere necessaria per poi andare oltre. E Draghi credo rappresenti una certezza capace di affrontare le grandi questioni attuali: vincere la pandemia, completare la campagna vaccinale, rispondere alle esigenze dei cittadini e rilanciare il Paese». Draghi è «una speranza certificata dalle sue competenze e dalla sua storia di vita» ma «anche le rocce dei giganti si possono sgretolare se i partiti non ritroveranno un'unità nazionale e faranno un passo indietro», gli fa eco padre Francesco Occhetta, grande esperto di politica italiana. «Per i gesuiti - spiega - è un orgoglio averlo avuto come studente e riconoscerlo attento alla nostra tradizione che coniuga giustizia sociale e competenze». D'accordo anche padre Giovanni La Manna, attuale rettore dell'Istituto Massimo. «Draghi è stato capace di interiorizzare uno degli obiettivi del nostro percorso: individuare il bene non solo a livello personale ma anche a livello comunitario».

La Chiesa e Draghi: perché ora rischia la spaccatura. Francesco Boezi su Inside Over il 7 febbraio 2021. Da una parte gli scettici, dall’altra quelli che intravedono una rinnovata sincronia tra i sacri palazzi e le istituzioni: Mario Draghi sta suscitando reazioni miste. Vale per gli ambienti politici, ma anche per quelli cattolici, ecclesiastici o meno che siano. Non sono solo i tradizionalisti ad essere preoccupati per via della presunta aderenza dell’ex presidente della Bce alla stigmatizzata Unione europea. Anche i più progressisti – almeno quelli che hanno guardato con favore alle triangolazioni tra la Chiesa, i giallorossi e l’Oriente – stanno esprimendo più di qualche perplessità. In ottica di diplomazia vaticana, un governo Draghi significa soprattutto atlantismo. Questo almeno è quello che si può evincere dal curriculum di un uomo legato agli Stati Uniti e all’Unione europea. Un atteggiamento che può non essere condiviso da chi aveva visto con favore lo spostamento dell’asse in direzione della Repubblica popolare cinese, almeno in una parte del Vaticano. E sono almeno due, quindi, i fronti agitati per via del nuovo corso che si sta per aprire a Palazzo Chigi. C’è chi palesa una preoccupazione diversa ma comunque pronunciata rispetto a quella mostrata per Conte, e chi naviga sulle ali dell’ottimismo, confidando che Draghi sia sinonimo di normalizzazione diplomatica. L’ex maggioranza sembrava preferire le nuove vie della seta ai tradizionali canali economico-politici con Washington. E anche il Vaticano, almeno finché a presiedere gli Stati Uniti è stato Donald Trump, era posizionato in questi termini, come dimostrato dalle aperture verso Pechino e la rigidità sul nuovo corso in Usa. Poi Donald Trump ha perso le elezioni, e il multilateralismo diplomatico targato cardinale Pietro Parolin ha dovuto prendere atto del “ritorno” degli Stati Uniti, con tutto quello che la centralità degli Usa può comportare. Un tema che chiaramente ha già spaccato la Chiesa, diviso sul sostegno a Trump e al mondo liberal. E che adesso rischia di dividersi non solo sulla nuova diplomazia romana, ma anche sulla stessa figura dell’ex presidente della Bce e su cosa vorrà o sarà in grado di fare. Come ha fatto notare La Verità, su Famiglia Cristiana è apparso più di qualche virgolettato che può essere soggetto ad interpretazione. Uno, su tutti, sembra essere particolarmente scettico sul presidente incaricato, che dovrebbe sciogliere la riserva entro la fine della seconda settimana di febbraio, e lo ha scritto il teologo della Lateranense Pino Lorizio. Nel suo articolo, che torna sul legame tra Draghi e la Chiesa Cattolica, si legge: “Né possiamo dimenticare che la formazione in un collegio dei gesuiti non è certo garanzia di fedeltà al Vangelo”. Una frase che unita al richiamo ai “poteri non buoni” e al rito della candela nell’elezione papale (spenta davanti la nuovo pontefice mentre si diceva “sic transit gloria mundi”) sembra quasi voler provocare un bagno d’umiltà al nuovo premier incaricato ma anche a spegnere i facili entusiasmi.  Anche certi ambienti ecclesiastici, dunque, aspettano le declinazioni sul piano pratico prima di prendere posizione. In termini di “schieramenti vaticani”, si potrebbe dire che siamo alle solite, con gli ultra-progressisti ed i conservatori a sgomitare per occupare lati di campo diametralmente opposti, mentre la maggioranza silenziosa attende impassibile, e magari con una certa dose di ottimismo, l’esito dei processi politici. Papa Francesco ha nominato Mario Draghi come membro ordinario dell’Accademia delle Scienze sociali nel luglio del 2020: qualcuno ha interpretato la mossa come una sorta d’anticipazione. Ma non conviene poi molto basarsi sui retroscenismi. Di sicuro Draghi è un laico cui Bergoglio guarda con favore. Gli ecclesiastici, sino a questo momento, si sono espressi con parsimonia. Nessuna fuga in avanti e indietro o quasi. Tra i fautori del governo Draghi, può essere annoverato con certezza padre Antonio Spadaro, che si è espresso con favore, sottolineando pure come il Papa abbia avvisato in tempi non sospetti, ossia nel 2014, la classe dirigente che si sarebbe “allontanata dal popolo”. Un assist ai tecnici, insomma, con l’ex presidente della Bce in testa. Non sarà sfuggito, poi, che è stato Mario Draghi ad aprire il quarantesimo meeting di Rimini, rimarcando la necessità di porre un freno ai sussidi e di sostenere le politiche lavorative giovanili. Insomma, la Chiesa cattolica non può definirsi distante dal premier incaricato. Sì, Mario Draghi è stato formato dai gesuiti, ma per certi ecclesiastici non basta a certificare la patente di prossimità alla sinistra ecclesiastica. Anzi, Draghi è stato più volte accostato al centrodestra liberale, moderato e cattolico nel corso della sua carriera tecnico-istituzionale. E forse è per questo che i cattolici progressisti non hanno reagito con quei facili entusiasmi cui eravamo abituati in questa convulsa fase giallo-rossa. Chi non ha proprio dubbi sul da farsi abita nel campo tradizionalista: il fatto che Draghi abbia svolto il ruolo apicale di vertice della Banca centrale europea è, per l’ultra-destra cattolica, sinonimo di criticità. Perché il cattolicesimo e la sua dottrina non possono assecondare una forma così pronunciata di capitalismo monetario. Per questo, non è difficile imbattersi in analisi critiche su Draghi promosse a mezzo blog dalla destra cattolica. Sono gli stessi che hanno simpatizzato per Trump. Ma anche in quella famiglia, a ben vedere, è registrabile più di qualche parere difforme. I pro life, ad esempio, sperano che l’agenda di Conte e dei giallorossi – quella tagliata pure sulla Zan-Scalfarotto – venga riposta nel dimenticatoio. C’è attendismo. Ma la speranza è che Draghi non si dimostri laicista rispetto ai “valori non negoziabili”. La Chiesa cattolica e i cattolici – com’è normale che sia – discutono sull’uomo chiamato a guidare la “salvezza nazionale”.

I gesuiti, Keynes e la Bce: lo strano caso del liberal un po’ socialista. Ezio Menzione su Il Dubbio il 4 febbraio 2021. Abbiamo davanti un socialista liberal o un liberal di tendenze socialiste, allievo di Federico Caffè, il brillante economista misteriosamente scomparso. I profili sono come i coccodrilli, in genere i giornali li hanno già pronti da tempo. Così è per il Presidente del Consiglio neoincaricato, Mario Draghi, i cui profili impazzano su ogni giornale: centoni che dicono più o meno le stesse cose. Qui interessa sottolineare due elementi che, a mio avviso, caratterizzano il personaggio: il primo è l’avere studiato dai gesuiti (non in collegio, ma in un liceo laico il Massimiliano Massimo di Roma, liceo per ricchi). I gesuiti sembrano avergli dato il loro inprint in termini di coerenza e pragmatismo, termini contraddittori solo per chi non sa guardare più in alto (nel caso dei gesuiti) e più avanti (nel caso di Draghi). Questo profumo di gesuitismo non poteva non colpire anche Papa Bergoglio, che infatti lo ha chiamato all’interno del board di un’importante istituzione vaticana, la Pontificia Accademia di Scienze Sociali (sociali, si badi, e non solo economiche). E c’è chi dice che sia proprio Draghi l’occulto consigliere del repulisti economico- finanziario in cui Bergoglio è da molto tempo impegnato, con alterni esiti, ma, speriamo, buone prospettive. Il secondo elemento caratterizzante è l’essere stato allievo di Federico Caffè, il brillante economista misteriosamente scomparso, considerato il teorico introduttore in Italia delle politiche keynesiane, collaboratore del Manifesto, che ne ha curato anche l’edizione post mortem di alcuni scritti: strano connubio quello di un economista sostanzialmente liberal e di un quotidiano comunista all’epoca, ma proprio comunista che più comunista non si può. Fu lo stesso Caffè dopo la laurea ad affidarlo ad altro economista, Modigliani, dell’MIT di Boston, attento alla finanza sì, ma anche ai problemi sociali. E’ dunque questo doppio aspetto ( economia e finanza da una parte e attenzione ai problemi sociali dall’altra) che colpisce in Draghi, soprattutto quando sale al vertice della BCE. Per arginare l’Europa dall’assalto della speculazione finanziaria, in controcorrente col pensiero e le politiche allora come ancor oggi dominanti, non esitò ad attaccare l’austerity per immettere nuova moneta e pensare all’espansione dell’economia invece che alla contrazione del debito. Posizione diametralmente opposta a quella di Monti, vero e proprio Quintino Sella della “lésina”, costasse quel che costasse purché a pagare fossero i ceti meno abbienti. Monti e Draghi sono ambedue passati per la banca d’affari Goldman Sachs: beh, nessuno è perfetto! Con la differenza che Draghi c’è giustappunto passato per pochissimo tempo, quando i danni peggiori erano già stati combinati, ma si è sbarazzato del controllo delle relative azioni in suo possesso non appena salì al vertice della Banca d’Italia. Anche lo stile ha la sua importanza. Dunque abbiamo davanti un socialista liberal o un liberal di tendenze socialiste: merce rara in Italia, esponente di una cultura in cui forse pochi, ma fra i migliori potrebbero specchiarsi. Certo, vedremo come intende il suo “incarico istituzionale”: svincolato dal parlamento e dalla politica? O capace di misurarsi con essa senza cadere nelle bassezze cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Vogliamo essere ottimisti e augurarci che possa farcela e farcela bene: “whatever it takes”. Attenzione, però, caro Draghi, le imboscate sono all’ordine del giorno e i nemici tanti e si annidano anche laddove tu non pensi. E tu lo sai bene.

Ritratto di Mario Draghi, il figlioccio dei gesuiti che dovrà salvare l’Italia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Marzo 2020. “Lib-lab”, se siete giovani, è una sigla – una parolina – che probabilmente non avete mai sentito. In Italia è arrivata dalla Gran Bretagna negli anni Ottanta. Vuol dire Liberal-Laburista. Lib-lab fu il tentativo di mettere insieme le idee liberali anglosassoni con le idee socialiste. Da noi il leader di questa tendenza, che non diventò mai partito e che ebbe scarsa fortuna, fu Claudio Martelli, il numero due di Craxi. Martelli riuscì a riunire attorno a sé un numero consistente di giovani intellettuali, in parte di origini sessantottine, e a elaborare alcune teorie, anche sofisticate, come quella – che godette di una certa celebrità – “dei meriti e dei bisogni”, che puntava a rielaborare le aspirazioni egualitarie e a combinarle con la meritocrazia. Non andò bene. Il Psi, che era il partito sul quale tutto ciò si incardinava, fu spazzato via dai giudici. E lo spazio Lib-lab fu occupato da Berlusconi, che però, francamente, di socialista aveva poco.  Il “Lib-lab” era in sostanza un tentativo di ricreare il riformismo. E come sapete bene, il riformismo, in Italia, non ha mai avuto molta fortuna. Ogni volta che ha alzato la testa, ha finito con l’essere schiacciato tra le tendenze reazionarie, sempre forti e spesso autoritarie della destra, e le idee della sinistra, sempre forti e spesso autoritarie. (No, non è una ripetizione casuale: è proprio così. Destra e sinistra, in questi loro aspetti anti-riformisti e un po’ totalitari, si sono sempre assomigliate). Beh, oggi è rimasta una sola personalità nel mondo politico italiano che – credo – si definisce ancora Lib-lab. È Mario Draghi. E proprio lui, Lib-lab della prima ora, viene chiamato oggi a salvare la patria. Lo vuole la destra, che sa di non avere personalità in grado di affrontare questa crisi, e tantomeno il dopo crisi. E lo vuole la sinistra, che sa di non avere personalità in grado di affrontare questa crisi, e tantomeno il dopo crisi (neanche questa è una ripetizione casuale: è proprio così. Anche in questo, destra e sinistra si assomigliano molto). Draghi è un signore di 72 anni, molto serio, molto preparato, con idee nette, competenza e anche carisma. Forse è l’unico (diciamo sotto gli ottanta…) ad avere il carisma e la solidità necessari a guidare il Paese. Non è affatto detto che glielo affideranno. E non è affatto detto che lui accetti.  È nato a Roma nel 1947, da papà veneto e mamma campana. È nato a settembre, mentre la Costituente stava decidendo gli ultimi ritocchi alla Costituzione della Repubblica. Il padre di Mario, che si chiamava Carlo, si occupava anche lui di economia ed era un allievo di Donato Menichella, che è stato il governatore della Banca d’Italia negli anni della ricostruzione, dal 1947 fino al 1960. Mario viene mandato a scuola dai gesuiti, al Massimo, che è considerata la migliore scuola di Roma. L’ho conosciuto in quegli anni, perché andavo al Massimo anch’io, anche se andavo alle medie e lui al ginnasio. Credo che stesse in classe con Luca Cordero, cioè con Montezemolo, ma forse era una classe avanti. Sto parlando dei primi anni Sessanta, quando il Massimo, che in origine era di fronte a piazza Esedra, in pieno centro, si spostò in un modernissimo complesso a più edifici all’Eur, con una grande chiesa di cemento armato, i campi di calcio, le palestre. Per me quelli furono anni molto belli. Per lui credo di no. Nel 1962, quando faceva il quinto ginnasio, perse prima il papà e poi la mamma. Non so immaginare come un ragazzino sportivo e studioso di quindici anni possa reagire psicologicamente a una frustata di questo genere. Lui reagì. Probabilmente ebbero un peso i gesuiti, perché i gesuiti, ve lo assicuro, sono quel tipo di comunità che non ti molla, ti prende, ti assorbe, ti arruola e un segno comunque te lo lascia. So che Draghi è molto cattolico, credente autentico. Io non penso che sia quel ghiacciolo cinico che a volte può sembrare.  Lo ho incontrato una sola volta, da adulto. Quando era governatore della Banca d’Italia. Io dirigevo Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista, e Rifondazione comunista era al governo, e Bertinotti era presidente della Camera. Io però mi divertivo ad attaccare spessissimo Draghi. Non so perché, un po’, forse, anche per goliardia, un po’ perché mi pareva che lui fosse proprio il simbolo della borghesia moderata e antioperaia. Un giorno mi telefonò la sua segretaria, mi disse che Draghi avrebbe voluto incontrarmi, e mi diede un appuntamento. Andai in Banca d’Italia, e mi colpì la sua schiettezza. Disse che si ricordava di me da ragazzino, ma non era vero, perché lui diceva che ero fortissimo a pallone mentre io, purtroppo, non sono mai stato fortissimo. E mi spiegò che non dovevo pensare che lui e Montezemolo fossero la stessa cosa. In effetti io attaccavo sempre lui e Montezemolo come fossero una coppia. Montezemolo – mi disse – era un uomo Fiat e di socialista non aveva nulla. Era un imprenditore, non un uomo di governo. Lui, Draghi, era un’altra cosa. Era un allievo di Caffè.Insistette molto su questo, mi raccontò del rapporto molto stretto che aveva avuto con il professor Caffè, e di quanto il pensiero di Caffè l’avesse influenzato. Io conoscevo bene Caffè, non solo perché – torno sempre agli anni Sessanta – suo fratello Alfonso, sempre al Massimo, era stato il mio professore di lettere alle medie; ma perché poi lui, Federico Caffè, celebre economista, aveva collaborato con l’Unità (oltre che con il manifesto) quando io lavoravo all’Unità come caporedattore, e cioè negli ultimi anni della sua vita conclusa clamorosamente, nella primavera del 1987, con la sua misteriosa scomparsa. Nessuno ha mai saputo che fine avesse fatto Caffè, come nessuno mai seppe dove era finito Majorana. Due suicidi studiati, pensati, sceneggiati, costruiti con sapienza e accompagnati dalla scomparsa del corpo. Caffè era un economista Lib-lab? Direi di no, direi che era spostato molto più a sinistra. Poteva essere forse definito socialista, ma era un socialista radicale, difensore accesissimo dello Stato sociale e dell’intervento dello Stato in Economia. Probabilmente nell’articolo scritto da Draghi l’altro giorno per il Financial Times c’è parecchio del professor Caffè. Sapete come sono le cose, per quasi tutti: in vecchiaia tornano le vecchie idee, i vecchi maestri. Draghi studiò con Caffè, poi andò in America, studiò con Modigliani (che era più lib, sicuramente, di Caffè) diventò professore ordinario di economia a poco più di trent’anni, ebbe incarichi prestigiosissimi in molto istituti pubblici e privati, e agli inizi degli anni Ottanta iniziò quella che può essere considerata la sua carriera politica: fu chiamato a fare il direttore generale del Tesoro dall’allora ministro Giovanni Goria, quando il premier era Craxi (anche lui lib-lab, ovviamente). È curioso ripensarci oggi. Allora Goria era considerato il meno carismatico dei leader democristiani dell’epoca. Era giovane, lo prendevano in giro perché aveva poca storia, Forattini (re dei disegnatori satirici) lo disegnava con la barba (Goria aveva la barba sessantottina, credo che sia stato il primo ministro e poi premier con la barba nera e jeans) ma senza volto. Senza naso, bocca, occhi. Bianco. Per dire: chi è questo? Con il metro di oggi, se uno paragona Goria a quelli di adesso – chessò: Di Maio o Conte, o Bonafede…- sembra di mettere un gigante a paragone con dei nanetti scialbi. Allora però il problema era che non ti paragonavano a Conte ma a Moro o a Fanfani. Comunque il volo politico di Draghi inizia lì. Mentre tanti suoi compagni di studi assumevano posizioni importanti in vari settori della macchina politica e dello Stato, per esempio Ezio Tarantelli, che era anche lui un ragazzo di Caffè e che due anni dopo, nel 1985, fu abbattuto neanche quarantenne da una raffica folle delle Brigate Rosse. Anche lui, Tarantelli, era un lib-lab. Draghi è rimasto al Tesoro per tantissimi anni. Attraversando partiti e maggioranze, dalla Dc e dal Psi, al Pd erede del Pci, a Berlusconi a Prodi. Era inamovibile. Poi approdò a Bankitalia, nel 2005, e infine fu chiamato in Europa, nel 2011, a dirigere l’economia europea. Oggi Draghi è una delle pochissime personalità europee ancora in piedi. Merkel è a fine corsa, Macron non sembra un gigante, gli inglesi e gli italiani boccheggiano, Sanchez al massimo vale Goria. Lui è il numero 1. In Italia piace davvero? Draghi è l’uomo che può ricomporre la borghesia italiana, spaccata in due, negli anni Novanta, quando Berlusconi scippò lo scettro ad Agnelli e aprì una frattura che non si è mai ricomposta. E che ha prodotto un grande indebolirsi della borghesia italiana, delle sue capacità economiche e di egemonia. Draghi è in grado di ricomporla e di riportarla alla guida, anche morale, del Paese? Probabilmente sì. E per questo non è affatto detto che sia gradito. Proprio il vecchio ceppo agnellino non vede di buonocchio questo giovane settantenne e il suo lib-labismo. E anche a Cairo non piace molto. Già, lui me l’aveva detto: “Guarda che io non sono come Luca”. Diceva Luca per dire Montezemolo.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 5 febbraio 2021. Quando la stesura dell’ultima enciclica sociale della Chiesa, la Caritas in Veritate (29 giugno 2009) era ormai quasi pronta, Benedetto XVI chiese all’allora Segretario di Stato Tarcisio Bertone che fosse Mario Draghi a rileggerla prima della pubblicazione. Draghi, che era Governatore della Banca d’Italia lesse quindi quell’Enciclica in anteprima. In un week end. E diede l’ultimo “disco verde” alla pubblicazione. Benedetto, infatti, volle che il testo accuratamente elaborato già dal 2008 , con il contributo principale di Stefano Zamagni, professore di economia politica all’università di Bologna, visto che nel frattempo si era fatta particolarmente scottante la crisi economica che aveva investito il mondo intero e di cui un’Enciclica di carattere sociale non poteva non tenere conto in maniera esplicita, volle che il testo ormai completato fosse sottoposto ad una rilettura e per la formulazione di eventuali aggiunte o cambiamenti che tenessero conto degli aspetti più attinenti all’economia, da sottoporre al suo giudizio. E questo appunto fece Draghi, che in seguito il 9 luglio del 2009, scrisse un ampio commento sull’Enciclica sull’Osservatore Romano. Ma il rapporto per Draghi con la Santa Sede non è finito lì. Anzi. Draghi e Francesco si sono incontrati più volte. Cattolico praticante, come il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nel 2013 fu ricevuto in udienza con la famiglia. Nel 2016 sedeva accanto ad Angela Merkel quando a Francesco fu conferito il premio Carlo Magno. Ma quando il 26 maggio 2020 Papa Francesco lo ha nominato membro ordinario, quindi non un consulente sia pur di altissimo livello, ma proprio incardinato nella Pontificia Accademia delle Scienze sociali, il cui cancelliere è l’argentino Marcelo Sanchez Sorondo, il mondo politico italiano ha colto subito in questo una “benedizione “ e quasi un’investitura vaticana tanto che il ministro degli Ester di Conte, Luigi Di Maio, fece sapere di aver incontrato Draghi di recente e corse a dichiarare che Draghi gli aveva fatto “un’ottima impressione”. L’ultimo incontro tra Francesco e Conte del resto, quello del 30 marzo 2020, in occasione della Pasqua, al di là della narrazione di Palazzo Chigi (clima molto cordiale… eccetera) in realtà non era andato molto bene. Sull’incontro aveva pesato e molto la gestione della pandemia e l’ecatombe di morti che si era avuta in Italia, già nella prima ondata. Tanto che il 26 aprile 2020 ci fu un forte altolà della Cei, presieduta dal cardinale Gualtiero Bassetti , presa di posizione concordata con Francesco, come già scrisse all’epoca Huffpost, contro il dpcm di Conte che imbrigliava del tutto la liturgia, cattolica senza prevedere protocolli specifici di sicurezza (come invece per le attività economiche), per rendere possibile - in sicurezza - messe e sacramenti (svuotando il cristianesimo e rendendolo “senza Cristo”, come ha affermato ieri Francesco durante l’Udienza generale di ieri mattina. Conte inoltre ha raggiunto un poco invidiabile primato con il Vaticano: è stato l’unico premier italiano che non è stato ricevuto in forma ufficiale da un Papa. È stata del tutto un inedito per un capo di Governo di Roma la visita” privata “di 45 minuti, o “di cortesia” come la definì il protocollo vaticano, resa il 15 dicembre 2018 (Conte 1) a papa Francesco dall’ex presidente del Consiglio. Evidente è la differenza rispetto alle “normali “udienze papali ai capi di Stato o di Governo di qualsiasi Paese, che - oltre ad essere annunciate in precedenza, e non la mattina stessa (sic!) come in questo caso - avvengono sempre con il consueto corollario di delegazioni composte da altri membri dell’esecutivo e da “grand commis” dello Stato, di una presenza per quanto limitata di giornalisti accreditati tramite “pool”, e del classico comunicato finale che rende conto dei colloqui del politico di turno col Papa e col cardinale segretario di Stato. Non è un mistero che la politica antimigranti imboccata dal governo giallo-verde non è mai piaciuta a Francesco. Successivamente, il Papa e Conte si erano visti brevemente, il 30 agosto 2019, il giorno dopo che Conte aveva ricevuto l’incarico di formare il governo Conte 2 (giallo rosso), alla fine delle esequie del cardinale Achille Silvestrini, mentore della Villa Nazareth, dove l’ex premier ha studiato. E proprio alla storia di Villa Nazareth ha riattinto a piene mani la macchina di propaganda, nel momento della recente crisi di governo, quando filtrava da Palazzo Chigi che cardinali si erano mossi a favore di Conte. In realtà Conte ha potuto fare affidamento solo sul cardinale Pietro Parolin, però, fortemente indebolito dalla crisi dello scandalo dei fondi della segreteria di Stato (peraltro era in Africa nei giorni clou della crisi). E anche il direttore della “Civiltà cattolica” Antonio Spadaro (che svolse un ruolo importante nel ridimensionare l’intervento del presidente della Cei , Bassetti, contro il dpcm), assiduo di anticipazioni della rivista sul “FattoQuotidiano”, ha dovuto “lasciare” Conte al suo destino, sperando in un ripescaggio. Significativo che ieri abbia dichiarato di aver “avvertito una disconnessione tra le esigenze della gente e la politica…Conte è strato in grado di mediare istanze differenze. Potrebbe essere una risorsa nel quadro politico che si andrà a delineare”. Sempre ieri mercoledì 3 febbraio, nelle stesse ore dell’incarico a Draghi da parte del Presidente della Repubblica, l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, ha confermato per mail che la cerimonia ufficiale di ricordo della firma dei Patti Lateranensi avverrà anche quest’ anno, l’11 febbraio a Palazzo Borromeo. Salterà il ricevimento, causa Covid. Chissà se per la prossima settimana, magari il nuovo governo ci sarà.

·        I Giornalisti di Dio.

Marco Leardi per davidemaggio.it il 10 dicembre 2021. Dalla messa in onda, quella dei programmi Rai di cui è stato conduttore, alla Santa Messa. Fabrizio Gatta ha cambiato davvero vita e ora è don Fabrizio. Il giornalista, noto al pubblico televisivo per aver guidato programmi come “Linea Verde” e “Lineablu“, è stato ordinato sacerdote. La consacrazione, avvenuta martedì scorso 7 dicembre nella Concattedrale di Sanremo, è stata per Gatta il coronamento di un cammino spirituale e di studi iniziato otto anni fa, dopo un percorso di discernimento durato altri tre anni. Nato a Roma, oggi 58enne, don Fabrizio Gatta aveva iniziato il proprio percorso di fede con una missione di strada assieme ai Missionari del Preziosissimo Sangue, poi, confrontandosi con un direttore spirituale, aveva scelto la via del sacerdozio nella diocesi del ponente ligure. “Nella mia vita precedente avevo tutto quello che molti oggi vorrebbero: un buon lavoro, soddisfazioni, una posizione economica buona, visibilità e notorietà. Eppure dentro di me progressivamente è apparsa un’inquietudine che mi ha portato a riflettere. Nessuna conversione improvvisa, bensì una consapevolezza cresciuta piano piano“ ha raccontato ad Avvenire l’ex conduttore televisivo, che aveva iniziato la sua carriera in Rai nel 1996 presentando per otto edizioni il Concerto dell’Epifania assieme a Lorena Bianchetti, Annalisa Mandolini, Ilaria Moscato e Annalisa Manduca. Nel 2000, con Monica Leofreddi, aveva curato i collegamenti di Domenica In. Nel 2001, aveva presentato le esterne di “Torno Sabato” con Giorgio Panariello, per poi assumere la conduzione di Lineabianca con Manuela Di Centa. Sempre su Rai1 era stato tra i volti di Tutto benessere, Uno mattina, e Raiuno spot con Tania Zamparo. Dal 2002 al 2012 era stato alla conduzione di Lineablu, con Donatella Bianchi. Sempre su Raiuno, nel 2010 con Elisa Isoardi, e poi dal 2011 con Eleonora Daniele, conduce Lineaverde. “Ho compreso come Dio mi abbia sempre parlato attraverso i bei luoghi che ho visitato per le trasmissioni televisive, o attraverso le persone che ho incontrato in quelle occasioni. Una bellezza del nostro Paese, del Creato, che ho raccontato in televisione e che ora porto con me“ ha testimoniato il novello sacerdote, ricordando anche la vicinanza di alcuni colleghi alla sua decisione di intraprendere una vita più spirituale. Tra tutti, ha citato Fabrizio Frizzi:

“Ho sentito rispetto e vicinanza per questa scelta. Tra tutti vorrei ricordare Fabrizio Frizzi che mi ha seguito nel cammino di discernimento e con il quale siamo sempre stati in contatto“.

I 160 anni dell’Osservatore “il giornale di partito”. Paolo Rodari su La Repubblica il 30 giugno 2021. E il Papa lo celebra: “Lo leggo tutti i giorni, la domenica non c’è e mi manca qualcosa”. Cinque numeri speciali con gli articoli dei direttori dei grandi giornali italiani e internazionali e, per la prima volta, la meditazione settimanale del Vangelo affidata alle donne. L’Osservatore Romano celebra oggi l’anniversario dei suoi 160 anni. E per l’occasione pubblica anche un testo inedito del Papa che rivela: «Io lo leggo tutti i giorni e, quando non esce la domenica, mi manca qualcosa».

Giuseppe Candela per Dagospia il 14 giugno 2021. Ricordate Fabrizio Gatta? Volto di Rai1 per quasi vent'anni, passato dalla conduzione di Linea Blu a Linea Verde fino a Unomattina Weekend. Da qualche anno il giornalista ha salutato il piccolo schermo per dedicarsi al prossimo, si è laureato in Teologia ed è diventato sacerdote. Don Fabrizio Gatta "esercita" nella città di Sanremo.

Patrizia Albanese per ilsecoloxix.it il 15 giugno 2021. Don Fabrizio Gatta? «Sono io, sì». Il tempo di presentarsi, al telefono della chiesa di San Siro a Sanremo e all’ex giornalista - in Rai per vent’anni - parte una risatina. Par di vederlo, mentre mormora scuotendo la testa: «Dagospia, Dagospia... Da quando l’ha scritto, il telefono...». Be’, in effetti in periodo di crisi di vocazioni, un religioso non più giovanissimo fa notizia. Figurarsi poi se a infilarsi la tonaca è un brillante giornalista Rai di lungo corso. Passato da Miss Italia con l’indimenticato Fabrizio Frizzi a Lineablu e decine di altri programmi: lascia le telecamere per il sacerdozio. Assegnato a Sanremo, per di più. In cerca di anime tra Festival e Casinò? Padre spirituale dello show business? «Di tutte le persone che il Signore mi metterà sulla strada, assetate e in ricerca» replica sereno questo giornalista di Dio. Quanto al Casinò... «Da lì, parte la mia storia». 

Scusi, in che senso?

«La mia famiglia materna è di Sanremo. Il mio bisnonno, Adriano Garassino, era direttore della Casa da gioco, negli Anni Venti. Quando ci andava Toscanini. I miei erano vicini di ombrellone di Carlo Dapporto, che abitava di fronte a noi, in corso Orazio Raimondo. Davanti ai Bagni. Da casa, la bambinaia - una signora austroungarica, che fumava il sigaro - sventolava l’asciugamano per chiamare a pranzo mia nonna e gli altri 8 fratelli. Attraversavano il casello ed erano a casa».

Lei invece è nato 57 anni fa a Roma, dov’è cresciuto e s’è laureato in Sociologia, prima della recentissima laurea in Teologia, preceduta da due anni di Filosofia.

«La bisnonna, vedova, si trasferì a Roma. In via Lima, ai Parioli - racconta don Fabrizio - Mia madre, al liceo Tasso conobbe mio padre. Non si sono più lasciati». 

Per lei, studi dove?

«Dai preti. Maristi». 

Be’, una bella partenza...  

«Abbastanza, sì» se la ride il diacono, che sarà ordinato sacerdote il prossimo 7 dicembre. Puntualizza serio: «Però, questa è un’intervista. E non posso, senza prima l’autorizzazione del vescovo. Tra i voti, c’è l’obbedienza». 

Soltanto un colloquio. E poi anche il vescovo sarà contento, dai. Per una volta, niente scandali ma una cosa bella. Da bambino, che voleva fare da grande?

«Pippo Baudo» snocciola allegro. Ricordando: «Ero chierichetto a Messa. Nella parrocchia dei Maristi, certo». 

Con la Fede, rapporto altalenante?

«Momenti di lontananza. Normale, durante l’adolescenza. Le crisi servono per essere superate. Giusto così. È una crescita». 

Però, mai avrebbe pensato di farsi prete.

«No, mai». 

E poi accade, che...

«Che non ti basta più. Che quello che fai, deve avere un senso. Il successo, i soldi, lo share, l’applauso non ti bastano più. E allora, cerchi di fare del bene. Di impegnarti. Di fare un’adozione a distanza. Cerchi di capire il Mistero. E ti metti in gioco». 

 Fino alla Chiamata.

 «Non è San Paolo, che poi non è mai caduto da cavallo, sulla via di Damasco. È più la vocazione del San Matteo di Caravaggio. L’ uomo con una mano sui soldi colpito da una lama di luce, da cui appare Gesù. San Matteo si indica il petto, come dire: sei sicuro? Vuoi proprio me? È un cammino di lacerazione. Serve un padre spirituale. Rileggi tutta la tua vita...». 

Pausa.

«Non è una passeggiata di salute» sbotta schietto il giornalista. Che come don Fabrizio prosegue: «Devi essere sostenuto dallo Spirito Santo. Devi essere aiutato. Entri in seminario, per anni di convivi con persone molto più giovani di te. Non facilissimo. Però, una volta messo mano all’aratro, non mi sono più voltato indietro. L’animo me lo riscalda Lui». 

Reazioni in famiglia? Sconcertati?

«Uuuh - se la ride di cuore - Mia mamma prendeva le gocce per dormire... Il conduttore coi soldi, le auto potenti, abituato alla bella vita, che lascia tutto...». 

Amori?

 «Non c’è stato quello della vita, del per sempre. Doveva arrivare un Incontro più importante. L’amore che ti cambia la vita per sempre, è quello per Dio. Ho lasciato tutto per Lui. E Nostro Signore mi ha davvero cambiato la vita. 

La gioia di annunciare Cristo, con l’entusiasmo e l’energia di un ragazzino. Mi piace parlare di Gesù. E inventare modi nuovi per comunicare un messaggio di 2000 anni, ma sempre nuovo». 

Il suo entusiasmo è coinvolgente.

 «Dio ha sconvolto la mia vita» afferma con gioia. E riflette: «Come diceva Padre Puglisi: “Venti, 40, 60, 80 anni quella è la vita. Ma se sbagli direzione, a che ti serve? Che hai vissuto a fare?”. Mettersi in ascolto serve a questo. Ti dà la percezione di aver vissuto la vita giusta.

Chi segue Gesù sono le persone che non si sentono a posto. I feriti dalla realtà che si mettono in discussione tutti i giorni. Io mi metto in discussione tutti i giorni. La vita con me ha agito per sottrazione». Scusi, che significa? «Bisogna togliere le sovrastrutture che ci ha dato la vita». 

Don Fabrizio, perché proprio Sanremo? Ci resterà?

«Fino al 7 dicembre, sono ancora diacono: è l’ordine del servizio. Col grembiule, come il Signore quando asciuga i piedi. Sanremo, per tornare alle origini. Ho conosciuto il vescovo, Antonio Suett. Per me un fratello. Molto vicino ai suoi preti. Il vero pastore che cura le pecore. Ho grande ammirazione per lui. Conoscerlo è stata un’illuminazione. 

Senti che ti parla con le parole di Dio. Ti parla di vangelo. Di esperienza di Cristo vissuta in prima persona. Come diceva il Beato Rosario Livatino: “Non ci verrà chiesto quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”. Sanremo è la mia terra, la mia casa. La mia chiesa».

Estratto dell’articolo di Sandro Magister per “L’Espresso”, pubblicato da “La Verità” il 7 giugno 2021. L' 1 marzo, su due pagine intere de L' Osservatore Romano Paolo Ruffini tracciava un bilancio esaltante dei sei anni di vita del dicastero per la comunicazione di cui è prefetto. [...] Ma da Francesco non è arrivato il minimo grazie né a lui né agli altri comprimari del dicastero: da Andrea Tornielli, direttore editoriale, ad Andrea Monda, direttore de L' Osservatore Romano. Il 24 maggio il papa si è recato in visita nel palazzo che ospita i media vaticani. Ma invece di celebrare i 160 anni dello storico quotidiano pontificio ha avuto per esso solo parole di rimprovero. Il giornale a cui Jorge Mario Bergoglio ha preferito far festa è stato La Gazzetta dello Sport, [...] venduto in edicola con in omaggio il libro Lo sport secondo papa Francesco. [...]. Quello stesso 31 maggio Francesco ha ricevuto in udienza ufficiale Monda, e due giorni prima Tornielli. Ma non devono essere stati colloqui distesi. Troppo fresca era l' umiliazione inferta ad entrambi e a Ruffini dalla visita papale del 24 maggio al loro quartier generale. Tutto bello, aveva detto loro il papa, ma la domanda è quest' altra: «quanti ascoltano la Radio, e quanti leggono L' Osservatore Romano?». Voi siete come «la montagna che partorisce il topolino». [...] [3 giugno 2021]

Parole a vanvera dei vaticanisti Socci e Messori, orfani di Trump tra dietrologie e scivoloni. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 5 Marzo 2021. “Quanti fantasmi ci attraversano la strada” cantava Battiato tanti anni fa. Oggi è una vera folla e servono misure urgenti per dirigere il traffico! Mettiamo allora un po’ d’ordine nel via vai di opinioni buttate lì a caso, su papa, papi, pati, lezioni di catechismo non richieste e “vanverate” cioè opinioni a vanvera Il colloquio con papa Ratzinger pubblicato dal Corriere della Sera lunedì, addirittura per due pagine, ha provocato ulteriori fiumi di inchiostro. Così leggendo Antonio Socci scopriamo che il “Corrierone” ha ribadito delle ovvietà: mi sono dimesso spontaneamente, di papa ce ne è uno solo (ma, obietta Socci, cosa costava a Ratzinger aggiungere il nome del papa attuale, per maggiore precisione? E già, diciamo noi, perché: quanti papi regnanti ci sono?). La colpa del quotidiano è di avere occultato la vera notizia contenuta in quel colloquio. Cioè che papa Ratzinger dica di Biden: «Come presidente tende a presentarsi in continuità con la linea del Partito Democratico» (una linea abortista). Inoltre, ha aggiunto Ratzinger, «sulla politica gender non abbiamo ancora capito bene quale sia la sua posizione». Qui per Socci c’è una vera notizia, perché papa Francesco sarebbe invece sostenitore di Biden mentre il predecessore sconfessa Biden e appoggia la linea di quella parte dell’episcopato Usa critico verso il presidente. Ora, ammesso e non concesso sia vero, a Roma si direbbe: e a noi? Che ce ne importa? Sapere quale sarà mai la posizione di Biden sulla politica gender potrà cambiare la nostra vita e visione del mondo? E poi: davvero Papa Francesco appoggia Biden? Da che si capisce: da un telegramma di congratulazioni? Sembra davvero una posizione voluta a tutti i costi. E dunque ecco Battiato: quanti fantasmi ci attraversano la strada! L’appoggio dei papi a presidenti e capi di stato è sempre più supposto che reale. E del resto basta guardare i primi atti di Biden per capire quanto la sua politica manchi di fantasia e di spunti diversi. Ad esempio il tanto “nuovo” e celebrato presidente Usa che cosa fa con la Russia? Impone sanzioni! Ovvero mette in campo una risposta talmente vecchia, inutile, scontata, irragionevole, che si autodefinisce esponente di una prassi politica oramai senza storia. Invece per noi è molto più comodo discettare di papi e antipapi in versione moderna. Papa Ratzinger da un lato si sarebbe dimesso, dall’altro non avrebbe abbandonato aspetti effettivi delle prerogative papali e quindi sarebbe anche in qualche modo ancora in carica. Qui Socci tocca un problema vero e insieme dimentica l’esistenza di una “cosa” che si chiama logica. Andiamo per gradi. Il problema vero riguarda l’indefinito statuto di “papa emerito” o “dimissionario”. Del resto non ne abbiamo uno dai tempi di Celestino V, ed era appena il 1294. Mentre di antipapi ne abbiamo avuti tanti e nell’insieme si sa come trattarli (basta convocare un Concilio e deporli, semplice no?), un papa dimissionario non ha figura giuridica nel diritto canonico. Certo in questi anni di papa Francesco – otto di pontificato al 19 marzo – si potevano trovare dei canonisti di buona volontà e risolvere la questione. Magari papa Ratzinger avrebbe dato volentieri un contributo. Comunque staremo a vedere. Ma a me la vera questione sembra un’altra. Che appartiene alla logica (in questo caso va d’accordo con la fede, scusate se è poco!). Va dato atto a papa Ratzinger di avere percorso una strada coraggiosa. Come ho scritto qualche giorno fa sul mio blog sul sito internet de Il Riformista, se non si fosse dimesso oggi sarebbe il Papa regnante, a 93 anni, 94 ad aprile. Ma davvero qualcuno sano di mente pensa che si possa governare una struttura complessa a questa età? Per chi crede, è sempre all’opera l’assistenza dello Spirito Santo; tuttavia ci saranno pure dei limiti a una “certa età”. O no? O la realtà non la dobbiamo chiamare per nome? Eppure nelle due lunghe pagine del Corriere della Sera le condizioni fisiche precarie di papa Ratzinger vengono descritte bene. Nei commenti alla Socci, stupisce l’incapacità di non voler vedere a tutti i costi una realtà sotto gli occhi di tutti e cioè che le strutture complesse hanno bisogno di leaders in forze, attivi, propositivi, capaci di viaggiare per il mondo cattolico per motivare i fedeli e tenere alta la fiamma spirituale. E qui entra in gioco un aspetto ulteriore: a che serve versare fiumi di inchiostro e domande sul perché e percome di una dimissione che lo stesso protagonista ha spiegato in lungo e largo? A che serve evocare il fantasma, appunto, di un Papa regnante che non sia legittimo? Ecco la risposta: serve a sviare i problemi e vendere fumo. Fa lo stesso la lunga intervista con Vittorio Messori di mercoledì (stesso “Corrierone”), quando pontifica sul compito che dovrebbe avere la Chiesa (ecco un altro che la sa lunga più di tutti). E la dice semplice, semplice: «La vita eterna è l’unico tema. La Chiesa oggi è una succursale dell’Onu, non ne parla. Questa è riduzione al mondo. Ma Vangelo significa buona notizia, in greco. Gesù non si occupò di politica, nella sua predicazione non condannò neppure la schiavitù. Venne a schiuderci le porte del paradiso». Teologia sui generis, dunque. Per chi crede, la presenza di Dio opera nella storia di oggi, mica nella vita eterna di chissà quando. La fede senza le opere è morta dice la Lettera di Giacomo, poi c’è San Paolo con la “carità”, quindi la parabola evangelica del Samaritano, poi i discorsi infiniti su evangelizzazione e promozione umana che vanno di pari passo in un binomio indissolubile. Basta per far capire che è stata scritta una sonora sciocchezza? Il cattolicesimo si distingue dal protestantesimo di radice evangelical perché il primo opera attivamente sul piano della giustizia sociale ispirata dall’idea che siamo tutti figli di Dio, dunque fratelli e sorelle tra di noi (l’enciclica Fratelli tutti dice qualcosa o no?). Il protestantesimo di radice evangelical dice che se sei schiavo è colpa tua e se sei ricco allora vuol dire che lo hai meritato, la società non c’entra affatto. Gesù non ha mai condannato la schiavitù, però il Vecchio Testamento ci fa sapere che nell’anno del Giubileo gli schiavi venivano liberati. Scusate se è poco, e andrebbe spiegato ai supremastisti e razzisti bianchi di stampo Usa. La Bibbia detta prassi molto precise sui comportamenti da tenere per ottemperare alla volontà di Dio: proteggere l’orfano e la vedova, ad esempio, cioè le categorie fragili di quel tempo e di tutti i tempi. E senza scordare quel passaggio del Vangelo che delinea le opere di misericordia corporale e spirituale (secondo le definizioni del catechismo di un tempo). Leggere Messori appartiene a quell’opera di misericordia spirituale che recita: sopportare pazientemente le persone moleste. Pazientemente non significa starsene zitti. Soprattutto di questi tempi, in cui siamo tutti sfidati da questioni epocali di giustizia sociale: sui temi dell’ambiente, sui limiti di politiche che guardano soltanto a interessi particolari e dimenticano che ognuno di noi ha una sola vita da vivere e un solo pianeta in cui vivere. Pensiamo alla vita eterna senza dimenticare la vita dei nostri figli, per dare loro un futuro e soprattutto un pianeta in cui ci siano risorse e non macerie e detriti. Qui non si tratta di uno scontro tra “cristianesimi” ma tra visioni lungimiranti e visioni miopi. Papa Francesco va in Iraq, nonostante tutte le difficoltà, a portare una parola di speranza e di pace a quelle popolazioni. E magari intende far capire a tutti noi rimasti comodi a casa nostra che esiste una realtà più larga, più ampia, e dobbiamo interessarci alle persone e prenderci cura degli altri. Un Samaritano moderno, e attualissimo, e scusate se è poco!

Vittorio Messori. Stefano Lorenzetto per il "Corriere della Sera" il 3 marzo 2021. Lasciando la direzione del Foglio, Giuliano Ferrara spiegò che «a 63 anni bisogna imparare a morire». Vittorio Messori si è portato avanti con i compiti da quando ne aveva 41 ed è prossimo a compierne 80 in questo 2021. «Problemi al cuore. Ma va bene così. Sono crollato proprio qua», si lascia sfuggire elusivo, e non vuole aggiungere una sola parola. «Qua» è il suo pensatoio dentro l'abbazia benedettina di Maguzzano, affacciata dal IX secolo sul lago di Garda, in cui visse Merlin Cocai, alias Teofilo Folengo. Lo scrittore è certo che le due stanzette, intasate da 15.000 libri, gli furono concesse in comodato d'uso grazie all'intercessione celeste di don Giovanni Calabria, un prete ritenuto matto perché confidava solo nella divina provvidenza, e infatti fu sottoposto a quattro sedute di elettroshock. Invece era santo, come sancì Giovanni Paolo II nel 1999. Messori anticipò il precetto ferrariano con Scommessa sulla morte, uscito nel 1982 sull'onda del successo (1 milione di copie, 26 traduzioni) di Ipotesi su Gesù, scritto dopo la conversione al cattolicesimo. «Ora che si avvicina il momento di passare all' altra vita, ho deciso di donare questa biblioteca e quella di casa a un'associazione di teologia. Ho già dettato l'iscrizione per la lapide sulla tomba».

Il tema non mi sembra di attualità.

«Lo è sempre. Nome, cognome, data di nascita, data di morte. E "Scio cui credidi", so in chi ho creduto, come scrive Paolo nella Seconda lettera a Timoteo».

Mi confidò che vorrebbe essere sepolto in questo complesso monastico.

«Sì, unico laico fra i religiosi dell'Opera Don Calabria. Due semplici pietre in un angolino, una per me e l'altra per mia moglie con la frase "Cor ad cor loquitur", il cuore parla al cuore, motto cardinalizio di san John Henry Newman. Ma i parenti di Rosanna ci vorrebbero nella cappella di famiglia, nel cimitero di Treviglio».

Vabbé, passiamo ad altro.

«E perché? "Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti". Salmo 90. La vita eterna è l'unico tema. La Chiesa oggi è una succursale dell' Onu, non ne parla. Questa è riduzione al mondo. Ma Vangelo significa buona notizia, in greco. Gesù non si occupò di politica, nella sua predicazione non condannò neppure la schiavitù. Venne a schiuderci le porte del paradiso. Prima lo sheol per gli ebrei era il regno dei morti, del buio».

Quel giorno chi le verrà incontro per primo? Un angelo? San Pietro? Dio?

«Non posso prevederlo. So che bisogna dimenticare la Divina Commedia».

L'aldilà non è la parodia dell'aldiquà.

«Per la Chiesa è paradiso, purgatorio o inferno. Preghiamo perché ai nostri cari sia accorciata la permanenza nel secondo, ma nell'aldilà non esiste il tempo».

E se lei finisse all'inferno?

«I santi c'insegnano che ci va solo chi lo vuole, chi rinnega coscientemente Dio. Hans Urs von Balthasar disse, o gli fecero dire, che "l'inferno esiste, ma è vuoto". Sarà. Tuttavia non intendo diventare il primo inquilino che lo inaugura».

Boccaccio confessò: «Spero che la morte mi colga mentre sono intento a leggere o a scrivere o, se a Dio piacerà, mentre prego e piango». Lei cosa spera?

«Parlava così per farsi perdonare il Decameron. Io prego perché la morte mi trovi vivo. E perché mi sia risparmiato un decesso improvviso: vorrei congedarmi con il conforto dei sacramenti».

Ha un animale domestico?

«Un tempo ero gattolico praticante. Ho avuto Micetto e Micetta. Il maschio tornava a casa ferito, ma farlo castrare mi sembrava una crudeltà. Alla fine ho inventato Baratto e Malvagio, gatti immaginari. Aiutano a evitare i litigi fra coniugi. Diamo a loro la colpa di tutto».

Paolo VI consolò un bimbo che piangeva la morte del suo cane, dicendogli che l' avrebbe rivisto in paradiso. È così?

«Non è un dogma. Ma credo che tutto ciò che abbiamo amato sarà salvato».

Questa sì che è fede.

«Ero l' allievo prediletto di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Luigi Firpo, la trimurti del laicismo. Non avevo alcuna intenzione di diventare cristiano, meno che mai cattolico. Ma cascai dentro una sorta di buco bianco».

Come e quando?

«Nell' estate del 1200, pardon, che lapsus linguae! Del 1964, la più calda del secolo scorso. I miei genitori, entrambi mangiapreti, erano in vacanza. Stavo controllando una citazione nel Vangelo, che non avevo mai aperto in vita mia. Non so che mi accadde. Cercai di resistere, ma non vi fu niente da fare. Quando scoprì la conversione, mia madre voleva farmi visitare da uno psichiatra. Galante Garrone mi diseredò moralmente sulla prima pagina della Stampa . Se ora lei mi puntasse una pistola alla tempia e m' ingiungesse di affermare che il Vangelo è una bufala, le direi: spari pure».

Dovette cambiare radicalmente vita.

«Da universitario mi mantenevo facendo il centralinista di notte alla Stipel, la compagnia telefonica di Torino, con altri giovanotti aitanti. Lo sport preferito delle signore sole era di chiamarci, invitandoci ad andarle a trovare di giorno. Divenuto credente, stracciai l'agendina con i loro numeri e gli indirizzi. Quella fu l'unica volta che scoppiai a piangere».

Nel 1971 le nozze, che durarono poco.

«Con la sorella del mio miglior amico, oggi diventata testimone di Geova. Mi circuì mentre ero ricoverato in ospedale, in stato di costrizione psicologica, come testimoniò davanti alla Sacra Rota».

Ne seguì una lunga causa di nullità.

«Conobbi Rosanna Brichetti alla Pro Civitate Christiana di Assisi. Ci sposammo quando lei aveva 57 anni e io 55. Per 30 abbiamo vissuto come fratello e sorella, in case separate. Il cardinale Joseph Ratzinger convinse papa Wojtyla a riaprire il fascicolo sull' unica persona che aveva scritto saggi con entrambi. Fui minacciato di morte dopo che pubblicai Rapporto sulla fede con l' allora prefetto dell' ex Sant' Uffizio: dovetti nascondermi in un convento dei barnabiti. Fino a quel momento la Congregazione per la dottrina della fede si era sempre espressa con due sole formule: "licet" o "non licet"».

Lei compirà 80 anni il 16 aprile, quando Benedetto XVI ne festeggerà 94.

«Sì, abbiamo in comune il dies natalis di santa Bernadette Soubirous, il giorno della sua nascita al cielo. Per anni ho trascorso le mie vacanze estive a Lourdes. Il rettore del santuario voleva che mi ci trasferissi come capo dell' ufficio stampa».

A Medjugorje c'è mai stato?

«Dopo le prime apparizioni. Lavoravo per Jesus . La polizia mi fece spogliare, dovetti togliermi persino le mutande».

E che conclusioni ne trasse?

«Il codice di diritto canonico stabilisce che solo i vescovi locali possano giudicare questi eventi. Il Vaticano non si è mai espresso né su Lourdes né su Medjugorje. Il presule di Mostar era scettico, ostile. Ma Gesù insegna che dai frutti si riconosce l'albero. Ebbene il paradosso è che l'albero di Medjugorje lascerà magari a desiderare, ma i frutti sono eccellenti: i pellegrini tornano da là tutti migliori».

Saprebbe dirmi per quale motivo la Madonna appare ovunque e Gesù mai?

«Gesù è anche Dio. Maria è solo donna, fa parte dell' umanità. È il trait d' union fra la terra e il cielo».

Incontra ancora il Papa emerito?

«Non oserei mai disturbarlo. Un giorno mi telefonò il suo segretario Georg Gänswein: "Sua Santità la rivedrebbe volentieri, ma lei dovrà dimenticarsi di essere un giornalista". Peccato, perché fece commenti sulla situazione della Chiesa che erano da prima pagina. Sulla scrivania teneva solo due giornali, il Corriere della Sera e la Süddeutsche Zeitung».

Che cosa pensa di quei cattolici convinti che il «vero» papa sia ancora lui?

«Non li seguo. Osservo solo che ha voluto restare vicino a Pietro».

Sente la mancanza dei figli?

«A me piacciono i bambini degli altri. Non avevo la vocazione alla paternità».

Sua moglie è laureata in sociologia con una tesi sul femminismo, ha lavorato al Censis, ha girato l' Italia a raccogliere pareri sulla legge Basaglia. Non sembrerebbe una messoriana.

«È laureata anche in giurisprudenza e in teologia. Di quella tesi ancora si vergogna. Fu una vittima del '68. L'ho guarita».

Ma perché passa per reazionario?

«Lo ignoro, ho sempre cercato di essere solo cattolico. Mi considero un uomo del Concilio Vaticano II. Non ho mai partecipato a una messa in latino. Anzi, sarei stato a disagio nella Chiesa di prima».

Che rapporti ha con l'Opus Dei?

«Di amicizia, come con Comunione e liberazione. Ma non ne faccio parte».

Il Vangelo non parla di peccati mortali e veniali. Lei crede a questa distinzione?

«Mah, insomma... Dopo la morte ci attende un tribunale. E i giudici irrogano le pene secondo la gravità delle colpe».

Se il sesso serve solo a procreare, quale peccato commette un marito il quale abbia già avuto figli e vi ricorra fuori dal matrimonio qualora la moglie si rifiuti di avere rapporti coniugali?

«Non ho una risposta. La lascio ai confessori. Guardi, quando iniziai a fare l'apologeta, decisi di astenermi da tre attività: dichiarare per quale squadra tifo, parlare di politica, trattare di morale. Sono argomenti che dividono. La Chiesa fa la moralista. Ma la morale cristiana senza essere cristiani appare disumana».

Non si è mai occupato di temi etici.

«È vero. E mi sono attirato diffidenze, se non rimproveri, per questa assenza. Che vuole mai, è la sindrome del convertito. Ciò che m' interessa è la fede, la possibilità stessa di credere, di scommettere sulla verità del Vangelo. Il resto è solo una conseguenza. Etica, società, lavoro, politica... Tutto necessario ma assurdo, se prima non si saggia l' esistenza e la resistenza del chiodo che deve reggere ogni cosa. E quel chiodo è Gesù».

·        Il Vaticano non evade l’Imu.

Luca Monticelli per "La Stampa"l'1 dicembre 2021. Trattative estenuanti sulle riformulazioni degli emendamenti, riunioni fiume, sedute notturne e toni sopra le righe. La discussione sul decreto fiscale al Senato, un provvedimento di fatto a costo zero, accende lo scontro politico non solo con l'opposizione ma anche dentro la maggioranza. Se il decreto fiscale rappresenta l'antipasto della manovra, il governo farebbe bene a preoccuparsi. Le votazioni sono proseguite durante tutta la notte, però su alcuni temi la variegata e litigiosa maggioranza è riuscita comunque a trovare un'intesa con il Mef. Oggi il provvedimento approderà in aula a Palazzo Madama. Il Pd è riuscito a far passare un emendamento che esenta dal pagamento della tassa sui rifiuti (la Tari) le basiliche di San Giovanni in Laterano, di Santa Maria Maggiore, di San Paolo e altri immobili compresi nel Trattato lateranense. Tra questi: il palazzo pontificio di Castel Gandolfo, l'Università Gregoriana, i due edifici di Sant'Apollinare e la Casa degli esercizi per il clero di San Giovanni e Paolo. Tutti edifici per i quali la Chiesa già non pagava. Ma una sentenza della Cassazione di alcuni mesi fa aveva sancito l'inversione di rotta. Ora l'emendamento consente di non pagare. Via libera alla proroga al 9 dicembre per il pagamento della rottamazione-ter e del saldo e stralcio che secondo il calendario dell'Agenzia delle entrate doveva essere perfezionato ieri. Con i cinque giorni di "tolleranza" che si applicano sempre ai termini fiscali, il rinvio arriverà al 14 dicembre. Fratelli d'Italia, che aveva indicato un differimento al 2022, parla di «vergogna», ma la materia sarà affrontata ancora in legge di bilancio, dove ci sono parecchi emendamenti. Luce verde pure a un altro emendamento che assicura più tempo per pagare le cartelle sospese durante l'emergenza Covid. Sono quegli atti che la Riscossione a settembre ha ricominciato a inviare ai contribuenti. I versamenti vengono estesi da 150 a 180 giorni. Niente intesa sul Patent box (la detassazione sui brevetti), che nella sua nuova versione aveva fatto insorgere Confindustria. L'impegno è trovare un punto di caduta in legge di bilancio. Dovrebbe rimanere fuori il testo del senatore dem Tommaso Nannicini che abolisce le agevolazioni alle società sportive che ingaggiano atleti provenienti dall'estero. Una misura del vecchio Decreto Crescita utilizzata soprattutto dalle squadre di calcio per far tornare in Italia i giocatori risparmiando sull'ingaggio.

Lo strappo sul Concordato e gli attacchi alla Chiesa. Fedez contro il Vaticano, ma la Chiesa si difende: “Non siamo evasori”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 24 Giugno 2021. Qualcuno lo vede in Vaticano come un intervento a gamba tesa, altri come una occasione per riaprire il dialogo tra i vari fronti opposti sulla questione, altri ancora come un boomerang. La Santa Sede ha ufficialmente chiesto al governo italiano di ripensare, “rimodulare” è la parola usata, il ddl Zan perché, così com’è ora, potrebbe configurare una violazione del Concordato, mettendo a rischio “la piena libertà” della Chiesa cattolica. Sta di fatto, comunque, che è la prima volta che il Vaticano si appella al Concordato per chiedere un intervento su una legge dello Stato. La preoccupazione è che la libertà di espressione venga compressa dalle nuove norme e che “non si possa più svolgere liberamente l’azione pastorale, educativa, sociale”. Ieri alla fine la stessa fonte che ha fatto uscire la Nota, cioè il Corriere della Sera, ne ha pubblicato il testo integrale. Si tratta di due pagine in cui in sostanza si ribadisce che alcuni contenuti dell’iniziativa legislativa — particolarmente nella parte sulla criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere» — inciderebbero negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario. Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e della Tradizione e del Magistero, che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina. In pratica si vuol dire che un parroco o un vescovo o un insegnante di religione, non dovrebbero correre il rischio di incappare in sanzioni spiegando in termini magari forti la dottrina cattolica. Tutto qui. In realtà la Nota da parte della Santa Sede è uno strumento diplomatico consolidato, anche se usato praticamente mai dalla Revisione del 1984 (epoca Craxi). Ed ha lo scopo di realizzare un intervento di più alto livello, rispetto a quello che possono fare i vescovi italiani, i quali nell’ultimo anno in due occasioni hanno fatto sentire il loro parere negativo e a favore di una revisione della legge, per mezzo del cardinale Bassetti, presidente della Cei. Sul piede di guerra adesso ci sono le associazioni Lgbt: «Il tentativo esplicito e brutale è quello di sottrarre al Parlamento il dibattito sulla legge e trasformare la questione in una crisi diplomatica, mettendola nella mani del Governo Draghi per far si che tutto venga congelato», denuncia l’Arcigay. Franco Grillini, ex parlamentare e storico esponente del movimento gay italiano, chiede invece di “abolire definitivamente” proprio il Concordato, «questo retaggio fascista. La pretesa vaticana di dettare legge all’Italia interferendo con la sua attività legislativa è irricevibile». In realtà si sprecano le opposte interpretazioni: chi dice che la segreteria di stato ha una linea difforme da Papa Francesco e chi torna all’attacco contro i privilegi della Chiesa, come scrivono Fedez e anche la Murgia, mettendo tutto sullo stesso piano: Vaticano e Concordato, Chiesa italiana, questioni fiscali, esenzioni e tasse, nel calderone dove tutto diventa uguale a tutto. Qui un sonoro non ci sto viene dal presidente dell’Apsa, mons. Nunzio Galantino. Dal suo osservatorio dove gestisce i beni immobili della Chiesa, ribadisce che nel 2020, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa, appunto) ha pagato per imposte: € 5,95mln per Imu e € 2,88mln per Ires. A queste vanno aggiunte le imposte pagate da Governatorato, Propaganda fide, Vicariato di Roma, Conferenza Episcopale italiana e singoli enti religiosi. E poco più di un anno fa in una dettagliata ricostruzione dei pagamenti e del rispetto delle norme, osservava a proposito del “mito della Chiesa che non paga le tasse sugli immobili”: «Bisogna ribadire che sugli immobili dati in affitto, quelli cioè che rendono davvero – aggiunge – da sempre le imposte vengono pagate senza sconti o riduzioni». Ricordando le polemiche alimentate in passato perché l’Ici prevedeva l’esenzione per gli immobili degli enti senza scopo di lucro, integralmente utilizzati per finalità socialmente rilevanti, mons. Galantino evidenziava che «questo tipo di esenzione non riguarda solo gli enti appartenenti alla Chiesa cattolica». Ma ne hanno «sempre beneficiato e beneficiano tutte le altre Confessioni religiose, tutti i partiti, tutti i sindacati e tutte le realtà che realizzano le condizioni previste dalla legge». Cosa accadrà adesso? Dal Vaticano tutto assolutamente tace e si aspetta la risposta del governo, chiamato a sbrogliare una complessa matassa politica perché la nota verbale ha dato il via al balletto della politica: Cinquestelle e sinistra a difesa del ddl Zan, mentre da destra si sta con il Vaticano. Una convergenza che fa scrivere ad Avvenire, il quotidiano dei vescovi: “Dal dibattito sul Concordato lo spunto per il dialogo”. Quello che aveva chiesto il presidente della Cei, il cardinale Bassetti, anche sfidando l’anima più conservatrice della Chiesa italiana che ha fatto del ddl Zan un totem da abbattere.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

"Fedez ha detto fesserie. Il Vaticano paga le tasse, ecco le cifre". Fabio Marchese Ragona il 24 Giugno 2021 su Il Giornale. Il presidente dell'Apsa smentisce il rapper: "È disinformato, nel 2020 oltre 5 milioni di Imu". Nella polemica sul Concordato tra Italia e Santa Sede, con il Vaticano che ha chiesto al Governo la rimodulazione del testo Zan, si è inserito anche il rapper Fedez che da tempo sostiene pubblicamente il ddl. Il re del tormentone estivo, ha lanciato dal suo profilo Instagram, che conta 12,6 milioni di followers, accuse al Vaticano sul tema degli immobili. «Amici», ha chiesto con ironia il cantante ai suoi seguaci, «voi avevate concordato qualcosa? Non avevamo concordato, amici del Vaticano, che ci davate delle tasse arretrate sugli immobili e che l'Unione Europea ha stimato in cinque miliardini o forse di più? In realtà non si sa, perché avete perso il conto degli immobili, ne avete troppi». Affermazioni che non vanno giù a monsignor Nunzio Galantino, presidente dell'Apsa, l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica che gestisce gli immobili della Santa Sede.

Monsignor Galantino che cosa risponde a Fedez?

«L'unica risposta che si può dare a una persona disinformata sono le carte, i fatti. Non so se lo faccia per ignoranza o per malafede. Non ci sono alternative. A fronte di affermazioni che lui non può documentare, io posso invece documentare che il Dicastero che presiedo paga».

Avete pagato?

«Nel 2020 l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato 5,95 milioni di euro per l'Imu e 2,88 milioni di euro per l'Ires. A queste vanno aggiunte le imposte pagate da Governatorato, Propaganda Fide, Vicariato di Roma, Conferenza Episcopale italiana e singoli enti religiosi. Nel 2019 abbiamo pagato oltre 9 milioni e 300 mila euro. Ed è tutto documentato! Poi se si vuole andare in processione con Fedez, si vada pure. Il problema è che qualcuno, pur sapendo queste cose, continua a dire che la Chiesa non paga...»

Fedez parla di miliardi di euro di arretrati...

«Chi dice che il Vaticano ha evaso 5 miliardi di Imu allo Stato non offre nessun dato che permetta di verificare questa affermazione. Da chi denuncia la rilevante somma che il Vaticano avrebbe evaso bisognerebbe farsi dire: in base a quale legge, su quali immobili e in riferimento a quale periodo è stato quantificato il debito del Vaticano? Bisogna ribadire che sugli immobili dati in affitto quelli che rendono davvero da sempre le imposte vengono pagate senza sconti o riduzioni. In passato, le polemiche furono alimentate perché l'Ici prevedeva l'esenzione per gli immobili degli enti senza scopo di lucro, integralmente utilizzati per finalità socialmente rilevanti (come scuole, mense per i poveri o centri culturali). È da sapere che l'esenzione non riguarda solo la Chiesa, ma tutte le Confessioni religiose, i partiti, i sindacati ecc. Ho persino chiesto a coloro che fossero a conoscenza di evasione da parte di enti ecclesiastici, di denunciarli subito alle competenti autorità, assicurando il mio appoggio».

Perché secondo lei Fedez ha fatto queste affermazioni?

«Bisognerebbe chiedere a lui, è difficile dare spiegazioni, io non lo conosco nemmeno, non so chi sia, lui può fare quello che vuole, ma chi lo ascolta deve sapere che almeno su questo argomento ha detto cose che, nella migliore delle ipotesi, non conosce. Perché a fronte delle mie parole ci sono dei fatti e ho le prove per smentirlo. La gente decida se vale più un documento o la parola di Fedez...»

La questione degli immobili vaticani è terreno fertile per chi vuol fare polemica...

«A metà luglio pubblicheremo il bilancio dove ci sarà elencato il numero degli immobili, in Italia, all'estero, ecc. e così saranno serviti anche questi benpensanti».

Forse il problema è che in passato la Chiesa non rendeva tutto pubblico?

«La responsabilità è anche nostra che talvolta, all'epoca, non abbiamo fatto buona o sufficiente comunicazione...».

Adesso con Papa Francesco le cose son cambiate?

«Dobbiamo riconoscerlo, oggi posso dire tu hai detto una fesseria e parli di cose che non conosci. O lo fai in malafede o perché lo ignori. Io ti aiuto a superare la tua ignoranza, se lo accetti o non lo accetti sono problemi tuoi. Grazie a Dio, il tempo del silenzio è finito!». Fabio Marchese Ragona

Ddl Zan, suor Anna Monica Alfieri replica a Fedez: "Inesattezze sul Vaticano, riprenda in mano i libri". Libero quotidiano il 25 giugno 2021. Basta Anna Monica Alfieri, la suora di Quarta Repubblica, per sistemare Fedez sul ddl Zan. Il cantante si è scagliato contro il Vaticano che ha chiesto modifiche al disegno di legge che limita la libertà di espressione dei fedeli. "Immagino - premette la religiosa del programma di Nicola Porro in una lettera aperta al rapper -, data la sua giovane età, che lei sia fresco di studi e che a scuola, sia alla Secondaria di Primo che alla Secondaria di Secondo Grado, i suoi insegnanti di Storia le abbiano presentato (e Lei poi a casa, nel pomeriggio, abbia studiato) il Concordato Lateranense del 1929 e la sua Revisione del 1984. Certo, lei mi dirà: il Concordato del 1929 fu firmato da Mussolini. Concordo. Quello del 1984 fu però firmato, per lo Stato italiano, da Bettino Craxi, un socialista doc, non certo un amico del Vaticano e delle sue presunte logiche di potere. Spero, quindi, che, prima di fare certe affermazioni, abbia ripreso in mano quei libri, sempre che li abbia conservati e non li abbia venduti alla fine dell’anno. Cosa lecita, ci mancherebbe, qualche soldino in più per aiutare in famiglia o da dare in beneficenza fa sempre bene!". Insomma, in modo del tutto garbato suor Anna invita Fedez a studiare. Anche sulle tasse che il Vaticano deve dalla religiosa arriva una vera e propria lezione. Fedez infatti aveva accusato la Chiesa di non pagare quanto dovuto. E proprio su questo suor Anna vuole fare chiarezza: "In merito alla sua preoccupazione dei danari (una preoccupazione davvero di alto profilo morale e, soprattutto, coerente con il suo stile di vita, sempre così sobrio e morigerato), la informo che, in merito alla sua affermazione ’Il Vaticano non paga le tasse immobiliari e l’Italia sta violando il Concordato’, nel 2020, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato per imposte € 5,95 mln per IMU e € 2,88 mln per IRES. A queste vanno aggiunte le imposte pagate da Governatorato". Poche precisazioni che hanno però smentito le tesi del rapper, ormai paladino dei più deboli. Basta pensare agli attacchi dal palco del Concertone del primo maggio alla Lega.

IMU ed immobili delle parrocchie. Da finanzaterritoriale.it. Ai fini dell’esenzione ICI/IMU/TASI per le attività di religione e di culto, la normativa IMU riproduce quella precedente dell’ICI. Con l’ICI (art. 7 commi d, i dlgs 504/1992) e poi con l’IMU (art. 9 co. 8 Dlgs 23/2011) si e’ sempre prevista l’esenzione – tra gli altri – per i fabbricati e pertinenze destinati esclusivamente all’esercizio del culto ed alle attività di cui all’art. 16 lett. “a” L 222/1985. Il legislatore e’ poi intervenuto per definire la tassazione ed i criteri di esenzione in base a criteri di proporzionalità (DM 200/2012) per gli enti non commerciali (anche religiosi) che svolgono queste attività (art. 7 comma i, decr.legisl. n. 504/1992). Le esenzioni previste ai fini IMU/TASI quindi si applicano per i fabbricati e per le loro pertinenze destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alla cura per le anime, alla formazione del clero e dei religiosi a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana (art. 7, c. 1, lett. d decr.legisl. 504 /1992, comma 8 dell’articolo 9 del decr. Legisl. n. 23 del 2011).. Nello specifico, tale esenzione vale per: – la CHIESA (E07) – la CASA CANONICA. Per la casa canonica ovviamente non esiste alcuna disposizione di legge che ne indichi l’esenzione. […]

Esenzioni Imu (Ici, Tares, Tasi). € 620.000.000. Inchiesta UAAR - Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti su icostidellachiesa.it/esenzioni-imu. L’Imu (Imposta Municipale Propria) dal 2012 ha preso il posto dell’Ici, che era stata a sua volta istituita con il Dlgs n. 504/1992. L’articolo 7 ne disciplinava le esenzioni. Con la sentenza n. 4645 dell’8 marzo 2004 la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sull’uso quale casa di cura e pensionato di alcuni immobili di proprietà dell’Istituto Religioso del Sacro Cuore, ribadì autorevolmente che, trattandosi di attività «oggettivamente commerciali», gli immobili oggetto del contenzioso non potevano rientrare nell’ambito dell’esenzione. Nel quadro del Decreto Fiscale collegato alla Legge Finanziaria 2006, il parlamento decise di andare contro la sentenza della Cassazione ed estese l’esenzione Ici anche agli immobili di proprietà ecclesiastica adibiti a scopi commerciali. Il decreto legge n. 223/2006 successivamente eliminò l’esenzione totale, stabilendo che la stessa «si intende applicabile alle attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale»: in pratica, era sufficiente che all’interno dell’immobile destinato ad attività commerciale si mantenesse anche solo una piccola struttura destinata ad attività religiose per garantire l’esenzione dall’Ici all’intero edificio. Una decisione che non piacque alla Commissione Europea la quale, in seguito a una denuncia dei radicali, aprì un’inchiesta contro il governo italiano per sospetti «aiuti di Stato» alla Chiesa e violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza, inchiesta terminata nel 2016 con un nulla di fatto, facendo risparmiare alla Chiesa cattolica tra i 4 e i 5 miliardi di euro. Secondo le stime dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, diffuse nel settembre 2005, il provvedimento relativo alla finanziaria 2006 avrebbe comportato un ammanco nelle casse comunali di circa 200-300 milioni di euro, 20-25 soltanto a Roma (25,5 secondo lo stesso Comune di Roma, scriveva L’Espresso dell’8 settembre 2011). Maltese, a p. 62, scrive che alla stima Anci vanno aggiunti «gli immobili considerati unilateralmente esenti da sempre e mai dichiarati ai Comuni, per giungere a un mancato gettito complessivo valutato per difetto intorno a 1 miliardo di euro l’anno». Folena, a p. 42, replica così all’articolo di Maltese pubblicato su Repubblica che ha costituito l’origine di questo passaggio ne La questua: «Unilateralmente? Assurdo: sarebbe come se ciascuno di noi, persona fisica, decidesse di ritenersi “unilateralmente esente” dall’Irpef e così non pagasse le tasse. Tanto assurdo che questo passaggio nel libro scompare». Non è vero, come si può notare. E ovviamente era possibile evadere totalmente l’Ici, perché era sufficiente non aver cominciato a pagarla a suo tempo sulla base della legge del 1992, cambiare l’uso dell’edificio in senso commerciale, e non comunicare tale modifica. La legge, scrivevano i giuristi, non rendeva del resto facile stabilire quali condizioni debbano ricorrere affinché un edificio di culto non debba più essere considerato tale. A p. 41 Folena sostiene che «gli alberghi pagano, e se ciò non avviene, li si induca senza remissione a pagare: senza alcuna incertezza», confermando quindi che non esiste alcun controllo ecclesiastico ‘superiore’ che verifichi la correttezza tributaria dei vari enti ecclesiastici proprietari di edifici in cui si pratica l’attività alberghiera. Lo stesso Folena, a p. 48, scrive del resto che «quella delle “celebri” Orsoline [menzionate da Maltese a mo’ di esempio di attività alberghiera esente] è in realtà una scuola. D’estate vengono messe a disposizione le stanze delle studentesse: 80 euro pensione completa in alta stagione, sconti per famiglie, i bambini pagano la metà». Ma 80 euro sono, per l’appunto, una tariffa di mercato, anzi: condizioni più care di quanto praticato sul mercato da non professionisti. E la stessa scuola probabilmente applica, nel resto dell’anno, condizioni di mercato. Una ‘Casa del clero’ che offre stanze a persone comuni è stata inoltre individuata dal segretario radicale Mario Staderini insieme a tre pensionati per studenti (cfr. sito de L’Espresso): esiti simili per un servizio di Striscia la notizia. Sul Fatto Quotidiano del 20 agosto 2011, che si sofferma in particolare sulla tassazione degli alberghi, è peraltro riportato questo passaggio: «A pagare, secondo l’Associazione nazionale dei comuni italiani, sono meno del 10 per cento di chi dovrebbe farlo, con un danno erariale di circa 500 milioni l’anno». Come lo stesso Folena ricorda (p. 42) i rapporti tra vescovi e i vertici dell’Anci sono cordiali, tanto che il segretario generale dell’associazione Angelo Rughetti ha invitato gli amministratori locali a partecipare al Congresso Eucaristico (cfr. Ultimissima dell’11 agosto 2011). Ed è del resto noto che, pur se la Cassazione è di diverso avviso (cfr. sentenza n. 17399/2011), nei rari casi in cui il mancato pagamento dell’Ici da parte di un ente religioso veniva esaminato da una commissione tributaria, l’ente tendeva a giustificare le proprie ragioni con semplici autocertificazioni e l’esito gli era generalmente favorevole: si veda il caso di una casa per ferie “scagionata” perché l’immobile «era al servizio di una comunità religiosa per attività ricettiva-assistenziale, senza fini di lucro, che veniva svolta con lo spirito apostolico proprio della Congregazione» (cfr. il sito del Sole 24 Ore). L’“assoluzione” da parte delle commissioni tributarie richiederebbe del resto un ulteriore intervento in Cassazione, che non sempre ha luogo (cfr. Ultimissima del 10 novembre 2011). E, ancora, sebbene la locazione di un appartamento sia sempre stata gravata da ICI, sono invece esenti le canoniche e le abitazioni di residenza dei vescovi (cfr. Cassazione n. 6316/2005), così come quelle dei parroci, e persino quelle dei sagrestani. Infine, si ricorda che secondo stime non smentite effettuate dal Gruppo RE (che sostiene di operare sul mercato immobiliare «adottando canoni di comportamento deontologico rispettosi dell’Etica, interpretata secondo la Morale Cattolica»), pubblicate sul settimanale Il Mondo nel maggio 2007, il patrimonio immobiliare di proprietà della Chiesa e delle sue varie articolazioni rappresenta tra il 22 e il 25% del valore dell’intero patrimonio immobiliare italiano. Quantomeno 115.000 immobili, ha reso noto il quotidiano conservatore Il Tempo, di cui 25.000 nella sola Roma. In attesa dell’intervento del governo, nel febbraio 2012 l’Anci diffuse una nuova stima, definita «prudenziale», che valutava tra i 500 e i 600 milioni l’entità dell’esenzione Ici-Imu. Va anche ricordato che le modifiche concordatarie del 1984, all’articolo 19, stabiliscono che «agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tale scopo, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime»: pertanto, con l’introduzione e la generalizzazione delle esenzioni Ici-Imu, come ha notato per primo il prof. Piero Bellini dell’università La Sapienza di Roma, si è in presenza di «una modifica del Concordato da parte dello Stato, peraltro in favore della Chiesa, che avviene nelle forme non previste dallo stesso Concordato. Il quale, essendo “protetto” dalla Costituzione, non può essere modificato se non nelle forme previste dalla Costituzione stessa, cioè attraverso un accordo tra le parti». Un capitolo ancora a parte è quello delle chiese – non soggette a tassazione – dove tuttavia si fa pagare un biglietto d’ingresso in considerazione del valore artistico delle stesse: perché non dovrebbero essere colpite da imposta? L’introduzione dell’Imu, nel 2012, non è stata immediatamente estesa alle proprietà ecclesiastiche: il governo Monti ha infatti preso tempo per stabilire le linee guida, e il Consiglio di Stato ha persino rispedito al mittente la prima bozza elaborata dall’esecutivo. In seguito è stato elaborato un nuovo regolamento che contiene luci e ombre, tanto da far parlare di «mini Imu» o addirittura di «bluff», visto che la nuova normativa si presta a mille interpretazioni: a partire dall’assunto che per modalità non commerciale va intesa quella che manca del fine di lucro e stabilendo, caso per caso, quando si ritiene che manchi il fine di lucro (la corresponsione di una retta simbolica, la non redistribuzione di eventuali utili, il regime in convezione con lo Stato) sulla base dell’esame dello statuto dell’ente, che poteva comunque essere adeguato entro il 31 dicembre 2012 per rispondere ai requisiti richiesti. Nel dicembre 2016 la Corte di Cassazione ha stabilito che, se gli enti religiosi godono di una tassazione agevolata, allora devono anche applicare rette «significativamente ridotte». Nel dicembre 2012 la Commissione Europea dava il via libera al regolamento Imu, rilevando nel contempo come la precedente normativa fosse illegittima: nello stesso tempo l’ha tuttavia “condonata”, ritenendo «oggettivamente impossibile», sulla sola base delle dichiarazioni del governo italiano, stabilire quanta parte degli immobili era da considerarsi commerciale e quindi non coperta dall’esenzione Ici. Il danno complessivo per le casse pubbliche nel periodo 2006-2012 è stato stimato tra i due e i tre miliardi di euro. Per fortuna la questione è ancora aperta: stando all’avvocato generale della Corte Europea, Melchior Wathelet, la Chiesa è tenuta a pagare quanto “evaso”. Nel frattempo, come ha notato anche il periodico cattolico Adista, parlando di “imbroglio”, le nuove regole sono lungi dall’introitare, come previsto, le centinaia di milioni annui che la normativa precedente consentiva di non pagare. Non avendo nemmeno alcun riscontro di un’entrata in vigore delle nuove regole e di un’applicazione delle stesse, mentre si continua ad aver notizia di organizzazioni cattoliche soccombenti nei ricorsi per Ici non pagata negli anni precedenti, nel settembre 2013 l’Uaar ha scritto al Vice-Presidente della Commissione Europea, Joaquin Almunia, e alla Rappresentanza della Commissione europea in Italia, per denunciare come “i governi succedutisi nel nostro paese non intendono dunque in alcun modo intervenire sul trattamento di favore fiscale assicurato ai beni di proprietà della Chiesa cattolica”. Un decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, emanato il 26 giugno 2014, ha infine introdotto per scuole paritarie e cliniche private un regime agevolato, esentandole di fatto dal pagamento dell’Imu e della Tasi. Il Ministero ha infatti stabilito che sono esenti dal pagamento le scuole paritarie che esigono una retta media per studente inferiore al costo medio per studente della scuola pubblica e le strutture ospedaliere private purché convenzionate. Nel novembre 2014, la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha però riaperto la questione, ammettendo un ricorso radicale contro le decisioni della Commissione Europea: nel 2018 è arrivata la sentenza, che ha in sostanza “sdoganato” la nuova normativa, stabilendo però che le strutture ecclesiastiche devono pagare l’arretrato, stimato in circa cinque miliardi. Il “governo del cambiamento” guidato da Giuseppe Conte non sembra però intenzionato a recuperare tale enorme somma. Nel frattempo, nel luglio 2015 la Corte di Cassazione ha dato ragione al Comune di Livorno, che aveva presentato ricorso contro il mancato pagamento delle tasse sugli immobili da parte di due scuole gestite da enti religiosi (concetto ribadito con un’ulteriore ordinanza favorevole al Comune di Orvieto contro un istituto religioso e, nel 2017, al Comune di Cagliari contro un altro istituto religioso). Mostrando così platealmente quanto estesa sia l’area di evasione. A Roma, ha scritto il Corriere della Sera, un albergo su quattro è di proprietà ecclesiastica, ma solo il 40% vi paga le relative tasse: non solo quelle sulla proprietà e i rifiuti, ma persino quelle di soggiorno. Tutto questo nonostante gli elevati prezzi praticati, come confermato da testate politicamente agli antipodi quali Left e Il Tempo. L’arretrato per tali beni, secondo l’Agenzia delle Entrate, nella capitale ammonta a diciannove milioni di euro. Il fenomeno è talmente diffuso da aver dato lo spunto per il soggetto di una commedia cinematografica, Io c’è. Riteniamo pertanto legittimo, in attesa di un’effettiva applicazione di imposte sui beni ecclesiastici a destinazione parzialmente commerciale o, più probabilmente, dell’avvio di una nuova fase di contenzioso tra amministrazioni locali ed enti ecclesiastici, continuare a stimare l’area di imposizione in almeno 600 milioni di euro di mancati introiti per le casse pubbliche. Dal 2014 è inoltre entrata in vigore la Tasi, che affianca a sua volta l’Imu. A essa è stata accorpata la tassa sui rifiuti (Tari), e l’esenzione che era a discrezione dei comuni è diventata quindi legge nazionale, il cui beneficio aggiuntivo è stimabile in almeno venti milioni.

Imu e Chiesa: facciamo un po' di chiarezza. La Chiesa, che significa le parrocchie, gli istituti ecclesiastici, gli ordini religiosi, ha sempre pagato l’Ici, ora Imu. Quindi, dove sta tutto questo clamore? Sergio Criveller il 29/11/2018 su lavitadelpopolo.it. Imu e Chiesa, tema che ci mancava. “La Chiesa pagherà l’Imu sui propri immobili”, questo si è letto nei giorni scorsi su diversi quotidiani. Ma sugli immobili in cui si svolgono attività esclusivamente commerciali (un negozio, un bar, un hotel…), la Chiesa, che significa le parrocchie, gli istituti ecclesiastici, gli ordini religiosi, ha sempre pagato l’Ici, ora Imu. Quindi, dove sta tutto questo clamore? Facciamo chiarezza. Ai fini dell’esenzione Ici-Imu-Tasi per le attività di religione e di culto, la normativa Imu riproduce quella precedente dell’Ici. Con l’Ici (art. 7 commi d, i D.L. 504/1992) e poi con l’Imu (art. 9 comma 8 D.L. 23/2011) si è sempre prevista l’esenzione per gli immobili destinati esclusivamente all’esercizio del culto e della religione. Si è, poi, intervenuti per definire l’esenzione in base a criteri di proporzionalità (DM 200/2012) per gli enti non commerciali (anche religiosi) che svolgono attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive (art. 7 comma i, D.L. 504/1992). Le esenzioni previste ai fini Imu-Tasi, quindi, si applicano per gli immobili destinati esclusivamente all’esercizio del culto e alla cura per le anime, alla formazione del clero e dei religiosi a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana (art. 7, c. 1, lett. d D.L. 504 /1992, comma 8 dell’articolo 9 del D.L. n. 23 del 2011). Problemi di interpretazione sono nati, però, nel 2005 quando il governo Berlusconi ampliò l’esenzione, allargandola anche agli immobili che svolgono attività fiscalmente qualificate come “economiche/commerciali”, cioè le attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive. Ma quando un’attività è considerata economica? La scuola materna parrocchiale, per esempio, è un’attività economica solo per il fatto che c’è la partita Iva? Con l’Ici c’era la possibilità di “interpretare”, invece con l’Imu le cose sono molto più chiare. Comunque, la sostanza non cambia: la scuola materna giustamente non pagava l’Ici, come ora non paga l’Imu. L’Unione europea affermava che il “sistema italiano di esenzioni all’Ici verso gli enti non commerciali per scopi specifici tra il 2006 e il 2011 era incompatibile con le regole Ue sugli aiuti di Stato”, in quanto conferiva, di fatto, un vantaggio selettivo alle attività commerciali svolte negli immobili di proprietà di questi enti e quindi anche della Chiesa, rispetto a quelle portate avanti da altri operatori. La Commissione Ue nel 2012 e il Tribunale Ue nel 2016 comunque avevano sancito “l’impossibilità di recupero dell’aiuto a causa di difficoltà organizzative”. Oggi, invece, la Corte di Giustizia Ue si è pronunciata ribaltando quanto precedentemente disposto; in particolare, ha spiegato che affinché possa archiviarsi l’aiuto di Stato, non è sufficiente prendere atto dell’impossibilità di recupero dichiarata dallo Stato italiano. E’ necessario invece accertare con un “esame minuzioso” l’inesistenza di “modalità alternative” per provare a incassare almeno in parte i soldi andati persi. Quindi, auguri e buon lavoro! Solo gli enti della Chiesa sono oltre 40 mila, per non parlare, poi, di tutti gli altri enti… ma chissà perché poi alla fine si parla solo di Chiesa… o di Vaticano. Sulle attività commerciali si sono sempre pagate Ici e Imu. Dove non c’è profitto, è corretto non pagare l’Imu. Comunque, il ricorso accolto dalla Corte Ue è sull’Ici. Quello sull’Imu è stato respinto, per cui la Chiesa continua a essere esentata dal pagamento per gli immobili con le caratteristiche sopra elencate.

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OGGI LA CHIESA PAGA L’IMU, MA NON HA ANCORA RESTITUITO CINQUE ANNI DI TASSE NON VERSATE. NOTIZIA INFONDATA! Da facta.news il 24 giugno 2021. Il 23 giugno 2021 la redazione di Facta ha ricevuto una segnalazione che chiedeva di verificare l’informazione secondo cui la Chiesa cattolica non pagherebbe l’Imu, l’imposta comunale unica italiana sul possesso dei beni immobili istituita con il d.lgs. 14 marzo 2011 n. 23.

Si tratta di una notizia imprecisa.

Attualmente la Chiesa cattolica paga quanto dovuto allo Stato italiano per i suoi immobili: secondo i dati diffusi da Apsa (l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, l’ente che gestisce materialmente gli edifici), l’esborso per l’anno 2018 è stato di 9,2 milioni di euro, cifra calata a 5,7 milioni nel 2019 e a 5,9 milioni nel 2020.

Il Vaticano ha insomma sicuramente pagato diversi milioni Imu negli ultimi anni, ma non è sempre stato così. Prima che esistesse l’Imu, l’imposta sugli immobili era l’Ici (imposta comunale sugli immobili). Il regime di esenzione per alcuni edifici, tra cui quelli della Chiesa, previsto (art. 7) dalla legge che disciplinava l’Ici era particolarmente complesso e originava spesso contenziosi giudiziari. Nel 2004 la Cassazione diede infine un’interpretazione restrittiva della legge, non dando l’esenzione a quei beni immobili che avessero avuto natura «oggettivamente commerciale». Nel 2005 il governo Berlusconi III modificò la legge, per dare l’esenzione anche a tutti quegli edifici che non avessero «esclusivamente natura commerciale». In base a tale modifica, come hanno spiegato nel 2019 i colleghi di Pagella Politica, praticamente qualsiasi attività commerciale gestita da religiosi avrebbe avuto diritto all’esenzione dall’imposta, anche se nata con il fine di generare profitto. La disciplina – che continuava a causare numerosi ricorsi nei tribunali – fu modificata solo nel 2012 dal governo Monti, che limitò l’esenzione alle attività non commerciali (decreto-legge n.1 del 24 gennaio 2012). I vari ricorsi causati dalla normativa del 2005 avevano alla fine portato a un intervento dell’Unione europea, che nel 2012 ha stabilito che la modifica voluta da Berlusconi rappresentasse un illegittimo aiuto di Stato, ma che la somma dovuta dal Vaticano all’Italia non fosse quantificabile e quindi non andasse recuperata. L’ultima parola è però arrivata nel 2018 dalla Corte di Giustizia Ue –  l’organo che si occupa di garantire che il diritto dell’Unione europea venga interpretato e applicato allo stesso modo in ogni Paese europeo – che con una sentenza del 6 novembre ha stabilito che l’Italia non avesse dimostrato sufficientemente di non poter recuperare il dovuto e dunque che quei soldi andassero riscossi. In base a questa sentenza, nel 2019 la Commissione europea ha chiesto all’Italia di recuperare il totale dovuto tra il 2006 e il 2011 (gli anni dell’esenzione votata dal governo Berlusconi III), suggerendo alcune strategie per calcolare la cifra non riscossa, come ad esempio imporre a tutti gli interessati un «obbligo di autocertificazione» oppure prevedere un sistema di «controlli in loco tramite gli organi ispettivi» Come hanno spiegato i colleghi di Pagella Politica, ad oggi lo Stato italiano non è ancora riuscito a quantificare l’Ici arretrata, che resta dunque una pendenza della Santa Sede nei confronti dell’Italia.

·        Vaticano e Bilanci.

Ecco i numeri che fanno tremare la Chiesa. Francesco Boezi il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Con il crollo dell'otto per mille, la Chiesa cattolica perde milioni di "scelte". E c'è un rimbalzo statistico che riguarda lo Stato italiano. Otto per mille fa rima con fiducia dal basso. Quella che alla Chiesa cattolica non è mai mancata. I dati hanno tuttavia iniziato a raccontare di una contrazione. La casistica è chiara: c'è una progressiva diminuzione dei dichiaranti che optano per la "donazione" annuale, per usare un termine improprio, alla Chiesa. Capirne le cause, non è un'operazione semplice. Si può per lo più sospettare. Tra chi si interroga sui perché del calo, che ad esempio può essere dovuto pure al clima culturale, e chi invece ritiene che il tutto rientri in una fluttuazione naturale, le istituzioni ecclesiastiche per ora non si sbracciano affatto. Si tratta pur sempre di denaro. E la linea di papa Francesco è chiara: in quel campo, la battaglia è per la trasparenza, non certo per il quantum. Di dichiarazioni pubbliche, insomma, non ce ne sono state. E a pensarci bene sarebbe strano se il Vaticano si esprimesse su una questione che è per lo più materiale. Comunque sia, interpretando i numeri delle statistiche, può essere presentata una riflessione sul relativismo. Si tratta di uno spauracchio sbandierato da tempo, da Joseph Ratzinger in poi, che certo può influire sull'otto per mille. Capiamoci, non esiste una bussola precisa per comprendere come stia procedendo l'avanzata del "relativismo" e quanto quell'offensiva svolga un ruolo sulle "donazioni". Ma forse qualche forma di collegamento c'è. Perché più quell' "ismo" procede spediti nel mondo e meno la Chiesa cattolica conta. Questo, almeno, è vero secondo buona parte degli avvertimenti sulla fine o sul ridimensionamento del cattolicesimo. Un’analisi sull'affezione che i fedeli provano nei confronti della Chiesa, quindi della confessione religiosa cristiano-cattolica, può passare pure dalla disamina su coloro che destinano o non destinato quella quota di reddito. Del resto, quando la secolarizzazione monta, un'elargizione favorevole all'Ecclesia può essere percepita in misura differente. E quando l'ex pontefice Benedetto XVI profetizzava su come la Chiesa avrebbe perso "potere", forse si riferiva anche a questioni come questa. Com'è ovvio, poi, il relativismo non è il solo motivo che inficia sulla flessione. Ma la semplicità con cui anni fa veniva compiuta quella scelta può essere venuta meno, in parte, per quel fenomeno culturale. Veniamo ai numeri ed alla loro freddezza. La statistica, sul lungo periodo, registra una discesa costante: Il Messaggero ha immortalato una contrazione pari a "tre milioni e mezzo" nell'arco di un novennio. Non sono euro, ma "scelte". Analizzando le cifre pubblicate sul sito del Ministero delle Finanze, ci si può sbizzarrire. Per quel che concerne il 2021, le "scelte espresse valide" sono state 17.223.272, mentre l'anno scorso erano state 17.357.043. Il che potrebbe confondere sull'andazzo generale. Ma poi il sentiero intrapreso si palesa. Perché nel 2019 erano 17.592.274, nel 2018 17.777.621, nel 2017 18.688.601, nel 2016 18.817.796, nel 2015 18.929.936 e così via. Ricette per risalire la china non se ne leggono. E forse si tratterà soltanto di abituarsi alle nuove medie, che comunque restano alte e non configurano chissà quale dramma. Abbiamo accennato al "clima culturale". Basta riavvolgere il nastro di qualche settimana, per rammentare quanto spazio abbiano avuto le polemiche attorno al Ddl Zan, dopo la nota diplomatica della Segreteria di Stato. Quel "chi ha concordato il Concordato" pronunciato da Fedez può essere la spia di una problematica generazionale. Quanti, tra le nuove generazioni, percepiranno come normale il rapporto esistente tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica? É un caso - questo un altro quesito - che alcune delle persone (un milione) che hanno smesso di scegliere l'otto per mille - così come segnalato dal quotidiano sopracitato - abbiano iniziato a preferire lo Stato come destinatario? É una domanda che sembra riguardare più l'avvenire che l'oggi, ma che sta divenendo di stretta attualità. E anche l'avvenire dell'otto per mille può dipendere dalla risposta.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna.

L. Ci. Per "il Messaggero" il 10 agosto 2021. Circa tre milioni e mezzo di scelte in meno negli ultimi nove anni, di cui un milione solo tra il 2019 e il 2020. Continua a calare il numero dei contribuenti che riservano alla Chiesa cattolica il proprio otto per mille Irpef nella dichiarazione dei redditi. Ma i dati appena resi disponibili dal Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia evidenziano anche un fenomeno nuovo: il sostanziale travaso di preferenze (appunto un milione circa) tra la Chiesa e lo Stato, con tutta probabilità dovuto ad una specifica novità introdotta a partire dalle dichiarazioni dello scorso anno, relative ai redditi del 2019: la possibilità per i cittadini di scegliere direttamente tra cinque opzioni l'ambito di utilizzo dell'otto per mille devoluto allo Stato, con in più la garanzia che le risorse destinate alla scuola non saranno in nessun caso spostate su altre finalità. Dunque una fetta consistente di contribuenti avrebbe apprezzato la possibilità di decidere in prima persona l'utilizzo della quota delle proprie imposte, accordando fiducia all'istituzione statale. Va ricordato che l'otto per mille non prevede un prelievo aggiuntivo, ma semplicemente il trasferimento di questa frazione dell'Ifpef versata dai cittadini alle confessioni religiose oppure allo Stato per finalità specifiche. La scelta non è obbligatoria ed in effetti sono meno della metà del totale i contribuenti che la fanno: lo scorso anno 16,8 milioni su 41,5. La Chiesta cattolica, a differenza di altre confessioni, ha aderito alla possibilità di percepire anche la quota di otto per mille lasciata inoptata, sempre in proporzione alla percentuale di preferenze effettivamente espresse. Questo è il motivo per cui il finanziamento effettivo ottenuto è rimasto sostanzialmente costante negli ultimi tempi nonostante il calo delle preferenze: circa un miliardo l'anno (pur a fronte di un gettito Irpef in leggero aumento). Le norme prevedono che i fondi siano distribuiti con tre anni di ritardo: così ad esempio quelli relativi ai redditi del 2019, formalizzati nella dichiarazione dell'anno successivo, saranno ripartiti tra gli aventi diritto nel 2023. LO SMOTTAMENTO Dieci anni fa, con la dichiarazione sui redditi 2010, la Chiesa aveva totalizzato circa 15,6 milioni di scelte, pari all'82,2 per cento dei contribuenti che si erano espressi e al 37,6 di quelli totali. Per i redditi del 2018 il numero assoluto di scelte era sceso a 13,2 milioni, con percentuali rispettivamente del 77,2 e del 31,8. In un anno c'è stato uno smottamento, con 12,1 milioni di preferenze espresse, ovvero il 71,7 per cento del totale, e il 29 dei contribuenti complessivi. Contemporaneamente i cittadini che hanno preferito lo Stato sono aumentati da 2,8 a 3,8 milioni, pari al 22,6% delle indicazioni. Le altre confessioni sono tutte staccatissime nella graduatoria, con i valdesi al terzo posto (2,9% delle scelte).

LA GARANZIA Come si diceva, dallo scorso anno c'è la possibilità di precisare la destinazione dell'8 per mille statali tra i cinque diversi ambiti beneficiari: fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione dei beni culturali e ristrutturazione e messa in sicurezza degli edifici scolastici. Probabilmente quest'ultima finalità è stata sentita particolarmente vicina dai contribuenti. Per di più ora la legge garantisce quest'ultima voce dai dirottamenti contabili che i vari governi hanno costantemente praticato in nome dell'emergenza finanziaria, inserendo apposite deroghe nei vari provvedimenti d'urgenza: l'Irpef destinata alla scuola invece sarà utilizzata esclusivamente per questo obiettivo, che comprende anche i lavori di adeguamento anti-sismico e di efficientamento energetico.

Leonardo Di Paco per lastampa.it il 24 luglio 2021. Gli effetti della crisi da Covid non risparmiano niente e nessuno, nemmeno il forziere del Vaticano. Per la prima volta viene pubblicato il bilancio dell'Apsa (l’amministrazione patrimonio Sede apostolica), relativo all'esercizio 2020, da cui emerge un risultato gestionale di 21,99 milioni di euro, in calo di 51,2 milioni rispetto al 2019 (era di 73,21 milioni). La gestione mobiliare ha prodotto un risultato di 15,29 milioni (-27,1 rispetto al 2019), la gestione immobiliare 15,25 milioni (-8,3), le altre attività un disavanzo di 8,56 milioni (con un calo di 15,8 mln sul 2019).  Malgrado i «ridotti risultati economici», dovuti in gran parte alla pandemia, l'Apsa ha contribuito alla copertura del deficit della Curia per 20,6 milioni.

Cresce il deficit. «Il deficit dell'anno scorso era di 11,1 milioni di euro e quello di quest'anno è di 66,3 milioni, tutto sommato meglio di quanto ci aspettassimo» ha sottolineato il prefetto vaticano per l'Economia, Guerrero Alves. «Non posso dire che sia stato un buon anno. Ma date le circostanze, posso dire che per il 2020, prima della pandemia, avevamo previsto a budget un deficit di 53 milioni di euro. Quando è apparso il Covid, le previsioni di deficit che abbiamo fatto nel migliore scenario sarebbero state di 68 milioni di euro e nel peggiore di 146 milioni di euro. Nello scenario medio il deficit si prevedeva di 97 milioni di euro. Così abbiamo rivisto il bilancio in marzo accettando un deficit di 82 milioni di euro. Il risultato che si è invece verificato, con un deficit di 66,3 milioni di euro, è stato leggermente migliore del migliore degli scenari ipotizzati, e decisamente migliore di quanto avevamo previsto nel bilancio rivisto in marzo». Secondo Alves «la buona notizia è che, grazie agli sforzi fatti, i risultati si avvicinano molto a quelli di un anno normale. Il deficit ordinario è inferiore di 14,4 milioni di euro rispetto al 2019: 64,8 milioni di euro nel 2020, rispetto ai 79,2 milioni di euro del 2019».

Il patrimonio immobiliare. Sono 4.051 unità le immobiliari gestite in Italia, delle quali il 92% delle superfici degli immobili è localizzato nella Provincia di Roma, il 2% è collocato nelle province di Viterbo, Rieti e Frosinone, il restante 6% è collocato al di fuori del Lazio. Per quanto riguarda Roma, la maggiore concentrazione riguarda le zone immediatamente adiacenti lo Stato Città del Vaticano con il 64% delle superfici che si trova nei rioni centrali, il 19% nei quartieri limitrofi ed il 17% nei quartieri periferici. Circa 1.200 unità immobiliari sono gestite all’estero (Londra, Parigi, Ginevra e Losanna) ed in Italia dalle società partecipate. L’Apsa, si legge, in termini di imposte per la gestione e il possesso degli immobili sul territorio italiano per l’anno 2020 ha versato 5,95 miliardi per Imu e 2,88 miliardi per Ires. 

«Non siamo un’azienda». L’amministrazione delle risorse della Sede Apostolica, viene spiegato nel documento, «non è paragonabile a quella di un’azienda e nemmeno a quella di uno Stato: non esistono entrate sicure derivanti dalle tasse, né debito pubblico». L’adempimento della missione della Santa Sede, «quindi, dipende esclusivamente dalle donazioni e dai rendimenti dei beni». 

Ecco quanto guadagna il Papa (e i cardinali, i vescovi, i preti e le suore). Marco Trabucchi su Vanityfaire.it l'11/4/2021. Quanto guadagnano vescovi, arcivescovi e sacerdoti sono in molti, fedeli e non, a chiederselo. L’aspetto economico – al di là dei singoli stipendi – ha sempre caratterizzato le grandi religioni, che sono da sempre una macchina da soldi. Nel corso degli ultimi secoli le scelte religiose hanno condizionato i valori e i comportamenti di milioni di persone, e influito sulla produzione di ricchezza e sulla diffusione del benessere in molte aree del mondo. Un rapporto, quello tra fede ed economia, simbiotico, illustrato anche da Rachel McCleary e Robert J. Barro, docenti all’Università di Harvard e autori del saggio La Ricchezza delle religioni, L’economia della fede e delle chiese (Egea, Egea – Bocconi Editori).

GLI STIPENDI DELLA CHIESA, COME SONO CALCOLATI. Nel mondo ecclesiastico esistono ruoli, responsabilità e gerarchie come in qualsiasi altro settore lavorativo. La posizione, l‘anzianità maturata nel ruolo e il prestigio conquistato nella scala gerarchica determinano anche il compenso che l’ecclesiastico in questione riuscirà a percepire, calcolato in maniera precisa. Il sistema ideato dal Vaticano si basa su una sorta di punteggio, per così dire, che corrisponde di fatto all’anzianità del prelato preso in considerazione. Questi e altri fattori definiscono lo stipendio medio di ciascun religioso e i loro guadagni. Ovvio però che la curiosità popolare riguardi soprattutto il Papa Bergoglio ha da sempre predicato sobrietà, invitando non solo al risparmio ma soprattutto a una gestione trasparente dei conti, così da poter contrastare l’operato irregolare di pochi. Partiamo proprio da lui.

QUANTO GUADAGNA IL PAPA. Papa Francesco appena insediatosi ha rinunciato a uno stipendio fisso. Un gesto simbolico segnale di un cambiamento di rotta, sperando che le alte gerarchie ecclesiastiche seguissero il suo esempio. Prima di lui, Papa Ratzinger, percepiva 2.500 euro di mensilità. Pur non ricevendo uno stipendio però, Papa Francesco ha comunque la possibilità d’attingere liberamente all’Obolo di San Pietro, ovvero un fondo presso lo Ior, che raccoglie le donazioni allo scopo di sponsorizzare i progetti benefici previsti della Chiesa (nel 2012 la quota era 65 milioni di euro circa).

QUANTO GUADAGNA UN PRETE. La chiamata è sicuramente un dono, ma il sacerdozio è un professione, seppur caricata da significati religiosi e caritatevoli. E in quanto tale genera dei guadagni. Un prete può contare su uno stipendio fisso che si aggira intorno dai 1.000 ai 1.200 euro al mese per i parroci che hanno più responsabilità. Naturalmente anche i preti possono far carriera e ambire al posto di vescovo, arcivescovo, cardinale e monsignore.

QUANTO GUADAGNANO SUORE E FRATI. Per le suore non è previsto un vero e proprio stipendio a meno che non svolgano precisi compiti e lavori all’interno della comunità ecclesiastica. Ci sono, ad esempio, suore che percepiscono un guadagno fisso mensile perché impegnate come insegnati, educatrici, infermiere o altro. In questo caso l’entità dello stipendio è stabilita da contratto nazionale a seconda della categoria lavorativa afferente. Un po’ come le suore, anche i frati non hanno stipendio. Per loro vige il voto di povertà, castità e obbedienza che ogni frate deve fare prima di accedere all’ordine o all’istituto religioso. Gesuiti, francescani, domenicani, carmelitani vivono in conventi costituiti come comunità o famiglie a tutti gli effetti e il loro sostentamento dipende in gran parte dalle donazioni dei fedeli. Per le suore non è previsto un vero e proprio stipendio a meno che non svolgano precisi compiti e lavori all’interno della comunità ecclesiastica. Ci sono, per esempio, suore che percepiscono un guadagno fisso mensile perché impegnate come insegnati, educatrici, infermiere o altro. In questo caso l’entità dello stipendio è stabilita da contratto nazionale a seconda della categoria lavorativa afferente. Un po’ come le suore, anche i frati non hanno stipendio. Per loro vige il voto di povertà, castità e obbedienza che ogni frate deve fare prima di accedere all’ordine o all’istituto religioso. Gesuiti, francescani, domenicani, carmelitani vivono in conventi costituiti come comunità o famiglie a tutti gli effetti e il loro sostentamento dipende in gran parte dalle donazioni dei fedeli.

QUANTO GUADAGNANO CARIDNALI E VESCOVI. Esiste un tetto massimo da non poter sforare e, per quanto concerne il mondo dei vescovi, questo è posto a 3.000 euro circa. Se alla quota dovessero affiancarsi altre entrate, frutto di incarichi lavorativi o rendite di qualsiasi sorta, l’Istituto dovrà versare unicamente la quota mancante al raggiungimento del tetto relativo all’età. Più in alto sono posti gli arcivescovi, capi di dicastero o di pontifici consigli. Per loro la soglia sale decisamente, arrivando a stipendi che da 3mila euro possono arrivare a 5mila euro per i cardinali. Le somme possono aumentare ulteriormente grazie alle eventuali offerte ricevute.

COSA CAMBIA CON LA RIFORMA DI PAPA FRANCESCO. Anche il Vaticano non è scevro da crisi e il papa ha deciso di contenere le spese, intervenendo secondo criteri di proporzionalità e progressività con dei ritocchi che riguardano gli stipendi di chierici, dei religiosi e i livelli più alti. Il Motu con il quale Papa Francesco ha deciso di tagliare proporzionalmente e a tempo indeterminato gli stipendi di tutto il personale sono così suddivisi: cardinali (10 per cento), dei capi dicastero e dei segretari (8%), e di tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose in servizio presso la Santa Sede (3 per cento). Inoltre, tutti i dipendenti vedranno bloccato lo scatto di anzianità fino al 2023 (eccetto i dipendenti laici dal primo al terzo livello). La decisione papale è stata motivata, si legge nel Motu, la lettera apostolica, dal «disavanzo che da diversi anni caratterizza la gestione economica della Santa Sede» e, soprattutto, dalla situazione venutasi a creare a causa della pandemia, «che ha inciso negativamente su tutte le fonti di ricavo della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano».

CHI PAGA GLI STIPENDI DELLA CHIESA. Gli stipendi di preti e sacerdoti sono coperti fondamentalmente da tre istituti: le donazioni, che coprono il 10% delle necessità economiche dei preti; da redditi diversi da quelli religiosi per altro titolo (ad esempio gli insegnanti di religione nelle scuole) e l’8 per mille dei contribuenti.

Dal “Corriere della Sera” il 13 marzo 2021. Le spese previste dalla Santa Sede per il 2021 sono le più basse da diversi anni, ma il bilancio vaticano dovrebbe egualmente far registrare un deficit di 50 milioni di euro (80 se non ci fosse l'Obolo di San Pietro). La causa è anche qui la pandemia, così padre Juan Antonio Guerrero Alves, prefetto della Segreteria per l'Economia si appella ai fedeli: «C'è bisogno del loro sostegno».

Da lastampa.it il 20 maggio 2021. Una petizione a Papa Francesco, dopo i tagli agli stipendi dei dipendenti vaticani. E’ quella inviata dai lavoratori della Santa Sede che dichiarano la loro «amarezza» per le modalità del provvedimento e chiedono a Bergoglio di incontrare una loro delegazione, non senza aver prima evidenziato «le enormi criticità che caratterizzano l'intero sistema e che lo inducono a sprecare molto denaro» e la necessità di un «rigido inquadramento salariale dei dirigenti laici entro limiti ben precisi, coerenti con lo spirito di servizio e sacrificio cui ci si appella sempre rivolgendosi a noi impiegati». «Per cosa stiamo pagando, Santità? Per le casse dell'Obolo destinato ai poveri, per aumentare gli stipendi ai dirigenti laici o per le costosissime consulenze esterne di cui si servono regolarmente?», è la domanda posta dai dipendenti vaticani, che puntano il dito contro i «vantaggi eccezionali» su cui invece a loro dire possono contare i manager laici: «Occupano splendidi appartamenti dell'Apsa, posizionati nelle zone più prestigiose di Roma, senza corrispondere alcun affitto all'Amministrazione in questione (si potrebbe fare un calcolo delle mancate entrate da affitti per gli immobili occupati per 'privilegio') e senza farsi carico di alcuna spesa di ristrutturazione, contrariamente a noi impiegati che paghiamo tutto - si legge nella petizione - Oltre alla gratuità dell'affitto vorremmo menzionare macchine per uso privato, sconti sugli acquisti, segretari ad essi dedicati, rimborsi spese di varia natura». «Il vero problema è che il Vaticano è basato su un sistema di privilegi che risultano deleteri sia a livello economico che reputazionale", si sottolinea del documento evidenziando come ad esempio i contratti ''fuori parametro'' dei manager laici "non smettono di destare stupore, variando dai 6.000 ai 10.000 fino ai 25.000 euro mensili. Troppo, per un sistema come il nostro, che dovrebbe basarsi sullo spirito di 'servizio alla Chiesa'". "A nostro parere, occorrerebbe un approfondimento in merito ed eventualmente una riforma -si sottolinea - Ciò che è più grave, in riferimento al Motu Proprio, è l'esclusione delle categorie più agiate dalla decurtazione degli stipendi nonostante il riferimento, all'interno della lettera apostolica, a criteri di proporzionalità e progressività»

Da tgcom24.mediaset.it il 24 marzo 2021. Papa Francesco, a causa della crisi finanziaria, aggravata dalla pandemia, ha deciso il contenimento della spesa per il personale della Santa Sede, del governatorato del Vaticano e di altri enti. "Con la finalità di salvaguardare gli attuali posti di lavoro", il Pontefice ha tagliato le retribuzioni dei cardinali del 10% e, a scendere, degli altri superiori e ecclesiastici. Per queste figure apicali vengono sospesi anche gli scatti di anzianità. Le motivazioni - "Un futuro sostenibile economicamente richiede oggi, fra altre decisioni, di adottare anche misure riguardanti le retribuzioni del personale" del Vaticano, sottolinea Papa Francesco nel Motu proprio. "Considerato il disavanzo che da diversi anni caratterizza la gestione economica della Santa Sede" e "considerato l'aggravamento di tale situazione a seguito dell'emergenza sanitaria determinata dalla diffusione del Covid-19, che ha inciso negativamente su tutte le fonti di ricavo della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano", il Papa assume una decisione drastica, ma proporzionale e progressiva, sui costi per il personale che "costituiscono - come il Pontefice stesso ricorda - una rilevante voce di spesa nel bilancio della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano". Le misure - Quindi a decorrere dal primo aprile 2021 la retribuzione, comunque denominata, corrisposta dalla Santa Sede ai cardinali è ridotta del 10%. La retribuzione degli altri Superiori, inquadrati nei livelli retributivi C e C1, è ridotta dell'8%. I salari di ecclesiastici e religiosi, inquadrati nei livelli retributivi C2 e C3 e nei dieci livelli funzionali non dirigenziali, sono ridotte del 3%. Questi tagli non sono applicati "qualora l'interessato documenti che gli sia impossibile far fronte a spese fisse connesse allo stato di salute proprio o di parenti entro il secondo grado". Vengono poi sospesi per tutti fino ad aprile 2023 gli scatti di anzianità: oltre ai cardinali, ai superiori, agli ecclesiastici e ai religiosi, interessati dal taglio dello stipendio, la norma si applica anche al "personale con contratto di livello funzionale dal 4 al 10, entrambi inclusi, della Santa Sede, del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano e degli Enti le cui retribuzioni siano corrisposte dalla Santa Sede o dallo Stato della Città del Vaticano". Le disposizioni "si applicano anche al Vicariato di Roma, ai Capitoli delle Basiliche Papali Vaticana, Lateranense e Liberiana, alla Fabbrica di San Pietro e alla Basilica di San Paolo fuori le mura".

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 25 marzo 2021. A partire dal primo aprile (ma stavolta non è un pesce d' aprile) i cardinali di curia, una quarantina in tutto compreso i pensionati, si ritroveranno con lo stipendio più leggero. Il loro piatto cardinalizio così viene chiamato il loro compenso - che si aggira attorno ai 5 mila euro verrà decurtato del 10 per cento. Tagli in vista anche per i capi dicastero e delle varie amministrazioni: anche se per loro la scure è un po' meno pesante, solo l' 8 per cento. La spending review in corso non risparmia nemmeno le buste paga degli oltre 4 mila dipendenti ai quali sono stati congelati gli scatti biennali di anzianità fino al 2023, anno in cui si prevede un ritorno graduale alla normalità economica dopo la micidiale batosta alle finanze vaticane causata dal Covid.

IL RISPARMIO. La sforbiciata alle retribuzioni è stata annunciata dal Papa con un Motu Proprio e ha avuto l' effetto di una doccia fredda. Nessuno se l' aspettava anche perché, stando ai tecnici, questa mossa non sarà risolutiva dal punto di vista contabile. Il risparmio complessivo dovrebbe aggirarsi attorno al milione di euro. Troppo poco per incidere davvero.

PERSONALE. Il fatto è che i conti da diversi anni non vanno bene e questa spending review non tocca il problema principale che giace sul tappeto: il costo del personale, una specie di tabù che si presenta ciclicamente alla approvazione annuale del bilancio per poi essere accantonato. «Nessun taglio al personale» ripete Papa Bergoglio ai suoi collaboratori. Il bilancio preventivo sottoposto al Papa la scorsa settimana mostrava entrate per 260,4 milioni di euro a fronte di 310,1 milioni di euro di uscite, con un deficit previsto di 49,7 milioni di euro. E' chiaro che i tempi delle vacche magre provocati dalla pandemia si fanno sentire ovunque e che l' andamento negativo ha costretto ad intaccare anche le riserve di sicurezza, compreso l' utilizzo dell' Obolo di San Pietro, la raccolta annuale che viene promossa soprattutto per fini caritativi e che anche stavolta servirà a coprire parzialmente gli altissimi costi di gestione. Far quadrare i conti di questi tempi in Vaticano è quasi un miracolo. Il prefetto dell' Economia, il gesuita padre Guerrero Alves, poco tempo fa spiegava che quest' anno la riduzione delle spese è stata dell' 8 per cento, a fronte di un costo del personale che dal 2019 al 2020 è cresciuto del 2 per cento. «Per il Vaticano si tratta di fare in modo che almeno a breve termine il 50% della spesa non diventi flessibile». Alves sottolineava che a causa della diminuzione delle entrate, non solo di quelle relative all' Obolo, si prevede per il 2021 una ulteriore contrazione delle riserve. Così anche queste si vanno assottigliando sempre di più. «E' molto probabile che nel 2022 si dovrà ricorrere in qualche misura al patrimonio dell' Apsa» aveva annunciato, senza specificare altro a Vatican News. I dati diffusi sui dicasteri di curia più costosi mettono al primo posto il polo della comunicazione con una proiezione di spesa di 41 milioni di euro. Comprende Radio Vaticana, Vatican News, il Centro Televisivo, l'Osservatore Romano e assieme impiegano un totale di più di 400 dipendenti. Nella lista dei dicasteri più costosi seguono l'Evangelizzazione dei Popoli e le Chiese orientali (15 milioni di euro), la Libreria vaticana, (9 milioni) e l'università del Laterano per 6 milioni di euro. Il dicastero di curia che viene a costare meno sul bilancio pontificio è quello dei Santi, con 2 milioni di euro.

DIBATTITI. Un apparato burocratico ritenuto piuttosto pesante che già all' inizio del pontificato era stato al centro di infuocati dibattiti tra i cardinali. Ma a chi chiedeva a Papa Francesco di mettere mano ai licenziamenti, ha sempre risposto che non ne voleva sapere. Il Covid e la conseguente chiusura dei Musei Vaticani, la principale fonte di introiti, hanno fatto riaffiorare il tema tabù. Un anziano cardinale in pensione ieri suggeriva di riprendere la vendita di sigari e sigarette ai magazzini: una attività vietata da Papa Bergoglio 4 anni fa che però faceva entrare nelle casse vaticane 12 milioni l'anno.

·        Gli Scandali Vaticani.

Da fanpage.it il 17 Dicembre 2021. Dopo aver richiesto e ottenuto la semi infermità mentale per il loro assistito, ora i difensori di don Euro, al secolo Luca Morini, hanno richiesto anche l'assoluzione piena dalle accuse che vengono mosse all'ex parroco della diocesi di Massa, finito al centro di uno scandalo per la sua partecipazione a festini con escort gay, droga e vita di lusso a spese dei parrocchiani che elargivano denaro credendo servissero per opere di bene. "E’ una vittima di tutta questa vicenda" hanno dichiarato gli avvocati nell'arringa difensiva che ha chiuso il processo contro Morini in attesa della sentenza definitiva che arriverà ai primi di febbraio del prossimo anno. Il collegio presieduto dal giudice Ermanno De Mattia, come riportato oggi dall'edizione locale de La Nazione, infatti ha rinviato il processo al 2 febbraio, per le repliche. Per Don Euro che è alla sbarra per i reati di estorsione, autoriciclaggio, detenzione di droga e sostituzione di persona, la Procura di Massa Carrara, che sostiene l'accusa, ha chiesto invece otto anni e 6 mesi di reclusione confermando l'impianto accusatorio emerso dalle indagini a carico dell'ex sacerdote. Ricostruendo in aula la vicenda dell'allora sacerdote, ribattezzato dagli stessi parrocchiani Don Euro per le frequenti richieste di somme di denaro per aiutare la Chiesa, la pm Giulia Giancola ha ribadito che è chiara la responsabilità dell'imputato sia per il reato di estorsione nei confronti del vescovo e di uno dei ragazzi che frequentava, sia per il reato di autoriciclaggio per l’acquisto di diamanti. A Don Euro infine contestato anche il reato di sostituzione di persona in quanto spesso si spacciava come magistrato e medico davanti ai ragazzi che frequentava ostentando soldi e lusso. Chiesta l'assoluzione invece per l'uso e la cessione di droga. Lo scandalo che ha travolto Luca Morini scoppiò quando un giovane che frequentava svelò a diverse testate giornalistiche di aver avuto spesso rapporti sessuali con il parroco in festini a base di droga e alcol in cui si spacciava per altra persona. Da quel momento in tanti hanno denunciato di aver sovvenzionato per anni quel sacerdote che chiedeva continuamente e "in maniera insistente" offerte in denaro, fino all'arrivo della magistratura e a processo in corso.

Niccolò Magnani per ilsussidiario.net il 22 dicembre 2021. Richard Daschbach, ex missionario americano, è stato condannato a 12 anni di carcere a Timor Est con l’accusa gravissima di abusi sessuali su minori, pornografia infantile e violenza domestica: si tratta di una decisione storica in quanto primo processo del genere nello stato cattolico del Sud-est asiatico. Il processo contro il sacerdote Usa “sconsacrato” era cominciato a febbraio ma era stato più volte rinviato fino alla sentenza giunta negli scorsi giorni: come riportano le fonti di LaPresse, Daschbach – oggi 84enne – all’età di 64 anni giunse da Chicago fino a Timor Est in missione. Qui fondò un rifugio e una comunità per bambini orfani e disagiati che ha ospitato negli anni diverse centinaia di minori: negli anni, con grande coraggio, circa una dozzina di donne hanno denunciato gli abusi commessi dal sacerdote. Solo 9 di loro sono state ammesse al procedimento iniziato nel febbraio 2021. Come dimostrano le immagini in arrivo dal Timor Est, l’ex sacerdote è in realtà una figura ancora molto amata nel Paese tanto che diverse persone hanno fatto irruzione dopo la sentenza piangendo per la condanna comminata a Richard Daschbach. Tra i sostenitori del sacerdote “spretato” c’era anche l’ex presidente Xanana Gusmao, che ha partecipato alla sua festa di compleanno a gennaio: durante il processo invece le 9 vittime denunzianti hanno lamentato minacce e attacchi online dalla popolazione. Timor Est non solo è considerato il luogo più cattolico al di fuori del Vaticano, ma lo stesso Daschbach è stata una figura chiave nella lotta per l’indipendenza della piccola nazione del sud-est asiatico. L’84enne è stato espulso dalla sua congregazione cattolica nel 2019 dopo aver ammesso di aver subito abusi sessuali su minori: è però considerato comunque un eroe locale per aver fondato centri di accoglienza e aiutato la popolazione a ribellarsi per l’indipendenza. 

Da lastampa.it il 20 giugno 2021. Papa Francesco ha deciso di aprire una indagine sulle accuse di pedofilia contro la Chiesa spagnola dopo aver ricevuto un dossier di 385 pagine riguardo a 251 nuovi casi di abusi su minori da parte del clero e di alcuni laici di istituzioni religiose in Spagna. Lo ha rivelato El Pais. L'indagine è senza precedenti. A consegnare il rapporto al Pontefice, il corrispondente a Roma di El Pais, Daniel Verdu', durante il volo papale che ha condotto Francesco a Cipro e in Grecia. Il quotidiano spagnolo che ha impiegato tre anni di lavoro per verificare tutte le accuse contro la Chiesa in Spagna, spiega che al ritorno dal viaggio Papa Francesco «si è mosso rapidamente», inviando il dossier alla Congregazione per la Dottrina della Fede. El Pais ha anche consegnato lo studio al presidente della Conferenza episcopale spagnola (Cee), il cardinale Juan Jose' Omella, arcivescovo di Barcellona. Il caso più antico del dossier risale al 1943 e il più recente al 2018. Tutti, afferma El Pais, sono inediti, tranne 13 già pubblicati, che sono stati inclusi perché sono sorte nuove denunce. «La maggior parte dei resoconti - scrive ancora il quotidiano spagnolo - parla di pedofili che abusano di dozzine di bambini e comportamenti che erano un 'segreto aperto'. Un caso comune è quello degli insegnanti che hanno aggredito sessualmente l'intera classe, con diversi corsi a loro carico e che sono stati per anni in una o più scuole. Stime come quelle utilizzate dagli esperti negli studi di commissioni indipendenti di altri paesi moltiplicherebbero la cifra a diverse migliaia». Una volta conosciuto il dossier di El Pais, Papa Francesco ha parlato con il presidente della Conferenza episcopale spagnola (Cee) Omella. Il Vaticano, come di solito fa quando le denunce sono così numerose e non appartengono a un solo ordine, diocesi o specifico abusatore, supervisionerà attraverso la Congregazione per la Dottrina della Fede l'intero processo svolto dalla Cee. El Pais specifica anche che la stragrande maggioranza dei casi, il 77%, riguarda gli ordini religiosi, che non sono sotto l'autorità dei vescovi e le principali congregazioni, venute a conoscenza delle denunce, hanno già aperto un'indagine.

Vaticano, Angelo Becciu perde la causa contro il suo ex braccio destro. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 15 Dicembre 2021. Il Tribunale di Como, respinge la richiesta di danni (500 mila euro) del porporato contro Alberto Perlasca. Intanto il processo per lo scandalo delle finanze della Santa Sede va avanti: il 25 gennaio prevista l’ultima udienza preliminare. Nella giornata di ieri, martedì 14 dicembre, si è svolta una nuova udienza preliminare del processo in Vaticano che vede coinvolti tra gli altri l’ex Sostituto agli Affari Generali della Segreteria di Stato, Angelo Becciu che insieme a dieci imputati si dividono i capi di imputazione di appropriazione indebita, abuso d’ufficio, frode e riciclaggio. Nelle scorse settimane le difese avevano sollevato numerose criticità nei confronti dei Promotori di giustizia, tra cui gli errori procedurali che riguardavano la deposizione delle testimonianze del super teste Monsignor Alberto Perlasca (che non erano state rese disponibili contestualmente al rilascio degli atti) e le modalità di formulazione delle accuse e di rinvio a giudizio.

Il Presidente del Tribunale Vaticano, Giuseppe Pignatone, nell’udienza ha comunicato alle difese di aver dato mandato agli uffici per la trascrizione delle testimonianze di Perlasca, non pronunciandosi ancora in merito alle parti omesse che riguarderebbero altri procedimenti penali collegati di cui sono ancora in corso le inchieste. Su questo si dovrebbe giungere un pronunciamento definitivo nell’udienza del prossimo 25 gennaio, tecnicamente l’ultima prima dell’inizio del dibattimento vero e proprio infatti sempre per gennaio sono stati fissati i termini per la riformulazione dei rinvii a giudizio per quattro imputati e l’accoglimento delle rituali deposizioni (ad oggi ne è stata raccolta solamente una).

La macchina giudiziaria della Santa Sede sta quindi uscendo dalle secche procedurali che hanno contraddistinto le prime udienze, complice un panorama normativo nuovo e un processo inedito per le stanze vaticane, su cui hanno giocato in questa prima parte le difese degli imputati. Ma l’atteggiamento di cautela e la convinzione della necessità di un giusto processo da parte sia della parte inquirente che di quella giudicante hanno evitato una Caporetto del dibattimento che avrebbe vanificato anni di inchieste e di collaborazione giudiziaria internazionale. Un colpo a una strategia anche comunicativa che ha visto anche il fiorire di cause civili con richieste economiche stratosferiche da parte dell’ex porporato e dei famigliari coinvolti nelle indagini contro quei soggetti che hanno testimoniato contro di lui o che hanno scritto delle indagini a suo carico (come il caso dell’Espresso). Anche qui è giunta una brutta notizia per il prelato di Pattada, il tribunale civile di Como, ha infatti respinto la sua richiesta di risarcimento formulata contro Monsignor Alberto Perlasca.

Becciu aveva chiesto al suo ex collaboratore 500 mila euro come risarcimento per i danni di immagine e di salute in seguito alle rivelazioni che Perlasca ha reso alle autorità vaticane sugli affari illeciti consumati durante gli anni che hanno portato, in ultima istanza al buco di 400 milioni di euro per l’acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra. Il giudice Lorenzo Azzi ha determinato che da parte di Perlasca “non esiste nessun comportamento lesivo nei confronti di Becciu e che le pretese di danno mancano del tutto di una quantificazione oggettiva, seppur approssimativa”. In sostanza secondo la seconda sezione civile del Tribunale di Como, la rivelazione di condotte inappropriate e la deposizione delle stesse presso i promotori di giustizia non sono lesive della reputazione di Becciu ma fanno parte di un’azione processuale legittima tesa ad identificare le condotte irregolari dei suoi uffici. 

In attesa che il dibattimento Vaticano continui, negli altri Paesi coinvolti (Svizzera, Usa e Regno Unito) continuano le indagini sui molteplici attori coinvolti nelle trame economiche della Segreteria di Stato. E c’è l’impressione che i vari dibattimenti possano a un certo punto sommarsi.

Papa Francesco accusato in tribunale da monsignor Perlasca: "Non può dire queste cose", i pm sbiancano. Libero Quotidiano il 03 dicembre 2021. "Non può dire queste cose". Monsignor Alberto Perlasca, figura chiave dell'inchiesta in Vaticano sull'affare immobiliare a Londra con i soldi dell'obolo di San Pietro, accusa Papa Francesco in persona e i magistrati saltano sulla sedia. Il retroscena del Corriere della Sera sulle deposizioni del monsignore è una scossa di terremoto proprio sotto la Santa Sede. Si parla di ore di tensione, di confronti drammatici avvenuti tra primavera 2020 e inizio 2021. Fino al 2018 Perlasca è stato a capo per un decennio dell'ufficio che gestiva in piena autonomia i 600-700 milioni della cassa dell'Obolo. In ballo c'è soprattutto il cardinale Angelo Giovanni Becciu, diretto superiore di Perlasca e Sostituto alla Segreteria di Stato. "Ovvero, il numero tre del Vaticano", sottolinea sempre il Corsera. Come noto i reati ipotizzati sono pesantissimi: truffa, estorsione, appropriazione indebita, riciclaggio. Gli avvocati difensori contestano all'accusa molti vizi di forma e proprio questo potrebbe far crollare l'impianto dei promotori di giustizia Gian Piero Milano e Alessando Diddi. Tra queste sbavature, il fatto che i video degli interrogatori non siano stati depositati, e per questo hanno ottenuto dal presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone l'annullamento del rinvio a giudizio. I giornalisti del Corsera hanno però visto quei video. Tra questi c'è l'interrogatorio di Perlasca, torchiato per 7 ore il 29 aprile dello scorso anno. Quando i magistrati gli chiedono di un giro di tangenti, il monsignore si difende sostenendo che l'affarista che ha gestito l'affare londinese Mincione "ci ha stregati, è un incantatore". Quando l'affare va male, Perlasca firma un contratto capestro con lo sconosciuto broker Gianluigi Torzi, che "si impossessa di fatto dell'immobile". "Io ero per la denuncia - spiega Perlasca, difendendosi  -. L'indicazione dall'alto era di trattare". L'alto è proprio il Pontefice. "Gli inquirenti insorgono, fanno scudo - riporta il Corsera -. 'Non può dire queste cose, siamo andati dal Santo Padre e gli abbiamo chiesto che cosa è accaduto e di tutti posso dubitare fuorché del Santo Padre! Il Santo Padre è stato tirato in mezzo!'". Uno scontro durissimo, a toni di voce altissimi. Dopo 4 mesi, Perlasca deciderà di ricomparire davanti agli inquirenti senza avvocato e collaborare. 

Vaticano, i video della deposizione di monsignor Perlasca: «Quel finanziere ci ha stregati». Mario Gerevini e Fabrizio Massaro Il Corriere della Sera il 3 dicembre 2021. Un monsignore di alto rango, un tavolaccio da caserma, un armadio a vetro pieno di fucili. Siamo dentro la Città del Vaticano, in una stanza della Gendarmeria e il grande pentito si sta «confessando». Alberto Perlasca è la figura centrale dello scandalo che ha scosso la Chiesa Cattolica, quello sui soldi dell’Obolo di San Pietro. Il Corriere è riuscito a ottenere documenti esclusivi: i video delle deposizioni del monsignore davanti ai magistrati del Papa. Sono ore e ore di confronto, anche drammatico all’inizio.

Dieci anni di segreti sulle finanze vaticane

È il testimone chiave, l’accusatore numero uno nell’inchiesta sul palazzo di Londra e sulle spericolate operazioni della Segreteria di Stato. In gran riservatezza negli uffici della Gendarmeria tra la primavera 2020 e i primi mesi del 2021, Perlasca racconta la sua versione su anni di segreti della finanza vaticana. È stato per un decennio, fino al 2018, il capo dell’ufficio che gestiva, fuori da ogni controllo, i 600-700 milioni della cassa dell’Obolo. Di quei soldi sa tutto. Il monsignore è l’arma legale, insieme a una montagna di carte, che i promotori di giustizia utilizzeranno per chiedere il rinvio a giudizio di dieci tra laici ed ecclesiastici, compreso il cardinal Angelo Giovanni Becciu, che è stato suo diretto superiore e Sostituto alla Segreteria di Stato; ovvero, il numero tre del Vaticano. Nell’inchiesta si ipotizzano i reati di truffa, estorsione, appropriazione indebita, riciclaggio.

Processo accidentato

Il processo si è aperto a luglio. Ma le difese sono agguerrite e l’impianto accusatorio fatica a reggere l’urto. Lo snodo chiave è proprio la deposizione di Perlasca, di cui finora si conoscevano solo pochi stralci di verbalizzazione sintetica scritta. Gli avvocati hanno ottenuto dal presidente del tribunale, Giuseppe Pignatone, l’annullamento dei rinvii a giudizio, perché, tra l’altro, i video degli interrogatori non erano stati depositati. I promotori di giustizia Gian Piero Milano e Alessandro Diddi hanno cercato di resistere; poi hanno obbedito al giudice, depositando le registrazioni con alcuni minuti coperti da omissis. I legali hanno ribadito l’esigenza di avere gli atti integrali. Prossima udienza il 14 dicembre.

I filmati esclusivi

Il Corriere ha visto i filmati e una sintesi è da oggi disponibile su Corriere.it. Nei file c’è il disarmante racconto di come venivano gestiti gli affari in Segreteria di Stato: ingenuità, incapacità, ignoranza tecnica e forse (lo dirà il processo) malversazioni, tangenti, soldi rubati. Ma c’è anche altro. Per esempio la storia delle 12 mila medaglie d’oro, d’argento e di bronzo trasferite dai sotterranei dell’Apsa in armadi incustoditi della Segreteria di Stato. 

«Tutti sapevano dov’erano le chiavi». 

Ma ci sono anche passaggi estremamente delicati: il riferimento a Papa Francesco che secondo Perlasca, sul punto rintuzzato dal magistrato che confuta la sua ricostruzione, avrebbe dato via libera alla trattativa con Gianluigi Torzi, il broker accusato dagli inquirenti vaticani, tra l’altro, di estorsione. È andata davvero così? Torniamo dunque a poche decine di metri da San Pietro, nella stanza della Gendarmeria con le armi in vetrina che un po’ inquietano.

Gli affari con Raffaele Mincione

È il 29 aprile 2020. Per sette ore Perlasca, assistito da un legale, viene torchiato dagli inquirenti. Il suo racconto parte da lontano. Il Vaticano nel 2013-2014 entra in affari con un finanziere spregiudicato, Raffaele Mincione. Becciu e Perlasca gli affidano 200 milioni di dollari, metà dei quali usati per investire in un palazzo nel centro di Londra, al 60 di Sloane Avenue. I magistrati sospettano un giro di tangenti: «Nella maniera più assoluta!», si difende Perlasca. «Mincione ci ha stregati, è un incantatore…».

La trattativa con il broker Gianluigi Torzi

L’affare del palazzo va male, la Santa Sede vuole rompere con Mincione. Siamo a novembre-dicembre 2018. A chi si affida? Allo sconosciuto broker Gianluigi Torzi che con un contratto capestro — secondo l’accusa —, firmato da Perlasca, si impossessa di fatto dell’immobile. Il monsignore, ritenuto responsabile del pasticcio, viene allontanato da Edgar Pena Parra, succeduto a Becciu. E con Torzi parte una trattativa che porterà a liquidare il broker con 15 milioni. «Io ero per la denuncia», si difende Perlasca. E poi alza il braccio con l’indice puntato all’insù: «L’indicazione dall’alto era di trattare». Il riferimento è al Papa. Gli inquirenti insorgono, fanno scudo: «Non può dire queste cose, siamo andati dal Santo Padre e gli abbiamo chiesto che cosa è accaduto e di tutti posso dubitare fuorché del Santo Padre! Il Santo Padre è stato tirato in mezzo!». Sono minuti drammatici, il magistrato alza la voce, Perlasca abbozza: «Io ero per denunciare, la mia posizione era più intransigente». Anche più del Papa, sembra intendere.

Senza avvocato

Passano quattro mesi. A fine agosto Perlasca ricompare davanti agli inquirenti. Sceglie di deporre senza avvocato. È l’inizio della collaborazione. Racconta ogni dettaglio e respinge i dubbi sulla sua onestà: «I regali di Crasso? Eccoli, li ho portati». E dallo zaino tira fuori una penna Parker, un Ipad ,«una borsa per pc che il computer neanche ci entra», uno swatch «pronto a essere riciclato come regalo». E due biglietti per l’Arena di Verona. Come a dire: corrotto con così poco?

Il cardinale Becciu e i bonifici a Cecilia Marogna

E Becciu? Il potente cardinale, ex dominus della Segreteria, è l’imputato eccellente. Il Papa l’ha defenestrato a settembre 2020. Perlasca racconta dei soldi dati alla sedicente agente segreta Cecilia Marogna. «Io non sapevo neppure che fosse una donna, l’ho saputo qui. Per me quella persona era un numero di conto!». Il cardinale — racconta Perlasca — era molto prudente nelle comunicazioni. «Un giorno mi disse: scarica Signal». È una chat criptata, anti-intercettazioni.

(ANSA il 22 dicembre 2021) - Il card. Angelo Becciu ha scritto una lettera aperta al card. George Pell "perché ormai costretto dai Suoi numerosi interventi (...) che hanno a più riprese riguardato, purtroppo, la mia persona, con argomenti che ho sentito offensivi della mia dignità personale e del servizio ecclesiale che, con entusiasmo, obbedienza e fedeltà ho cercato di offrire, nei decenni, al Santo Padre e alla Chiesa". Becciu attribuisce a Pell "ricostruzioni, la cui infondatezza è manifesta: vincoli di profondissimo rispetto per la Santa Sede (...), così come la dignità cardinalizia che rivestiamo, dovrebbero impedire queste pubbliche provocazioni".

Becciu, lettera aperta a Pell: «Da lei parole offensive, basta provocazioni». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 22 Dicembre 2021. Polemica tra i due cardinali sull’uso dei fondi del Vaticano: «Lei più di ogni altro conosce i dolori di un’accusa ingiusta». Il cardinale Angelo Becciu ha scritto una «lettera aperta» al cardinale George Pell «perché ormai costretto dai suoi numerosi interventi su molti mezzi d’informazione che hanno a più riprese riguardato, purtroppo, la mia persona, con argomenti che ho sentito offensivi della mia dignità personale». La lettera, diffusa attraverso il legale di Becciu, prosegue una polemica tra i due cardinali che dura da tempo.

Pell era fino a giugno 2017 il potente prefetto della Segreteria per l’Economia, incaricato di rendere trasparenti le finanze vaticane, nel periodo in cui Becciu era Sostituto della Segreteria di Stato. Già allora la situazione era tesa. Poi il cardinale australiano fu accusato di pedofilia e processato in Australia, dove ha passato tredici mesi in carcere fino all’assoluzione definitiva, l’anno scorso, prosciolto all’unanimità dall’Alta Corte australiana. Nel frattempo Becciu è finito a processo per la vicenda degli investimenti con i fondi della Segreteria di Stato, al centro l’acquisto palazzo di Sloane Avenue a Londra.

Motivo della polemica sono i soldi che, mentre Pell era accusato e a processo, sarebbero stati mandati dal Vaticano in Australia. Per incastrare Pell? «Alcuni parlano di una connessione possibile tra i problemi nel mondo delle finanze qui e i miei problemi in Australia, ma non abbiamo prove. Sappiamo che del denaro è andato dal Vaticano in Australia, due milioni e 230 mila dollari, ma finora nessuno ha spiegato perché», aveva detto Pell all’inizio di novembre. E di recente ha ribadito il concetto in una conversazione con il National Catholic Register: «Ho una domanda per il cardinale Becciu. Può dirci per cosa è stato inviato il denaro?». Nella sua lettera, Becciu scrive di «ricostruzioni la cui infondatezza è manifesta» , osserva: «Lei più di ogni altro sa e conosce i dolori di un’accusa ingiusta ed i patimenti che un innocente — quale, non meno di lei, io sono — deve sopportare durante un processo». E aggiunge: «Vincoli di profondissimo rispetto per la Santa Sede che abbiamo rappresentato, così come la dignità cardinalizia che rivestiamo, dovrebbero impedire queste pubbliche provocazioni, poco comprensibili ai nostri fedeli e a quanti si aspetterebbero ben altro atteggiamento da uomini di Chiesa». Così conclude: «Proprio per l’assoluto rispetto che nutro verso il Tribunale, forte e vivo in me, non le risponderò pubblicamente, ma attenderò il momento appropriato, davanti al giudice terzo ed imparziale, per replicare punto su punto e far apprezzare alle Istituzioni giudiziarie vaticane l’assoluta infondatezza delle accuse nei miei confronti. Fino ad allora, confido che questo mio pubblico richiamo, esteso comunque con senso di fraternità e comunione ecclesiale, possa meglio consigliarla ad un diverso atteggiamento, astenendosi dal coinvolgermi ulteriormente nel pubblico discorso».

Intervista al cardinale Pell: «La Segreteria di Stato impedì i controlli finanziari. Avremmo evitato scandali». Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 3 novembre 2021. Il cardinale ex prefetto per l’Economia racconta l’esperienza del carcere, tredici mesi fino all’assoluzione: in uscita il suo libro «Diario di prigionia». «Quando ho iniziato a lavorare alla segreteria dell’Economia, abbiamo scoperto un miliardo e 300 mila euro qua e là negli uffici...» «Anche il cardinale Becciu diceva che il Revisore dei conti non aveva autorità di entrare in Segreteria di Stato. Questo era assolutamente falso. Era scritto che il Revisore aveva autorità, anche noi avevamo l’autorità di controllare come Segreteria per l’Economia. Ma c’era sempre resistenza. Se il Revisore o noi avessimo potuto entrare prima, avremmo salvato tanto, tanti denari a Londra e in altri posti». Il cardinale australiano George Pell, 80 anni, misura le parole nel suo appartamento vicino a piazza San Pietro. Fino a giugno 2017 era il potente prefetto della Segreteria per l’Economia, incaricato di rendere trasparenti le finanze vaticane. Poi le accuse di pedofilia, il processo in Australia, la condanna in primo grado e tredici mesi di carcere fino all’assoluzione definitiva, l’anno scorso, prosciolto all’unanimità dall’Alta Corte australiana. Oggi pomeriggio al Senato sarà presentato il suo libro Diario di prigionia (Cantagalli). Alla vigilia ha incontrato alcuni giornalisti. 

Eminenza, durante il processo una donna le gridò: brucerai all’inferno. Cosa le direbbe se la vedesse ora?

«Le chiederei: che cosa ho fatto, quale peccato ho commesso? Del resto non era l’unica. Ricordo altri uomini, pieni di rabbia. Molto triste. Era un gruppo organizzato. Ho pensato: Dio mio». 

Come sopportava un’accusa così infamante?

«Qual era l’alternativa?». 

Quando ha preso in mano la Segreteria dell’Economia, com’era la situazione?

«In qualche maniera i metodi erano ancora quelli del vecchio mondo. Noi abbiamo introdotto la metodologia di controllo che oggi tutto il mondo utilizza. Abbiamo scoperto un miliardo e 300 mila euro qua e là negli uffici. Abbiamo preparato per la prima volta un budget prima dell’inizio dell’anno finanziario. Sono cose fondamentali». 

È vero che la Segreteria di Stato fece una forte opposizione ai controlli?

«Sì, questo è pubblico. Avevamo l’autorità di entrare ma ce lo hanno impedito». 

Avreste salvato il Vaticano dal «buco » milionario ?

«Forse non tutto, alcune cose erano iniziate prima, ma in qualche altra situazione lo abbiamo fatto. Il Santo Padre mi ha detto: lei aveva detto tante cose giuste». 

Francesco ha parlato con lei della sua vicenda?

«Mi aveva mandato un messaggio di incoraggiamento, sono stato molto grato di questo. Quando sono tornato, mi ha ricevuto e abbiamo parlato 40-45 minuti. Era molto simpatico». 

Perché è finito in carcere? Qualcuno può averla incastrata?

«Ci sono tante possibilità. Ovviamente la crisi degli abusi sessuali è stata grande, sia per i crimini sia per il modo in cui i vescovi l’hanno trattata. E poi nel mondo anglosassone ci sono le “guerre culturali”, io sono un conservatore, l’opposizione più forte alla secolarizzazione viene da noi, e questo era un altro elemento di difficoltà... Alcuni parlano di una connessione possibile tra i problemi nel mondo delle finanze qui e i miei problemi in Australia, ma non abbiamo prove. Sappiamo che del denaro è andato dal Vaticano in Australia, due milioni e 230 mila dollari, ma finora nessuno ha spiegato perché». 

Si è sentito tradito?

«Non posso dire questo perché non ho prove di niente. Ma ho qualche domanda, che non ha risposta». 

Che cosa pensa oggi del cardinale Becciu?

«Lui ha diritto a un giusto processo. Vedremo». 

Come vive questo processo sugli scandali finanziari?

«Vanno avanti, ma piano piano. C’è qualche progresso. Non ho idea di come procederà, ma sappiamo come hanno perso un sacco di sterline a Londra e almeno questo è un progresso, qualcosa che c’è». 

Sogna le notti in carcere?

«No, mai. Non è stato un tempo bruttissimo, certamente un tempo duro. Ma non c’era ostilità particolare da parte dei poliziotti. Ero in isolamento. Gli ultimi quattro mesi era diverso, c’erano quattro uomini con me in cella ed erano molto simpatici, due erano musulmani». 

Ora che programmi ha ?

«Preghiera e penitenza. Passo il mio tempo metà qui e metà in Australia. Messe, qualche predica. Vedo tanta gente, scrivo, cerco di aiutare qualche vittima di abusi sessuali». 

Tornasse indietro, riprenderebbe quel ruolo?

«Sarebbe difficile. Sono contento di non essere rientrato. Ma c’è ancora da fare».

(ANSA il 12 novembre 2021) - Migliaia di file dai contenuti definiti "raccapriccianti" dagli inquirenti, che in alcuni casi ritraevano vere e proprie violenze sessuali in danno di bambini in tenera età, sono stati sequestrati dalla polizia postale nell'ambito dell'operazione “meet up” diretta dalla procura di Torino che ha portato all'arresto, tra gli altri, del direttore della Caritas diocesana di Benevento, Don Nicola De Blasio. Con il prete sono stati arrestati anche un tecnico informatico 37enne residente in Piemonte e il creatore di un canale a pagamento che, sfruttando una nota piattaforma di messaggistica, veniva utilizzata per diffondere il materiale. 

Piero Rossano per corriere.it il 12 novembre 2021. Emergono anche particolari che gli stessi investigatori non esitano a definire «raccapriccianti», come violenze e abusi sessuali su neonati, dalle indagini alla base della vasta operazione degli agenti del Compartimento Polizia Postale e delle Comunicazioni di Torino contro la diffusione di materiale pedopornografico online che è sfociata in tre arresti e in 26 perquisizioni domiciliari in molte regioni. Si tratta della stessa indagine che ha visto il coinvolgimento e l’arresto di un sacerdote della Diocesi di Benevento, don Nicola De Blasio, direttore della Caritas locale e ai domiciliari dalla scorsa settimana. Il sacerdote si è poi dimesso dalla carica ed ha lasciato la parrocchia. Le perquisizioni e i sequestri di materiale pedopornografico, migliaia di file e contenuti multimediali, oltre che in Piemonte sono avvenute anche in Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto. Ventisei, in totale, i decreti di perquisizione domiciliare nei confronti di altrettante persone emessi dal Gruppo Criminalità Organizzata e Reati Informatici del tribunale di Torino.

I canali di messaggistica

Già dallo scorso mese di febbraio i poliziotti avevano attivato un servizio di monitoraggio su una piattaforma di messaggistica che vantava garanzie di ampio anonimato per gli utilizzatori, concentrando la propria attenzione su alcuni canali aperti, frequentati prevalentemente da utenti italiani. Agenti “infiltrati” nel perverso meccanismo scoperto hanno instaurato un rapporto di fiducia con gli interlocutori che di volta in volta si mostravano interessati allo scambio di materiale. Quindi gli investigatori hanno lavorato sulle tracce informatiche lasciate in rete dagli internauti, che hanno consentito la loro identificazione. Il materiale illegale sequestrato, altamente diversificato per categorie, conteneva - come detto - anche contenuti «raccapriccianti» ritraenti vere e proprie violenze sessuali in danno soprattutto di neonati. 

La «mente» era un minorenne pugliese

Oltre che nei confronti del sacerdote della Diocesi di Benevento, nel cui domicilio è stato rinvenuto materiale definito «copioso», le misure cautelari sono scattate nei confronti di un tecnico informatico di 37 anni residente in Piemonte e di un cittadino pugliese di 18 anni, ritenuto il creatore del canale a pagamento oggetto dei primi accertamenti e all’epoca dei fatti ancora minorenne. È uno studente della provincia di Bari, finito in carcere con l’accusa di detenzione e diffusione di ingente quantità di materiale pedopornografico. L’indagine ha infatti individuato un ambiente chiuso, pubblicizzato dal proprio promotore, in cui veniva divulgato materiale pedopornografico previo pagamento di una somma di denaro che abilitava all'iscrizione al canale. Il ragazzo pugliese, dagli accertamenti svolti in collaborazione con i colleghi della Polizia postale di Bari, è risultato essere il gestore di questo canale attraverso il quale, su richiesta degli utenti, si procurava dal dark web materiale pedopornografico per poi rivenderlo, facendosi pagare l'iscrizione al canale e anche il singolo materiale.

Domenico Agasso per "La Stampa" il 26 novembre 2021. Mentre nella Chiesa francese imperversa la bufera-pedofilia, dopo il report da cui sono emersi 330mila abusati in 70 anni, il Papa accoglie Emmanuel Macron. E il presidente oggi «affronterà con il Santo Padre la vicenda», informano dall'Eliseo. Nel frattempo Francesco ha ricevuto una lettera di una vittima (di cui per riservatezza non è nota la nazionalità). E ha voluto diffondere la missiva ai preti e seminaristi, per «mostrare la via del servizio a beneficio dei vulnerabili», ha spiegato il cardinale O' Malley. Pubblichiamo qui la testimonianza. «Mi chiamo... e per anni sono stata maltrattata da un prete che avrei dovuto chiamare "fratellino" ed io ero sua "sorellina". Sono venuta qui perché vorrei che vincesse la "verità amabile". Sono qui anche nel nome delle altre vittime... dei bambini che sono stati profondamente feriti, a cui hanno rubato la loro infanzia, purezza e rispetto... che erano traditi e hanno approfittato della loro fiducia sconfinata... dei bambini dei quali i cuori battono che respirano vivono... ma li hanno uccisi una volta (due, più volte)... le loro anime sono fatte a piccoli pezzi insanguinati. Sono qui perché la Chiesa è mia Madre e mi fa tanto male quando è ferita quando è sporca. Gli adulti che hanno sperimentato questa ipocrisia da bambini non potranno mai cancellarla dalle loro vite. Potrebbero dimenticarsene per un po', provare a perdonare, provare a vivere una vita piena, ma le cicatrici rimarranno sulle loro anime, non scompariranno. Cerco di sopravvivere, di provare gioia, ma in realtà è una lotta incredibilmente difficile... Ho un disturbo dissociativo dell'identità, un grave disturbo post-traumatico complesso (PTSD), depressione, ansie, paura delle persone, e non dormo, e se riesco ad addormentarmi in tal caso, ho sempre gli incubi. A volte ho degli stati, quando sono "fuori", non percepisco "qui" e "ora". Il mio corpo ricorda ogni singolo tocco... Ho paura dei preti, di stare nella loro vicinanza. Ultimamente non posso andare alla Santa Messa. Mi fa molto male... Chiesa, quello spazio sacro era la mia seconda casa e lui me l'ha tolta. Ho una gran voglia di sentirmi al sicuro in chiesa, di riuscire a non aver paura, ma il mio corpo, le emozioni reagiscono in modo completamente diverso... Vorrei chiedervi di proteggere la Chiesa, corpo di Cristo! Quello che è tutto pieno di ferite e cicatrici. Per favore, non permettete che quelle ferite siano ancora più profonde e che se ne verifichino di nuove! Siete uomini giovani e forti. Chiamati! Uomini chiamati da Dio, a servire Dio, e per mezzo di lui alle persone... Dio vi ha chiamati a essere il suo strumento tra gli uomini. Avete una grande responsabilità! Una responsabilità che non è un peso, ma un dono! Per favore, trattatelo secondo l'esempio di Gesù con l'umiltà e l'amore! Per favore non spazziamo le cose sotto il tappeto, perché poi inizieranno a puzzare, marcire, e il tappeto stesso si decomporrà Rendiamoci conto che se nascondiamo questi fatti, quando ne tacciamo, nascondiamo lo sporco e diventiamo così un cooperatore. Se vogliamo vivere la verità, non possiamo chiudere gli occhi! Vivere nella verità è vivere secondo Gesù, vedere le cose attraverso i suoi occhi. Ed Egli non chiudeva i suoi occhi davanti al peccato davanti al peccato e al peccatore, ma viveva la verità con l'amore Con la verità amabile ha indicato il peccato e il peccatore. Per favore, rendetevi conto che avete ricevuto un regalo enorme. Il dono di essere un "alter Christus", di essere l'incarnazione di Cristo qui nel mondo. Le persone, e specialmente i bambini, non vedono in voi una persona, ma Cristo, Gesù, di cui confidano comunque senza limiti. È qualcosa di enorme e forte, ma anche molto fragile e vulnerabile. Per favore sii un buon sacerdote!». 

Da ansa.it il 26 novembre 2021. L'arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, ha offerto le sue dimissioni a papa Francesco, in seguito alle rivelazioni del settimanale Le Point su una sua presunta love story con una donna nel 2012. La diocesi di Parigi riconosce che l'alto prelato ebbe all'epoca un "comportamento ambiguo" con una donna. Nella missiva al Papa, che secondo Le Figaro sarebbe giunta ieri a Roma, Aupetit propone "al Papa di rassegnare le dimissioni". Solo il Pontefice può decidere se accettarle o meno.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2021. L'affaire Aupetit, dal nome dell'ex arcivescovo di Parigi Michel Aupetit, ha conosciuto giovedì un nuovo coup de théâtre. A una settimana esatta dall'accettazione delle dimissioni da parte del Papa, in seguito alle rivelazioni del magazine Le Point su una presunta relazione tra l'alto prelato e una donna, Paris Match ha pubblicato un articolo intitolato "Aupetit perso per amore", con tanto di foto che mostrano l'ex arcivescovo vestito in borghese in compagnia di un'altra donna. Sugli scatti rubati dal settimanale parigino lunedì 6 dicembre, Michel Aupetit, jeans neri, cappotto nero, berretto nero e sciarpa rossa, passeggia per le strade di Viroflay, nel dipartimento delle Yvelines, e in seguito nella foresta di Meudon, accanto a Laetitia Calmeyn, 46 anni, vergine consacrata, brillante teologa belga e insegnante presso il prestigioso Collège des Bernardins, lì dove il presidente Macron, nel 2018, pronunciò il suo celebre discorso sulla necessità di "riparare" il legame lacerato tra Stato francese e Chiesa. Nell'articolo di Paris Match, firmato da Caroline Pigozzi, non solo si rivela che è stato lo stesso Aupetit a far nominare Laetitia Calmeyn insegnante di Teologia morale al Collège des Bernardins, ma anche che tra i due non ci sarebbe soltanto un rapporto di amicizia spirituale e intellettuale, bensì una liaison amorosa. «Nessun perdono all'arcivescovo di Parigi, avrebbe mentito al Papa», scrive il settimanale parigino, assicurando che Aupetit «avrebbe omesso i suoi legami femminili» al Santo Padre, «passando sotto silenzio» la sua «prossimità» con questa teologa. Insomma, non c'era soltanto Colette (così si chiama secondo le informazioni di Paris Match), la ragazza con cui Aupetit avrebbe avuto una relazione nel 2012, quando era vicario generale di Parigi, ma anche un'altra donna, forse addirittura più importante. «Monsignor Aupetit smentisce con forza le accuse menzognere e deplora con vigore le insinuazioni malevoli contenute in questa pubblicazione», ha dichiarato l'avvocato di Aupetit, Jean Reinhart. L'ex arcivescovo rimprovera a Paris Match il modo in cui sono stato scattate le foto, «con un teleobiettivo per suggerire l'idea di una relazione», parlando di «metodi calunniosi e nauseabondi» e dicendosi pronto a trascinare il settimanale in tribunale. Lo scoop di Paris Match esplode a due giorni dalla conferenza stampa data da Papa Francesco nell'aereo che lo riportava a Roma dopo il suo viaggio a Cipro e in Grecia. Rispondendo alle domande della stampa sul caso Aupetit, ha parlato di «piccole carezze e massaggi» che l'ex arcivescovo avrebbe prodigato, prima di esortare i giornalisti a «indagare» sull'affare e di spiegare di «aver accettato le dimissioni non sull'altare della verità, ma sull'altare dell'ipocrisia». Insomma, è la menzogna per omissione di Aupetit che avrebbe spinto il Papa a prendere la decisione di sollevarlo dall'incarico così rapidamente, secondo Paris Match. Le Figaro, dal canto suo, evoca invece la comunicazione fumosa dell'ex arcivescovo dopo le prime rivelazioni del Point e in particolare il suo rifiuto di spiegarsi «pubblicamente in maniera chiara». Infermiera di formazione, Laetitia Calmeyn, secondo Paris Match, era talmente influente che «alcuni, nell'entourage di Aupetit, la considerano responsabile delle loro difficoltà a essere ascoltati dal vescovo» dimissionario. Nella primavera del 2018, tra l'altro, Calmeyn è stata nominata dal Papa consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede a Roma. Sollecitato dal Parisien sull'amicizia tra Aupetit e la teologa belga, l'entourage del primo ha risposto con queste parole: «È un'amicizia di lunga data. Niente di più». Il Pontefice, scrive Paris Match, è «stanco» di tutto quello che sta accadendo in Francia: «La "figlia primogenita della Chiesa" è diventata maledetta per Roma? Incendio di Notre-Dame de Paris nell'aprile 2019, rapporto Sauvé sugli abusi sessuali nell'ottobre del 2021 e in dicembre una nuova burrasca». In riferimento, appunto, a Aupetit, che ieri, alla Chiesa di Saint-Sulpice, a Parigi, ha celebrato la sua messa di addio all'arcidiocesi.

Da tgcom24.mediaset.it il 26 novembre 2021. "Quando mi incontrava, anche se era vestito, aveva l'abitudine di spingere la mia testa verso le sue parti intime". È la testimonianza a "Fuori dal Coro" di Michelle, ex suora che vive nella periferia di Parigi. La donna ha parlato degli abusi subiti da un sacerdote, nel periodo in cui lei stava prendendo i voti: "Ho iniziato a soddisfare le sue voglie - ha detto - e piano piano il disgusto ha lasciato spazio all'abitudine". Michelle è solo una delle 330mila vittime degli abusi da parte dei circa 3mila preti compiuti negli ultimi sessant'anni: "Mi sentivo obbligata a dargli piacere fisico, la cosa è durata per vent'anni - prosegue nel suo racconto - dopo un po' dai primi incontri mi ha presentato suo fratello e anche lui era un prete e anche lui abusava di me. Mi manipolava, era grasso e puzzava e sentivo il peso del suo corpo su di me: era angosciante, mi sentivo trattata come una prostituta". 

Domenico Agasso per "La Stampa" il 9 novembre 2021. Dalla Francia alla Germania, dalla Polonia all'Irlanda, fino agli Stati Uniti, al Cile, al Messico e alla lontana Australia, per citare i casi più clamorosi: la piaga della pedofilia nelle Sacre Stanze ha gravemente infettato decine di Stati e migliaia di diocesi e parrocchie nel corso dei decenni. La geografia degli orrori della Chiesa continua ad allargarsi. E, tra silenzi e omertà, oltre a devastare la vita dei ragazzini abusati e dei loro familiari, provoca danni di immagine e di credibilità all'istituzione ecclesiastica. E anche ingenti perdite economiche per risarcire le vittime, costringendo spesso a vendere parti del patrimonio parrocchiale o diocesano e a chiedere prestiti, come sta per accadere in Francia. Anche se in questo momento è impossibile avere una stima di quanto la Chiesa nel mondo sborserà nei prossimi mesi e anni, dato che la stragrande maggioranza delle cause sono ancora in corso, resta certo che la più grande somma sborsata è stata nell'arcidiocesi di Boston, nell'ambito del celebre «caso Spotlight», titolo del film del 2015 che ripercorre l'inchiesta giornalistica del The Boston Globe - Premio Pulitzer - sugli abusi sessuali compiuti su minori: 660 milioni di dollari elargiti a 508 vittime. Furono 89 i sacerdoti accusati e 55 quelli rimossi dall'incarico per l'infame crimine, coperti dall'influentissimo cardinale Bernard Francis Law, morto nel 2017. Quel terremoto, nel 2002, travolse la Chiesa americana ma scosse anche il Vaticano: niente sarebbe stato più come prima. È stato papa Benedetto XVI ad affrontare per primo la situazione ormai deflagrante nei Sacri Palazzi, con due azioni simbolo: la rimozione e la messa in stato di isolamento di un simbolo del male, il potente fondatore dei Legionari di Cristo, il predatore sessuale seriale messicano Marcial Maciel Degollado; il viaggio in Usa nel 2008, durante il quale chiederà perdono alle vittime (mai accaduto prima). La rivelazione di migliaia di abusi su minori contraddistingue l'ultima parte del suo pontificato: il più dirompente nella cattolicissima Irlanda, dove saranno cacciati vescovi e otre 100 preti. Papa Francesco accelera la lotta contro la pedofilia avviata dal suo predecessore, e deve affrontare l'esplosione della gerarchia ecclesiale cilena, prendendo una decisione senza precedenti: nel 2018 convoca a Roma tutti i vescovi, e li fa dimettere. A marzo di quest'anno un altro scandalo devasta la Germania. Il report di un'indagine indipendente nell'arcidiocesi di Colonia fornisce numeri agghiaccianti: 202 i responsabili e 314 le vittime di violenze avvenute tra il 1975 e il 2018. E per il 63% i colpevoli sono appartenenti al clero. In Germania i presuli hanno preso due provvedimenti per ciò che riguarda i risarcimenti agli abusati: uno che stabilisce - attraverso una commissione indipendente - le procedure per arrivare alla definizione della cifra da corrispondere; e poi hanno istituito anche un «fondo di solidarietà». Ecco poi la Polonia, dove la Conferenza episcopale ha denunciato numeri terrificanti: da luglio 2018 a dicembre 2020, a diocesi e ordini religiosi sono arrivate 368 denunce di abusi su minori, per i quali sono accusati 292 preti. Le segnalazioni riguardano il periodo tra il 1958 e il 2020. Tra chi ha recentemente indagato c'è anche il cardinale Angelo Bagnasco. Mentre vari vescovi stanno già «saltando» per coperture e omissioni, sotto accusa c'è pure il porporato Stanislaw Dziwisz, già segretario di papa Giovanni Paolo II. Trasferendosi dall'altra parte del pianeta, una vittima in Australia ha ricevuto da parte della Chiesa un maxi-risarcimento di 1,5 milioni di dollari australiani, circa un milione di euro, poco prima dell'inizio del processo, ad aprile. L'uomo, oggi 58enne, era «bersaglio» anche del prete predatore padre Gerald Ridsdale, della diocesi di Ballarat, ora in carcere. È uno tra le centinaia di vittime che in Australia stanno chiedendo indennizzi alla Chiesa. Il più cospicuo finora è stato dato alla fine di gennaio di quest'anno a un 52enne: 2,45 milioni di dollari australiani, più di un milione e mezzo di euro, per gli abusi subiti dal suo insegnante, il sacerdote Bertram Adderley. L'affaire pedofilia in Australia aveva portato a un'inchiesta nazionale, in cui furono raccolte le deposizioni di 15mila persone e ascoltate a porte chiuse 8mila vittime, e aveva fatto parlare nel 2017 di «tragedia nazionale».

Lucetta Scaraffia per “La Stampa” l'11 novembre 2021. Come mai nel nostro Paese la Chiesa - unica fra le Chiese cattoliche europee, insieme con quella spagnola - non ha avviato alcuna indagine né indipendente né interna sugli abusi del clero? In questi giorni in cui si fa un gran parlare della situazione francese molti se lo domandano e immagino siano ben pochi quelli che pensano che il motivo stia in un comportamento particolarmente virtuoso del clero italiano. Dobbiamo ricordare che in nessun caso negli altri Paesi queste indagini sono nate da esigenze interne all'istituzione stessa, ma sono state effetto di pressioni esterne, cioè di pressioni pesanti della stampa che ha aperto il coperchio che teneva nascosti i molti scandali. In Italia la stampa - fino a oggi - non si è mai impegnata in ricerche del genere: le notizie degli abusi compaiono soprattutto sui giornali locali, e scompaiono rapidamente. Perfino in Spagna, dove la conferenza episcopale ha ammesso di non conservare dossier sugli abusi del clero, e quindi di non potere rispondere a domande a riguardo, il più importante quotidiano nazionale, il País - sulle orme del Boston Globe - ha avviato un'indagine indipendente, creando il primo database sulla pedofilia della Chiesa spagnola. Il bilancio per ora è di 816 vittime in 306 casi riconosciuti attraverso condanne e media, ma i numeri sono in costante aumento perché le vittime denunciano spesso solo quando vedono altre vittime farlo. Qui in Italia, niente. Anche se padre Zollner, il gesuita che consiglia papa Francesco sugli abusi, in una intervista sulla Repubblica subito dopo che è stata reso noto il risultato dell'inchiesta francese, ha detto che «le Chiese cattoliche di altri Paesi dovrebbero ora avere lo stesso coraggio della Chiesa francese. Spero che anche l'Italia si attivi. L'unico modo è quello della verità e dell'onestà». Niente sui giornali - a parte ovviamente la lodevole eccezione di quello sul quale scrivo - niente da parte dei fedeli, da parte di quel popolo di credenti ancora abbastanza numeroso che frequenta le parrocchie. Non penso ahimè che questo silenzio sia una prova della fedeltà degli italiani all'istituzione, né una fiducia nella qualità del clero italiano: basta avviare questo discorso con qualcuno e si capisce subito che anzi è un sintomo di sfiducia totale verso le gerarchie, e soprattutto di qualcosa di ancora più negativo, di indifferenza, di disinteresse. Noi cattolici italiani non abbiamo più un forte senso di partecipazione alla comunità di cui facciamo parte, non siamo desiderosi di contribuire a migliorarla, non pensiamo che sapere la verità su una vicenda che comporta vittime e sofferenze sia un dovere cristiano. Non pensiamo che la cappa di silenzio sui crimini avvelena tutta la Chiesa. Se ci sentissimo veramente parte di questa comunità saremmo pronti a combattere affinché - a cominciare dalle gerarchie - tutti ci avvicinassimo sempre di più a quello che deve essere una comunità cristiana. Non lasceremmo che le critiche e gli scandali arrivassero tutti dall'esterno, da persone che possono essere considerate a priori nemiche della Chiesa. Non lasceremmo che oggi, in Italia, se qualcuno vuole informarsi sulla questione degli abusi del clero debba rivolgersi a un sito privato, la Rete L'abuso, fondato e gestito da Francesco Zanardi, persona certo meritevole ma così coinvolto personalmente - lui stesso vittima di abusi di un prete nell'infanzia - da indurre molti a mettere in dubbio le sue informazioni. Comunque, è Zanardi che rappresenta l'Italia nelle riunioni internazionali di abusati dal clero, anche in quelle organizzate dalle Nazioni Unite. Se non vogliamo prendere sul serio le cifre sul numero degli abusati che il sito propone, sappiamo però che ci sono casi gravissimi, come gli abusi sui piccoli sordomuti dell'associazione Provolo di Verona, il cui procedimento è ancora in corso dopo anni, come se queste vittime non avessero bisogno di giustizia, come se ci fossero ancora dei dubbi sulla colpevolezza di seviziatori che non hanno insegnato alle piccole vittime il linguaggio dei segni perché non potessero smascherarli. Una inchiesta seria e imparziale è indispensabile per fare chiarezza, per restituire credibilità vera alla Chiesa italiana, per rompere quel clima di indifferenza che è l'ultima tappa prima dell'allontanamento definitivo, per vivere veramente la compassione umana, il cui compito è soccorrere gli sventurati, come ha chiesto il Padre che è nei cieli che ha affidato la Terra alla cura degli esseri umani. 

Da huffingtonpost.it il 12 ottobre 2021. La Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo ha rigettato oggi il ricorso di 24 persone che avevano citato in giudizio il Vaticano dinanzi ai tribunali belgi senza successo per atti di pedofilia commessi da preti cattolici. La Cedu ha invocato in particolare “l’immunità” della Santa Sede riconosciuta dai “principi di diritto internazionale”. I ricorrenti, di nazionalità belga, francese e olandese, erano stati respinti dai tribunali belgi, che avevano invocato l’immunità giurisdizionale della Santa Sede. La Corte, che si esprime per la prima volta su questo tema, si è pronunciata a favore dei tribunali belgi.

Domenico Agasso per “La Stampa” il 13 ottobre 2021. Mentre la piaga della pedofilia del clero flagella e scuote la Chiesa francese dopo quella tedesca (per stare agli ultimi casi), la Corte europea nega il diritto a denunciare il Vaticano per gli abusi sessuali dei preti. È stata riconosciuta l'«immunità» della Santa Sede. Città del Vaticano e Santa Sede non possono dunque essere chiamati in giudizio per i casi di violenze commesse da sacerdoti. Lo ha stabilito la Corte europea dei Diritti dell'uomo (Cedu) di Strasburgo, che ha così rigettato 24 querelanti - di nazionalità belga, francese e olandese - che avevano citato in giudizio - senza successo - i Sacri Palazzi presso tribunali del Belgio. La Cedu ha richiesto in particolare «l'immunità» della Santa Sede riconosciuta dai «principi di diritto internazionale». È la prima volta che si esprime su questo spinoso argomento. Sentenze analoghe o simili a quella di ieri si erano registrate negli anni passati anche negli Stati Uniti, sempre dopo denunce presentate da vittime di abusatori ecclesiastici rivolte contro il Vaticano o addirittura il Pontefice. La Corte «ritiene che il rigetto non abbia deviato dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti in materia di immunità dello Stato» e che si applicano al Vaticano. Il tribunale di Strasburgo ha quindi dedotto che non vi era stata violazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sul «diritto di accesso a un tribunale» invocate dai ricorrenti, che hanno sostenuto di essere stati impediti dal fare valere in sede civile i loro reclami, rimostranze e contestazioni contro la Santa Sede. Tutto era iniziato dieci anni fa, con un'azione civile collettiva intentata al tribunale di primo grado di Gand: comprendeva una pretesa di risarcimento dal Vaticano, dalle gerarchie ecclesiastiche locali e dalle associazioni cattoliche. Il motivo della domanda di riparazione economica era il «danno causato dal modo strutturalmente carente in cui la Chiesa avrebbe affrontato il problema degli abusi sessuali al suo interno». In pratica, si chiedeva il riconoscimento della responsabilità in solido per i danni subiti e un risarcimento anche in considerazione della politica dei silenzi sulla questione abusi. Ma il Vaticano «ha caratteristiche paragonabili a quelle di uno Stato», notano i giudici europei, i quali ritengono che la giustizia belga avesse quindi il diritto di «dedurre da queste caratteristiche che la Santa Sede era un ente sovrano straniero, con gli stessi diritti e doveri di uno Stato». La decisione di Strasburgo giunge pochi giorni dopo la pubblicazione dell'inchiesta nella Chiesa di Francia, dalla quale è emerso che 330.000 minori sono stati vittime di aggressori religiosi o laici in ambito ecclesiale. Ieri monsignor Eric de Moulins-Beaufort, presidente della Conferenza episcopale, ha incontrato Gerald Darmanin, ministro dell'Interno incaricato del culto. Il Vescovo ha evidenziato che in 17 diocesi sono stati stipulati protocolli con le rispettive procure «al fine di facilitare e velocizzare il trattamento delle segnalazioni per ogni fatto denunciato».  

Giuseppe China per "La Verità" il 5 novembre 2021. È finito agli arresti domiciliari con un'accusa particolarmente pesante, detenzione di materiale pedopornografico, il parroco e direttore della Caritas di Benevento, don Nicola De Blasio. Oggi l'indagato, insieme ai suoi legali Massimiliano Cornacchione ed Alessandro Cefalo, dovrebbe essere ascoltato dal gip Gelsomina Palmieri per l'udienza di convalida dell'arresto, chiesto dal sostituto Marilia Capitanio. Durante la perquisizione presso l'abitazione di De Blasio (svoltasi 48 ore fa) gli agenti della polizia postale avrebbero trovato nei suoi dispositivi, cellulare e computer fisso e portatile, immagini e video di adolescenti e bambini impegnati in atti sessuali. Dalle prime indiscrezioni il nome di De Blasio, 55 anni, non sarebbe il solo presente nelle carte dell'inchiesta coordinata dalla Procura di Torino, affidata al pubblico ministero Valentina Sellaroli che ha appunto ordinato la perquisizione dell'abitazione del parroco. Nonostante le indagini siano iniziate nel capoluogo piemontese, la competenza sull'eventuale conferma della misura cautelare a carico del parroco spetta al gip di Benevento, dato che la richiesta di arresto è stata firmata dai togati sanniti. La comunità della chiesa di San Modesto, nel complesso quartiere Libertà, area nella quale il sacerdote è impegnato da più di due decenni, per la precisione 25 anni, si è schierata a fianco del suo pastore. Il quale è stato il principale fautore dell'iniziativa di market solidale, progetto in favore delle famiglie più bisognose. La maggior parte dei fedeli è rimasta basita al diffondersi della notizia: «Non ci credo neanche se lo vedo con i miei occhi» e «neanche sotto tortura ci crederei». Altri, invece, si sono spinti oltre e non hanno escluso l'ipotesi di una «vendetta» proprio nei confronti di De Blasio. Netta la presa di posizione del presidente del consorzio Sale della terra, Angelo Moretti: «Ho visto e vedo ancora da dieci anni il bene che fa e come lo fa. La sua casa è da sempre luogo di accoglienza e di comunità. Ora si trova nel Jetsemani, molti lo hanno già condannato e altri sono pronti a sputargli in faccia, gli stessi che gli chiedevano aiuto. Ma don Nicola», ha scritto Moretti su Facebook, «sa che questa è la strada che tocca a persone controcorrente. Siamo in tanti a gridare "forza don Nik"». Ha mostrato, invece, maggiore equidistanza rispetto ai fatti contestati e alla figura di De Blasio, il vescovo di Benevento Felice Accrocca: «Solidarietà alle famiglie dei minori oggetto di criminoso sfruttamento ripresi nei video e nelle foto e piena collaborazione perché venga chiarita la posizione di don Nicola». E ancora: «Con il senso di responsabilità e di servizio che hanno contraddistinto la sua missione ecclesiale, sicuramente collaborerà con gli inquirenti per chiarire ogni aspetto del suo coinvolgimento in questa triste vicenda». Caso che in parte ricorda la storia di monsignor Carlo Alberto Capella, ex consigliere della nunziatura a Washington, condannato nel 2018 dal Tribunale Vaticano a cinque anni di reclusione e 5.000 euro di multa per divulgazione, trasmissione, offerta e detenzione di materiale pedopornografico.

Paola Pellai per "Libero Quotidiano" il 10 ottobre 2021. Cari lettori, qui l'affare s'ingrossa. Scusate il gioco di parole che può sembrare blasfemo ma, vi assicuro, la meno blasfema sono io. Dopo essermi imbattuta in una chat cattolica a luci rosse, mi sono infilata in un abito talare e ho fatto tappa nel sito pretigay.it. Da questo momento in poi sono don Pao. Innanzitutto ho scoperto che qualche sacerdote non ha ancora digerito la chiusura di due siti gay a loro riservati, Venerabilis e Reverendis, fermati non dal Vaticano ma da una campagna mediatica contro. In forma anonima resiste il Reverendo Moderatore di Venerabilis: «Sia lodato Gesù Cristo. Lasciami la tua mail, riprenderemo contatto conte». A chi lo sollecita il Reverendo spiega che sta studiando come fare per riaprire una chat ma «devo farlo fuori da una sede per maggiore sicurezza». E con altrettanta sincerità ammette che «la comunità Venerabilis è ben viva ed attiva anche dopo la chiusura del sito web». Adesso per chi non vuole restare in odore di santità (e castità) c'è pretigay.it, rinforzato da una pagina Facebook che ha una copertina eccitante: un prete gnocco che ti invita ad ascoltare «il tuo istinto» spalancando il suo abito talare su addominali da paura. A dir la verità ad implorarti a mani giunte c'è pure un altro prete, molto meno figo e con la veste abbottonata. L'home page del sito ci tiene a mettere in chiaro: «Questo non è un sito di perdizione. Ci piacerebbe vivere in un mondo in cui l'omosessualità venisse compresa ed accettata, anche dai religiosi. L'orientamento sessuale di una persona non può essere motivo di discriminazione e le istituzioni, incluse quelle religiose, dovrebbero capirlo. L'amore è amore. Sempre. In qualsiasi forma». Oddio, procediamo. «Questo sito - spiegano- è dedicato agli uomini di chiesa che nascondono la propria omosessualità, a coloro che la vivono come un peso e che vogliono trovare altri con cui parlarne, per trovare conforto ed appoggio, senza paura di essere giudicati». Per tutelarti puoi usare un nickname. «I preti gay ci sono sempre stati. Sono tra di voi. In certi casi siete voi. Qual è il problema? Questo spazio libero è per uomini che vogliono sentirsi liberi, ma che purtroppo non possono andare oltre il virtuale».

SCAMBIO DI OPINIONI Nella home del sito non si parla mai né di valori cristiani né di attaccamento alla fede. Niente doveri, ma un diritto: l'orgoglio gay. Pur, a volte, tra mille timidezze. Come il giovane prete della comunità Pio X: «Sono omosessuale, ma non ho mai accettato questa mia condizione. Cerco sacerdoti gay per scambiare opinioni». Anche Menzoom74 sembra in stato confusionale, forse per questo i preti li cerca «maturi, per scambiarci momenti di sana intimità spirituale e belle parole». Ci sono pure quelli non più verginelli come Camillo74: «Cerco a Bologna un prete che abbia voglia di sperimentare qualcosa di nuovo. Sono carino, discreto e maschile». Poi c'è il 50enne di Roma che sottolinea di aver «già avuto esperienze spirituali (le chiama così, ndr) e non solo con preti (forse allude a monsignori e vescovi, ndr). Sto cercando sacerdoti per ripetere l'esperienza». L'iscrizione al sito è gratuita ma se non vuoi restare "passivo" a vita devi per forza sottoscrivere un abbonamento per accedere a posta, bacheca annunci, video-chat e pure video-charme. Senza carta di credito non fai nulla, ma proprio perché il servizio ha un costo «permette di evitare che s'iscrivano troppo curiosi, ma solo utenti interessati. In questo modo aumenta la qualità degli incontri». Proprio perché sei tu, anzi io, don Pao, mi mettono a disposizione abbonamenti mensili super scontati: oro (33 euro), argento (32 euro) e bronzo (50 euro, ovviamente per convincerti che quello oro è un'offerta imperdibile), differenziati per la quantità dei servizi proposti. Oro, argento e bronzo, come il podio olimpico. Come succede quando compri vestiti o scarpe su internet, vale la formula "soddisfatti o rimborsati". Ma vista la sfilata dei tipi vicino al banner in questione, sai in partenza che sarai soddisfatto. Molto soddisfatto. Quello più vestito ha solo l'orologio al polso.

L'ISCRIZIONE Detto, fatto. M'iscrivo. Sono don Pao, ho 28 anni. Non metto foto, ma mi presento: «Sono un prete, giovanile ed avventuroso. Credo nella mia missione, ma mi manca una componente importante per sentirmi completo. Sono pronto a mettermi in gioco ma non a giocare». Da regolamento la richiesta dovrebbe essere vagliata da non so quale comitato etico, in realtà il mio profilo è approvato subito e la conferma mi arriva via mail da due occhi azzurri come il cielo e un fisico divino. Mi dà il benvenuto ed apre la serie di chi bussa al mio confessionale. Marco, 29 anni, da Milano, mi chiede se voglio flirtare con lui. Risposta secca: sì o no. 65slash, 56 anni, da Lecce, capelli brizzolati e occhi marrone mi manda un kiss. E poi ancora truzz89, 31 anni, da Verona, Mister_o, 32 anni, da Torino, Paviachristi75, 18 anni, da Vogogna (Vb), Enrico, 26 anni, da Sesto Calende (Va)... mi riempiono di messaggi. L'algoritmo del sito indica il mio profilo come debole, perché non ho messo indicazioni fisiche e neppure patrimoniali (come indicato).

Abusi, mea culpa del Papa. "È il tempo della vergogna". Serena Sartini il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. All'Udienza generale Francesco chiede perdono alle vittime delle violenze. "Non succeda mai più". «É il momento della vergogna, la mia, la nostra vergogna»: il Papa chiede scusa alle vittime di abusi sessuali commessi da sacerdoti nella chiesa francese, all'indomani di un rapporto choc che ha registrato, negli ultimi 70 anni, almeno 216mila vittime e oltre 3mila preti e religiosi coinvolti in crimini di pedofilia. Il mea-culpa di Bergoglio arriva nel corso dell'udienza generale del mercoledì, nel saluto ai fedeli di lingua francofona, subito dopo una lunga riflessione sulla libertà e sulla verità, commentando la Lettera ai Galati. «Vergogna», una parola che il Papa ripete cinque volte in meno di un minuto. Atto di espiazione, grido di perdono. Per gli atti commessi dalla chiesa francese, ma anche in Germania, negli Stati Uniti, in Cile. «La libertà è un tesoro che si apprezza realmente solo quando la si perde. Per molti di noi, abituati a vivere nella libertà, spesso appare più come un diritto acquisito che come un dono e un'eredità da custodire. Quanti fraintendimenti intorno al tema della libertà - ha ammonito il Pontefice - e quante visioni differenti si sono scontrate nel corso dei secoli!». E allora, se la verità rende liberi, non bisogna fuggire. E Bergoglio affronta a viso aperto la cruda verità della piaga degli abusi nella chiesa francese. «Desidero esprimere alle vittime la mia tristezza e dolore per i traumi che hanno subito. E anche la mia vergogna - ha sottolineato il Papa argentino che fin dall'inizio del suo pontificato ha dato avvio a un'operazione pulizia e trasparenza nella lotta ai casi di pedofilia e abusi all'interno della Chiesa - la nostra vergogna, la mia vergogna per la troppo lunga incapacità della Chiesa di metterle al centro delle sue preoccupazioni assicurando loro la mia preghiera». «Prego e preghiamo insieme tutti: a te Signore la gloria, a noi la vergogna. Questo è il momento della vergogna. Incoraggio i vescovi e voi cari fratelli che siete venuti qui a condividere questo momento. Incoraggio vescovi e superiori e religiosi a continuare a compiere tutti gli sforzi affinché drammi simili non si ripetano». Si tratta ora di affrontare «una prova dura ma salutare». I cattolici francesi sono chiamati adesso ad «assumere le loro responsabilità per garantire che la chiesa sia una casa sicura per tutti». Anche Francesco è rimasto scioccato dal dato presente nel dossier: «Ne risultano purtroppo numeri considerevoli». L'indagine è stata assegnata da vescovi e superiori religiosi ad una Commissione indipendente ed ha registrato, tra il 1950 e il 2020, almeno 216 mila vittime e tra i 2.900 e 3.200 sacerdoti e religiosi coinvolti in crimini di pedofilia. Prima di iniziare l'udienza generale, Jorge Mario Bergoglio ha incontrato quattro vescovi francesi e con loro ha pregato in silenzio. «Ha ragione il Papa, questo è il momento della vergogna. Ora è il tempo della preghiera, della conversione, di chiedere perdono e fare di tutto perché questa vergogna non si ripeta mai più», ha detto profondamente commosso monsignor Emmanuel Gobilliard, vescovo ausiliare di Lyon all'Osservatore Romano. Il Rapporto insiste molto «sull'aspetto sistemico degli abusi, sul fatto che sono anche la conseguenza di un modo di esercitare l'autorità che può portare nella direzione degli abusi», ha osservato padre Federico Lombardi, gesuita ed ex portavoce vaticano, in una intervista a Vatican News. Nel funzionamento della struttura della Chiesa, «uno spazio maggiore di responsabilità e di presenza attiva dei laici» diventa «determinante per fare dei passi in avanti». Nella lotta contro gli abusi, nell'ascolto delle vittime e nella prevenzione, le donne in particolare «devono avere un posto molto maggiore di quello che hanno». Serena Sartini

Francia, abusi, Chiesa: nessuno sa più cosa fare. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. Dopo giorni di anticipazioni e indiscrezioni, ora da mezzogiorno del 5 ottobre conosciamo le cifre shock degli abusi sessuali compiuti in Francia, nella Chiesa. Ora sappiamo che sono circa 216mila le vittime di abusi sessuali da parte di preti cattolici in Francia dal 1950 ad oggi. I dati sono contenuti nel rapporto della commissione d’inchiesta voluta dai vescovi e guidata da Jean-March Sauvé. Sauvé ha parlato di un fenomeno “di natura sistemica” ed ha confermato che circa l’80% sono vittime di sesso maschile. “Le conseguenze sono molto gravi – ha detto Sauvé -. Circa il 60% degli uomini e delle donne che hanno subito abusi sessuali incontra rilevanti problemi nella vita sentimentale o sessuale”. La Chiesa non ha saputo vedere, non ha saputo sentire, non ha saputo captare i segnali e le vittime, quando parlavano, sono state criminalizzate e intimidite a loro volta. Entra totalmente in crisi un modello di sacerdozio che riguarda sia i preti formati e ordinati prima del Concilio Vaticano II sia quelli formati dopo il 1965. Inoltre la sessualità del clero si rivela per quello che è: un problema irrisolto. E di fronte al calo delle vocazioni, è facile immaginare che le debolezze o i problemi di personalità dei candidati vengano giudicati o valutati con condiscendenza per non perdere una “vocazione” quando ce ne sono già poche. Al momento però non c’è un altro modello perché la teologia del dopo-Concilio si è essa stessa incartata – vedere il Codice di Diritto Canonico – su un modello clericale, giustificato in tutte le maniere. Riconoscere l’errore o quanto meno l’esagerazione, sarà non solo doloroso, ma foriero di tendenze scismatiche o scissioniste. Un bel problema di fronte al quale soluzioni precostituite non esistono. Un po’ come sta accadendo per il “Sinodo” e per la “sinodalità”. Due parole magiche per dire che ci vuole una corresponsabilità e partecipazione a tutti i livelli, ma se alla fine l’ultima parola spetta ai vescovi e ai sacerdoti, non si capisce a cosa serva. Papa Francesco apre una strada, però nessuno ha ancora capito come percorrerla, con quali tempi e modi. Non cosa, si badi bene, ma “come fare” perché andrebbero scrostate tutte le incrostazioni clericali di piccolo e grande livello che impediscono la partecipazione, il parlare chiaro, le decisioni coraggiose di fronte ad una crisi di credibilità così ampia. Del resto la luce in fondo al tunnel non c’è. La formazione dei sacerdoti non è stata rinnovata, la psicologia entra nei seminari solo a piccole dosi e un eventuale altolà dello psicologo verso un candidato può venire tranquillamente superato dal parere del vescovo o del superiore religioso. E la “crisi sistemica” è destinata a proseguire. Intanto stiamo a guardare cosa accadrà in Francia a partire da oggi. A novembre i vescovi si riuniranno in assemblea plenaria anche per discutere dei risultati della Commissione d’inchiesta. Ma un fatto è già sicuro: nessun cambiamento potrà avvenire a livello di procedure di selezione e formazione, se prima non c’è l’approvazione della Santa Sede. E abbiamo una Chiesa che gira a tre velocità: quella del Papa che pure – forse – vorrebbe se non accelerare, almeno – come dice lui – “avviare processi di cambiamento”.  I quali se pure avviati, devono fare i conti con la velocità o la sordina degli uffici della Curia romana perché le Congregazioni sono competenti su tutte le decisioni concrete da attuare (o far fallire quelle che non piacciono). E poi la terza velocità riguarda i vescovi, nominati in base a criteri a volte niente affatto chiari e comunque capaci di rallentare, ritardare, oppure accelerare. Ma in quest’ultimo caso le conferenze episcopali possono entrare in conflitto con la Curia romana, come accaduto un po’ ovunque nel mondo. E così si ritorna al punto di partenza di un infinito gioco dell’oca. A quanto pare ben pochi si rendono conto che tutte le soluzioni tentate non portano a risultati. La crisi è “sistemica” ma nessuno dei nostri protagonisti sembra aver mai letto von Bertalanffy (che ha studiato, appunto, la “teoria dei sistemi”) e von Glasersfeld che ha fatto toccare con mano come ci si costruisca una propria immagine della realtà (costruttivismo) e se non si usa il pensiero critico, si scambia la propria immagine o desiderio della realtà, per la realtà stessa, con conseguenze disastrose (come qui). Come uscirne senza studiare, senza decisioni coraggiose, senza un gruppo deciso a intervenire e non un papa da solo o al massimo con uno sparuto gruppo di otto consiglieri? Risposta facile: insistendo negli errori, non se ne esce!

I preti pedofili francesi fanno a pezzi la Chiesa: 70 anni, 330mila vittime. Francesco De Remigis il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. Rapporto choc rivela: "Crimini sistematici". Il clero chiede perdono. Ma nessuno pagherà. Nella campagna per le presidenziali francesi, irrompe un dato choc: dal 1950 al 2020, in Francia sono stati 330 mila i minori vittime di abusi sessuali compiuti da sacerdoti, religiosi o laici in missione ecclesiale. Due terzi dei quali, 216mila, a opera del clero. Crolla dunque un argomento tabù, quello della pedofilia nella chiesa d'Oltralpe, già sollevato nel 2019 dal film di François Ozon, Grâce à Dieu, su cui s'erano scagliate accuse di portare al cinema tesi senza garantismo. Ora arrivano invece certezze «granitiche» su 70 anni di «crimini», per cui ha espresso la sua «vergogna, terrore, determinazione ad agire» monsignor Éric de Moulins-Beaufort, presidente della conferenza episcopale francese: «Conosco il nome di qualche vittima, chiedo perdono». A definire i fatti di carattere «sistemico» è stata ieri la Commissione indipendente sugli abusi nella Chiesa (Ciase) guidata dal 72enne Jean-Marc Sauvé e incaricata di far chiarezza. Il report conclusivo ha generato uno tsunami emotivo a 360°, perché la «terribile realtà» stima tra i 2.900 e i 3.200 preti e funzionari cattolici coinvolti. Prove, testimonianze, nomi e cognomi. Tutto documentato in 485 pagine e 2.500 allegati con cifre, resoconti agghiaccianti e raccomandazioni per riformare la Chiesa e porre fine alle violenze sessuali in sagrestie, colonie estive, scuole cattoliche. La montagna di carte è arrivata fino in Vaticano. Papa Francesco ha espresso dolore per le vittime e «gratitudine per il loro coraggio». I vescovi francesi, che avevano commissionato il rapporto, ipotizzano dall'anno prossimo risarcimenti: l'80 per cento delle vittime aveva tra i 10 e i 13 anni, erano maschi. Gli abusi riguardano diocesi grandi e piccole, città e paesini: 13 casi al giorno. Dai social ai media tradizionali, si parla si crepa nella fiducia nelle istituzioni ecclesiastiche, in un Paese in cui più di un francese su due non crede più in Dio (il 51%, stando al sondaggio Ifop di agosto). Quasi tutti i fatti nel rapporto Sauvé sono caduti in prescrizione, o i colpevoli sono morti. Tuttavia ci sono stati «22 rinvii al pubblico ministero» per abusi ancora perseguibili. «Abbiamo anche riferito più di 40 casi ai vescovi per informarli dei reati prescritti il cui autore è ancora vivo», ha spiegato Sauvé, tracciando le tappe del percorso che ieri ha portato la Chiesa al mea culpa immediato dopo anni di «silenzi e mancanze».

Teologi, magistrati, psichiatri: 21 membri hanno «attraversato» storie di dolore e vergogna. Due anni e mezzo di lavoro. Nei primi 17 mesi, 6.500 testimonianze; poi 250 audizioni e colloqui. Presentando il Rapporto, corredato da ricerche negli archivi della Chiesa, del ministero della Giustizia e dell'Interno e ritagli di giornale, ieri Sauvé ha denunciato la mentalità corporativista che ha a lungo cercato di coprire gli abusi. Già membro del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia Ue, dal 13 novembre 2018 guida l'indagine: il momento più difficile è stato «l'incontro con le vittime» in cui ha misurato «il potere distruttivo di quanto accaduto». «Ci siamo confrontati con il mistero del Male». A nome degli abusati ieri ha parlato François Devaux, cofondatore dell'associazione La Parole libérée, creata nel 2015 a Lione dalle vittime di padre Bernard Preynat. «È dall'inferno che voi, membri della Commissione, siete tornati». Francesco De Remigis

Il dossier dal 1950 a oggi. Pedofilia nella Chiesa, Francia sconvolta dal report dei vescovi: “Più di 330mila bambini abusati”. Antonio Lamorte su Il Riformista il  5 Ottobre 2021. Sconvolgono e indignano i numeri del rapporto della Ciase (Commissione sugli abusi sessuali nella Chiesa) incaricata dalla Conferenza episcopale e quindi dai vescovi di Francia. Dal 1950 a oggi sarebbero state 216mila le vittime di pedofilia nella Chiesa francese e tra 2.900 e 3.200 i preti e i religiosi cattolici colpevoli di violenze sessuali ai danni di minori. Il Presidente della Commissione indipendente Jean-Marc Sauvé ha dichiarato in occasione della diffusione del rapporto che da parte della chiesa “fino all’inizio degli anni 2000 un’indifferenza profonda ed anche crudele” sarebbe stata manifestata “nei confronti delle vittime”. Nessuno avrebbe prestato ascolto alle vittime nei decenni successivi che anzi “si ritiene abbiano un po’ contribuito a quello che è loro accaduto”. Il numero delle vittime sale a “330.000 se vi si aggiungono gli aggressori laici (ovvero sagrestani, insegnanti nelle scuole cattoliche, responsabili di movimenti giovanili, ndr) che lavorano nelle istituzioni della chiesa cattolica”, ha aggiunto Sauvé, alto dirigente francese già membro del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia Ue, illustrando ai giornalisti le conclusioni della commissione da lui presieduta. Le vittime sarebbero state nell’80% dei casi maschi. I numeri terribili, senza specifiche di accuse o di altre prove, minacciano di gettare un discredito senza precedenti sulla Chiesa francese. A prescindere dalle accuse nello specifico, e dalla presunzione di innocenza che verso ogni caso va rispettata, l’“affaire” aperto dal rapporto di 2.500 pagine può diventare un punto di non ritorno, di svolta. La fine della percezione del fenomeno come casi isolati e più come un fenomeno di massa. Ma come ha ottenuto questi numeri la Commissione? Il lavoro è durato due anni e mezzo. La Commissione era stata istituita su mandato della Conferenza dei vescovi francesi (Cef) e della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia (Corref). I risultati del dossieraggio è il risultato di una stima statistica comprendente un margine di circa 50mila persone e delle informazioni contenute negli archivi.  “Voglio esprimere la nostra gratitudine alle vittime che si sono rese disponibili a collaborare con la nostra commissione – ha aggiunto Sauvé – senza le quali non avremmo potuto fare nulla. Pensiamo anche a coloro che non hanno potuto incontrarci. Sono senza dubbio quelle che soffrono di più, ed è con loro che voglio terminare”. Sauvé durante la conferenza stampa ha definito per l’appunto “sistemico” il carattere dei presunti atti di pedofilia e di insabbiamento. Quindi la presunta specificità all’interno della Chiesa del fenomeno delittuoso. Secondo il rapporto i minori rischiano nel mondo religioso due volte in più di essere vittime di abusi rispetto ad altri ambiti. Due terzi dei presunti pedofili sarebbero stati appartenenti al clero. La Chiesa francese ora potrebbe essere oggetto di un grande lavoro di pulizia e di ricostruzione e potrebbe anche affrontare il problema dei risarcimenti. Il presidente della Conferenza episcopale francese, Eric de Moulins-Beaufort, ha espresso “vergogna” e “spavento” chiedendo “perdono” alle vittime. “Il mio desidero, oggi, è di chiedervi perdono, perdono ad ognuna ed ognuno di voi”, ha dichiarato Moulins-Beaufort davanti alla stampa, aggiungendo che la voce delle vittime “ci sconvolge, il loro numero ci devasta”. Il portavoce vaticano Matteo Bruni ha riportato la riflessione di Papa Francesco dopo la visione della relazione francese: “Il suo pensiero va anzitutto alle vittime, con immenso dolore per le loro ferite e gratitudine per il loro coraggio di denunciare, e alla chiesa di Francia perché unita alla sofferenza del Signore per i suoi figli più vulnerabili, possa intraprendere una via di redenzione”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il dossier dei vescovi. Abusi su minori nella Chiesa, in Francia 216 mila bambini vittime. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. Dopo giorni di anticipazioni e indiscrezioni, ora da mezzogiorno del 5 ottobre conosciamo le cifre shock degli abusi sessuali compiuti in Francia, nella Chiesa. Ora sappiamo che sono circa 216mila le vittime di abusi sessuali da parte di preti cattolici in Francia dal 1950 ad oggi. I dati sono contenuti nel rapporto della commissione d’inchiesta voluta dai vescovi e guidata da Jean-Marc Sauvé. Quest’ultimo, in videoconferenza, ha spiegato che il numero delle vittime potrebbe salire a 330mila se si includono gli abusi commessi dai laici. Il rapporto si basa sugli archivi della Chiesa, dei tribunali e della polizia, nonché sulle interviste alle vittime, e afferma che circa 3.000 pedofili, due terzi dei quali sacerdoti, hanno lavorato nelle strutture ecclesiastiche in quel periodo. L’inchiesta è stata commissionata dalla stessa Conferenza episcopale nel 2018 a seguito di una serie di scandali in altri paesi, per verificare cosa fosse accaduto Oltralpe. Sauvé ha parlato di un fenomeno “di natura sistemica” e ha confermato che circa l’80% sono vittime di sesso maschile. «Le conseguenze sono molto gravi – ha detto Sauvé -. Circa il 60% degli uomini e delle donne che hanno subito abusi sessuali incontra rilevanti problemi nella vita sentimentale o sessuale». Il presidente della Conferenza episcopale francese, Eric de Moulins-Beaufort, ha dichiarato: «Siamo allibiti, le loro voci ci stanno scuotendo, il loro numero ci affligge. Desidero chiedere perdono, perdono a ciascuno di voi». Tuttavia, al di là della questione dei risarcimenti alle vittime, pure presente, c’è un ulteriore aspetto rilevante, cioè la conclusione praticamente unanime della Commissione: la Chiesa non ha saputo vedere, non ha saputo sentire, non ha saputo captare i segnali e le vittime, quando parlavano, sono state criminalizzate e intimidite a loro volta. Lo scandalo era già nell’aria da tempo. A marzo di quest’anno la giornalista francese Celine Hoyeau, caporedattore del quotidiano cattolico La Croix, ha pubblicato una dettagliata ricostruzione del sistema di abusi di potere – non solo abusi sessuali – attuato in diverse “nuove comunità”.  Espressione con cui si intendono le congregazioni religiose o i movimenti laicali approvati, nati dopo il Concilio Vaticano II per rispondere in modo aggiornato al desiderio di spiritualità e di una presenza significativa nel mondo. Non a caso il libro di Celine Hoyeau si intitola Il tradimento dei padri, cioè quei fondatori (“padri fondatori”), molti dei quali ancora in vita, capaci di soggiogare le persone usando forme di manipolazione (abuso spirituale) su adepti in questo caso già adulti. Ma non per questo forme meno gravi, in quanto diverse comunità sono state commissariate o sciolte. La Francia si rivela un altro paese in cui l’emergere degli abusi provoca una grave crisi di credibilità nei confronti dell’istituzione ecclesiastica. I metodi per insabbiare il fenomeno sono sempre gli stessi: spostare i sacerdoti da una diocesi all’altra o da una parrocchia all’altra, tacitare o colpevolizzare le vittime, denigrarle per minarne la credibilità, lasciar trascorrere il tempo per scoraggiare qualunque azione legale o giudiziaria. In Francia i casi attestati riguardano non solo ragazzi ma anche ragazze, seppure in una misura minoritaria ma non per questo meno significativa. Tuttavia se pensiamo alla Polonia, agli Usa, alla Francia, alla Germania, a qualche vicenda ancora sporadica in Italia, e se guardiamo al lavoro della Commissione vaticana sugli abusi, si deve notare che il fenomeno è praticamente inarrestabile e sarà facile prevedere una valanga di situazioni per i prossimi anni. Non a caso Sauvé parla di “crisi sistemica”. E la crisi è davvero tale. Entra totalmente in crisi un modello di sacerdozio che riguarda sia i preti formati e ordinati prima del Concilio Vaticano II sia quelli formati dopo il 1965. Inoltre la sessualità del clero si rivela per quello che è: un problema irrisolto. E di fronte al calo delle vocazioni, è facile immaginare che le debolezze o i problemi di personalità dei candidati vengano giudicati o valutati con condiscendenza per non perdere una “vocazione” quando ce ne sono già poche. Il modello di Chiesa costruito dopo il Concilio fa perno sulla figura del sacerdote. Il laico, nonostante i proclami, può fare poco o nulla ed è “suddito” del sacerdote. Il quale a sua volta è formato per avere sempre ragione e per avere sempre l’ultima parola anche sulle questioni organizzative. Questo modello non funziona più, visti i risultati. Al momento però non c’è un altro modello perché la teologia del dopo-Concilio si è essa stessa incartata – vedere il Codice di Diritto Canonico – su un modello clericale, giustificato in tutte le maniere. Riconoscere l’errore o quanto meno l’esagerazione, sarà non solo doloroso, ma foriero di tendenze scismatiche o scissioniste. Un bel problema di fronte al quale soluzioni precostituite non esistono. Un po’ come sta accadendo per il “Sinodo” e per la “sinodalità”. Due parole magiche per dire che ci vuole una corresponsabilità e partecipazione a tutti i livelli, ma se alla fine l’ultima parola spetta ai vescovi e ai sacerdoti, non si capisce a cosa serva. Papa Francesco apre una strada, però nessuno ha ancora capito come percorrerla, con quali tempi e modi. Non cosa, si badi bene, ma “come fare” perché andrebbero cancellate tutte le incrostazioni clericali di piccolo e grande livello che impediscono la partecipazione, il parlare chiaro, le decisioni coraggiose di fronte a una crisi di credibilità così ampia. Del resto la luce in fondo al tunnel non c’è. La formazione dei sacerdoti non è stata rinnovata, la psicologia entra nei seminari solo a piccole dosi e un eventuale altolà dello psicologo verso un candidato può venire tranquillamente superato dal parere del vescovo o del superiore religioso. E la “crisi sistemica” è destinata a proseguire. Intanto stiamo a guardare cosa accadrà in Francia a partire da oggi. A novembre i vescovi si riuniranno in assemblea plenaria anche per discutere dei risultati della Commissione d’inchiesta. Ma un fatto è già sicuro: nessun cambiamento potrà avvenire a livello di procedure di selezione e formazione, se prima non c’è l’approvazione della Santa Sede. E abbiamo una Chiesa che gira a tre velocità: quella del Papa che pure – forse – vorrebbe se non accelerare, almeno – come dice lui – “avviare processi di cambiamento”. I quali se pure avviati, devono fare i conti con la velocità o la sordina degli uffici della Curia romana perché le Congregazioni sono competenti su tutte le decisioni concrete da attuare (o far fallire quelle che non piacciono). E poi la terza velocità riguarda i vescovi, nominati in base a criteri a volte niente affatto chiari e comunque capaci di rallentare, ritardare, oppure accelerare. Ma in quest’ultimo caso le conferenze episcopali possono entrare in conflitto con la Curia romana, come accaduto un po’ ovunque nel mondo. E così si ritorna al punto di partenza di un infinito gioco dell’oca. Tanto ne va di mezzo la credibilità e a quanto pare ben pochi si rendono conto che tutte le soluzioni tentate non portano a risultati. La crisi è “sistemica” ma nessuno dei nostri protagonisti sembra aver mai letto von Bertalanffy (che ha studiato, appunto, la “teoria dei sistemi”) e von Glasersfeld che ha fatto toccare con mano come ci si costruisca una propria immagine della realtà (costruttivismo) e se non si usa il pensiero critico, si scambia la propria immagine o desiderio della realtà, per la realtà stessa, con conseguenze disastrose (come qui). Come uscirne senza studiare, senza decisioni coraggiose, senza un gruppo deciso a intervenire – non un papa da solo e neppure con uno sparuto gruppo di otto consiglieri?

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 4 ottobre 2021. In Francia la Chiesa trema e si prepara ad accusare l'onda d'urto della imminente pubblicazione del mastodontico dossier sulla pedofilia, frutto di due anni e mezzo di lavoro da parte di una commissione indipendente (finanziata dall'episcopato). Dalle carte esaminate sarebbero emersi tra 2.900 e 3.200 preti pedofili, per un periodo che va dal 1950 ad oggi, ha affermato Jean-Marc Sauvé, il presidente della commissione che indaga sugli abusi sessuali. Una indiscrezione che testimonia la grande preoccupazione dell'episcopato d'Oltralpe per le conseguenze sulla immagine della Chiesa che potrebbero rivelarsi disastrose. Tema decisamente scottante e al centro di un lungo faccia-faccia tra Papa Francesco e i vertici dell'episcopato tre giorni fa. «È una stima minima» basata sul censimento e sull'analisi incrociata degli archivi della Chiesa, della magistratura, della polizia giudiziaria e della stampa, così come sulle testimonianze raccolte dalla commissione, ha aggiunto Sauvè, l'autorevole magistrato e presidente dell'organismo che ha firmato il dossier di 2.500 pagine. La cifra si riferisce a una popolazione totale di 115.000 tra sacerdoti e religiosi, conteggiata nel corso degli ultimi 70 anni. La Chiesa francese sotto la spinta dell'opinione pubblica tre anni fa aveva autorizzato l'apertura dei propri archivi dando modo ad un gruppo di esperti (giuristi, sociologi, storici) di ricostruire il quadro completo del fenomeno e aiutare a comparare la violenza sessuale nella Chiesa con quella individuata in altre istituzioni, per esempio le associazioni sportive, le scuole e le violenze maturate nell'ambito familiare. Il lavoro della commissione si è spinto anche a formulare una serie di percorsi per arginare questa piaga. «Le vittime non sono facili da ascoltare, le storie che ci hanno raccontato sono spesso raccapriccianti, durissime, impensabili. Parlano di sesso, di abusi, di sacro, di morte. E' stato davvero un ascolto sconvolgente per noi tutti» ha spiegato Antoine Garapon, uno dei membri della commissione. Tra giugno 2019 e ottobre 2020 sono state ascoltate 6.500 persone. Le vittime potrebbero essere state circa 10 mila. La pubblicazione di questo rapporto - prevista per domani - fa affiorare il progressivo cammino di trasparenza intrapreso in questi anni da diverse conferenze episcopali (Francia, Austria, Germania, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Stati Uniti, Canada, Polonia). Un sentiero difficile ma considerato necessario da Papa Francesco. «Credo che i cattolici francesi ne saranno scioccati come tutti, anche se bisogna fare capire che non è una perversione specifica del clero cattolico» è stato il commento di monsignor Roland Minnerath, arcivescovo di Digione. Contrariamente alle iniziative improntate alla trasparenza dei vescovi francesi o tedeschi quelle della Chiesa italiana finora sono state decisamente insufficienti. Secondo l'associazione Rete L'Abuso la Cei è ancora restia ad aprire i propri archivi e fare luce sui vescovi che in passato hanno insabbiato casi di abuso e protetto sacerdoti. La scorsa settimana si è concluso un incontro internazionale in Svizzera tra decine di gruppi di vittime di tutta Europa. Da questa iniziativa partirà a breve una mozione al Consiglio d'Europa affinché i casi di abuso vengano affrontati a livello paneuropeo. In quel contesto è stato ricordato che in Italia l'argomento resta ancora tabù, persino sotto il profilo politico. L'unica interrogazione parlamentare che sia mai stata fatta in materia risale al 2017 e ad oggi non ha mai avuto risposte. Venne promossa dal deputato grillino Mantero che chiedeva al premier, ai ministri dell'Interno, della Giustizia, degli Esteri quali iniziative volessero prendere per prevenire e reprimere il fenomeno. Chiedeva, inoltre, di estendere l'obbligo del cosiddetto certificato antipedofilia per tutte le categorie oggi esenti che vengono a contatto con minori, compreso i sacerdoti. Inoltre domandava di avere elementi statistici sui procedimenti ancora pendenti nelle procure che vedono indagati o imputati ministri di culto, e di istituire un fondo per i risarcimenti a favore delle vittime.

Preti pedofili, per la Chiesa francese in arrivo un rapporto-choc. Anais Ginori su La Repubblica il 4 ottobre 2021. Si avvicina il giorno del Giudizio per la Chiesa francese. Tra poche ore sarà pubblicato il rapporto-choc della commissione che da oltre due anni indaga sui preti pedofili: un numero compreso tra i 2.900 e i 3.200, dal 1950 a oggi, secondo i primi calcoli non ancora ufficiali. Sul numero di vittime accertate invece c’è massimo riserbo, non circolano neppure indiscrezioni. La Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa è stata lanciata sulla scia di quanto fatto in altri paesi, dagli Stati Uniti all'Irlanda, alla Germania. Promossa dalla Conferenza episcopale francese e dalla Conferenza dei religiosi degli istituti e delle congregazioni, ha raccolto 6.500 chiamate di vittime e parenti, e ha anche scavato in numerosi archivi dell’ultimo mezzo secolo, da quelli ecclesiastici a quelli dei ministeri o della stampa.

"Come una bomba"

A guidare i lavori è stato Jean-Marc Sauvé, cattolico ex vicepresidente del Consiglio di Stato, insieme a una ventina di esperti di varie discipline come teologi, avvocati, medici, psichiatri. Il sociologo Philippe Portier, che ha partecipato ai lavori della commissione, promette un verdetto intransigente e senza concessioni. Il vescovo Eric de Moulins-Beaufort, presidente della Conferenza episcopale, ha inviato un messaggio ai sacerdoti e alle parrocchie per le messe del fine settimana. Bisogna attendersi, ha spiegato, “cifre spaventose”. "Sarà una prova, un momento duro" ha proseguito l’alto prelato invitando i fedeli a "un atteggiamento di verità e compassione". Per le associazioni delle vittime, presenti alla conferenza stampa in cui sarà presentato il rapporto, è l’atteso appuntamento con la verità. Un modo forse di ristabilire un senso di giustizia laddove la maggior parte dei reati cade sotto la prescrizione. Olivier Savignac, del collettivo “Parler et Revivre”, è convinto che il documento sarà “come una bomba” per la comunità cattolica francese. La commissione ha cercato di capire la prevalenza della violenza sessuale nella Chiesa rispetto a quella individuata in altre istituzioni come associazioni sportive, scuole o nella cerchia familiare. Gli esperti sono stati portati a studiare i meccanismi istituzionali e culturali che possono aver favorito la pedocriminalità.

45 raccomandazioni

Nel rapporto sono contenute anche 45 raccomandazioni, dalla prevenzione, alla formazione dei sacerdoti, alla trasformazione del governo della Chiesa. Intanto l'episcopato ha promesso alle vittime dei risarcimenti attraverso "contributi" finanziari, una soluzione che non piace a tutte le associazioni. Il rapporto Sauvé sarà esaminato a Roma, dove la questione è stata sollevata da Papa Francesco e da alcuni vescovi francesi in visita in Vaticano a settembre. È probabile che i lavori della commissione saranno al centro anche del colloquio previsto il 18 ottobre tra il Pontefice e il capo del governo francese, Jean Castex.

Marina Lucchin per ilgazzettino.it il 30 ottobre 2021. È partita da Padova l'indagine che ha portato all'arresto di don Francesco Spagnesi, il parroco di Prato coinvolto nello scandalo dei festini gay a base di droga dello stupro e cocaina. È finito in manette il 14 settembre scorso durante un'operazione della Squadra Mobile del capoluogo toscano, ma gli investigatori pratesi devono tutto ai colleghi padovani, coordinati dal sostituto procuratore Benedetto Roberti, che all'inizio del 2020 avevano chiuso l'Operazione G con nove indagati, tra le province di Padova, Vicenza e Treviso, finiti nei guai in parte per aver importato il Gbl dall'Olanda, nota anche come droga dello stupro, per poi rivenderla ai propri clienti, in parte per la cessione senza autorizzazione di medicinali, in particolare Cialis. Nell'ambiente la chiamavano Ciliegina, Fantasy o Filtro d'amore. Nomi che facevano sembrare innocuo quello che in realtà è un pericoloso stupefacente sintetico: la droga dello stupro. La squadra Mobile di Padova nell'ottobre 2019 ne aveva trovato un litro e mezzo nell'abitazione dell'imprenditore di Fossò (Venezia), Vanni Fornasiero, che di sera si trasformava in un organizzatore di eventi eleganti e trasgressivi in ville d'epoca o ambientazioni glamour. Feste rivolte principalmente al mondo gay, alcune in stile Eyes wide shut con tanto di obbligo di maschera sul viso. Il veneziano è stato arrestato per detenzione ai fini di spaccio. Oltre ai flaconi di Gbl, il 60enne aveva in casa anche diverse dosi di mefedrone, uno psicoattivo eccitante con effetti simili alla cocaina. Si tratta di una metanfetamina sintetica facilmente reperibile sul web. Con lui nei guai finirono anche Gabriele Sbrilli e l'architetto Federico Lucchin, di Noventa, di 46 e 51 anni, Nicolò Burughel, 35enne trevigiano, il vicentino 59enne Maurizio Vandello, il padovano Alessandro Pertile, 45enne, che gestisce un sexy shop all'Arcella, e ul 38enne albanese Sokol Haderaj. Sbrilli e Lucchin si sono rivelati veri e propri soci in affari per l'acquisto e spaccio di droga. L'uno col compito di ricevere i clienti nella loro abitazione di Noventa, l'altro, invece, col compito di reperire, a qualsiasi ora del giorno e della notte, non solo Gbl ma anche cocaina e mefedrone. Grazie al monitoraggio dei telefoni della coppia, ben presto la Mobile ha ricostruito la rete di clientela legata alla loro attività di spaccio di G o prosecco (la droga dello stupro), mefedrone (M), e di medicinali, quali Cialis, Viagra, Kamagra, in assenza di qualsivoglia autorizzazione, così come pure ai loro canali di rifornimento. I medicinali sono stati ritrovati anche nel sexy shop dell'Arcella. Sbrilli, Lucchin, Fornasiero e Brughel hanno patteggiato la pena in momenti diversi. Haderaj, Petrile e Vandello sono stati condannati, invece, con rito abbreviato. Da qui poi il ministero degli Interni ha richiesto alla polizia olandese, dove gli spacciatori si approvvigionavano, di avere i nomi di tutti gli italiani che compravano la droga dello stupro nei Paesi Bassi (ne compravano un litro a 100 euro e lo rivendevano a 1 euro al millilitro, guadagnando 900 euro). Essendo, infatti, un solvente che si usa nelle carrozzerie, bastava, infatti, acquistarla con un una partita Iva, anche fasulla. E qui c'è stata la scoperta: a settembre la polizia olandese ha fornito il malloppo di nomi. Durante le indagini, dunque, è finito nel mirino pure il parroco pratese. Il sacerdote è indagato anche per tentate lesioni gravissime visto che non avrebbe informato i suoi partner della sua sieropositività.

Gabriella Mazzeo per fanpage.it il 28 ottobre 2021. Ha chiesto il patteggiamento per una pena di 3 anni e 8 mesi Don Francesco Spagnesi, ex parroco della chiesa dell'Annunciazione di Castellina, a Prato. La procura di Prato ha dato il consenso tenendo conto del fatto che Spagnesi ha collaborato con gli inquirenti. Il prete è stato arrestato lo scorso 14 settembre dalla squadra mobile pratese per aver sottratto denaro al conto della sua parrocchia e ai fedeli col fine di acquistare stupefacenti tra cui la droga dello stupro. La richiesta passerà ora al vaglio del giudice per le indagini preliminari tenendo conto del parere favorevole della Procura. Se la richiesta sarà accolta, non vi sarà un processo pubblico sulla vicenda riguardante la comunità religiosa pratese e la Diocesi. Di tutte le accuse a carico del parroco, soltanto quella per tentate lesioni gravi è tramontata dal punto di vista penale. Secondo l'accusa, infatti, Spagnesi era consapevole di essere sieropositivo e aveva avuto rapporti, anche non protetti, con il compagno e con diversi partner sessuali ignari. L'accusa però è caduta dopo che il compagno del parroco si è sottoposto ad accertamenti che hanno confermato la sua negatività all'Hiv. Tutte le altre accuse a suo carico, invece, restano confermate: nelle scorse settimane la Diocesi di Prato ha presentato denuncia per appropriazione indebita per un valore di 130-150mila euro.

I festini a base di droga

Spagnesi ha ammesso subito la sua responsabilità sui reati riguardanti la droga. Ha chiarito di aver acquistato gli stupefacenti per uso personale durante festini con il compagno. Allo stesso modo ha confermato l'addebito per i reati che riguardano il denaro. L'attenuante da considerare è però la sua immediata disponibilità a collaborare con gli investigatori. Ai 5 anni e 2 mesi di base dovuti anche alla considerazione delle attenuanti bisogna aggiungere uno sconto di un terzo dovuto al fatto che si tratta di un patteggiamento in corso di indagine. Anche il compagno dell'ex parroco, accusato in concorso di spaccio e traffico internazionale di stupefacenti potrà patteggiare a 2 anni e 1 mese. Don Francesco potrà richiedere l'affidamento ai servizi sociali, oltre che in una comunità per curare la sua dipendenza.

Da ilfattoquotidiano.it il 25 ottobre 2021. Il prete arrestato a Prato per droga e appropriazione indebita, don Francesco Spagnesi, è indagato anche per tentate lesioni gravissime. La nuova ipotesi di reato formulata dalla Procura è legata alla sieropositività del parroco: il prete – viene ipotizzato dai pm – non avrebbe fatto menzione della sua condizione con alcuni dei partner dei festini che avrebbe organizzato assieme al suo compagno. Quest’ultimo, pure lui ai domiciliari, potrebbe essere la prima eventuale parte offesa della nuova contestazione. Nell’abitazione del compagno – dove viveva stabilmente il prete da due anni – c’è stata anche una perquisizione della squadra mobile disposta nei confronti del religioso dopo le nuove accuse.

Da "il Messaggero" l’1 ottobre 2021. Un altro prete trovato dalla polizia con cocaina in Toscana. L'aveva appena comprata in piena notte in una pineta. Stavolta però non ci sono reati rispetto ai casi eclatanti di altri sacerdoti toscani dove la cocaina si è intrecciata per vari motivi e in situazioni distinte con le loro vicende personali di indagati don Luca Morini, detto pure don Euro, a Massa (processo in corso), e don Francesco Spagnesi, arrestato a Prato pochi giorni fa per un giro di festini a base di droghe comprate con le offerte dei fedeli. Ora la nuova storia ha profili più contenuti e coinvolge un prete, 45enne, titolare di una parrocchia in Versilia. Agenti della Polstrada gli hanno trovato addosso una bustina di coca, giusto la quantità minima per l'uso personale. Niente denuncia penale dunque, tuttavia è scattata la segnalazione alla prefettura come assuntore.

Prete arrestato a Prato per droga e festini, il vescovo disse: “Meglio non mettere tutto in piazza”. Luca Serranò La Repubblica il 15 settembre 2021. In una intercettazione il vescovo Nerbini suggerisce a don Francesco Spagnesi di prendere un anno sabbatico giustificandolo con generici motivi di salute perché è necessario a "custodire" la vicenda. La diocesi sapeva della droga già da aprile. Prima di ogni altra cosa "il mantenimento dell'immagine". Sarebbe stata questa, secondo il gip di Prato, la strategia della diocesi per gestire il caso Don Francesco Spagnesi dopo le prime notizie, nell'agosto scorso, di un suo coinvolgimento in un traffico di Gbl. Il religioso si era infatti autosospeso per un "anno sabbatico", poco dopo la denuncia, adducendo motivi di salute. 

Giorgio Bernardini per corriere.it il 29 settembre 2021. «All’inizio si faceva chiamare Luca. Non avevo capito che era un parroco, non è certo la prima cosa che vai a pensare. Lui e il suo compagno mi hanno iniziato alla “droga dello stupro”. L’ho provata le prime volte nel loro appartamento dopo che avevamo fumato il crack in compagnia. Era un periodo della mia vita molto difficile, da cui sono uscito grazie ad una persona che mi vuole bene, che mi ha letteralmente tirato fuori dalle dipendenze». Otto volte in due anni, tra il 2018 e il 2019, questa persona è stata invitata nell’appartamento di Figline di Prato in cui si svolgevano i festini con don Francesco Spagnesi, il prete arrestato lo scorso 14 settembre e accusato di spaccio, traffico internazionale di droga, appropriazione indebita, truffa e tentate lesioni gravi. Franco – nome di fantasia - ha 40 anni ed è pratese. «La prima volta mi hanno contattato su grindr», l’app di incontri e chat della comunità gay. 

Chi, esattamente, l’ha contattata? Con quale profilo, con che modalità?

«È stato il compagno del prete, mi ha chiesto gentilmente se ci potevamo vedere una sera».

Quindi il parroco non lo sapeva?

«Certo che lo sapeva. Loro due condividevano tutto e volevano che io andassi da loro, nell’appartamento. La dinamica era chiara: piacevo al suo compagno, che voleva condividere comunque questa fantasia con il parroco, che si presentò come ‘Luca’ ». 

Cosa ha pensato la prima volta che ha incontrato questa coppia, cosa succedeva nell’appartamento?

«Loro volevano che si arrivasse sempre dopo l’una di notte: offrivano la droga, il resto dipendeva dalla volontà di chi partecipava a questi incontri. Non feci sesso con nessuno di loro. Anche le volte seguenti, quando sono andato lì, eravamo sempre e solo noi tre. Arrivavo che erano già su di giri, mi dicevano che avevano appena iniziato a fumare la coca, ma si vedeva che non era così. Si andava avanti nella notte». 

Lei era abituato a questi festini?

«Assolutamente no. La cocaina l’avevo solo e sempre tirata (inalata, ndr), mai fumata: è tutto diverso. Mi ero appena lasciato dal mio fidanzato, era un periodo molto buio. Volevo solo buttarmi via e loro lo sapevano. Ma sono sempre stati gentili. Anche se una volta, la seconda o la terza che andavo nell’appartamento, mi sono arrabbiato e ho smesso di frequentarli per un po’ ». 

Come mai?

«Perché sono stato male. Mi hanno dato la gbl, che chiamano droga dello stupro, senza che io me ne accorgessi. Ho avuto delle ore di black out, mi sono spaventato molto. Non so cosa sia successo in quei momenti ma escludo che abbiano abusato di me. Mi sono risentito. Però poi…». 

Cosa l’ha riavvicinata a loro?

«La droga. Quella sensazione che ti rimane sempre in testa quando fumi il crack, quel sapore che ti rimane in mente per giorni. E persino la Gbl, che ho ripreso dopo quella volta in alcune discoteche e a casa loro ogni volta che sono tornato». 

Ma non si era sentito male?

«Fa parte del gioco, abbassa la tensione, non ci sente sempre male. Anche Francesco (il prete, ndr) correva questo rischio e si sentiva male spesso. Non la gestiva, al contrario del suo compagno che era in qualche modo sempre vigile: lui era l’unico che non crollava mai».

Quand’è che Francesco le ha detto di essere un parroco?

«Mai. L’ho scoperto da solo, ho fatto due più due su alcune situazioni che mi parevano evidenti. Poi lui sapeva che io sapevo, perché gli facevo certe battute. Gli dicevo che la Bibbia era un libro fantascientifico e lui rideva, pareva essere d’accordo con me...». 

Quindi lei pensa che don Spagnesi non credesse davvero in Dio.

«Non mi pareva una persona con una doppia personalità. Mi sembrava solo un tossico che ogni tanto metteva la tonaca, soprattutto per motivi economici. Una persona debole, molto attaccata al suo compagno». 

Poco fa lei spiegava che ai festini il prete “si sentiva male spesso”. In che modo lo manifestava?

«Durante queste serate cominciava a essere sempre più agitato. A un certo punto cominciava sempre a graffiarsi da solo, soprattutto sul petto, spesso sino a far uscire il sangue. A volte perdeva completamente il controllo; un’altra volta è completamente svenuto: l’ho messo io sotto la doccia e gli ho infilato un limone in bocca per farlo riprendere». 

Come mai ha smesso di andare ai festini?

«Mi sono fidanzato con un uomo che mi vuole bene e che mi ha tirato fuori da questo tipo di vita. Loro, il prete e il suo compagno, mi hanno ricontattato molte volte, anche quest’estate. Ma io declinavo».

Sapeva di altri frequentatori dell’appartamento?

«Sì, erano loro stessi che me ne avevano parlato. Ricordo confusamente che si vantavano di aver immortalato un uomo eterosessuale nudo in bagno in un momento di svenimento, il prete mi fece vedere anche lo scatto in questione sul suo telefonino». 

Quando ha saputo che questa vicenda era divenuta oggetto di un’indagine si è spaventato?

«Per nulla. Mi sono spaventato quando ho sentito della sieropositività di Francesco».

Non lo sapeva? Lui non l’aveva avvisata?

«Non lo sapeva nemmeno sua madre, credo. Detto questo, io, con lui, non ho mai avuto rapporti sessuali. Però mi sono fatto subito il test, grazie al cielo sono negativo».

Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 15 settembre 2021. A fine messa don Francesco confidava sempre nella generosità dei fedeli, molti dei quali facoltosi. «La messa è finita, andate in pace e contribuite mi raccomando con le vostre offerte, al benessere della parrocchia», diceva spesso. Alla Provvidenza, invece, neppure ci pensava. E faceva bene perché mai e poi mai il Cielo lo avrebbe potuto aiutare a far ingigantire l'obolo. Quei soldi, infatti, non servivano per dare conforto ai poveri e ai diseredati, ma per acquistare la droga dello stupro e organizzare festini orgiastici ai quali partecipavano professionisti affermati (medici, manager, bancari e imprenditori) che il parroco reclutava anche via Internet. E siccome i soldi non bastavano mai e non c'era verso di moltiplicarli come i pani e i pesci, il prete aveva anche preso d'assalto le casse della diocesi riuscendo ad accaparrarsi un bottino pare di centomila euro. «Servono a persone bisognose della parrocchia», si giustificava il presule. Ieri don Francesco Spagnesi, 40 anni, pratese, è finito agli arresti domiciliari con l'accusa di spaccio e importazione internazionale di droga. Per i soldi sottratti alla diocesi (reato di appropriazione indebita) la Procura attende una querela di parte che ancora non è arrivata. Le accuse, per il sacerdote, per ora sono solo ipotesi e vale dunque la presunzione di innocenza anche se il parroco, da 12 anni alla guida dell'Annunciazione della Castellina, quartiere altolocato di Prato lungo il fiume Bisenzio e a due passi dal centro storico, pare abbia confessato tutti i suoi peccati. Agli arresti è finito anche il compagno del sacerdote. Alessio Regina, anche lui 40enne, che ad agosto era stato fermato dalla squadra mobile mentre in auto trasportava un cospicuo quantitativo di Gbl, nota come droga dello stupro. Le successive indagini hanno fatto scattare le manette ai polsi anche del sacerdote. Secondo la Procura di Prato, diretta da Giuseppe Nicolosi, il commercio di droga e l'organizzazione dei festini durava da tempo. Le riunioni venivano organizzate per pochi intimi, ma erano frequenti tanto che si calcola abbiano partecipato almeno 200 persone. I parrocchiani, che per anni avevano apprezzato il loro «pastore», giovane e dinamico, avevano notato negli ultimi tempi un radicale cambiamento. «Era nervoso, schivo e assente, non amava organizzare battesimi, comunioni, cresime e matrimoni», racconta una fedele. Sotto choc la diocesi di Prato. Il vescovo, Giovanni Nerbini, ha espresso «dolore e sgomento» per ciò che è accaduto. Monsignor Nerbini in una nota ha spiegato di essere stato da tempo a «conoscenza di un forte stato di sofferenza fisica e psicologica del sacerdote ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che avesse problemi di tossicodipendenza». Poi ad aprile, don Francesco aveva confessato l'uso di droghe e il vescovo gli aveva imposto di andare da uno psicoterapeuta. Il vescovo ha spiegato che quando alla diocesi si sono accorti di movimenti sospetti sui conti della parrocchia, «ho provveduto a ritirare il potere di firma del parroco». Infine, ai primi di settembre il sollevamento dall'incarico e ieri l'arresto. Il gip ha disposto che don Spagnesi sia posto ai domiciliari.

Giorgio Bernardini per "corriere.it" il 16 settembre 2021. Quando il 27 agosto gli agenti della squadra mobile entrano per la prima volta nell’appartamento dei festini, quello in cui don Francesco Spagnesi convive da anni con Alessio Regina, rilevano la presenza di «due bottiglie d’acqua modificate». Si tratta delle «boccette» per fumare il crack, segno inequivocabile di un consumo assiduo di cocaina. Nell’ordinanza di arresto firmata dal gip Francesca Scarlatti paiono chiari due aspetti: il prete 40enne non solo consumava e finanziava l’acquisto di droga, ma era direttamente lui — spesso — «a recarsi materialmente a reperire lo stupefacente», secondo tre canali di rifornimento; il consumo di droga era sconfinato totalmente nell’abuso e i due compagni cercavano sulle applicazioni di incontri per adulti «ogni sette dieci giorni» una persona, «preferibilmente omosessuale e propensa all’uso di droga», per farla partecipare a questi festini. Don Francesco pareva volersi liberare, in qualche modo, del peso della doppia vita. È lui che rende spontaneamente la sua confessione dopo che la polizia coglie il suo compagno nell’intento di ritirare la droga dello stupro importata dall’Olanda. «Minimizza», rileva il gip. Ma racconta che le cose, in quella casa al quinto piano di uno stabile di Figline, le facevano insieme. Le descrizioni dei frequentatori degli appuntamenti in questa prima fase dell’indagine fanno emergere il profilo di un tossicodipendente più che quello di uno spacciatore, reato di cui peraltro l’ex parroco della Castellina è accusato assieme al suo compagno. È vero che Don Spagnesi «chiedeva agli ospiti un piccolo rimborso per la benzina» che faceva sottintendere una partecipazione alla spesa per l’acquisto della droga, ma è altrettanto palese la mancanza di una volontà di guadagnare dalla cessione degli stupefacenti. Il profilo della «tossicodipendenza» si manifesta anche nei comportamenti: il contabile della diocesi lo rimprovera su WhatsApp «di aver notato ingenti ammanchi dal conto corrente della Curia e spese non giustificate», fra cui «prelievi da 40 mila euro in soli due mesi» e «pagamenti presso Pos per 75 mila euro», cifre a cui si somma un ammanco di 20 mila euro su cui sta indagando la Misericordia pratese, di cui il prete era Correttore. Ad aprile il vescovo Nerbini gli revoca il potere di firma per l’operatività bancaria e don Francesco comincia a rivolgersi ai parrocchiani con messaggi personali. Dopo poco tempo, non riuscendo a reperire il denaro che gli serviva, scrive alla maggior parte dei suoi conoscenti con lo stesso intento. 

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 22 settembre 2021. Sperperava i soldi dei suoi parrocchiani per comprare cocaina e Gbl, la droga dello stupro. Sostanze con le quali don Francesco Spagnesi, l'ex parroco quarantenne della chiesa dell'Annunciazione alla Castellina, a Prato, agli arresti domiciliari con le accuse di spaccio e traffico internazionale di stupefacenti oltre che di appropriazione indebita, animava i festini ai quali, come ha raccontato nell'interrogatorio di garanzia, «partecipavano venti, trenta persone». Ma a nessuno don Spagnesi ha mai rivelato di essere sieropositivo e ora è indagato anche per tentate lesioni gravissime. Ieri gli investigatori hanno perquisito l'appartamento nel quale l'ex parroco abitava con il compagno Alessio Regina, estraneo alla nuova contestazione e anzi potenziale parte offesa.

MINACCIA SOCIALE Regina ha accettato di sottoporsi al test per l'Hiv ed è in attesa dell'esito, mentre almeno altre due persone che partecipavano abitualmente agli incontri a base di droga e sesso avrebbero già fatto sapere di essere risultati positivi all'esame. Anche la pericolosità sociale del comportamento del prete ha spinto la Procura ad aggiungere il quarto capo d'accusa, per il quale è prevista una pena tra i sei e i dodici anni. Due giorni fa, nell'interrogatorio davanti al gip, Spagnesi ha ammesso tutto: il Gbl acquistato dall'Olanda con il compagno, il cui arresto a fine agosto per importazione di droga ha spalancato uno squarcio sulla doppia vita del prete, i soldi sottratti alla parrocchia. Ma della sua sieropositività non ha fatto cenno, mettendo così a rischio la vita del compagno e degli habitué dei festini, anche se secondo il suo legale «era un fatto noto». La dipendenza dalle droghe «era così forte che lui agiva di conseguenza, aveva bisogno continuamente di denaro», hanno spiegato i suoi avvocati, riferendo che il prete «ha manifestato il suo pentimento ma ha riconosciuto che c'era una forza interiore a cui negli ultimi due anni del rapporto con Regina non riusciva a resistere: è stato sommerso da questa grave dipendenza». Con freddezza e lucidità il prete ha messo in fila le ingenti cifre di cui si è appropriato: 150.000 euro sottratti dal conto della parrocchia, più 10.000 euro estorti direttamente ai fedeli. Una «confessione piena» durante la quale ha fatto nomi e cognomi delle persone truffate con la scusa di essere alla ricerca di fondi da destinare al sostentamento delle famiglie in difficoltà. Non solo. L'ex parroco avrebbe sperperato un'intera eredità destinata alla chiesa della Castellina, circa 230 mila euro, lasciati nelle sue disposizioni testamentarie da una fedele prima di morire, circa due anni fa.

L'AVVERTIMENTO Tutto bruciato in cocaina e droga dello stupro. Il depauperamento di risorse, naturalmente, non è passato inosservato. «Non sto facendo una bella figura, abbiamo preso un impegno», scriveva a don Spagnesi il membro del Consiglio affari economici della parrocchia appena sette mesi fa. E lo avvertiva, in una situazione che appariva già compromessa: «Ti volevo informare che sul conto corrente sono rimasti circa 120.000 euro. Tieni presente che nel 2020 la parrocchia ha incassato oltre 200.000 euro solo da vendite degli appartamenti: con questo ritmo di prelievi il conto sarà azzerato prima della fine dell'anno». Il prete era stato messo in guardia ma le cose, se possibile, peggiorarono nei giorni seguenti con «prelievi giornalieri» sino alla fine di aprile quando il vescovo gli ha revocato il potere di firma per le operazioni sul conto. L'ultimo, terribile segreto dell'ex parroco era la sua sieropositività e ora anche l'ultima menzogna è caduta.

Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 23 settembre 2021.

Chi è davvero don Francesco, il giovane parroco laureato, colto e brillante destinato a scalare i vertici ecclesiastici? Che cosa è diventato?

«Non lo so neppure io. Non mi riconosco più, il vortice della cocaina mi ha inghiottito - dice in lacrime il sacerdote davanti ai suoi avvocati -. La droga mi ha fatto tradire i miei parrocchiani, mi ha spinto a raccontare menzogne, mi ha fatto compiere azioni delle quali mi vergogno. Adesso sono sieropositivo all'Aids. Chiedo a tutti perdono». 

Poi, Francesco Spagnesi, 40 anni, pratese di buona famiglia con madre, padre e due fratelli dalla moralità irreprensibile e molto religiosi, ha quasi un sussulto. E promette: «Restituirò i soldi che per acquistare la droga ho sottratto alla curia e alla carità dei miei parrocchiani. Saranno rimborsati. Venderò tutto quello che è di mia proprietà, anche la casa di montagna».

Insieme ai suoi legali ha iniziato a redigere un elenco dei parrocchiani che hanno fatto le donazioni. Tanti nomi, seguiti dalle cifre, spesso importanti, che dovevano servire per poveri e bisognosi. Non sarà un'impresa facile. L'ex parroco dell'Annunciazione della Castellina, quartiere altolocato di Prato, arrestato insieme al fidanzato, Alessio Regina 40 anni, per spaccio e importazione internazionale di droga e accusato di appropriazione indebita. E da ieri anche di truffa. A quanto pare i soldi dei fedeli li girava sul suo conto corrente. Complessivamente dovrà restituire almeno 200 mila euro (forse 300 mila), perché in anni di tossicodipendenza e di crisi di astinenza sempre più forti, di denaro ne ha speso tanto. 

Raccontando di giorno ai fedeli che sarebbe servito per opere pie e poi, di notte, utilizzandolo per acquistare la cocaina ma anche Gbl (la droga dello stupro) per organizzare orge insieme al compagno e partner insospettabili quali medici, manager, bancari e imprenditori contattati via Internet. Già, i festini. Che sono costati al sacerdote un'ultima accusa, la più pesante, formalizzata poco prima dell'interrogatorio di garanzia: quella di tentate lesioni gravissime.

La Procura di Prato sospetta che il sacerdote possa aver infettato più persone (tra cui il fidanzato che martedì si è sottoposto a un test Hiv ma pare sia risultato negativo) senza avvertirle, della sua sieropositività, prima dei rapporti. «Non ho detto niente - ha confermato Spagnesi - perché ero in cura, prendevo dei medicinali anti virali e dunque non ero contagioso anche se per alcuni mesi ho interrotta la terapia». «Ma anche in questo caso - precisa l'avvocato Febbo - il mio cliente probabilmente non era contagioso perché l'effetto immunizzante cessa soltanto dopo diversi mesi». Nell'agenda del presule c'erano 300 contatti, ma i rapporti intimi durante i festini pare abbiano interessato una trentina di persone. Don Francesco (da ieri in cura al Sert di Prato) racconta di avere avuto una scissione: «Volevo essere il pastore dei miei fedeli, guidarli verso le vie del Signore e sono finito nel vizio e nella perdizione».

E ancora: «Ho iniziato a drogarmi saltuariamente una decina di anni fa quando mi sono innamorato del mio compagno. Poi sono entrato nel gorgo della tossicodipendenza. E i soldi non bastavano mai. Così è iniziato il mio calvario e quello degli altri». Eppure i primi anni di sacerdozio di Spagnesi erano stati straordinari. «Colto, era uno dei preti più stimati, lo consideravano un enfant prodige, era stato nominato correttore dell'Arciconfraternita della Misericordia, un ruolo molto prestigioso - racconta l'avvocato Febbo -. Una mente brillante, molto carismatica. Caduta nel baratro della cocaina».

(ANSA il 15 luglio 2021) - L'Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria vaticana nel 2020 ha inviato 16 rapporti all'autorità giudiziaria della Santa Sede, a fronte delle 89 segnalazioni ricevute. E' quanto si legge nel rapporto annuale. "Nel 2020 ha trovato conferma il trend crescente nella proporzione tra rapporti inviati all'Ufficio del Promotore di giustizia e segnalazioni ricevute, a dimostrazione del costante miglioramento nella qualità delle segnalazioni. In particolare, sono state ricevute dall'Asif 89 segnalazioni di attività sospetta e sono stati inviati all'Upg 16 rapporti", informa una nota del Vaticano. In merito alla Vigilanza, nel 2020 - si legge nel Rapporto dell'Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria vaticana- "in ambito prudenziale è stata condotta un'ispezione generale presso lo Ior". E' stata poi svolta una attività di formazione e supporto a tutti gli Enti della Santa Sede/Stato della Città del Vaticano (Autorità Pubbliche, Enti senza scopo di lucro, altre Persone Giuridiche), anche con "l'avvio di processi di autovalutazione degli Enti tramite questionari appositamente predisposti, l'analisi dettagliata dei questionati per consentire una visione d'insieme sulle minacce e vulnerabilità dei settori e dei singoli soggetti, la stesura di 'linee guida' per supportare gli enti nella predisposizione di proporzionali ed adeguata misure di mitigazione dei rischi, la conduzione delle prime ispezioni in loco". Nel 2020 sono state scambiate 49 richieste di informazioni con altre Autorità vaticane, riguardanti 124 soggetti. "Si registra quindi un'importante crescita rispetto all'anno precedente, che conferma le notevoli sinergie che si sono create - sottolinea il Vaticano - tra le istituzioni della Santa Sede e dello Stato Città del Vaticano nel contrasto alle attività criminose. Del pari, significativa è stata l'attività svolta in ambito internazionale, corroborata dalla sottoscrizione di due nuovi protocolli d'intesa. L'Asif ha infatti scambiato 58 richieste di informazioni con Uif estere su 196 soggetti e ha inviato 19 comunicazioni spontanee riguardanti 104 soggetti. Ciò ha anche consentito all'Asif di collaborare attivamente con le forze di indagine vaticane, nell'ambito dei protocolli d'intesa in essere", conclude la nota.

Nicolò Delvecchio per tag43.it il 16 luglio 2021. Bastano 130 mila dollari per diventare cittadini di Vanuatu, una delle più belle isole del Pacifico. Si fa la richiesta, si paga il dovuto e si aspetta, normalmente poco più di un mese, senza bisogno di vivere nel Paese oceanico. Anzi, non serve nemmeno visitarlo: il passaporto si può ottenere senza aver mai messo piede nell’isola, e fornisce una serie di vantaggi non da poco. Per esempio, i cittadini di Vanuatu possono entrare in 130 Stati al mondo senza bisogno di visto, compresi tutti i Paesi dell’Unione europea e il Regno Unito. E vale anche per sfruttare i vantaggi economici dell’isola, un paradiso fiscale senza imposte su reddito, società o patrimonio. 

Il passaporto di Vanuatu e i suoi vantaggi

Una vera miniera d’oro, per tutti: per lo Stato, che nel 2020 ha riscosso 116 milioni di dollari grazie alla cessione di passaporti, il 42 per cento delle entrate annuali. E per chi li richiede, spesso – ma non sempre – imprenditori caduti in disgrazia o ricercati dalla polizia internazionale, che grazie al passaporto verde possono aggirare sanzioni e restrizioni a loro carico. Il Guardian, che ha condotto l’inchiesta e ottenuto l’accesso a documenti riservati, ha rivelato che più di duemila persone, nel 2020, hanno richiesto e ottenuto la cittadinanza di Vanuatu. Tra questi anche Gianluigi Torzi, imprenditore italiano accusato di false fatture, evasione fiscale e riciclaggio di denaro nell’ambito dell’acquisto di una proprietà di lusso per conto del Vaticano, arrestato a Londra a maggio dopo un periodo di latitanza. Ma anche un manager siriano sottoposto a sanzioni da parte degli Usa, dei fratelli sudafricani accusati di un furto di criptovaluta da 3,6 miliardi di dollari e tanti altri. 

La “cittadinanza di investimento” e i suoi rischi

La cittadinanza da investimento (così si chiama il sistema) non è illegale, e sono molti gli Stati che offrono programmi del genere: si può richiedere per ottenere una maggiore libertà di movimento, o anche per godere di alcuni privilegi bancari. Alcuni analisti, però, ritengono che lo schema adottato da Vanuatu sia troppo facile da sfruttare, e che crei non solo una sorta di “porta sul retro” per l’accesso in molti Paesi, ma anche una base d’appoggio per i criminali internazionali che, grazie alle leggi fiscali dell’isola, possono procedere più facilmente al riciclaggio di denaro. Degli oltre duemila passaporti rilasciati da Vanuatu nel 2020, circa 1.200 erano per cittadini cinesi, poi molti nigeriani, russi, libanesi, iraniani, libici (tra cui l’ex Presidente riconosciuto dall’Onu, Fayez al-Serraj), siriani e afgani. Tra coloro che hanno presentato domanda c’erano anche venti persone dagli Stati Uniti, sei australiani e qualche europeo. 

Vanuatu, centro di traffici criminali?

«Il Pacifico, in questo modo, rischia di diventare sempre più uno snodo centrale per il traffico di droga», ha affermato Jose Sousa-Santos, un ricercatore di politica del Pacifico presso l’Australian Pacific Security College. «Perché le leggi sui semi-paradisi fiscali di Vanuatu lo rendono molto attraente per il riciclaggio di denaro». Ma non solo, perché dopo aver ottenuto la cittadinanza si possono anche avviare le pratiche per cambiare legalmente il proprio nome, ottenendo di fatto una nuova identità: «È uno dei rischi», ha continuato Santos. «Una volta ottenuta la cittadinanza di Vanuatu si può cambiare il nome e, naturalmente, ottenere l’accesso in Paesi in cui la fedina penale non lo permetterebbe». In risposta a queste preoccupazioni, Ronald Warsal, presidente dell’Ufficio e della Commissione per la cittadinanza di Vanuatu, ha dichiarato: «Vanuatu è firmatario della maggior parte dei trattati penali a livello internazionale, e negli ultimi anni ha ratificato accordi che vietano alle organizzazioni criminali internazionali di operare all’interno della nostra giurisdizione. Per questo, è difficile per queste organizzazioni stabilire una base a Vanuatu». Ha anche affermato che il paese richiede dei controlli prima di consentire un cambio legale di nome. Vanuatu è una delle nazioni più povere del mondo, con la Banca Mondiale che ha fissato il Pil pro capite a 2.780 dollari. Il Paese è fortemente indebitato, in gran parte a causa dei disastri naturali che lo hanno colpito, come il tornado del 2014 che ne ha fatto crollare l’economia. Nel giugno 2021, nonostante la pandemia, il governo ha registrato un avanzo di bilancio in gran parte grazie alle numerose richieste di cittadinanza, e ha utilizzato questi profitti per pagare i debiti.

(ANSA l'8 novembre 2021) - "Il Vaticano perderà 100 milioni di sterline con la vendita del lussuoso edificio, situato a Londra, ora al centro di un'inchiesta penale internazionale". Lo scrive il Financial Times in prima pagina nella sua edizione europea, precisando che "il Vaticano è nelle fasi finali della vendita dell'edificio situato a 60 Sloane Avenue, nel quartiere londinese di Knightsbridge", per una somma pari a "circa 200 milioni di sterline al gruppo di private equity Bain Capital, secondo diverse persone che hanno familiarità con il dossier. Bain Capital e Savills, che gestisce la vendita, hanno entrambi rifiutato di commentare". Secondo il quotidiano finanziario britannico "la Santa Sede ha investito sul palazzo, tra il 2014 e il 2018, 300 milioni di sterline, il che significa che la vendita dovrebbe confermare una perdita di circa 100 milioni di sterline" Il giornale della City ricorda che "lo scandalo legato all'acquisto dell'edificio ha condotto il procuratore della Santa Sede ad aprire un procedimento nei confronti dell'ex banchiere Raffaele Mincione e di altri, tra cui un Cardinale" e "alla fine dello scorso anno papa Francesco ha privato il potente ufficio dell'amministrazione centrale del Vaticano di un portafoglio di investimenti del valore di centinaia di milioni di euro costituito da donazioni dei cattolici".

Ca.Mar. per il "Sole 24 Ore" il 18 Novembre 2021. Ad un certo punto, nel processo in Vaticano sullo scandalo finanziario legato alla compravendita del palazzo londinese di Sloane Avenue – che tra l’altro è prossimo alla vendita, con maxi-perdita – spunta addirittura una “versione del Papa”. Nel corso della quarta udienza del processo (la prossima il 1° dicembre) – inchiodato su questioni procedurali e contestazioni della difesa dei sei imputati, dai dieci iniziali (resta il cardinale Angelo Becciu), sugli omissis del materiale depositato – un avvocato afferma che il Papa sarebbe stato ascoltato dai pm come testimone. Una convinzione che il legale ha maturato sulla base dell’audio-video di monsignor Alberto Perlasca, il “pentito” del processo. Il pm ha subito smentito che il Papa sia stato mai sentito, spiegando che le cose dette da Francesco e riferite nella fase istruttoria erano tratte da una sua dichiarazione pubblica in aereo nel 2019. Ma l’avvocato della difesa non ci sta: «Rivedete il video». Insomma, per l’avvio del dibattimento tempi ancora lunghi.

Serena Sartini per "il Giornale" il 18 Novembre 2021. La difesa batte come un martello pneumatico: «Gli audio video depositati sono stati tagliati, oscurati, mutilati, sbianchettati, falcidiati». Le citazioni a giudizio sono nulle. Quarto atto del processo sugli immobili di Londra che vede coinvolto, tra gli altri, il cardinale Angelo Becciu. Non decolla il processo davanti al Tribunale Vaticano, si allungano i tempi, l'udienza viene aggiornata al primo dicembre, la difesa torna a chiedere la nullità del procedimento. Ma c'è una novità, emersa nell'udienza di ieri, la quarta appunto, che ha visto presente in Aula - tra gli imputati - solo il cardinale Becciu. Ed è «giallo». Perché viene menzionata una deposizione del Papa in persona che, secondo gli avvocati di Becciu, sarebbe stato ascoltato. Tuttavia non si ha traccia del verbale della deposizione. É stato l'avvocato Carlo Panella, difensore del finanziere Enrico Crasso, a far ascoltare un passaggio della registrazione di monsignor Alberto Perlasca, relativa all'interrogatorio del 29 aprile 2020, mentre si parlava della presunta estorsione di 15 milioni di euro alla Santa Sede sull'acquisto del palazzo di Sloane Avenue a Londra. A un certo punto il promotore di giustizia interrompe il teste dicendo: «Monsignore, questo che dice non c'entra niente. Noi siamo andati dal Santo Padre e gli abbiamo chiesto ciò che è accaduto». Panella ne deduce che «hanno sentito come testimone il Santo Padre», e denuncia: «Di questo non abbiamo nessun verbale». La mancanza di un verbale della presunta deposizione del Pontefice, per l'avvocato Panella, configurerebbe la nullità della citazione a giudizio, così come gli «omissis» posti su numerose parti delle registrazioni, le «criticità» riscontrate sulla durata delle registrazioni e la presunta mancanza di parti consistenti, l'incompletezza dei verbali cartacei, e il tempo ridotto per esaminare l'ingente materiale. Diddi ribatte: «Questo ufficio non ha mai sentito a verbale il Santo Padre. Perlasca stava raccontando delle cose, ma soprattutto di quello che il Papa aveva detto in tempi non sospetti» cioè quanto affermato da Bergoglio durante la conferenza stampa in aereo il 26 novembre 2019, nel volo dalla Thailandia al Giappone, quando spiegò che aveva autorizzato le perquisizioni perché «sebbene ci sia la presunzione di innocenza, ci sono capitali che non sono amministrati bene, anche con corruzione».

Papa Francesco "interrogato dai pm", ma il verbale è sparito: sul Vaticano una bomba senza precedenti. Libero Quotidiano il 18 novembre 2021. Nuovo giallo Vaticano. Anche Papa Francesco è stato ascoltato dai pm? Il Sole 24 ore riporta un retroscena su quanto accaduto in aula nel corso della quarta udienza del processo sullo scandalo finanziario relativo alla compravendita del palazzo londinese di Sloane Avenue. Uno degli avvocati difensori dei sei imputati rimasti sui 10 iniziali, tra cui c'è ancora il cardinale Angelo Becciu, avrebbe fatto esplicito riferimento a una clamorosa apparizione di Bergoglio davanti agli inquirenti, fatto senza precedenti per un Pontefice. Il legale Carlo Panella, difensore del finanziere Enrico Crasso, battaglia coi pm su questioni procedurali e omissis del materiale depositato e afferma di essere sicuro che anche il Santo Padre sia stato già ascoltato. "Una convinzione - spiega il Sole 24 ore - che ha maturato sulla base dell’audio-video di monsignor Alberto Perlasca, il 'pentito' del processo". L'interrogatorio di Perlasca risale al 29 aprile 2020: si parla della presunta estorsione di 15 milioni di euro alla Santa Sede. "Questo ufficio non ha mai sentito a verbale il Santo Padre - replica il promotore di giustizia Diddi -. Perlasca stava raccontando delle cose, ma soprattutto di quello che il Papa aveva detto in tempi non sospetti". Secondo il pm, le frasi attribuite a Francesco sarebbero state pronunciate dal Papa nel corso di una dichiarazione pubblica in aereo nel 2019, di fronte a varie persone, il 26 novembre 2019 nel volo dalla Thailandia al Giappone (il Papa spiegò di aver autorizzato le perquisizioni perché "sebbene ci sia la presunzione di innocenza, ci sono capitali che non sono amministrati bene, anche con corruzione"). Anche di fronte alla smentita, l'avvocato difensore ha però ribadito la propria versione: "Rivedete il video". Nell'audio dell'interrogatorio di Perlasca gli inquirenti spiegano: "Monsignore, questo che dice non c'entra niente. Noi siamo andati dal Santo Padre e gli abbiamo chiesto ciò che è accaduto". Frase che secondo Panella testimonierebbe l'interrogatorio del Pontefice. "Di questo - denuncia l'avvocato - non abbiamo nessun verbale". La prossima udienza è stata fissata per l'1 dicembre, ma il clima se possibile è ancora più infuocato. La difesa accusa: "Gli audio-video depositati sono stati tagliati, oscurati, mutilati, sbianchettati, falcidiati", e chiede per questo la nullità del procedimento.

C’è del marcio in Vaticano. Il cardinale Becciu, i monsignori, i finanzieri e i faccendieri. Ma nel sistema che ha svuotato le casse vaticane spuntano anche ex ministri ed ex sottosegretari. E per tentare di riparare il buco creato dall’acquisto del palazzo di Londra spunta l’offerta di una società che ha nel board Franco Frattini e Giovanni Castellaneta. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 9 luglio 2021. Non è solo un processo che riguarda la Santa Sede e un affare finito male intorno a un investimento immobiliare a Londra. È anche e soprattutto la fotografia nitida di una rete di corruzione che ha predato le finanze vaticane e si estende in Italia e a livello internazionale. L’inchiesta più difficile nella Storia dello Stato più piccolo del mondo si è chiusa con l’atto di accusa di 500 pagine redatte dai Promotori di Giustizia Alessandro Diddi, Giampiero Milano e l’aggiunto Gianluca Perrone. Nel processo che inizierà il 27 luglio sono stati rinviati a giudizio il Cardinale Angelo Becciu, monsignor Mauro Carlino, Enrico Crasso, Tommaso Di Ruzza, Cecilia Marogna, Raffaele Mincione, Nicola Squillace, Fabrizio Tirabassi, Gianluigi Torzi e René Brülhart, per vari reati: truffa, peculato, abuso d’ufficio, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio, corruzione, estorsione, falso materiale in atto pubblico e quello in scrittura privata e pubblicazione di documenti interni alla Santa Sede coperti dal segreto. I colletti bianchi in questa inchiesta si mescolano alle talari, il rosso porpora delle vesti cardinalizie diventa il colore di sfondo della storia di un gruppo che tenta la scalata al cielo non passando per gli altari ma per i palazzi, le filiali di banche svizzere, di paradisi fiscali e società off-shore. Una giungla di connessioni con vecchi e nuovi attori della politica nazionale e con una infinita sequela di tornaconti personali, famigliari addirittura. Il dominus della vicenda, come avevamo raccontato su queste pagine a partire dal settembre scorso, è il cardinale Angelo Becciu, ex potente Sostituto agli affari Generali della Segreteria di Stato, e “allievo prediletto” del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano con papa Ratzinger dal 2006 al 2013. Altro collaboratore stretto di Bertone è monsignor Alberto Perlasca, braccio destro e delfino di monsignor Gianfranco Piovano, e più volte descritto, con qualche eccessiva semplificazione, come il “pentito” dell’inchiesta. Il comasco Perlasca entra in segreteria di Stato voluto da Bertone ed eredita da Piovano la cosiddetta “terza banca”, un collettore di finanziamenti raccolti a partire dagli anni ’70, sotto il pontificato di Paolo VI, tra pezzi dell’imprenditoria e della finanza milanese, autonomo dallo Ior del Cardinale Marcinkus e dall’Apsa. Una sorta di cassa di emergenza del pontefice, messa a disposizione dei pontefici regnanti, usata come fondo discrezionale per molteplici operazioni fuori dai regolamenti vaticani. L’ammontare dei fondi della “terza banca” era stimato intorno ai 400 milioni di dollari. Soldi che erano stati utilizzati, ad esempio, per risarcire gli azionisti del banco Ambrosiano dopo il crack di Roberto Calvi. Secondo le accuse, anche per questa approfondita conoscenza delle finanze vaticane, monsignor Perlasca è stato più volte messo sotto pressione da Becciu durante l’inchiesta. Il cardinale lo ha istruito sugli interrogatori, lo ha terrorizzato psicologicamente ha e cercato di farlo allontanare da Santa Marta. Becciu sosteneva con Perlasca che il processo non si sarebbe mai celebrato e avrebbe fatto intervenire il vescovo di Como, Oscar Cantoni, per convincerlo a ritrattare quanto aveva già consegnato alle memorie dei magistrati. Una cappa di pressione psicologica che Becciu, secondo quanto si legge, avrebbe esteso ad ampi settori della Curia. Secondo gli inquirenti «sarebbe stato in grado di indirizzare» i mezzi di informazione del Vaticano, anche grazie alle deleghe esercitate in precedenza in qualità di Sostituto agli Affari Generali. Prima della riforma dei media vaticani, intratteneva ufficialmente relazioni con la Sala Stampa e con le diverse testate, tra cui TV2000. Nella ragnatela di intrecci che conducono fuori dalle Mura Leonine, un ruolo centrale spetta a Enrico Crasso, ex Credit Suisse, gestore delle finanze della segreteria di Stato e in rapporti con la Santa Sede dal 1993, per volere sempre di Monsignor Piovano. A lui arriva Perlasca per gestire il primo affare del “metodo Becciu” ovvero l’acquisizione e la rivendita di petrolio dall’imprenditore angolano António Mosquito. Un affare incerto, su cui pendeva la scure dalla magistratura portoghese e anche per questo fatto saltare da Crasso. Qui entra in gioco la figura di Raffaele Mincione che quell’affare africano avrebbe dovuto gestire. L’affare del petrolio angolano non decolla, troppo rischioso, troppe segnalazioni sui due angolani, si rischierebbe l’esposizione pubblica per pochi milioni di euro. Meglio investire sul mattone e Mincione, garbato e affabile, rifila alla Santa Sede gli ex magazzini di Harrods a Londra, appena comprati con i soldi che Enasarco gli ha affidato e che userà per le sue scalate finite male a Banca Carige e a Popolare Milano. Enrico Crasso non vede di buon occhio Mincione, che entra troppo nelle grazie di monsignor Alberto Perlasca, troppo in confidenza di Becciu. A Londra la sua reputazione è discussa, in Italia lo stesso, tanto che la Gendarmeria vaticana invierà un report in cui sconsiglia di fare affari con lui. Disatteso. Intanto la segreteria di Becciu si riduce da 17 membri a 9. Rimangono i più fidati. Tra questi Fabrizio Tirabassi e monsignor Mauro Carlino, che si muovono più come amministratori delegati di una multinazionale che come dipendenti della Santa Sede. Gli affari per un po’ vanno a gonfie vele perché fino a quando a decidere sono Becciu e i suoi uomini Perlasca, Carlino e Tirabassi, tutto va liscio senza troppi disturbi. Crasso, che nel frattempo si è congedato dal Credit Suisse, crea la So.genel, una società di diritto maltese, che gestirà un pezzo delle finanze della Segreteria di Stato, comprando obbligazioni e facendo investimenti nelle società in cui lo stesso Crasso rivestiva ruoli direttivi: dalle acque minerali al film di Elton John passando per gli occhiali di Lapo Elkann arrivando ai Giochi di Enrico Preziosi. Tutti investimenti in settori lontani anni luce dalle direttive vaticane e in palese conflitto di interesse. Conflitto che riguarda anche il cardinale e i suoi familiari. C’è il mobilio commissionato alla falegnameria di Francesco Becciu, fratello del porporato, da varie nunziature, con la complicità di monsignor Bruno Musarò, per un giro di affari di oltre 100 mila euro. Ci sono i finanziamenti a pioggia dati dalla Segreteria di Stato e dalla Conferenza Episcopale Italiana della cooperativa Spes di un altro fratello, Antonino. C’è l’acquisto di una casa a Roma per una nipote. Ci sono i soldi versati da António Mosquito a un altro fratello, Mario, per la creazione del progetto “Birra Pollicina”. Un «sistema marcio» lo definiscono i promotori Diddi e Milano, che fanno notare anche la disinvoltura e la totale impunità con la quale la “banda Becciu” agisce tra le mura vaticane. Un sistema che fa gola anche alle vecchie glorie della politica italiana. Due su tutti: Giancarlo Innocenzi Botti e Franco Frattini, nessuno dei due indagato dalla magistratura vaticana, ma, con ruoli diversi, entrambi coinvolti nella seconda parte della vicenda. Il primo, alla ricerca di un lavoro redditizio, viene convogliato da Raffaele Mincione alla corte di Gianluigi Torzi, broker molisano, su cui pende un ordine di cattura internazionale per truffa, peculato, estorsione e falso, che entrerà nell’affare come risolutore della complessa vicenda dell’affare del palazzo londinese. Torzi crea società di diritto inglese in quantità quasi industriale, una miriade in cui è difficile scorgere un disegno chiaro. Tra queste società c’è la Jci ltd, che ha nel suo board tra gli altri Innocenzi Botti, Frattini e l’ex ambasciatore Giovanni Castellaneta. Società che dovrebbe occuparsi di relazioni internazionali ma che si rivela pronta a preparare una proposta di acquisto sempre per il palazzo di Sloane Avenue a Londra. Infatti Innocenzi Botti, d’accordo col faccendiere Marco Simeon, in una strategia condivisa e progettata col cardinale Becciu - scrivono gli inquirenti - tentano con la medesima cassa di comprare l’immobile londinese dopo che Torzi è stato indagato ed interrogato. Innocenzi Botti viene delegato, con una lettera di Becciu che però già da parecchi mesi non ha più potere decisionale in Segreteria di Stato, a risolvere la questione londinese. Botti agisce insieme a Torzi, Simeon e Castellaneta che mette a disposizione la società Jci di cui è socio per completare l’affare. Il board “istituzionale” viene utilizzato come paravento, secondo gli inquirenti, e Frattini non si fa troppe domande sulle società di Torzi che gli bonificano 30 mila euro per consulenze di geopolitica. Tutta l’operazione, secondo gli inquirenti, sarebbe stata organizzata per riportare in sella Becciu, cioè per farlo apparire agli occhi di Papa Francesco come colui che aveva risolto il problema della perdita finanziaria creata dall’acquisto del palazzo londinese. Nel frattempo però non solo la magistratura vaticana aveva iniziato la sua opera di indagine. Si sono mossi anche la procura di Roma, quella di Milano e il Tribunale Federale elvetico. Qui è in atto un ulteriore approfondimento investigativo che parte da Enrico Crasso e arriva al pagamento di tangenti agli oligarchi venezuelani, sempre con i soldi della cassa della Segreteria di Stato. Per gli inquirenti svizzeri esisterebbe un piano di riciclaggio di soldi di origine criminale: sotto la lente di ingrandimento ci sono i rapporti di Crasso con Lorenzo Vangelisti e Alessandro Noceti di Valeur e poi gli investimenti finanziari di Becciu per finire con i rapporti tra figure come Frattini, Castellaneta e lo stesso Torzi. Per questo motivo il dibattimento che inizierà il prossimo 27 luglio non sarà un semplice processo vaticano contro il “metodo Becciu” ma costituirà una pietra angolare per la più vasta inchiesta anticorruzione in atto in quattro paesi. I pool investigativi infatti hanno ancora molte domande a cui rispondere. Il ruolo di Cecilia Marogna, la presunta esperta di intelligence, che ha dormito negli appartamenti di Becciu in due occasioni e che ha avuto centinaia di migliaia di euro per non precisate attività, presentata a Becciu da Lorenzo Cesa. Ancora, i rapporti tra un pezzo di ancien régime della politica italiana e Marco Simeon, l’uomo ombra prima di Bertone poi di Becciu. A fare da sfondo c’è anche l’imponente partita sulla sanità, che questa inchiesta ha attraversato per la vendita e la gestione dei crediti sanitari. Un altro “pentito”, oltre a monsignor Perlasca, è Giuseppe Milanese, della Cooperativa Osa, un tempo molto vicino a Papa Francesco (il pontefice scrisse anche la prefazione al libro di poesie del figlio) e diventato testimone chiave di alcuni affari e movimenti economici operati dalla segreteria di Becciu. Ora i mercanti che erano nel tempio andranno a processo, mentre le indagini proseguono e, anzi, sono appena all’inizio.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 6 luglio 2021.  Infondo, a pensarci bene, è tutta una questione di sorrisi. E di soldi. Il sorriso di Bergoglio non è così lontano da quello luminoso e disarmante di papa Albino Luciani. Anzi, proprio i loro sorrisi si stagliano nei corridoi dei sacri palazzi, irradiano luce nel buio, contagiano di forza e coraggio chi vuole cacciare i mercanti dal tempio. Se non ci fosse stato il primo, mai avremmo avuto il secondo: insieme hanno rotto l'incantesimo nero di una curia immutabile, sovrastante il pontificato stesso con i beni temporali ridotti a scempio di una fiducia tradita. Solo che Giovanni Paolo I sorrideva schiacciato in una mortale solitudine, amato sì da tutti ma solo fuori le mura leonine, lasciato lì ad affrontare Paul Casimir Marcinkus, la sua protervia, la sua ragnatela velenosa, armato solo con la Fede. «Non si amministra la Chiesa con le Ave Maria», gli urlava come una furia l'arcivescovo alla guida dello Ior dei Gelli, dei Calvi e dei Sindona. E proprio in quegli anni era appena nato in segreteria di stato un fondo occulto, che rappresenta oggi, in una clamorosa ruota del contrappasso, la cerniera simbolica tra i due pontificati. Infatti, proprio questo fondo ancor più riservato e discreto dello Ior, venne creato per mettere al riparo il pontefice dal cataclisma Marcinkus, per tutelare le riserve dello Stato e i fondi riservati del papa dall' orda di quegli anni di bancarotte, assassini vestiti da suicidi e narcodollari che infestavano i forzieri vaticani. Proprio da lì, ad esempio, erano partiti i 406 milioni di dollari destinati ai piccoli risparmiatori dell'Ambrosiano pur di chiudere quell' incubo. Era stato monsignor Gianfranco Piovano, diplomatico, a gestire l'invisibile struttura, facendola crescere anno dopo anno. E così quando nel 2009 Bertone lo sostituì con monsignor Alberto Perlasca, ormai quella creatura finanziaria aveva un portafoglio e un'autonomia impressionante, capace di raccogliere e coordinare parte delle contabilità parallele, dei fuori bilancio. La missione della sezione finanziaria era sfuggita di mano. Il papa non aveva più contezza di quanto accadeva in quegli uffici, imminente regno del sardo di Pattada, dell'abilissimo Angelo Becciu, divenuto sostituto - terza carica nello Stato - nel 2011. E se è vero che papa Francesco fin dai primi giorni di pontificato ha cercato di destrutturare la curia, da buon gesuita ha capito subito che quell' entità andava affrontata per ultima. Per non fallire, di perdere come purtroppo era accaduto a papa Luciani, morto anzitempo. A Bergoglio non era infatti sfuggita la gelida risposta che proprio Perlasca aveva inviato agli ispettori del pontefice quando nel dicembre del 2013 chiedevano i conti della struttura e la contabilità dell'obolo di san Pietro, beneficenza raccolta in nome del santo padre: «Si vedrà se e come rispondere». Messo nero su bianco non era una frase indice di arroganza ma della certezza che quel fortino mai sarebbe stato espugnato. E così Bergoglio ha riformato e bonificato tutte le altre strutture per tornare poi all' assalto nella primavera del 2018 con una serie di mosse implacabili: prima il trasferimento di Becciu, elevato cardinale, alla congregazione dei santi e beati, quindi il bisturi del controllo dei conti. Gli uffici erano però zeppi di suoi fedelissimi - gli stessi che troviamo oggi con il rinvio a giudizio per lo scandalo di Londra - a resistere, trovando sponda in diversi anziani porporati curiali. E il 17 luglio 2018 il cardinale Agostino Vallini provava a resistere all' onda della trasparenza, a chi voleva i bilanci, ricordando in una riunione riservata che insomma certi forzieri era meglio non aprirli, alludendo persino alle disponibilità del pontefice: «Non vi nascondo fratelli cardinali- esortava il porporato - qualche importante riserva() non ci devono sfuggire tutte le possibili implicazioni che verrebbero a determinarsi, in particolare quelle legate alla tutela della riservatezza di quei fondi che il santo padre ha diritto di utilizzare a propria discrezione». Ma ormai l'offensiva di Bergoglio era inarrestabile. Per dirne solo alcune: era caduta l'Apsa, la banca centrale dello Stato, erano cambiate le contabilità generali, revisionato il governatorato, rivisti i musei vaticani. E la prova regina si legge ora nelle carte di questo nuovo clamoroso processo che partirà a fine mese contro Becciu e i suoi presunti sodali: a riempire le pagine dell'accusa, a fornire chiavi e formidabili dettagli e proprio monsignor Perlasca, sì quello scelto da Bertone e oggi supertestimone dell'inchiesta che certamente segna la fase processuale più intensa della giustizia del vaticano degli ultimi secoli. Ma chi si aspetta una tangentopoli in quel piccolo stato rimarrà deluso perché la giustizia di Dio viene prima di quella degli uomini. O, almeno, dovrebbe. 

(ANSA l'1 settembre 2021) Il cardinale Angelo Becciu "va processato secondo la legge vaticana. Un tempo i giudici dei cardinali non erano i giudici di Stato come lo sono oggi, ma il capo dello Stato. Desidero con tutto il cuore che sia innocente. Inoltre, è stato un mio collaboratore e mi ha aiutato molto. È una persona di cui ho una certa stima come persona, cioè il mio desiderio è che ne esca bene. Ma è un modo affettivo di presumere l'innocenza, dai. Oltre alla presunzione di innocenza, non vedo l'ora che ne esca bene. Ora, sarà la giustizia a decidere". Lo dice papa Francesco nell'intervista alla radio spagnola Cope, oggi trasmessa in versione integrale. Alla domanda del giornalista Carlos Herrera su come prevenire in Vaticano il 'peccato intrinseco' della corruzione, il Pontefice risponde che "bisogna mettere in atto tutti i mezzi per evitarlo, ma è una vecchia storia. Guardando indietro, abbiamo la storia di Marcinkus, che ricordiamo bene; la storia di Danzi, la storia di Szoka… È una malattia recidivante". "Credo che oggi si siano fatti progressi nel consolidamento della giustizia dello Stato Vaticano - prosegue Francesco -. Da tre anni si fanno progressi in modo che la giustizia sia più indipendente, con mezzi tecnici, anche con le deposizioni di testimoni registrati, le cose tecniche attuali, le nomine dei nuovi giudici, il nuovo pubblico ministero... e questo sta portando avanti le cose. E ha aiutato".  "La struttura - sottolinea il Papa, a proposito del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana - ha aiutato ad affrontare questa situazione che sembrava che non fosse mai esistita. E tutto è iniziato con due denunce di persone che lavorano in Vaticano e che nelle loro mansioni hanno visto un'irregolarità. Hanno fatto una denuncia e mi hanno chiesto cosa fare. Gli ho detto: se volete andare avanti dovete presentarla al pubblico ministero". "È stato un po' impegnativo - aggiunge Francesco -, ma sono due brave persone, erano un po' intimidite e poi come per incoraggiarli ho messo la mia firma sotto la loro. Per dire: questa è la strada, non ho paura della trasparenza né della verità". "A volte fa male, e molto, ma la verità è ciò che ci rende liberi - osserva il Papa -. Quindi è stato semplicemente così. Ora, tra qualche anno ne apparirà un altro... Speriamo che questi passi che stiamo facendo nella giustizia vaticana aiutino a far sì che sempre meno accadano questi eventi che... Sì, ha usato la parola corruzione e in questo caso ovviamente, almeno a prima vista, sembra che ci sia".

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 settembre 2021. Il caso Becciu si arricchisce di una dichiarazione molto importante del Papa. È accaduto su Radio Cope, l'antenna dei vescovi spagnoli. Giornalista: «Cosa teme di più? Che (Becciu) sia dichiarato colpevole o non colpevole, visto che lei stesso ha dato il permesso di metterlo sotto processo?». Francesco: «Va sotto processo secondo la legge vaticana. Un tempo, i giudici dei cardinali non erano i giudici di Stato come oggi, ma il Capo dello Stato. Spero con tutto il cuore che sia innocente. Inoltre, è stato un mio collaboratore e mi ha aiutato molto. È una persona di cui ho una certa stima come persona, quindi il mio augurio è che ne esca bene. Ma è una forma affettiva della presunzione d'innocenza, andiamo. Oltre alla presunzione di innocenza, voglio che ne esca bene. Ora spetta ai tribunali decidere». Presunzione di innocenza, come principio inderogabile. Rinuncia alle prerogative di Capo dello Stato, che in Vaticano vuol dire Monarca Assoluto, nella amministrazione della giustizia. Tutto questo è bellissimo. E allora perché ha consentito e anche in questo preciso momento sta consentendo che proprio il processo Becciu proceda con regole che ricordano i regimi degli ayatollah? Perché c'è questa distanza paurosa tra le affermazioni pubbliche, e di certo sincere, e le disposizioni da lui firmate che fanno a pugni con qualsiasi minimo sindacale di parvenza di giustizia? Presto o tardi le organizzazioni internazionali chiederanno conto della incompatibilità delle procedure processuali dello Stato Vaticano con gli standard della civiltà. Il rischio per il suo regno mondano (quello rinchiuso in meno di mezzo chilometro quadrato) è il totale isolamento, con l'esclusione dal circuito dei Paesi con cui siano consentite transazioni finanziarie. Non possono esserci collaborazioni in campo giuridico con uno Stato dove i tre poteri coincidano con la "suprema potestà" di una sola persona. La quale con la dichiarazione radiofonica di cui sopra sconfessa l'esercizio della giustizia nei propri domini, dove ha cambiato a sua discrezione le regole, e annullato l'habeas corpus, vale a dire l'insieme dei principi elementari che tutelano libertà e inviolabilità di chi è accusato. Di questo si tratta infatti nel cosiddetto processo Becciu, al di là delle intenzioni cristalline che finiscono per lastricare l'inferno del diritto. Ho ammirazione per Francesco. Da ateo ho simpatia per lui. Ha sulle spalle un carico immenso. Ma stanno accadendo non nella Chiesa in generale (dove sta lottando con vigore contro la pedofilia del clero), ma nello staterello di cui è Monarca Assoluto, cose non dico turche ma talebane. Era stato Marco Pannella, per altro da Bergoglio molto lodato, a innalzare con Daniele Capezzone il cartello in piazza San Pietro «Vatican-Taliban». Siccome questo Papa ci ha abituato a gesti sorprendenti, mi aspetto atti sovversivi di Francesco versus il Papa Re, del Papa contro il Re. Come? Mi affido all'inventiva che ha consentito alla Chiesa di reggere, con tutti i suoi guai, per duemila anni. Non sto scrivendo per sensazioni, ma basandomi su atti, verbali e relative omissioni. Panorama, nel senso del noto settimanale, ha provveduto in queste settimane a togliere a Libero un'esclusiva. Meglio così. Non siamo più soli nell'udire cigolii da antiche macchine della tortura in Vaticano nella vicenda che ha portato, con inchini unanimi della stampa italiana, prima alla «crocefissione cautelare» del cardinale Angelo Becciu e ora al processo in corso contro di lui e altri nove imputati, in un frusciare di tonache e toghe dove il diritto alla difesa è calpestato con una cura che, se non ci fosse di mezzo il Papa (il cui «dolore» è citato dall'ex Guardasigilli italiana Paola Severino per giustificare gli abusi giuridici), direi diabolica. A partire dal 24 settembre del 2020 con la condanna urlata sui tetti con l'indagato consegnato al dileggio della folla e punito con i galloni ecclesiastici strappati mentre se ne sta inerme ad ascoltare una sentenza preventiva. Da novembre in poi abbiamo sviluppato una contro-inchiesta che non ha avuto alcuna risposta decente. Ed ecco Panorama che sulla copertina ha prima denunciato: «Il mistero del video fantasma» e poi: la «Tempesta di spie in Vaticano» (riprendendo anche documenti da noi scoperti e resi pubblici dopo che erano stati occultati dagli accusatori). Carlo Cambi ha raccontato come i pubblici ministeri vaticani (chiamati qui promotori di giustizia) abbiano tranquillamente disobbedito al loro stesso Tribunale, che aveva ordinato di depositare gli interrogatori video-registrati di monsignor Alberto Perlasca. Costui da principale indagato è passato in un battibaleno a vittima e grande accusatore pentito e quindi prosciolto da ogni accusa circa l'uso allegro dei denari della Santa Sede nell'acquisto del famoso palazzo londinese di Chelsea, costato tra i 200 e i 400 milioni di euro. Il prelato di curia si era ritrovato angelicato grazie a ore e ore di dichiarazioni in cui aveva demonizzato, senza contraddittorio, superiori (a cominciare dal cardinale Becciu), colleghi e consulenti, e pure in assenza dell'avvocato difensore - pur essendo in quel momento accusato - il 31 agosto del 2020. E poi ancora e ancora...  Il 3 luglio del 2021 ecco il rinvio a giudizio in 500 pagine di requisitoria e 29mila fogli di documenti. In tutto questo mare di carte e chiavette Usb gli avvocati si sono accorti che mancava proprio la prova regina. Nessuna trascrizione letterale. Solo la sintesi a cura dei pm. Soprattutto niente video. In prima udienza il 27 luglio i difensori hanno sollevato il caso. Il pm (pardon, promotore di giustizia), professor Alessandro Diddi si è scusato, ha garantito che avrebbe rimediato. A questo punto il presidente del Tribunale, il dottor Giuseppe Pignatone, ha stabilito che entro il 10 agosto questo materiale probatorio fosse messo a disposizione della difesa. Sorpresa. Arriva la data ultimativa stabilita dal giudice. E i pm si rifiutano di farlo. Non intendono far acquisire al fascicolo del dibattimento le videoregistrazioni di Perlasca senza difensore, per evitare la «divulgazione» della sua immagine. Posso dirlo? È il colmo. Prima hanno tranquillamente consentito che la reputazione del cardinale sia vilipesa senza adottare alcuna indagine sulla fuga di documenti accusatori dal loro fascicolo su Espresso e Corriere della Sera, con accuse ignominiose. Dopo di che temono che gli avvocati consegnino a qualche televisione o sito internet la prova regina che si vorrebbe far valere come una pistola fumante? Non solo, e questo Panorama non lo scrive, ma in quello stesso documento agostano i promotori di giustizia confermano che i quattro rescripta, cioè gli atti firmati dal Papa nel 2020, coi quali autorizza i pm a derogare dalle leggi vigenti, sono «provvedimenti sovrani», emessi senza richiesta scritta: pietre tombali del diritto, olé. Questo è il punto gravissimo, e che contrasta con l'affermazione del Papa sulla presunzione di innocenza. Il Santo Padre ha infatti emanato negli anni quattro testi che consentono di trascurare la legge, e di saltare il controllo che un giudice in qualsiasi Paese civile deve effettuare su atti che entrano nell'intimità o addirittura privano della libertà l'indagato. Il Papa ha detto che non c'è bisogno di alcun vaglio di un giudice (in Italia il Gip). Ma com'è stato possibile questo obbrobrio? Semplice. Pur essendo in deroga a qualsiasi legge vigente, quei rescripta papali sono intangibili in quanto emanazione di diritto divino. È questa la risposta data in aula il 27 luglio, tra lo stupore degli avvocati (e il silenzio dei giornalisti vatican-taliban presenti) il procuratore capo, professor Gian Piero Milano: «Sedes Prima a nemine iudicatur», cioè, traducendo in volgare dantesco: «Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare» (Canti III e V dell'Inferno). Ma noi, non essendo ancora stati traghettati oltre lo Stige da Caronte, ci permettiamo di auspicare da parte del grande scienziato cattolico Antonino Zichichi la pronta consegna della «macchina del tempo» a codesti Illustrissimi Signori. P.S. Per ora il Tribunale Vaticano non ha sollevato di peso i promotori di giustizia chiedendo loro di obbedire alle sue ordinanze. Del resto, per come vanno le cose da quelle parti, Milano e Diddi potrebbero benissimo sottoporre al Papa un altro rescriptum dove si consenta loro pure questa deroga. O Francesco terrà conto delle sue dichiarazioni evangeliche?

Vittorio Feltri per "Libero Quotidiano" l'8 luglio 2021. Avevo anticipato che oggi mi sarei occupato del caso Becciu a partire da una strana faccenda. È chiaro come il sole che il processo che sta per partire il 27 luglio e che vede dieci imputati, tra cui il cardinale Angelo Becciu, si regge non tanto su dati di fatto accertati, ma sulle dichiarazioni di un pentito. Non due, tre, quattro anzi 24 pentiti come capitò a Giulio Andreotti, ma a uno solo, come già accadde a Enzo Tortora. Da che cosa lo deduciamo? Dalla sparizione di un monsignore, Alberto Perlasca, scagionato a priori senza alcuna spiegazione, tirato fuori immacolato dai presunti turpi affari del palazzo di Londra, di cui era stato per sua stessa ammissione un protagonista. Che sia lui il perno di tutto, una persona trasformata in pistola fumante, lo si comprende non solo dall'uso che delle sue dichiarazioni fanno i pm vaticani ma dal trattamento eccezionale riservatogli. Come se fosse stato prelevato in elicottero nottetempo dalle guardie svizzere per ragioni che non appartengono al codice conosciuto, dato che in Vaticano non esiste alcuna legislazione che premi il pentito divenuto collaboratore di giustizia. Vedremo a processo se reggerà il contraddittorio. Intanto la domanda che riguarda ogni pentito che si rispetti, secondo il metodo Falcone, è se sia credibile, riscontrabile, se abbia davvero detto tutto, o si sia ritagliato verità su misura. Be'. Tutti i quotidiani e i tg italiani hanno succhiato come il latte dalla mammella materna le conclusioni colpevoliste dell'ordinanza diffusa sabato scorso in Vaticano, ma quel latte è avvelenato. E il volume delle 488 pagine di accuse porta nel suo seno un vulnus che lo smonta in origine. Il fatto è che a Londra c'è già stato un processo che ha ridotto in polvere le argomentazioni basate su Perlasca. Lo scorso marzo il giudice di Londra che ha dovuto pronunciarsi sulla richiesta di arresti e sequestri chiesta alla giustizia di Sua Maestà dai procuratori vaticani è stato addirittura irridente. Senza mai nominare nelle sue 47 pagine Becciu, che secondo lui non c'entra proprio nulla con questo pasticcio, parla di indagini caratterizzate da «omissioni», elementi «distorti» e dal «chiaro travisamento» dei fatti. Scrive Sua Onorabilità Baumgartner: «Il professor avvocato Alessandro Diddi dice che monsignor Perlasca era incapace e inetto. Anche se questo può essere vero, agire come un cospiratore disonesto è un'altra cosa». Forse è scemo il tuo Perlasca, ma delle due l'una: o è un povero inetto o è un geniale cospiratore, devi deciderti, e provare le accuse, senza nascondermi le carte, caro Diddi. Perché hai nascosto - aggiunge il giudice Baumgartner - le lettere da cui risulta che il successore di Becciu, l'arcivescovo Edgar Peña Parra, aveva autorizzato l'operazione incriminata, a sua volta con il consenso del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e non li accusi di nulla? Insomma: Perlasca è una pasta plasmata per la bisogna dai pm, i quali modellano il monsignore per il comodo dell'accusa, come un gettone da infilare nel juke box e poi schiacciare il bottone affinché suoni la musica desiderata. Credibile Perlasca? Mica tanto. Alle 42 pagine di Baumgartner (46 in italiano), e ai suoi rilievi fattuali e di pura logica empirica, per mesi il Vaticano non ha dato risposta. Non ha fatto appello a istanze giudiziarie superiori. Bisogna saper aspettare il momento giusto, quando tutti si inchineranno alla volontà purificatrice delle toghe papaline. Ed è arrivato il 3 luglio. Ci sono sette pagine dedicate a Baumgartner, tra le 488 pagine della requisitoria. Le tesi divergenti rispetto a quelle maturate all'ombra del Cupolone vengono stracciate con i denti, prese a calci come un topo morto collocato sul tappeto rosso della propria gloria. Ma non dicevano i magistrati che le sentenze si rispettano, specie quelle definitive e non appellate? Ovvio: solo quelle dove si danno ragione tra loro come Cip e Ciop. Ma Londra non ama le camarille. E allora i pm vaticani si lasciano travolgere dall'ira, usano concetti privi dell'ironia con cui li aveva sculacciati Baumgartner. Normalmente in Italia siamo animati da una certa invidia verso l'imparzialità insieme austera e carica di humor dei giudici di Sua Maestà britannica. Tanto più che è proprio sulla contesa del palazzo di Londra trattata dalla corte inglese che si è costruita la poderosa ghigliottina, la quale - si dà per scontato - taglierà la testa al cardinale Angelo Becciu. Stavolta nulla. Tutti, ma proprio tutti, si sono inchinati all'unisono davanti alle considerazioni di Alessandro Diddi, promotore di giustizia (pm) della Città-Stato, ignorando le disinteressate lezioni di Baumgartner. Hanno consentito che in questa disfida a menare sia solo il Vaticano. A proposito di giornalismo laico. E che fa Diddi? Usa un aggettivo da sfida a duello, accusa il giudice di aver vergato nella sua sentenza «aberranti conclusioni». Chi è Diddi? Baumgarntner lo chiama «professor avvocato». Infatti è avvocato del foro di Roma, e in questa veste ora difende un tipetto del clan Casamonica, e in contemporanea fa il pm in Vaticano. E questo è solo uno degli strani intrecci esistenti tra giustizia d'Oltretevere e quella di qua dal Tevere. Giovanni Spadolini auspicava un Tevere più largo. Si dà il caso che avvocati e procuratori si spostino dai palazzi di giustizia italiani, o addirittura dal ministero della Giustizia (l'ex guardasigilli Paola Severino è stata ingaggiata come avvocato di parte civile della Segreteria di Stato), camminando tranquillamente sulle acque come a suo tempo il Nazareno. Miracoli di cui francamente avremmo fatto a meno per la trasparenza che dovrebbe valere ovunque ci sia di mezzo un qualsiasi essere umano che rischia la ghirba. Cose curiose avvengono nel giornalismo italiano. Nessuno ha sollevato il problema del conflitto di interessi che attraversano questo tribunale vaticano. Si noti che nella medievale procedura giudiziaria dello Stato del Papa non esiste il gip. La requisitoria dei pm (nel nostro caso Diddi) è una sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio, e avallata per tale nel nostro caso da Giuseppe Pignatone, che del Tribunale vaticano è presidente. Londra digerirà un simile documento vaticano di portata mondiale contro una deliberazione della sua giustizia. Se fosse stato un tribunale cinese contro un vescovo clandestino neanche un monsignoruccio qualsiasi avrebbe parlato di «aberranti conclusioni». E qui siamo a Tribunale contro Tribunale. Si noti il groviglio. Pignatone fino a un paio d'anni fa era procuratore capo di Roma, e reggeva l'accusa nel processo Mafia capitale contro Emanuele Buzzi, nell'occasione difeso da Diddi. Oggi si trovano a reggere la medesima pigna di carte, e giudicheranno un tale a cui il Papa ha già mozzato le orecchie dieci mesi prima di un regolare processo. Che non parte proprio con l'idea di essere un monumento alla trasparenza.

Dal Vaticano ai crack bancari, ecco il filo rosso che lega tre scandali costati oltre 6 miliardi ai risparmiatori italiani. Le indagini sul cardinale Angelo Becciu scoperchiano una rete di affaristi e finanzieri che compaiono anche nelle vicende che hanno portato al dissesto di Popolare Vicenza, Popolare Bari e Carige. Il ruolo di Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, tra fondi lussemburghesi, operazioni nei paradisi fiscali e manovre in Borsa. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 14 luglio 2021. L’assalto al tesoro del Papa e il crack della Popolare Vicenza, le manovre sulla banca genovese Carige e il dissesto della Popolare di Bari. C’è un filo rosso che collega queste storie in apparenza così lontane tra loro. Tutto si tiene, nelle 500 pagine dell’atto d’accusa dei promotori di giustizia vaticani che ha mandato a processo presunti mandanti ed esecutori di un progetto criminale che ha sistematicamente spogliato le finanze della Santa Sede affidate al cardinale Angelo Becciu, il primo della lista degli imputati. E così, dalle trame della curia romana si arriva alle vicende bancarie che tra il 2015 e il 2019 hanno distrutto i risparmi di almeno duecentomila famiglie. Un buco che in totale può essere stimato in oltre sei miliardi, di cui almeno la metà provocato dal naufragio della Popolare Vicenza. È una trama complicata, un racconto a metà strada tra il giallo finanziario e la commedia all’italiana. Alla fine, però, nomi, cifre e documenti illuminano un mondo di mezzo dove si incrociano le manovre di faccendieri, tonache, ex ministri, finanzieri e presunti tali. Partiamo da Gianluigi Torzi, accusato di un’estorsione milionaria ai danni della Santa Sede, che nel 2019 cercava di recuperare il palazzo londinese su cui aveva incautamente investito 100 milioni di dollari quattro anni prima. Negli atti dell’inchiesta vaticana si legge che il 2 luglio 2019 Torzi ha versato poco più di 20 mila euro da un suo conto inglese alla società Kant capital di Girolamo Stabile, un finanziere che ricorre spesso nell’inchiesta giudiziaria sui dissesti della Popolare di Vicenza e della Popolare di Bari. Nel settembre scorso Stabile è stato arrestato per la bancarotta delle due società Fimco e Maiora controllate dalla famiglia Fusillo a suo tempo generosamente finanziate dall’istituto pugliese. A Vicenza invece troviamo Stabile nel ruolo di dirigente del fondo lussemburghese Optimum in cui la Popolare veneta all’epoca presieduta da Gianni Zonin investì 250 milioni di euro impiegati nell’acquisto di azioni della banca e di altri titoli, compresi i bond emessi proprio da Fimco e Maiora. Alla fine del 2014, quando il castello di carte di Zonin stava per crollare, Stabile si mise in proprio con la neonata Kant capital. Non è chiaro per quale motivo Torzi abbia mandato dei soldi al finanziere già in affari con Vicenza. Dagli atti dell’indagine sulla banca veneta emerge però che la società londinese Jci capital, riferibile a Torzi, nel 2013 aveva comprato il 7,5 per cento delle quote di uno dei fondi Optimum, mentre il restante 92,5 per cento del capitale era stato sottoscritto dalla Popolare di Zonin. È quindi molto probabile che già nel 2013, tramite Optimum, Torzi abbia avuto a che fare con Stabile, che gestiva i soldi investiti dalla Popolare di Vicenza. In quel periodo i manager dell’istituto berico facevano letteralmente i salti mortali per puntellare un bilancio sempre più pericolante. Fu allora che si fece avanti anche Raffaele Mincione. Proprio lui, il finanziere con base a Londra tra i principali protagonisti dello scandalo vaticano, accusato, tra l’altro, di truffa e appropriazione indebita. Ebbene, nel gennaio del 2013 la Popolare Vicenza investì 100 milioni di euro nei fondi Athena di Mincione, denaro che, come già nel caso Optimum, ritornò in parte al mittente: fu infatti parte impiegato per comprare azioni della banca finanziatrice. Un copione simile si è ripetuto anche in Vaticano. È infatti ancora in corso una controversia giudiziaria che vede opposti da una parte lo Ior, la banca della Santa Sede, e dall’altra i gestori di Optimum. Al centro della contesa un investimento di 17 milioni che risale al 2013. Il primo atto di questa complessa vicenda risale però a qualche anno prima, quando Enasarco, l’istituto di previdenza degli agenti di commercio, un colosso con un patrimonio di oltre 7 miliardi di euro, affidò oltre 200 milioni in gestione ad Athena e ad Optimum. Il rapporto con Enasarco si chiude bruscamente nel 2012 con uno strascico di vertenze giudiziarie e a quel punto è il Vaticano a riempire le casse sofferenti delle due scuderie di fondi, che poi, come detto, continueranno a fare corsa parallela anche a Vicenza. Torzi entra in scena in un secondo tempo, quando a novembre 2018 prende il posto di Mincione nella gestione del palazzo londinese di Sloane avenue e diventa socio del Vaticano tramite la società lussemburghese Gutt. A quell’epoca il nuovo fiduciario della Santa Sede era pressoché sconosciuto alle cronache, ma le indagini sul sistema Becciu hanno alzato il velo su un intreccio impressionante di affari e relazioni. Un intreccio che, ancora una volta, rimanda agli scandali delle tre banche, Popolare Vicenza, Popolare Bari e Carige, naufragate negli anni scorsi. Adesso, dall’atto d’accusa del Vaticano si scopre che Torzi nelle ultime settimane del 2018 aveva cercato di sedersi anche al tavolo dell’istituto pugliese, già in forte crisi. L’operazione prospettata dall’allora amministratore delegato della Popolare, Vicenzo De Bustis prevedeva la sottoscrizione di un prestito obbligazionario dell’istituto di credito da parte di una minuscola società con base a Malta con soli 1.200 euro di capitale, la Muse service, riconducibile proprio a Torzi. L’operazione non è mai andata in porto ed è finita nel gran calderone dell’inchiesta giudiziaria sul crack della Popolare Bari, per decenni di fatto controllata dalla famiglia Jacobini. La vicenda però conferma che mentre trattava con la Santa Sede per l’acquisto del palazzo londinese, Torzi già si muoveva sul fronte bancario. Nel 2018 appare consolidato anche il rapporto con Mincione che a gennaio di quell’anno viene finanziato per alcune decine di milioni, almeno 26, proprio da Torzi per comprare azioni Carige. Da dove arrivano quei soldi? Le carte vaticane affermano che il denaro era stato fornito dal miliardario Gabriele Volpi, che in quelle settimane stava cercando di scalare l’istituto genovese. I prestiti viaggiano estero su estero, con passaggi di denaro che transitano dai conti di società con base a Panama, Londra e il Lussemburgo. Anche Carige però arriva presto al capolinea. Nel gennaio 2019, con il capitale azzerato e commissariata dalla Bce, la banca è stata salvata con l’intervento dello Stato che per evitare il peggio stanzia fino a 3 miliardi di euro a titolo di garanzia. Di lì a qualche mese Torzi, fino ad allora omaggiato e riverito nelle sacre stanze, entra in rotta di collisione con Il Vaticano per il controllo del palazzo di Londra e presto finirà nel mirino dell’inchiesta giudiziaria che ha scoperchiato il sistema Becciu. Per effetto delle indagini crolla anche la rete di relazioni ad alto livello tessuta da Torzi. L’advisory board della società londinese Jci capital controllata dal finanziere grondava nomi altisonanti come gli ex ministri berlusconiani Giulio Tremonti e Franco Frattini, Giancarlo Innocenzi Botti, già sottosegretario alle telecomunicazioni in quota Forza Italia tra il 2001 e il 2005, l’ex ambasciatore negli Stati Uniti, Giovanni Castellaneta e il presidente della Croce Rossa italiana, Francesco Rocca. Del gruppo faceva parte anche Patrizio Messina, l’avvocato d’affari, legato anche a Mincione, che in un’immagine agli atti dell’indagine su Becciu appare in compagnia di Torzi, Frattini, Innocenzi Botti e altri commensali durante una cena in un ristorante londinese del giugno 2019. Rocca, non indagato nell’inchiesta della Santa Sede, è lo stesso legale che a suo tempo curò numerose importanti operazioni per conto della banca Popolare di Vicenza di Zonin. Ancora una volta tutto si tiene: dalle banche fino allo scandalo vaticano.

Tutti gli affari (con i soldi del Papa) del raider Raffaele Mincione: dalle scalate bancarie all'accordo con Conad. Secondo i documenti, il finanziere ora accusato di peculato e truffa era diventato il "dominus delle finanze della segreteria di Stato vaticana". Oltre 200 milioni della Santa Sede investiti in società quotate in Borsa e altre iniziative, molto spesso per favorire sé stesso. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 9 luglio 2021. Ai bei tempi, quando passava da un raid di Borsa all’altro, Raffaele Mincione amava raccontarsi come un uomo d’affari che aveva fatto fortuna a Londra grazie ad «alcuni investimenti personali andati bene». E alle domande sui finanziatori di scalate clamorose come quelle su Popolare Milano, Mps e Carige, il golden boy della City, come con scarsa fantasia era stato etichettato, spiegava che «i clienti chiedono riservatezza». Adesso, le carte dell’accusa vaticana, un faldone di 500 pagine che condensa i risultati di due anni di indagini sulla malagestio del tesoro della Chiesa, descrivono Mincione come «l’indiscusso dominus, a partire dal mese di luglio del 2014, di una parte considerevole delle finanze della Segreteria di Stato» all’epoca diretta dal cardinale Angelo Becciu. I soldi, insomma, erano quelli della Chiesa. I capitali che per anni, almeno dal 2013 al 2019, hanno alimentato una girandola infernale di acquisti, vendite, prestiti, pegni e garanzie, arrivavano direttamente dalla Santa Sede che aveva investito almeno 200 milioni di euro nei fondi di Mincione con il marchio Athena. Il denaro rimbalzava tra società con base in paradisi fiscali come Lussemburgo, Jersey, Malta, isole Mauritius per finire almeno in parte nei conti bancari del finanziere italiano con base a Londra e domicilio in Svizzera, a Silvaplana, poco distante da Sankt Moritz. «Le somme della Segreteria di Stato», si legge nel documento d’accusa, «venivano utilizzate anche per finanziare soggetti giuridici facenti capo allo stesso Raffaele Mincione, il quale, mentre da un lato era il gestore del fondo (remunerato con generose commissioni) dall’altro poteva utilizzare le risorse finanziarie per sostenere proprie iniziative». Non solo banche, quindi. Nell’elenco degli investimenti finanziati dal Vaticano ci sono anche obbligazioni per 16 milioni di dollari emesse da Time and Life, la holding lussemburghese di Mincione, e poi azioni di società quotate in Borsa come Retelit, a cui fanno capo più di 12 mila chilometri di fibra ottica. Per gestire quest’ultima operazione, nell’aprile del 2018 la holding Fiber 4.0 controllata dal finanziere ora sotto accusa arruolò come avvocato anche Giuseppe Conte, destinato di lì a poco a diventare presidente del Consiglio nel governo tra Cinque Stelle e Lega. Conte, che ha negato di aver mai incontrato di persona Mincione, venne ingaggiato per redigere un parere sull’applicabilità a Retelit della norma sul cosiddetto golden power, con cui il governo può porre il veto al passaggio di proprietà di aziende che operano in settori ritenuti strategici. Una questione particolarmente delicata, visto che Retelit ha anche lo stato libico come azionista di rilievo. Sei mesi dopo quell’episodio, quando entra nel vivo la battaglia in Borsa per il controllo di Carige, un’altra scalata finanziata con i soldi del Vaticano, tra i consulenti legali dell’Athena fund di Mincione troviamo in prima fila Guido Alpa, che di Conte, nel frattempo approdato a Palazzo Chigi, è stato maestro, mentore e partner in numerose iniziative accademiche e professionali. È la conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che Mincione sapeva bene come muoversi su entrambe le sponde del Tevere, nella Curia vaticana come nelle stanze del potere romano, tra politica e alta burocrazia. Difficile spiegare altrimenti il rapporto strettissimo con l’ex capo del governo Lamberto Dini, che nel 2013 accettò di guidare, come presidente in pectore, la lista dei candidati per il consiglio di amministrazione della Popolare di Milano presentata da Athena fund. Quella scalata venne inizialmente finanziata grazie ai capitali generosamente elargiti da Enasarco, il fondo previdenziale degli agenti di commercio le cui alterne vicende si intrecciano da sempre con partiti e sindacati. Quando però Enasarco, dopo un traumatico ribaltone al vertice, decise di tagliare i ponti con Mincione, messo sotto accusa per i conflitti d’interesse e i pessimi risultati della sua gestione, a salvare la situazione fu proprio l’intervento di Becciu. Nel 2013, il gestore in difficoltà trovò quindi nella Segreteria di Stato il «polmone finanziario da cui attingere ossigeno per saldare i conti con Enasarco», recita l’atto d’accusa dei magistrati vaticani. Il cambio di cavallo non è però stato immediato. Per passare dalle parole ai fatti e sancire una volta per tutte il divorzio da Enasarco sono andate in scena numerose e complesse operazioni finanziarie nell’arco di un paio di anni. Nel luglio, la Segreteria di Stato investì circa 100 milioni di dollari nel palazzo londinese di Sloane Avenue. L’affare andò in porto sulla base di una valutazione - sostiene l’accusa - «del tutto ingiustificata». Nell’estate del 2019, proprio da questo affare sospetto è partita l’indagine dei magistrati vaticani sulla gestione dei fondi dell’Obolo di San Pietro. Un’indagine che per Mincione si è conclusa nei giorni scorsi con il rinvio a giudizio per peculato, truffa, appropriazione indebita e abuso d’ufficio. L’inchiesta penale e la conseguente pubblicità negativa non hanno però impedito al finanziere di continuare a macinare affari. Il più importante di tutti, un paio di anni fa, è stato concluso insieme a Conad, leader nazionale dei supermercati. Mincione si è messo in società con il colosso della grande distribuzione per gestire il patrimonio immobiliare ceduto dalla filiale italiana della francese Auchan, assorbita da Conad. La società comune si chiama Bdc Italia e vede i fondi Athena al 49 per cento con il partner al 51. Come rivelato dall’Espresso un anno fa, nell’operazione è stata coinvolta anche una vecchia conoscenza di Mincione come Carlo Felice Maggi, già direttore generale di Enasarco quando l’ente previdenziale affidò 185 milioni in gestione al finanziere con risultati disastrosi. Maggi è stato nominato consigliere di amministrazione di Margherita distribuzione, controllata da Bdc Italia. Adesso le carte dell’inchiesta vaticana confermano le rivelazioni dell’Espresso con l’aggiunta di un particolare illuminante. L’ex manager Enasarco ha infatti ricevuto almeno 500 mila euro da una società offshore di Mincione a Jersey. Un pagamento che secondo l’accusa farebbe parte di un più complesso accordo (Termination agreement) tra i due sodali per un valore complessivo di 5 milioni, soldi anche questi provenienti dalle casse del Vaticano e affidati in gestione al finanziere. Nel gennaio del 2020, contattato dall’Espresso, Maggi spiegò di «non avere nessun rapporto personale con Mincione», salvo rassegnare le dimissioni dal consiglio di Margherita distribuzione poco dopo l’uscita dell’articolo che lo riguardava.

Vittorio Feltri, Becciu e il documento "dimenticato" che lo scagiona: "Papa Francesco lo sapeva?" Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 15 luglio 2021. C'è una carta-bomba firmata dal cardinale Pietro Parolin, numero due del Papa, che assolve il cardinale Angelo Becciu, il numero 3. Dice che Becciu poteva spendere dove, come e quanto volesse i denari depositati. Una totale liberatoria. Fa cascare la colonna portante dell'accusa. E che cioè Becciu avesse ingannato il Papa, il povero Parolin (che infatti si è costituito parte civile) e soprattutto i poveri per i bisogni immediati dei quali doveva essere speso il tesoretto della Segreteria di Stato dove confluisce l'Obolo di San Pietro che raccoglie le elemosine dei fedeli. In una solenne dichiarazione alla direzione del Crédit Suisse, dove giacevano i fondi, il Segretario di Stato, primo ministro della Santa Sede, citando espressamente Becciu, scrive il 21 dicembre 2016: «Non sussiste limitazione alcuna per quanto attiene all'utilizzo del credito summenzionato». Insomma: va bene quindi investirli per il palazzo di Londra... I promotori di giustizia (pm) del Vaticano l'hanno avuta tra le mani, ma invece di benedirla, usarla come arma di accusa contro Parolin, se mai avesse tradito il Numero 1, o quale prova di buona fede di Becciu, l'hanno sepolta. Libero l'ha ritrovata tra le 29mila pagine degli atti depositati in vista del processo del 27 luglio, il primo nella storia della Città-Stato che veda alla sbarra un principe della Chiesa. 

TOGHE E OMISSIONI - I magistrati inquirenti, tanto più quelli che in questa storiaccia adempiono anche al ruolo di giudici istruttori, avrebbero l'obbligo di valorizzare non solo quel che giova all'accusa ma anche quel che rischia di smontarla, perché il loro scopo dovrebbe essere la ricerca della verità. Ma forsesono un po' tradizionalista, per la Chiesa del nuovo millennio. Magari come il giudice Baumgartner di Londra, il quale aveva avvisato il mondo che le toghe della Santa Sede in quest' inchiesta stavano procedendo inanellando «omissioni», «distorsioni» e «travisamenti» pur di averla vinta. E dunque, com' è potuto accadere che di quella carta firmata e timbrata non ci sia sentore nel poderoso e pignolo mattone di circa 500 pagine dal quale ogni giorno i vari giornali estraggono carinerie contro Becciu? Distrazione? Negligenza? Malizia? Ci sarà pure qualcuno che possa dare spiegazioni. Per capire la portata clamorosa della pagina vidimata in alto loco, è necessario riferire per estrema sintesi i capi d'accusa (e le argomentazioni per sostenerli) contenuti nelle 488 pagine della sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio (in vaticanese «richiesta di citazione») nei confronti del prelato detto don Angelino, nativo di Pattada, diocesi di Ozieri, Sardegna. I crimini dei quali si sarebbe macchiato il porporato, defenestrato da papa Bergoglio il 24 settembre del 2020, sono peculato e abuso di ufficio. La vicenda cardine è, come noto, quella del palazzo di Sloane Avenue 60 a Chelsea (Londra). Non sto a discutere se l'investimento in questo immobile sia stato un affare o no, non capisco lo stracciarsi le vesti però: constato che puntare sul mattone è una tradizione ecclesiastica. Il Vaticano, secondo dati ufficiali forniti dall'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa), possiede 4.041 tra appartamenti, terreni, palazzi e, suppongo, garage. Becciu avrebbe illegalmente disposto dei denari giacenti sui conti vaticani. Erano, secondo i pm, destinati esclusivamente ai bisognosi. Invece il Sostituto della Segreteria di Stato (vice primo ministro e ministro dell'Interno) ci avrebbe voluto speculare, comprando una dimora lussuosa del valore di centinaia di milioni di sterline. Per rubare? Questa l'ipotesi successiva dei pm. Ma sono rimasti con ragnatele e pinzillacchere in mano. Infatti, pur avendo esplorato in lungo ein largo, i segugi della Gendarmeria papale coadiuvati dalla Guardia di finanza italiana non hanno trovato un soldo riferibile al cardinale in alcun anfratto bancario del mondo. Hanno perciò dovuto ripiegare sulle quisquilie, inchiodando maldestramente Becciu ad alcuni lavori di falegnameria affidati al fratello artigiano per sedi delicate quali le nunziature dell'Angola e di Cuba, ed eccependo su versamenti a dei poveri sì, ma con il torto di essere sardi e pure della diocesi di origine di don Angelino, dove la Caritas conta tra i suoi collaboratori un altro suo fratello. Ed ecco che l'impianto accusatorio si liquefà, dato che si regge sulla colonna che Parolin con la sua dichiarazione demolisce. Infatti tutto nasce dalla denuncia del revisore generale dei conti del Vaticano, Alessandro Cassinis Righini, in sostanza il capo dell'anticorruzione d'Oltretevere, secondo cui il peccato originale di Becciu sta nell'aver usato i soldi dell'Obolo di San Pietro senza rispettare il «vincolo di destinazione» di quei soldi in opere caritatevoli. Falso. Attestato nero su bianco dallo stesso Parolin. Che poi ci sia stato del marcio in quella storia di Londra è un'altra questione, anch' essa tutta da provare.

ILLEGALITÀ CONCLAMATA - E qui c'è un altro problema. C'è un'affermazione incredibile, una specie di confessione pubblica di illegalità conclamata, nelle 488 pagine firmate dai promotori di giustizia (?). A pagina 29 si legge: «Con l'avvio dell'indagine, stante la sua complessità, il Santo Padre, con apposito provvedimento in data 5-7-2020, autorizza l'Ufficio del Promotore di Giustizia ad adottare, sino alla conclusione delle indagini, le forme della istruzione formalee ad assumere, ove necessario anche in deroga alla disposizioni vigenti, qualunque tipo di provvedimento di natura cautelare nelle attività di accertamento dei fatti collegati alle denunce dello Iore del Revisore Generale». Riscrivo perché non ci credo: il Papa autorizza «in deroga alla disposizioni vigenti, qualunque tipo di provvedimento di natura cautelare». Cioè ha dato «carta bianca» agli inquisitori, in deroga a tutto il diritto codificato. Non credo sia mai accaduto nella storia, nemmeno ai tempi della Santa Inquisizione. È un unicum che pone la giurisdizione vaticana in contrasto con i più elementari principi di certezza del diritto. Quando i magistrati italiani e inglesi e i nostri finanzieri hanno agito, sono stati informati dell'abrogazione dell'habeas corpus deciso dal Papa? Ma - soprattutto - il Papa lo sapeva?

Truffa al Vaticano, Marogna si difende: "Non ho sperperato i fondi e solo fango sulla notte da Becciu".  Floriana Bulfon su La Repubblica il 6 luglio 2021. La consulente del cardinale e della Santa Sede è tra gli indagati e si difende dalle accuse dei pm d'Oltretevere. "I bonifici mi servivano a proteggere nunziature e missioni da rischi ambientali e da cellule terroristiche". "I bonifici ricevuti vennero tutti autorizzati dalla Segreteria di Stato e financo da papa Francesco". Parola di Cecilia Marogna. La consulente con la passione per l'intelligence e lo shopping di lusso, riuscita a infilarsi nei palazzi del Vaticano entrando nelle grazie del cardinale Angelo Becciu, anche dopo il rinvio a giudizio si professa innocente. E, attraverso Riccardo Sindoca, procuratore e coordinatore del collegio difensivo, non smette di mandare messaggi.

Da adnkronos.com il 16 luglio 2021. Ci sono anche il cardinale di Stato Pietro Parolin, l’ex capo della security di Telecom, Giuliano Tavaroli, ed ex 007 tra i testi che, a quanto apprende l'Adnkronos, la manager cagliaritana Cecilia Marogna intende chiamare a deporre nel processo che si aprirà il 27 luglio prossimo in Vaticano. Divenuta nota alle cronache come "dama del cardinale" per il rapporto fiduciario che la lega all'ex numero due della Segreteria di Stato Angelo Becciu, la Marogna è accusata dai giudici d'Oltretevere di peculato in concorso con l'ex Sostituto in relazione ai 575mila euro versati alla sua società Logsic Doo dalla segreteria di Stato per attività di intelligence (tra l'altro la liberazione di una suora colombiana rapita) e che, secondo i magistrati vaticani, sarebbero stati invece spesi in beni di lusso. Sulla vicenda è stato opposto il segreto di Stato, come emerge dal decreto del Tribunale vaticano, con Becciu che il 17 novembre 2017 sottoscrisse un documento, su carta intestata della Segreteria di Stato, in cui affermava “di conoscere la Signora Cecilia Marogna e di riporre in Lei fiducia e stima per la serietà della Sua vita e della Sua professione” attestando che la manager cagliaritana prestava "servizio professionale come analista geopolitico e consulente relazioni esterne per la Segreteria di Stato – Sezione Affari Generali”. Ora la Marogna, chiamando a testimoniare personaggi del calibro di Parolin - a sostegno della documentazione prodotta dal suo collegio difensivo - intende evidentemente dimostrare che la sua attività era conosciuta sia in ambito vaticano che nell'intelligence. In particolare, in una mail inviata il 20 dicembre 2018 a Parolin (Becciu aveva lasciato l'incarico alla Segreteria di Stato nel giugno precedente), Marogna scrive al segretario di Stato a proposito di Padre Pier Luigi Maccalli, il missionario rapito il 17 settembre 2018 in Niger e liberato due anni dopo in Mali. "Buon giorno Eminenza, Mi spiace non aver avuto l'opportunità di sentirla e incontrarla malgrado le e-mail e le telefonate con oggetto altamente sensibile e importante - scrive la donna nell'email che l'Adnkronos ha potuto visionare - Avrei necessità almeno di sentirla per telefono e chiederle un piccolo supporto per il caso Maccalli, oltre a comprendere meglio il responso su quanto abbiamo parlato in seduta di incontro". Due mesi prima, il 23 ottobre 2018, Marogna aveva mandato una mail ai servizi, con oggetto "Analisi Maccalli" in cui tra l'altro si collegava il caso del missionario con il sequestro della suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti, rapita il 7 febbraio 2017 nel sud del Mali. "Come da statistica dei casi di sequestro gestiti nell’area, si presume che anche la richiesta di riscatto per Maccalli non arriverà nell’immediato da parte dei sequestratori, in quanto sono più propensi a tempi lunghi - scriveva la Marogna - Per questa ragione credo si possa strutturare una joint venture strategica con l’organizzazione filantropica che da qualche mese sta conducendo una trattativa per il rilascio della religiosa colombiana". E aggiungeva: "A tal riguardo, le mie fonti accreditate, suggeriscono di avanzare una proposta economica per il rilascio di Maccalli in linea con quella attualmente presentata per la sorella colombiana. Credo sia opportuno costruire un canale parallelo che possa entrare in contatto con l’unico negoziatore specializzato e autorizzato alla mediazione tra le parti, dai gruppi jihadisti dell’area del Sahel. La struttura filantropica ha da diverso tempo consolidato il rapporto con il negoziatore che si occupa di prendere in consegna e recapitare i messaggi direttamente ai gruppi terroristici, pertanto, non esiste una filiera che disperde o lucra ulteriormente sulla negoziazione del rilascio. Siamo ormai certi che nel sistema dei sequestri siano collusi funzionari governativi e militari dei vari paesi africani interessati, tanto da avere ormai a che fare con una vera e propria holding del sequestro di persona". Un'altra email sull'argomento che secondo il collegio difensivo della Marogna, coordinato dall'esperto di diritto internazionale Riccardo Sindoca, sarebbe rilevante ai fini della posizione della manager è quella inviata a Parolin il 7 ottobre 2020, nei giorni immediatamente successivi alle prime rivelazioni delle Iene sul caso Becciu. "Gent.ma Eminenza, spero stia bene e che possa leggere presto questa e-mail - scriveva la manager - Prendo solo adesso iniziativa di scriverla perché una persona di mia conoscenza, e, come da lui stesso sollecitatomi in questi ultimi giorni, è discretamente vicina a un componente del suo entourage, per tanto, gli è stato affidato compito di consegnarmi la sua richiesta di volermi incontrare per parlare direttamente in merito all'operazione da me impiantata, svolta e portata al raggiungimento dell'obiettivo, riguardante le 3 persone trattenute nel Sahel. Mi ha anche specificato che sia Lei che Sua Santità siete al corrente del lavoro da me svolto, e anche del fatto che sono per l'appunto giunta alla fase ultima della situazione: vale a dire: costi vari esclusivamente contestuali al recupero delle persone per il viaggio di ritorno a casa". "Questi giorni sono stata investita da un polverone innalzatomi contro per ragioni che non mi appartengono, in quanto, proprio le righe sopra riportate, qualificano come ho gestito gli strumenti per poter svolgere il processo funzionale nell'area di interesse", proseguiva la donna nella mail al Segretario di Stato, nella quale rivendicava di aver "raggiunto la definizione della risoluzione pacifica delle 3 persone l'ultima decade di agosto", e spiegava di aver "immediatamente informato della fase ultima" i vertici dei servizi segreti, "non avendo avuto più notizie". "Non vorrei pensare a un tentativo di boicottaggio, considerato l'arco temporale che proprio in quel periodo ha presto sollevato la seconda parte del polverone", sottolineava la Marogna, concludendo: "Detto ciò, le confermo la mia disponibilità ad incontrarla per confrontarci in merito alla gestione della fase ultima della risoluzione africana". Nella risposta dell'11 ottobre successivo, Parolin però prendeva tempo: "Gentile Sig.ra Marogna, La ringrazio per la Sua e-mail del 7 ottobre u.s., della quale ho preso nota con ogni attenzione. Circa la Sua richiesta di incontro, tuttavia, non sono in grado per il momento di venirLe incontro". 

Estratto dell'articolo di Floriana Bulfon per “la Repubblica” il 7 luglio 2021. «I bonifici ricevuti vennero tutti autorizzati dalla Segreteria di Stato e financo da papa Francesco». Parola di Cecilia Marogna. (…)  Sul suo incarico da esperta in geopolitica mantiene il riserbo da 007, anche se sostiene di «aver reso un ampio verbale al Ros dei carabinieri, coperto da Segreto, che è anche al vaglio della magistratura italiana. Ma di sicuro non ha nulla a che vedere con le manovre finanziarie e immobiliari». La questione che la riguarda appare laterale rispetto allo scandalo del palazzo di Londra e ai giri milionari che stavano mettendo in piedi i protagonisti di questa inchiesta. E Marogna si sente come un vaso di coccio tra vasi di ferro, tanto da chiedersi: «Non è che per caso servisse a qualcuno cercare di deviare l'attenzione su ben altre situazioni di ben altro spessore? Forse il cardinal Becciu era scomodo a qualche altro illustre personaggio della stessa Segreteria?» Domande a cui lei stessa risponde con un nome: «Il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin». (…) Non solleva alcun dubbio, invece, su Becciu: «Rimane immutato l'affetto e serio dispiacere per la gogna mediatica che lo sta attanagliando, certa che non conosca mala fede in qualsivoglia sua azione e/o pensiero». Ed è per questo che non accetta insinuazioni. Gli inquirenti vaticani hanno documentato che trascorse un'intera notte nel settembre 2020 nel palazzo del Sant' Uffizio dove c' è anche l'abitazione privata di Becciu, sottolineando: "L' atteggiamento della donna, immortalata nel momento in cui faceva ingresso nel palazzo con una valigia, fanno intendere un rapporto tra il porporato e la sedicente esperta di geopolitica ben consolidato e rimasto inalterato anche dopo che mons. Alberto Perlasca, dopo l'interrogatorio del 29 aprile 2020, aveva informato il porporato dei sospetti che all' epoca gli inquirenti avanzavano sulla donna". Come ribatte Marogna? «Solo gossip, vile e disgustoso posto che è una Degna Madre (precisa per lei il procuratore, ndr ) oltre che una credente fedele». Perché quella «era una location ove era solita altresì lavorare». Perché il suo compito era occuparsi di intelligence in aree di crisi e per i sequestri di persona al servizio della Segreteria di Stato. E per questo «ha avuto rapporti e collaborazioni, tutte documentate, sia con il generale Luciano Carta, così come ha avuto anche il piacere di aver conosciuto il generale Caravelli», rispettivamente ex ed attuale direttore dell'Aise. (…)

Da iltempo.it il 6 luglio 2021. Come nelle più romanzate spy story Cecilia Marogna, la misteriosa dama bianca dell'ultimo Vatican-gate, un minuto dopo il tramonto del sole quatta quatta il 16 settembre dell'anno scorso entrò con una valigiona nell'appartamento privato dell'ex cardinale Angelo Becciu nel palazzo del Sant'Uffizio e da lì è uscita solo il pomeriggio successivo con una busta di mille euro in contanti versati subito sul proprio conto corrente a Intesa San Paolo nello sportello automatico della filiale di Porta Angelica. L'episodio è raccontato nelle 487 pagine di citazione a giudizio dell'ex cardinale Becciu scritte dai promotori di giustizia del Vaticano secondo cui testimonierebbe la scelta dell'alto prelato di mantenere anche a suo rischio e pericolo i rapporti con la misteriosa dama bianca perfino dopo che era venuta alla luce la vicenda giudiziaria e un mese prima dell'arresto della stessa Marogna. Il 16 settembre 2020 il sole tramonta alle 19,17 ed esattamente un minuto dopo la dama bianca varca nella prima penombra della sera il portone del Sant'Uffizio. Scrivono i promotori di giustizia: “Dalla ricostruzione degli eventi effettuata dal Corpo della Gendarmeria attraverso l'analisi delle registrazioni del sistema di video sorveglianza di questo Stato relative al 16 e 17-09-2020 è emerso che la signora Cecilia Marogna si è intrattenuta nel palazzo del Sant'Uffizio ove è ubicato l'appartamento del Cardinale dalle ore 19:18 del 16-9-2020 alle ore 16:18 del 17-9-2020”.

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il "Corriere della Sera" il 6 luglio 2021. Magistrati vaticani contro giudici inglesi. È un capitolo di sette pagine, dai toni durissimi, «dedicato» alla Crown Court di Southwark (Londra) e in particolare al giudice Tony Baumgartner. Siamo «dentro» le quasi 500 pagine dell'inchiesta sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato con le argomentatissime richieste di citazione in giudizio per il cardinale Angelo Giovanni Becciu, i finanzieri Gianlugi Torzi, Raffaele Mincione, Enrico Crasso & C. Ma, appunto, a sorpresa a pagina 300 ci si imbatte in questa lunga parentesi, quasi uno sfogo. Per esempio, a proposito di un documento che il giudice inglese ha ritenuto «probante», i promotori di giustizia del Papa scrivono che «è davvero inquietante che detto documento () abbia fatto il giro di mezza Europa per approdare nel fascicolo del giudice inglese, con le aberranti conclusioni da lui formulate». Ma che c' entra una corte di Londra in questa storia? E perché ha così irritato i magistrati d' Oltretevere? Rewind di tre mesi. Verso fine marzo, quando già l'inchiesta vaticana avviata nell' estate 2019 era in dirittura d' arrivo, piomba sugli uffici giudiziari della Santa Sede un provvedimento firmato Baumgartner che boccia la richiesta di sequestro avanzata dal Vaticano sui conti del broker Torzi, che ha casa e ufficio non lontano da Buckingham Palace. Il giudice inglese lo fa entrando nel merito dei fatti e formulando ai colleghi della Santa Sede domande solo apparentemente banali. Chiede, per esempio, «perché se la Segreteria - si legge nel fascicolo di Londra - era di fronte a un truffatore (Torzi secondo l'accusa, ndr ) gli è stato procurato un incontro con il Papa? E perché era trattato con cortesia?». Per la cronaca, Torzi - che a novembre 2018 avrebbe prese il controllo di Sloane Avenue con l'inganno secondo il Vaticano - il 26 dicembre fu ammesso in udienza privata da Francesco. «Per ammorbidirlo», è la risposta dei giudici vaticani. E poi: perché il Sostituto Edgar Peña Parra ha pagato 15 milioni a Torzi per lasciare il controllo del palazzo, che era formalmente del Vaticano? «Per non esporre la Segreteria di Stato ai media sull' operazione», la replica. Su monsignor Alberto Perlasca, capo degli investimenti nell' era Becciu, non rinviato a giudizio, «il Prof. Avv. Alessandro Diddi - scrive Baumgartner - dice che era incapace e inetto». È una pronuncia su uno spicchio del giallo vaticano che però sembra smontare parti importanti dell'inchiesta, perché ha dato ragione alla difesa di Torzi. Ma i magistrati del Papa si prendono una sorta di rivincita: lamentandosi «di aver sempre evaso - non sempre ricambiati - con piena lealtà (...) quanto richiesto» scrivono che la corte britannica è «completamente ignara della organizzazione della Segreteria» e che quindi «è doveroso dare contezza delle gravi imprecisioni contenute nella decisione» di Baumgartner e delle «inconfutabili contraddizioni» rispetto alle «risultanze processuali acquisite». E respingono la critica di aver presentato deposizioni generiche «sul sentito dire»: «Questo Ufficio ha cercato di riscontrare il narrato di chiunque con dati di prova materiale». Tra i documenti depositati a Londra, spunta una mail inviata dall' arcivescovo Peña Parra a Torzi il 22 gennaio 2019 per trovare un accordo sulla buonuscita al broker, che chiede 20 milioni a fronte di un'offerta di 5,5. «Caro signor Gianluigi Torzi - scrive Peña - (.) io sono dell'opinione che questo importo è adeguato e congruo a condizione che nessun problema sia evidenziato dalle due parti. Come abbiamo già concordato, vogliamo concludere la questione nel più breve tempo possibile e quindi faccio pieno affidamento sulla vostra collaborazione. Cordiali saluti». Per il giudice inglese da questa mail traspare «una trattativa commerciale tra due parti indipendenti». Per i magistrati vaticani, invece, si colloca in una fase di altissima tensione «e piuttosto che una lettera cordiale sembra essere una supplica della Segreteria a Torzi». Il quale, subito dopo, scrive su WhatsApp ai suoi avvocati: «Sì sì possono con rispetto andare serenamente a fan... :)». I magistrati d' Oltretevere chiosano con l'ultima stoccata al collega d' Oltremanica: «Sembrano, a questo punto, superflui commenti ulteriori sul significato della mail così tanto valorizzata dal giudice Baumgartner». 

(ANSA il 3 luglio 2021) - Con decreto in data odierna, il Presidente del Tribunale Vaticano ha disposto la citazione a giudizio degli imputati nell'ambito della vicenda legata agli investimenti finanziari della Segreteria di Stato a Londra. Il processo avrà inizio all'udienza del prossimo 27 luglio. La richiesta di citazione a giudizio è stata presentata nei giorni scorsi e riguarda personale ecclesiastico e laico della Segreteria di Stato e figure apicali dell'allora Autorità di Informazione Finanziaria, nonché personaggi esterni, attivi nel mondo della finanza internazionale: in tutto si tratta di 10 persone, compreso il card. Angelo Becciu, e 4 società. A chiedere i rinvii a giudizio, tramite emissione del decreto di citazione, sono stati il promotore di giustizia Gian Piero Milano, l'aggiunto Alessandro Diddi e l'applicato Gianluca Perone.

Il processo che si aprirà il 27 luglio riguarderà quindi: René Brülhart, al quale l'accusa contesta il reato di abuso d'ufficio; Mauro mons. Carlino, al quale l'accusa contesta i reati di estorsione e abuso di ufficio; Enrico Crasso, al quale l'accusa contesta i reati di peculato, corruzione, estorsione, riciclaggio ed autoriciclaggio, truffa, abuso d'ufficio, falso materiale di atto pubblico commesso dal privato e falso in scrittura privata; Tommaso Di Ruzza, al quale l'accusa contesta i reati di peculato, abuso d'ufficio e violazione del segreto d'ufficio; Cecilia Marogna, alla quale l'accusa contesta il reato di peculato; Raffaele Mincione, al quale l'accusa contesta i reati di peculato, truffa, abuso d'ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio; Nicola Squillace, al quale l'accusa contesta i reati di truffa, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio; Fabrizio Tirabassi, al quale l'accusa contesta i reati di corruzione, estorsione, peculato, truffa e abuso d'ufficio; Gianluigi Torzi, al quale l'accusa contesta i reati di estorsione, peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio.

E le società: HP Finance LLC, riferibile ad Enrico Crasso, alla quale l'accusa contesta il reato di truffa; Logsic Humanitarne Dejavnosti, D.O.O., riferibile a Cecilia Marogna, alla quale l'accusa contesta il reato di peculato; Prestige Family Office SA, riferibile ad Enrico Crasso, alla quale l'accusa contesta il reato di truffa; Sogenel Capital Investment, riferibile ad Enrico Crasso, alla quale l'accusa contesta il reato di truffa. Taluni dei reati vengono contestati anche "in concorso". Sono emersi elementi anche a carico del card. Giovanni Angelo Becciu, nei cui confronti si procede, come normativamente previsto, per i reati di peculato ed abuso d'ufficio anche in concorso, nonché di subornazione. "Le indagini, avviate nel luglio 2019 su denuncia dell'Istituto per le Opere di Religione e dell'Ufficio del Revisore Generale, hanno visto piena sinergia tra l'Ufficio del Promotore e la sezione di Polizia giudiziaria del Corpo della Gendarmeria - spiega un comunicato della Sala stampa della Santa Sede -. Le attività istruttorie sono state compiute altresì in stretta e proficua collaborazione con la Procura di Roma ed il Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Roma. Apprezzabile anche la cooperazione con le Procure di Milano, Bari, Trento, Cagliari e Sassari e le rispettive sezioni di polizia giudiziaria".

(ANSA il 3 luglio 2021) - Le attività istruttorie sui fondi della Segreteria di Stato, che hanno portato oggi al rinvio a giudizio di 10 persone e 4 società, svolte anche con commissioni rogatoriali in numerosi altri paesi stranieri (Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna, Jersey, Lussemburgo Slovenia, Svizzera), "hanno consentito di portare alla luce una vasta rete di relazioni con operatori dei mercati finanziari che hanno generato consistenti perdite per le finanze vaticane, avendo attinto anche alle risorse, destinate alle opere di carità personale del Santo Padre". Lo spiega il comunicato della Sala stampa della Santa Sede. "L'iniziativa giudiziaria è direttamente collegabile alle indicazioni e alle riforme di Sua Santità Papa Francesco, nell'opera di trasparenza e risanamento delle finanze vaticane - sottolinea ancora la Sala stampa vaticana -; opera che, secondo l'ipotesi accusatoria, è stata contrastata da attività speculative illecite e pregiudizievoli sul piano reputazionale nei termini indicati nella richiesta di citazione a giudizio".

Scandali in Vaticano, Becciu a processo con altri nove. Raffaello Binelli il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. Il processo avrà inizio il 27 luglio. Accuse di truffa, peculato e abuso di ufficio. Sui rapporti con Cecilia Marogna, a cui la segreteria di Stato avrebbe versato 575mila euro, agli inquirenti Becciu ha opposto il "segreto di Stato". Il cardinale Angelo Becciu, ex potentissimo sostituto alla Segreteria di Stato della Santa Sede, dovrà affrontare un processo per lo scandalo relativo all'investimento del Vaticano su un palazzo di Londra. Otto i capi di imputazione cui è chiamato a rispondere, tra cui peculato, abuso d'ufficio e subornazione di teste. Coinvolte insieme a lui, con altre ipotesi di reato come truffa ed estorsione, altre nove persone: Cecilia Marogna, Fabrizio Tirabassi (funzionario della Segreteria di Stato), gli uomini d'affari Gianluigi Torzi e Enrico Crasso, monsignor Mauro Carlino (che reggeva l'ufficio documentazione della segreteria), Raffaele Mincione, finanziere italo-svizzero che gli inquirenti non esitano ad indicare come il "dominus indiscusso delle politiche di investimento di una parte considerevole delle finanze della Segreteria di Stato". Dovrà difendersi in aula anche Tommaso di Ruzza, già direttore dell'Aif, come anche Renè Brulhart, che dell'Autorità di supervisione finanziaria del Vaticano è arrivato ad essere presidente. Oltre a loro l'avvocato Nicola Squillace. Le indagini, svolte anche con rogatorie in paesi come Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna, Jersey, Lussemburgo Slovenia e Svizzera, hanno fatto emergere una vasta rete di relazioni con operatori dei mercati finanziari che avrebbero generato forti perdite per le finanze vaticane, avendo attinto anche alle risorse destinate alle opere di carità personale del Santo Padre. L'iniziativa giudiziaria è direttamente collegabile alle indicazioni e alle riforme di Papa Francesco volte alla trasparenza e al risanamento delle finanze vaticane; opera che, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbe stata fortemente contrastata da attività speculative illecite e pregiudizievoli sul piano reputazionale. Per il processo a Becciu la segreteria di Stato del Vaticano si costituirà parte civile, a rappresentarla sarà l'avvocato Paola Severino.

L'accusa: "Interferì nelle indagini prima di essere indagato". Stando a quanto scrive l'Ufficio del promotore di Giustizia vaticano nella richiesta di citazione a giudizio, Becciu avrebbe interferito nel procedimento penale prima ancora di esserne coinvolto. A supporto di questa ipotesi viene riportato un sms di Becciu all'allora gestore delle finanze vaticane, Enrico Crasso, risalente al 23 gennaio 2020: "Al momento giusto - scrive il cardinale - bisognerà fare una bella campagna stampa!! Anzi lei potrebbe farla subito. Chieda al suo avvocato se è il caso di sburgiardare subito i nostri magistrati!".

Becciu: "Gogna mediatica senza pari". "In questi lunghi mesi - scrive in una nota il cardinale - si è inventato di tutto sulla mia persona, esponendomi ad una gogna mediatica senza pari al cui gioco non mi sono prestato, soffrendo in silenzio, anche per il rispetto e la tutela della Chiesa, a cui ho dedicato la mia intera vita. Solo considerando questa grande ingiustizia come una prova di fede riesco a trovare la forza per combattere questa battaglia di verità... Sono vittima di una macchinazione ordita ai miei danni, e attendevo da tempo di conoscere le eventuali accuse nei miei confronti, per permettermi prontamente di smentirle e dimostrare al mondo la mia assoluta innocenza".

Segreto di Stato sui rapporti con Marogna. Becciu si è trincerato dietro il segreto di Stato, chiamando in causa anche il Papa, di fronte alla richiesta degli inquirenti vaticani di fare chiarezza sui rapporti con Cecilia Marogna, in relazione ai 575mila euro che la segreteria di Stato le ha versato e che, a detta dell'accusa, sarebbero stati spesi in beni di lusso. In una dichiarazione riportata nella richiesta di citazione a giudizio dell'Ufficio del promotore di Giustizia vaticano, Becciu spiega: "Negando categoricamente di aver mai, contrariamente a quanto contestato, sottratto, appropriandomene e convertendola in profitto, la somma di 575.000 euro contestata (o, per vero, qualsiasi altra), ritengo, ai sensi dell'art. 248, c. 2, c.p.p., e soprattutto in coscienza, di non poter essere interrogato su questi fatti e circostanze e sulle decisioni assunte, peraltro concordati con il Santo Padre, perché costituenti segreto politico concernente la sicurezza dello Stato". Ai giornalisti di Report Marongia aveva raccontato di essere stata "incaricata dal Cardinale di svolgere attività di dossieraggio, su figure interne al Vaticano, a mo' di servizio segreto parallelo". Raffaello Binelli

Vaticano, il Cardinale Angelo Becciu rinviato a giudizio per peculato e abuso d’ufficio. Massimiliano Coccia il 3 luglio 2021 su L'Espresso.  Insieme al porporato dovranno andare a processo altre 8 persone per la vicenda degli investimenti della Segreteria di Stato usati per la compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra. Speculazioni che hanno portato a 400 milioni di perdite. Questa mattina, il Presidente del Tribunale Vaticano, Giuseppe Pignatone, ha disposto la citazione a giudizio degli imputati nell’ambito della vicenda legata agli investimenti della Segreteria di Stato a Londra, in particolare sulla compravendita del palazzo di Sloane Avenue decidendo di rimandare a giudizio per i reati di peculato, abuso d’ufficio in concorso e subordinazione il cardinale Angelo Becciu. Nelle cinquecento pagine che accompagnano la citazione a giudizio presentata nei giorni scorsi dall’Ufficio del Promotore di Giustizia composto da Gian Piero Milano, Alessandro Diddi e Gianluca Perone, gli inquirenti hanno ricostruito la ragnatela di relazioni, affari, investimenti che hanno portato la Santa Sede a perdere circa 400 milioni di euro. Tra i rinviati a giudizio compaiono tutti i protagonisti della vicenda da René Brülhart, già presidente dell’Autorità Finanziaria Vaticana, al quale l’accusa contesta il reato di abuso d’ufficio, Monsignor Mauro Carlino, membro della segreteria di Becciu, al quale si contestano i reati di estorsione e abuso d’ufficio, Enrico Crasso (con le sue tre società Sogenel,Prestige e HP Finance) accusato di peculato, corruzione, estorsione, riciclaggio ed autoriciclaggio, truffa, abuso d’ufficio, falso materiale di atto pubblico commesso dal privato e falso in scrittura privata, Tommaso Di Ruzza, già direttore dell’Autorità finanziaria vaticana che aveva il compito specifico di sorvegliare sulle materie di riciclaggio, Cecilia Marogna (con la sua società Logsic Humanitarne Dejavnosti, D.O.O), la presunta esperta di intelligence a cui il cardinale Becciu, secondo l’accusa ha fatto planare risorse per non meglio specificate attività di intelligence accusata di peculato, Raffaele Mincione, finanziere di Pomezia, accusato di peculato, truffa, abuso d’ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio e Gianluigi Torzi, già arrestato dalla Gendarmerie Vaticana e su cui pende un mandato di cattura internazionale, accusato dai Promotori di giustizia dei reati di estorsione, peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio. Dovrà affrontare il processo anche Fabrizio Tirabassi, membro della segreteria di Angelo Becciu, che da semplice impiegato ha accumulato per gli uffici paralleli messi su dal “sistema di drenaggio dei denari” un giro di denaro enorme, anche lui è accusato di corruzione, estorsione, peculato, truffa e abuso d’ufficio. Anche l’avvocato milanese Nicola Squillace va a processo per i reati di truffa, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio. Rimangono fuori dal processo, per aver collaborato con le autorità, altri due personaggi centrali nella storia dell’acquisizione del Palazzo di Sloane Avenue, Monsignor Alberto Perlasca (membro della segreteria di Becciu) e Giuseppe Milanese, della cooperativa OSA. Entrambi in misura diversa e con diversi gradi di protagonismo, hanno fornito elementi centrali alla ricostruzione dei giri di affari e di corruttela che gravitano nell’ufficio degli Affari Generali guidato dal presule sardo. L’inchiesta che con questo atto si chiude è senza dubbio la più difficile della storia della Santa Sede, un lavoro investigativo portato avanti in modo accurato dalla sezione di Polizia Giudiziaria del Corpo della Gendarmeria Vaticana e con la collaborazione della Procura di Roma ed il Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria – G.I.C.E.F. della Guardia di Finanza di Roma e che ha visto una quantità enorme di richieste rogatoriali dagli Emirati Arabi, passando per la Gran Bretagna, la Svizzera, Jersey, Lussemburgo, Slovenia, che come abbiamo raccontato in precedenza ha permesso di fare piena luce sul giro di affari milionari che la Segreteria di Stato ai tempi di Angelo Becciu aveva messo in piedi, un sistema affaristico non più compatibile con la volontà di una Chiesa trasparente, etica e risanata nelle finanze voluta da Papa Francesco che si è premurato lunedì scorso di incontrare di persona il Cardinale Becciu per informarlo del suo rinvio a giudizio. Il processo inizierà il 27 luglio per poi riprendere dopo la pausa estiva di agosto e si ha l’impressione, vedendo la mole delle accuse, che le sorprese saranno molte.

Preghiere per gli acquisti: l’inchiesta Becciu al giro di boa. La rete del cardinale nel crac che ha terremotato il sistema bancario. Il Risiko di Mincione e Torzi dall’affaire sul palazzo di Londra alle speculazioni all’ombra della Chiesa che coinvolgono familiari e amici del prelato. Massimiliano Coccia il 25 maggio 2021 su L'Espresso. Quelle che si stanno consumando in questi giorni sono le ultime battute dell’inchiesta giudiziaria più complessa che la Città del Vaticano abbia affrontato negli ultimi decenni. Un’inchiesta partita dal prosciugamento dell’Obolo di San Pietro e del conto personale di Papa Francesco per acquisire il famigerato palazzo al 60 di Sloane Avenue a Londra e che è giunta, col passare dei mesi, a far emergere tutte le contraddizioni che alimentavano la gestione della macchina economica della Chiesa prima dell’avvento di Papa Francesco. Tre anni di indagini che hanno scavato in profondità tra le pieghe di conti offshore e investimenti irregolari e sono diventate il simbolo della lotta contro la corruzione di Bergoglio, che oltre ai vari magisteri spirituali, ha raccolto il testimone di Benedetto XVI per rifondare la credibilità dello Stato vaticano. Una mole di indizi, di conti cifrati, di società, di nomi e numeri, portata alla luce con meticolosità dai promotori di giustizia Alessandro Diddi e Giampiero Milano, in una gincana che ha coinvolto vari Paesi (Italia, Svizzera, Regno Unito, Lussemburgo e Malta). Diverse procure della Repubblica in questi giorni hanno richiesto alla Gendarmeria Vaticana gli atti dell’inchiesta e delle rogatorie per dipanare altri rebus: processi su scandali finanziari riguardanti numerosi istituti bancari. L’attività investigativa vaticana potrebbe risultare utile alle procure di Siena per il caso Monte dei Paschi, a quelle di Bari e Milano per le indagini sul crac della Popolare di Bari e di Vicenza, a Genova per la scalata Carige. Tutti dossier che hanno come protagonisti i «gemelli diversi» della compravendita del palazzo di Londra, Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, quest’ultimo arrestato a Londra e in attesa dell’estradizione chiesta dai pm di Roma per false fatturazioni e autoriciclaggio. Mincione e Torzi, stili antitetici, il primo di Pomezia e il secondo di Guardalfiera in provincia di Campobasso, sono uniti dalla passione per le operazioni rischiose, muovendo soldi di enti e fondi creati ad hoc in un gioco delle tre carte dove alla fine a perdere è sempre qualche investitore (come nel caso del Vaticano). I due fingono di non conoscersi ma fanno affari insieme, come racconta una sentenza dell’Alta Corte inglese che ha condannato Gianluigi Torzi al pagamento di 10 milioni di sterline alla compagnia assicurativa italiana Net Insurance per la vicenda dell’appropriazione indebita di quote azionarie per 26 milioni di euro. Torzi, secondo i giudici, ha utilizzato le quote di Net Insurance con la sua società Sunset Financial Ltd, sede a Malta, per rifornire una linea di credito alla società Pop 12 di Mincione, con sede in Lussemburgo. I fondi sarebbero stati poi utilizzati da quest’ultimo per la scalata a Banca Carige nel 2018. Il broker molisano è amministratore delegato di società di diritto inglese e lussemburghese, attive in vari campi e utili per speculazioni in tantissimi ambiti, dalle comunicazioni al food passando per l’arte e fino agli investimenti immobiliari. Una giungla di sigle sulla quale Torzi ha fatto arrivare i proventi di quella che secondo l’ipotesi dei promotori di giustizia vaticani è stata una estorsione ai danni della Santa Sede, maturata con la complicità dell’ufficio dell’ex Sostituto agli Affari Generali, Angelo Becciu. Nella cronologia della spoliazione del palazzo di Londra, Torzi arriva ultimo in lista, introdotto da Giuseppe Milanese, della Cooperativa Osa, come risolutore dell’acquisizione dell’edificio. Il playmaker del meccanismo corrutivo, secondo gli inquirenti vaticani, è Fabrizio Tirabassi, impiegato, fedelissimo di Becciu, che diventa anche consigliere di amministrazione della società Gutt Sa di Torzi. Gestisce il riacquisto dell’immobile londinese, è indagato per peculato e truffa dalla magistratura vaticana e, nel corso degli anni di lavoro negli uffici di Becciu, avrebbe incamerato un patrimonio complessivo di 14 milioni di euro. Soldi che ovviamente non provengono dal suo stipendio alle dipendenze della Santa Sede ma da consulenze e ripartizioni legate agli affari trattati dal suo ufficio, trasformato, nel corso degli anni, in una centrale operativa degli investimenti più disparati, come dimostra la rogatoria di Roma che ha portato all’arresto del molisano. Tra i vari faldoni emergono alcuni contratti di consulenza che la Cooperativa Osa di Giuseppe Milanese avrebbe stipulato con Fabrizio Tirabassi e il finanziere Enrico Crasso, allo scopo di perfezionare la cessione dei propri crediti sanitari in un primo momento proprio alla Sunset ltd di Torzi. La cooperativa Osa, inoltre, caso unico nel bilancio della segreteria di Stato, ha usufruito di un prestito obbligazionario: Enrico Crasso dà il via libera all’investimento da parte della Santa Sede, ma contemporaneamente – in corrispondenze emerse negli atti - sconsiglia di fare altrettanto a Monsignor Mauro Carlino (altro impiegato dell’ufficio di Becciu), che vorrebbe investire nello stesso modo i propri denari. Ma la generosità nei confronti della cooperativa di Milanese non si ferma qui perché la Segreteria di Stato finanzia con centinaia di migliaia di euro altre iniziative di natura assistenziale e sanitaria. Un modus operandi che svela come la funzione pubblica di impiegati e gestori delle casse vaticane abbia intrecciato utilità private, dentro un meccanismo consolidato che vede i protagonisti legati a doppio filo in un crescendo di intrecci, consulenze e reciproche omissioni. Fino all’ultimo, Tirabassi ha incassato cospicue somme di denaro da Torzi che ricevette i complimenti di Raffaele Mincione per aver chiuso una operazione che avrebbe permesso al gruppo di continuare il giro speculativo per altri mesi ancora. Torzi, per festeggiare l’impresa, acquistò, con i proventi delle false fatturazioni emesse per servizi mai erogati alla Santa Sede, uno yacht, battente bandiera maltese, che al momento è parcheggiato nelle acque del porto de La Valletta. Paradossale oggi immaginare che mentre la Chiesa di Papa Francesco si prodiga per il soccorso dei migranti nelle acque del Mediterraneo qualcuno, lucrando i soldi delle offerte abbia comprato proprio una barca di lusso nella generale omertà, nonostante le innumerevoli segnalazioni della Gendarmeria vaticana. È in questo clima che nel corso del tempo gli Affari Generali, guidati dal cardinale Angelo Becciu, assumono le funzioni di una sorta di dicastero delle finanze. In questo contesto vanno collocati i privilegi di cui la famiglia del cardinale Becciu ha usufruito nel corso di questi anni. Secondo gli inquirenti, modalità non in linea con i regolamenti della Santa Sede sarebbero quelle con cui sono stati gestiti i fondi anche in favore di enti terzi, come la Diocesi di Ozieri. Come raccontato in precedenza, è la diocesi a far da ponte per far arrivare alla cooperativa Spes, gestita dal fratello di Angelo Becciu, Tonino, circa 800 mila euro della Conferenza episcopale italiana e della Segreteria di Stato. Di contatti e pubbliche utilità è invece la natura del progetto Birra Pollicina dell’altro fratello del cardinale, Mario Becciu, docente di psicologia alla Pontificia università salesiana, che, come racconta il report sulle finalità del progetto, aveva intenzione di coinvolgere, oltre alla Caritas di Roma per il co-marketing della birra, l’ospedale Bambino Gesù per la realizzazione del progetto pilota sull’inserimento dei ragazzi con spettro autistico, le abbazie per la produzione di birre di tipo abbaziale, il Cnos dei salesiani per la formazione professionale. Fanno parte del progetto anche il figlio Francesco Maria Becciu e il cognato Francesco Colasanti. Il tutto finanziato dalla generosità di Antony Mosquito, tycoon angolano, amico del cardinale Becciu e di conseguenza amico anche di Mario. L’amicizia e il “tengo famiglia” non sono reati ma tutti gli attori di questo progetto incrociano i vari ambiti degli affari della Segreteria di Stato. Quel «metodo Becciu» di cui il presule sardo non è l’ideatore ma che ha saputo ben collaudare. La conclusione dell’inchiesta non dipanerà tutte le domande intorno all’indotto economico generato dai protagonisti di questa vicenda poiché le autorità svizzere ancora non hanno liberato tutta la documentazione intorno ai conti correnti degli indagati. Il via libera potrebbe giungere però anche durante il dibattimento. Il panorama di corruttela emerso da questa inchiesta ha generato una serie di “motu proprio” sulla giustizia di Papa Francesco. A novembre aveva già spostato la cassa della Segreteria di Stato sotto la giurisdizione dell’Apsa e ha poi abrogato la norma dell’ordinamento giudiziario vaticano per cui solamente la Cassazione, previo assenso dello stesso Pontefice, poteva processare vescovi e cardinali nelle cause penali e ha varato una nuova legge contro la corruzione per dirigenti e amministrativi vaticani che devono essere incensurati, dichiarare di non avere condanne o indagini in corso per terrorismo, riciclaggio, evasione fiscale, non avere beni nei paradisi fiscali o investire in aziende che operano contro la dottrina della Chiesa. Anche i dipendenti non potranno ricevere doni per un valore superiore ai 40 euro. A prescindere dai processi, sembra comunque finito il tempo delle ombre nella Chiesa di Roma, che ha elevato agli altari due settimane fa il magistrato martire di mafia Rosario Livatino, istituendo anche un gruppo di studio per la «scomunica alle mafie». La barca di Gianluigi Torzi non solcherà i mari, ma quella di Pietro continuerà la rotta «senza né oro né argento». Nonostante le burrasche.

I mercanti nel tempio e il dovere del giornalismo. Marco Damilano il 3 luglio 2021 su L'Espresso. Il rinvio a giudizio del cardinale Angelo Becciu conferma lo scrupolo del lavoro fatto dall’Espresso che per primo rivelò gli scandali della finanza vaticana il settembre scorso. Finendo al centro di un attacco tra richieste di risarcimenti milionari e macchine del fango sui suoi cronisti. «L'iniziativa giudiziaria è direttamente collegabile alle indicazioni e alle riforme di Sua Santità Papa Francesco, nell'opera di trasparenza e di risanamento delle finanze vaticane; opera che, secondo l'ipotesi accusatoria, è stata contrastata da attività speculative illecite e pregiudizievoli...». Più ancora che la storica richiesta di rinvio a giudizio per il cardinale Giovanni Angelo Becciu, per la prima volta un cardinale va a processo in Vaticano per peculato, abuso d'ufficio anche in concorso e perfino subornazione, colpiscono le righe finali della nota con cui la Santa Sede ha comunicato la decisione. L'accusa di aver ostacolato e contrastato l'azione di rinnovamento di papa Francesco a carico di un personaggio di spicco della gerarchia vaticana, fino al 2017 il numero tre, e di una conventicola di monsignori collaboratori del cardinale (con l'eccezione rilevante di monsignor Alberto Perlasca che non figura tra i rinviati a giudizio), funzionari, affaristi, con una «vasta rete di relazioni che hanno generato consistenti perdite nelle finanze vaticane, avendo attinto anche alle risorse destinate alle opere di carità personale del Santo Padre». Un cardinale potente e influente, fino al 2017 numero tre della gerarchia vaticana, viene accusato non solo di peculato ma anche di aver cospirato contro il papa per bloccarne l'azione. Siamo solo all'inizio, il processo comincerà il 27 luglio. E il cardinale avrà modo di dimostrare la sua innocenza, se riuscirà. Ma già da oggi va fissato qualche punto fermo. I lettori dell'Espresso conoscono bene questa vicenda. Nel numero in edicola domenica 27 settembre pubblicammo la prima puntata dell'inchiesta firmata da Massimiliano Coccia e la copertina con l'immagine di papa Francesco e il titolo «Fuori i mercanti dal tempio», il numero che avevamo chiuso in redazione nel tardo pomeriggio di mercoledì 23 settembre. Ma il caso esplose il giorno dopo, perché la sera di giovedì 24 il cardinale Becciu fu ricevuto dal papa e privato delle prerogative dovute alla dignità cardinalizia, prima fra tutte il diritto di partecipare a un futuro conclave per scegliere il papa da elettore del Sacro Collegio. Il giorno dopo, in una scomposta conferenza stampa, Becciu attribuì la cacciata a una inchiesta per peculato. Confermata oggi. Mai l'Espresso fu citato in quella sede. Nelle settimane successive, però, il cardinale ha preferito dimenticarsi di quanto da lui stesso affermato. E ha scelto di indicare un colpevole per la sua disavventura giudiziaria: il nostro giornale, la nostra redazione, il nostro lavoro, il nostro cronista. Ha chiesto dieci milioni di euro di danni con almeno due motivazioni sorprendenti. La prima: nella decisione di estrometterlo il papa sarebbe stato fortemente influenzato, se non addirittura manipolato, dalla lettura dell'Espresso, la cui copia avrebbe ricevuto in anticipo. La seconda: Becciu si è sentito danneggiato nella sua scalata, si sentiva infatti tra i papabili del prossimo conclave e l'inchiesta dell'Espresso lo avrebbe ostacolato nell'ascesa al papato, evidentemente quantificato in dieci milioni di euro: tanto vale il soglio di Pietro, la successione al Pescatore scelto duemila anni fa da Gesù come suo Vicario in terra. Ho già avuto modo di scrivere che il signor Becciu, cittadino italiano, ha tutto il diritto di difendersi se si è sentito diffamato: il procedimento è in corso. Ma un cardinale che ha giurato fedeltà al papa “usque effusionem sanguinis”, fino alla morte, non può dichiarare che il Pontefice si fa manipolare da un'inchiesta giornalistica. In questi mesi è stata scatenata anche una campagna giornalistica contro l'Espresso, da parte di qualche anziana firma che già era scivolata in passato sulle patacche vaticane, oggi in difficoltà nella propria testata, e da qualche personaggio uso più a servizi e servigi che all'informazione. Per salvare Becciu e i suoi, gli esperti della macchina del fango hanno provato a intimidire il nostro giornale e hanno rovesciato contro il giornalista Massimiliano Coccia un carico di accuse sul piano personale che nulla avevano a che fare con l'inchiesta. Rilanciati, poi, dal branco online degli anti-Bergoglio che per mesi hanno previsto un perdono papale per il cardinale, addirittura ipotizzato un rilancio della sua carriera di funzionario di Dio. Il rinvio a giudizio di oggi conferma lo scrupolo del nostro lavoro. A noi non spettano condanne e assoluzioni, né su un piano penale, né tantomeno su un piano umano o cristiano. A noi spetta la ricerca della verità. Il mestiere del giornalista è una umile, paziente ricostruzione di dati, fatti, vicende che sono utili per l'opinione pubblica per sapere e per capire quanto accade. In questo caso, uno scontro di potere gigantesco nel cuore della Chiesa cattolica, il tradimento del messaggio di rinnovamento di papa Francesco, il tentativo di un gruppo di sodali di impossessarsi di quanto c'è più caro ai fedeli. Una settimana fa, domenica 27 giugno, mi è capitato di assistere a una messa estiva di fine pomeriggio con pochi fedeli e un prete anziano. Si raccoglievano le offerte per il papa, in vista della festa del 29 giugno, i santi Pietro e Paolo. Poche monete infilate in un cestino. Ho pensato in quel momento che anche quegli sparuti fedeli coraggiosi nella calura estiva hanno il diritto di sapere se quei pochi centesimi sono destinati ai poveri oppure a qualche finanziere svizzero o a qualche prelato arraffone o a principe della Chiesa che ha tradito la sua missione. Per questo valeva la pena scriverne e continuare a ripeterlo oggi con la certezza di aver svolto il nostro lavoro di informare. Fuori i mercanti dal tempio.

Becciu: «I magistrati? Porci». E a Perlasca disse: «Scarica Signal, cancella i messaggi». L'accusa: «Marcio sistema predatorio». Fabrizio Massaro e Gian Guido Vecchi il 3 luglio 2021 su Il Corriere della Sera. Perlasca (che non sarà processato): «Non chiesi spiegazioni sui soldi alla coop. Ci hanno insegnato così: se il superiore non ti dice, tu non devi sapere né domandare». L’idea di «sbugiardare» sulla stampa i promotori. La difesa: una macchinazione. «Porci». Così il cardinale Angelo Giovanni Becciu avrebbe appellato i magistrati vaticani che indagavano sugli investimenti della Segreteria di Stato da lui diretta, parlando con il suo ex braccio destro, monsignor Alberto Perlasca, secondo quanto lo stesso monsignore ha riferito agli inquirenti. Lo avrebbe detto dopo aver saputo proprio da Perlasca che in un suo interrogatorio si era accennato ai soldi fatti avere dal cardinale alla sedicente agente segreta Cecilia Marogna, anche lei imputata nell’inchiesta vaticana. C’è anche questo nei quasi 500 pagine della richiesta di citazione a giudizio presentata dai magistrati il 1 luglio. Emerge fra l’altro che Becciu per tutelarsi maggiormente nelle conversazioni utilizzava anche la chat criptata Signal, che suggerì anche a Perlasca di scaricare. Becciu, imputato è imputato per peculato, abuso d’ufficio e subornazione, cioè l’istigazione nei confronti di monsignor Alberto Perlasca — per anni il suo braccio destro nella Sezione affari generali della Segreteria di Stato, a dire falsa testimonianza.

Il memoriale di Perlasca. Perlasca lo riferisce nel memoriale che ha presentato ai promotori di giustizia. Il caso Marogna arriva sul tavolo dei magistrati dopo una segnalazione nell’aprile 2020 da parte della Nunziatura di Lubiana relativa alla manager cagliaritana e alla sua società Logsic, pochi giorni prima che Perlasca venisse sentito dai promotori. «Due giorni dopo l’interrogatorio – scrive Perlasca — andai dal Card. Becciu e gli riferii tutto quello che mi aveva detto il magistrato. Lui rimase molto turbato che si fosse parlato di questo argomento (disse: che porci!), e mi rimproverò aspramente per aver mantenuto nel telefonino i messaggi che lui mi aveva inviato e che avrei invece dovuto cancellarli. Io gli dissi che non ne vedevo il motivo, dal momento che lui mi aveva detto che l’operazione era stata voluta dal Santo Padre e quindi io pensavo di agire correttamente. In quella circostanza, mi disse di conoscere quella donna, che era del Dis. Mi disse di sapere che sarebbe stata costituita una società, ma che non sapeva che era stata costituita in Slovenia».

Le chat su Signal. In un interrogatorio successivo, Perlasca racconta che quando riferì a Becciu delle domande «sulla vicenda della Slovenia, egli effettivamente rimase molto contrariato (…) Mi fece scaricare l’applicazione Signal precisandomi che attraverso tale applicativo le chat si autodistruggono in maniera indelebile dopo poco tempo. Poi quando gli dissi di aver appreso che gli inquirenti avevano accertato che le somme inviate per la liberazione della suora erano andate almeno parzialmente per spese voluttuarie, egli rispose che l’indomani avrebbe telefonata alla signora affinché reintegrasse quanto prelevato indebitamente». Quanto riferito da Perlasca, sottolineano gli inquirenti vaticani, «è particolarmente significativo se si considera che all’epoca, fine mese di aprile 2020, Angelo Becciu, come evidenziato, non era nemmeno sospettato di aver avuto concorso nella commissione di alcun reato».

L’intervento del cardinale. Sottolineano gli inquirenti che Becciu, dal 2011 al 2018 Sostituto alla Segreteria di Stato, di fatto il numero tre della gerarchia vaticana, non entra subito nell’inchiesta. sugli investimenti finanziari della Segreteria di Stato. L’indagine è stata portata avanti dai promotori a partire dall’estate 2018 in seguito a una doppia denuncia dello Ior e del Revisore generale della Santa Sede. Il ruolo del cardinale comincia a delinearsi a maggio 2020, come «autore di gravissime iniziative di interferenza con le indagini in corso in concomitanza con momenti delicatissimi delle stesse», scrivono i promotori Gian Piero Milano, Alessandro Diddi e Gianluca Perone nella richiesta di citazione a giudizio.

Le pressioni attraverso il vescovo di Como. Perlasca — che era inizialmente indagato ma non è tra i rinviati a giudizio — avrebbe subito da Becciu pressioni per ritrattare facendo leva sull’autorità del superiore di Perlasca, il vescovo di Como Oscar Cantoni. A far scattare la contestazione è una lettera inviata il 10 marzo 2021 da Perlasca agli inquirenti vaticani nella quale «denunciava, sostanzialmente, la gravissima pressione subita per il tramite del Vescovo di Como, Oscar Cantoni», per indurlo, «paventando condanne per falsa testimonianza, a ritrattare quanto da lui dichiarato ai magistrati». Perlasca ha detto «di essere certo che il vescovo di Como avesse ricevuto la richiesta del Cardinale» in tal senso. «Il messaggio che mi è stato fatto pervenire — spiega Perlasca nell’interrogatorio - è che se non ritratto io posso essere condannato ad una pena di almeno sei mesi perché tutto ciò che ho dichiarato è una menzogna». Alla domanda se fosse certo che il vescovo di Como avesse ricevuto indicazioni da Becciu sul punto, il prelato risponde: «Non ho motivi di dubitare della sincerità di ciò che Sua Eccellenza Cantoni mi ha riportato».

Il vincolo di obbedienza. Ascoltato dagli inquirenti ad aprile scorso, Cantoni avrebbe poi confermato la circostanza riferita da Perlasca. «Non può sfuggire la particolare gravità dell’accaduto oltre che per le ricadute sulla genuinità della prova, anche per lo strumento impiegato da Becciu il quale, al fine di indurre Mons. Alberto Perlasca a ritrattare le sue dichiarazioni, ha tentato di utilizzare le leve dei doveri di obbedienza gerarchica», sottolineano i magistrati vaticani, richiamando le dichiarazioni dello stesso Perlasca sul punto: «Voglio specificare che il Cardinale Becciu si è rivolto a sua Eccellenza Cantoni perché nei miei confronti esiste un rapporto di tipo gerarchico e di obbedienza ed è proprio per questa ragione che ho ritenuto di informare l’Autorità Giudiziaria di ciò che è successo. Non oso pensare in quale imbarazzo mi sarei trovato laddove Sua Eccellenza Cantoni anziché riportarmi il messaggio proveniente dal Cardinale Becciu nei termini in cui sono stati da me rappresentati, mi avesse imposto una ritrattazione».

Il bonifico alla coop: «Mi hanno insegnato a non chiedere spiegazioni». Perlasca mette inoltre a verbale il 30 agosto 2020 che Becciu gli aveva chiesto di fare un bonifico da 100 mila euro a una cooperativa in Sardegna, perché era in difficoltà: «Dal momento che non mi aveva detto nulla, era segno che io non dovevo sapere. A noi hanno insegnato così: se il superiore non ti dice, è segno che tu non devi sapere (né domandare)». Per aggirare i controlli antiriciclaggio, Becciu stesso — racconta Perlasca — propose di trasmettere l’importo alla Caritas di Ozieri con causale «opere di carità del Santo Padre». Perlasca dice che non sapeva che servissero per la fabbrica di birra del fratello di Becciu. Il cardinale inoltre avrebbe «caldeggiato» anche il concerto di beneficenza offerto da Claudio Baglioni, scrivono i magistrati.

I giornalisti «compiacenti». Inoltre — evidenziano i promotori — Perlasca ha sottolineato la particolare abilità del superiore nel gestire la comunicazione per veicolare notizie verso giornalisti compiacenti». C’è un episodio che pare confermarlo: «Al momento giusto bisognerà fare una bella campagna stampa!!», scrive a gennaio 2020 Becciu in un messaggio inviato a Enrico Crasso, il gestore segreto delle finanze vaticane «Anzi lei potrebbe farla subito. Chieda al suo avvocato se è il caso di sbugiardare subito i nostri magistrati!».

La difesa del cardinale: una macchinazione ai miei danni. «Sono vittima di una macchinazione ordita ai miei danni, e attendevo da tempo di conoscere le eventuali accuse nei miei confronti, per permettermi prontamente di smentirle e dimostrare al mondo la mia assoluta innocenza». Si difende così pubblicamente il cardinale Becciu dopo la notizia del rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta legata allo scandalo del palazzo londinese. «In questi lunghi mesi — scrive il cardinale attraverso il legale Fabio Viglione — si è inventato di tutto sulla mia persona, esponendomi ad una gogna mediatica senza pari al cui gioco non mi sono prestato, soffrendo in silenzio, anche per il rispetto e la tutela della Chiesa, a cui ho dedicato la mia intera vita. Solo considerando questa grande ingiustizia come una prova di fede riesco a trovare la forza per combattere questa battaglia di verità. Finalmente — dice Becciu — sta arrivando il momento del chiarimento, ed il tribunale potrà riscontrare l’assoluta falsità delle accuse nei miei confronti e le trame oscure che evidentemente le hanno sostenute e alimentate».

Quali sono gli investimenti dell’«era Becciu» nel mirino degli inquirenti in Vaticano. Fabrizio Massaro il 3 luglio 2021 su Il Corriere della Sera. L’inchiesta del Vaticano che ha portato sabato 3 luglio al rinvio a giudizio di dieci persone, con in testa il cardinale Angelo Giovanni Becciu, ha al centro «investimenti finanziari della Segreteria di Stato a Londra», utilizzando i fondi dell’Obolo di San Pietro, ovvero le donazioni dei fedeli di tutto il mondo al Papa.

Il palazzo di Londra, comprato tre volte. È il famoso palazzo al 60 di Sloane Avenue, ex magazzino di Harrods, che la Segreteria di Stato ha di fatto acquistato tre volte: la prima, nel 2013-2014 quando l’ufficio guidato dall’allora Sostituto alla Segreteria — di fatto il numero tre del Vaticano — Becciu decide di investire 200 milioni di dollari nel fondo Athena di Raffaele Mincione, dopo aver accantonato l’iniziale ipotesi di entrare nello sviluppo di una piattaforma petrolifera offshore in Angola. La seconda volta quando, a novembre 2018, la sezione affari generali della Segreteria — guidata da un mese e mezzo dal successore di Becciu, monsignor Edgar Peña Parra — decise di sciogliere i legami con Mincione uscendo dal fondo Athena in forte perdita; in quell’occasione la Segreteria verserà al finanziere 40 milioni di sterline (44 milioni di euro) per comprare il 45% dell’immobile che ancora non possedeva, ma a una valutazione che i promotori di giustizia (i pm vaticani) ritengono eccessiva. La terza volta nel maggio 2019 quando verserà altri 15 milioni di euro al broker Gianluigi Torzi, al quale si era affidata per subentrare a Mincione nella proprietà dell’immobile. In totale, il Vaticano avrà investito nel palazzo più di 300 milioni di euro, con una perdita stimata dal monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa, fra 73 e 166 milioni di euro.

Il cardinale a processo. Ma nell’inchiesta è finito — ed è clamoroso, perché è la prima volta che accade — il cardinale Becciu, che sarà processato da un tribunale comune vaticano, al pari dei laici, e non dai suoi pari come accade per i cardinali. Lo ha deciso Papa Francesco con un motu proprio. A Becciu verrebbe contestato il versamento di oltre 500 mila euro alla sedicente agente segreta Cecilia Marogna, sulla società slovena Logsic Humanitarne Dejavnosti, D.O.O. I reati ipotizzati per il cardinale sono peculato, abuso d’ufficio in concorso ma c’è anche la «subornazione», un reato che si compie quando viene ostacolata la giustizia inducendo monsignor Alberto Perlasca — prima indagato, poi diventato un testimone chiave — a dire falsa testimonianza ritrattando le sue dichiarazioni sugli affari della Segreteria di Stato. Un reato quanto mai grave per la giustizia, un peccato mortale per un cristiano.

Le altre operazioni: la Sardegna e di nuovo Londra. Ci sono poi le contestazioni sui soldi fatti avere in Sardegna alla Caritas di Ozieri per finanziare la cooperativa Spes del fratello di Becciu che produce birra e gli appalti al fratello falegname per la fornitura di finestre ad alcune nunziature all’estero, l’intervento per far rivendere il palazzo di Londra ad alcuni fondi immobiliari con l’intermediazione fra gli altri dell’ex sottosegretario Giancarlo Innocenzi Botti e dell’imprenditore Marco Simeon. E c’è anche un altro grande investimento a Londra, appartamenti sempre nel centro della città attraverso il fondo Sloane & Cadogan con la partecipazione del finanziere Alessandro Noceti.

Perlasca fuori dall’inchiesta. La richiesta di processo del Promotore di giustizia a carico di dieci persone e quattro società nell’ambito della vicenda della compravendita dell’immobile consegna già un primo responso: esce di scena monsignor Alberto Perlasca, ex braccio destro di Angelo Becciu. All’epoca in cui era Sostituto agli Affari generali come capo ufficio amministrativo della prima sezione della Segreteria di Stato, era finito anche lui tra gli indagati per lo scandalo legato al palazzo di Londra: indicato come la figura chiave per scoperchiare gli intrecci finanziari della Santa Sede, il suo nome non compare tra coloro che devono essere giudicati, dunque, dall’inchiesta non sono emerse responsabilità nei suoi confronti. Perlasca è stato il responsabile degli investimenti finanziari della Segreteria dal 2009 ed è stato colui ha avviato i rapporti con Mincione e continuato quelli con il banchiere segreto del Vaticano, Enrico Crasso, anch’egli tra gli imputati per più ipotesi di reato tra le quali corruzione, truffa, peculato. Coinvolte per truffa anche le società finanziarie di Crasso Sogenel Capital Investment, Prestige Family Office SA e HP Finance LLC ma non il fondo maltese Centurion, che aveva usato 60 milioni in gestione dalla Segreteria di Stato per investimenti speculativi, compreso l’ingresso in Italia Independent di Lapo Elkann e il finanziamento del film biografico su Elton John, Rocketman.

Anche gli ex vertici dell’Aif. Il processo avrà inizio all’udienza del prossimo 27 luglio. La richiesta di citazione a giudizio è stata presentata nei giorni scorsi dall’Ufficio del Promotore di Giustizia, nelle persone del Promotore Gian Piero Milano, dell’Aggiunto Alessandro Diddi e dell’Applicato Gianluca Perone e riguarda personale ecclesiastico e laico della Segreteria di Stato e figure apicali dell’allora Autorità di Informazione Finanziaria (Aif, osa Asif) come l’ex presidente René Brülhart (finora mai emerso come nome) e l’ex direttore generale Tommaso Di Ruzza, perché avrebbero aiutato ad aggirare i controlli antiriciclaggio per consentire al Vaticano di pagare i 15 milioni a Torzi.

«Un marcio sistema predatorio e lucrativo». Commentano alla fine gli inquirenti che dalle carte «emerge un intreccio quasi inestricabile tra persone fisiche e giuridiche, fondi di investimento, titoli finanziari» che sono protagonisti di «vicende ordinate appositamente e variamente interessate ad attingere alle risorse economiche della Santa Sede, spesso senza alcuna considerazione delle finalità e dell’indole della realtà ecclesiale». Insomma, un «marcio sistema predatorio e lucrativo» di «soggetti estranei alla natura ecclesiale» ma «talora reso possibile grazie a limitate ma assai incisive complicità e connivenze interne». Niente di più lontano «dai correnti standard internazionali seguiti dalle attività a contenuto economico-finanziario» della Santa Sede. Ed inoltre «questo sconfortante esito appare ulteriormente aggravato» dalla circostanza che tutto ciò sia avvenuto «drenando ingenti quantità di denaro e somme raccolte nell’Obolo di San Pietro, che nel corso dei secoli ha attinto ai più intimi impulsi della comunità ecclesiale». Quelli della carità cristiana.

Il caso degli investimenti finanziari. Scandalo Vaticano, a processo il cardinale Becciu e altri 9: accusati di truffa, peculato e abuso d’ufficio. Redazione su Il Riformista il 3 Luglio 2021. Dieci persone sono state rinviate a giudizio per la vicenda legata agli investimenti finanziari della Segreteria di Stato vaticana a Londra. Tra le persone finite a processo ci sono: il cardinale Giovanni Angelo Becciu, nei cui confronti si procede per i reati di peculato ed abuso d’ufficio anche in concorso, nonché di subornazione; René Brülhart, al quale l’accusa contesta il reato di abuso d’ufficio; monsignor Mauro Carlino, al quale l’accusa contesta i reati di estorsione e abuso di ufficio; Enrico Crasso, al quale l’accusa contesta i reati di peculato, corruzione, estorsione, riciclaggio ed autoriciclaggio, truffa, abuso d’ufficio, falso materiale di atto pubblico commesso dal privato e falso in scrittura privata; Tommaso Di Ruzza, al quale l’accusa contesta i reati di peculato, abuso d’ufficio e violazione del segreto d’ufficio; Cecilia Marogna, alla quale l’accusa contesta il reato di peculato; Raffaele Mincione, al quale l’accusa contesta i reati di peculato, truffa, abuso d’ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio; Nicola Squillace, al quale l’accusa contesta i reati di truffa, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio; Fabrizio Tirabassi, al quale l’accusa contesta i reati di corruzione, estorsione, peculato, truffa e abuso d’ufficio; Gianluigi Torzi, al quale l’accusa contesta i reati di estorsione, peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio. La richiesta di citazione a giudizio riguarda anche HP Finance LLC, riferibile ad Enrico Crasso, alla quale l’accusa contesta il reato di truffa; Logsic Humanitarne Dejavnosti, D.O.O., riferibile a Cecilia Marogna, alla quale l’accusa contesta il reato di peculato; Prestige Family Office SA, riferibile ad Enrico Crasso, alla quale l’accusa contesta il reato di truffa; e Sogenel Capital Investment, riferibile ad Enrico Crasso, alla quale l’accusa contesta il reato di truffa.  Il processo avrà inizio all’udienza del prossimo 27 luglio. La richiesta di citazione a giudizio è stata presentata nei giorni scorsi dall’Ufficio del Promotore di Giustizia, nelle persone del Promotore Gian Piero Milano, dell’Aggiunto Alessandro Diddi e dell’Applicato Gianluca Perone. Le attività istruttorie, svolte anche con commissioni rogatoriali in numerosi altri paesi stranieri (Emirati Arabi Uniti, Gran Bretagna, Jersey, Lussemburgo Slovenia, Svizzera), hanno consentito di portare alla luce una vasta rete di relazioni con operatori dei mercati finanziari che hanno generato consistenti perdite per le finanze vaticane, avendo attinto anche alle risorse, destinate alle opere di carità personale di Papa Francesco. “Le indagini, avviate nel luglio 2019 su denuncia dell’Istituto per le Opere di Religione e dell’Ufficio del Revisore Generale, hanno visto piena sinergia tra l’Ufficio del Promotore e la sezione di Polizia giudiziaria del Corpo della Gendarmeria – spiega un comunicato della Sala stampa della Santa Sede -. Le attività istruttorie sono state compiute altresì in stretta e proficua collaborazione con la Procura di Roma ed il Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Roma. Apprezzabile anche la cooperazione con le Procure di Milano, Bari, Trento, Cagliari e Sassari e le rispettive sezioni di polizia giudiziaria”. La Segreteria di Stato del Vaticano si costituirà parte civile nel processo che verrà celebrato nei confronti del cardinale Angelo Becciu e di altri nove rinviati a giudizio nell’ambito dell’inchiesta legata allo scandalo del palazzo londinese. A rappresentarla sarà l’avvocato Paola Severino.

LA DIFESA DI BECCIU – “Sono vittima di una macchinazione ordita ai miei danni, e attendevo da tempo di conoscere le eventuali accuse nei miei confronti, per permettermi prontamente di smentirle e dimostrare al mondo la mia assoluta innocenza”. E’ quanto afferma in una nota il cardinale Giovanni Angelo Becciu, dopo il rinvio a giudizio nell’inchiesta sui fondi della Segreteria di Stato. “In questi lunghi mesi si è inventato di tutto sulla mia persona, esponendomi ad una gogna mediatica senza pari al cui gioco non mi sono prestato, soffrendo in silenzio, anche per il rispetto e la tutela della Chiesa, a cui ho dedicato la mia intera vita. Solo considerando questa grande ingiustizia come una prova di fede riesco a trovare la forza per combattere questa battaglia di verità” – conclude – “In questi lunghi mesi si è inventato di tutto sulla mia persona, esponendomi ad una gogna mediatica senza pari al cui gioco non mi sono prestato, soffrendo in silenzio, anche per il rispetto e la tutela della Chiesa, a cui ho dedicato la mia intera vita. Solo considerando questa grande ingiustizia come una prova di fede riesco a trovare la forza per combattere questa battaglia di verità”. 

D.A. per “la Repubblica” il 4 luglio 2021. «Sono vittima di una macchinazione ordita ai miei danni. Attendevo da tempo di conoscere le eventuali accuse nei miei confronti, per dimostrare al mondo la mia innocenza». Questo il commento di Angelo Becciu alla richiesta di essere sottoposto al processo che inizierà il 27 luglio presso il Tribunale vaticano. «In questi lunghi mesi - ha aggiunto Becciu - si è inventato tutto sulla mia persona, esponendomi a una gogna mediatica senza pari al cui gioco non mi sono prestato, soffrendo in silenzio... ma considero questa grande ingiustizia come una prova di fede». Alla reazione di Becciu si aggiunge quella dei legali del broker Gianluigi Torzi. «Trovo inaccettabile - ha dichiarato l'avvocato Ambra Giovene - che si fissi un processo il 27 luglio perché non ci viene dato il tempo di organizzare una difesa seria». Anche Cecilia Marogna respinge le accuse e per bocca del suo legale, Riccardo Sindona, si dice estranea «a chi ha operato sul fronte londinese in acquisizioni a vario titolo su cui non è mai stata chiamata ad esprimersi dalla Segreteria di Stato». È convinto della sua innocenza («un abbaglio processuale») anche René Brülhart, l'ex-presidente dell' Autorità di informazione finanziaria del Vaticano accusato di abuso d' ufficio, perché - insieme all' ex-direttore dell' Aif Tommaso Di Ruzza - avrebbe favorito il pagamento dei 15 milioni richiesti da Gianluigi Zorzi.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 4 luglio 2021. Una serie di personaggi «spesso improbabili se non improponibili», protagonisti «di un marcio sistema predatorio e lucrativo» che aveva lo scopo di drenare «ingenti quantità di somme raccolte nell’Obolo di San Pietro» che per secoli «ha attinto ai più intimi impulsi della comunità ecclesiale, sollecitata all’assolvimento del precetto della carità e assistenza al prossimo». Le quasi 500 pagine della richiesta di rinvio a giudizio redatta dalla procura vaticana al termine di due anni d’indagine vanno ben oltre il palazzo di Sloane Avenue a Londra diventato il simbolo di questa storia. E raccontano dettagliatamente quasi dieci anni di finanza opaca e spregiudicata, di corrotti e corruttori, alti prelati, ex ministri e faccendieri, di spoliazione sistematica di risorse altrui - come quelle di Enasarco, una vicenda che in qualche modo è la genesi dello scandalo del palazzo di Londra, di bonifici milionari in conti nei paradisi fiscali - da Dubai alla Repubblica Dominicana - per finire nelle disponibilità dei protagonisti delle malefatte. E più tradizionali mazzette di banconote passate di mano ai tavoli di un bar. Come quelli che Gianluigi Torzi, uno dei personaggi centrali della storia, manda a prendere a Milano dal suo autista Michelino: partenza di buon mattino dalla capitale e fugace incontro in stazione con uno dei soci di Torzi per tornare a Roma entro l’ora di pranzo, in modo da poter effettuare la consegna del denaro come pattuito (nel caso specifico a Fabrizio Tirabassi, secondo la procura vaticana, ex funzionario della Segreteria, risultato molto più ricco di quanto gli inquirenti ritengano legittimo). Dello stesso Torzi è la frase più emblematica di come l’attività predatoria non conosca limiti, né barriere di sorta, tanto meno quelle imposte dalla fede. Mette allo stesso tavolo l’ex ministro Franco Frattini, un avvocato d’affari, un professore legato al vaticano e l’ex vice primo ministro libico Ahmed Maiteg. Scatta una foto dell’allegra tavolata e la invia a un amico con il seguente commento: «La f... unisce tutte le religioni». Maiteg rappresenta la Libyan Investment Authority, socia di Retelit e oggetto delle attenzioni di Torzi e di Raffaele Mincione, l’altro finanziere di questa storia. A Maiteg, Torzi pagherà una vacanza in Sardegna, 50.400 euro per 4 notti nel luglio del 2018, mentre cerca di convincere i libici di far assumere la presidenza di Retelit a Mincione, che a sua volta aveva la scalato la società di telecomunicazioni con i soldi dell’Obolo e assunto Giuseppe Conte, quando ancora era solo un avvocato, come consulente. A Frattini - che era nell’advisory board di una società di Torzi, con l’ex ministro Giulio Tremonti e l’ex ambasciatore Giovanni Castellaneta - finisce anche un bonifico da 30 mila euro da una società di Torzi, solo che la causale fa riferimento a una prestazione che sarebbe stata svolta da un’altra società. C’è il retroscena della scalata di Mincione a Carige, fatta secondo la ricostruzione di questa indagine anche con i soldi di Gabriele Volpi, petroliere ed ex patron dello Spezia calcio, da questo «girati» a Torzi tramite un acquisito di azioni a prezzo maggiorato e da questo prestati a Mincione per contrastare la famiglia Malacalza, allora primo socio della banca genovese. E tutti gli investimenti spericolati compiuti con i soldi dell’Obolo: dal fondo specializzato in variabili geopolitiche alle quote d’improbabili società, dal trasporto di petrolio via fiume in Sudamerica fino ai palazzi dalle valutazioni strabilianti in acquisto e molto più ragionevoli in vendita. C’è poi il cardinale Becciu e gli affari suoi e dei suoi familiari. Le finestre delle nunziature vaticane in Egitto, Angola e Cuba rifatte tutte da una piccola falegnameria sarda. Quella del fratello del Cardinale. Ci sono gli investimenti nella birreria di famiglia e i milioni di euro partiti dalle casse vaticane e arrivati alla Coop Spes di Ozieri, che riferimento ad un altro fratello del prelato, Antonino. Solo che siccome avrebbe dato nell’occhio, i fondi passano attraverso un conto intestato alla Caritas di Ozieri con la causale «opere di carità del Santo Padre». È proprio Becciu che trova la soluzione per evitare troppi controlli, racconta Monsignor Perlasca a verbale. Lo stesso Becciu che chiama «porci» i magistrati che stanno indagando sui fondi della Segreteria di Stato e chiede a Perlasca di cancellare le chat e di installare Signal, un’app di messaggistica, perché più sicura. Da Becciu arrivano anche i soldi a Cecilia Marogna: dovevano servire, nelle giustificazioni fornite, per liberare ostaggi in giro per il mondo: sono stati utilizzati in viaggi e beni di lusso, per i quali risultano 120 pagamenti. In un caso - una vacanza in montagna - la Marogna ha postato la foto sui social e poi pagato il conto con i fondi arrivati dal Vaticano alla sua società in Slovenia. In un caso, i soldi vengono sollecitati da Becciu alla struttura vaticana per liberare una suora prigioniera in Colombia.

Daniele Autieri per “la Repubblica - Edizione Roma” il 4 luglio 2021. Dalla maxi inchiesta vaticana che ha portato alla richiesta della citazione a giudizio per 10 imputati, tra cui anche il cardinale Angelo Becciu, spunta adesso il Fatebefratelli. Nel mirino dell'Ufficio del promotore di giustizia del tribunale vaticano ci sarebbero alcune operazioni di cartolarizzazione dei crediti sanitari portate a termine dalla cricca dei finanzieri coinvolti nell' acquisto del palazzo di Londra da parte della Segreteria di Stato della Santa Sede. Una storia intricata che è bene spiegare partendo dall' antefatto. Tra il gennaio e il maggio del 2018 l'ospedale dell'isola Tiberina firma tre contratti per cedere i crediti vantati nei confronti della Asl Roma 1. Il sistema è semplice e consolidato: l'ospedale deve recuperare diversi milioni di euro dal sistema sanitario regionale e invece di attendere il pagamento, cede quel diritto a un soggetto terzo, generalmente un fondo, che in cambio riconosce già al momento della stipula del contratto una parte di quella cifra. Pochi, maledetti e subito, verrebbe da dire. La prima cessione dei crediti è alla società inglese Beaumont Invest Services. L' ospedale cede crediti per 18,5 milioni, il fondo gliene riconosce subito 14,8, ma l'ospedale incassa solo 11,2 milioni perché 3,6 vengono girati alla Odikon Service a titolo di commissione. Un discorso analogo avviene con la seconda cessione, ad un'altra società inglese (la Sunset Enterprise). In questo caso il corrispettivo totale sono 20 milioni, 16 per l'ospedale e 4 milioni di commissione. L' ultima parte del credito, da 36 milioni di euro, viene acquistata dalla Sierra One Spv al prezzo di 28,7 milioni. Stavolta le commissioni sono più alte che mai: 7,2 milioni, pari al 20% del valore del credito. «È del tutto evidente - scrivono i promotori di giustizia del Vaticano - come le varie commissioni corrisposte alla Odikon e alla Sunset siano prive di alcuna plausibile ragione economica visto che si tratta di schermi giuridici che in realtà hanno mediato con se stessi». E infatti gli inquirenti scoprono che tanto la Odikon quanto la Sunset Enterprise sono di fatto controllate da Gianluigi Torzi. Torzi, il broker italiano di base a Londra, è accusato nell' ambito della vendita del palazzo di Londra alla Santa Sede di estorsione, peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio. Secondo gli inquirenti il finanziere avrebbe estorto alla Segreteria di Stato vaticana 15 milioni di euro pur di cedere le quote di controllo del fondo proprietario del palazzo per cui la Santa Sede aveva investito oltre 100 milioni di euro. Forte dei suoi legami con il cardinale Angelo Becciu e con gli uomini della Segreteria di Stato, Torzi è divenuto un anello centrale per la distrazione dei fondi della Santa Sede, oltre che uno degli uomini che - secondo gli inquirenti - assicuravano il pagamento delle tangenti ad alcuni funzionari della Segreteria di Stato. Non è ancora chiaro quali rapporti presso la Santa Sede abbiano condotto Torzi fino alle porte del Fatebenefratelli. L' evidenza che emerge, mentre si attendono gli ulteriori sviluppi sulla vicenda, è che l'ospedale, già a un passo dal fallimento, in pieno concordato preventivo e alla ricerca di un acquirente che possa salvarlo, ha pagato milioni di euro di commissioni «senza alcuna plausibile ragione economica». 

Il cardinale Becciu a processo, rinviata a giudizio anche “la dama” Cecilia Marogna. Le Iene News il 05 luglio 2021. Il cardinale Angelo Becciu andrà a processo in Vaticano il 27 luglio per investimenti che avrebbero portato un danno alla Santa Sede di 400 milioni di euro. Altre 9 persone rinviate a giudizio. Tra queste c’è anche Cecilia Marogna: proprio del suo caso vi abbiamo parlato con Gaetano Pecoraro. Il caso continua a scuotere molti corridoi del Vaticano. È quello del cardinale Angelo Becciu, appena rinviato a giudizio per i reati di peculato, abuso d’ufficio in concorso e subordinazione. Altre 9 persone andranno a processo e tra queste c’è anche, per il reato di peculato, Cecilia Marogna di cui ci siamo occupati nel servizio di Gaetano Pecoraro che vedete qui sopra. L’inchiesta si è concentrata su una serie di investimenti, legati soprattutto all’acquisto di un immobile di lusso a Londra quando Becciu era sostituto alla Segreteria di Stato della Santa Sede, che avrebbero portato il Vaticano a perdere circa 400 milioni di euro. Il processo inizierà il 27 luglio per poi riprendere dopo la pausa di agosto. Papa Francesco aveva accettato nel settembre 2020, in mezzo a una bufera mediatica globale, le dimissioni di Becciu dall’incarico di Prefetto della Congregazione delle cause dei santi e dai diritti connessi al cardinalato (pur rimanendo cardinale non potrà più partecipare al Conclave e prendere parte al Concistoro). “Il Papa mi dice che non ha più fiducia in me perché gli è venuta la segnalazione che avrei commesso atti di peculato”, aveva raccontato in settembre Becciu, definendo quell’accusa “surreale”. Gaetano Pecoraro, come potete vedere nel servizio qui sopra, aveva indagato sul caso della “dama”, come è stata ribattezzata da tutti i giornali, Cecilia Marogna finendo fino in Slovenia e parlando anche con la donna nel servizio successivo. Al centro dell’attenzione, partendo da un documento esclusivo arrivatoci in una fonte anonima, c’erano 500mila euro del Vaticano che sarebbero stati destinati a una società umanitaria in Slovenia posseduta e amministrata da Marongia, che da altri documenti in nostro possesso risulterebbe legata da un rapporto fiduciario all'ex cardinale Becciu. Duecentomila di questi euro sarebbero stati spesi in più volte però per acquistare borse di grandi marchi e altri beni di lusso e non per le missioni umanitarie a cui sarebbero stati destinati. Cecilia Marogna fa sapere oggi all’Adnkronos dopo il rinvio giudizio, attraverso il suo procuratore in atti Riccardo Sindoca, che "non avendo nulla da dover nascondere ed occultare per quanto attesta il rapporto fiduciario intercorso tra la stessa e Becciu e il servizio svolto nell’esclusivo interesse della Segreteria di Stato e della Santa Sede, non ha e non ha mai avuto alcun motivo dal dover prendere distanze sia formali che sostanziali dall’allora Sua Eccellenza Reverendissima Cardinale Angelo Becciu avverso il quale immutato permane l’affetto nutrito".

Vaticano, con i soldi per i poveri anche un appartamento per la nipote del cardinale Angelo Becciu. Nuovi dettagli dall’inchiesta sull’uso dei fondi della Segreteria di Stato che ha portato al rinvio a giudizio del porporato e di altre nove persone. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 5 luglio 2021. È senza alcun ombra di dubbio l’inchiesta più lunga e complessa della storia della Santa Sede quella condotta dal Promotore di Giustizia Gian Piero Milano, dall’aggiunto Alessandro Diddi e dall’applicato Gianluca Perrone che ha visto l’epilogo col rinvio a giudizio del Cardinale Angelo Becciu, monsignor Mauro Carlino, Enrico Crasso, Tommaso Di Ruzza, Cecilia Marogna, Raffaele Mincione, Nicola Squillace , Fabrizio Tirabassi, Gianluigi Torzi e René Brülhart (già presidente dell’AIF). Un lavoro investigativo minuzioso che ha interessato tre livelli di approfondimento: finanziario, ecclesiastico e sanitario. Ci sono la truffa, il peculato, l’abuso d’ufficio, l’appropriazione indebita, il riciclaggio e autoriciclaggio, la corruzione, l’estorsione, il falso materiale in atto pubblico e quello in scrittura privata, la pubblicazione di documenti interni alla Santa Sede coperti dal segreto nelle motivazioni del rinvio a giudizio della magistratura vaticana, una lista di accuse che si snodano attraverso varie direttrici che gli stessi inquirenti si sono trovati a sintetizzare anche per evitare che la mole di vie secondarie prese dai denari vaticani potesse portare ad una inchiesta infinita. Il livello degli investimenti, il suo punto di caduta nei conti correnti bancari esterni alla Santa Sede, i portafogli delle società di gestione sono gli indizi iniziali che nell’estate del 2019 hanno portato lo Ior (Istituto per le Opere di Religione) e l’Ufficio del Revisore Generale  a presentare due denunce in cui in relazione alla compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra ravvedano i reati di truffa ed altre frodi che successivamente sarebbero state validate come visto dagli inquirenti. L’inchiesta nasce come noto dal buco di 400 milioni di euro generato dalla volontà di acquisto dell’immobile sito al 60 di Sloane Avenue a Londra, ma nella complessità delle 500 pagine che sintetizzano un lavoro lungo tre anni emerge uno spaccato corruttivo che travalica le Mura Vaticane e coinvolge il nuovo modus operandi della criminalità finanziaria internazionale. La Gendarmeria vaticana guidata dal Comandante Gianluca Gauzzi Broccoletti si è trovata a dover ricostruire i passaggi economici di circa 200 società utilizzate con maestria dai rinviati a giudizio per nascondere, camuffare e far planare in altri conti, le risorse che secondo i regolamenti vaticani non sarebbero mai potuti essere investiti. Uno spaccato che è anche un racconto della Chiesa pre-Bergoglio, dove la discrezionalità dei fondi e del loro utilizzo, la scarsa regolamentazione delle finanze e il disordine gestionale che ha creato varie strutture predatorie erano all’ordine del giorno. La vera svolta dell’inchiesta c’è stata quando Monsignor Alberto Perlasca, già membro dello staff di Angelo Becciu presso la Segreteria di Stato, ha iniziato a collaborare con gli inquirenti, uscendo come racconta in molte deposizioni da una condizione di subordinazione psicologica indotta dal presule sardo, al fine di condizionare la sua tenuta mentale durante le fasi dell’inchiesta. Perlasca racconterà agli inquirenti della ragnatela di relazioni di Becciu, del ruolo di primo piano che il collega di segreteria, Fabrizio Tirabassi avrà in tutta la vicenda, divenendo una sorta di amministratore delegato ombra delle commesse e delle estorsioni maturate ai danni della Santa Sede. Ma Perlasca racconta anche il doppio volto di Becciu, da un lato quello affabile e cordiale, alle volte brusco nei modi come un curato di campagna e dall’altro di intenso tessitore di interessi atti ad alimentare un conflitto di interessi personale enorme. A settembre in esclusiva sull’Espresso raccontammo come bonifici della Segreteria di Stato e della Conferenza Episcopale Italiana planarono sulla Cooperativa Spes del fratello del cardinale Antonino Becciu, 600.000 euro in totale dati in regime di assoluta discrezionalità, che come si legge nell’ordinanza “le donazioni provenienti dalla Segreteria di Stato contrariamente alle tesi difensive di Becciu, sarebbero state ampiamente utilizzate per finalità diverse da quelle caritatevoli cui erano destinate”. Una larga parte sarebbe stata utilizzata per secondi fini personali e famigliari, tra cui anche prestiti ad una nipote, Maria Luisa Zambrano per l’acquisto di una casa a Roma. Le carte degli inquirenti confermano anche i lavori svolti nelle varie nunziature apostoliche da parte della falegnameria di un altro fratello, Francesco Becciu, grazie anche alla complicità di Monsignor Bruno Musarò legato da uno stretto rapporto con i Becciu e che fu spostato abbastanza a sorpresa da Papa Francesco lo scorso anno dalla nunziatura in Egitto e spedito in Costa Rica. I lavori affidati al fratello falegname superano i 100 mila euro e per gli investigatori anche se non rappresentano un reato raccontano il metodo di Becciu. Questioni famigliari che Becciu ha sempre tenuto in primo piano nello svolgere la sua funzione pubblica come dimostrano i messaggi indirizzati al faccendiere Marco Simeon, a cui chiede di interessarsi al progetto della “Birra Pollicina” dell’altro fratello, il professor Mario Becciu, finanziato dal magnate angolano Antony Mosquito, amico del cardinale e al centro del primo affare a cui la cricca vaticana aveva rivolto le attenzioni e poi non andato in porto del petrolio angolano. Dagli atti della magistratura emerge anche una grande capacità di Becciu di veicolare le notizie sugli organi di informazione e di essere sicuro di riuscire ad indirizzare anche il racconto pubblico dell’inchiesta sul palazzo di Londra. Va ricordato che prima della riforma voluta da Bergoglio, il cardinale era anche responsabile dei media vaticani, tra cui TV2000 in cui troviamo negli organigrammi Antonella Becciu, sua nipote. Tante le circostanze da chiarire tra cui il ruolo di Cecilia Marogna, l’esperta di relazioni internazionali che ha speso quasi tutto quello che sarebbe dovuto servire per liberare ostaggi in negozi di Prada e altri marchi di alta moda e ha trascorso due notti negli appartamenti di Becciu. Va ricordata infine la manovra che cercò di mettere in atto in fase finale con Marco Simeon per riscattare il palazzo di Londra, mesi dopo non essere più Sostituto. Una manovra che vide coinvolti gli stessi uomini Mincione e Torzi che a piene mani specularono sugli affari e le illecite condotte dentro la Segreteria di Stato. Tutte circostanze che Becciu spiegherà ai giudici del Tribunale vaticano a partire dal 27 luglio, primo atto del maxiprocesso alla corruzione vaticana che cambierà la Chiesa che verrà.

Fabrizio Massaro e Mario Gerevini per il "Corriere della Sera" il 5 luglio 2021. Ora in Vaticano parte la caccia ai soldi. Gli investigatori del papa - i promotori di giustizia e la Gendarmeria - hanno inseguito in giro per il mondo i conti dei protagonisti dell'assalto all' Obolo di San Pietro riuscendo a far sequestrare in totale 64 milioni di euro. Soldi congelati per il momento in banche e società in Svizzera, Lussemburgo, Gran Bretagna ma anche presso lo Ior, in vista di una loro confisca in caso di condanna degli imputati. Non basteranno a coprire le perdite subite con gli investimenti realizzati sotto la gestione del cardinale Angelo Giovanni Becciu, Sostituto alla Segreteria, di monsignor Alberto Perlasca, a capo della sezione amministrativa e del laico Fabrizio Tirabassi uomo della finanza. Ma certamente serviranno a un Vaticano in crisi di liquidità e donazioni: nel 2020 l'Obolo ha raccolto appena 44 milioni, metà di quanto i fedeli inviavano solo qualche anno fa. Dei capitali sequestrati, ben 48 milioni sono di Raffaele Mincione, l'uomo a cui otto anni fa furono affidati 200 milioni di dollari da investire e che lui indirizzò per la metà verso il famoso palazzo di Londra (che era già suo) e per il resto in operazioni più che altro speculative, anche in Borsa. Altri 9,6 milioni sono stati sequestrati a Gianluigi Torzi, che nel novembre fu ingaggiato dalla Segreteria per rompere il rapporto con Mincione, con cui per altro era in rapporti d' affari. Poi 3,6 milioni del gestore Enrico Crasso, banchiere di fiducia dagli anni Novanta. L' elenco comprende anche circa 2 milioni di Fabrizio Tirabassi, e - presso lo Ior -308 mila euro di monsignor Mauro Carlino oltre a 242 mila euro di Perlasca, che però non è stato rinviato a giudizio. I sequestri mostrano chi - secondo i promotori di giustizia Gian Piero Milano, Alessandro Diddi e Gianluca Perone - avrebbe maggiormente approfittato delle ingenti (ma poco sorvegliate) disponibilità della Segreteria. Nelle 487 pagine della richiesta di citazione a giudizio ci si perde tra mille rivoli e decine di mani che hanno ricevuto parte dei denari destinati alla carità del Papa. La gestione Becciu - scrivono i magistrati - ha consentito che si creasse un sistema «marcio» in Segreteria. Direttamente all'allora arcivescovo viene attribuito, per esempio, il via libera a un investimento immobiliare speculativo, sempre a Londra, con la società Sloane & Cadogan, nonostante il divieto imposto dalla Segreteria per l'Economia: un affare costato decine di milioni e una provvigione da 700 mila sterline a un banker ex Credit Suisse, Alessandro Noceti, ritenuta «senza causale». Sarebbe stato proprio Noceti (non indagato) a far introdurre il finanziere Mincione in Segreteria. Nacque così l'investimento nel palazzo al 60 Sloane Avenue a Londra nel 2013-2014. Solo che al Vaticano il finanziere ne vendette circa metà a un valore «del tutto ingiustificato» di 230 milioni di sterline (per il 100%) contro una valutazione poco precedente di 129 milioni». Ma chi avrebbe dovuto controllare che i valori esposti fossero corretti? Crasso, il quale, attraverso Noceti, chiese che Sloane & Cadogan preparasse «una stima/parere (ovviamente molto positivo)». Anche l'arrivo in scena di Torzi, nel 2018, sebbene raccontato come «frutto di una serie di casuali coincidenze», ai magistrati «pare piuttosto una manovra ben organizzata per realizzare una leva attraverso la quale far uscire somme di denaro dalle casse della Segreteria di Stato». Tutto nasce dalla scommessa fatale su Banca Carige, poi commissariata a inizio 2019. In alleanza con Gabriele Volpi, allora secondo socio dell'istituto, Mincione scalò Carige usando il fondo Athena - dove era investito il Vaticano - ma anche 26,4 milioni che gli aveva prestato Torzi. A sua volta il broker quei soldi li aveva avuti da Volpi, al quale aveva venduto azioni di una minuscola società immobiliare quotata, Imvest, a un prezzo di 8 milioni sopra il valore di Borsa. Con Carige in agonia, Mincione doveva restituire il denaro: sarebbe questa la ragione dell'arrivo di Torzi. Per creare liquidità il palazzo di Sloane Avenue sarebbe stato molto generosamente valutato. Il 23 novembre 2018, dopo la firma dei contratti con la Segreteria, Mincione e Torzi pranzano a Roma al ristorante «I due ladroni». Più tardi il broker manda un whatsapp al suo commensale: «Oh sui numeri gli abbiamo fatto un abracadabra che dopo tre gg ancora si riaccapezza». Con tre faccini sorridenti. 

Gianluca Paolucci per "la Stampa" il 5 luglio 2021. Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, i due finanzieri al centro dello scandalo dei fondi del Vaticano, prevedevano di gestire insieme il palazzo di Sloane Avenue a Londra anche dopo l'accordo per il passaggio di proprietà alla Santa Sede. È quanto emerge dalla ricostruzione dell'Ufficio del promotore di giustizia - la Procura vaticana - nelle 500 pagine di richiesta di processo a carico dei due finanzieri e altre otto persone per vari reati relativi alla gestione dei fondi dell'Obolo di San Pietro. Un elemento questo che secondo l'accusa conferma «l'inganno perpetrato ai danni della Segreteria di Stato». In particolare, agli atti c' è una lettera del dicembre 2018 - dopo il formale passaggio del palazzo alla Gutt sa, formalmente del Vaticano ma in realtà controllata da Torzi - dove gli staff dei due finanzieri fissano un incontro «per definire insieme una strategia di gestione» del palazzo e «per valutare insieme quali interventi debbano essere realizzati», con l'obiettivo anche di «condividere quanto prima una nuova strategia per la locazione degli spazi». Secondo la ricostruzione della procura vaticana, la genesi dell'accordo tra Torzi e Mincione va cercato nella vicenda Carige. Tra settembre e ottobre del 2018, quanto Torzi arriva come «mediatore» tra Mincione e la Santa Sede, arrivava al suo epilogo il tentativo di scalata di Banca Carige da parte di Mincione, con il titolo sceso a picco in Borsa e Banca d' Italia che aveva acceso un faro sugli accordi tra Mincione e altri due soci di peso dell'istituto: l'imprenditore del petrolio Gabriele Volpi e l'ex patron di Genoa e Livorno Aldo Spinelli. Fin dal gennaio dello stesso anno, proprio Volpi avrebbe finanziato Torzi, tramite l'acquisto a prezzo maggiorato di un pacchetto di azioni della Imvest, all' epoca quotata. La maggiorazione avrebbe costituito parte del prestito effettuato da Torzi a Mincione per comprare azioni Carige. Un accordo nascosto al mercato - l'intesa fra i tre sarà resa nota solo nei mesi successivi, tramite un patto di sindacato - che aveva lo scopo di contrastare la famiglia Malacalza, all' epoca primo socio. Ma la scalata fallisce e proprio nell' autunno 2018 - annotano gli inquirenti vaticani - aumenta la pressione su Mincione per restituire i fondi. Di lì l'arrivo del «mediatore» Torzi nella trattativa londinese. Un immobile che Torzi conosceva bene, dato che lo stesso aveva, sempre nel gennaio 2018, avanzato una proposta di acquisto e valorizzazione a Mincione. Gli affari e gli interessi tra i due non si limitano però alle scalate bancarie. Altra partita di grande interesse è quella di Retelit. Anche in questo caso, come per Carige, Mincione utilizza i fondi della Segreteria vaticana per la scalata alla società di tlc. Torzi, ricostruisce la procura, si adopera per far nominare lo stesso Mincione alla presidenza, convincendo - anche con una vacanza in Sardegna da 50 mila euro per quattro notti - l'uomo della Libyan Investment Authority, Ahmed Maiteg. Della mediazione si occupa anche Giancarlo Innocenzi Botti, ex manager Mediaset, ex parlamentare di Forza Italia, ex sottosegretario del governo Berlusconi II nonché socio di Torzi. È lui che nel luglio del 2018 scrive a Torzi di aver comunicato ai libici che Mincione, ovvero colui che figurava come il titolare della partecipazione in Retelit tramite i suoi fondi, «è un uomo di Torzi».

Mario Gerevini e Fabrizio Massaro per il “Corriere della Sera” l'1 luglio 2021. L'alto funzionario del Vaticano Fabrizio Tirabassi è stato per anni retribuito dalla banca svizzera Ubs mentre era dipendente della Santa Sede. Gli sarebbero state pagate commissioni sulle operazioni finanziarie effettuate dalla Segreteria di Stato, presso la quale lavorava, e anche per la presentazione di nuovi clienti. Ubs assieme al Credit Suisse e alla defunta Bsi è uno degli istituti storici di riferimento del Vaticano. Fino a pochi mesi fa proprio presso Ubs era domiciliato, tra l'altro, il conto riservato della Segreteria intestato a Papa Francesco. Tirabassi era uno dei dipendenti laici più influenti del più potente dicastero della curia romana, indirizzava e gestiva gli investimenti finanziari, che nel tempo hanno superato i 600 milioni di euro. Negli ultimi dieci anni è stato il braccio destro di monsignor Alberto Perlasca e del suo superiore diretto, cardinale Giovanni Angelo Becciu, e, prima di Perlasca, di monsignor Gianfranco Piovano, fino al 2009 mente finanziaria della Segreteria. Sospeso dal servizio l'anno scorso, Tirabassi è tra gli indagati dell'inchiesta vaticana sulla gestione dei fondi delle donazioni. Secondo documenti consultati dal Corriere, Ubs ha avuto formalmente sotto contratto Tirabassi fin dal 2004, garantendogli una commissione (« fee» ) dello 0,5% annuo sull' ammontare dei patrimoni depositati in conti Ubs e sui nuovi clienti. Il rapporto è continuato a lungo, quantomeno ancora nel 2016, quando il funzionario vaticano risultava titolare del conto cifrato CQUE 666-439 CIDMAN presso la Ubs di Lugano con un milione di euro in deposito. Una «Nota informativa sul cliente-scopo della relazione d' affari» fa riferimento a «una finder fee (0,5%) accordata al cliente per new money confluito presso due altre relazioni presso di noi». I magistrati sospettano corruzione. La difesa di Tirabassi (gli avvocati Cataldo Intrieri e Massimo Bassi) ribatte che tutto era conosciuto e autorizzato dai superiori, come una sorta di «fringe benefit»: avrebbe incassato fee da Ubs per le operazioni effettuate sui conti della Segreteria, sui quali aveva la procura a operare. Inoltre svolgeva, sempre autorizzato dal Vaticano, anche un'attività privata di commercialista. Comunque siano andate le cose, questo mostra quanta confusione di ruoli, competenze e interessi regnasse nel cuore finanziario della Santa Sede e da chissà quanto tempo. L'avvocato Fabio Viglione, che assiste Becciu, precisa che Tirabassi era lì da ben prima che l'allora arcivescovo arrivasse in Segreteria nel 2011 e che Becciu «mai fu edotto di un suo contratto specifico». Ora potrebbe trovare nuovi spunti l'indagine, partita dall' investimento nel palazzo di Sloane Avenue a Londra, che vede coinvolti il fondo Centurion del gestore svizzero Enrico Crasso, i finanzieri Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi e lo stesso Becciu per i finanziamenti alla sedicente agente segreta Cecilia Marogna. Il contratto di Tirabassi con Ubs potrebbe portare indietro le lancette della ricostruzione dei fatti e sollevare dubbi su chi «stipendiava» dipendenti vaticani. Solo Ubs? Solo Tirabassi? Testimonianze agli atti dell'inchiesta vaticana attribuirebbero al commercialista provvigioni indirette anche dal Credit Suisse. Da oltre trent' anni dipendente vaticano, stipendio medio di 2.500 euro, Tirabassi, con Perlasca, è stato il custode dell'Obolo di San Pietro, in buona parte bruciato in investimenti speculativi e costi professionali (consulenti, provvigioni) fuori controllo. Dalle pieghe dell'inchiesta spuntano nuove operazioni, di cui finora nulla era filtrato. Anche queste promosse o favorite da Tirabassi. A ottobre 2017 fu deciso di sottoscrivere prodotti finanziari di Astaldi, società romana di costruzioni che lottava per sopravvivere, liquidando titoli Commerzbank. A un passo dal crac, Astaldi è stata assorbita da Salini Impregilo (ora WeBuild). E la Segreteria ha portato a casa una perdita del 70% in meno di un anno. Inoltre gli uomini di Pietro Parolin, numero due del Vaticano, hanno investito 20 milioni su Hearth Ethical fund lanciato nel febbraio 2018 da Valori AM. Tirabassi avrebbe proposto l'investimento (adeguato al profilo della Segreteria, almeno per la denominazione «etica») ad altri soggetti legati alla curia. Guadagnando anche lì delle commissioni. Il funzionario ha consegnato ai magistrati vaticani una memoria in cui fra l' altro spiega che non aveva poteri di firma e che ogni investimento veniva deciso e concluso dai suoi superiori. E Ubs? Laconicamente, risponde «no comment».

Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 28 giugno 2021. A Londra, nella sciccosa Sloane Avenue, s' erge un palazzotto, un ex magazzino di Harrod's, un groviglio di mattoni e acciaio che fa molto spietati squali della city. Invece, acquistato per 300 milioni da un finanziere italo -inglese, Raffaele Mincione, quel palazzotto, di proprietà della Chiesa, rappresenta l'altare laico dell'incompetenza finanziaria del Vaticano. «Se sapesse che abbiamo fatto l'operazione così delicata senza un'assistenza legale siamo attaccabilissimi. Faremmo un altro guaio. Cerchiamo di prendere un'altra settimana di tempo». «Noto che rinunciamo a qualsiasi azione futura, ma non sappiamo come stanno le cose, come sono gli affitti, come sono i contratti sottostanti». Così, in uno scambio inedito di WhatsApp, monsignor Alberto Perlasca, una sorta di direttore generale del Tesoro della Santa Sede, esprime i suoi dubbi a Fabrizio Tirabassi, il suo impiegato accusato di corruzione sull'operazione finanziaria che ha fatto saltare vertici del Vaticano, infuriare il Papa. Questo e molti altri documenti - tratti da interviste, scambi epistolari disarmanti, gole profonde col turibolo - sono la base su cui è costruito il libro - inchiesta I mercanti nel tempio (Solferino pp 258, euro 17) scritto da Mauro Gerevini e Fabrizio Massaro. I quali forniscono particolari inediti su come il Vaticano sia riuscito a bruciare la metà del famoso "obolo di San Pietro" in uno sconcertante crescendo di sprechi e incompetenze che parte dall'impenetrabile "Sezione affari generali della Segreteria di Stato" guidata per anni dal cardinale Angelo Giovanni Becciu e arriva fino al conto personale del Papa. L'obolo di San Pietro - la cui raccolta è iniziata domenica e finisce domani non è soltanto un simbolo di carità cristiana, «l'aiuto economico che i 1,2 miliardi di fedeli, ogni anno offrono al Santo Padre, come segno di adesione alla sollecitudine del Successore di Pietro» per le molteplici necessità della Chiesa universale e per le opere di carità in favore dei più bisognosi. Non è solo questo. È anche, laicamente, lo strumento finanziario con cui il Vaticano ripiana, ogni anno, il suo debito strutturale. Si parla, secondo Gerevini e Massaro di 308 milioni (-90 milioni solo nel 2020, -50 quest' anno, finora).

I PALAZZI. Nel 2019 la raccolta dell'Obolo è stata di 53,86 milioni di euro; nel 2020 è calata a 44,1 milioni di euro, secondo la comunicazione ufficiale del Prefetto della Segreteria per l'Economia, il gesuita Juan Antonio Guerrero Alves. La Santa Sede ne ha spesi 300 milioni, e il resto dell'obolo è bloccato, di fatto, in palazzi dalla proprietà incerta e di cui non si conosce la possibilità di vendita. Considerato che il Vaticano è lo Stato che più al mondo, vivendo di solo turismo, ha sofferto la crisi da Covid; be', il fatto che la raccolta straordinaria dell'obolo oggi renda solo 44 milioni e si assottigli sempre più (la Germania, per esempio offre sempre meno alla casse papali, non a torto) potrebbe costringere il Papa a metter mano ad altri gioielli di famiglia. E tutto per il danno reputazionale dovuto non solo al palazzotto londinese; ma anche ad investimenti sbagliati e bizzarri. Come gli affari con Lapo Elkann o il finanziamento del film su Elton John Rocketman, 1 milione di euro, e al diavolo il punto etico su omosessualità e diritti civili...), i fondi a Malta come Centurion (3 milioni nella produzione del film «Men in Black: International», un flop al botteghino), il salvataggio di una università in Giordania. Il Vaticano, insomma, si è profuso in una fervente attività economica per tramite uno sconosciuto finanziere che passava di lì per caso, tal Gianluigi Torzi che per anni ha tenuto sotto scacco, attraverso un veicolo finanziario lussemburghese, gli addetti della tesoreria papale. Senza che Papa Francesco ne fosse a conoscenza.

I RETROSCENA. Ma la miccia che ha fatto esplodere lo scandalo è proprio il palazzotto di Sloane Avenue che il Vaticano ha comprato tre volte. Gerevini e Massaro svelano retroscena inediti come gli scambi epistolari tra i magistrati vaticani e i giudici inglesi (scrivono i magistrati di Sua Maestà: «Se Perlasca e Tirabassi erano cospiratori, come potete dire che hanno agito in buona fede nelle trattativa?» «Perché avere pagato?», «Perché se eravate di fronte ad truffatore gli è stato procurato un incontro di quel livello?» riferito all'incontro di Torzi col Papa). Si scopre l'ingenuità dello stesso segretario di Stato vaticano Parolin che benedice le operazioni fidandosi dei suoi senza analisi preventiva di documenti (che spesso non ci sono), prima dell'arrivo del nuovo, sospettoso addetto all'Obolo, l'arcivescovo venezuelano Edgar Pena Parra, che comincerà a porsi domande. In un capitolo involontariamente ironico viene descritto perfino, dopo la vendita del Palazzo e l'euforia del gruppo di negoziatori, un pranzo di festeggiamento tra il venditore dell'immobile Mincione e il compratore per la Santa Sede Torzi, in un ristorante romano dal nome fatale: I due ladroni. Da questa sarabanda di business spregiudicati, di monsignori perlomeno irresponsabili, di funzionari incapaci se non corrotti ne esce un ritratto del cuore malato dell'economia pontificia. E il suddetto groviglio vischioso dei bilanci vaticani trova conferma nel rapporto recentissimo di Moneyval sull'adeguamento del Vaticano alle norme antiriciclaggio. Laddove, a fronte di un buon giudizio sull'azione antiriciclaggio esterna, si riscontrano buchi e difficoltà sul controllo "insider", quello interno; il rapporto fa notare che la Santa Sede non solo lì non ha controlli, ma mancano perfino i controllori ossia i magistrati permanentemente preposti. Il Presidente dell'ASIF (l'Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria) Carmelo Barbagallo, che ha guidato la delegazione vaticana durante il processo di valutazione, commenta dicendo, in pratica: è andata bene, ma possiamo fare meglio. E su questo, dai tempi dello Ior, non c'è alcun dubbio. Il problema sarà spiegare ai fedeli che le loro offerte sono andate sperperate, tra gli altri investimenti, in un anonimo edificio inglese pagato quanto la reggia di Versailles…

Chiesa polacca, ora lo scandalo pedofilia rischia di travolgere tutto. Francesco Boezi su Inside Over il 3 luglio 2021. La Chiesa polacca, se possibile soprattutto durante il regno di papa Francesco, si è contraddistinta per rappresentare una sorta di baluardo del tradizionalismo. Un elemento caratterizzante – questo dell’ortodossia dottrinale -, che qualche commentatore ha scambiato per un segno oppositivo al pontificato del primo pontefice gesuita della storia. Quasi come se in Polonia non tutti i cattolici avessero abbandonato il binomio Wojtyla-Ratzinger. Emblema di questa contesto, che è anche socio-culturale, è stato forse il “rosario ai confini”, una manifestazione che ha mischiato messaggio religioso ed istanze politiche, trovando peraltro la contrarietà di buona parte dell’episcopato nazionale. Questo, in estrema sintesi, era quello di cui si ragionava di questi tempi, quando la Polonia veniva citata dalle cronache religiose. Da qualche settimana a questa parte, però, uno scandalo rischia di travolgere tutto, compreso il giudizio su un pezzo di storia che polacchi e non hanno considerato decisivo per il cattolicesimo contemporaneo. La Santa Sede ha inviato come visitatore apostolico il cardinale Angelo Bagnasco. Lo scopo della missione, come avviene di consueto in casi come questo, era quello d’indagare sulle accuse relative al cardinal Stanislao Dzwisz, ex arcivescovo di Cracovia e, soprattutto, segretario particolare di San Giovanni Paolo II. Non una figura periferica della storia recente della Santa Sede, quindi, ma un consacrato centrale per l’intera durata del regno del pontefice che ha contribuito alla definitiva sconfitta del comunismo. Dzwisz è stato tirato in ballo (ha fatto molto discutere un documentario televisivo) per presunti insabbiamenti relativi ad abusi. Il cardinale polacco si è sempre detto innocente, e questo va rimarcato. L’ex arcivescovo di Genova, come peraltro raccontato dall’Adnkronos, ha il compito di stilare un documento ufficiale su quanto scoperto, dopo una visita densa di verifiche. Più di qualche commentatore vicino alla cosiddetta “destra ecclesiastica” ritiene che dietro alle accuse a Dzwisz esista un disegno volto a screditare, per vie indirette, il pontificato di San Giovanni Paolo II, che è il pontefice delle radici, dell’identità e della memoria patriottica: tutti concetti che soddisfano poco le esigenze della sinistra della Chiesa cattolica, cioè dei progressisti. Si tratta di una lettura politicizzata, che tuttavia circola in certi ambienti. Al contrario, c’è chi pensa che, durante il pontificato del pontefice polacco, le gerarchie alto-ecclesiastiche, in specie durante le ultime fasi della malattia di Karol Wojtyla, abbiano fatto il bello ed il cattivo tempo, pure in materia d’insabbiamenti relativi agli abusi. Anche questo tipo di lettura può presentare più di qualche semplificazione. I fatti ad oggi narrano che Dzwisz deve rispondere di accuse per cui il Vaticano sta indagando, com’è prassi. La vicenda richiama l’attenzione delle cronache internazionali anche per via del ruolo ricoperto dall’accusato: Dzwisz è una figura simbolo della gestione vaticana degli anni che hanno preceduto l’elezione di Benedetto XVI, che ha messo in campo una serie di riforme restrittive in materia di abusi e coperture. Poi Francesco, che ha continuato l’azione del predecessore, inasprendo in talune circostanze la legislazione esistente ed introducendo novità in materia di lotta alla pedofilia ed agli insabbiamenti. Possibile e anzi probabile che, dopo la relazione del cardinal Angelo Bagnasco, più di qualcosa emerga al livello pubblico. A quel punto, la ricostruzione dei fatti e delle accuse diventerà quantomeno più chiara. Per l’Ecclesia non è un buon periodo in relazione agli scandali legati alle accuse di abusi compiuti da ecclesiastici. La Chiesa cattolica sta già affrontando l’annoso caso dell’Arcidiocesi di Colonia, in un quadro – quello tedesco – peraltro segnato anche dal dibattito attorno al futuro dottrinale ed organizzativo promosso dal Sinodo biennale. Ma l’episcopato polacco, che già non poteva contare su un particolare peso in termini di forza politica durante questo regno, rischia di subire un duro colpo, oltre che una crisi di credibilità. Si dice che Jorge Mario Bergoglio possa procedere a breve con un repulisti.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 25 luglio 2021. Quando nel giugno del 2005 papa Benedetto lo nominò arcivescovo di Cracovia, al suo ingresso in diocesi parteciparono 150 vip romani, politici imprenditori e giornalisti, portati in Polonia con un volo speciale organizzato dall'Opera Romana Pellegrinaggi. Per anni, dopo il rientro in patria, l'arcivescovo Stanisaw Dziwisz si è recato a Roma ogni mese per una settimana alloggiando nella Dom Polski Jana Pawla II della via Cassia, una ex casa religiosa trasformata in hotel (chissà con quali fondi) e nel cui seminterrato (si favoleggia) dovrebbe trovarsi il portentoso archivio che l'ex segretario-assistente-factotum di Karol Wojtyla si è organizzato durante i tre decenni di permanenza nel palazzo apostolico. Rispondendo alle insistenti accuse sempre più argomentate che gli vengono rivolte in patria, Stanisaw Dziwisz nega di aver «ricevuto denaro in cambio di partecipazione alle Messe papali, per nascondere atti o fatti destinati all'attenzione del Santo Padre, per favorire persone indegne per qualche perversa logica di baratto». In altre parole, non è vero che dal backstage dell'epopea wojtylana vendeva il vendibile, dalle visite al Papa alle nomine, alle coperture per comportamenti infami e al favoreggiamento di una certa lobby clericale. Che sia vero o meno verrà stabilito dalla speciale commissione istituita da papa Francesco e presieduta dal cardinale Angelo Bagnasco. Di questa inchiesta sapevamo che era iniziata in sordina, senza fughe di notizie e senza comunicazioni alla Chiesa polacca. Quando la notizia è stata divulgata, si è però appreso che era stata chiesta al Papa, che l'ha fatta sua, da una parte dell'episcopato polacco. E mentre il cardinale Bagnasco indaga, Francesco "sfronda" il terreno rimandando a casa sette vescovi. Per ora.

Gian Guido Vecchi per il "Corriere della Sera" il 30 giugno 2021. Forse bisognerebbe risalire al 2004, quando a Roma trovava riparo il cardinale di Boston Bernard Law, in fuga da decenni di insabbiamento sistematico dei preti pedofili, lo scandalo «Spotlight» che devastò la Chiesa Usa. Proprio nel 2004, il 30 novembre, in Vaticano si festeggiavano con tutti gli onori i 60 anni di sacerdozio di padre Marcial Maciel Degollado, fondatore messicano dei Legionari di Cristo, un criminale pedofilo che andò avanti per decenni ma era prodigo di finanziamenti e «molto ben coperto», come disse Benedetto XVI, che da cardinale fu bloccato della Curia - Ratzinger fu l'unico a disertare la festa - e infine intervenne appena eletto Papa. Nel crepuscolo del pontificato di Wojtyla, sempre più fragile, l'uomo forte in Curia era il suo segretario Stanislaw Dziwisz, buon amico di Maciel. Ed ora è proprio il cardinale Dziwisz, che pure si protesta innocente, il simbolo della tempesta che, come una nemesi, sta investendo la Chiesa nella sua cattolicissima Polonia. La settimana scorsa il cardinale Angelo Bagnasco, inviato dal Papa, ha concluso una «visita apostolica» iniziata il 17 giugno, dieci giorni per indagare sulle accuse di insabbiamenti al cardinale «durante lo svolgimento del suo ufficio di arcivescovo di Cracovia (2005-2016)». Bagnasco presenterà una relazione al Papa. Si parla di una commissione vaticana analoga a quella che ha spazzato le gerarchie della Chiesa cilena, e come in Cile sono già saltate le prime teste. Del resto in Polonia parlano i numeri dell'ultimo rapporto della conferenza episcopale: solo da luglio 2018 a dicembre 2020, a diocesi e ordini religiosi sono arrivate 368 denunce di abusi su minori, maschi e femmine, per i quali sono accusati 292 preti: 58 sono indagati per più crimini. Le denunce riguardano il periodo tra il 1958 e il 2020. Delle vittime, 173 avevano meno di 15 anni. Soprattutto, 65 segnalazioni si riferiscono agli ultimi tre anni, quando lo scandalo era scoppiato da tempo. Due anni fa, la stessa conferenza episcopale aveva pubblicato un dossier che elencava 382 casi di preti e anche suore che tra il 1990 e il 2018 hanno abusato di 625 minori. Un quadro che sembra destinato ad ampliarsi, un'epitome di ciò che Francesco vede all'origine dello scandalo planetario: clericalismo, elitismo, «difesa» dell'istituzione, abuso di potere. È come se oggi la Polonia si trovasse a fare i conti con il lato oscuro di quella «Chiesa del silenzio» eroica che nel '78 ritrovò voce con l'elezione di Wojtyla e negli anni Ottanta, facendo sponda a Solidarnosc, fu protagonista della liberazione dal regime comunista. Del resto, si tratta del lato oscuro del pontificato di Giovanni Paolo II. Molti storici hanno notato che il Papa polacco veniva da un regime che usava l'accusa di pedofilia per screditare i preti oppositori e quindi tendeva a sospettare delle denunce. In Curia spesso facevano filtro ai potenti, che fossero conservatori «difensori della dottrina» come Maciel o il cileno Karadima, oppure progressisti come l'allora arcivescovo di Washington Theodore McCarrick. Due anni fa, un documentario della tv polacca TVN24, D on Stanislaw, accusò Dziwisz: «Nascose al Papa le accuse». In Polonia, Francesco sta nominando una nuova gerarchia. Il Paese è sospeso tra richiesta di trasparenza e sconcerto. L' ultimo vescovo, Zbigniew Kiernikowski, ha dovuto dimettersi lunedì per aver coperto un parroco. A marzo il Vaticano ha allontanato l'ex vescovo di Kalisz, Edward Janiak, e l'ex arcivescovo di Danzica Leszek Slavoj Glodz: che nel frattempo, violando il diritto canonico, si è candidato a sindaco a Piaski, un paesino a Nordest, ed è stato eletto.

(ANSA il 29 luglio 2021) L'ex cardinale americano Theodore McCarrick è stato incriminato per pedofilia in Massachusetts. E' il più alto prelato negli Usa che finisce nei guai con la giustizia per un caso di abusi sessuali su un minore. Lo riporta il Boston Globe. (ANSA).

Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2021. Nessuno sconto all'ex cardinale Theodore McCarrick, 91 anni. Ieri è stato incriminato per aver abusato sessualmente di un ragazzo di 16. Dovrà rispondere a tre capi di imputazione (molestie, assalto, violenza) davanti alla Corte del Dedham District, capoluogo della contea di Norfolk nello Stato del Massachusetts. La prima udienza è fissata per il prossimo 26 agosto. È l'atto finale, ormai inatteso, di una lunga vicenda che ha scosso per anni il Vaticano e la Chiesa cattolica negli Stati Uniti. McCarrick è stato una figura di primo piano: nel 2000 fu nominato arcivescovo di Washington e, l'anno successivo, diventò cardinale. Ma la sua ascesa è stata accompagnata da voci e sospetti, alimentati dai racconti di seminaristi, preti e giovani studenti. Il prelato, in realtà, era un predatore sessuale. McCarrick ha resistito, continuando a navigare nelle alte gerarchie ecclesiastiche, anche dopo essere andato formalmente in pensione nel 2006. Due Pontefici, Wojtyla e Ratzinger, non presero alcun provvedimento. Un rapporto del Vaticano, pubblicato nel novembre 2020, mette in fila una lunga serie di errori, sottovalutazioni e forse vere coperture nella Curia che hanno garantito l'impunità a un violentatore seriale. Fino alla svolta clamorosa del 27 luglio 2018, quando Papa Francesco costrinse McCarrick a dimettersi dal collegio cardinalizio. Poi, il 16 febbraio 2019, gli interdì «lo stato clericale», cioè gli tolse la tonaca di prete. La mossa della Procura e della Corte del Massachusetts ha colto di sorpresa i giuristi e i media americani. McCarrick è la figura più potente della Chiesa che sia mai andata a processo negli Usa. In pochi si aspettavano la sua incriminazione: è un uomo di 91 anni che vive isolato nel Missouri. Le accuse risalgono addirittura al 1974, quando l'allora sacerdote era il segretario del cardinale di New York, Terence Cooke. In quell'anno McCarrick partecipò a una festa di matrimonio nel Wellesley College in Massachusetts. Il rapporto della polizia locale, depositato in tribunale e recuperato dal «Washington Post», ricostruisce l'incontro tra il prete e un sedicenne, di cui, almeno per il momento, viene occultata l'identità. Il futuro cardinale era in stretto contatto con i genitori della vittima. Avvicinò il ragazzo in questo modo: «Tuo padre mi ha chiesto di parlarti». Lo condusse in una stanza appartata nell'università e chiuse le imposte. Cominciò con una ramanzina perché l'adolescente non andava a messa e finì con il mettergli le mani sui genitali. Lo congedò assegnandogli tre Pater noster e tre Ave Maria come penitenza, «per redimerlo dai peccati». Un modello che McCarrick ha poi replicato nei suoi spostamenti tra le diocesi Usa. Dal New York al New Jersey al Massachusetts. Adesso la giustizia gli presenta il conto.

Fra.Gia. per "il Messaggero" il 29 giugno 2021. Il sistema aveva vistose falle. Tendeva a proteggere più la Chiesa e il suo buon nome che non le vittime, spesso adolescenti profanati da preti orchi che godevano di parecchie protezioni in alto. Chissà cosa avrebbe detto San Giovanni Paolo II davanti ai dati mostruosi che stanno saltando fuori nella sua patria, la cattolicissima Polonia, dove dagli archivi delle varie diocesi, da Danzica a Varsavia, solo negli ultimi due anni, dal primo luglio 2018 al 2020, sono arrivate 368 denunce di abusi su minori per un totale di 292 preti accusati. Il Libro Nero della vergogna è il frutto di una incalzante campagna mediatica sotto la fortissima pressione dell'opinione pubblica che da tempo invoca trasparenza, giustizia, affidabilità. Qualità che sembrano essere mancate a tanti vescovi. A Roma, davanti ad accuse tanto circostanziate e all' immagine della Chiesa fortemente compromessa, da un anno a questa parte sono iniziati i siluri che hanno fatto rotolare tante teste. L' ultimo prelato dimissionato in fretta e furia risale a ieri. Si tratta del vescovo Kiernikowski ritenuto responsabile di non avere agito davanti all' abuso di un minore da parte di un parroco. Prima di lui, analoghi provvedimenti hanno colpito altri quattro vescovi, compreso Slawoj Glodz di Danzica, che dopo essere stato punito con l'interdizione a non celebrare più in pubblico, si è candidato a sindaco in un paesino ed è stato eletto a maggioranza.

Paolo Rodari per repubblica.it il 25 giugno 2021. Da giorni il cardinale Angelo Bagnasco, ex presidente dei vescovi italiani, si trova in Polonia. Fonti confermano che sarebbe lì per conto di Francesco, per indagare sulle coperture concesse negli anni da alcuni vescovi ai preti pedofili. Secondo la stampa polacca, Bagnasco si trova alla guida di una Commissione vera e propria in stile a quella istituita tempo fa per gli abusi in Cile. Le investigazioni riguarderebbero anche il cardinale Stanislaw Dziwisz, lo storico segretario di Giovanni Paolo II, che recentemente è apparso in tv negando ogni addebito e in particolare sostenendo di non essersi mai accorto della doppia vita del fondatore dei Legionari di Cristo Maciel Degollado, vicino a Wojtyla e uomo potente di quel pontificato. In un docufilm, che ha fatto scalpore in Polonia, si è puntato il dito proprio contro Dziwisz, accusato da vittime di aver coperto alcuni fatti. La Commissione, comunque, è stata chiesta anche dallo stesso porporato polacco al fine di fare chiarezza sui fatti da lui sempre respinti come "calunnie". C'è nell'episcopato polacco una parte che non è per la trasparenza e che resiste alla volontà di pulizia del Papa. Francesco recentemente ha cambiato diversi vescovi cercando di portare al comando una nuova gerarchia. La situazione ricorda quanto avvenuto in Cile con i vescovi che arrivarono a mentire al Papa pur di non ammettere le proprie colpe. Toccare il tema della pedofilia in Polonia significa entrare in un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, nel quale le coperture non sono state poche. A motivo di queste vi fu nella Chiesa chi pose obiezioni alla sua canonizzazione avvenuta a tempo di record.

Franca Giansoldati per il Messaggero il 27 giugno 2021.

IL CASO CITTÀ DEL VATICANO L' inchiesta in corso è pesantissima. Così come le accuse. L' ombra di aver coperto i preti orchi si allunga persino sullo storico segretario di San Giovanni Paolo II, don Stanislao, divenuto cardinale sotto Benedetto XVI e destinato alla diocesi di Cracovia. Dopo mesi di martellanti inchieste giornalistiche, testimonianze scomode, documenti imbarazzanti e alcune teste di vescovi polacchi che, nel frattempo, sono state fatte rotolare per aver ignorato le vittime e non avere punito i pedofili, ha iniziato a lavorare in sordina una commissione del Vaticano per ricostruire le falle del sistema e capire se effettivamente anche il cardinale Dziwisz ha nascosto le denunce che gli arrivavano. Papa Francesco ha affidato la patata bollente al cardinale Angelo Bagnasco, ex arcivescovo di Genova, ex presidente della Cei e, tra l' altro, buon amico dello stesso Stanislao Dziwisz, il quale fino a qualche settimana fa continuava a smentire di avere mai insabbiato denunce giunte sul suo tavolo dal 2005 al 2016. 

LA SVOLTA La conferma di questa clamorosa svolta è arrivata dalla nunziatura di Varsavia che, dopo fortissime pressioni, si è trovata costretta a confermare che effettivamente Bagnasco era stato spedito a Varsavia dal Papa a indagare sulla veridicità o meno delle tante voci che circolano. Toccare don Stanislao è un po' come toccare Karol Wojtyla, visto che lo ha accompagnato come un figlio per tutta la durata del lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II. «Lo scopo di questa inchiesta fatta su richiesta della Santa Sede è di verificare le negligenze attribuite al cardinale Dziwisz durante il suo mandato di arcivescovo metropolita di Cracovia». Bagnasco avrebbe già preso visione della documentazione riservata conservata in nunziatura e ha già raccolto diverse dichiarazioni giurate da parte di testimoni chiave. «Siamo di fronte ad una mentalità omertosa che esiste nella Chiesa polacca da almeno 30 anni, dopo la caduta del comunismo. Naturalmente spetterà alla Santa Sede giudicare questo o quel prete ma finché prevarrà la mentalità di tacere e non si arriverà alla trasparenza necessaria (visto che l' episcopato non vuole consegnare documenti ad una commissione statale) non usciremo mai da questa impasse» ha raccontato alla tv polacca padre Tadeusz Isakowicz-Zaleski, uno dei principali accusatori di Dziwisz, e fondatore di una associazione chiamata Fratel Alberto, tra le più attive realtà che aiutano i disabili fisici o mentali. Zaleski ha anche detto che quando ha ricevuto la convocazione ha subito pensato ad «uno scherzo». «Si è trattato di una conversazione molto professionale che ha richiesto parecchio tempo. Naturalmente ho deposto mettendo per iscritto tutto quello che sapevo. Non ho potuto rispondere ad alcune domande perché di alcuni casi non avevo mai sentito parlare prima. Non c' è solo un caso». 

LA LISTA DELLE VITTIME Il verbale in via di preparazione include anche la lista completa delle vittime che si erano rivolte alle istituzioni cattoliche polacche ed erano state ignorate dai vescovi. A Dziwisz viene imputato di non avere dato seguito alla lettera di una vittima, Janusz Szymik, abusata da un sacerdote, padre Jan Wodniak. In questi mesi il cardinale Dziwisz si è difeso con forza dicendo di non avere mai avuto questa lettera tra le mani anche se un prete di Cracovia ha confermato di avergliela consegnata nelle mani nel 2012. Il lavoro di Bagnasco richiederà settimane e servirà a redigere un rapporto per Papa Francesco. Inutile dire che la materia - già di per sé scottante - stavolta potrebbe risultare semplicemente esplosiva poiché riguarda uno dei cardinali senior più influenti, collaboratore chiave del pontificato di un santo e, successivamente, di Benedetto XVI.

Cardinale Marx, mica ti puoi dimettere! Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Papa Francesco respinge le dimissioni del cardinale Marx, annunciate il 4 giugno.  Lo fa con una lunga lettera, pubblicata dalla Sala Stampa vaticana in spagnolo e tedesco. In sostanza, dice Papa Francesco, la crisi è veramente forte, senza precedenti, è stata provocata dallo scandalo degli abusi ed è un terremoto. Ma – ecco il punto – andarsene non serve. “Toda la Iglesia está en crisis a causa del asunto de los abusos; más aún, la Iglesia hoy no puede dar un paso adelante sin asumir esta crisis. La política del avestruz no lleva a nada, y la crisis tiene que ser asumida desde nuestra fe pascual. Los sociologismos, los psicologismos, no sirven. Asumir la crisis, personal y comunitariamente, es el único camino fecundo porque de una crisis no se sale solo sino en comunidad y además debemos tener en cuenta que de una crisis se sale o mejor o peor, pero nunca igual“. Niente “politica dello struzzo”, niente tentazioni di gettare la spugna, perché da crisi come queste si esce stando uniti.

In buona sostanza niente dimissioni, non voglio neppure sentirne parlare. Continuerai a lavorare per la Chiesa facendo l’arcivescovo, dice Papa Francesco al termine della lettera. E guarda a San Pietro: ha avuto la tentazione di lasciare? Sicuramente sì, come dice il Vangelo di Giovanni al capitolo 21, quando ha ricevuto il preciso mandato: se mi ami, se stai dalla mia parte, allora “pascola le mie pecore”. La risposta del Papa è interessante, perché a questo punto servono misure strutturali per intervenire. Avrà la possibilità di farlo? Nel testo non c’è traccia di questa intenzione.

Il Papa e lo stop a Marx: "Dobbiamo chiedere la grazia della vergogna". Fabio Marchese Ragona l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Respinte le dimissioni del cardinale tedesco: "Non si esce da soli da una crisi, ora riforme". «Caro fratello, vai avanti come arcivescovo di Monaco e Frisinga, non accetto le tue dimissioni». Un invito a continuare sulla strada delle riforme per superare la piaga della pedofilia e un'amara riflessione sul fatto che tutta la Chiesa sia in crisi. Papa Francesco risponde con una lunga lettera scritta in spagnolo al cardinale tedesco Reinhard Marx, ultra-progressista 67enne, suo stretto collaboratore, che lo scorso maggio nel corso di un'udienza privata aveva offerto al Pontefice le sue dimissioni dalla guida della diocesi. Una mossa politica, ponderata, un «gesto di corresponsabilità» per lanciare un forte segnale d'insofferenza su come la Chiesa tedesca sta gestendo la piaga degli abusi su minori, con sacerdoti e vescovi che non si assumono le proprie responsabilità, fedeli delusi e riforme rimaste al palo. «Mi dici che stai attraversando un momento di crisi», scrive Bergoglio al porporato che guida anche il Consiglio per l'Economia della Santa Sede, «non solo tu ma tutta la chiesa in Germania lo sta vivendo. Tutta la Chiesa è in crisi per il problema degli abusi. E da soli non se ne esce, ma solo in comunità. La politica dello struzzo - continua Francesco - non porta a nulla; di più ancora, la Chiesa oggi non può fare un passo avanti senza farsi carico di questa crisi. Dobbiamo chiedere la grazia della vergogna». Il Papa ringrazia Marx per «il coraggio cristiano che non teme la Croce» e insiste sul tema della riforma, che sia «non a parole ma in atteggiamenti che hanno il coraggio di affrontare la crisi», soprattutto in quella Germania dove l'arcivescovo, già Presidente della Conferenza Episcopale, con un sinodo nazionale biennale ancora in corso, ha aperto una discussione su celibato sacerdotale, unioni gay e donne. È stato sempre il porporato a denunciare nella sua lettera al Papa del 21 maggio la mancanza di coraggio da parte delle autorità ecclesiastiche tedesche, parlando addirittura di Chiesa cattolica «a un punto morto», di «fallimento istituzionale e sistemico», con la stima nei confronti dei vescovi da parte dei fedeli crollata ai minimi termini. «Il Cardinale parla di un punto morto' che la Chiesa avrebbe raggiunto», commenta a Il Giornale il cardinale tedesco Walter Brandmüller. «Ma è vero? Ci sono fuori dall'Europa centrale continenti in cui la Chiesa pur povera e perseguitata cresce e sta in fioritura. È la Chiesa in Germania che nonostante la sua ricchezza e il mastodontico apparato amministrativo vede chiese vuote, tante chiese vendute, distrutte per mancanza di fedeli. Tutto ciò - continua il porporato - non è la prima conseguenza degli scandali sessuali, ma della perdita della fede. Finalmente si parla della stima verso i vescovi. Bene. Ma questo dipende da ogni vescovo. Quanto più chiara e sostanziosa è la presa di posizione sul campo della dottrina, della fede e della morale, tanto più un vescovo troverà ascolto e stima!». Marx, ancora lontano dal pensionamento, previsto a 75 anni, dovrà adesso accettare la decisione del Papa e continuare a guidare il suo gregge; lo stesso Francesco, nel concludere la lettera ha voluto chiarire: «Se sei tentato di pensare che, nel confermare la tua missione e nel non accettare la tua rinuncia, questo Vescovo di Roma (tuo fratello che ti ama) non ti capisca, pensa quello che ha provato Pietro davanti al Signore quando, a suo modo, gli presentò la sua rinuncia: Stammi lontano che sono un peccatore, e ascolta la risposta: Pasci le mie pecore». Fabio Marchese Ragona

Le dure parole del cardinale. Perché Reinhard Marx si è dimesso: la decisione del fedelissimo di Papa Francesco. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Mi dimetto non perché sono responsabile ma perché sento di essere “corresponsabile” nel fallimento della Chiesa sul tema degli abusi. Lo scrive il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, in una lettera a Papa Francesco che sta facendo molto rumore. Un lungo testo, pubblicato integralmente in Germania e diffuso dal sito della diocesi, raccoglie un’articolata analisi del porporato. «Sostanzialmente per me si tratta di assumersi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente che ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e “sistematico”. Le polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la co-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale. La vedo decisamente in modo diverso. Due sono gli elementi che non si possono perdere di vista: errori personali e fallimento istituzionale che richiedono cambiamenti e una riforma della Chiesa. Un punto di svolta per uscire da questa crisi può essere, secondo me, unicamente quella della “via sinodale”, una via che davvero permette il “discernimento degli spiriti”, così come Lei (il Papa, ndr) ha sempre sottolineato e scritto nella Sua lettera alla Chiesa in Germania». Nella parte finale, il cardinale chiarisce ancora di più il senso della sua presa di posizione. «(…) ho affermato che abbiamo fallito, ma chi è questo “noi”? Certamente vi faccio parte anch’io. E questo significa che devo trarre delle conseguenze personali. Questo mi è sempre più chiaro. Credo che una possibilità per esprimere la mia disponibilità ad assumermi delle responsabilità sia quella delle mie dimissioni. In tal modo probabilmente potrò porre un segnale personale per nuovi inizi, per una nuova ripartenza della Chiesa e non soltanto in Germania. Voglio dimostrare che non è l’incarico ad essere in primo piano, ma la missione del Vangelo. Anche questo fa parte della cura pastorale. Pertanto, La prego vivamente di accettare le mie dimissioni. Continuerò con piacere ad essere prete e vescovo di questa Chiesa e continuerò ad impegnarmi a livello pastorale sempre e comunque Io riterrà sensato ed opportuno. Vorrei dedicare gli anni futuri del mio servizio in maniera più intensa alla cura pastorale e impegnarmi per un rinnovamento spirituale della Chiesa, così come Lei instancabilmente ammonisce». Il cardinale Marx ha 67 anni, è vescovo dal 1996, arcivescovo di Monaco dal 2007 e nel 2010 Benedetto XVI lo volle nel collegio cardinalizio. Con Papa Francesco ha assunto dei ruoli di particolare rilievo, in quanto fa parte del “consiglio dei cardinali” per la Riforma della Curia. Da notare nella sua lunga lettera (testo integrale: erzbistum-muenchen. de anche in italiano) due passaggi fondamentali. Il primo riguarda la crisi sistematica della Chiesa e il secondo l’appoggio al cammino sinodale. Oramai si capisce come il binomio sia davvero inscindibile. La crisi degli abusi ha messo in dubbio un modello organizzativo e formativo, svelando resistenze, reticenze, coperture, al punto tale che non si può andare avanti. In ogni caso il punto nodale è la formazione del clero: segna il passo e non si è ancora proceduto a rinnovare criteri di scelta, selezione e modalità formative, al passo con le esigenze di oggi. I vescovi italiani, ad esempio, stanno ancora discutendo della nuova Ratio per la formazione dei seminaristi e ci vorrà molto tempo prima che entri in vigore. D’altra parte di fronte al calo numerico dei sacerdoti, alle difficoltà economiche, alla perdita di colpi della teologia nel dire qualcosa di significativo, il Papa ha risposto proponendo un cambio di percorso che si chiama cammino sinodale, cioè il coinvolgimento dal basso di tutti i livelli per arrivare fi no al clero e ai vescovi e cardinali. Anche qui le resistenze sono molte e chi si oppone, come in Germania, invoca lo spettro di uno scisma che sarebbe in atto, aumentando una polarizzazione ecclesiale che sembra diventata ingovernabile. Dunque siamo davanti ad una crisi davvero sistematica e sarà da vedere in che modo si potranno trovare soluzioni e strade percorribili per una ricomposizione ordinata.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 5 giugno 2021. Un gesto simbolico, perché tutti vedano che il cristianesimo e la fede in Germania hanno bisogno di un nuovo inizio, non soltanto sul tema della pedofilia ma sui grandi temi che da anni vengono discussi, tra scontri e polemiche. Con l'offerta di dimissioni al Papa dalla guida della diocesi di Monaco e Frisinga, il 68enne cardinale Reinhard Marx scatena un nuovo terremoto nella Chiesa perché, questa volta, la bomba non arriva certo da un fermo «oppositore» del Papa argentino ma da un suo uomo di fiducia, dal porporato che Francesco ha voluto nel ristretto consiglio dei cardinali che lo aiuta per la riforma della Curia e che ha messo a capo del Consiglio per l'Economia della Santa Sede. Un vescovo d' impronta fortemente progressista, come del resto la maggioranza dei presuli del suo Paese, che, mostrando chiari segni di delusione, ha provato negli ultimi anni a cambiare la Chiesa tedesca lanciando nel marzo del 2019 un sinodo nazionale biennale, con l'obiettivo di «aggiornare» la dottrina su morale, celibato, sesso, donne e famiglia, provando a riconquistare la fiducia dei cattolici tedeschi feriti dalla piaga della pedofilia. Tema, quello degli abusi sui minori, sul quale Marx ha basato quasi interamente la sua lettera consegnata a Francesco il 21 di maggio. Ma è chiaro che la missiva con tanto di dimissioni, che arriva in uno dei momenti più difficili nei rapporti tra Vaticano e Chiesa tedesca, nasconde un'insofferenza di fondo per delle mancate aperture di Bergoglio che in Germania attendono da diverso tempo. L' ultima sfida lanciata al Vaticano risale a meno di un mese fa quando i sacerdoti di circa 100 chiese cattoliche tedesche hanno benedetto centinaia di coppie gay, nonostante la Santa Sede abbia definito ufficialmente «illecita» questa pratica. Iniziativa «pro-arcobaleno» dalla quale i vescovi tedeschi hanno preso ufficialmente le distanze, anche se il presidente della Conferenza Episcopale e vescovo di Limburg, monsignor Baetzing, qualche mese prima aveva affermato che «le persone in unioni omosessuali vogliono la benedizione della Chiesa, dobbiamo affrontare questo desiderio, abbiamo bisogno di un confronto intenso, dobbiamo valutare in modo nuovo l'omosessualità e le unioni di vita fuori dal matrimonio». Questa è solo la punta dell'iceberg perché le frizioni, che secondo molti analisti cattolici potrebbero sfociare in un drammatico scisma, vanno avanti da diverso tempo: il cardinale Marx, che dal 2014 ha guidato la Conferenza Episcopale Tedesca fino al termine del suo mandato nel 2020, non si era ricandidato, rimarcando la sua delusione per la mancata apertura del Papa sul tema del celibato sacerdotale dopo il Sinodo sull' Amazzonia. Ma il porporato aveva già fatto la voce grossa in passato dicendo sin da subito che il sinodo della Chiesa tedesca sarebbe stato «un processo vincolante». Affermazioni che avevano ricevuto però uno stop proprio dal Vaticano, in particolare con due lettere ufficiali del cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi e di monsignor Filippo Iannone, Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, che avevano bollato l'iniziativa come «ecclesiologicamente non valida», che «viola le norme canoniche» e che di fatto è rea di «alterare le norme universali e dottrinali della Chiesa». Un evento, ancora in corso, che effettivamente si attesta su posizioni sempre più distanti dal magistero cattolico e in cui i laici hanno diritto di voto al pari dei vescovi e degli arcivescovi.

Luca Lippera per ilmattino.it il 13 settembre 2021. Un sacerdote argentino è stato condannato a 17 anni di carcere per abusi sessuali su due seminaristi commessi in Patagonia, nel sud del Paese sudamericano, tra il 2009 e il 2012. La notizia viene riportata in grande risalto dal quotidiano "Buenos Aires Times" il quale aggiunge che le vittime erano minori. Il sacerdote, Nicolàs Parma, della Congregazione dei Discepoli di Gesù e di San Giovanni Battista, svolgeva l'ufficio in una parrocchia di Puerto Santa Cruz. Il religioso, ascoltata la sentenza da remoto, ha annunciato attraverso l'avvocato che farà ricorso. Una delle vittime, che studiava da sacerdote, ha raccontato al quotidiano "La Nacion": «Non potevo parlare con nessuno. Non avevo né telefono né soldi e ci era proibito dire cosa stava succedendo all'interno della congregazione». L'altro seminarista testimone nel processo ha aggiunto: «Io e l'altra vittima siamo i volti visibili di queste accuse, ma sono sicuro che altri sono stati abusati. Abbiamo vissuto orrori. Eravamo prigionieri moralmente, non potevamo pensare, era impossibile andarsene e pensavo al suicidio». Jonatan Alustiza, uno dei giovani seminaristi, ha detto ai giudici di aver rivelato anni dopo gli abusi al capo della Congregazione il quale gli avrebbe suggerito di «perdonare e dimenticare, trattandosi solo di debolezze da parte di un confratello».

Abusi sessuali, il cardinale Marx scrive al Papa: "Mi dimetto, la Chiesa è arrivata a un punto morto". Paolo Rodari su La Repubblica il 4 giugno 2021. Nella lettera l'arcivescovo di Monaco e Frisinga riconosce le sue responsabilità gli errori compiuti nel "plasmare" la Chiesa cattolica: "Anche io ho fallito". L'arcivescovo di Monaco e Frisinga, il cardinale Reinhard Marx, ha chiesto a Papa Francesco di essere sollevato dall'incarico, mettendosi a disposizione del Pontefice. In una lettera datata al 21 maggio scorso, come riferisce oggi il quotidiano Sueddeutsche Zeitung, Marx ha affermato: "In sostanza, per me si tratta di condividere la responsabilità per la catastrofe degli abusi sessuali da parte dei membri della Chiesa negli ultimi decenni". Il porporato ha aggiunto che le inchieste sulla questione gli hanno costantemente mostrato i suoi "molti fallimenti personali ed errori amministrativi". A questi si aggiungono "fallimenti istituzionali o sistemici". Per Marx, la Chiesa cattolica ha raggiunto "un punto morto". Il cardinale ha quindi auspicato che la sua rinuncia alla guida dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga possa essere "un segno per nuovi inizi, per un nuovo risveglio della Chiesa". Al riguardo, Marx ha evidenziato: "Voglio mostrare che non è l'ufficio a essere in primo piano, ma la missione del Vangelo. ll porporato ricopre ruoli di responsabilità importanti. Per alcuni anni è stato a capo della Conferenza episcopale tedesca mentre in Vaticano è membro del C7, il Consiglio dei cardinali che aiuta il Papa nel governo della Chiesa. Sugli abusi è sempre stato allineato a Francesco nel non tollerare le coperture. Eppure, anche il suo lavoro non ha ottenuto i risultati sperati. Di qui le dimissioni che suonano come un segnale importante per una Chiesa, quella tedesca, che chiede da tempo riforme a Roma senza successo. Ha spiegato ancora Marx: "Sono pronto ad assumermi la responsabilità personale, non solo per i miei errori, ma per la Chiesa come istituzione, che ho contribuito a plasmare per decenni". Le dimissioni di Marx arrivano poco dopo una riforma proprio sugli abusi voluta dal Papa. Per volere di Francesco, infatti, l’abuso di minori è stato inquadrato come crimine contro la dignità della persona. Il Pontefice ha cambiato il Diritto penale vaticano. Con la costituzione apostolica "Pascite Gregem Dei", ha nei giorni scorsi riformato il libro VI del Codice di Diritto canonico che riguarda la disciplina penale e la sua osservanza. La riforma, ha sottolineato Francesco, risponde a una «concreta ed irrinunciabile esigenza di carità non solo nei confronti della Chiesa, della comunità cristiana e delle eventuali vittime, ma anche nei confronti di chi ha commesso un delitto, che ha bisogno all'un tempo della misericordia che della correzione da parte della Chiesa». Il Papa ha aggiunto che il ricorso al sistema penale sostiene «il ripristino delle esigenze della giustizia, l'emendamento del reo e la riparazione degli scandali». Negli ultimi anni in merito c’è stata troppa «rilassatezza». Di qui il cambiamento.

Cardinale Marx: la crisi è sistematica e mi dimetto. E adesso? Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Mi dimetto non perché sono responsabile ma perché sento di essere “corresponsabile” nel fallimento della Chiesa sul tema degli abusi. Lo scrive il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, in una lettera a Papa Francesco che sta facendo molto rumore. Un vero fulmine arrivato venerdì 4 giugno. Un lungo testo, pubblicato integralmente in Germania e diffuso dal sito della diocesi, raccoglie un’articolata analisi del porporato.  «Sostanzialmente per me si tratta di assumersi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente che ci sono sati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e “sistematico”. Le polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la co-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale. La vedo decisamente in modo diverso. Due sono gli elementi che non si possono perdere di vista: errori personali e fallimento istituzionale che richiedono cambiamenti e una riforma della Chiesa. Un punto di svolta per uscire da questa crisi può essere, secondo me, unicamente quella della “via sinodale”, una via che davvero permette il “discernimento degli spiriti”, così come Lei (il Papa, ndr) ha sempre sottolineato e scritto nella Sua lettera alla Chiesa in Germania». Il cardinale Marx ha 67 anni, è vescovo dal 1996, arcivescovo di Monaco dal 2007 e nel 2010 Benedetto XVI lo volle nel collegio cardinalizio. Con Papa Francesco ha assunto dei ruoli di particolare rilievo, in quanto fa parte del “consiglio dei cardinali” per la Riforma della Curia. Due passaggi fondamentali. Il primo riguarda la crisi sistematica della Chiesa e il secondo l’appoggio al cammino sinodale. Oramai si capisce come il binomio sia davvero inscindibile. La crisi degli abusi ha messo in dubbio un modello organizzativo e formativo, svelando resistenze, reticenze, coperture, al punto tale che non si può andare avanti. In ogni caso il punto nodale è la formazione del clero: segna il passo e non si è ancora proceduto a rinnovare criteri di scelta, selezione e modalità formative, al passo con le esigenze di oggi. I vescovi italiani, ad esempio, stanno ancora discutendo della nuova Ratio per la formazione dei seminaristi e ci vorrà molto tempo prima che entri in vigore. D’altra parte di fronte al calo numerico dei sacerdoti, alle difficoltà economiche, alla perdita di colpi della teologia nel dire qualcosa di significativo, il Papa ha risposto proponendo un cambio di percorso che si chiama cammino sinodale, cioè il coinvolgimento dal basso di tutti i livelli per arrivare fino al clero e ai vescovi e cardinali. Anche qui le resistenze sono molte e chi si oppone, come in Germania, invoca lo spettro di uno scisma che sarebbe in atto, aumentando una polarizzazione ecclesiale che sembra diventata ingovernabile. Dunque siamo davanti ad una crisi davvero sistematica e sarà da vedere in che modo si potranno trovare soluzioni e strade percorribili per una ricomposizione ordinata.

Chiesa, crisi sistemica? Ve l’avevo detto! Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Ve l’avevo detto!!!!!! Per una volta il Lettore e la Lettrice mi consentiranno di parlare in prima persona? Prendo spunto dalle annunciate dimissioni del cardinale Marx che nel suo comunicato parla di “crisi sistematica” nella Chiesa nella mancata/carente risposta agli abusi. E il suo conterraneo gesuita Zollner, iper-esperto di abusi, su “La Repubblica” si fa intervistare e parla di gesto coraggioso del cardinale che denuncia una crisi “sistemica”. “Sistematica”, “sistemica”, piccole differenze ma siamo lì. Intanto: io lo avevo detto. E soprattutto: ho le prove di quanto avevo detto, sottoforma di un piccolo libro pubblicato su Amazon in versione e-book otto anni fa. Otto anni fa, mica poco. Perché i segnali ci sono tutti, c’erano già tutti, bastava prendere coraggio e leggerli. Invece si continua come nulla fosse: problemi strutturali non si affrontano, la crisi delle vocazioni non comporta un maggiore spazio ai laici, la leadership è sempre per scelta dall’alto e le capacità reali non si valutano né valorizzano. Anzi, al contrario, si clericalizza ancor di più perché essere prete è una garanzia (usato sicuro…)!! Tra chiese locali e Vaticano le incomprensioni aumentano e il dialogo non c’è. La formazione del clero è rimasta a 50 anni fa. Gli abusi che esplodono non vengono presi sul serio, sembrano incidenti di percorso, ci si arrovella su cambiamenti canonici piuttosto bizantini invece di dire chiaro e tondo che si tratta di crimini da perseguire. Le giurisdizioni – canonica e tribunale civile – si sovrappongono, si confondono, non si capisce bene chi debba fare cosa. Scrivevo, in Riformulare la Chiesa, che la crisi è “sistemica” per l’incapacità di coinvolgere le persone nelle scelte e nelle decisioni di governo; tutto arriva dall’alto. Si sbaglia la scelta delle persone perché i criteri sono opachi. Un bravo prete che dirigeva una importante struttura una volta mi disse che aveva scelto una persona in un poso di responsabilità perché “ha un buon carattere”. Un buon carattere!!!! Ma a dirigere altre persone servono competenze e capacità, non “buon carattere”. Così si va solo a rotoli. E infatti ci si va! Prima di finirla qui – leggersi “Riformulare”, è anche gratis! – dico che avevo usato “sistemica” con piena cognizione di causa, cioè in riferimento alla teoria dei sistemi che attraversa diverse discipline fino ad arrivare alla psicologia. E va integrata con il costruttivismo cioè con la raffinata analisi dei modi in cui costruiamo la nostra realtà e visione del mondo. Se i preti venissero a conoscenza di questi aspetti – Zollner per primo dovrebbe saperlo, in una Facoltà di Psicologia come quella della Gregoriana in cui lavora – forse si comincerebbe ad avere strumenti per riflettere ed intervenire.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 3 giugno 2021. Mai più “rilassatezze” nell’applicazione delle sanzioni penali nella Chiesa. La misericordia non può essere esercitata a detrimento del diritto e della tutela delle vittime. Nei casi di pedofilia, certamente . Ma anche nell’amministrazione dei beni ecclesiastici, nella mala gestio dei soldi, dei beni e degli investimenti e nei casi di violazione del segreto pontificio (come avvenne nei casi Vatileaks). Gli ecclesiastici coinvolti, ma anche i laici che svolgano funzioni nella Chiesa, (su tutto il pianeta e in Vaticano) rischiano lo stipendio o la pensione che potrà essere ridotta fino a garantire la pura sussistenza. Mentre i vescovi avranno l’obbligo di denuncia in relazione a tutti i reati di cui vengono a conoscenza, pena gravi sanzioni. Non l’aveva fatto Giovanni Paolo II, Benedetto XVI aveva solo iniziato, adesso Francesco porta a compimento la revisione del libro VI del Codice di diritto canonico: quello appunto che riguarda le sanzioni e le pene. “Negli ultimi anni, come è stato evidenziato da più parti durante il lavoro di revisione dell’apparato normativo, il rapporto di compenetrazione tra giustizia e misericordia, ha subito, talvolta, un’erronea interpretazione, che ha alimentato un clima di eccessiva rilassatezza nell’applicazione della legge penale, - ha osservato monsignor Filippo Iannone, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi - in nome di una infondata contrapposizione tra pastorale e diritto, e diritto penale in particolare”. “La presenza all’interno delle comunità di alcune situazioni irregolari - ha continuato - ma soprattutto i recenti scandali, emersi dagli sconcertanti e gravissimi episodi di pedofilia, hanno, però, fatto maturare l’esigenza di rinvigorire il diritto penale canonico, integrandolo con puntuali riforme legislative; si ”è avvertita l’esigenza - spiega in conferenza stampa - di riscoprire il diritto penale, di utilizzarlo con maggior frequenza, di migliorarne le possibilità di concreta applicazione”, per meglio definire “un quadro sistematico e aggiornato della realtà in continua evoluzione”. Questa riforma, necessaria e da lungo tempo attesa, ha lo scopo di rendere le norme penali universali sempre più adatte alla tutela del bene comune e dei singoli fedeli, più congruenti alle esigenze della giustizia e più efficaci e adeguate all’odierno contesto ecclesiale, evidentemente differente da quello degli anni ’70 del secolo scorso, epoca in cui vennero redatti i canoni del libro VI, ora abrogati”. Monsignor Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, segretario dello stesso Pontificio Consiglio, ha spiegato i criteri adottati. Innanzitutto una maggiore precisione e determinatezza sia dei reati, sia delle sanzioni e delle pene, che prima erano lasciate troppo alla discrezionalità dei vescovi (ed era per questo che in materia di pedofilia, la Santa Sede sede aveva dovuto avocare a sé i giudizi, stante le pesanti lacune di procedimenti nelle singole Diocesi). Il secondo criterio è la protezione della comunità dei fedeli e l’attenzione alla riparazione dello scandalo e al risarcimento del danno. Sono stati inseriti nel codice di diritto canonico reati che durante il Pontificato di Giovanni Paolo II erano rimasti fuori come la corruzione in atti d’ufficio, oppure nuovi reati come: l’omissione dell’obbligo di eseguire una sentenza penale e appunto l’omissione dell’obbligo di dare notizia della commissione di un reato. Tra i delitti puniti anche la tentata ordinazione sacerdotale di donne. Quanto alla pedofilia i reati saranno catalogati sotto la voce dei reati contro gli obblighi speciali dei sacerdoti, ma come reati contro la dignità della persona. E potranno essere perseguiti anche nei confronti dei religiosi non sacerdoti e di laici che occupano ruoli nella Chiesa. Verranno puniti anche gli abusi sessuali contro persone adulte, commessi con violenza o abuso di autorità. Il Papa ha promulgato il nuovo testo nella forma di una Costituzione apostolica “Pascite gregge Dei” e entrerà in vigore l’8 dicembre prossimo. Per i reati commessi prima dell’entrata in vigore, varranno le leggi più favorevoli al reo, di cui si ribadisce l’innocenza fino alla condanna. Mentre si sollecitano i giudici a processi rapidi. Intanto l’Aula giudiziaria grande allestita nella Sala polifunzionale dei Musei Vaticani è ultimata. Entrerà in funzione per le ultime battute del processo per i presunti abusi sessuali che si sarebbero svolti nel preseminario Pio X ad opera di seminari. Sarà quella la sede del processo ( o dei processi) che riguardano l’ultimo scandalo finanziario: la compravendita del palazzo di Sloane Ave 60 a Londra che a settembre è costato il posto e la berretta ad Angelo Becciu. 

Domenico Agasso per "lastampa.it" l'1 giugno 2021. L’abuso di minori è ora inquadrato come crimine contro la dignità della persona. Tra i nuovi reati ci sono la violazione del segreto, la mala gestione dei beni, la tentata ordinazione delle donne e la registrazione delle confessioni. Tra le nuove pene la privazione della remunerazione ecclesiastica. Il Pontefice cambia il Diritto penale nelle Sacre Stanze. Papa Francesco, con la costituzione apostolica Pascite Gregem Dei, riforma il libro VI del Codice di Diritto canonico. Riguarda la disciplina penale e la sua osservanza risponde a una «concreta ed irrinunciabile esigenza di carità non solo nei confronti della Chiesa, della comunità cristiana e delle eventuali vittime, ma anche nei confronti di chi ha commesso un delitto, che ha bisogno all'un tempo della misericordia che della correzione da parte della Chiesa». Lo sottolinea il Vescovo di Roma aggiungendo che il ricorso al sistema penale sostiene «il ripristino delle esigenze della giustizia, l'emendamento del reo e la riparazione degli scandali». Monsignor Iannone, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, evidenzia che negli ultimi anni c’è stata troppa «rilassatezza». Affinché tutti «possano agevolmente comprendere a fondo le disposizioni di cui si tratta, stabilisco che questa revisione del Libro VI del Codice di Diritto Canonico venga promulgata mediante la pubblicazione su L'Osservatore Romano, entri in vigore a partire dal giorno 8 dicembre 2021 e sia successivamente inserito nel Commentario ufficiale Acta Apostolicae Sedis», precisa. Tra le novità della riforma della disciplina penale varata dal Papa, il reato di abuso di minori è ora inquadrato non all'interno dei reati contro gli obblighi speciali dei chierici, bensì come reato commesso contro la dignità della persona. Sono comprese le azioni compiute non solo da parte dei chierici ma anche i reati di questo tipo commessi da religiosi non chierici e da laici che occupano alcuni ruoli nella Chiesa, così come eventuali comportamenti del genere, con persone adulte, ma commessi con violenza o abuso di autorità. Arrivano fattispecie nuove, come per esempio la violazione del segreto pontificio; l'omissione dell'obbligo di eseguire una sentenza o decreto penale; l'omissione dell'obbligo di dare notizia della commissione di un reato; l'abbandono illegittimo del ministero. In modo particolare, spiega monsignor Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, segretario del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi, «sono stati tipizzati reati di tipo patrimoniale come l'alienazione di beni ecclesiastici senza le prescritte consultazioni; o i reati patrimoniali commessi per grave colpa o grave negligenza nell'amministrazione. Inoltre, è stato tipizzato un nuovo reato previsto per il chierico o il religioso che “oltre ai casi già previsti dal diritto, commette un delitto in materia economica, anche in ambito civile, o viola gravemente le prescrizioni contenute nel can. 285 comma 4 che vieta ai chierici l'amministrazione di beni senza licenza del proprio Ordinario”». Illustra Filippo Iannone: nel riordino della disciplina penale del Codice di Diritto canonico, voluto da papa Francesco, «sono state previste nuove pene, quali l'ammenda, il risarcimento del danno, la privazione di tutta o parte della remunerazione ecclesiastica, secondo i regolamenti stabiliti dalle singole Conferenze episcopali, fermo restando l'obbligo, nel caso la pena sia inflitta ad un chierico, di provvedere che non gli manchi il necessario per un onesto sostentamento». Vengono incorporati nello stesso Codice «reati tipizzati in questi ultimi anni in leggi speciali, come la tentata ordinazione di donne; la registrazione delle confessioni; la consacrazione con fine sacrilego delle specie eucaristiche», prosegue Arrieta. Sono state «incorporate poi alcune fattispecie presenti nel Codex del 1917 che non vennero accolte nel 1983. Ad esempio, la corruzione in atti di ufficio, l'amministrazione di sacramenti a soggetti cui è proibito amministrarli; l'occultamento all'autorità legittima di eventuali irregolarità o censure in ordine alla ricezione degli ordini sacri». Negli ultimi anni il rapporto «di compenetrazione tra giustizia e misericordia - afferma Iannone - ha subito, talvolta, un'erronea interpretazione, che ha alimentato un clima di eccessiva rilassatezza nell'applicazione della legge penale, in nome di una infondata contrapposizione tra pastorale e diritto, e diritto penale in particolare». La presenza «all’interno delle comunità di alcune situazioni irregolari, ma soprattutto i recenti scandali, emersi dagli sconcertanti e gravissimi episodi di pedofilia, hanno, però, fatto maturare l'esigenza di rinvigorire il diritto penale canonico, integrandolo con puntuali riforme legislative; si è avvertita l'esigenza di riscoprire il diritto penale, di utilizzarlo con maggior frequenza, di migliorarne le possibilità di concreta applicazione, per meglio definire un quadro sistematico e aggiornato della realtà in continua evoluzione». Questa riforma, «che oggi viene presentata, quindi, necessaria e da lungo tempo attesa, ha lo scopo di rendere le norme penali universali sempre più adatte alla tutela del bene comune e dei singoli fedeli».

Presunti abusi sui chierichetti, il Papa trasferisce il Preseminario San Pio X fuori dal Vaticano. Le Iene News il 26 maggio 2021. Il Pontefice decide il trasferimento da settembre fuori dal Vaticano del Preseminario San Pio X. Qui si sarebbero consumati i presunti abusi sui “chierichetti del Papa” per cui è in corso un processo storico, il primo per abusi sessuali che sarebbero avvenuti dentro le mura vaticane. Noi de Le Iene siamo stati i primi a parlarvene nel 2017 con una notizia che ha fatto il giro del mondo. Papa Francesco accelera i tempi e non aspetta la fine del processo sui presunti abusi sui chierichetti del Vaticano. Ha deciso che il Preseminario San Pio X, che storicamente li ospita, venga trasferito da settembre fuori dal Vaticano. Il processo è quello partito dopo il primo servizio de Le Iene del 2017 con Gaetano Pecoraro ed è il primo della storia per presunti abusi sessuali che sarebbero avvenuti all’interno delle mura vaticane. Un processo che è stato possibile proprio perché il Pontefice ha modificato alcune procedure. Non ci saranno più dunque quei ragazzi che studiano e vivono in San Pietro. “Da tempo si stava studiando l’ipotesi di un trasferimento del Preseminario San Pio X al di fuori delle Mura Vaticane, anche per favorire la vicinanza dei giovani studenti ai luoghi dove svolgono i loro studi e praticano le loro attività ricreative”, spiega ufficialmente la Santa Sede. Del caso dei presunti abusi abbiamo iniziato a parlarvi per primi noi de Le Iene il 12 novembre 2017, con Gaetano Pecoraro, con un servizio e una notizia che hanno fatto il giro del mondo. Abbiamo continuato a seguirlo negli anni e qui sopra potete vedere l’ultimo servizio andato in onda un mese fa. In questo momento sono rinviati a giudizio di fronte alla giustizia vaticana e italiana il giovane sacerdote don Gabriele Martinelli, accusato di aver costretto un ragazzo a subire atti sessuali, e monsignor Enrico Radice, allora Rettore del Preseminario, accusato di aver insabbiato il tutto. “In una recente udienza, il Santo Padre Francesco ha comunicato al rettore, reverendo Don Angelo Magistrelli, la decisione che il Preseminario, a partire dal prossimo mese di settembre, sposti la sua sede all’esterno della Città del Vaticano, in luogo conveniente”, spiega la Santa Sede.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 7 ottobre 2021. «Contraddizioni e illogicità» nelle accuse che il giovane seminarista muoveva contro il suo presunto aguzzino, don Gabriele Martinelli, tanto da spingere la corte presieduta da Giuseppe Pignatone ad assolvere l'imputato da ogni reato dopo un anno di udienze. In Vaticano si chiude con un colpo di scena il processo sulle presunte violenze a un chierichetto del Papa, L.G., tra il 2006 e il 2012, azzerando di fatto l'impalcatura che il promotore di giustizia aveva costruito dall'inverno del 2017 quando iniziò a indagare su quanto accadeva nel pre-seminario san Pio X che occupava due piani di palazzo san Carlo, uno degli edifici più prestigiosi del piccolo Stato. L'accusa aveva chiesto sei anni di reclusione per don Martinelli per atti di violenza carnale aggravata e atti di libidine aggravati e quattro anni per don Radice, all'epoca rettore della struttura, per favoreggiamento. Al contrario, secondo i giudici pur ritenendosi «accertati i rapporti sessuali, di varia natura ed intensità, tra l'imputato e la persona offesa, effettivamente protrattisi per l'intero arco ultraquinquennale, difetta la prova per affermare che la vittima sia stata costretta dall'imputato con la contestata violenza o minaccia». Per questo per i fatti contestati fino al 9 agosto 2008 don Gabriele non è punibile essendo all'epoca minore di sedici anni, mentre per quelli successivi è stato assolto per insufficienza di prove. Al contrario, però, il collegio ritiene che per quanto accaduto tra l'estate del 2008 e la successiva primavera si integri «comunque il reato di corruzione di minorenni che però è stato dichiarato estinto per prescrizione», maturata già nel 2014. Don Radice, invece, esce assolto perché il fatto non sussiste. Era accusato di aver scritto una lettera dalla firma apparente del vescovo di Como, monsignor Coletti, dal quale dipendeva il pre seminario ma per il collegio quella missiva «non risulta idonea a costituire alcun aiuto a eludere le indagini». La vicenda non è ancora chiusa perché bisogna vedere se il promotore di giustizia ricorrerà in appello. Senza dimenticare che un'inchiesta gemella è ancora aperta dalla procura di Roma con un fascicolo nel quale sono finite diverse informative dei carabinieri sugli stessi fatti. È anche vero che l'ufficio del promotore di giustizia ha vissuto ieri una delle peggiori giornate nel pontificato di Francesco. La sentenza infatti smentisce la prospettazione dell'accusa che contava su uno specifico intervento del Papa che aveva tolto la prescrizione per i reati sessuali pur di permettere di accertare la verità. Sempre ieri l'azzeramento del processo al cardinale Becciu, con il collegio che ha annullato il rinvio a giudizio per la compravendita del palazzo di Londra, è figlio di una censura dei giudici nei confronti dell'ufficio del promotore tanto da dover tornare indietro. Nei sacri palazzi c'è chi si interroga sulla compiutezza della riforma della giustizia vaticana che ha visto cambiamenti negli organigrammi, a iniziare dall'insediamento di Pignatone ma che forse non è stata così incisiva sull'ufficio del promotore. Senza sindacare ovviamente sulla riconosciuta competenza giuridica del professor Roberto Zanotti, a capo dell'accusa, e dell'avvocato Alessandro Diddi, suo primo collaboratore, ci si interroga sull'efficacia effettiva di un ufficio affidato a giuristi e non magistrati. Zanotti è infatti docente alla Lumsa mentre Diddi è un brillante penalista romano. Di certo la macchina giudiziaria in vaticano oggi non è paragonabile a quella del pontificato di Benedetto XVI nel corpo investigativo, in tribunale, e con tutti gli interventi legislativi introdotti, ma le bacchettate al promotore sono destinate, con ogni probabilità, a incidere sul futuro di quell'ufficio.

Dagospia il 13 maggio 2021. Come sono state gestite e dove sono finite le offerte al Papa dei fedeli di tutto il mondo? Perché il patrimonio dell'Obolo di San Pietro è stato inghiottito in fondi speculativi, in uno strapagato palazzo nel centro di Londra, arricchendo spregiudicati finanzieri? Da oggi è in libreria e negli store online il libro «I mercanti nel tempio» (Solferino) di Mario Gerevini e Fabrizio Massaro, di cui pubblichiamo un estratto. L'inchiesta «entra» nella cassaforte riservata della Segreteria di Stato, negli uffici di cardinali, monsignori e dei loro consulenti, nei conti svizzeri, compreso quello intestato al Papa. Racconta con fatti e documenti inediti come lo scandalo è stato affrontato da Francesco ma anche coperture e ambiguità ai vertici della Santa Sede. L' intrigo sull' immobile di Sloane Avenue, gli affari del fondo Centurion a Malta, un piccolo broker che per mesi tiene in scacco il Vaticano: una trama che sembra fiction.

Estratto del libro di Fabrizio Massaro e Mario Gerevini pubblicato dal "Corriere della Sera". Nella cassaforte della Segreteria di Stato c' è un altro segreto ben custodito: il fondo Centurion (...) Che ci fa il Vaticano con un fondo maltese? E come vengono investiti questi soldi delle offerte al papa? Saranno titoli di finanza verde, socialmente responsabile? Saranno forse prodotti di risparmio che rispondono ai criteri etici di finanza sostenibile, cosiddetti «Esg» (Environmental, Social e Governance)? Facciamo richiesta al registro maltese e con dieci euro recuperiamo i bilanci. Con altri quindici rintracciamo nuovi documenti aggiornati sulle più recenti operazioni in Italia. Spulciamo ulteriori carte per seguire le tracce del denaro. Leggere e ricostruire il puzzle di informazioni è tutto meno che noioso.(...). L' investimento più clamoroso del fondo di Malta è nel cinema: 3 milioni nella produzione del film Men in Black: International, di Gary Gray. Un flop al botteghino. Ben più redditizio è stato il milione di euro investito in Rocketman, il biopic di Dexter Fletcher su Elton John, un successo planetario che però ha destato scandalo per la scena di sesso gay estremamente esplicita. (...) Un investimento nato quasi per caso. Inizialmente i soldi della Segreteria erano destinati a contribuire al finanziamento di un film di Oliver Stone con Benicio del Toro protagonista. Secondo quanto ricostruito fu organizzata una cena-evento a Napoli nel 2018 alla quale vennero invitati una serie di money-manager, compreso Enrico Crasso, (il banchiere di fiducia della Segreteria di Stato, ndr ) in rappresentanza del fondo Centurion. Al tavolo con il grande regista americano vincitore di tre premi Oscar (Fuga di mezzanotte, Platoon, Nato il quattro luglio) e creatore del finanziere avido per eccellenza, Gordon Gekko, nel film Wall Street, sedevano anche i due giovani produttori cinematografici che avevano organizzato l' incontro: Italo e Tommaso Marzotto, nipoti di Umberto e Marta Marzotto. Insomma, i potenziali investitori potevano ascoltare direttamente dalla voce di un mito di Hollywood quale fosse il progetto cinematografico e il budget. C' era già un titolo: White Lies, un dramma familiare ambientato a New York. Per contribuire alla produzione, la proposta era di sottoscrivere un bond che avrebbe dato un minimo garantito e un bonus se l' incasso avesse superato i 30 milioni. Però, qualche mese dopo, nel novembre 2018, il film di Stone - secondo Crasso - subì un brusco stop per l' indisponibilità di Benicio del Toro. E così la storia prese una direzione diversa: i capitali raccolti dai due Marzotto vennero dirottati su altre produzioni in cui erano coinvolti. Una di queste era Rocketman ed è così, dunque, che Centurion, gestore di una fetta del patrimonio dell' Obolo, ha dato il suo interessato contributo al film sulla vita del grande artista gay. Nel marzo 2021 (...)s Elton John, 74 anni e sposato dal 2014 con il regista e produttore David Furnish, prenderà la palla al balzo: «Come può il Vaticano rifiutarsi di benedire le unioni gay perché "sono un peccato", ma allo stesso tempo trarre felicemente profitto dall' aver investito milioni in Rocketman - un film che celebra la felicità che ho raggiunto dal mio matrimonio con David??». Il post della star sui suoi canali social si chiude con l' hashtag #ipocrisia. La Congregazione per la dottrina della fede aveva appena decretato che «la Chiesa non dispone del potere di benedire unioni di persone dello stesso sesso, la Chiesa benedice il peccatore ma non benedice, né può benedire, il peccato». Di sicuro, dal punto di vista economico, sarebbe stato un peccato non aver investito: il film è costato 41 milioni, ne ha incassati 200 e la Santa Sede ha ottenuto un guadagno del 13,5 per cento. Forse il maggiore fra quelli a oggi venuti alla luce.

Filippo Di Giacomo per "il Venerdì - la Repubblica" il 3 magio 2021. Restando calmi e osservando i fatti, ma da dove nasce quell' invincibile pressapochismo che conduce i "superiori" vaticani, qualunque sia la cultura da cui provengono, ad affidarsi a "competenti" di provata e chiara inesperienza ogni volta che in ballo ci sono i soldi? Certamente da un fatto: ridotto alla sua essenza fisica, nonostante la sua articolata architettura politica, il Vaticano mantiene la primitiva forma di quartiere romano: un monsignore di media età e di normale forma fisica può percorrere l'intero territorio dello Stato, partendo e arrivando a Porta Sant' Anna, in quaranta minuti. Vista poi nella sua struttura socio-politica, tutta la "querelle" sui denari e i mali traffici della finanza con la tonaca si riduce a una elementare filosofia giuridica di stampo "familistico": lo Stato non riscuote le imposte, raccoglie contributi volontari e (in teoria) partecipa al bene comune con attività commerciali gestite in monopolio. In un certo senso, il Regno del Papa pratica (con identici e infausti esiti) lo stesso sistema socio-economico applicato nei kolchoz della defunta Urss. Se il Papa decidesse di abolire lo Ior (argomento trito e ritrito, ormai diventato arma di distrazione di massa) dovrebbe convincere i sudditi del suo Stato temporale (che accumulando due o più benefici percepiscono anche stipendi da 10.000 euro mensili) ad accettare una tassazione conforme agli Stati contemporanei. L'anagrafe papalina conta 194 "cittadini", di cui 150 residenti all' estero, per servizio diplomatico. Per trovare i contribuenti, al Papa basterebbe decidere di togliere ai circa 600 finti "residenti" l'alibi di scansare anche la tassazione italiana, limitata al 4 per cento per i redditi prodotti all' estero. Riforma dopo riforma, sono loro che continuano a godere dei privilegi di sempre, combinando tranquillamente i guai di sempre.

Vaticano, ora scoppia la "bufera" delle Messe a San Pietro. Dal divieto di Messe individuali al rito antico relegato nelle grotte. I conservatori chiedono al Papa delle regole nuove. Francesco Boezi - Dom, 04/04/2021 - su Il Giornale. La pandemia ha spento le polemiche nella Chiesa cattolica, ma gli alti ecclesiastici stanno dibattendo attorno ad una questione nuova. Il "divieto delle Messe individuali" presso la Basilica di San Pietro non è stato condiviso da quello che i retroscenisti chiamano "fronte conservatore", con l'aggiunta del cardinal Robert Sarah, che ha da poco terminato il suo incarico di prefetto presso la Congregazione per il Culto divino e per la Disciplina dei sacramenti. La disposizione della segreteria di Stato risale alla prima metà di marzo: da allora, all'interno della chiesa più importante del mondo, i sacerdoti non possono celebrare come prima. La seconda quaresima in pandemia costringe l'Ecclesia alla rivisitazione delle tradizioni: è un fatto noto. Tra gli alti prelati, però, c'è chi non è mai stato troppo propenso a concedere deroghe sulle consuetudini. Se i cardinali Raymond Leo Burke, Walter Brandmueller e Gherard Ludwig Mueller - i tre che hanno criticato in prima battuta la decisione sulle Messe individuali - si erano già distinti per "conservatorismo", il cardinal Sarah, almeno sino a questo momento, aveva espresso le sue tesi attraverso opere librarie e pochi calibrati interventi pubblici. Non si tratta certo di fare "opposizione" al Papa, ma semmai di difendere una certa impostazione normativa. Nell'intervento pubblicato sul blog di Sandro Magister, il cardinale africano prende una posizione chiara: "In sintesi: quando possibile, si preferisce la celebrazione comunitaria, ma la celebrazione individuale da parte di un sacerdote rimane opera di Cristo e della Chiesa. Il magistero non solo non la proibisce, ma la approva, e raccomanda ai sacerdoti di celebrare la Santa Messa ogni giorno, perché da ogni Messa sgorga una grande quantità di grazie per il mondo intero". La Messa è Messa sempre. Questa è l'interpretazione di fondo che Sarah registra a partire dalle fonti. Sino a questo momento, il Vaticano non ha replicato. E a San Pietro il divieto permane. Sarah, sulla scia delle considerazione degli altri porporati citati, chiosa domandando al Santo Padre una revisione della disposizione, che come premesso è del "ministero degli Esteri" della Santa Sede: "Supplico umilmente il Santo Padre - annota l'ex prefetto - di disporre il ritiro delle recenti norme emanate dalla segreteria di Stato, le quali mancano tanto di giustizia quanto di amore, non corrispondono alla verità né al diritto, non facilitano ma piuttosto mettono in pericolo il decoro della celebrazione, la partecipazione devota alla messa e la libertà dei figli di Dio". La cosiddetta "tridentina", poi, dovrebbe essere relegata soltanto alle grotte: un'altra diminutio di cui si parla meno, ma che potrebbe essere al centro dei pensieri dei cardinali conservatori. In questa storia esistono almeno due aspetti di fondo: uno è statistico e riguarda il numero delle Messe celebrate a San Pietro, l'altro è simbolico e attiene con ogni probabilità a vecchie ruggini, per così dire, sul valore attribuito alla Messa in vetus ordo. E la notizia risiede pure nella presa di posizione pubblica che quattro cardinali hanno deciso di manifestare in sincrono o quasi. Non siamo ai livelli dei "dubia" su Amoris Laetitia, ma le interpretazioni sulle spaccature si sprecano, in specie da parte dei cosiddetti "blog tradizionalisti". Il provvedimento - come detto - rileva pure per il rito antico, e per Sarah è "singolare" che sia così: "Da oggi in poi, essa – nel numero massimo di quattro celebrazioni quotidiane – è consentita esclusivamente nella Cappella Clementina delle Grotte vaticane ed è del tutto vietata su qualunque altro altare della basilica e delle Grotte". Un punto che può apparire secondario, ma che secondario non è. Se non altro perché sulla "tridentina" e sul suo ruolo per la prospettiva del cattolicesimo si discute in maniera animata ormai da anni.

Franca Giansoldati per “Il Messaggero” il 16 marzo 2021. Scoppia la guerra delle messe a San Pietro. Ormai in Vaticano sembra che ogni pretesto sia buono per litigare su tutto, persino sulle celebrazioni liturgiche nella basilica che è al centro della cristianità. Tutto è iniziato in sordina, con una lettera «anomala» e «preoccupante» proveniente dalla Prima Sezione della Segreteria di Stato, certamente avallata da Papa Francesco, che vieta a tutti i canonici e ai vescovi di celebrare messe individuali in basilica e ne stabilisce un limite giornaliero. Ma, soprattutto, sfratta definitivamente le messe in rito straordinario (quelle per intenderci che si celebrano rivolte all'altare, difese strenuamente dalle frange più tradizionaliste e ortodosse della Chiesa) relegandole alle Grotte Vaticane, evidentemente per non lasciarle "in vetrina". Un provvedimento ritenuto da molti anomalo anche perchè la Segreteria di Stato sembra sia intervenuta in una materia che esula dalle sue competenze, dando l'avvio alla miccia sotterranea dei mugugni, fino alla protesta aperta. 

Franca Giansoldati per "Il Messaggero" il 25 febbraio 2021. C'è un misterioso tesoretto sotto la Cupola di San Pietro. È contenuto in 50 casse ignifughe, di colore verde, di quelle che vengono utilizzate normalmente per mettere al riparo merce preziosa e opere d'arte da ogni tipo di danni durante i trasporti. Dentro ai contenitori di diverse dimensioni si trovano decine e decine di dipinti antichi, manufatti di varia fattura, sculture di marmo, pezzi di affreschi quattrocenteschi distaccati probabilmente da chiese e anche materiale archeologico. Il tesoretto è stato accumulato da un anziano canonico di San Pietro, don Michele Basso che già attorno agli anni Duemila era finito al centro di una inchiesta della Procura di Roma poi archiviata e finita nel nulla. Il tesoro d'opere d'arte dal notevole valore commerciale è stato stoccato senza fare troppa pubblicità in uno degli ambienti meno accessibili della basilica di San Pietro, in un locale sotto al cupolone, in una specie di sottotetto, al riparo da curiosi. Nessuno in Vaticano vorrebbe affrontare questo argomento. Si sa solo che le cinquanta casse sono stipate da un po' di tempo in un ambiente irraggiungibile, chiuso a chiave e sconosciuto ai più; una autentica fortuna sulla cui provenienza sono state avviate delle verifiche interne. Non si sa, infatti, se i beni facevano parte di collezioni, oppure acquisti fatti nel tempo, lasciti di conventi o istituti religiosi, eredità, regali ricevuti da benefattori o beni ecclesiastici non mai catalogati. Per il Vaticano di certo è una altra grana da risolvere in attesa che si insedi il nuovo arciprete della basilica. Spetterà al cardinale di Assisi, il francescano Mauro Gambetti, nominato dal Papa al posto di Angelo Comastri (che lascia l'incarico di arciprete per limiti d'età), il compito di sciogliere il giallo sulla provenienza di questi quadri. Naturalmente sia il Papa che la Segreteria di Stato sono a conoscenza dell'esistenza delle casse piene di quadri. Lo stesso cardinale Pietro Parolin, qualche mese fa, si era recato personalmente a svolgere una sorta di ispezione per valutare il da farsi. L'esame avrebbe fatto affiorare tele di rara fattura della scuola di Mattia Preti, diversi bozzetti di Pietro da Cortona, tavole lignee del Guercino, di Golzius, di Pasqualotto, oltre che sculture lignee del Seicento e persino una scultura in marmo bianca ispirata ai Prigioni di Michelangelo. Tele autentiche mescolate però anche a diversi falsi, realizzati evidentemente da falsari molto abili. Tra gli oggetti chiusi a chiave anche diverse copie di vasi etruschi, e romani contraffatti talmente bene da sembrare autentici compresa una copia del Vaso di Eufronio. Probabilmente sono stati prodotti a Roma verso la fine dell'Ottocento, quando era quasi una moda riprodurre manufatti romani o etruschi in ogni piccolo particolare. Si trattava di una abilità di alcuni maestri artigiani che ha dato vita a dei falsi talmente straordinari da avere anch'essi un mercato internazionale piuttosto fiorente. Resta in ogni caso insoluto come quella incredibile quantità di opere d'arte sia stata accumulata e perché sia stata messa dentro a queste casse. Doveva essere trasportata altrove? E perché è stata stoccata senza clamori sotto la Cupola di San Pietro? I quadri, alcuni dei quali autentici capolavori, provengono da depositi religiosi? Un giallo dai contorni per il momento sfilacciati che attende l'arrivo di padre Gambetti per essere risolto. L'anno scorso Papa Francesco aveva dato disposizioni di aprire una ispezione interna sulla gestione della Fabbrica di San Pietro affidandola ad un ecclesiastico di sua stretta fiducia. Il canonico don Michele Basso interpellato su questi quadri taglia corto: «Io ho donato tutto alla Fabbrica di San Pietro. Ora non sono più il proprietario. Non ne so più niente». Ma come ha fatto ad accumulare questo tesoro? Padre Michele Basso risponde affidandosi ad una immagine colorita. «È come ritrovarsi con tante scarpe nell'armadio. Alcune sono state comprate e altre sono state regalate».

Salvatore Cernuzio per lastampa.it il 30 marzo 2021. Da Colonia alla Polonia, l’eco degli scandali per gli abusi del clero si rinfocola nel cuore dell’Europa. Mentre in Germania, il Papa concede un «time out» al vescovo di Amburgo, Stefan Heße, dimessosi dopo la pubblicazione del report sugli abusi nell’Arcidiocesi di Colonia dal Dopoguerra in poi, nella vicina Polonia cala su due vescovi la punizione del Vaticano per aver occultato casi di pedofilia nelle loro diocesi. Un provvedimento, questo, che arriva dopo mesi di polemiche e indagini. I due vescovi in questione sono l’arcivescovo di Danzica, Leszek Slawoj Glódzie, e l’ex vescovo di Kalisz, Edward Janiak, nomi accompagnati da anni da un vespaio di critiche in Polonia per i comportamenti inappropriati non solo sui casi di abusi, ma anche per questioni legate all’amministrazione del ministero. Un comunicato presentato oggi dal nunzio in Polonia alla stampa - visionato da Vatican Insider -, informa che la Santa Sede, dopo aver ricevuto rapporti formali, ha condotto un procedimento per negligenza sulla base delle «disposizioni del Codice di Diritto canonico» e delle indicazioni del Motu proprio del 2019 «Vos estis Lux mundi» con il quale Papa Francesco ha stabilito nuove e universali norme procedurali circa l’«accountability» (la responsabilità) di vescovi. All’arcivescovo Glódzie è stato imposto l’ordine di risiedere fuori dall’arcidiocesi di Danzica, il divieto di partecipare a cerimonie o riunioni religiose pubbliche, l’obbligo di pagare con fondi personali un importo appropriato alla fondazione «Fundaja tow» che aiuta vittime di abusi. Il 13 agosto 2020 Francesco aveva accettato la rinuncia presentata a 75 anni da Glódz e nominato a Danzica un amministratore apostolico «ad nutum Sanctae Sedis» (fino a diverso provvedimento) nella persona di monsignor Jacek Jezierski. Quest’ultimo, coadiuvato da sacerdoti esterni alla diocesi, ha condotto le indagini sull’arcivescovo, circondato da critiche e contestazioni sin dagli Anni 80. L’accusa di aver coperto un prete abusatore - emersa anche nel documentario del maggio 2019 «Tylko nie mów nikomu» («Non dirlo a nessuno») dei fratelli Sekielski, lo «Spotlight» polacco - è infatti solo uno dei tanti addebiti contro Glódz, accusato da media della Polonia di essere un ex collaboratore dall’intelligence militare della Repubblica Popolare polacca, o di aver umiliato e intimidito i suoi collaboratori. Anzi, in un’inchiesta trasmessa sulla nota emittente TVN24, una dozzina di preti - sotto anonimato - affermava che Glódz maltrattasse regolarmente i propri sottoposti e offrisse incarichi ecclesiastici a pagamento, coi quali finanziava uno stile di vita lussuoso. Le stesse pene di Glódz sono state imposte a monsignor Janiak: quindi il divieto di vivere nella diocesi di Kalisz e di partecipare a cerimonie religiose pubbliche e l’obbligo di pagare di tasca propria una somma adeguata alla fondazione per le vittime. Janiak è accusato di aver coperto un prete della sua diocesi, padre Arkadiusz Hajdasz, spostato in varie parrocchie dove per oltre un quarto di secolo ha abusato di diversi minorenni, senza però mai essere punito. La vicenda era stata portata alla luce sempre dal docufilm dei Sekielski, che intervistavano due vittime di Hajdasz e affermavano che Janiak gli avesse garantito protezione. Sul caso era stata condotta un’indagine preliminare dall’arcivescovo di Poznan, Stanislaw Gadecki, ma il primate di Polonia, l’arcivescovo di Gniezno Wojciech Polak, delegato dell’Episcopato per la protezione dei minori, nell’estate 2020 aveva poi rimesso tutto nelle mani della Santa Sede inviando un appello formale per chiedere di «avviare procedure». Papa Francesco, il 25 giugno di quell’anno, aveva nominato a Kalisz un amministratore apostolico «sede plena», il metropolita di Lodz Grzegorz Rys, ordinando a Janiak (rimasto nominalmente ordinario) di rimanere fuori dalla diocesi per il tempo delle indagini sulla negligenza. Sempre in Polonia, neanche due settimane fa, era circolata la notizia che fosse in vista un provvedimento contro il cardinale Stanislaw Dziwisz, figura eminente della Chiesa polacca, per 39 anni segretario particolare di Giovanni Paolo II. Una commissione statale sembra accusare il famoso porporato di aver ignorato denunce di violenze sessuali di sacerdoti su minori dopo essere diventato arcivescovo di Cracovia nel 2005. Dziwisz ha sempre respinto tali addebiti, affermando di aver trascorso gli ultimi cinquant’anni della sua vita «al servizio della Chiesa, del Papa e della Polonia» e di avere fiducia in «un’indagine trasparente». Spostandosi al confine, gli scandali per la pedofilia del clero continuano a tormentare anche la Germania, dove il 18 marzo sono stati presentati i risultati di un’indagine indipendente sulla gestione degli abusi nell’Arcidiocesi di Colonia. Il report, realizzato dallo studio legale Gercke & Wollschläger su commissione del cardinale Rainer Maria Woelki, ha mostrato numeri drammatici: oltre 200 abusatori, 314 vittime, violenze avvenute dal 1975 al 2018 e il 63% per colpa del clero. Alcuni vescovi, dopo la pubblicazione, hanno presentato al Papa le dimissioni; tra questi il pastore di Amburgo, Stefan Heße, ex direttore del personale per l’arcidiocesi di Colonia e vicario generale dell’allora cardinale Joachim Meisner, scomparso nel 2017. A Heße, secondo il report, sono da ascrivere undici violazioni di obblighi d’ufficio (a Meisner, invece, ventiquattro, circa un terzo di tutti i casi esaminati). Heße si è dimesso il giorno stesso, pur affermando di non aver «mai partecipato a insabbiamenti»: «Sono pronto ad assumermi la mia parte di responsabilità per il guasto del sistema». Oggi il Papa ha offerto «una prima risposta» alla rinuncia del vescovo concedendogli «una pausa», senza specificarne la durata. Durante la sua assenza, il vicario generale Ansgar Thim si occuperà della «corretta amministrazione» della chiesa di Amburgo.

Da ilpost.it il 24 marzo 2021. I Legionari di Cristo, una congregazione interna alla Chiesa cattolica, hanno diffuso pubblicamente i nomi dei propri sacerdoti accusati di abusi sessuali dagli anni Quaranta, cioè dagli inizi della congregazione, fino al 2019. La serie di documenti è stata diffusa al termine di un percorso iniziato nel 2009 con cui la congregazione – nota anche per la spregiudicatezza con cui in passato ha gestito il proprio ingente patrimonio – ha affrontato insieme al Vaticano le estese accuse di abusi nei confronti dei propri leader, compreso il fondatore Marcial Maciel Degollado, morto nel 2008. Dopo anni di accuse, oggi i Legionari di Cristo hanno riconosciuto la loro omertà nei confronti dei propri sacerdoti e di Maciel Degollado – che la Chiesa aveva costretto a dimettersi da capo della congregazione nel 2005 – decidendo di compensare economicamente le persone abusate. Per evitare nuove violenze hanno messo in piedi una struttura per agevolare nuove eventuali denunce. I Legionari di Cristo nacquero in Messico negli anni Quaranta come una congregazione di missionari di idee piuttosto conservatrici, senza essere eccessivamente connotati politicamente. Furono riconosciuti quasi subito dalla Chiesa cattolica, e negli anni si espansero sia nel Sud America sia in Occidente. L’origine del loro nome non è chiarissima ma fa probabilmente riferimento a una zelante attività “sul campo”, dato che i legionari erano i soldati semplici dell’esercito romano. «La Congregazione si è impegnata a correggere i suoi errori e ha riconosciuto degli alleati nelle autorità civili ed ecclesiastiche, nella società, nei mezzi di comunicazione e negli organismi specializzati in prevenzione di abusi e riparazione della giustizia» si legge nel documento (PDF) in cui spiegano l’approccio degli ultimi anni. Anche la pubblicazione dei nomi dei sacerdoti coinvolti, si legge nel documento, «vuole contribuire alla creazione di percorsi con cui vogliamo fare verità, fare giustizia e contribuire a sanare le vittime e consolidare una cultura di abusi zero nella Congregazione e nella società». L’elenco si può leggere sul sito 0abusos.org nella sezione casos de abuso ed è diviso per paese dove sono stati attivi i sacerdoti coinvolti. Di tutti loro sono stati diffusi nomi e cognomi, a meno che la legislazione locale lo proibisca: in quel caso sono stati indicati col nome oppure con un numero. In Italia è stato attivo un sacerdote coinvolto, il messicano Vladimir Reséndiz Gutiérrez, che fra il 2003 e il 2008 visse a Novara, in Piemonte. Reséndiz Gutiérrez fu sospeso dal suo lavoro dopo le prime accuse, nel 2008, e nel 2013 la Chiesa lo espulse dal sacerdozio. In totale i sacerdoti responsabili di abusi sessuali sono 27, mentre le persone abusate sono circa 170, in buona parte maschi di età compresa fra 11 e 16 anni. Circa un terzo delle persone abusate ha ricevuto violenza proprio da Maciel Degollado, su cui circolavano moltissime accuse già negli anni Novanta. Nel 1999 però le accuse nei suoi confronti furono archiviate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, un organo interno al Vaticano guidato dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, che poi diventò papa col nome di Benedetto XVI. I Legionari di Cristo ci tengono a sottolineare che le accuse riguardano soltanto il 2 per cento dei sacerdoti che hanno fatto parte della congregazione in tutta la sua storia, cioè 1.380. Dei 27 sacerdoti coinvolti, soltanto due sono stati condannati dalla giustizia penale, mentre 16 sono stati sanzionati dalle autorità del Vaticano e 8 risultano ancora sotto processo ecclesiastico. L’indagine interna ha anche individuato 60 novizi accusati di abusi, e che alla fine non sono mai diventati sacerdoti. Non è chiaro se anche le accuse nei loro confronti siano state segnalate alle autorità civili o ecclesiastiche. L’iniziativa dei Legionari di Cristo è stata presa in accordo col Vaticano, che però adotta standard meno rigorosi sui casi che riguardano tutti gli altri sacerdoti: ancora oggi, nonostante le nette prese di posizione di Papa Francesco, non sono rari i casi di sacerdoti accusati di abusi che vengono semplicemente sospesi o trasferiti dalle autorità ecclesiastiche, senza che il pubblico venga messo a conoscenza delle vicende.

Il Post giovedì 9 maggio 2019. Papa Francesco ha emesso una legge contro gli abusi sessuali nella Chiesa. Papa Francesco ha pubblicato una nuova legge valida per tutta la Chiesa cattolica che impone a vescovi, sacerdoti e chiunque assuma un ministero all’interno della Chiesa di segnalare gli abusi sessuali alle autorità ecclesiastiche. «I crimini di abuso sessuale offendono Nostro Signore – afferma il Papa nel proclama – causano danni fisici, psicologici e spirituali alle vittime e ledono la comunità dei fedeli. Affinché tali fenomeni, in tutte le loro forme, non avvengano più, serve una conversione continua e profonda dei cuori, attestata da azioni concrete ed efficaci che coinvolgano tutti nella Chiesa». Il Papa ha anche stabilito che entro un anno dall’entrata in vigore della legge, tutte le diocesi debbano dotarsi di un sistema facilmente accessibile per permettere di segnalare abusi sessuali verso minori e persone vulnerabili; atti sessuali avvenuti «con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità»; la produzione e distribuzione di materiale pedopornografico; la copertura degli stessi abusi.

Vaticano, Papa Francesco e i libri che svelano lo scandalo: preti gay, squillo e notti brave. Sara Cariglia su Libero Quotidiano il21 marzo 2021. Il suo leitmotiv è il celibato, la sua cifra la castità. Nel decalogo della Chiesa episcopale romana "il primo comandamento" recita così, ma per amor di verità va detto che di voci fuori dal coro ce ne sono a iosa. Altro che i roghi degli eretici e delle streghe, la nuova mannaia che incombe come un coltello tutto lama sopra la testa dell'immacolata Casa Pontificia si intitola La casta dei casti, un saggio-inchiesta edito da Bompiani (2021) che fa vacillare persino le fondamenta della Chiesa cattolica di Cristo Gesù. Il "popolo di Dio" s' incammina verso la Santa Pasqua che, segnata dal flagello del Corona, sarà inevitabilmente chiamata a rispondere all'indagine choc del sociologo Marco Marzano. Il docente universitario, con la sua recente e sobillata "inquisizione", mette sotto scacco le notti brave di preti gay, gaudenti monsignori e vescovi viveur. Tra una provocazione e quella successiva, la penna di Marzano traccia l'identikit dei presenti e futuri "ministri di Cristo", frequentatori assidui di siti per incontri erotici, in particolare delle chat Grindr e Tinder. Un'assemblea di sacerdoti, sotto le copertine dei saggi «La casta dei casti» e «Giustizia divina» Le orde di "santi" perlustrate dal chiarissimo professore sarebbero perlopiù "uomini in sottana". La ragione è squisitamente matematica: «Nel collegio cardinalizio e in Vaticano l'omosessualità è la regola, l'eterosessualità l'eccezione. Un profondo conoscitore del mondo clericale e prete egli stesso, si è chiesto addirittura se quella clericale non stia per caso diventando una "gay profession"».

I TABÙ - In ogni caso bisogna sapere che il piacere gay non è legato solo al divertimento, chiarisce lo "spacciatore" dei più vieti tabù. In gioco c'è di più: «Ci sono potere e carriera». A questo riguardo, a suffragare i segreti del misterioso regno delle diocesi, è la "parabola" di Don Mario: «Il prete mi ha raccontato che nel suo seminario, come poi ha scoperto in quasi tutti, esiste una vera e propria lobby gay. Il punto è che tale lobby governa la diocesi. Decide tutti i posti, gode di una miriade di privilegi e il sesso è la via per reclutare nuovi membri». Pare inoltre che dietro la "magia" dei confessionali alberghi un universo altrettanto trash, fatto di ieratiche dee della perversione e della voluttà. "Madonne" in carne e ossa con le quali gli "aspiranti preti" sarebbero soliti intessere fuggevoli liaison: «L'impossibilità di avere una relazione libera induce alcuni seminaristi a ricorrere al sesso mercenario, all'incontro con le prostitute» confessa l'ordinario di sociologia. In definitiva in cima al novero delle compensazioni della vita claustrale vi sarebbe sua maestà il sesso: «Per la dottrina cattolica masturbarsi è un'attività peccaminosa; ciò malgrado i giovani seminaristi si masturbano e talvolta fanno sesso tra di loro con i superiori o con qualcuno all'esterno della istituzione. I capi seducono gli allievi che a loro volta si seducono l'un l'altro», tuona Marzano. Il disvelamento della verità? Non s' ha da fare, né ora né mai, conclude il cattedratico: «D'altra parte sesso e affettività sono i grandi segreti della Chiesa, le due interdizioni sacre sulle quali l'istituzione ecclesiastica desidera che non si faccia luce, pena il crollo della stessa». Ad aprire una breccia nel massiccio muro di omertà delle influenti congreghe ecclesiastiche sono pure Federico Tulli e Emanuela Provera, autori di Giustizia divina, la prima inchiesta sulle "comunità" in cui vengono nascosti i sacerdoti che imbarazzano la Chiesa. Il giornalista non fa mistero della percentuale di preti italiani affetti da malattie psichiatriche: «Parliamo di circa il 10 % dei consacrati. In altre parole almeno 3mila persone sarebbero affette da ludopatia, alcolismo, depressione o crisi vocazionali». Ma ci sono anche casi diversi, aggiunge Tulli: «Nei conventi e nelle parrocchie non troviamo solo il pedofilo in tonaca, ma la suora stalker, il parroco omicida, quello che scappa dopo aver provocato un incidente o il ladro che ruba i soldi delle offerte».

CHI È IN DIFFICOLTÀ - Una domanda sorge spontanea: chi si occupa dei "sacerdoti in difficoltà"? «Di loro si occupa la Chiesa. Come una "madre amorevole". Non è vero che il chiericato nasconde i preti pedofili, si sa benissimo dove si trovano» sottoscrive Tulli, mentre allude ai siti di espiazione e penitenza dei rei. «Si tratterebbe di luoghi di reclusione, ma senza sbarre e carcerieri. Ve ne sono anche in Italia, disseminati come piccole enclave vaticane lungo tutto lo Stivale. A oggi sono oltre venti». L'Oasi di Elim, la "clinica" per i preti "orchi" della diocesi di Roma, è probabilmente la più famosa. C'è chi come Tulli e Provera in queste "segrete stanze" ci si è addentrato, e ha scoperto che tra gli indagati e i condannati, molto pochi sono in carcere o sono passati per un carcere: «Possiamo sostenere senza incertezze che in queste dimore vengono indirizzati con garanzia di anonimato i sacerdoti protagonisti di episodi di abusi su minori che i vescovi del nostro Paese non hanno mai denunciato alla magistratura laica».Ma è sul finire della conversazione che il "sobillatore" delle potenti consorterie squarcia la coltre nera del perbenismo clericale e bigotto: «Fino a che la Chiesa vivrà nell'assurda convinzione di poter far guarire il cacciatore di bambini con preghiere e confessioni, e penserà che rubare un'ostia o violentare un fanciullo siano delitti posti sullo stesso piano, è difficile che qualcosa possa davvero cambiare».

Domenico Agasso per “la Stampa” il 19 marzo 2021. Uno scandalo pedofilia dalle proporzioni drammatiche diventa un terremoto che scuote le Sacre Stanze di Germania. Il report di un'indagine indipendente sulla gestione degli abusi sessuali nell'Arcidiocesi di Colonia, commissionata dall'arcivescovo, il cardinale Rainer Maria Woelki, fornisce numeri agghiaccianti: 202 i responsabili e 314 le vittime di violenze avvenute tra il 1975 e il 2018. E per il 63% i colpevoli sono appartenenti al clero. «Mi vergogno profondamente», dichiara Woelki, condannando anche «l'occultamento» dei crimini avvenuto in passato. Come prima immediata reazione alle oltre 800 pagine di dossier su 236 fascicoli degli orrori, realizzato dallo studio legale Gercke & Wollschläger, il porporato ha temporaneamente esonerato il vescovo ausiliare, monsignor Dominikus Schwaderlapp, e il vicario giudiziale, padre Günter Assenmacher, che sarebbero autori di violazioni di obblighi d'ufficio. Schwaderlapp chiede immediatamente a papa Francesco «il suo giudizio», offrendo al Pontefice la rinuncia all'incarico, perché «non posso essere giudice della mia stessa causa». Tra le altre figure ecclesiastiche che avrebbero compiuto omissioni o insabbiamenti ci sarebbero il pastore di Amburgo Stefan Hesse e l'ex vicario generale di Colonia Norbert Feldhoff, così come il cardinale arcivescovo già deceduto Joseph Höffner (1906-1987). Anche Hesse, che era stato a sua volta vicario generale a Colonia, ha subito offerto al Papa le dimissioni, chiedendo la rimozione dal proprio ruolo con effetto immediato. E non ne esce bene neanche il cardinale Joachim Meisner, morto nel 2017: la sua gestione degli abusi è stata definita «fallimentare» da Woelki. Considerato tra i presuli più vicini Benedetto XVI, Meisner spesso ha manifestato pareri e prodotto interventi apertamente critici verso Bergoglio, su tutti la firma dei celebri «dubia» sulla comunione ai divorziati risposati. Stando ai periti, invece, su Woelki non ci sono ombre. Una copia del rapporto è stata consegnata anche a Peter Bringmann-Henselder del consiglio consultivo per le vittime di abusi sessuali della diocesi: «Abbiamo dovuto aspettare a lungo, troppo a lungo come vittime, per questo importante passo di chiarimento. Ma oggi sono felice che almeno questa prima promessa sia stata mantenuta».

Chierichetti del Papa, il processo per i presunti abusi e i servizi de Le Iene. Le Iene News il 13 aprile 2021. Torniamo a parlarvi con Gaetano Pecoraro di un caso di cui noi de Le Iene vi abbiamo parlato per primi nel novembre 2017 con una notizia che ha fatto il giro del mondo. Si tratta dei presunti abusi sessuali sui “chierichetti del Papa” che sarebbero avvenuti in Vaticano nel Preseminario San Pio X. Oggi per questa vicenda due sacerdoti sono rinviati a giudizio, con l’accusa uno di abusi e uno di insabbiamento. Papa Francesco è intervenuto personalmente, modificando le procedure, per far celebrare questo processo, il primo del genere nella storia vaticana. Con Gaetano Pecoraro torniamo su una storia terribile e delicatissima, Abbiamo iniziato a parlarvene il 12 novembre 2017 con un servizio e una notizia che hanno fatto il giro del mondo. Si tratta dei presunti abusi sessuali che sarebbero avvenuti sui “chierichetti del Papa” all’interno del Preseminario San Pio X in Vaticano. Oggi, per questa vicenda, sono rinviati a giudizio di fronte alla giustizia vaticana e italiana il giovane sacerdote don Gabriele Martinelli, accusato di aver costretto un ragazzo a subire atti sessuali, e monsignor Enrico Radice, allora rettore del Preseminario, accusato di aver insabbiato il tutto. Papa Francesco è intervenuto personalmente modificando le procedure per permettere che si potesse celebrare questo processo, il primo nella storia per reati sessuali che sarebbero avvenuti dentro le mura vaticane. Nel servizio qui sopra potete vedere quello che Kamil, un ragazzo polacco, ha raccontato a Gaetano Pecoraro. Kamil ha frequentato a 15 anni il Premiseminario San Pio X e dice di aver assistito un centinaio di volte a delle molestie sessuali di un seminarista più grande, una figura di rilievo nella struttura (ovvero Gabriele Martinelli, che ha sempre negato tutto quanto riportato), sul suo compagno di stanza, anche lui al tempo minorenne, che chiameremo Marco. Parliamo anche con Marco, che sostiene come Kamil che altri le avrebbero subite e che ci racconta il suo incubo iniziato a 13 anni e durato per altri sei. “È stato il mio primo approccio al sesso, neanche capivo esattamente che cosa stesse succedendo”: nel servizio qui sopra potete sentire le parole di questo ragazzo, commosso e ancora angosciato. Sostiene addirittura che il seminarista più grande avrebbe provato a fare sesso con lui anche in un piccolo bagno dietro l’altare maggiore della Basilica di San Pietro durante una celebrazione. Kamil aveva deciso di raccontare tutto, dopo che Marco aveva lasciato il Preseminario, con il padre spirituale dell’istituto don Marco Granoli, che avrebbe fatto una sua indagine e che per questo nel 2013 avrebbe chiesto di interrompere il cammino verso il sacerdozio di Gabriele Martinelli. Non verranno presi provvedimenti, don Granoli verrà spostato ad altri incarichi e Martinelli ordinato sacerdote nel giugno 2017. Intanto Kamil viene mandato via. L’inchiesta di Gaetano Pecoraro prosegue indagando sui presunti insabbiamenti del caso, con personalità anche di alto livello che potrebbero essere coinvolte. La Iena cerca di fare alcune domande, come vedete tra molte difficoltà. Mentre raccogliamo la testimonianza anche di un altro ragazzo.

Roberto Canali per ilgiorno.it il 27 febbraio 2021. È stata e lunga e dettagliata la deposizione fornita dal vescovo di Como, monsignor Oscar Cantoni, ascoltato ieri in Vaticano come testimone al processo per le presunte violenze ai chierichetti del Papa, consumate all’interno del Preseminario San Pio X gestito dall’Opera don Folci che dipende proprio dalla diocesi. Una brutta storia di abusi, silenzi e complicità iniziata a settembre 2006 e proseguita fino al giugno nel 2012, quando a reggere la diocesi di Como c’era monsignor Diego Coletti, ma venuto alla luce solo più tardi grazie alla denuncia di una delle vittime e all’inchiesta compiuta dalla trasmissione tv "Le Iene". Tra i tanti aspetti ancora da chiarire i 20mila euro chiesti dal vescovo di Como a don Gabriele Martinelli, imputato per i presunti abusi, da corrispondere a titolo di risarcimento al ragazzo che ha denunciato le violenze. "Non una condanna perché il processo canonico non è mai iniziato – ha risposto monsignor Cantoni al collegio giudicante diretto dal magistrato Giuseppe Pignatone – Si tratta di una decisione presa al termine di un’indagine "votum episcopi" che diventerà esecutiva solo all’esito di questo processo". Il vescovo ha proseguito confermando che c’erano state segnalazioni su don Martinelli "per la sua condotta sessualmente inappropriata". "Una tendenza omosessuale transitoria legata all’adolescenza – ha spiegato – Don Martinelli da quando è a Como, prima come diacono poi come sacerdote, ha tenuto una condotta ineccepibile". Da chiarire anche la posizione di don Enrico Radice, rettore del collegio e anche lui imputato per aver coperto l’operato di don Martinelli. Una sorta di terra di nessuno il Preseminario, nel cuore stesso del Vaticano, ma fuori dalla giurisdizione della Santa Sede come ha avuto modo di chiarire il vescovo con il vicario generale monsignor Angelo Comastri e il Segretario di Stato, il cardinale Parolin. Per anni sotto l’esclusivo controllo di don Radice e dell’Opera don Folci ora commissariata. "La diocesi è responsabile non solo delle questioni economiche ma anche di quelle pedagogiche – ha concluso monsignor Cantoni - sono molto preoccupato".

Presunti abusi sui chierichetti del Papa, il vescovo di Como aveva deciso un risarcimento. Le Iene News il 26 febbraio 2021. Il caso dei presunti abusi sessuali avvenuti ai danni dei cosiddetti “chierichetti del Papa” nel Preseminario San Pio X in Vaticano è scoppiato dopo la nostra inchiesta con Gaetano Pecoraro. Tra i punti da chiarire c’è anche il risarcimento di 20mila euro di cui si è appena parlato in aula che il vescovo di Como Oscar Cantoni aveva proposto a don Gabrielli di corrispondere a uno degli accusatori. In aula sono intervenuti anche alcuni testimoni che descrivono quello del Preseminario come un “ambiente malsano” in cui sarebbero state "frequenti le battute a sfondo omosessuale". Continua in Vaticano il processo sui presunti abusi sui chierichetti del Papa, che sarebbero avvenuti nel Preseminario San Pio X, all’interno delle mura vaticane. Sul banco degli imputati ci sono due sacerdoti, don Gabriele Martinelli e don Enrico Radice, rettore del Preseminario all'epoca dei fatti nel 2012. Sono accusati uno di abusi, l'altro di favoreggiamento. Il caso è stato sollevato dalla nostra inchiesta con Gaetano Pecoraro di cui potete vedere qui sopra il servizio del 12 novembre 2017 (in basso trovate gli altri). Il processo è il primo di questo genere nella storia della Chiesa ed è stato reso possibile da un diretto intervento di Papa Francesco. In aula è stato appena ascoltato il vescovo di Como, monsignor Oscar Cantoni. Tra i tanti aspetti ancora da chiarire si è parlato dei 20mila euro che secondo il vescovo di Como don Gabriele Martinelli avrebbe potuto corrispondere a titolo di risarcimento a una presunta vittima. "Aspettiamo gli esiti di questo processo" ha detto Cantoni che nel 2017, dopo avere acquisito le informazioni dal Vaticano e dal Seminario francese in cui si era formato, aveva ordinato sacerdote don Martinelli perché ritenuto "idoneo al ministero". In aula sono intervenuti anche alcuni testimoni che hanno raccontato quello che sarebbe stato il Preseminario San Pio X, il collegio che accoglie i cosiddetti chierichetti del Papa dalla prima media fino alla fine del liceo parlando di “un ambiente malsano”, dove gli scherni reciproci, spesso a sfondo sessuale, erano all'ordine del giorno. E non solo: secondo le denunce, all’interno della struttura sarebbero anche state commessi abusi sessuali ai danni dei “chierichetti del Papa”, cioè gli studenti del Preseminario. A raccontare questo scenario da incubo sono stati tre ex studenti e un sacerdote della basilica di San Pietro, padre Pierre Paul, che nel 2017 decise di fare una segnalazione alla Commissione che si occupa degli abusi ai minori all'interno della Congregazione per la Dottrina della Fede. Al centro del procedimento ci sono le presunte violenze sessuali dell'imputato Gabriele Martinelli, ex allievo del Preseminario e oggi sacerdote, nei confronti di compagni più giovani. Queste sono state riferite da alcuni testimoni perché apprese da altri, e non per conoscenza diretta. Il nome ricorrente delle persone che riferivano questi fatti è quello di Kamil, il ragazzo che ha raccontato al nostro Gaetano Pecoraro quello che sarebbe accaduto. Ma non c’è solo la voce di Kamil: un testimone ha riferito davanti al tribunale, presieduto da Giuseppe Pignatone, di aver visto, "durante una lotta in una stanza", Martinelli "toccare le parti intime" di una vittima. Un altro testimone ha detto di aver visto "toccate" e "avances" da parte di Martinelli nei confronti degli allievi più piccoli. Il caso dei presunti abusi nel Preseminario San Pio X e le relative indagini sono iniziate nel 2017, dopo la nostra inchiesta con Gaetano Pecoraro. Vi abbiamo raccontato la storia di Kamil, chierichetto di Joseph Ratzinger e di Papa Francesco, che a Le Iene aveva sostenuto di essere stato testimone oculare di abusi sessuali che il compagno di stanza Marco, da ragazzino, avrebbe subìto al Preseminario, distante appena 200 metri dalla basilica di San Pietro.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 19 febbraio 2021. Foto oscene, esplicite, provocanti. Un selfie scattato persino davanti alla statua di una Madonna, probabilmente in una chiesa. E' quello che circola sulle chat di incontri privati da Tinder a Grindr dove, dietro pseudonimi, si celano seminaristi o giovani sacerdoti in cerca di occasioni per liberare la propria sessualità. E' una analisi impietosa e brutale quella fatta dal sociologo Marco Marzano, ordinario di sociologia a Bergamo, in un libro che non mancherà di fare discutere: La casta dei casti, edito da Bompiani (263 pagine, 13). Attraverso un lavoro capillare condotto in diverse zone d'Italia, con questionari e interviste a campione, tra seminaristi e altri esponenti del clero, il sociologo ha tratteggiato una realtà fatta di luci e ombre, documentando soprattutto come il tema tabù del sesso nei seminari, sia «ampiamente presente». Tra le pagine affiora non solo il grande problema delle vocazioni che in Italia sono ormai al lumicino, ma anche la difficoltà ad accompagnare nella crescita, in modo equilibrato, i ragazzi delle generazioni Z all'interno di strutture ecclesiali evidentemente impreparate ad interfacciarsi con i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni. Il libro documenta poi di come il sesso nei seminari sia ampiamente presente. Scrive Marzano: «I seminaristi si masturbano e talvolta fanno sesso tra di loro, con i superiori o con qualcuno all'esterno dell'istituzione. I capi seducono gli allievi, che a loro volta si seducono l'uno con l'altro. La preoccupazione autentica è che il giovane funzionario impari a nascondere quello che fa tra le lenzuola e a raccontarlo, questa volta nei dettagli, solo nell'intimità del confessionale. Cioè solo in un modo che serve alla stessa istituzione per capire di che pasta sia fatto l'apprendista funzionario, se sia il caso o meno di investire su di lui, come uomo di Dio. In definitiva l'unico effetto della repressione ideologica del sesso è quello di spingerlo nell'ombra, di confinarlo nel silenzio, di circondarlo con il segreto e la circospezione. Il divieto di farlo è pura apparenza, il divieto di parlarne è invece sostanza». Nello studio il sociologo passa a setaccio le varie chat di incontri, analizzando il contenuto delle conversazioni tra preti e giovani seminaristi, descrivendo conversazioni «di natura esplicitamente ed esclusivamente erotica ed è immancabilmente corredato da volgarità esplicite, di un linguaggio incredibilmente scurrile con foto di video immagini di corpi nudi, organi sessuali ma anche posteriori dei giovani sacerdoti in varie pose e in vari luoghi, persino davanti alla statua della Madonna». La tesi di questa analisi è che la centralità del sesso e dell'amore nella trama della vita organizzativa dei seminari è tutt'altro che qualcosa di marginale: «si evince in primo luogo dal fatto che questi temi nella vita dei futuri preti sono tabù assoluti, oggetti dei quali è di fatto del tutto proibito parlarne». Questo anche se l'omosessualità in seminario e poi nella vita clericale non sia affatto un problema per chi guida la chiesa cattolica. Quasi una contraddizione. Scrive ancora Marzano: «Al contrario un prete omosessuale è sempre stato nei fatti largamente preferibile per l'istituzione a uno eterosessuale, col primo l'organizzazione corre meno rischi di scandali, fughe e clamorosi abbandoni. Soprattutto la stigmatizzazione della omosessualità operata dalla dottrina cattolica ha concretamente consolidato la sottomissione dei sacerdoti gay, i quali, vuoi in ragione di una autosvalutante interiorizzazione della omofobia o semplicemente perchè più bisognosi della protezione accordatale dalla istituzione si sono tradizionalmente rivelati assai piu zelanti, conservatori, disciplinati e ortodossi di quelli etero».

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 25 febbraio 2021. È un quadro devastante quello che emerge dalle testimonianze rese oggi pomeriggio da alcuni sacerdoti ed ex allievi del Pre-seminario vaticano. Dalle testimonianze è così emerso che il collegio dove si formano i chierichetti del Papa era «un ambiente malsano» dove «si facevano continue battute a sfondo omosessuale e venivano dati soprannomi femminili». C'erano liti continue, gelosie, amicizie torbide, pressioni psicologiche. In questa cornice l’imputato Gabriele Martinelli è definito come la persona alla quale l’ex Rettore don Enrico Radice aveva delegato molti ruoli bypassando gli altri due sacerdoti che facevano parte dell’equipe formativa (don Marco Granoli e don Ambrogio Marinoni). Il processo va avanti per capire se all'interno delle mura del collegio, un edificio situato poche decine di metri dalla residenza del pontefice, si siano consumate violenze sessuali, come sostiene una presunta vittima L.G nei confronti di don Gabriele Martinelli. In particolare padre Pierre Paul, maestro della Cappella Giulia e sacerdote della Basilica di San Pietro, ha raccontato di avere ricevuto le confidenze della vittima e che tutti a San Pietro, compreso i vertici, sapevano di quello che accadeva. «Non mi ha mai detto esplicitamente che cosa non andava ma si capiva che erano problemi della sfera affettivo-sessuale». Anche monsignor Vittorio Lanzani, vice del cardinale Angelo Comastri alla Fabbrica di San Pietro, «sapeva di Kamil e di L.G.» Kamil è un altro ex seminarista, di nazionalità polacca, che aveva denunciato le presunte violenze, cambiando però nel corso del tempo la sua versione. Padre Paul ha raccontato inoltre che, ad un tratto, l'arcivescovo Lanzani gli chiese di non coinvolgere più L.G. nel servizio in basilica. Nel 2017 padre Paul si decise a fare una segnalazione alla Commissione per la Tutela dei minori nella Congregazione per la Dottrina della Fede. Avrebbe voluto farlo molto prima ma L.G. - la presunta vittima – glielo ha impedito perché voleva «mettere una pietra sopra» a tutta questa brutta storia. Padre Paul davanti ai magistrati vaticani ammette: «l’ho fatto lo stesso (di andare alla Congregazione della Fede), perché penso che un sacerdote che sa qualcosa e non parla diventa complice». «Un paio di volte» è andato alla Commissione per la tutela dei minori e gli è stato comunicato che sarebbe stato interrogato da Domenico Giani, capo della Gendarmeria. Cosa che non si sa se poi è avvenuta. Padre Pierre riferisce ancora che «si era arrabbiato» nel vedere anni dopo Martinelli ancora a gestire i servizi liturgici con i ragazzi perché «se qualcuno ha problemi di questo genere non lo si mette con i ragazzi». Le notizie delle presunte violenze sono riferite solo perché apprese da altri; il nome ricorrente delle persone che riferivano questi fatti è quello di Kamil, lo stesso giovane che fece esplodere il caso con il servizio delle Iene. Solo un testimone (Flaminio Ottaviani) dice di aver visto, «durante una lotta in una stanza», Martinelli «toccare le parti intime» di un altro allievo. Un altro testimone parla genericamente di aver visto «toccate» e «avance» da parte di Martinelli nei confronti degli allievi più piccoli (Andrea Spinato). Tutti sapevano e facevano finta di nulla. «Anche il cardinal Comastri sapeva tutto e non ha mai fatto niente» ha detto Ottaviani. Un altro testimone, Alessandro Flaminio Ottaviani, in preseminario dal settembre 2010 al giugno 2011, ha raccontato che scorreva l'odio tra Martinelli e L.G. Egli ha raccontato di non aver mai assistito a rapporti sessuali tra l’imputato e la presunta vittima, ma  che una volta era stato attirato dagli schiamazzi nella stanza di un altro ex preseminarista, Andrea Garzola, verso il quale Martinelli sembrava provare una forte attrazione: «Con L.G. era finita male, Garzola era una nuova preda». Arrivando nella stanza Ottaviani ha visto Martinelli rincorrere Garzola e altri due ragazzi e, alla fine del gioco, afferrare Garzola nelle parti intime «come richiesta implicita di un rapporto sessuale». Garzola aveva rifiutato l’avance e da allora «era caduto in disgrazia», «emarginato» e pressato psicologicamente al punto da dover abbandonare il San Pio X. Garzola è uno dei testimoni chiamati dal Promotore di Giustizia ma che oggi all'udienza non si è presentato. Inoltre, era la persona che Kamil ha raggiunto in Veneto quando ha lasciato il Preseminario affermando di essersi innamorato di lui.

Denis Barea per ilgazzettino.it il 18 febbraio 2021. «Non so come chiamarlo... l’imputato mi ha avvicinato durante il mio primo ricovero, nel 2010. Non ero lucido, non avevo i riflessi pronti, ma mi ha baciato e palpeggiato». È il racconto drammatico che fa uno dei 4 giovani, difesi dall’avvocato Jacopo Stefani e Stefania Vettorel, che sarebbero stati molestati da don Federico De Bianchi, l’ex parroco di S. Giustina e Val Lapisina, finito a processo per violenza sessuale a seguito di una denuncia sporta nel 2015. Si tratta di un ragazzo che al tempo dei fatti si trovava ricoverato nel reparto di psichiatria dell’Ospedale di Conegliano per effetto di un Tso. «Mi ha toccato sul pene... vicino a quella zona - dice il giovane - era lui, don Federico, lo riconosco. Credo che la ragione per cui si trovava là era che voleva aiutare, poi dopo quello che mi ha fatto non so più a cosa pensare». «Io mi trovavo nel reparto dove c’era anche lui, barcollavo per effetto degli psicofarmaci ma ero in piedi. E lui si è avvicinato a me e mi ha molesto. Era la prima volta che lo vedevo e lui mi ha baciato. Sulla bocca, si è avvicinato senza dire nulla e l’ha fatto. Ho capito che era un prete da come era vestito. Poi ha iniziato a palpeggiarmi, io ero in pigiama, non mi ricordo esattamente se fosse dentro o fuori i pantaloni ma per quello che mi ricordo era sotto. L’ha fatto due volte, la prima ero scioccato, ma non ce l’ho fatta a respingerlo, la seconda invece sì. È avvenuto tutto in pochi attimi, praticamente nello stesso momento. La prima volta è riuscito a baciarmi e a toccarmi, la seconda l’ho spinto via». Il giovane poi racconta la prima volta che ha fatto parola con qualcuno riguardo quello che è successo. «È stato con mia mamma, ma non ha dato peso a quello che ho detto, forse perché l’ho detto a messa. Poi ne ho parlato con due ragazzi che avevano detto di aver subito la stessa cosa. Ero in comunità, a Villa Delle Rose a Vittorio Veneto, una volta eravamo fuori a fumare una sigaretta parlando del più e del meno ed è uscita la storia». «Poi - insiste - ne ho parlato anche con un infermerie. Ero con altre persone della comunità e ho visto don Federico per strada, ho dato in escandescenze. Mi stavo arrabbiando e lui mi ha chiesto il perché». Ieri l’udienza è stata aggiornata a marzo per l’indisponibilità di uno dei testimoni della pubblica accusa, dato che lavora nel Regno Unito e dovrebbe sottoporsi a quarantena una volta rientrato nel nostro paese. Poi, a maggio, sarà la volta dei numerosi testi convocati dalla difesa, rappresentata dagli avvocati Stefano Trubian e Maurizio Paniz. De Bianchi, il “parroco social”, brillante e attivissimo su Facebook dove aveva raggiunto i cinquemila contatti, continua a dirsi innocente e ha voluto affrontare il processo senza la scorciatoia del rito alternativo per proclamare la sua innocenza.

Mariangela Garofano per ilgiornale.it il 17 febbraio 2021. La recente scoperta di casi di pedofilia all’interno dell’ordine dei Gesuiti in Spagna sta portando alla luce orrori coperti per anni. Dopo che la Società di Gesù ha riconosciuto al suo interno 81 vittime dal 1927 ad oggi, altri ordini hanno deciso di seguire il suo esempio. A parlarne sono state le stesse congreghe al quotidiano El Pais, che è entrato in contatto con dieci ordini religiosi. Sette di questi starebbero investigando sugli abusi commessi da prelati negli anni passati, e sono aperti a rifondare le vittime delle violenze. Le indagini, tuttavia, sono solo l’avanzamento di inchieste pre esistenti, finite nel dimenticatoio per anni. I casi denunciati non sono stati ancora resi pubblici, particolare che sottolinea come la Spagna sia ben lontana dall’ammettere i numeri reali dei casi di pedofilia nella Chiesa. Ben diversa è la situazione in Germania, dove sono stati denunciati circa 3677 casi di pedofilia da parte di membri del clero. Recentemente è stata scoperta una vicenda dai contorni atroci, riguardante delle suore che negli anni 60/70 vendevano bambini ai pedofil nella città di Speyer. A complicare le cose in Spagna è l’omertà che vige all’interno di alcuni ordini. Dieci di questi, tra cui L’ordine dei Fratelli Maristi, i Fratelli De la Salle e l’ordine di Sant’Agostino, infatti, si rifiutano di collaborare e di investigare circa gli abusi commessi da alcuni loro sacerdoti. I rimanenti sette hanno invece ammesso 61 casi di pedofilia messi in atto dai loro prelati, portando il numero di vittime ad un totale di 126, con i Gesuiti in testa per gli orrori compiuti, seguiti dai Salesiani con 26 casi. Nelle ultime settimane sono stati scoperchiati più casi che negli ultimi 35 anni, grazie all’indagine portata avanti da El Pais, che ha spinto affinché la Chiesa ammettesse le sue colpe. L’inchiesta del quotidiano spagnolo è iniziata ad ottobre 2018 e da quel momento il giornale ha ricevuto più di 200 email e pubblicato dettagli di più di 30 casi di indicibili violenze. “In Spagna nessuno fa niente”, ha dichiarato Juan Ignacio Cortés, autore di Lobos con Piel de Pastor , uno dei pochi libri pubblicati in Spagna riguardo alla pedofilia nella Chiesa cattolica. Le indagini sono solo la punta dell’iceberg di ciò che la Chiesa Cattolica spagnola, unitamente allo Stato, non vuole che venga alla luce. Ma sebbene la strada sia ancora lunga, l’inchiesta di El Pais è un piccolo grande passo verso la verità, per garantire alle tante vittime la giustizia che meritano.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 13 febbraio 2021. Maxi risarcimento alle vittime della pedofilia: in una sola diocesi americana - Winona-Rochester nel Minnesota - è stato annunciato un accordo di 21,5 milioni di dollari per risarcire le 145 vittime che hanno subito abusi dal suo clero. Si tratta di una cifra mostruosa per le casse di questa piccola realtà, tanto che il vescovo ha dovuto dichiarare bancarotta. Ora l'accordo darà modo alla diocesi di presentare un piano di riorganizzazione finanziaria davanti al tribunale fallimentare degli Stati Uniti previa l'approvazione finale. «Non dobbiamo mai dimenticare il male fatto da individui che hanno abusato del loro potere e delle loro posizioni di autorità», ha detto il vescovo John Quinn di Winona-Rochester. «Dobbiamo rimanere vigili nel nostro incrollabile impegno a proteggere i giovani della nostra diocesi che si affidano a preti, diaconi, religiosi e laici. Dobbiamo tenerli al sicuro e provvedere alla loro cura spirituale». L'avvocato Jeff Anderson, che ha rappresentato molti dei sopravvissuti in America, ha detto che l'accordo includerà altri 6,5 milioni di dollari dagli assicuratori della diocesi. «E' una giornata importante per i sopravvissuti». Nel 2013 il Minnesota aveva approvato il Minnesota Child Victims Act che ha temporaneamente esteso i termini di prescrizione dei casi di abuso.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it. «Sei interessato solo al pene delle persone». «Hai una perversione sessuale». L.G. la presunta vittima degli abusi sessuali avvenuti a cento metri da Santa Marta, dove vive il Pontefice, ha inviato questi messaggi a don Gabriele Martinelli, il giovane sacerdote accusato di molestie nell'inchiesta aperta da Bergoglio proprio per fare luce su quello che è effettivamente accaduto nel Preseminario San Pio X in Vaticano, l'istituto che recluta i “chierichetti del Papa”. Alla attenzione dei magistrati è spuntata anche una lettera dai toni drammatici scritta da L.G. al Pontefice per implorarlo a non ordinare sacerdote Martinelli, visto che di notte «si infilava nel mio letto e mi abbassava i pantaloni». L.G ha inviato quattro anni fa una disperata lettera a Francesco. E' datata 9 giugno 2017 e racconta di avere «subito violenze psicologiche e fisiche» da parte di Martinelli, all'epoca suo compagno di seminario. «Le violenze – si legge nella missiva anticipata dal Messaggero - avvenivano nella maggior parte dei casi di notte. Mi ritrovavo Martinelli sdraiato nel mio letto che mi abbassava i pantaloni del pigiama». «Alcune volte trovavo la forza di ribellarmi e lo cacciano con calci e pugni. Questo generava sempre una vendetta nei miei confronti. Subivo rimproveri o castighi». «L'influenza di Martinelli su monsignor Radice gli permetteva di agire indisturbato». Nella lettera al Pontefice la vittima, L.G. dice anche era «sfinito dalle mortificazioni» e che per questo ricorreva al vescovo di Como, Coletti per denunciare tutto. La stessa cosa ha fatto, sperando di trovare aiuto, andando a parlare a monsignor Vittorio Lanzani, attuale dirigente della Fabbrica di San Pietro il quale lo assicurò che avrebbe informato il cardinale Comastri. Poco tempo dopo però L.G. fu allontanato senza motivo dal coro della Cappella Giulia. «La sofferenza purtroppo con gli anni non è finita. Anche oggi soffro di incubi, disturbi del sonno e crisi di panico. Le violenze subite, abbinate al ricatto e all'indifferenza di preti, vescovi e cardinali mi hanno trasformato in una persona chiusa in se stessa e hanno abbassato la mia autostima». La lettera disperata termina così: «Sabato Martinelli verrà ordinato sacerdote e il pensiero che lui possa rovinare la vita di altri ragazzi come ha rovinato ha fatto con me mi fa» star male (…). Effettivamente Martinelli fu poi ordinato sacerdote. Nel corso dell’udienza di stamattina sono state lette in tribunale diversi messaggi su Messenger o WhatsApp tra L.G. e Martinelli, risalenti al periodo in cui entrambi avevano già lasciato il Preseminario. La presunta vittima accusava il sacerdote di avergli fatto sempre del male e di averlo messo in cattiva luce con gente, inclusi superiori, ai quali non aveva fatto niente. Ne esce il quadro di una amicizia morbosa. L.G. chiedeva di essere lasciato in pace e di non essere tempestato di telefonate. Martinelli, però, in aula, si è difeso dicendo che il linguaggio, seppur volgare, tipico dei ragazzi non significa nulla. Poi ha spiegato che mai e poi mai L.G gli ha mai rivolto per iscritto le accuse sulle violenze contenute nelle lettere inviate (in forma anonima) a più riprese a diversi prelati, al cardinale Comastri, arciprete di San Pietro e al Papa. Cosa sia effettivamente avvenuto dentro il Preseminario dove si sarebbero consumati una serie di episodi di violenza tra il 2010 e il 2012 è  da stabilire. Nel procedimento è coinvolto anche monsignore Enrico Radice, ex rettore del Preseminario, per concorso in violenza sessuale per non avere impedito gli atti illeciti e per non avere denunciato. Martinelli nella deposizione ha ribadito che si tratta di accuse non fondate, insistendo che in questo modo «si è voluto screditare» il Preseminario. Ha, infatti, spiegato, che le accuse sono state formulate in un passaggio cruciale: nel marzo 2013  quando è naufragato definitivamente il progetto di ampliare il Preseminario anche agli universitari. «Alla fine ci sono andato di mezzo io». «Una congiura nei suoi confronti?», gli ha chiesto il promotore di Giustizia Giampietro Milano, chiedendo il nesso tra queste divisioni interne e le accuse di abusi. Ha anche puntualizzato che al preseminario divideva la sua stanza con il suo accusatore - L. G. la presunta vittima - e con un altro ragazzo oggi sacerdote. Per Martinelli questo sistema impediva che si compissero abusi senza che nessuno se ne accorgesse. Come pure, ha assicurato che era impossibile avere rapporti sessuali (come affermato da L.G. in diverse lettere) all'interno del piccolo bagno collocato sotto l’Altare della Cattedra nella Basilica di San Pietro. Oltre che per le dimensioni del bagno anche e soprattutto per il fatto che alle messe feriali, secondo un sistema di turnazione basato anche sull’età dei seminaristi, c'è la presenza di un solo chierichetto. Solo nelle celebrazioni della domenica, ce n'erano circa nove o dieci: «Tutti se ne sarebbero accorti se mai fosse successo qualcosa».

Da huffingtonpost.it il 18 febbraio 2021. Enzo Bianchi non ha lasciato Bose, in Piemonte, per trasferirsi in Toscana secondo l’accordo che, secondo la Comunità, avrebbe posto fine alle tensioni interne. Un provvedimento, il trasferimento di Bianchi da Bose a Cellole, che era stato suggerito dal delegato del Papa. Il trasferimento doveva realizzarsi prima dell’inizio della Quaresima, cioè ieri. “Con profonda amarezza la Comunità - sottolinea una nota del monastero di Bose - ha dovuto prendere atto che fr. (frate, ndr) Enzo non si è recato a Cellole nei tempi indicatigli dal Decreto del Delegato Pontificio dello scorso 4 gennaio. Si trattava di una soluzione messa a punto in questi mesi con l’assenso ribadito per iscritto dallo stesso fr. Enzo e da alcuni fratelli e sorelle disposti a seguirlo per fornirgli tutta l’assistenza necessaria”. La Comunità aveva rinunciato alla sua Fraternità di Cellole “affinché fosse rispettata l’indicazione del Decreto singolare approvato in forma specifica dal Papa che prevedeva per fr. Enzo un allontanamento da Bose e dalle sue Fraternità. Agendo così la Comunità aveva cercato una modalità di osservanza del Decreto singolare che permettesse a fr. Enzo di andare a vivere in un luogo da lui amato, alla cui ristrutturazione aveva contribuito attivamente, arrivando a determinare anche la disposizione dei locali atti ad accoglierlo una volta dimessosi da priore”. La Comunità di Bose ribadisce che “lo spostamento di fr. Enzo a Cellole avrebbe contribuito ad allentare la tensione e la sofferenza di tutti e avrebbe facilitato il lento cammino di riconciliazione e comprensione reciproca”. “Purtroppo la mano tesa non è stata accolta e ora la Comunità dovrà anche affrontare l’impegnativo onere di far ripartire la Fraternità di Cellole, poiché la sua chiusura avrebbe prodotto piena efficacia solo a partire dall’arrivo di fr. Enzo alla Pieve”, conclude la Comunità ringraziando “la Santa Sede per come ci sta accompagnando e confermando”. “L’esercizio del silenzio è per tutti noi difficile e faticoso, ma viene l’ora nella quale la verità grida proprio con il silenzio: anche Gesù, secondo i Vangeli, ha taciuto davanti ad Erode, e non si è degnato di dargli una risposta. Dunque silenzio sì, assenso alla menzogna no!”, aveva scritto alcuni giorni fa in un tweet Bianchi. L’ex priore di Bose era stato chiamato a lasciare definitivamente la sua Comunità, entro mercoledì 17 febbraio.

Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 19 febbraio 2021. Qualche anno fa circolava sul Web un sito intitolato «Bose curiose», con riferimento esplicito e poco simpatetico alle cose che succedevano nella comunità fondata da fratel Enzo Bianchi, il ragioniere di 77 anni che nel 1965, terminati gli studi in Economia e commercio all'Università di Torino, si ritirava in una cascina a Bose, frazione di Magnano (Biella), e qui fondava appunto una comunità monastica ecumenica. Quel sito Web chiuse i battenti anche perché irritava non poco fratel Bianchi (non padre, perché non è sacerdote), ma oggi andrebbe forse rieditato viste le cose curiosissime che accadono in quel di Bose.È di ieri la nota della comunità che «con profonda amarezza» ha «dovuto prendere atto che fratel Enzo» ha disubbidito ancora al decreto del Vaticano, emanato con placet di papa Francesco, che gli intimava di lasciare la comunità da lui fondata e lo faceva decadere da ogni incarico. Il decreto, firmato dal Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, gli era stato notificato il 21 maggio 2020, lasciandogli dieci giorni di tempo per andarsene. Ma nulla di fatto, fratel Enzo, tra un tweet e l'altro, non aveva mollato di un millimetro. Così lo scorso 4 gennaio un altro decreto, firmato questa volta da padre Amedeo Cencini, delegato pontificio e già visitatore apostolico della stessa comunità, sanciva che era giunta l'ora per il signor Bianchi di trasferirsi in località Cellole di San Gimignano, nel Senese. Chiusa la comunità monastica che si trovava a Cellole, comunità appartenente alla galassia di Bose, si disponeva inoltre di «cedere in comodato d'uso gratuito il complesso di immobili di Cellole a fr. Enzo Bianchi», con l'indicazione di trasferirvisi «entro e non oltre martedì 16 febbraio p.v., avendo già dato il suo assenso al riguardo, assieme ad alcuni fratelli e sorelle che hanno manifestato la propria disponibilità ad andare con lui». Ma il 16 febbraio l'ex priore e fondatore della comunità di Bose è rimasto a Bose, mettendo in atto il suo nuovo niet in totale e perpetua disobbedienza a quanto approvato e disposto dalla Santa Sede. Eppure, si legge nel comunicato di ieri, «si trattava di una soluzione messa a punto in questi mesi con l'assenso ribadito per iscritto dallo stesso fr. Enzo». Nonostante le articolesse di intellettuali vicini al fondatore, già icona della meglio chiesa catto-dem italiana, e frequentatore assiduo di parrocchie e predicatore di prima scelta per taluni vescovi, non si comprende questa ostinata disobbedienza. Sulle cause del siluramento purtroppo non si hanno molte certezze, oltre a quella «situazione tesa e problematica» circa «l'esercizio dell'autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno», di cui si parlava in una nota della stessa comunità del maggio 2020. Bianchi ha guidato la sua comunità fino al 2017, quando ha lasciato le redini al successore, fratel Luciano Manicardi, e qui i problemi devono essersi acuiti ulteriormente. Si dice che la decisione per Francesco sia stata sofferta, vista la stima che ha più volte il Papa dimostrato nei confronti del Bianchi, ma i fatti devono aver fatto arrabbiare molto il Santo Padre, toccando uno dei suoi punti più sensibili. Probabilmente sono in ballo il tanto odiato clericalismo, che Francesco condanna senza posa, e il conseguente abuso di potere. Enzo Bianchi in questi mesi, soprattutto con i suoi cinguettii social, ha fatto intendere chiaramente che rimanda al mittente tutte le accuse e illazioni. Repubblica e La Stampa sono i giornali su cui Enzo Bianchi in questi decenni ha profuso il suo verbo con maggiore copiosità, quotidiani di solito sempre attenti alla questione abusi di potere, e a selezionare i nemici di papa Francesco, ma questa volta devono aver preso un po' male la vicenda. Sono saliti con rapidità inusuale sul carro del garantismo, poco frequentato in occasione di vicende analoghe riguardanti altri movimenti o fondatori cattolici. Con alcune capriole intellettuali, lo storico Alberto Melloni, che a Bianchi è legato da amicizia e collaborazioni (fratel Enzo è «membro a vita» del consiglio di amministrazione della bolognese Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII), ha scaricato tutto sul delegato papale Cencini. Qualora appunto Bianchi accettasse di andarsene, allora, dice Melloni, «la dottrina Cencini avrà vinto, a spese del Papa». Ancor più diretto è stato Massimo Recalcati su La Stampa, parlando apertis verbis di «scure mediovale» fatta calare sull'ex priore, ma anche lui distingue: «Nessun cristiano alza la sua voce a difendere l'inerme, il padre colpito al cuore dai suoi figli con la complicità invidiosa di padre Cencini? Papa Francesco è il solo ad avere l'autorità e il giusto sguardo per salvare Enzo Bianchi da una umiliazione che non merita». Insomma, Francesco che, lo ricordiamo, ha approvato il decreto di siluramento e allontanamento di Bianchi da Bose, sarebbe stato male informato e soprattutto manipolato da questo padre Cencini, che in alcune articolesse erudite sembra uscito direttamente dal film Il nome della rosa. Una volta c'erano i conservatori che nella Chiesa remavano contro Francesco accusandolo di avere intorno a sé maneggioni e cortigiani, ora anche tra le migliori intelligenze catto-dem sembra vada di moda lo stesso copione. È davvero il momento di rieditare quel vecchio sito Internet dal titolo «Bose curiose», perché la vicenda sembra non finire qua.

La Comunità di Bose come la Torre di Babele: ecco come finisce il sincretismo religioso. L'esperimento in vitro di Bose segna il destino per il sincretismo interreligioso massonico-mondialista. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Da diversi mesi ormai, la Comunità pseudo-monastica e pseudo-cattolica di Bose è lacerata al suo interno da dissidi, correnti, fazioni che vedono il suo fondatore, il commercialista Enzo Bianchi, opporsi ai suoi successori e soprattutto a Bergoglio che gli ha ingiunto più volte – e duramente - di andarsene, ma finora senza successo. Una lotta che si sta facendo sempre più acida e grottesca, portando quella che doveva essere l’iperuranica oasi  di suprema spiritualità interreligiosa a livello dello scandalismo ecclesiastico più grossolano. Una prima cosa che colpisce è che Enzo Bianchi sia stato rimosso dal suo incarico, l’anno scorso, per beghe amministrative (quindi questioni di soldi) e non certo per aver ammannito nel corso di 30 anni di predicazione concetti di natura spaventosamente eretica del tipo che Maria non fu davvero vergine e madre (come da dogma cattolico). Secondo Bianchi, siccome già altre divinità come la assiro-babilonese Astarte, o la greca Artemide erano considerate tali, i cristiano-cattolici avrebbero mutuato il mito dai culti pagani. Tutta una leggenda, dunque. (Mica ha letto, da cattolico, in quelle antiche religioni una prefigurazione di ciò che sarebbe stato). Oppure, vale la pena ricordare quando, intervistato dal diversamente cristiano Gad Lerner, Bianchi dichiarò: «Gesù è nato uomo, completamente uomo. Chi lo deifica sulla terra sbaglia, lo deifica troppo presto». Buonanotte Cattolicesimo. L’autoproclamato priore di Bose è, da tempo, a favore delle unioni civili, posizione che, in modo inaudito (per la dottrina cattolica),  è stata sposata anche dal suo massimo superiore in tempi recenti. Eppure, nonostante le sue proposizioni, questo intellettuale  laico - dato che non ha mai preso i voti - nel 2018 ha addirittura presieduto il ritiro spirituale mondiale dei sacerdoti cattolici ad Ars, i suoi libri sono stati proposti per anni come testi base nei seminari e nelle università pontificie dove lui stesso veniva invitato a tenere conferenze. Si parlava anche di una berretta cardinalizia …Nessuno però ha colto nella Notte di San Bartolomeo che sta lacerando la comunità di Bose l’aspetto più interessante, ovvero il risultato finale di quello che è stato il più raffinato  ESPERIMENTO “IN VITRO” del sincretismo religioso modernista. La comunità nacque proprio il giorno della chiusura del Concilio vaticano II, come sua ideale emanazione, raccogliendo religiosi delle più varie confessioni cristiane, di ambo i sessi. Quello che si è voluto ricercare a Bose  è stato un ideale minimo comun denominatore che potesse accomunare le varie chiese cristiane, lasciando quindi da parte l’Eucaristia, il culto mariano, il Rosario, la Tradizione, i sette sacramenti e tutto ciò che poteva essere considerato cattolico-identitario e, quindi, inevitabilmente “divisivo”. A Bose si festeggia perfino un calendario tutto particolare, con personaggi di altre fedi mai canonizzati dalla Chiesa di Roma: c’è l’induista Gandhi, il luterano Charles Spurgeon, contrario al Battesimo per i bambini, l’eretico protestante Schmiedlein, nemico di S. ignazio, ”e moltissimi altri che non conobbero l’onore degli altari, ma che furono vittime della convinzione che l’intera verità fosse appannaggio di un solo gruppo sociale o ecclesiale“. Quindi, la Comunità, che da un lato tende a dirsi cattolica, ma dall’altro vuole essere ecumenica, alla fin fine ha poco a che spartire con il  Cattolicesimo che, per definizione, è graniticamente identitario e tradizionale. ED ECCO COME E’ FINITO L’ESPERIMENTO: con il fitto volo di stracci, veleni, colpi bassi, disubbidienze, commissariamenti, scandali pubblici, dure reprimende, divisioni interne. Un destino amarissimo per chi si è voluto ritenere più sapiente della Tradizione cattolica, più consapevole delle verità di fede, superiore a tutti i dogmi. UN TRAGICO VOLO DI ICARO per chi ha pensato di poter unire ciò che Dio aveva lasciato che si dividesse. Una sorte anche crudele, umanamente parlando, per il fondatore, ormai 77enne, cacciato dalla comunità da lui stesso fondata con quella “misericordia” improvvisa e imprevedibile tipica di Bergoglio . Adesso lo hanno mollato tutti: nessun vescovo si affanna più a cercarlo, men che mai il suo grande estimatore Mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo. “E tutto un sol giorno, cangiare poté”, come canta Rigoletto. A chi è credente, non può non tornare in mente la TORRE DI BABELE che Dio, nell’Antico Testamento, fece crollare miseramente per punire la superbia degli uomini,  poi irrimediabilmente divisi dall’incapacità di comprendersi l’un l’altro, proprio come accade a Bose. Ma oltre la visione religiosa, la questione può essere compresa anche da un punto di vista del tutto laico. Come avevamo già scritto qui, il Cattolicesimo romano tradizionale è una costruzione - al proprio interno - perfettamente LOGICA. Provate a dare un’occhiata al suo “Bignamino”, il Catechismo di San Pio X. Tutto è chiaro, consequenziale, semplice e diretto, ispirato alla frase evangelica: “Il vostro parlare sia sì sì , no no, tutto il resto viene dal Maligno”. Attenzione, non vogliamo affermare che il Cattolicesimo sia per forza VERO, dato che questo riguarda l’apertura emotiva (la fede) di ognuno, ma confermare come la sua dottrina sia costruita secondo un impianto razionale delicatissimo messo a punto per duemila anni. Se si sregola una rotellina di questo grande orologio si avviano dei meccanismi causa-effetto, dei corollari che in breve tempo inceppano tutto il macchinario portandolo all’implosione. Non per niente, durante i secoli la Chiesa ha combattuto gli eretici su questioni apparentemente di secondo piano, ma che, dal punto di vista di questo effetto-domino, avrebbero avuto un potere dirompente.Un esempio? Se non si crede che Maria ebbe un parto virginale e miracoloso (ne abbiamo scritto qui): chi può affermare che Cristo fosse realmente il Figlio di Dio? E se la cosa è dubbia, magari poteva essere un profeta, solo un uomo, come dice Enzo Bianchi: in tal caso, gli si può far dire quello che si vuole, dato che “all’epoca non c’erano registratori” come affermato dal generale dei Gesuiti, Padre Arturo Sosa. In nome di Cristo si potrebbero anche benedire le unioni gay, il cambiamento di sesso per i bambini, l’aborto al nono mese, l’immigrazionismo mondialista e tutte quelle contingenze che ci propone la modernità, dato che “la Chiesa si deve aprire al mondo”. (Non è un caso che i luterani, increduli rispetto alla verginità di Maria, siano già un pezzo avanti su questi temi). E così, ci si ritrova con una nuova religione che, alla fine, propone l’esatto contrario di quanto diceva Gesù Cristo. E sappiamo chi è che mette al rovescio l’insegnamento di Cristo, no? Ebbene, se il fallimento del sincretismo modernista si è verificato nel giro di pochi anni nella “provetta sterile” di Bose, dove sono stati mescolati elementi super raffinati e appartenenti più o meno all’orbita cristiana, figuriamoci quello che potrà succedere nel tentativo di creare una nuova religione mondialista – che Bergoglio ha messo in cantiere dopo Abu Dabi  - la quale accorpi, nel terreno di coltura contaminatissimo del mondo, in una fratellanza massonica e posticcia, reagenti diversi ed effervescenti come i vari monoteismi, lacerati da millenari dissidi, diversità teologiche insanabili, culture totalmente antitetiche le une con le altre. Altro che i bisticci e i le patetiche beghe che squassano Bose: sarà “l’esplosione del laboratorio dello scienziato pazzo” e gli effetti si faranno sentire ben oltre le antiche mura di chiese, moschee, sinagoghe. Fermatevi ora, finché siete in tempo.

La resa di Enzo Bianchi: addio alla comunità di Bose. Il suoi: «È un esilio». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 21/2/2021.  MAGNANO (Biella) La cassa di cartone che il volontario carica su un furgone Iveco vale più di ogni conferma ufficiale. Fratel Enzo Bianchi sta lasciando l’eremo nel quale ha trascorso gli ultimi mesi, a poche decine di metri dalla sua creatura, la comunità che aveva fondato nel 1963, eppure mai così lontano, sempre più lontano. Fino a un punto che si sperava non arrivasse mai. Per nessuna delle parti coinvolte in una contesa cominciata ormai quattro anni fa e ancora oggi incomprensibile ai più.

La comunità di Bose. Cosa è o cosa è stata Bose lo sanno tutti, e tutti sanno che è difficile riassumere in poche righe. Una delle comunità più famose e visitate d’Italia e forse d’Europa, formata da monaci di entrambi i sessi che provengono da Chiese cristiane di diversa estrazione e votata al dialogo ecumenico con ogni forma di cristianità. Nasce nel 1963 a Torino, su impulso di un ex ragioniere divenuto monaco sull’onda del Concilio Vaticano II, che guida un gruppo di giovani cattolici e protestanti. Nel 1965 si trasferiscono sulle serre, le alture moreniche che separano la provincia di Torino da quella di Biella, a Bose, in una frazione di Magnano e subito iniziano gli incontri ecumenici. Superano indenni i veti dell’allora vescovo di Biella, e quando nel fatidico 1968 il cardinale di Torino Michele Pellegrino bussa alla porta di quello che all’epoca era solo un cascinale, la legittimazione del nuovo monastero diventa implicita ma reale.

Dopo quasi 60 anni. Sono passati quasi sessant’anni, duranti i quali tutto è diventato più grande, la comunità, che oggi conta più di cento persone, la fama, l’interesse, sono state aperte altre sedi in Italia e a Gerusalemme. Nel 2017 Enzo Bianchi rinuncia alla carica di priore, all’età di 74 anni, lasciandola al suo successore designato da tempo, Luciano Manicardi. Si sposta in un edificio all’esterno del perimetro della comunità, per non interferire. Poi succede qualcosa. All’inizio sono soltanto voci. Nel maggio 2020, in piena pandemia, un decreto della Santa Sede, firmato da papa Francesco, che in occasione del cinquantesimo anniversario della comunità, fissato per convenzione nel 1968, aveva scritto a Bianchi definendo la comunità «una feconda presenza nella Chiesa e nella società», ordina all’ex priore di allontanarsi in modo definitivo. Non è ancora dato sapere la ragione di un provvedimento così duro.

Il decreto. Il «decreto singolare» del Vaticano lasciava intuire una storia di divisioni interne. L’eredità del fondatore, che si era spostato in un eremo poco distante, la sua ombra e il suo carisma potevano essere una presenza incombente, potevano inibire e condizionare decisioni e comportamenti. Per questo era meglio che Bianchi si trasferisse «entro e non oltre dieci giorni dalla notifica» in un’altra sede di Bose, l’eremo di Cellole San Gimignano, in provincia di Siena. Non succede nulla. A gennaio di quest’anno la sede designata per fratel Enzo «con un passo sofferto» dismette la sua appartenenza alla comunità, e viene ceduta «in comodato d’uso» all’ex priore. Come se ci fosse bisogno di un taglio ancora più netto.

L’addio. Sabato le serre di Biella erano coperte della nebbia e dall’umidità. Il monastero era deserto, in tempi di epidemia i visitatori sono pochi. Da un anno non è più possibile ospitare nessuno per le settimane di meditazione. I frutti dell’enorme orto sono stati regalati alla Caritas, perché non c’era nessun turista a comprarli. La piccola comunità fa notizia solo per questo dissidio lacerante e doloroso. Nessun ospite è autorizzato a parlare. Abbiamo saputo che questo capitolo si chiude con l’addio di fratel Enzo ai suoi luoghi da monaci che raccomandavano l’anonimato, da persone vicine al diretto interessato, e da quelle poche cose in attesa di essere portate via. «Non è un trasferimento, si tratta di un esilio» dice amaro un suo ex collaboratore, che gli vuole bene, come gliene vogliono quasi tutti. Non sta a noi dare giudizi su una vicenda che ha coinvolto anche il Papa. Ma quale che sia la causa del conflitto, sappiamo che non è stato ben gestito, lasciando trapelare voci, illazioni, sospetti, generando tensioni ulteriori. Fino a questa frattura così definitiva. Non è scritto da nessuna parte che le cose belle come Bose possano durare per sempre.

Il teologo. Alla Comunità monastica di Bose non servono i «partiti». Massimo Faggioli sabato 20 febbraio 2021 su Avvenire.Sbagliato trasformare la crisi della comunità in un conflitto tra fazioni ecclesiali. L’autorità competente rimane il Papa. La visita apostolica e il decreto? Un’opportunità per ripartire. Nelle Comunità ecclesiali di nuova fondazione, il passaggio dal fondatore al primo successore in una posizione di autorità è naturalmente problematico. Vista la storia ancora giovane di queste comunità negli anni attorno al Vaticano II, questo tipo di transizione è uno degli elementi caratteristici del momento presente nella storia della Chiesa cattolica. Non è una questione totalmente nuova: siamo abituati a identificare l’idea di «scisma» nella Chiesa con lo scisma papale, ma la storia abbonda anche di scismi monastici. Proviamo ad andare al cuore di un dissidio complesso con l’analisi di un esperto, esponente di quella generazione che «ha riscoperto la fede e una ecclesialità riconciliata» grazie all’aiuto della fraternità ecumenica nel Biellese. La situazione della comunità di Bose però è diversa da quella di altre comunità ecclesiali e degli scismi monastici. È diversa per il ruolo importante che essa ha avuto nella Chiesa italiana ed europea negli ultimi cinquanta anni: l’ecumenismo, la recezione del Concilio Vaticano II, la riscoperta della Parola. Anche il sottoscritto appartiene alla «generazione Bose» – o meglio, a una delle tre o quattro generazioni di cattolici (e no) che grazie alla comunità fondata da Enzo Bianchi nel 1965 hanno riscoperto la fede cristiana, ma anche una ecclesialità riconciliata. La storia di Bose però è diversa anche per la personalità carismatica del fondatore sulla scena pubblica, diverso da ogni altro fondatore nell’epopea post-conciliare. Si potrebbe fare un parallelo con Thomas Merton: monachesimo, ecumenismo, successo come intellettuale pubblico. Però Merton non fondò una sua comunità e non dovette mai cimentarsi, a causa della morte a soli cinquantatré anni nel 1968, col problema della transizione e gestione della sua eredità spirituale (ma anche materiale). Chi andava e va a Bose, a contatto con i fratelli e le sorelle, da lungo tempo aveva avuto sentore e prove del deterioramento della situazione comunitaria. Quella scatenata dalle dimissioni di Enzo Bianchi non è la prima crisi nella storia di Bose. Ma negli ultimi anni la situazione si era aggravata per un problema di doppia autorità che si è posto in maniera drammatica, a causa della personalità del fondatore. Le dimissioni date dal priore Bianchi sono state interpretate dallo stesso in maniera nominalistica, come se non fossero mai avvenute, fino a delegittimare l’autorità non solo del nuovo priore, ma anche di tutte le altre cariche e della comunità stessa che lo aveva eletto. Anche qui, storia nota in molte comunità ecclesiali. La differenza in questo caso è la scelta di fare leva sulla notorietà pubblica del fondatore. Una scelta grave per ogni persona che sia diventata un punto di riferimento ecclesiale – ancora di più se monastico. La Chiesa rimane il punto di riferimento. Il rispetto dell’istituzione ecclesiale non è dovuto in maniera inversamente proporzionale alla notorietà personale. Dissenso è cosa diversa dalla ribellione. Qui ci sono due questioni di fondo. C’è una questione ecclesiale: per una comunità ecclesiale, in una situazione di eccezione, ci sono diversi tipi e gradi di autorità in grado e chiamati a decidere. Nel caso di Bose, non è mai stato in dubbio che l’autorità competente per Enzo Bianchi fosse la Chiesa cattolica e il Papa. Il fondatore è cattolico, così come la stragrande maggioranza dei membri. Il rispetto dell’istituzione non è dovuto in maniera inversamente proporzionale alla notorietà personale. Dissenso è cosa diversa dalla ribellione. Poi c’è una questione ermeneutica. La divisione nei giudizi resi in pubblico (tanto sui mass media quanto sui social media) sul caso Bose risente anche di due tipi diversi di identificazione. Ci sono quelli che a Bose ci sono andati, riconoscendo i grandi meriti del fondatore nell’ecumenismo, nell’editoria, nella diffusione della patristica e del cristianesimo orientale, ma conoscono anche i limiti di questa realtà monastica, e sperano e pregano che Bose possa storicizzare il fondatore e riformulare le sue intuizioni. Poi ci sono quelli che andavano a Bose attratti dalla personalità del fondatore a cui avevano attinto dai mass media. Ci sono qui due concezioni diverse di Chiesa e di comunità. Nessuno può toglie niente al fondatore, ai suoi meriti storici per la comunità che ha creato e per la Chiesa tutta. Il problema è quando si diventa incapaci di distinguere il fondatore dalla comunità, anche di fronte a gravi distorsioni nell’esercizio dell’autorità. Il problema è quando si fa, dall’esterno, della persona del fondatore il simbolo di un partito ecclesiale o politico da agitare contro una serie di bersagli ideologici: il Medioevo, il Vaticano, i vescovi, il monachesimo non abbastanza ecumenico, e così via. Sembra caduto nel vuoto quello che papa Francesco aveva detto al Sinodo dei vescovi del 2015 circa la necessità di abbandonare le ermeneutiche cospirative: un invito rivolto non solo al Sinodo. Dalla otto-novecentesca ermeneutica del sospetto ora la Chiesa deve fare i conti con una ermeneutica della diffidenza che è diventata dominante - ed evidentemente non solo tra i cosiddetti tradizionalisti che si oppongono a papa Francesco. In questo clima ecclesiale troveranno sempre applausi le prese di posizione contro il Vaticano, contro l’istituzione ecclesiastica. Nessuno può togliere a Enzo Bianchi i suoi meriti storici. Il problema è quando si diventa incapaci di distinguere il fondatore dalla Comunità, anche di fronte a gravi distorsioni nell’esercizio dell’autorità. Enzo Bianchi è stato per me maestro di ecclesialità e stupisce che attorno a lui si sia radunata la fronda del risentimento anti-istituzionale che vede dappertutto complotti orditi a danno del vero cristianesimo. È una falsa ecumenicità quella che si basa su una presa di distanza dal cattolicesimo costruita sul risentimento. Il monachesimo ha anche un aspetto istituzionale. La regola è istituzione che aiuta a darsi una forma di vita, in una concezione di autorità che libera, in cui il carisma non è fine, ma strumento al servizio della comunità e della Chiesa tutta. È evidente che a Bose negli ultimi anni l’esercizio istituzionale dell’autorità del fondatore aveva assunto aspetti fortemente problematici. La visita apostolica e il provvedimento erano l’opportunità per ripartire - anche per il fondatore. La fase di stallo attuale troverà una via di soluzione, a un certo momento. Ma il caso di Bose attende soluzioni anche a livello diffuso. La divisione in «partiti» attorno al caso di Bose dice molto di questo momento ecclesiale.

Massimo Faggioli è Storico della Teologia alla Villanova University, Stati Uniti.

Il caso Bose​. Il caso Bose è esploso alla fine del 2019, con la visita apostolica - sollecitata dalla stessa comunità - che si è svolta tra il 6 dicembre di quell’anno e il 6 gennaio 2020. La delegazione era composta da tre visitatori – l’abate Guillermo Leon Arboleda Tamayo, M.Anne Emmanuelle Devéche, abbadessa di Blauvac e padre Amedeo Cencini – che hanno ascoltato a lungo il fondatore, il nuovo priore Luciano Manicardi e tutti i membri della comunità, raccogliendo le loro opinioni su quanto capitato. Alla luce di quanto raccolto, il 13 maggio scorso è stato emanato il “decreto singolare” firmato dal segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, «approvato in forma specifica» da papa Francesco – quindi non è appellabile – che ha disposto per Enzo Bianchi il ritiro dalla comunità entro e non oltre dieci giorni dalla notifica (avvenuta il 21 maggio). Dopo quasi 9 mesi, di fronte a un nulla di fatto, il 4 gennaio è arrivata l’ingiunzione del delegato pontificio per il trasferimento di Bianchi a Cellole San Gimignano entro il 16 febbraio. Provvedimento che Bianchi ha scelto di non osservare. Il braccio di ferro continua.

I numeri.

1965 - L’anno di fondazione della comunità di Bose. Nel 1968 ci furono i primi ingressi

6 - Le sedi: Bose, Ostuni, Assisi, Cellole-San Gimignano, Civitella San Paolo, Gerusalemme

Cattolici contro, senza sapere il perché. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. Domenica 21 febbraio è stata la Giornata Bose ed Enzo Bianchi. Su Avvenire  un lungo articolo di Massimo Faggioli ha fatto il punto su “carisma”, “carismi”, fondatori di monasteri, legame tra Chiesa istituzionale e Chiesa profetica. Con un passaggio centrale: “Il problema è quando si diventa incapaci di distinguere il fondatore dalla comunità, anche di fronte a gravi distorsioni nell’esercizio dell’autorità. Il problema è quando si fa, dall’esterno, della persona del fondatore il simbolo di un partito ecclesiale o politico da agitare contro una serie di bersagli ideologici: il Medioevo, il Vaticano, i vescovi, il monachesimo non abbastanza ecumenico, e così via”. Molto giusto, peccato subito sotto nel “taglio medio” della pagina ci sia la presa di posizione di un gruppo di sostenitori di Bose: soffriamo per gli attacchi e le polemiche che non rendono conto di quanto sia importante questa esperienza. Se finora abbiamo taciuto, fanno sapere, è solo per rispetto di un’esperienza di fede e di vita positiva per tanti. Insomma non dicono alcunché: occasione sprecata. Invece su Corriere della Sera abbiamo una pagina intera che racconta come Enzo Bianchi sarebbe andato via da Bose, in ottemperanza ai decreti del Delegato pontificio. Una pagina di letteratura, alla fine della quale non si capisce se Bianchi sia andato via davvero. Poi ci sono i siti cattolici. Da qualche giorno Settimananews, espressione della omonima rivista  settimanale – cattolica, edita dai Dehoniani – scomparsa e sostituita dl sito, ha pubblicato un articolo del benedettino Michael Davide Semeraro significativamente intitolato “La Pasqua di Bose” in cui troviamo la folgorante frase: “Se è vero che quanti si uniscono a un’avventura spirituale devono essere grati per chi ne ha permesso il fragile inizio con passione e dedizione, nondimeno chi è stato riconosciuto come ispiratore non dovrà mai dimenticare il debito con quanti gli hanno dato credito”. La Pasqua di Bose? Ma per favore…va bene siamo in Quaresima, però si potrebbe fare uno sforzo di chiarezza e non aggiungere confusione mentale! E stavolta arrivano i commenti: chi ringrazia il benedettino, chi sottolinea l’incomprensibilità di quanto sta accadendo. Più concreto è Riccardo Larini, ex di Bose, nel delineare delle ipotesi su quanto stia accadendo in quel microcosmo umano troppo umano dove le emozioni e i contrasti vengono spiritualizzati e l’altare della chiarezza è stato seppellito. Insomma Cattolici Contro. Da una parte il versante spiritualista, pro Vaticano (?), soddisfatto che Bose stia sprofondando; dall’altro i raffinati analisti che rispolverano concetti come la dialettica tra carisma e istituzione; dall’alta chi vorrebbe sapere e non sa nulla. Già perché nessuno ha risposto alla domanda piuttosto semplice: quale è il problema? Domanda non difficile da capire: quale è il problema? Soldi? Gestione economica? Potere? Passaggio dal fondatore al successore e problemi conseguenti di rivalità, gelosie, invidie? Qualcuno vorrebbe far cambiare natura a Bose istituzionalizzandola e dunque intervenendo sul tipo di esperienza? Quali sono i numeri di Bose: non i numeri economici ma quelli delle presenze e delle adesioni di monaci e monache? In calo? In crescita? Il "lockdown" ha azzerato convegni e iniziative e sta mettendo in difficoltà l’economia del gruppo? Non si sa, nessuno ce lo dice. In compenso ci sorbiamo lezioni di spiritualità dal benedettino prima citato, lezioni di teologia e i pareri non richiesti di chi non sa nulla mentre gli aficionados di Bose scrivono senza dire nulla. Eppure qualcosa si può dire, proprio partendo dalle aporie dei ragionamenti altrui. Da Bose ogni volta che parlano, nulla dicono sul problema reale che hanno, non riescono a chiamarlo con nome e cognome. Qui sta il punto: con impostazioni o approcci spiritualisti, i problemi non si risolvono. Invece serve trasparenza per dirimere i conflitti. E  i conflitti ideologici nascondono sempre dei conflitti relazionali. I francescani, ad esempio, lo sanno bene, avendo vissuto molti secoli fa la spaccatura proprio sull’eredità spirituale del fondatore: restare minori o istituzionalizzarsi? Conflitto di potere allo stato puro. Oggi dopo secoli dopo e dopo 121 anni di psicologia del profondo, bisognerebbe sapere quanto è difficile passare da un fondatore a dei successori, soprattutto nella ingessata chiesa italiana del terzo millennio. E comunque: o si tace e va bene cosi, oppure se si parla, allora Bianchi, Bose, Delegato, dovrebbero esprimersi con chiarezza. Se non lo fanno, sbagliano e avallano operazioni non trasparenti. 

La resistenza e le letture distorte. Caso Bose, la verità sul perché Enzo Bianchi deve lasciare la comunità. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Nel caso di Bose – il fondatore della famosa comunità monastica ha problemi con successore e confratelli, dunque va mandato via – la Chiesa scopre una volta di più l’acqua calda. In particolare per quel mondo particolare rappresentato dalle comunità monastiche, la riscoperta è dell’acqua caldissima. Cioè quando le litigate e gli interessi portano allo scoperto l’inutilità degli ideali sbandierati con tanto ardore, emerge il disastro dei rapporti umani. La relazione interpersonale ovunque, ma soprattutto nel mondo ecclesiastico, è realmente un problema. Perché nel mondo ecclesiastico la bontà è inserita nel “contratto di lavoro”: bisogna essere buoni e pazienti in quanto cristiani. Poi però siccome non ce la facciamo, allora a parole ci dichiariamo buoni e comunque peccatori, però nei fatti la facciamo pagare cara ai nostri oppositori o rivali. E sempre a mani giunte, facendo finta di fare il loro bene. Complicato? Irrealistico? Troppo dissacratorio? Bene, il caso di Bose è eclatante. Enzo Bianchi non si riesce a mandarlo via oramai da maggio 2020 e neanche l’autorità del Visitatore Apostolico produce effetto. Nonostante Bianchi abbia accettato di spostarsi altrove, è restato lì. Adesso l’ultimo decreto reso noto per merito del sito internet cattolico Settimananews (che ne ha dato notizia) è piuttosto bizantino. In sostanza Bianchi avrebbe accettato di andare a Cellole, vicino San Gimignano, in un altro degli eremi collegati a Bose. Il colpo di genio arriva subito dopo: Cellole accoglie Bianchi ed un gruppo di monaci che lo assistono (è anziano) ma la località smette di far parte dei monasteri di Bose. Viene ceduto in «comodato d’uso» (ma dove si è mai sentito?) e i monaci che erano lì, si trasferiscono altrove. Adesso aspettiamo che l’ex priore (però sempre fondatore), si trasferisca. Chissà se ci andrà davvero. Addirittura esce allo scoperto il Visitatore Apostolico e la sua decisione viene pubblicata dalla stampa cattolica con un certo rilievo. Il passaggio-chiave del decreto eccolo qui: «Dopo non pochi tentativi volti a rendere più agevole a Fr. Enzo Bianchi l’obbedienza (al decreto di maggio che prevedeva l’allontanamento, ndr.) (…) lo scorso 4 gennaio 2021 il Delegato Pontificio (…) ha emanato un Decreto (notificato l’8 gennaio) nel quale ha richiesto alla Comunità monastica di Bose di: interrompere a tempo indeterminato i legami con la Fraternità Monastica di Bose a Cellole, sita in località Cellole di San Gimignano (SI), la quale pertanto è stata chiusa e non può essere considerata come Fraternità della Comunità Monastica di Bose, fino a quando non si deciderà altrimenti». Seconda decisione: «Cedere in comodato d’uso gratuito il complesso di immobili di Cellole a Fr. Enzo Bianchi, che vi si trasferirà entro e non oltre martedì 16 febbraio p.v., avendo già dato il suo assenso al riguardo, assieme ad alcuni fratelli e sorelle che hanno manifestato la propria disponibilità ad andare con lui e si troveranno nella condizione di membri della Comunità Monastica di Bose extra domum». E dunque i monaci che lo seguono avranno un permesso speciale per continuare a far parte di Bose pur essendo altrove. È un capolavoro del “cerchiobottismo” che non ha confini ideologici o religiosi. Poi naturalmente abbiamo il solito pianto greco: ci dispiace, decisione sofferta, eccetera eccetera. Ma resta il fatto che i rapporti interpersonali qui hanno fatto emergere un fallimento ad altissimi livelli. Altro che fraternità di Bose (o di qualunque luogo); la diatriba ha alla base dei rapporti che hanno smesso di funzionare perché nessuno sa come mettervi ordine. E poco ha da sgolarsi il noto docente e commentatore Alberto Melloni dalle colonne di La Repubblica. La geo-politica cattolica non ha niente a che vedere con la vicenda. Avrebbe a che vedere se lo scontro o il dissidio fosse emerso sul tema generale dell’ecumenismo (argomento su cui Bose ha una grande tradizione) o su questioni specifiche del dialogo con ortodossi o con altre confessioni cristiane. No, qui siamo invece in tutt’altra vicenda: un fondatore che prima capisce la necessità di farsi da parte (è fondatore, mica può restare in eterno a comandare, vista l’età) e dopo qualche tempo si accorge che ha veramente una zero capacità a farsi per davvero da parte. Però in mezzo i suoi confratelli hanno nominato un altro priore – hanno preso sul serio la rinuncia – salvo scoprire che proprio non si riesce ad andare d’accordo. Certo farsi da parte quando hai fondato qualcosa di unico è difficile. Certo la colpa se la prende tutta Enzo Bianchi. Magari scopriremo in futuro che qualcuno avrà approfittato del suo lasciare la guida per fargli pagare qualche conto sospeso. Del resto non è chiaro come si entri a Bose e come si rimanga; non è chiaro quali siano i criteri di ammissione e se si metta in atto qualche valutazione di candidati e candidature. Il mondo cattolico (e non solo) è ben fornito di persone che desiderano cambiare il mondo – a parole – mentre nella realtà desiderano farsi largo e gestire il potere. Forse a Bose non ci sono i necessari contrappesi. Intendo sottolineare un’idea semplice e complessa. Per entrare in seminario è necessario sottostare a una prassi bene regolata (almeno sulla carta) e comunque esiste qualche criterio per accettare le persone oppure respingere chi abbia eccessive fragilità psicologiche. Per quanto riguarda Bose non si sa nulla dei criteri di ammissione e quindi possiamo legittimamente aspettarci una scarsa capacità di gestire i conflitti. Quei conflitti interpersonali che hanno la capacità di sfasciare e avvelenare qualunque realtà quando non vengono gestiti. Pertanto Melloni sbaglia quando legge la vicenda sullo sfondo di una complessa geopolitica ecclesiale. La complessità esiste però in tutt’altra direzione e riguarda la complessità relazionale; la situazione si poteva risolvere se fosse stata gestita meglio. Vanno sottolineati due aspetti del perché la Chiesa in generale non è capace di affrontare i conflitti relazionali. Prima di tutto perché li nega sempre e pensa che con il pentimento si risolva ogni problema. Non è così, tutt’altro. I conflitti si affrontano, rappresentano il sale delle relazioni umane. Non basta dire di appartenere alla stessa fede per andare d’accordo. L’accordo va cercato a fatica con pazienza e con metodo. Non va coperto dall’ideologia buonista del siamo tutti parte di una stessa Chiesa, per il semplice motivo che non è sufficiente dirlo, occorre vedere quali sono i comportamenti concreti e quali sentimenti negativi vengono negati mentre restano lì a distruggere rapporti. I sentimenti negativi di invidia, gelosia, avidità, odio, rancore, esistono e vanno gestiti mentre di solito si mimetizzano. Occorre smascherare la regola secondo cui nessuno sopporta qualcuno ma si fa finta di niente perché il qualcuno magari è il capo. E allora lo si boicotta nelle decisioni o si parla alle spalle. Quando smette di essere il capo, allora tutti a dargli addosso per sfogarsi. Vecchia storia ma nel terzo millennio un po’ triste e demodé. L’altra questione è relativa alla incapacità di attuare una sana psicologia, capace di aiutare in queste situazioni. Se il Visitatore Apostolico avesse qualche nozione di psicologia delle differenze individuali, forse avrebbe trovato il bandolo della matassa, invece di disquisire sulla “crisi di crescita” di Bose nel passaggio dall’anziano buon papà al giovane figliolo inesperto. È necessario decifrare la grammatica e la sintassi ed il significato delle relazioni e dei conflitti. Ma anche qui pur senza chiedere troppo, si poteva fare ricorso anche ad un’altra risorsa della psicologia: la psicologia relazionale di impostazione sistemica (in Italia, ad esempio, ha esponenti di rilievo, tutti laici però!) avrebbe sicuramente portato fuori dalle secche invece di allargare questa palude fino all’ingestibile. Se qualcuno pensa che si tratti di teorie con poco fondamento, possiamo riflettere su un ulteriore elemento: a parte termini come "frattura", "dolore", "scandalo" e via così, da Bose-comunità non è venuta una spiegazione chiara di quanto sta accadendo. Il confitto è tutto relazionale, dunque. E la Chiesa scopre l’acqua calda: al centro di ogni attività ci sono i rapporti interpersonali. Non basta pregare per risolvere ogni dissidio. Anzi, non serve. Bisognerà diventare capaci, una volta o l’altra, di sperimentare strategie e procedure per crescere dal punto di vista umano.

Da torino.repubblica.it il 5 marzo 2021. "Alla vigilia della partenza per il viaggio apostolico in Iraq, nel corso dell'udienza di ieri a padre Amedeo Cencini, delegato Pontificio  per la Comunità monastica di Bose, con il Priore della medesima, Fr. Luciano Manicardi, papa Francesco "ha manifestato la sua sollecitudine nell'accompagnare il cammino di conversione e di ripresa della Comunità secondo gli orientamenti e le modalità definite con chiarezza nel Decreto singolare del 13 maggio 2020, i cui contenuti il Papa ribadisce e dei quali chiede l'esecuzione", riferisce un comunicato della Santa Sede. Il Pontefice ha pertanto confermato che il fondatore Enzo Bianchi deve lasciare la Comunità. "Sua Santità ha voluto così esprimere al Priore e alla Comunità la sua vicinanza e il suo sostegno - prosegue la nota - in questa travagliata fase della sua vita, confermando il suo apprezzamento per la stessa e per la sua peculiarità di essere formata da fratelli e sorelle provenienti da Chiese cristiane diverse". Papa Francesco, "che fin dall'inizio ha seguito con particolare attenzione la vicenda, ha inoltre inteso confermare l'operato del Delegato Pontificio in questi mesi, ringraziandolo per aver agito in piena sintonia con la Santa Sede, nell'unico intento di alleviare le sofferenze sia dei singoli che della Comunità". "Il Santo Padre - conclude il comunicato - ha infine manifestato la sua sollecitudine nell'accompagnare il cammino di conversione e di ripresa della Comunità secondo gli orientamenti e le modalità definite con chiarezza nel Decreto singolare del 13 maggio 2020, i cui contenuti il Papa ribadisce e dei quali chiede l'esecuzione".

Bose, tutto confermato. Ora è tempo di obbedire. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 5 marzo 2021. Su Bose e la vicenda in corso, venerdì 5 marzo pomeriggio la Sala Stampa della Santa Sede diffonde il seguente comunicato (integrale):

“Giovedì 4 marzo 2021, alla vigilia della partenza per il viaggio apostolico in Iraq, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in udienza il Rev.do P. Amedeo Cencini, FdCC, Delegato Pontificio ad nutum Sanctae Sedis per la Comunità monastica di Bose, con il Priore della medesima, Fr. Luciano Manicardi. Sua Santità ha voluto così esprimere al Priore e alla Comunità la sua vicinanza e il suo sostegno, in questa travagliata fase della sua vita, confermando il suo apprezzamento per la stessa e per la sua peculiarità di essere formata da fratelli e sorelle provenienti da Chiese cristiane diverse. Papa Francesco, che fin dall’inizio ha seguito con particolare attenzione la vicenda, ha inoltre inteso confermare l’operato del Delegato Pontificio in questi mesi, ringraziandolo per aver agito in piena sintonia con la Santa Sede, nell’unico intento di alleviare le sofferenze sia dei singoli che della Comunità. Il Santo Padre ha infine manifestato la sua sollecitudine nell’accompagnare il cammino di conversione e di ripresa della Comunità secondo gli orientamenti e le modalità definite con chiarezza nel Decreto singolare del 13 maggio 2020, i cui contenuti il Papa ribadisce e dei quali chiede l’esecuzione”. Questo dunque il testo integrale. Penso  che ora sia stato detto tutto. I problemi reali non sono mai stati chiamati con il loro nome e dunque solo il tempo darà risposte. Chi chiede un po’ di chiarezza e trasparenza, metterà l’animo in pace. Per il momento non si può avere. Certo fa un po’ strano la  giurisdizione della Chiesa cattolica su una comunità formata da persone di diverse chiese cristiane. Ma tant’è.

Da torino.repubblica.it il 7 marzo 2021. Il fondatore della Comunità di Bose Enzo Bianchi esce dal silenzio e in un lungo comunicato fa sapere che erano state poste per il suo trasferimento condizioni "disumane ed offensive della dignità" sua e dei confratelli che lo avrebbero accompagnato nella nuova destinazione di Cellole in Toscana. Il Papa, prima di partire per l'Iraq, aveva visto il delegato pontificio e il priore di Bose confermando la validità del loro operato e dunque la richiesta di allontanamento di Bianchi. Il decreto del delegato pontificio ingiungeva a Bianchi "di trasferirsi a Cellole senza sapere né identità né numero dei fratelli e delle sorelle che sarebbero andati a vivere con lui. Nel contratto di comodato - rende noto lo stesso Bianchi - si prevede che l'Associazione Monastero di Bose, nel suo rappresentante legale fratel Guido Dotti, può cacciare da Cellole in ogni momento, su semplice richiesta e senza motivarne le ragioni, fratel Enzo Bianchi e quanti vi risiedono con lui. Il contratto di comodato d'uso concede gli edifici del priorato di Cellole stralciando però intenzionalmente i terreni annessi all'edificio e necessari per la coltivazione, per l'orto e per la provvigione dell'acqua durante l'estate. Si dichiara che ai monaci e alle monache di Bose che vivranno a Cellole è vietato non solo fare riferimento a Bose, ma anche affermare di condurre vita monastica o cenobitica: potranno semplicemente definirsi come coloro che danno assistenza a fratel Enzo Bianchi, pertanto ridotti a meri "badanti"", denuncia ancora Bianchi spiegando le motivazioni per le quali è rimasto a Bose e definendo queste condizioni "disumane". Bianchi scrive anche: "Dall'inizio di febbraio, ho ricominciato la ricerca di una dimora in cui poter vivere la vita monastica e praticare l'ospitalità come sempre ho fatto tutta la mia vita a Bose: alla mia vocazione non intendo rinunciare. Non ho nulla in più da comunicare almeno per ora. Giudicate voi!".

Comunità di Bose verso la scissione: crescono i favorevoli a Enzo Bianchi contro la "svolta autoritaria" del nuovo priore. Francesco Antonioli su La Repubblica il 9 marzo 2021. Diplomazia al lavoro per il più delicato dei dossier di Papa Francesco. Nel monastero appare l'avviso "Ordine e disciplina" che minaccia punizioni per chi “urla e grida”. Obiezioni e richieste vanno presentate a un nuovo organo, il "Discretorio". Si fa tesissima la situazione della Comunità di Bose. È uno dei dossier più delicati che Papa Francesco ha sulla scrivania dopo la visita storica in Iraq. Il fondatore Enzo Bianchi, pochi giorni fa, ha rotto il silenzio con un comunicato in cui afferma di non accettare le menzogne. È uscito allo scoperto, dal suo eremo-fortino mai abbandonato, dopo la nota della Santa Sede a margine dell'udienza di Bergoglio del 5 marzo con l'attuale priore Luciano Manicardi e del delegato pontificio padre Amedeo Cencini. In quel testo anche Bergoglio chiede l'esecuzione del decreto del 13 maggio 2020. E cioè l'allontanamento obbligato sia di Bianchi sia di altri tre monaci: Lino Breda, Antonella Casiraghi e Goffredo Boselli. In queste ore ci sono diplomazie sotterranee al lavoro, ecclesiastiche e no, per trovare una soluzione. Quale? La più probabile, soprattutto per evitare l'incancrenirsi dei cattivi rapporti, è una scissione consensuale, che potrebbe vedere l'uscita dal monastero di Magnano, nel Biellese, di almeno una decina di fratelli e sorelle ancora adesso più vicini al fondatore. Ognuno per la sua strada, insomma, cercando di lenire con il tempo le ferite. Il luogo non esiste ancora, ma lo si sta cercando in varie zone d'Italia. A maggior ragione dopo che è sfumata l'ipotesi di Cellole, in diocesi di Volterra, dove Bianchi e gli altri tre avrebbero dovuto vivere nella precarietà di un comodato d'uso in mano a Bose e senza poter praticare la vita monastica. "Non si può voler stravincere umiliando le persone", taglia corto Riccardo Larini, 47mo monaco nella storia della Comunità di Bose, che ha lasciato il saio nel 2005. È uno dei più attivi nell'attuale, delicatissima tessitura diplomatica. Lo fa da Tallin, in Estonia, dove ha una società che si occupa di formazione. Sul suo blog non le manda a dire, neppure a Enzo Bianchi, cui fin da subito aveva rimproverato di non essersi spostato da Bose per non creare cortocircuiti. "È palese - così gli si rivolge Larini - che è soprattutto a causa tua (il che non vuol dire per colpa tua) che si sono riversati anche sugli altri l'odio e la furia dei talebani che hanno preso in mano i destini della comunità che tu hai fondato, supportati da un'istituzione ecclesiale che sembra aver dimenticato ormai del tutto il Vangelo e che ha optato palesemente per il ricorso a strumenti totalitari, degni dei peggiori regimi al mondo". E incalza: "Il tutto sotto gli occhi compiacenti e in larga misura complici di una stampa cattolica che conferma l'attuale abbandono della traiettoria conciliare da parte della Chiesa italiana". A dire il vero, fin da quando è esploso il caso lo scorso anno, Enzo Bianchi ha sempre raccomandato ai molti amici sgomenti - intellettuali come lo psicoanalista Massimo Recalcati, i filosofi Massimo Cacciari e Salvatore Natoli, come pure molti alti prelati - di non fare nulla e di non sottoscrivere appelli già pronti e in più versioni: "Non si fa nulla contro il Papa, aspettiamo". Ma la "chiusura" sulla ipotesi di Cellole, quando sembrava che lo stesso Papa Francesco stesse lavorando per una soluzione più morbida, ha cambiato la prospettiva. Tant'è che in molti stanno chiedendo a Enzo Bianchi di pubblicare il decreto inappellabile che lo riguarda (i decreti in realtà sono quattro, uno per monaco espulso) giusto per rompere la cortina di ambiguità che lo stesso Vaticano ha creato. "Bose è di tutti, non la si può liquidare così, senza spiegazioni e senza che nessuno possa capire", si limita a dire, con grande amarezza, l'ex sindaco di Torino Valentino Castellani, ora ottantenne, ma da sempre frequentatore della comunità, come tantissimi altri della "generazione Bose". Il punto è che a motivo del duro e inappellabile intervento vaticano non vi sono abusi sessuali, deviazioni dottrinali o chissà quali altre nefandezze. Bensì rapporti e relazioni mal gestite, con sovraccarichi di rancori e non detti: un Vietnam della fraternità. Il canonista dell'Università di Pisa Pierluigi Consorti è molto netto: "Questa vicenda - a prescindere da come e se finirà - lascia l'amaro in bocca. Bose è stata per molti un riferimento spirituale importante. Segno di freschezza evangelica e rinnovata presenza monastica nel mondo. Nessuno si scandalizza se il cammino di questi fratelli e sorelle è affaticato, sofferente e bisognoso di conversione. La libertà evangelica di Bose, la sua liturgia, la vita monastica di fratelli e sorelle battezzati in Cristo ha testimoniato l'adesione alla regola evangelica (di altre regole? non si sa) senza bisogno di ricorrere al potere". "Purtroppo - continua Consorti -  oggi Bose ci fa invece scontrare con le strettoie antiche dell'uso autoritativo del potere clericale. Essa si fa forte della forma contro la sostanza. Domanda obbedienza cieca mentre nasconde la verità dei fatti. E anche il Papa a questo punto si trova vittima dell'esercizio di un potere apparentemente senza limiti, che sfugge persino alle regole del diritto canonico. Roma locuta, causa finita ("Roma ha parlato, la causa è definitivamente chiusa") non è una sentenza, ma una tentazione ricorrente di cui ci si dovrebbe liberare. Essa si presenta come una coperta sulla trasparenza. Oscura persino il coraggio di un viaggio apostolico senza precedenti. Verrebbe voglia di non sapere. Di fare finta di niente. Di minimizzare. Di lasciare Bose al suo destino. Ma bisogna avere invece il coraggio di gridare sui tetti, di fare entrare la luce, di discutere di diritti e di doveri reciproci". Anche a Bose, peraltro, non stanno niente bene. Il Priore Manicardi ha inasprito regole e disciplina (lo si vede da un cartello apparso nei giorni scorsi, che vieta persino "urla e grida"): nessuno parli con l'esterno e neppure nei momenti comunitari. Eventuali richieste vanno indirizzate al "Discretorio", inquietante organismo gestionale introdotto dallo stesso Manicardi. Chi è vicino a lui fa filtrare commenti acidi, segno che ormai non c'è possibilità alcuna di riconciliazione: "Noi per ora continuiamo a fare silenzio. Ma anche senza veline un giornalista può chiedersi chi mente tra la Santa Sede che dice che tutto è avvenuto d'intesa tra delegato pontificio, Segreteria di Stato e Papa oppure Enzo che dice che delegato, Priore ed economo hanno agito in contrasto con il Segretario di Stato. E sempre senza veline ci si può chiedere la coerenza della cifra di 500mila euro con i prezzi di mercato per l'abitazione di due persone (Enzo e chi lo assiste). Il tutto semplicemente a partire da due comunicati, di cui uno risalente a un mese fa e reso pubblico solo ora". Non se ne esce. Mentre non si contano gli inutili commenti partigiani ("Enzo è impazzito", "No, sono pazzi gli altri") c'è chi sta male seriamente ed è molto preoccupato. Su tutti, per esempio, i cardinali Gianfranco Ravasi e Matteo Maria Zuppi, solo per citarne alcuni. Cosicché, lo scenario di un futuro prossimo, auspicato da molti, è proprio quello suggerito da Riccardo Larini: via, scuotendo la terra dai vostri calzari, come dice il Vangelo. "Posso solo ricordarvi, umilmente, come vostro fratello - scrive Larini agli espulsi ex confratelli Breda, Casiraghi e Boselli - ciò che Enzo stesso ci ha insegnato e ha spesso ripetuto, e cioè che nessuno può impedirci di vivere il Vangelo, neppure la Chiesa. Voglio perciò innanzitutto ringraziarvi pubblicamente per avere cercato un dialogo, da veri cristiani, con chi vi colpiva in maniera potenzialmente mortale. La ragione, infatti, non sta mai da una parte sola, e pur compiendo anche voi i vostri errori sono pienamente cosciente della vostra costante ricerca e attesa di soluzioni più umane e cristiane alla crisi profonda che ha colpito la vostra (oso dire "nostra") comunità". "Voglio ringraziarvi - prosegue Larini - per avere cercato una ricomposizione, in primo luogo, per vie ecclesiali e non per tribunali. Si tratta di una scelta per nulla scontata. Il diritto a un processo equo è infatti uno dei capisaldi della Dichiarazione Fondamentale dei Diritti Umani del 1948, e il diritto canonico contiene (e fa uso di) strumenti in chiarissimo contrasto con questo documento fondamentale dell'umanità. La vostra decisione è ancor più degna di rispetto perché sicuramente, in sede civile, risulterebbe impossibile privarvi di ciò che avete largamente contribuito a realizzare sul piano materiale. E aggiungo che se anche decideste di appellarvi in futuro ai tribunali secolari, compirete un atto legittimo che non cambierà certamente la mia considerazione per voi". Un invito, neppure troppo velato, a chi è ancora a Bose e vorrebbe andarsene. Le vie legali, invece, aprirebbero scenari terribili: ma che nessuno, al momento, sembra voler praticare.

Strani movimenti in Vaticano: perché è saltato Enzo Bianchi. Il diritto canonico non ammette deroghe: la volontà del Papa va rispettata. Ecco perché padre Enzo Bianchi deve lasciare la Comunità di Bose. Francesco Boezi - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. Lo stupore provato a maggio dell'anno scorso può essere rinnovato: il caso di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, continua a far discutere. Qualche giorno fa, fratel Bianchi ha deciso di spiegare in pubblico i perché del suo mancato trasferimento dalla realtà che ha fondato. L'ormai ex priore ha elencato una serie di motivazioni per cui non si è ancora trasferito. C'è del particolare in questa vicenda. Se non altro perché il Papa avrebbe deciso. Ci si aspetta, dunque, che la volontà del pontefice argentino, che nel frattempo è impegnato in uno storico viaggio in Iraq in piena pandemia, venga rispettata. E che padre Bianchi si rechi dunque in Toscana, dove dovrebbe andare secondo le disposizioni della Santa Sede. Certo, Bianchi è un esponente del cosiddetto "campo progressista". Il che potrebbe aver suscitato qualche perplessità rispetto alla decisione del Santo Padre, che in molti assegnano proprio a quell'emisfero culturale. Ma Jorge Mario Bergoglio ha dimostrato più volte non poter essere banalizzato, tanto nella sua azione quanto nel suo pensiero. Niente per cui stupirsi, dunque, visto che il Papa ha già dimostrato di essere molto meno "politico" di come viene raccontato da certe frange. La Chiesa di papa Francesco è sì "in uscita", ma di certo non propagandistica e schiacciata su logiche di appartenenza a quella o a questa corrente dottrinale. Non è mai stata e non può essere una questione di "magliette". In queste ore, peraltro, un articolo pubblicato su Repubblica ha ventilato un'ipotesi di scissione: possibile che il "caso" Enzo Bianchi possa comportare questo? Bergoglio si è occupato della vicenda dell'allontanamento di padre Bianchi poco prima di partire per l'Iraq. Francesco, dopo l'udienza con padre Amedeo Cencini, che è l'ecclesiastico scelto quale delegato dello stesso pontefice per la Comunità di Bose, ha di nuovo ribadito la sua volontà - come vertice assoluto della Chiesa - attraverso un comunicato stampa della Santa Sede. Nel comunicato, viene ribadita la "sollecitudine nell’accompagnare il cammino di conversione e di ripresa della comunità secondo gli orientamenti e le modalità definite con chiarezza nel decreto". E cioè padre Bianchi deve, per volontà del vescovo di Roma, abbandonare la comunità monastica che ha fondato durante la metà degli anni 60'. Vale la pena sottolineare come all'udienza con il Papa fosse presente anche Luciano Manicardi, il nuovo priore di Bose verso cui il Papa nutre piena fiducia. Come premesso, fratel Bianchi ha parlato. Il fondatore di Bose ha voluto fornire le motivazioni del perché non abbia ancora assecondato la volontà del Papa. Già nella premessa, può essere notato un tono polemico: "Nel Decreto del Segretario di Stato consegnatoci il 21 maggio 2020, - ha fatto sapere Enzo Bianchi - veniva chiesto a me, a due fratelli e a una sorella l'allontanamento da Bose a causa di comportamenti a noi mai indicati e spiegati che avrebbero intralciato l'esercizio del ministero del priore di Bose, fr. Luciano Manicardi. Pur non avvallando le calunnie espresse nel Decreto, coscienti che non ci era consentito l'esercizio del diritto fondamentale alla difesa (come sancito dalla Carta dei diritti umani e dalla Convenzione europea) abbiamo obbedito al Decreto". Insomma, il Vaticano non avrebbe chiarito i motivi per cui è stato richiesto un allontamento. Poi - come riportato dall'Andkronos - l'ex priore ha voluto specificare: "E a seguito di questa situazione e non per altre ragioni, - continua il fratel - che non ho potuto lasciare l'eremo nel quale vivo da più di quindici anni e si trova dietro alla collina della Comunità di Bose. Alla consegna del Decreto ho da subito interrotto ogni rapporto con i membri della Comunità, incontrando soltanto un fratello incaricato dal priore per la mia assistenza quotidiana. Pertanto, l'allontanamento concreto l'ho realizzato ma non abbastanza lontano come indicato dal Decreto". Al netto delle rimarcate difficoltà nel cercare un'altra sistemazione per via delle condizioni di salute, della situazione legata al Covid-19, per i prezzi delle case e così via, Bianchi si sarebbe allontanato de facto. Mancherebbe solo il trasferimento per obbedire alle disposizioni. Solo che il fulcro del Decreto è proprio quello. Peraltro l'ex priore ha parlato pure di condizioni "disumane ed offensive" legate al trasferimento. Attorno a questa vicenda esistono almeno due elementi di discussione: uno correlato alla disobbedienza di Bianchi nei confronti dell'atto dell' ex arcivescovo di Buenos Aires ed un altro relativo invece al contesto in cui tutto questo sta avvenendo. Bose non è una comunità come un'altra, perché può rappresentare meglio di altre quel concetto di "Chiesa in uscita" che Bergoglio ha introdotto e che ora potrebbe essere rinnovato pure in Italia tramite l'organizzazione di un vero e proprio Sinodo dell'episcopato. Ma il fatto che l'ex priore di Bose non se ne sia andato come Bergoglio ha deciso può aver distrutto parte delle certezze tra gli opinionisti. Almeno tra quelli sicuri che Francesco e Bianchi non avrebbero mai potuto non essere in sincronia. La faccenda - com'è stato fatto notare da più parti - interessa soprattutto commentatori ed ambienti progressisti. Tra coloro che si stanno distinguendo per la difesa di Bianchi, ad esempio, c'è il professor Massimo Recalcati. L'altro fattore è appunto la disobbedienza nei confronti del Sovrano pontefice. Ma come stanno le cose di questa "cacciata"? Quali sono i fatti da tenere in considerazione per arrivare ad avere un'opinione in merito? E perché, in ultimo, sulla base del diritto canonico, Enzo Bianchi dovrebbe banalmente accettare quanto scritto sul decreto? L'avvocato Vito Livadia, canonista, fotografa il quadro di partenza: "Sappiamo che Papa Francesco ha inviato alcuni visitatori presso la comunità di Bose nei primi mesi del 2020, i quali hanno redatto una “Charta Visitationis”, alla quale ha fatto seguito un Decreto singolare emanato dal Papa il 13 maggio 2020 firmato dal Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin". Si deduce subito come l'atto sia direttamente del Papa, dunque, come chiarisce l'esperto che abbiamo voluto interpellare per ilGiornale.it. Il canonista continua: "Di fronte ad un decreto singolare il priore di Bose è tenuto ad obbedire ed uniformarsi al dettato normativo in esso contenuto, poiché le due norme da leggersi in combinato disposto ossia il canone 35 CIC ed il canone 333 § 3, mettono in evidenza un quadro normativo ben chiaro e cioè che l'atto amministrativo singolare ha un destinatario concreto, nel caso in esame il priore di Bose". Il priore, come detto, adesso è un altro. Quindi, anche per via di una successione ormai avvenuta (e magari per evitare sovrapposizione di "poteri"), il Papa si è mosso con un decreto singolare, che per Livadia "è distinto dalla legge, dalla consuetudine, dai decreti generali e dalle istruzioni che invece hanno valore generale; soprattutto è emesso da chi nella Chiesa ha potestà esecutiva". E fin qui è tutto chiaro. Ma può Enzo Bianchi non adempiere alle volontà papali? "...il Romano Pontefice - spiega il canonista -, godendo di potestà ordinaria, suprema, piena, immediata ed universale su tutta la Chiesa che può esercitare liberamente, in forza del disposto del canone 333 § 3 CIC, una volta esercitata tale potestà a mezzo degli atti ritenuti opportuni per la singola fattispecie, contro tali atti che siano sentenze o decreti del Romano pontefice, non è ammessa, come sancisce espressamente la norma, né l'interposizione dell'appello né si dà facoltà di proporre ricorso", chiosa l'avvocato Livadia.

Bose: sempre peggio. Chi ha ordinato il Codice Rosso? Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 18 Marzo 2021. La telenovela su Bose si arricchisce di un altro passaggio. Il Delegato pontificio risponde a Enzo Bianchi e gli dà del bugiardo. No, mi correggo, così è troppo. Bianchi giorni fa aveva smentito le ricostruzioni sui suoi due mancati trasferimenti (disobbedire agli ordini) e ora il Delegato smentisce le ricostruzioni di Bianchi. Va meglio così? Nessuno è bugiardo, si tratta di una dissonanza cognitiva. Non si capiscono, ovvero ognuno capisce a modo suo e si stupisce che l’altro non capisca. I lettori non si alterino: non li sto prendendo in giro. Sto cercando di mostrarvi che il punto non è la cortina di fumo dei punti di vista diversi. In realtà nessuno sa quale sia il nodo del problema. Però il dubbio, a questo punto, è che neanche i protagonisti lo sappiano più. Ad esempio il Delegato pontificio nella lunga e puntigliosa ricostruzione che vuole smentire Bianchi, ad un certo punto si esprime così: “auspico che queste precisazioni aiutino a una lettura corretta…”. Purtroppo è esattamente il contrario. I toni si sono esacerbati, comprensione, dialogo e misericordia sono scomparsi (non so se ci sono mai stati…). E’ la dimostrazione che anche nelle realtà ecclesiali, alla fine, i problemi si risolvono a colpi di decreti e vie legali. Certo si poteva evitare, facendo ricorso a strumenti diversi, alla comprensione, al dialogo, al chiaro riconoscimento dei veri motivi del dissidio. Come sanno bene gli psicologi del profondo (ma anche gli psicologi dinamici, i cognitivisti, i terapisti sistemici…), nei conflitti i veri motivi non vanno cercati nelle contrapposizioni ideologiche teoriche ma nei vissuti affettivi, nei sentimenti, nelle motivazioni, nei desideri anche inconsci di venire accolti, riconosciuti e perfino (soprattutto?) nel desiderio del potere. Qui ci sono dei vissuti molto forti e profondi, tutti inespressi, ed è triste vedere che non se ne parla mai. Sta diventando una diatriba tra chi vuole avere ragione a tutti i costi, come tra fidanzati o coniugi esacerbati dove ognuno vuole prevalere sull’altro e alla fine gli sconfitti sono tutti e due. Un’altra occasione perduta, annegata nel mancato rispetto e nel dialogo diventato inevitabilmente tra sordi. Si poteva evitare. Chi ha ordinato l’estromissione di Bianchi e l’impossibilità di qualsiasi dialogo? Mi sembra azzeccato ricordare il  colonnello Jessep (un eccezionale Jack Nicholson) alla fine del film. Nel processo per l’uccisione del marine Santiago, vittima di “codice rosso” cioè una pratica punitiva tollerata e anzi incoraggiata verso i soldati poco capaci nella base Guantanamo a Cuba, dice: “Io ho responsabilità più grandi di quello che voi possiate mai intuire. Voi piangete per Santiago e maledite i Marines. Potete permettervi questo lusso. Vi permettete il lusso di non sapere quello che so io: che la morte di Santiago nella sua tragicità probabilmente ha salvato delle vite, e la mia stessa esistenza, sebbene grottesca e incomprensibile ai vostri occhi, salva delle vite! Voi non volete la verità perché è nei vostri desideri più profondi che in società non si nominano, voi mi volete su quel muro, io vi servo in cima a quel muro. Noi usiamo parole come onore, codice, fedeltà: usiamo queste parole come spina dorsale di una vita spesa per difendere qualcosa. Per voi non sono altro che una barzelletta. Io non ho né il tempo né la voglia di venire qui a spiegare me stesso a un uomo che passa la sua vita a dormire sotto la coperta di quella libertà che io gli fornisco e poi contesta il modo in cui gliela fornisco. Preferirei che mi dicesse la ringrazio e se ne andasse per la sua strada; altrimenti gli suggerirei di prendere un fucile e di mettersi di sentinella. In un modo o nell’altro io me ne sbatto altamente di quelli che lei ritiene siano i suoi diritti!” Tradotto in ecclesialese. I priori di Bose, i Delegati pontifici, tutto l’ambaradan sta dicendo a noi poveri mortali: che ne volete sapere o capire di quel che accade. Noi estromettiamo Bianchi che si estromette da solo, noi siamo i paladini della libertà e di quella Chiesa che voi frequentate e dunque non dovete criticare. Invece i punti critici sono tanti e per una volta si potevano chiarire: lo statuto ecclesiale di Bose, la normativa canonica ed i limiti di applicazione, i criteri di selezione dei monaci e delle monache, i limiti all’autorità del priore. Vista la risonanza che ha Bose, una discussione o un dibattito poteva venire avviato e tutta la Chiesa avrebbe guadagnato in trasparenza. Personalmente non difendo Bianchi e neppure critico il Delegato. Cerco di dire qualcosa di diverso. Questa baldoria si poteva e doveva trattare in modo diverso. Adesso tutti i protagonisti si sono cacciati in un vicolo cieco, cioè vogliono far vedere che hanno ragione. E’ una diatriba senza sbocco e rovinosa. Occasione perduta di trasparenza e dialogo. Cosa ci sarà dietro? Semplice semplice: desiderio di potere, desiderio di fare i conti con rancori, gelosie e via dicendo. Tutto umano, troppo umano. Torniamo al colonnello Jessep: “Il nostro mestiere consiste nel salvare vite umane, Tenente Colonnello Markinson. Non devi discutere i miei ordini davanti a un altro ufficiale”. Qui qualcuno è convinto di avere la ricetta per salvare Bose. Non si deve discutere, neanche quando vedi che il rimedio sta uccidendo il malato.

La soap di Bose continua. Il Papa e il Priore, guerra a oltranza tra errori e opacità. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Papa Francesco in persona interviene su Bose. Lo fa con una lettera al Priore e alla comunità, pubblicata ieri, in cui si dice consapevole delle difficoltà che si sono “purtroppo accresciute” a causa del “prolungato ritardo” nell’applicare le misure decise dalla Santa Sede, cioè allontanare Enzo Bianchi, fondatore ed ex-priore. E aggiunge: «Non lasciatevi turbare da voci che mirano a gettare discordia tra voi: il bene dell’autentica comunione fraterna va custodito anche quando è alto il prezzo da pagare! Così come la fedeltà in tali momenti consente di cogliere ancor più la voce di Colui che chiama e dà la forza di seguirlo». La lettera segue l’udienza concessa al Delegato pontificio e al Priore il 4 marzo. Già allora la Sala Stampa vaticana aveva parlato di “vicinanza e sostegno” del Papa. Il Delegato a sua volta aveva risposto il 17 marzo, l’altro ieri, alle precisazioni di Enzo Bianchi che il 6 marzo in un lungo comunicato aveva smontato uno per uno i pezzi della ricostruzione del Delegato stesso. Bianchi dice che non è mai stato d’accordo a trasferirsi e soprattutto l’ultima soluzione, a Cellole vicino San Gimignano, non soddisfaceva le condizioni minime richieste di autonomia economica, operativa e vita monastica. A leggere e rileggere Bianchi il 6 marzo e il Delegato l’altro ieri, ci si accorge che a vicenda dicono all’altro di mentire. I fatti certi sono questi: il Papa è dalla parte del Delegato pontificio; Bianchi non è mai stato ascoltato dal Papa; la comunità di Bose sembra spaccata al suo interno e si affastellano le voci di una scissione e provvedimenti disciplinari contro i monaci non allineati all’attuale Priore. Ieri l’autorevole quotidiano francese La Croix ha dedicato due pagine a Bose, parlando di crisi di crescita e dei problemi collegati alla prova della maturità, nel passaggio dal fondatore al successore, tanto più difficile quando il primo è ancora in vita e ben presente nelle dinamiche della comunità. Il pasticcio è molto grande e a vederlo da fuori non si capisce più niente. Anche se, a dirla tutta, nulla si è capito fin dall’inizio. Infatti su un aspetto tutti i protagonisti vanno super d’accordo: non dire quale sia il nodo del contendere. Problemi economici e gestionali? Questioni di potere, gelosie e rivalità da resa dei conti tra fondatore e successore? Cambiamento di linea di Bose rispetto all’ecumenismo e alla vita comunitaria di un gruppo di monaci e monache che sono dei laici? Desiderio di clericalizzare l’esperienza? Non si sa, nessuno lo vuole dire. Nel frattempo “volano gli stracci” con una sorta di opinione pubblica di Bose schierata chi a difesa di Bianchi, chi a difesa dell’attuale Priore. In mezzo ci sono gruppi di irriducibili secondo cui i panni sporchi non si lavano in pubblico e noi, anche de Il Riformista, dovremmo tacere perché non sappiamo un bel niente. I panni sporchi si lavano in casa a patto che chi la abita stia zitto, mentre qui tutti si affannano a opinare e anche via social troviamo i provvedimenti restrittivi dell’attuale Priore fotografati e pubblicati. Se poi si doveva tacere per chissà quale rispetto delle parti in causa e dell’esperienza di Bose, allora nessuno doveva comunicare, neanche la Santa Sede che invece a più riprese è intervenuta. Che poi non si sappia un bel niente non è vero, perché il silenzio sui motivi del dissidio ci fanno capire molto. Tra l’altro il Delegato pontificio nella lunga e puntigliosa ricostruzione del 17 marzo che vuole smentire Bianchi, a un certo punto si esprime così: «Auspico che queste precisazioni aiutino a una lettura corretta…». Purtroppo è esattamente il contrario. I toni si sono esacerbati, comprensione, dialogo e misericordia sono scomparsi (non so se ci sono mai stati…). È la dimostrazione che anche nelle realtà ecclesiali, alla fine, i problemi si risolvono a colpi di decreti e vie legali. Certo si poteva evitare, facendo ricorso a strumenti diversi, alla comprensione, al dialogo, al chiaro riconoscimento dei veri motivi del dissidio. Come sanno bene gli psicologi del profondo (ma anche psicologi dinamici, cognitivisti, terapisti sistemici…), nei conflitti i veri motivi non vanno cercati nelle contrapposizioni ideologiche teoriche ma nei vissuti affettivi, nei sentimenti, nelle motivazioni, nei desideri anche inconsci di venire accolti, riconosciuti e perfino (soprattutto?) nel desiderio del potere. Qui ci sono dei vissuti molto forti e profondi, tutti inespressi, ed è triste vedere che non se ne parla mai. Sta diventando una diatriba tra chi vuole avere ragione a tutti i costi, come tra fidanzati o coniugi esacerbati dove ognuno vuole prevalere sull’altro e alla fine gli sconfitti sono tutti e due. Un’altra occasione perduta, annegata nel mancato rispetto e nel dialogo diventato inevitabilmente tra sordi. Si poteva evitare. Vista la risonanza che ha Bose, una discussione o un dibattito poteva venire avviato e tutta la Chiesa avrebbe guadagnato in trasparenza.

Stefano Filippi per "la Verità" il 30 marzo 2021. Il braccio di ferro è terminato. Dopo avere resistito agli ordini del Vaticano per quasi un anno, attorno a Pasqua fratel Enzo Bianchi lascerà la comunità di Bose, che lui stesso aveva fondato, per trasferirsi a Torino. La notizia viene dalle colonne amiche di Repubblica, giornale su cui ogni lunedì Bianchi pubblica una riflessione religiosa. L'ingiunzione di lasciare la comunità monastica del Biellese, datata 13 maggio 2020, era firmata dal segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, e approvata esplicitamente dal Papa: una decisione definitiva e inappellabile che imponeva al monaco laico di «trasferirsi in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualmente detenuti», con altri due monaci e una monaca, entro pochi giorni. Bianchi, 78 anni, è persona stimata da Francesco, che l'ha nominato, tra il 2014 e il 2019, consultore del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani e nel 2018 l'ha voluto come uditore, con possibilità di intervento, al sinodo sui giovani. In Vaticano nel 2017 era anche circolata la voce che Francesco avrebbe voluto nominarlo cardinale in un concistoro con appena 5 porpore, benché Bianchi non sia nemmeno prete e abbia detto di no a due vescovi che gli avevano proposto l'ordinazione: aveva rifiutato perché voleva restare «un semplice cristiano, laico come lo sono i monaci». Se il Papa decide di punire un uomo di sua fiducia, significa che le ragioni sono gravissime. I motivi non sono mai stati resi noti: per Bianchi, si tratta di «comportamenti a noi mai indicati e spiegati che avrebbero intralciato l'esercizio del ministero del priore di Bose». La vicenda è stata così liquidata come un fatto personale con il nuovo priore, Luciano Manicardi, subentrato al fondatore nel 2017. Uno scontro di caratteri diversi, con incomprensioni legate alla successione che si sono radicalizzate. È davvero tutto qui? Francesco in questi anni ha dimostrato di non tollerare due cose nella Chiesa: la pedofilia nel clero e l'attaccamento al denaro. E per capire la crisi di Bose bisogna seguire questa seconda pista. «Follow the money». Che alla base dello scontro ci siano questioni di soldi, lo si intuisce leggendo gli ultimi scritti dei fronti opposti. Sul suo blog, Bianchi ha raccontato di aver «immediatamente iniziato la ricerca di un'abitazione adatta a me e alla persona che mi assiste, dove poter anche trasferire la vasta biblioteca necessaria al mio lavoro e l'ampio archivio personale. Dopo mesi di ricerca condotta anche da agenzie specializzate, ricerca complicata altresì dall'emergenza sanitaria del Covid-19, non ho trovato nulla di confacente alle mie esigenze. I costi per l'acquisto di una casa in campagna (sempre superiore a 500.000 euro) o di un affitto di un alloggio in città restavano eccessivamente elevati rispetto alle mie possibilità economiche e alla scelta di una vita sobria che ho sempre condotto». L'umile monaco che non volle farsi prete non si accontentava di un bilocale più servizi, ma voleva un casale con biblioteca, studio, stanze per gli assistenti e per gli ospiti. Per questo non poteva lasciare il monastero, dove gli era stata riservata un'ala separata dal resto della comunità. A ottobre il cardinale Parolin gli ha proposto di trasferirsi a Cellole, vicino a San Gimignano, in un monastero di cui la comunità di Bose si sarebbe privata per darlo in comodato d'uso gratuito a Bianchi. Il quale però ha fatto sapere che nemmeno questa soluzione a costo zero gli andava bene, perché gli venivano concessi gli edifici senza i terreni annessi. E soprattutto senza un assegno di mantenimento. A stretto giro gli ha risposto padre Amedeo Cencini, mandato dal Papa per comporre la questione. «Il comodatario», scrive Cencini in una nota riferendosi a Bianchi, «dispone di adeguati mezzi di sussistenza personali, come da me appurato nel corso del mio operato», sufficienti per coprire i costi di Cellole, cioè bollette, manutenzione, spese personali. Par di capire che l'ex priore abbia un bel gruzzolo messo da parte per la pensione. «Mezzi personali», sottolinea il delegato pontificio, non della comunità. Tutto questo non è piaciuto a Francesco, fautore di una «Chiesa povera per i poveri», che in tutti questi mesi e anche negli ultimi giorni ha sempre mostrato di stare da una parte sola, quella di Manicardi. Ma la questione finanziaria non riguarda solo la coda più recente della vicenda. All'origine dello scontro ci sarebbe altro. La comunità di Bose si è sempre sostenuta grazie agli introiti garantiti da Bianchi, che è scrittore, saggista, teologo, conferenziere. Tutte le principali case editrici italiane hanno pubblicato suoi libri, che sono tradotti in 21 lingue compreso il cinese e il gallego: si tratta quasi sempre non solo di bestseller ma di longseller, ristampati più volte nel corso degli anni. Aggiungiamo gli articoli per una decina tra quotidiani e riviste più i finanziamenti giunti da vari benefattori. È stato il carisma di Bianchi a fare la fortuna del monastero e il fondatore si aspettava maggiore riconoscenza per il fiume di denaro che ha fatto arrivare. O almeno, se proprio le loro strade dovevano separarsi, che si dividessero del tutto, anche sotto l'aspetto economico. Se Bose non vuole Bianchi, non merita nemmeno i suoi soldi. Che i monaci si siano trovati in difficoltà dopo il passaggio di consegne tra il fondatore e il nuovo priore, lo si capisce da un articolo che Repubblica ha confinato nella cronaca di Torino in cui i responsabili del monastero vengono accusati di avere contraffatto lo statuto della comunità per fare credere ai finanziatori che Bianchi avesse ancora voce in capitolo. Bose avrebbe speso il suo nome per favorire la generosità di Fondazione Cariplo, Regione Piemonte e Fondazione Cassa di risparmio di Torino ai quali si era rivolta per sostenere i convegni internazionali ecumenici di spiritualità ortodossa. Agli sponsor sarebbe giunta una copia dello statuto con una norma transitoria riguardante l'ex priore che invece non comparirebbe nell'originale depositato alla diocesi di Biella. Il giallo di Bianchi, dunque, rimane. «Follow the money»: segui i soldi e avrai altre sorprese.

Francesco Boezi per ilgiornale.it il 14 maggio 2021. La novità sostanziale è una: il decreto con cui fratel Enzo Bianchi è stato "cacciato" dalla comunità che ha fondato è divenuto pubblico. E siccome Bianchi è, senza dubbio, una figura di spicco del cattolicesimo contemporaneo, in specie per e tra gli ambienti considerati progressisti, il testo ha fatto notizia e clamore. Il cortocircuito narrativo alla base di questa storia riguarda l'impostazione stessa di Bose: modalità organizzative e pastorale non sembrano troppo distanti dal Bergoglio pensiero. Questo, almeno, è il sentore di coloro che appartengono al cosiddetto "fronte tradizionale". Eppure, fratel Enzo Bianchi, il laico che papa Francesco avrebbe dovuto creare cardinale (questo era vero secondo alcune ricostruzioni poi smentite dai fatti) non è più il priore di Bose. Eravamo rimasti con Enzo Bianchi che replicava in qualche modo alla Santa Sede. Dubbi, se c'erano, erano legati al o ai perché del provvedimento della Santa Sede. Nel corso di queste settimane, i retroscena, alcuni dei quali da prendere con le pinze, si sono sprecati. Dalla ipotesi "scissione" - quella secondo cui alcuni membri di Bose avessero intenzione di abbandonare l'attuale corso del priore che è succeduto a Bianchi, e cioè Luciano Manicardi, per seguire Bianchi in una nuova avventura comunitaria - , al presunto isolamento che fratel Bianchi starebbe vivendo all'interno della realtà che ha fondato. La storia dell'allontanamento è forse divenuta mainstream, come si usa dire, per via del rumor che voleva Bianchi in Conclave. Non è successo. Si è trattato di un'altra circostanza in cui papa Francesco avrebbe dovuto, stando alla vulgata, irrompere su "un'altra" regola dottrinale e tradizionale, ma così non è stato. Ad oggi, nessun laico siede in assemblea cardinalizia. Forse la vicenda ha suscitato clamore, insomma, perché il "modello Bianchi" avrebbe dovuto rappresentare, per disamine ed opinioni varie, una tipologia di "ricetta" per traghettare il cattolicesimo oltre la modernità, sulla base delle indicazioni e della impostazione di questo Papa. Vero o no, è noto che il Vaticano ha preso provvedimenti. Il che contribuisce a smentire certe semplificazioni. Francesco ha dimostrato in più di una circostanza di non seguire, e anzi di ripudiare, logiche correntizie che appartengono per lo più alla cronaca politica e non alla Chiesa cattolica. Quante volte, in questi otto anni, l'ex arcivescovo di Buenos Aires ha ammonito su divisioni e schieramenti curiali o ecclesiastici? Dicevamo del decreto e delle cause. Come si legge su Domani Editoriale, nel testo si legge che fratel Bianchi "ha mostrato di non aver rinunciato effettivamente al governo". E ancora: "Si è posto - si legge nel decreto - al di sopra della regola della comunità e delle esigenze evangeliche da esse richieste, esercitando la propria autorità morale in mondo improprio, irrispettoso e sconveniente nei confronti dei fratelli della comunità, provocando lo scandalo. Un precedente tentativo mirante a ristabilire pace e concordia attraverso indicazioni spirituali ed esortazioni morali - viene annotato - non ha dato purtroppo i risultati sperati, anzi la situazione si è progressivamente aggravata". Dal Vaticano sono stati chiari. Di riflessioni se ne potrebbero fare tante. Che il Papa non faccia sconti è ormai chiaro a chi si occupa di cronache delle mura leonine. Non c'è logica ideologica che tenga nelle scelte di Bergoglio, che spesso ha stupito, come quando per la Segreteria per l'Economia ha scelto un consacrato che non dovrebbe neppure essere nominato vescovo prima della fine del suo incarico. O come quando, per l'arcivescovato di Parigi, ha preferito nominare un conservatore doc, come monsignor Michel Aupetit. Il caso della comunità di Bose è diverso ma attiene in ogni caso alla qualità, diremmo alla tipologia, di "potere" esercitato dal primo Papa gesuita della storia e dal "suo" Vaticano. Mentre scriviamo, sembrerebbe che fratel Bianchi non abbia ancora abbandonato Bose.

Il Sigillo per tag43.it il 14 giugno 2021. Continua il calvario della Sanità vaticana, martoriata da scandali e spesso preda di gestioni economicamente compromesse. Dopo lo stop alle trattative per la vendita del Fatebenefratelli al gruppo milanese San Donato della famiglia Rotelli, nel caos è un altro storico presidio sanitario, l’Idi di Roma (Istituto dermopatico dell’Immacolata) che proprio Papa Francesco aveva voluto salvare all’inizio del suo pontificato. L’Istituto dermatologico di fama mondiale fu già messo in sicurezza dal cardinal Tarcisio Bertone, dopo un fallimento dovuto alla gestione dei frati che tra debiti e perdite era costato più di 600 milioni di euro. Il governo italiano decise di mettere la struttura in amministrazione straordinaria. Con la Santa Sede venne concordato un piano di pagamenti di oltre 50 milioni di euro da restituire ai creditori dell’ospedale. Con l’arrivo di monsignor Pietro Parolin alla Segreteria di Stato si decise di decapitare la governance della struttura entrando in una sorta di Sanitopoli che in pochi anni ha visto succedersi diversi presidenti, ma soprattutto bruciare i 50 milioni messi originariamente a disposizione da Bergoglio, Nonché altri 20 donati dalla Papal Foundation. Risorse che hanno ripianato le perdite di gestione, ma che non hanno permesso di rispettare le scadenze debitorie con lo Stato italiano. Ora che l’Idi è nuovamente sull’orlo di una crisi finanziaria, Parolin ha chiesto un intervento per ridurre il debito a carico dell’ospedale del 50%, scontando ai frati oltre 25 milioni di euro che verrebbero sottratti alla procedura straordinaria e ai creditori che persero molti soldi già all’epoca del salvataggio. Per tentare questa strada un consigliere del Segretario di Stato ha pensato di convocare Alessandra Todde, viceministra grillina del ministero dello Sviluppo economico, legata ai frati attraverso l’amicizia di un consulente laico, il manager Antonio Macciotta, che nel 2013 aveva patteggiato tre anni per il fallimento del Policlinico Città di Quartu. L’incontro, avvenuto al palazzo apostolico, è andato bene per la Segreteria di Stato. Infatti Todde ha dato garanzie di attenzione e di disponibilità al taglio dei debiti dell’Idi, che sarebbe stato sostenuto anche dai commissari responsabili della procedura fallimentare. Cosa che avrà fatto girare nella tomba Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro che impose alla Santa Sede di pagare i debiti del fallito Banco Ambrosiano. Tutto risolto dunque? Mica tanto. Manca infatti l’approvazione del ministro competente, ovvero Giancarlo Giorgetti. Il quale però era all’oscuro di tutto, anche dell’intromissione della sua viceministra pentastellata in temi e relazioni che hanno sempre caratterizzato la sua leadership. Resta chiaro che in presenza di una riduzione del debito ingiustificata, a scopi elettorali, i creditori potranno senz’altro ricorrere alle sedi giudiziarie per evitare danni che hanno già portato all’arresto e condanna di religiosi colpevoli di aver sottratto e distorto risorse dall’ospedale, destinate ad acquisti di ville e beni di lusso sequestrati dal tribunale di Roma. Sembra proprio che i cardinali non vogliano capire che la linea di Francesco è cambiata e che non si può nascondere al Papa la verità tentando soluzioni maldestre che vengono prima o poi a galla provocando, oltre che la sua ira, conseguenze che non saranno affatto piacevoli. Intanto in Idi gira già il documento di 18 pagine che al punto 5, paragrafo 4, determina la riduzione del debito con una operazione saldo stralcio e un risultato di esercizio in utile. In barba alla considerazione che i debiti non sono stati pagati, e che se fossero stati mantenuti gli impegni l’ospedale avrebbe registrato una netta perdita.

La svolta di papa Francesco sulla sanità vaticana: gestione centralizzata e basta speculazioni.  Massimiliano Coccia su L’Espresso il 28 settembre 2021. Una riforma radicale voluta da Bergoglio e Parolin per togliere potere agli ordini responsabili della malagestione. E mettere alla porta il duo Kamel Ghribi-Angelino Alfano che puntava al Fatebenefratelli. Per Papa Francesco, quello in corso è stato un anno sicuramente complesso. Oltre allo scandalo Becciu, ha dovuto subire a luglio l’operazione chirurgica per una diverticolite. La sua opera di riforma della Chiesa prosegue contando su pochi uomini fidati, mentre i settori della Curia che resistono al cambio di passo diffondono “fake news” sul suo stato di salute o su una sua volontà di dimettersi, cui si aggiungono strampalate teorie complottistiche. Ma Bergoglio è deciso a dimostrare che la riforma della Chiesa è irreversibile. Per mettere il sigillo sulle voci di dismissioni nel comparto sanitario del Vaticano, lo scorso 11 luglio, ha usato l’Angelus dal balcone della sua stanza al Policlinico Gemelli: «Nella Chiesa succede a volte», ha detto Bergoglio, «che qualche istituzione sanitaria, per una non buona gestione, non va bene economicamente e il primo pensiero è venderla. La tua vocazione, Chiesa, non è avere quattrini, ma fare il servizio: salvare l’istituzione gratuita». In poche parole ha così accompagnato di fatto alla porta il duo Kamel Ghribi-Angelino Alfano con le mire espansionistiche sull’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e sulla Casa Sollievo della Sofferenza in Puglia. Ha mandato anche un messaggio agli ordini religiosi e ai loro commercialisti che sistematicamente provano a vendere al miglior offerente mura e servizi sanitari. E ha spronato la macchina vaticana a trovare soluzioni idonee alla dottrina “dell’ospedale da campo” del proprio pontificato. Per Casa Sollievo della Sofferenza, la diplomazia vaticana capitanata dal cardinale Pietro Parolin ha trovato un accordo con la Regione Puglia per salvare il nosocomio di Padre Pio. È un argine importante alle speculazioni e alle infiltrazioni predatorie determinate dalla cattiva gestione amministrativa che aveva prodotto una voragine nei conti della Fondazione, caratterizzati da voci di spesa poco trasparenti, assunzioni a valanga e tentativi di infiltrazioni mafiose che sono al vaglio degli inquirenti. Una soluzione ponte voluta da Parolin per salvaguardare posti di lavoro e togliere dal mercato un centro ospedaliero importante per tutto il Mezzogiorno, ma comunque una soluzione emergenziale che non sarà applicata anche per il Fatebenefratelli. Sull’antico ospedale che sorge sull’Isola Tiberina, la culla di tanti romani, si è deciso di procedere a un trust inedito che coinvolgerà per il risanamento e il rilancio enti no-profit che determineranno una governance improntata sull’incremento dei servizi di eccellenza, una messa in sicurezza del personale a cui progressivamente sarà normalizzata la situazione amministrativa. Il modello sarà il capofila di un nuovo modo di gestire i beni sanitari. Sta per essere ufficializzata la creazione di una commissione nella Segreteria di Stato che avrà il compito di coordinare il processo di riforma della sanità vaticana, agendo sulle aree di crisi aziendali. L’intenzione è quella di centralizzare la gestione dei crediti economici che le aziende vantano nei confronti dello Stato e creare un registro di società certificate per l’acquisto dei crediti sanitari, per evitare il ripetersi di episodi del recente passato in cui gli stessi predatori dell’Obolo di San Pietro hanno creato voragini rilevando e non pagando per intero i crediti sanitari. La commissione si occuperà anche di stendere un censimento delle strutture sanitarie gestite dagli ordini religiosi, che, come nel caso del Fatebenefratelli, hanno trattato operazioni di vendita e di natura speculativa senza confrontarsi con la Santa Sede. Per Papa Francesco, i beni in possesso dei vari enti religiosi non sono proprietà privata, ma sono in tutto e per tutto beni integrali della Chiesa e come tali vanno gestiti secondo i valori economici e finanziari comuni. Su questo spirito sarà orientata la commissione che vedrà protagonisti esperti internazionali di gestione sanitaria, finanza etica e gestione amministrativa. Una cabina di regia che collaborerà con gli Enti Locali dove si trovano i nosocomi e il Governo italiano che col Pnrr ha deciso di investire in modo ingente sulla sanità ospedaliera e sulle cure domiciliari. Proprio sulla diversificazione dell’offerta si baserà l’idea di sanità vaticana che punta così, come avviene per il sociale, all’offerta territoriale a chilometro zero, settore in cui invece la sanità pubblica italiana durante l’emergenza Covid-19 ha mostrato tutti i suoi limiti storici. Bergoglio e Parolin vogliono una sanità meno clericale e più manageriale perché, così come avvenuto nei settori economici, la scarsa preparazione del clero e dei religiosi in materia economica e gestionale ha aperto la porta agli speculatori e ai truffatori. Insomma, fuori i mercanti dal tempio e dentro le migliori professionalità. La Chiesa di Francesco non si può più permettere gli errori del passato e non li vuole più permettere.

Il Vaticano ci ripensa: gli ospedali non si vendono più. Le manovre intorno al Fatebenefratelli preda del duo Ghribi-Alfano, alla testa del gruppo San Donato, cambia le strategie della Santa Sede. Che ora punta a una riforma della gestione degli ordini. Massimiliano Coccia su La Repubblica il 15 giugno 2021. La Santa Sede ha deciso di togliere dal mercato i suoi asset sanitari, preziose strutture disseminate in tutto il territorio nazionale, gestite da enti e ordini religiosi, un tempo eccellenze in campo medico e assistenziale, trasformatesi in pozzi debitori senza fine. Una decisione maturata dopo aver assistito al tentativo del gruppo San Donato, capitanato dalla coppia composta dall’imprenditore tunisino con passaporto svizzero Kamel Ghribi e dall’ex ministro Angelino Alfano, di acquisire il Fatebenefratelli di Roma, sull’Isola Tiberina. Un ospedale centrale nella gestione della sanità romana e simbolicamente importante per la storia della città. Un affare che il gruppo privato aveva pianificato con il benestare dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, che gestisce la struttura. A curare la trattativa per conto dei religiosi, lo studio legale Bonelli Erede Pappalardo di Milano. Studio prestigioso, di validissimi professionisti che annovera lo stesso Angelino Alfano tra i soci. L’ex ministro ha recitato così due parti in commedia: da un lato nel board della holding della famiglia Rotelli, possibile acquirente del nosocomio, e dell’altro avvocato della parte cedente. Da quanto si apprende in Vaticano, è stato sufficiente rilevare il conflitto di interessi per indurre le autorità della Santa Sede a commissariare l’ordine religioso. Le porte al duo Alfano-Ghribi sarebbero state chiuse anche per evitare che un unico soggetto arrivasse in poco tempo ad avere una posizione dominante in un campo, quello della sanità, fondamentale anche nella definizione di equilibri geopolitici. Pesa il ruolo di Kamel Ghribi, il cui patrimonio (qualcuno parla di 14 miliardi di euro), è tuttora incerto. Proviene dalla permuta dei fondi libici che si è trovato a gestire dopo la caduta di Gheddafi. Ghribi ha investito negli asset sanitari, muovendosi nello scacchiere finanziario come una sorta di ambasciatore ombra di Libia, Qatar e Tunisia. Di recente ha fatto da guida alla ministra degli Esteri libica Najla el Mangoush, comparendo anche in numerosi scatti assieme al ministro Luigi Di Maio. Anche grazie ai buoni uffici di Ghribi, costantemente, molti militari libici sono stati assistiti nel nostro Paese, negli ospedali del gruppo San Donato e di Italcliniche. Flussi alimentati dalle relazioni di Ghribi. Rapporti, alleanze, scambi di favori che avvengono sul territorio italiano ma che puntano a rinsaldare le intese nell’area mediorientale con piani di investimento del gruppo San Donato in Qatar e in Arabia Saudita. In Libia le aspettative di un massiccio intervento nella ricostruzione sono appese al ritorno al governo di un pezzo della classe politica libica vicina a Gheddafi, come l’attuale primo ministro Abdul Dbeibeh, imprenditore di Misurata e sodale di Ghribi. Promesse rinsaldate in occasione della visita romana di Dbeibeh. La campagna di acquisizioni del gruppo milanese oltre al Fatebenefratelli riguarda anche altre importanti strutture capitoline come il policlinico Gemelli, l’Idi, la Villa Albani di Anzio e l’Istituto di ricerca clinica Santa Lucia, rimasto orfano del suo storico proprietario e direttore generale Luigi Amodio e ora guidato dalla sorella, Maria Adriana, e dal nipote Edoardo Alesse. Un disegno di acquisizioni per cui è stata già immaginata una governance. Per il gruppo San Donato, Roma non è solo terreno di caccia della sanità sotto l’egida religiosa, ma può divenire il luogo dell’alleanza con la famiglia Angelucci, divisa tra sanità privata romana ed editoria con Il Tempo e Libero. Dopo aver annunciato un piano di ammodernamento delle proprie testate col gruppo Tosinvest, il gruppo Angelucci starebbe progettando la scalata al Corriere della Sera, complice la sconfitta di Rcs nella controversia sul prezzo di vendita all’americana Blackstone della sede storica di via Solferino. Una grana che rischia di costare cara all’editore del Corriere, Urbano Cairo, su cui pende una richiesta di risarcimento da 600 milioni di euro. Nella partita per il controllo del quotidiano, il gruppo Rotelli garantirebbe oltre che una pioggia di denaro anche il radicamento milanese dell’acquisizione, aprendo nuovi orizzonti per alleanze in campo sanitario. L’attivismo si dispiega in più ambiti. Anche geografici. In Puglia, a San Giovanni Rotondo, la Casa sollievo della sofferenza, creata da Padre Pio vive un futuro incerto per la situazione debitoria che ha portato all’insediamento dei commissari Gino Gumirato, Angelo Danese e Piero Grassi. I tre non hanno ancora preso alcuna decisione per segnare una discontinuità col recente passato. Ma intanto, prima dell’insediamento dei commissari, la direzione sanitaria si è prodotta in una infornata di nomine, promuovendo a ruoli apicali medici con titoli a dir poco dubbi. Sul destino della Casa il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano è intenzionato a giocare un ruolo. Dietro ai suoi molti «sulla questione c’è massimo riserbo» si cela infatti la tentazione di utilizzare la questione del contenzioso sui crediti sanitari non ancora rimborsati per acquisire la struttura. In questo modo in una sola mossa l’ospedale sarebbe tolto dal mercato e dalla gestione della Santa Sede. Il Vaticano, del resto, si è smarcato dal governatore e dal gruppo San Donato, respingendo al mittente l’acquisto totale del debito da parte di Ghribi e soci e riaffermando la volontà di non marginalizzare la struttura che soffre la concorrenza degli ospedali Riuniti di Foggia. Una partita nella quale entrano anche le indagini della magistratura su presunte infiltrazioni mafiose nel nosocomio, sotto forma di finanziamenti non tracciati alla struttura immaginata da Padre Pio. L’operazione ruota intorno a Carmela Lascala, la donna di Manfredonia che avrebbe proposto a diversi dirigenti della struttura ospedaliera ingenti somme di denaro liquido per salvare l’ospedale a patto di non cederlo a terzi. Sospetti che hanno contribuito a convincere la Santa Sede della necessità di porre mano a una riforma radicale della sanità religiosa, ultimo pezzo di un indotto enorme rimasto per troppo tempo fuori controllo. Gli ordini religiosi che gestiscono gli ospedali non sono sottoposti al momento a nessuna regolamentazione etica interna circa la natura degli investimenti, la partecipazione di soggetti terzi alla vita aziendale e all’eticità delle donazioni ricevute. Non esiste nessun ente di controllo centralizzato della spesa e dei rimborsi richiesti alle istituzioni regionali. Un regime non più tollerabile per il Vaticano. Una volta completata la riforma della giustizia vaticana, si concentrerà sulla stabilizzazione dell’ingente patrimonio sanitario che nel corso dei decenni ha goduto di agevolazioni da parte dello Stato italiano e che rappresenta una bomba ad orologeria. Ciclicamente, infatti, si aprono nuove crisi occupazionali arginate con interventi improvvisati. Con il rischio di fare ponti d’oro ad avventurieri in cerca di asset da utilizzare come vettori di capitali, salvo poi disinvestire alla prima occasione utile. L’emergenza Covid-19 ha portato con drammatica urgenza anche in Segreteria di Stato il tema globale della sostenibilità della spesa medica, affidata al controllo di vescovi e ordini religiosi con una una gestione economica indiretta della Santa Sede. Un comparto che nel corso degli ultimi anni ha generato enormi sacche di sperpero. Sarebbe allo studio la creazione di una cabina di regia per censire le aree di crisi e proporre delle soluzioni compatibili con il mandato politico di papa Francesco che ha sempre messo al centro del suo magistero la cura dei fragili, dei vulnerabili e l’idea di una sanità accogliente e non speculativa. Come scrisse nel dicembre del 2018 per la Giornata internazionale del malato, «occorre preservare gli ospedali cattolici dal rischio dell’aziendalismo, che in tutto il mondo cerca di far entrare la cura della salute nell’ambito del mercato, finendo per scartare i poveri». Chissà se Bergoglio riuscirà nell’impresa di rendere la sanità vaticana efficiente, arginando le speculazioni e gli interessi geopolitici che dopo la pandemia passano sempre di più per corsie e camici bianchi.

Una fondazione per gli ospedali della Chiesa: il Papa frena la svendita ai privati. Stop all’autonomia degli enti religiosi che controllano le strutture ospedaliere. L’obiettivo? Ripristinare l’antica vocazione di assistenza e frenare le gestioni meno trasparenti. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 3 novembre 2021. Dopo aver rivoluzionato le istituzioni finanziarie e l’ordinamento giudiziario, nella lotta ai guasti interni è venuto il turno degli ordini religiosi, della sanità e dei movimenti carismatici. C’è un fronte di crisi variegato e interconnesso nel quale gli affari e la gestione del potere hanno sostituito da tempo la vocazione evangelica che portò nei secoli scorsi gli ordini ospedalieri a supplire in modo strutturale alle assenze delle istituzioni temporali nella cura degli infermi. È il motivo per cui papa Francesco ha deciso di invertire una tendenza millenaria di sostanziale indipendenza gestionale delle strutture ospedaliere gestite dagli ordini religiosi dalla Santa Sede che, ciclicamente, interveniva per dirimere crisi aziendali e per gestire le criticità con gli enti locali. Una riforma divenuta operativa con la creazione della Fondazione per la sanità cattolica. Papa Francesco, come ha scritto nel suo chirografo del 29 settembre, ha voluto accogliere «la supplica che mi proviene da più parti di un intervento diretto della Santa Sede a sostegno e supporto degli enti canonici che operano con il solo scopo di migliorare la salute degli infermi e di alleviarne le sofferenze, anche con la collaborazione di benefattori che hanno particolarmente a cuore la sollecitudine della Chiesa verso i più fragili e bisognosi», istituendo la Fondazione che avrà il compito «ove ve ne siano le condizioni di offrire sostegno economico alle strutture sanitarie della Chiesa, perché sia conservato il carisma dei fondatori, l’inserimento all’interno della rete di analoghe e benemerite strutture della Chiesa e con ciò il loro scopo esclusivamente benefico secondo i dettami della dottrina sociale della Chiesa». Contestualmente ha poi nominato presidente della nuova istituzione Nunzio Galantino e consiglieri di amministrazione Fabio Gasperini, Mariella Enoc, presidente del Bambino Gesù che diverrà presidente anche della nuova società di gestione della sanità vaticana, Sergio Alfieri, ordinario di Chirurgia all’università Cattolica, e Chiara Gibertoni, direttore generale del policlinico Sant’Orsola. Nomine che hanno una chiara valenza politica poiché Bergoglio ha incardinato gli ospedali e la sanità vaticana alla gestione del patrimonio apostolico di cui monsignor Galantino è presidente, inviando un messaggio di chiara discontinuità al mondo ecclesiastico e religioso, togliendo dal potenziale mercato immobiliare e sanitario gli asset più pregiati della Santa Sede, e incassando anche la donazione di 75 milioni di euro di Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, da tempo vicino al Santo Padre. Per la Chiesa, discontinuità col passato significa anche frenare la disarticolazione del proprio patrimonio immobiliare e sanitario. Secondo l’ultimo rapporto del Centro di ricerche e studi in management sanitario (Cerismas) del 2018, le strutture sanitarie religiose rappresentano l’8,5 per cento delle strutture di ricovero accreditate censite dal ministero della Salute: 93 istituti, attivi in 16 regioni e 43 province, con una forte presenza (23 per cento dei posti letto totali) nel sottoinsieme costituito da 15 Irccs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) e due policlinici universitari. I professionisti impiegati sono 78 mila. Un dato che non va disgiunto dall’incidenza geografica, infatti le strutture ospedaliere operano soprattutto in zone dove lo Stato non può garantire dei livelli di assistenza sanitaria adeguati o, come nel caso del Bambino Gesù, rappresentano delle eccellenze riconosciute a livello mondiale. Moltissimi di questi istituti non navigano in buone acque e l’emergenza Covid-19 ha accentuato i deficit di bilancio. Passivi imputabili alle gestioni degli ordini religiosi tra politiche occupazionali clientelari, disordine nei conti, affidamento dei crediti sanitari a entità talvolta fittizie fino alla scarsa capacità di resistere alla concorrenza degli ospedali privati. Non avendo obblighi di natura assistenziale, le cliniche del profit scelgono quali prestazioni erogare, prediligendo interventi più onerosi, e generando profitti che si riflettono sui costi del personale medico che matura stipendi ed indennità più redditizie. Il caso più emblematico delle difficoltà che attraversano la sanità della Chiesa è rappresentato dall’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, che gestisce le strutture del Fatebenefratelli, rette da tre diverse amministrazioni: la Curia generalizia che controlla il nosocomio sull’Isola Tiberina; la Provincia Lombarda che deteneva il San Giuseppe a Milano, venduto al gruppo Multimedica che disdettò il contratto con i medici e vendette poi le mura all’Enpam, il Sant’Orsola a Brescia, venduto alla Fondazione Poliambulanza e subito chiuso, un piccolo nosocomio a Venezia, il San Raffaele Arcangelo, venduto, il Fatebenefratelli di Erba; e infine la Provincia romana, che risulta essere ben amministrata e che detiene la gestione degli ospedali di Napoli, Palermo, Benevento e il nosocomio romano Fatebenefratelli - Ospedale San Pietro. Proprio la Provincia romana, con un prestito da 40 milioni di euro, cercò di salvare dal fallimento l’Isola Tiberina. Soldi che molto probabilmente non vedrà mai più e che ora pesano sulla gestione, così come la mancata erogazione da parte della Regione Campania del 50 per cento del rinnovo contrattuale del comparto non medico. Una frammentazione invisa a Papa Francesco che riconduce a questo il rischio di un indebolimento dell’interesse a mantenere il profilo pubblico della sanità cattolica, favorendo la vendita ai privati. Come in Lombardia, dove, grazie allo schema sanitario adottato da Roberto Formigoni e ancora in auge, liberalizzando l’erogazione delle prestazioni di ricovero e accreditando tutta l’offerta ospedaliera privata, i bilanci di alcuni gruppi sono cresciuti a dismisura, consentendogli di giocare a risiko con i nosocomi religiosi, acquistandoli talvolta anche solo per chiuderli. Il quadro è quello di un mercato sbilanciato nel quale chi meno offre in termini di policy sanitaria pubblica più riceve. Il modello è quello di Comunione e Liberazione che ha orientato gli investimenti verso le prestazioni chirurgiche particolarmente esose e non di primo soccorso. Sarà forse anche per questo motivo che il nuovo assetto della sanità vaticana appare in sintonia con il commissariamento di Memores Domini, l’associazione laicale di Comunione e Liberazione che ha tra i suoi esponenti proprio l’ex governatore Formigoni e che vive con riluttanza l’impostazione più spirituale e meno imprenditoriale di don Julian Carron, succeduto al fondatore don Luigi Giussani. Ufficialmente commissariata per l’incapacità di stendere uno statuto condiviso e regole certe sull’elezione degli organi di rappresentanza, Memores Domini è il centro di potere più ampio della galassia Cl e la scelta di una guida come monsignor Filippo Santoro, titolare della diocesi di Taranto, appare una indicazione chiara di riconversione del movimento. In linea con quanto previsto dal decreto pontificio emesso a settembre che indica un massimo di 10 anni consecutivi per le cariche delle associazioni internazionali di fedeli, private e pubbliche, e «la necessaria rappresentatività dei membri al processo di elezione dell’organo di governo internazionale». In questo senso, potrebbe arrivare un ulteriore decreto sugli ordini religiosi che non ne sminuisca l’autonomia carismatica e spirituale ma che li tenga ben ancorati ai nuovi valori che animano l’economia vaticana. La memoria va a padre Franco Decaminada dei Figli dell’Immacolata Concezione che fu uno dei presunti protagonisti del crac dell’Istituto dermatologico italiano di Roma, accusato di aver sottratto fondi al nosocomio per comprare una villa in Toscana, o ancora alla recente vicenda che ha visto gli Oblati di Maria Vergine mettere alla porta di punto in bianco la cooperativa Auxilium nella gestione del centro per migranti Mondo migliore, fortemente sostenuto dal Papa e dal presidente della Cei, Gualtiero Bassetti e visitato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Dal primo ottobre la gestione del centro è affidata alla Croce rossa italiana e agli Oblati che però non hanno garantito i livelli occupazionali precedenti, lasciando a casa ventitré lavoratori. Bergoglio ha inoltre previsto per le prossime settimane cambiamenti importanti alla guida di alcuni dicasteri vaticani, una sorta di rimpasto di governo necessario alla terza fase della riforma della Curia. Un ulteriore tassello della conflittualità sotterranea con la quale Papa Francesco è costretto a misurarsi.  

A chi fa gola la sanità gestita dal Vaticano. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 14 aprile 2021. Dall’ospedale romano Fatebenefratelli alla Casa del Sollievo fondata da Padre Pio, la malagestione trasforma le strutture cattoliche in terreno di scorribande. Fino a qualche decennio fa le strutture gestite dal Vaticano tramite una miriade di congregazioni e ordini religiosi erano un fiore all’occhiello di efficienza. E di fatto colmavano anche i vuoti dalla sanità pubblica italiana, che da Nord a Sud ha sofferto di carenze strutturali. Ma da qualche tempo, travolti da scandali, mala gestione e l’incapacità dei religiosi di trovare una governance adeguata, i nosocomi privati “made in Vaticano” sono diventati fonte di preoccupazione per la Santa Sede e rischiano, per salvaguardare indotto e posti di lavoro, di passare di mano, come nel caso dell’ospedale romano “Fatebenefratelli”, o di pesare sulle casse pubbliche in misura ingente come la “Casa sollievo della sofferenza” di San Giovanni Rotondo in Puglia. Due realtà distanti ma che raccontano una crisi generalizzata del sistema, due ospedali con una storia strettamente intrecciata a quella del territorio di appartenenza, dove sono diventati simboli identitari. L’ospedale Fatebenefratelli, gestito dall’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, sorge sull’Isola Tiberina (nucleo originario di Roma) sui resti del tempio del Dio Esculapio, da sempre è l’ospedale dei romani. Ma il “Fatebenefratelli”, nonostante le eccellenze storiche e sanitarie, ha dovuto accedere nel 2014 alla procedura di concordato preventivo dal Tribunale di Roma, per sventare il fallimento e permettere una linea di pagamento di un debito che ammontava a 270 milioni di euro. Secondo la relazione di monitoraggio depositata lo scorso 15 marzo da Fra Pascal Koame Ahodegnon, direttore generale dell’ospedale, e da Giuseppe De Lillo, direttore amministrativo, il piano di risanamento è in piena stagnazione, sotto gli standard previsti dal concordato raggiunto, con un blocco della vendita degli immobili e un credito di oltre 15 milioni di euro di cui la società non riesce a rientrare in possesso. Soldi della Beaumont Invest Services Ltd di Gianluigi Torzi, già indagato da varie procure italiane e arrestato dalla Gendarmeria vaticana per lo scandalo dell’acquisizione del palazzo di Sloane Avenue che ha portato alle dimissioni del cardinale Angelo Becciu: oltre 15 milioni di euro di cartolarizzazione di crediti sanitari, che la società di Torzi aveva acquistato negli anni precedenti. Torzi non ha rispettato l’accordo di concordato con il “Fatebenefratelli” (ha versato poco più di 200 mila euro) e il nosocomio ha avviato da tempo le procedure per recuperare i fondi. Impresa ardua se non impossibile, viste le traversie aziendali che il broker molisano sta attraversando in questi mesi. Questa progressione infausta di eventi ha reso il “Fatebenefratelli” un soggetto scalabile. Sembra che nelle ultime settimane il Gruppo San Donato, corazzata della sanità privata lombarda, che annovera come presidente l’ex ministro Angelino Alfano, abbia messo gli occhi sull’ospedale. L’ipotesi ha fatto storcere il naso dentro le Mura Vaticane, perché in termini politici significherebbe una manifesta resa della capacità gestionale della Santa Sede sul suo patrimonio sanitario. E soprattutto perché preoccupano le relazioni del vicepresidente del gruppo, Kamel Ghribi. Tunisino con base a Lugano, uomo-ponte tra Oriente e Occidente, nelle sue frequentazioni ha incrociato spesso la traiettoria di numerosi nemici della Santa Sede. Vista l’esperienza negativa degli investimenti sanitari di fondi arabi nel nostro Paese, i vertici della Santa Sede preferirebbero evitare di affidare la guida del nosocomio a un gruppo indubbiamente forte e in espansione, ma che potrebbe un domani disimpegnare i propri asset e andare a investire altrove. Le zone d’ombra nella biografia di Ghribi non favoriscono la fiducia del Vaticano, che memore delle recenti esperienze in campo di investimenti si muove con estrema cautela. Kamel Ghribi risiede in Svizzera, dove ha la sede anche la sua società Gk Investment Holding Group, ed è stato al centro di un intricato caso diplomatico che ha visto numerosi militari libici trasferiti presso l’Ospedale San Donato e il San Raffaele di Milano, di proprietà del Gruppo San Donato. Ghribi, durante la dittatura di Gheddafi, era una cerniera tra il defunto dittatore e gli investitori occidentali. Fu lui, in diverse occasioni, ad accompagnare personalità statunitensi per tutelare gli affari di Tripoli e garantire un giro di investimenti in Europa. In particolare gestì per il Colonnello la delicata trattativa tra Usa e Libia sul reintegro del pease mediterraneo nello scacchiere energetico in cambio di un risarcimento danni alle vittime dell’attentato di Lockerbie che causò 259 morti. Il magnate-filantropo Ghribi, sposato con Nicoletta Mettel, già campionessa di nuoto, in passato in Svizzera ha lasciato cattivi ricordi facendo fallire la squadra di basket “Ab Vacallo” (e vent’anni fa è sfumato anche il tentativo di entrare nella gloriosa Olimpia Milano), così come chiuse i battenti in fretta e furia la società petrolifera “Winnington Associates Limited”. Destino simile a quello di un’altra impresa dove Ghibri era vicepresidente e suo cognato Paolo Andrea Mettel presidente: il cotonificio Olcese, condotto alla dichiarazione dello stato di insolvenza. Una serie di insuccessi che non hanno scalfito la notorietà e i giri di affari di Ghribi, forte del sodalizio con Muhammad al-Huwayj, uomo forte di Tripoli, dal 2004 al 2009 Ministro delle finanze e in precedenza capo della Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico). In queste vesti iniziò la collaborazione con Ghibri che continua tuttora. Al-Huwayj è nel consiglio di amministrazione della Libyan Investment Corporation (Lic), fondata nel 2007 come holding con mandato di gestire imprese statali, come il Fondo per l’Africa e il Fondo per lo sviluppo economico e sociale. Forse anche per questi motivi, la visita lampo del finanziere in Vaticano dello scorso 18 marzo, raccontata sul suo profilo Instagram con video e fotografie in pompa magna come se Ghribi più che un imprenditore fosse un politico di rango internazionale, ha fatto storcere il naso a più di un funzionario della Santa Sede. Gli incontri con Papa Francesco e il Segretario di Stato Pietro Parolin tuttavia non hanno riguardato il “Fatebenefratelli” o altri asset sanitari, ma sarebbero stati una veloce visita di cortesia. Nel tour romano Ghribi ha visitato il Policlinico Gemelli, alimentando così le voci che anche questo possa diventare un obiettivo del Gruppo San Donato. Ma quello del “Fatebenefratelli” non è l’unico grattacapo per il Segretario di Stato Pietro Parolin. In questi giorni tiene banco il futuro dell’ospedale “Casa sollievo della Sofferenza” di San Giovanni Rotondo, fondata da San Pio da Pietralcina. L’ospedale pugliese è fortemente indebitato dopo un decennio di gestione poco professionale delle finanze. Nei conti si trovano molti elementi di criticità strutturale, anche per una la discussa conduzione di Michele Giuliani, direttore generale, che subentrò a Domenico Crupi. Incarichi attribuiti fuori da procedure trasparenti, ricorso ripetuto a primari facenti funzione senza punteggio adeguato che rimangono per anni nei reparti, assunzioni di interi gruppi familiari sono alcunei dei problemi che più volte molti membri del consiglio di amministrazione della “Casa” avrebbero evidenziato. Parolin starebbe pensando di commissariare l’ospedale e cercare una interlocuzione forte con Palazzo Chigi richiedendo un prestito ponte di 60 milioni di euro. “Casa sollievo della sofferenza” non è un ospedale qualsiasi che si può radere al suolo o rifondare. È una realtà che, secondo quanto si legge dai bilanci, viene alimentata da molti lasciti ereditari e donazioni, soldi che nel corso del tempo sono stati sperperati per spese mai rendicontate o gonfiate. Soldi anche di incerta provenienza. Secondo quanto ricostruito da autorevoli fonti della struttura, una donna originaria di Manfredonia avrebbe convocato in modo quanto mai originale una serie di figure chiave dell’ospedale per comunicare la volontà di contribuire in modo sostanzioso alla gestione. Avrebbe poi fatto arrivare nel corso del tempo donazioni per decine di milioni di euro che, secondo quanto riferito dalla donna ai funzionari convocati, non sarebbero state investite correttamente, facendo più volte riferimento alla propria appartenenza ad una importante famiglia che ha a cuore le sorti dell’ospedale di Padre Pio. Dopo la richiesta di chiarimenti circa la natura delle donazioni da parte di alcuni emissari della Santa Sede, la donna è scomparsa nel nulla. Insomma storie diverse dove sanità non fa rima con santità e dove gli ospedali vanno a creare enormi buchi di bilancio sanati poi dallo Stato italiano. Chissà se la rivoluzione di Francesco, che della Chiesa vuole fare un ospedale da campo, riuscirà a creare un nuovo modello di sanità dove per dirla come Luigi Pintor «non si parli degli ospedali, ma si parli degli ammalati».

Tommaso Fregatti per “Il Secolo XIX” l'8 febbraio 2021. Va verso il patteggiamento l'inchiesta per riciclaggio internazionale ed evasione fiscale che vede coinvolti i fratelli Balestrero: Ettore, 52 anni, alto prelato genovese, astro nascente del Vaticano durante il papato di Joseph Ratzinger, nominato nel 2019 nunzio apostolico nella Repubblica del Congo, e Guido, 61 anni, immobiliarista. Entrambi hanno chiesto ai propri legali di "concordare" la condanna con la Procura per l'accusa di riciclaggio internazionale. I pm hanno posto come condizione la confisca dei sette milioni di euro sequestrati nel corso di vari blitz dalla Guardia di finanza e, secondo indiscrezioni, si accingono anche ad archiviare l'accusa di evasione fiscale. Ora la palla passa al giudice, che dovrà dare decidere nelle prossime settimane se accettare la richiesta di patteggiamento stabilita dai pm insieme ai legali degli indagati oppure respingerla.

Ambasciatore della Santa Sede. Ettore Balestrero, che prima del Congo è stato ambasciatore della Santa Sede in Colombia, risulta indagato insieme al fratello nell'ambito di un'inchiesta su un giro di capitali provento di truffa e rientrati in Italia attraverso una complessa rete di società offshore disseminate tra i Caraibi e la Svizzera. Le indagini sul riciclaggio coordinate dai pubblici ministeri Francesco Pinto e Paola Calleri erano culminate nei mesi scorsi con un maxi sequestro di denaro. I finanzieri del nucleo economico-finanziario avevano infatti bloccato, in due tranche, prima cinque milioni di euro e successivamente due milioni, in gran parte trovati sui conti intestati al fratello del sacerdote.

Contrabbando di carni. La vicenda all'origine di tutto è un maxi contrabbando di carni dall'Argentina, in violazione dell'accordo internazionale del Gatt (predecessore del Wto), alla fine degli anni Novanta, già definito dalla giustizia spagnola. Nel mirino adesso c'è quello che per gli inquirenti è il rientro di quei fondi neri: il 14 settembre 2015 il cardinale Ettore Balestrero effettua una donazione da 4 milioni di euro al fratello, operazione che per la Finanza chiuderebbe il cerchio della vecchia truffa. I soldi sarebbero passati attraverso una società con sede alle Isole Vergini Britanniche, da una fiduciaria e da una banca svizzera e, infine, rientrati in Italia con lo scudo fiscale. L'architettura finanziaria sarebbe stata costruita da un broker soprannominato nelle intercettazioni "mano molla". Un'operazione anomala segnalata anche da Bankitalia.

Il progetto Bagni Lido. L'ipotesi degli investigatori è che la donazione servisse a finanziare un'importante operazione immobiliare, gestita da Guido Balestrero: la ristrutturazione dei Bagni Lido. Di questa transazione, secondo quanto emerge dalle intercettazioni, sarebbe stato a conoscenza anche un altro prelato di spicco, sebbene va specificato che non è indagato nella vicenda: si tratta di Mauro Piacenza, cardinale ed ex prefetto della Congregazione per il clero. Piacenza, anche lui genovese, ricevette alcune confidenze da Balestrero: «Caro Ettore - dice Piacenza in una delle conversazioni cruciali - è arrivato il momento di liberarti delle tue cose...». Una delle conversazioni fondamentali è stata registrata in un hotel di Camogli. La famiglia Balestrero ora motiva il patteggiamento non ad una ammissione di colpa ma ad una difficoltà nel reperire la documentazione del caso.

RAZZA PADANA - Monsignor Perlasca, il Buscetta con il turibolo che affossò il Vaticano. Francesco Specchia su Il Quotidiano del Sud il 18 giugno 2021. Perlasca Giorgio è quel sant’uomo comasco ancorché laico che, durante la seconda guerra mondiale, fingendosi console spagnolo, salvò la vita di oltre cinquantamila ebrei. Ma qui, scusate, parliamo del Perlasca sbagliato. Ossia di Alberto Perlasca, sempre un padanissimo comasco ma molto meno sant’uomo; uno che, nonostante di mestiere faccia il monsignore ha creato più casini lui in Vaticano che l’ultima invasione dei lanzichenecchi. L’alto prelato, 59 anni, sorriso e pensieri smerigliati e un volto anonimo da Padre Brown (ma nella versione del telefilm inglese) per molti anni è stato a capo dell’ufficio amministrativo della Prima Sezione della Segreteria di Stato e braccio destro alla segreteria di Stato Angelo Becciu il cardinale al centro dello scandalo del palazzotto inglese ai Sloane Avenue acquistato per i noti 300 milioni. Oggi Perlasca è l’uomo del mistero e, al tempo stesso, l’angelo caduto e la gola profonda dello scandalo che ha fatto mozzare la testa di mezza segreteria di Stato vaticana. Le sue imprese, che hanno fatto infuriare il Papa, sono narrate ottimamente nel libro-inchiesta “I mercanti nel tempio” (Solferino pp 258, euro 17) scritto dai giornalisti Mauro Gerevini e Fabrizio Massaro. I quali forniscono particolari inediti su come il Vaticano sia riuscito a bruciare la metà del famoso “obolo di San Pietro”, ossia le offerte annuali dei fedeli, in uno sconcertante crescendo di sprechi e incompetenze che parte dall’impenetrabile “Sezione affari generali della Segreteria di Stato” guidata per anni dal cardinale Becciu e arriva fino al conto personale del Papa. Perlasca è uno degli amministratori poco lungimiranti che ha contribuito a sperperare i 40 milioni dell’obolo. E oggi, assai pentito, Perlasca, in un accorato grido di giustizia, avrebbe descritto il suo ex superiore come “preponderante nella Segreteria di Stato”; gli ha, di fatto, scaricato addosso ogni responsabilità nello scandalo della Santa Sede. Becciu, per Perlasca, avrebbe avuto buon gioco sin dall’inizio a conquistarsi la fiducia del personale della Segreteria di Stato con “il suo modo pacato e cortese di impartire gli ordini e la sua capacità di evitare scontri diretti”.

Il monsignore inoltre avrebbe raccontato dei rapporti di Becciu con i suoi fedelissimi, tra cui l’ex segretario monsignor Carlino, indagato per estorsione nell’ambito dell’inchiesta sul palazzo di Londra, con Fabrizio Tirabassi, all’epoca responsabile dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, a Enrico Crasso, che era il gestore delle finanze della Sds attraverso Sogenel Capital holding, e il broker Gian Luigi Torzi, arrestato e poi rilasciato nell’ambito della stessa inchiesta. Una bella compagnia di galantuomini. Insomma, Perlasca, s’è trasformato in una sorta di Buscetta col turibolo. Insomma. Dal libro di Massaro e Gerevini emerge, attraverso la fragile figura del monsignore, lo stereotipo dell’amministratore vaticano-tipo: privo di competenze specifiche, facilone se non in malafede, sempre borderline tra l’interesse dell’anima e quello del portafoglio, in grado di affossare i bilanci con la stessa facilità con cui sgrana il rosario. La parte più bella dell’inchiesta è quando due dei protagonisti che hanno appena beffato il Vaticano, festeggiano in un noto ristorante romano dal nome emblematico: I due ladroni…

Susanna Picone per fanpage.it il 27 aprile 2021. Nella puntata che andrà in onda questa sera, Report torna a occuparsi di Vaticano. E con Giorgio Mottola arriva a scoprire che dei soldi del Vaticano sono stati usati per finanziare una azienda che produce la cosiddetta “pillola del giorno dopo”. A parlare ai microfoni di Report è Libero Milone, revisore generale del Vaticano dal 2015 al 2017 (poi spinto a dimettersi): Milone parla dell’A.P.S.A., l'organismo della Santa Sede che si occupa della gestione del suo patrimonio economico, fa riferimento a “situazioni contabili disorganizzate”, e a investimenti di carattere “rischioso”. Ovvero – parole di Milone – che “non rispondevano alla dottrina sociale della Chiesa che elencava esattamente le cose che potevano fare e non fare”. Partendo da questa affermazione Report si è imbattuta in quello che forse è uno degli investimenti più paradossali della storia recente della Chiesa. Si parla appunto di farmaci contraccettivi e pillole abortive. La posizione del Vaticano al riguardo è ben nota: nel tempo sono state diverse le campagne della Chiesa contro l’aborto e per invitare i farmacisti all’obiezione di coscienza anche sulla pillola del giorno dopo.In questo segmento di mercato alcuni dei prodotti più venduti sono fabbricati dall’industria farmaceutica svizzera Novartis attraverso la sua controllata Sandoz. A Report risulta che tra gli azionisti di Novartis e quindi di Sandoz fino al 2016 c’era proprio il Vaticano: la Santa Sede ha posseduto quote azionarie per un valore di circa 20 milioni di euro in due industrie farmaceutiche, appunto Novartis e Roche. L’A.P.S.A. dunque avrebbe investito i soldi del Vaticano in una società farmaceutica che produce la pillola del giorno dopo. Finanziare una azienda che produce un farmaco per la contraccezione di emergenza è uno dei più grandi paradossi che possono verificarsi in Vaticano. Non a caso, infatti, l’ufficio del revisore generale della Santa Sede ha segnalato subito l’investimento alle alte gerarchie vaticane. A quel punto, per evitare lo scandalo, le quote di Novartis sono state cedute. 

In Vaticano spie, segnalazioni anonime e minacce di arresto. Secondo quanto emerge dall’inchiesta di Report, la maggior parte dei professionisti scelti dagli ultimi pontefici, prima Benedetto XVI e poi papa Francesco, per vigilare sulla trasparenza e la correttezza delle transazioni finanziarie è stata negli ultimi anni sistematicamente boicottata o anche sabotata. Al programma di Rai3 i protagonisti dell’antiriciclaggio e della revisione contabile della Santa Sede tra il 2011 e il 2017 raccontano quanto subito all’interno delle mura vaticane: una guerra combattuta a colpi di dossieraggi, computer violati, microspie e minacce di arresto. Ci sono anche testimonianze inedite secondo cui la Santa Sede avrebbe potuto evitare la presunta truffa del palazzo di Londra, costato 400 milioni di euro. L’ufficio del revisore generale della Santa Sede aveva infatti scoperto l’investimento nella primavera del 2016, ma la Segreteria di Stato vaticana non ha mai fornito la documentazione richiesta.

Il sabotaggio. Report Rai PUNTATA DEL 26/04/2021 di Giorgio Mottola collaborazione di Norma Ferrara e Giulia Sabella. Nuove testimonianze inedite rivelano che il Vaticano avrebbe potuto evitare la presunta truffa del palazzo di Londra, costato 400 milioni di euro. L'ufficio del revisore generale della Santa Sede aveva infatti scoperto l'investimento nella primavera del 2016, ma la Segreteria di Stato vaticana non ha mai fornito la documentazione richiesta. In Vaticano la maggior parte dei professionisti scelti dai due pontefici Benedetto XVI e Francesco per vigilare sulla trasparenza e la correttezza delle transazioni finanziaria è stata negli ultimi anni sistematicamente boicottata o addirittura sabotata. I protagonisti dell'antiriciclaggio e della revisione contabile della Santa Sede tra il 2011 e il 2017 raccontano a Report la guerra subita all'interno delle mura vaticane, combattuta a colpi di dossieraggi, computer infettati, microspie e minacce di arresto.

“IL SABOTAGGIO” di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara e Giulia Sabella Immagini di Tommaso Javidi, Andrea Lilli, Fabio Martinelli Ricerca immagini di Eva Georganoupolou.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per anni i magazzini Harrod’s hanno rappresentato un’immagine di Londra nel mondo che ha attirato migliaia turisti. Oggi invece questo palazzo è diventato il simbolo di uno degli investimenti più opachi della storia della Santa Sede. Per comprarlo la Segreteria di Stato vaticana ha speso 400 milioni di euro, ma oggi secondo le stime di mercato non varrebbe più di 290.

ENRICO CRASSO – BROKER Stiamo parlando di un asset che è un trofeo, no? Il problema ritengo non era tanto la qualità dell’investimento, il problema poi è sorto come è stato gestito il fondo in particolare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Chi ha gestito il palazzo di Londra è Raffaele Mincione, un broker con società alle isole Cayman che per anni si è occupato del patrimonio di Enasarco, l’ente pensionistico degli agenti di commercio. Nel 2013 la Segreteria di Stato guidata dal cardinale Becciu investe con Mincione i primi 200 milioni. Ma non finiscono direttamente nell’acquisto del palazzo. Mincione fa confluire i soldi nel suo fondo Athena, che attraverso due società con sede nel paradiso fiscale di Jersey, possedeva il palazzo. Quindi il Vaticano si ritrova socio al 45 percento di un fondo e non direttamente proprietario dell’immobile. Grazie a questo espediente Mincione può usare il denaro dei fedeli per le sue speculazioni finanziarie. A partire dalle scalate bancarie di Carige e Banca Popolare di Milano. E nella Santa Sede presto si rendono conto che il palazzo di Londra è una bomba che rischia di esplodere. Le voci arrivano persino all’orecchio del Papa.

PAPA FRANCESCO – CONFERENZA STAMPA DEL 26/11/2019 È stato il Revisore dei conti interno a dire: qui c’è una cosa brutta, qui c’è qualcosa che non funziona.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per sbrogliare la matassa il Papa è costretto a entrare in campo in prima persona, attraverso un suo uomo di fiducia, Giuseppe Milanese.

GIUSEPPE MILANESE - IMPRENDITORE il Papa dice: “Aiuta, dai una mano” perché c’era questo nuovo sostituto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2018, Papa Francesco rimuove il cardinale Becciu dalla Segreteria di Stato e nomina un nuovo sostituto: Peña Parra. Ma rimangono al loro posto gli uomini chiave di Becciu: Monsignor Perlasca e il suo funzionario incaricato Fabrizio Tirabassi. È proprio Tirabassi che per fare pressioni su Mincione coinvolge un altro broker, Gianluigi Torzi, basato a Londra e specializzato in cartolarizzazioni di crediti sanitari.

GIUSEPPE MILANESE - IMPRENDITORE Torzi come lo vedevi… si presentò con un maglioncino che non arrivava a coprire neanche tra la pancia e il pantalone.

GIORGIO MOTTOLA Però è stato coinvolto in un affare da milioni e milioni di euro.

GIUSEPPE MILANESE - IMPRENDITORE Io non gli avrei dato manco un euro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo quanto Gianluigi Torzi ha dichiarato ai magistrati del Tribunale Vaticano, il funzionario della segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi gli avrebbe chiesto commissioni da incassare offshore e gli avrebbe rivelato che il suo potere di gestione dei soldi dell’Obolo di San Pietro gli veniva attribuito in quanto era in possesso di materiale audio video su alcuni prelati, facendo esplicito riferimento al suo potere di influenza sul Cardinale Becciu.

GIORGIO MOTTOLA Ci sono altre male lingue secondo cui Tirabassi avesse materiale compromettente su molti prelati…

GIUSEPPE MILANESE Su Peña.

GIORGIO MOTTOLA Su Peña Parra, aveva materiale? Aveva materiale compromettente?

GIUSEPPE MILANESE Annuisce.

GIORGIO MOTTOLA Ma è possibile che Tirabassi avesse sotto ricatto…?

GIUSEPPE MILANESE Guarda lì c’è un sistema di ricatti pazzesco.

GIORGIO MOTTOLA Non riesco a capire se questa è una storia in cui i preti sono in qualche modo vittima, i preti sono complici?

GIUSEPPE MILANESE Io di vittime qui non ne vedo. Qui l’unica vittima è il Papa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fin dall’inizio l’affare del palazzo di Londra aveva contorni molto opachi. Ed è forse per questo che chi l’aveva gestito in prima persona, vale a dire monsignor Perlasca, numero due del cardinale Becciu in Segreteria di Stato, la preoccupazione più grande non sembra quella di recuperare i soldi, ma evitare che qualcuno potesse ficcare il naso in quell’investimento.

ENRICO CRASSO - BROKER Monsignor Perlasca, lo faceva proprio perché aveva una paura di dover giustificare ai revisori, era terrorizzato dal revisore.

GIORGIO MOTTOLA Ma perché?

ENRICO CRASSO - BROKER Perché gli facevano un culo così grosso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il revisore di cui monsignor Perlasca e la segreteria di Stato sembrano avere così tanta paura è lui: Libero Milone. Manager internazionale di origini olandesi ed ex presidente di Deloitte Italia, colosso della revisione contabile. Nel 2015 il Papa gli affida il delicato incarico di supervisionare e ispezionare le attività contabili di 120 enti del Vaticano.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Io avevo un unico capo ed era il Santo Padre e mi chiedeva ogni volta che lo visitavo se mi sentivo ancora indipendente.

GIORGIO MOTTOLA E lei rispondeva?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Certo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È la prima volta che il revisore del Papa racconta i retroscena della sua cacciata dal Vaticano. E Immaginiamo che la sua denuncia non manchi di destare qualche scalpore. Insomma, Milone è stato nominato revisore generale dal Papa nel 2015. Erano gli anni, tra il 2011 e il 2018, quando a capo, come Sostituto della segreteria di Stato Vatican c’era il potente cardinale Angelo Becciu. Becciu gestiva le centinaia di milioni di euro delle donazioni dei fedeli direttamente al Papa. Gestiva direttamente gli investimenti. Sotto di lui, monsignor Perlasca, l’uomo che aveva paura del revisore Milone, e poi il funzionario laico Fabrizio Tirabassi. Ora secondo quello che testimonia uno dei due broker che ha gestito l’investimento del palazzo londinese, Torzi, Tirabassi gli avrebbe confidato di aver percepito negli anni commissioni milionarie dagli investimenti vaticani, che avrebbe percepito attraverso delle società offshore. E che il potere di questo funzionario laico derivava dal fatto che avrebbe in possesso dei documenti audio visivi compromettenti la moralità di alcuni alti prelati del Vaticano. Ora Tirabassi attraverso il suo legale ha smentito questi fatti, mai prese commissioni, non ho materiale per ricattare ha detto, però proprio su questi investimenti, Bergoglio ad un certo punto ha voluto vedere chiaro negli anni e ha cercato, ha affidato ad una società specializzata di cacciatori di teste di trovare la figura idonea. Milone si è presentato con un curriculum d’eccezione, vicepresidente della società di revisione Deloitte Italia, ha gestito nella sua carriera alcuni dei dossier finanziari più delicati dalla Parmalat a quello della Fiat e il Papa gli dà dei poteri straordinari, anche ispettivi. In poco tempo Milone trasforma il suo ufficio in un organismo a metà tra la Corte dei Conti e la Guardia di Finanza che ricorda, evoca un pochettino l’ufficio anticorruzione nazionale che fu gestito dal magistrato Cantone. Solo che per statuto, Milone aveva anche la possibilità di gestire direttamente le segnalazioni anonime che arrivavano in Vaticano. Roba da far tremare le ginocchia, e anche a mettere in discussione, far tremare la stabilità stessa della Santa Sede. È impensabile che un uomo con un potere così che poi era visto come esterno alle logiche, le dinamiche del Vaticano, non suscitasse delle reazioni. Una, sgradevole, avviene nella notte: una mano nell’ombra mette una microspia per ascoltare i dialoghi di Milone. E poi mette un occhio telematico, un software sul suo pc, per vedere quali documenti erano in possesso di Milone. Ecco, chi è stato? E per fare cosa? Il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra gli enti che il revisore generale doveva controllare c’è anche la Segreteria di Stato, con i suoi conti milionari e i suoi investimenti opachi.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Noi abbiamo fatto dei lavori sulla Segreteria di Stato durante la primavera del 2016 ed avevamo visto che c’erano degli investimenti di 7-800 milioni, adesso non ricordo la cifra precisa, in due immobili in Inghilterra.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei stava mettendo il naso nell’affare di Londra?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Abbiamo chiesto i documenti di supporto per capire e analizzare, questi documenti non ci sono mai stati dati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È la prima volta che l’ex revisore generale del Vaticano rivela di aver scoperto all’epoca l’investimento di Londra. Per saperne di più chiede un incontro con i vertici della segreteria di Stato.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Al primo incontro c’era anche Monsignor Becciu con monsignor Perlasca e la persona con cui noi abbiamo trattato non ricevendo i documenti era monsignor Perlasca.

FERRUCCIO PANICCO - REVISORE AGGIUNTO DEL VATICANO 2015-2017 Con Monsignor Perlasca e i suoi collaboratori laici, tra cui ricordo il Tirabassi, abbiamo avuto vari incontri però siamo sempre stati, come si dice a Roma, rimbalzati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gli investimenti della Segreteria di Stato non sono l’unica anomalia in cui si imbatte l’ufficio del revisore generale. Poco dopo il suo arrivo Milone scopre che i soldi delle donazioni dei fedeli fanno dei giri strani anche nella Congregazione per la dottrina della fede, l’ente religioso, conosciuto fino a un secolo fa come Santa Inquisizione, che oggi è deputato a mantenere e difendere l’integrità della fede.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Abbiamo scoperto che alcune donazioni ricevute da quell’ente sono finite sul conto corrente sbagliato.

GIORGIO MOTTOLA Di chi?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Del prelato che era responsabile di quell’ente. Anziché finire sul conto corrente dell’ente sono finite sul conto corrente del responsabile dell’ente.

GIORGIO MOTTOLA Se n’era appropriato praticamente?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Quando ho chiesto spiegazioni mi ha detto che c’era stato un errore, aveva sbagliato il codice Iban.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha avvertito il Papa di questo?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Io avvertivo il Papa di tutte le cose che trovavo.

GIORGIO MOTTOLA E cosa le ha detto il Papa?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Sicuramente restituirà i soldi. GIORGIO MOTTOLA Ed è successo?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la cosa che preoccupa di più l’ufficio del revisore generale è che la situazione dei conti è fuori controllo innanzitutto all’Apsa, l'ente del Vaticano che gestisce i miliardi di euro del patrimonio immobiliare e dei più importanti investimenti finanziari della Santa Sede.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Il Santo Padre ci chiese di indagare e si fece un’analisi approfondita dell’Apsa, trovando situazioni contabili disorganizzate. Non si aveva certezza del numero degli immobili posseduti e gestiti. Non si aveva certezza degli investimenti fatti. C’erano certi investimenti di carattere rischioso.

GIORGIO MOTTOLA Voi perché li avete definiti rischiosi?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Perché non corrispondevano alla dottrina sociale della chiesa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Partendo da questa affermazione di Milone, abbiamo iniziato a indagare e ci siamo imbattuti in quello che è forse uno degli investimenti più paradossali della storia recente della Chiesa.

DAL TG1 DEL 1/11/2000 GIUSEPPE DE CARLI Eminente perché secondo lei la pillola del giorno dopo è una pillola abortiva?

CARDINALE CAMILLO RUINI Perché impedisce di annidarsi nell’utero a un ovulo già fecondato cioè a una vita umana che ha già avuto inizio.

GIUSEPPE DE CARLI E i farmacisti cosa dovrebbero fare?

CARDINALE CAMILLO RUINI La legge 194 garantisce a tutto il personale sanitario il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti dell’aborto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La posizione del Vaticano su pillole abortive e sui farmaci di contraccezione d’emergenza è nota da tempo. Molte sono state le campagne della chiesa che hanno inviato i farmacisti all’obiezione anche sulla cosiddetta pillola del giorno dopo. In questo segmento di mercato alcuni dei prodotti più venduti sono fabbricati dall’industria farmaceutica svizzera, Novartis, attraverso la sua controllata Sandoz.

FARMACISTA Questo è un farmaco della Sandoz serve per evitare il concepimento dopo un eventuale rapporto a rischio, quindi non protetto.

GIORGIO MOTTOLA In Italia è complicato farselo prescrivere?

FARMACISTA Qualche volta qualche paziente ha avuto qualche difficoltà ad ottenere la ricetta, diciamo. GIORGIO MOTTOLA E come mai?

FARMACISTA Perché c’è qualche medico obiettore di coscienza che si rifiuta magari di fare la prescrizione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Report risulta che tra gli azionisti di Novartis e dunque di Sandoz fino al 2016 c’è stato anche il Vaticano, attraverso l’Apsa infatti, la Santa Sede ha posseduto quote azionarie, per un valore di circa 20 milioni di euro, in due industrie farmaceutiche: Novartis e Roche. GIORGIO MOTTOLA Addirittura, l’Apsa avrebbe investito i soldi del Vaticano in una società farmaceutica che produce la pillola del giorno dopo.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 L’Apsa aveva investito in alcune società farmaceutiche che noi consideravamo investimenti di carattere rischioso.

GIORGIO MOTTOLA Le risulta che una delle società in cui il Vaticano avesse investito i suoi soldi tramite Apsa fosse la Sandoz?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 È uno dei nomi che ho visto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Finanziare un’azienda che produce la pillola del giorno dopo è uno dei più grandi paradossi che possono verificarsi in Vaticano. E per questo l’ufficio del revisore generale della Santa Sede segnala subito l’investimento all’Apsa e alle alte gerarchie vaticane. In Vaticano scoppia il caos e, per evitare che venga travolto da uno scandalo internazionale, le quote di Novartis vengono cedute immediatamente.

FERRUCCIO PANICCO - REVISORE AGGIUNTO DEL VATICANO 2015-2017 Ci risulta anche che queste quote fossero state poi vendute.

GIORGIO MOTTOLA Ah ecco, quindi è stato riconosciuto l’errore a un certo punto.

FERRUCCIO PANICCO - REVISORE AGGIUNTO DEL VATICANO 2015-2017 Dovrei dire di sì.

GIORGIO MOTTOLA Questa è la dimostrazione che non si ha alcuna idea del giro che fanno i soldi in Vaticano, insomma?

FERRUCCIO PANICCO - REVISORE AGGIUNTO DEL VATICANO 2015-2017 Quando uno insegue i rendimenti, alle volte si dimentica delle altre cose.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma forse i cattivi presagi, il revisore generale e i suoi collaboratori avrebbero potuto coglierli fin dal principio. Pochi mesi dopo il suo insediamento, l’ufficio di Milone è oggetto di una misteriosa intrusione, che, a sorpresa, viene rivelata per la prima volta dal signore per eccellenze delle trame e dei segreti vaticani, Luigi Bisignani.

DA VIRUS – RAIDUE DEL 30/10/2015 LUIGI BISIGNANI In Vaticano c’è un'altra bomba che sta per esplodere. È stato violato il computer del Cantone del Vaticano, sia chiama Libero Milone. Il suo computer è stato violato. Ma chi ha osato tanto?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Non c’erano segni di infrazione in nessuna parte dell’ufficio, né porte né finestre, ho chiamato una ditta esterna e mi hanno detto: sì, sabato, circa ore 12, il suo computer è stato accesso, è rimasto acceso per 7-8 minuti e poi è stato rispento. Ho fatto controllare gli altri computer e avevano installato un malware, che si chiama mirroring, fotografa i documenti che passano nel sistema e poi…

GIORGIO MOTTOLA Li trasferisce a chi ha inserito il malware.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Li trasferisce all’altro computer.

GIORGIO MOTTOLA E lei dice che non c’erano segni di effrazione, nessuno aveva scassinato la porta?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 No.

GIORGIO MOTTOLA Quindi erano entrati con le chiavi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma non si sono limitati a entrare nel computer di Milone e infettare quello della segretaria. Dopo qualche settimana, nell’ufficio del revisore c’è un’altra sorpresa.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Una microspia l’abbiamo trovata.

GIORGIO MOTTOLA Una microspia? LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Sì, anche quello l’ho denunciato alla gendarmeria, purtroppo non hanno mai fatto niente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ufficio di Milone aveva attirato l’attenzione non solo per i controlli sui conti degli enti religiosi ma anche perché da statuto riceveva e gestiva tutte le segnalazioni anonime che arrivavano su prelati e funzionari del Vaticano. E una di queste segnalazioni, giunta nel gennaio del 2017, riguarda Angelo Becciu, il potente sostituto della segreteria di Stato.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Mi era arrivato attraverso una persona esterna al Vaticano un foglio di carta che mi parlava di contributi non versati all’Inps, in Italia. GIORGIO MOTTOLA Da parte del cardinale Becciu.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Allora monsignor Becciu. E io dissi a questa persona: non mi riguarda, non mi interessa. Problema suo con l’Inps, quando mai chiederà la sua pensione. E questo foglio di carta è stato messo nell’archivio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal momento che la segnalazione non riguardava direttamente affari vaticani e soprattutto si trattava di poche centinaia di euro, Milone non dà seguito alla denuncia e, come da statuto, la deposita nell’archivio del suo ufficio. Per sei mesi il revisore generale se ne dimentica, ma poi il 19 giugno del 2017 Becciu lo convoca d’urgenza nel suo ufficio.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Mi dice che il Papa ha perso fiducia nel suo operato e chiede le sue dimissioni. Rimango…

GIORGIO MOTTOLA Interdetto.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Interdetto di questa cosa… io non capisco… e dice ma lei ha fatto la spia su diverse figure in Vaticano, lei sapeva addirittura dei miei contributi previdenziali. Non risposi, perché tra me e me mi sono detto: lui mi sta parlando di una cosa che non poteva e non doveva sapere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il giorno dopo la gendarmeria vaticana perquisisce l’ufficio del revisore generale.

FERRUCCIO PANICCO - REVISORE AGGIUNTO DEL VATICANO 2015-2017 Trovo il mio ufficio semplicemente devastato. Mobili rotti, carte sparpagliate sul pavimento, il mobile di metallo dentro cui tenevo le carte più riservate divelto.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 La cosa strana è che quando hanno aperto tutto, uno degli uomini della gendarmeria trova la cartella quasi immediatamente. Questa persona dice: eccola qua la cartella.

GIORGIO MOTTOLA La lettera di Becciu, giusto?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Sì, quella dei contributi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Libero Milone viene interrogato per dodici ore dal capo della gendarmeria Vaticana Domenico Giani. Viene accusato di aver fatto dossieraggio e di peculato per due fatture da 28 mila euro pagate a una società che si occupa di bonifiche ambientali e ispezioni patrimoniali, quindi attività che rientravano nelle sue competenze.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Io faccio presente: quella è vera, quella non è vera. Mi dice: ma c’è il timbro del vostro ufficio. Sì, ma c’è uno scarabocchio, chi mi conosce sa che io firmo.

GIORGIO MOTTOLA La accusano di peculato con un documento falso?

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Non era un documento firmato da me e nessuno nel mio ufficio aveva la responsabilità di firmare i documenti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’accusa di peculato in Vaticano può comportare una condanna da 3 a 10 anni, Milone e il suo sostituto potrebbero essere arrestati all’istante e poi affrontare il processo. Ma la gendarmeria che opera in accordo con la segreteria di Stato gli offre un’alternativa.

LIBERO MILONE - REVISORE GENERALE DEL VATICANO 2015-2017 Mi chiede di confessare. Che se non confesso, mi fa passare la notte in carcere. Lui dice, allora se non ti confessi, ti puoi dimettere. In prima battuta ho detto di no, poi, visto che continuava a martellare sul fatto che dovevo confessare, eccetera, eccetera, me lo ha ripetuto e gli ho detto: va bene, mi dimetto. Mi portano una lettera, che io non firmo perché era il 19 giugno, la lettera che mi hanno portato portava la data del 12 maggio.

FERRUCCIO PANICCO - REVISORE AGGIUNTO DEL VATICANO 2015-2017 In un primo momento mi dice, guarda io ti posso rovinare perché con i miei contatti nella Guardia di Finanza, nei servizi segreti… la cosa non mi ha dato molta preoccupazione, non ho grossi scheletri nell’armadio. A quel punto lì ha tirato fuori una cosa che mi ha convinto a firmare la lettera di dimissioni e cioè mi ha detto, va beh, allora lei passerà la serata in prigione e domani mattina la sua famiglia verrà a sapere questo fatto dai giornali e dalle televisioni. La famiglia non doveva tirarla in mezzo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A Libero Milone e al suo vice, che avevano, per altro, segnalato l’investimento imbarazzante del Vaticano in una casa farmaceutica che produceva la pillola del giorno dopo, non è stata formalizzata alcuna accusa di peculato, né di dossieraggio. Come dimostra questo documento proveniente dal tribunale vaticano non risultano procedimenti al loro carico. Ecco insomma, né si è saputo chi ha messo la microspia nel suo ufficio. È probabile che le attività di Milone avessero irritato chi era abituato a fare investimenti, a fare loschi affari senza un occhio di un revisore indipendente. Quello che però è certo è che almeno dal punto di vista cronologico, i guai di Milone, gli ostacoli a Milone e i suoi collaboratori, vengono cominciati a essere posti davanti alle loro attività nel momento in cui fiutano che c’è qualche anomalia nell’investimento del palazzo londinese. Ora il cardinale Becciu ci fa sapere attraverso il suo legale che il suo unico ruolo è stato quello di informare Milone della decisione presa. Non dice da chi è stata presa questa decisione, però insomma, che è stato lui a comunicare questa decisione di farlo uscire dal Vaticano. Inoltre, ci ricorda il legale di Becciu, che Milone era stato accusato dell’attività di dossieraggio. Accusa che poi non è stata più formalizzata come abbiamo detto. Quello che è certo è che però Milone non è altro che una delle ultime vittime di una serie di revisori che avevano cercato di rendere trasparenti gli affari vaticani. Già nel 2010, Papa Ratzinger per evitare l’onta di finire in una black list come paventava l’autorità finanziaria internazionale, una sorta di paradiso fiscale, alle pari delle Cayman o delle isole vergini, aveva istituito Papa Ratzinger l’Aif, aveva dato mandato di costituire l’ufficio antiriciclaggio. E aveva incaricato una persona integerrima, il cardinale Attilio Nicora. Nicora è stato l’uomo che aveva contribuito alla stesura del concordato di Stato del 1984, concordato tra Stato e Chiesa, e poi aveva anche avuto l’intuizione dell’8 per mille per finanziare le attività della chiesa. Ecco, Nicora cerca di mettere, di scegliere il meglio nella crema dell’antiriciclaggio di Banca d’Italia e sceglie Francesco De Pasquale. Uomo anche lui integerrimo, che però ha il mandato di ficcare il naso fino a un certo punto. Che cosa aveva scoperto De Pasquale? E perché trova per l’ennesima volta davanti a sé il muro della segreteria di Stato vaticana?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2010, Papa Ratzinger istituisce l’Aif, la prima autorità antiriciclaggio della storia della Santa Sede, che ha il compito di vigilare sulla trasparenza dei movimenti di denaro in Vaticano. Il Vaticano rischiava di finire infatti nella black list dei paesi fiscalmente pirata e per questo viene dato all’Aif il potere di controllo ispettivo su tutti gli enti della Santa Sede. Ma immediatamente lo Ior, la banca vaticana, tramite il suo consulente Michele Briamonte, impone delle notevoli limitazioni all’Aif, chiedendo di escludere dall’attività ispettiva i conti della banca precedenti al primo aprile 2011.

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Ci fu anche un contrasto su questo. Se io devo assumere delle informazioni su un deposito o un singolo cliente eccetera devo anche sapere e avere la possibilità di vedere le operazioni che sono connesse anche antecedenti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma le maggiori resistenze provengono dalla segreteria di Stato, il supremo organo di controllo politico del Vaticano, che non vede troppo di buon occhio l’eccessiva indipendenza ispettiva dell’Aif e quindi riscrive la legge sull’antiriciclaggio.

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Con la riforma che ci fu nel 2012 questo potere venne sottratto.

GIORGIO MOTTOLA Quindi in qualche modo la segreteria di Stato si poneva al di sopra dell’Aif?

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Interferenze e intromissioni ci sono state. GIORGIO MOTTOLA La segreteria di Stato ha fatto un vero e proprio ostruzionismo rispetto a quello che stavate mettendo in campo voi?

CONSIGLIERE DIRETTIVO AIF 2012-2014 Più che ostruzionismo direi colse l’occasione per rimettere le mani sulla legge e fu rivista totalmente.

GIORGIO MOTTOLA Facendo dei clamorosi passi indietro. CONSIGLIERE DIRETTIVO AIF 2012-2014 Sì, c’erano molte cose che non andavano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Uno dei primi passi indietro è il commissariamento di Aif nei rapporti con l’Europa. Contro il parere dell’allora presidente dell’antiriciclaggio, il cardinale Attilio Nicora, viene incaricato un sottosegretario della Segreteria di Stato Ettore Balestrero.

GIORGIO MOTTOLA Balestrero fu tra le figure che maggiormente si oppose all’operazione che voi con il cardinale Nicora stavate provando a condurre in porto?

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Si tratta di una divergenza di vedute sul modo di andare avanti in questa materia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La segreteria di Stato affida al suo sottosegretario i dossier più importanti dell’antiriciclaggio da trattare in Europa. Ma qualche anno dopo, proprio monsignor Balestrero è incappato in un’inchiesta per riciclaggio internazionale e lo scorso febbraio ha chiesto di patteggiare la condanna dopo la richiesta del pm della confisca di 7 milioni di euro dai suoi conti personali.

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Balestrero guidò la delegazione vaticana a Strasburgo quindi prese in mano la materia.

GIORGIO MOTTOLA L’antiriciclaggio?

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Dell’antiriciclaggio, sì.

GIORGIO MOTTOLA Lo stesso signore che pochi giorni fa ha patteggiato una condanna per riciclaggio.

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Ho letto, sì.

GIORGIO MOTTOLA È abbastanza ironico?

FRANCESCO DE PASQUALE - DIRETTORE AIF 2011- 2012 Questo lo dite voi. Eh!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nello stesso periodo vengono riscritte le regole per le attività ispettive, rendendole molto più farraginose. E nel 2017 Moneyval, l’organismo europeo anti riciclaggio, lancia l’allarme esprimendo dubbi sull’applicazione delle norme in Vaticano.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO ANTIRICICLAGGIO Difatti Moneyval conclude dicendo che non sono ancora stati avviati i procedimenti giudiziari per riciclaggio. Quindi, nel … fino alla fine del 2017, non esisteva in Vaticano un processo di riciclaggio. Quindi, delle due l’una, o in Vaticano non c’è nessun rischio di riciclaggio, e allora non ci sono procedimenti penali, o se il rischio di riciclaggio c’è, non viene applicata la normativa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le ispezioni dell’antiriciclaggio in Vaticano hanno avuto negli anni precedenti delle forti limitazioni, la più importante delle quali era la Segreteria di Stato, nei suoi conti infatti, l’Aif non poteva ficcare in alcun modo il naso.

CONSIGLIERE DIRETTIVO AIF 2012-2014 Noi non abbiamo mai avuto accesso ai conti. Quindi che ci fossero conti si dice, che fossero opachi si dice, chi fossero i titolari non lo sappiamo proprio perché non abbiamo avuto modo di mettere le mani.

GIORGIO MOTTOLA Perché la segreteria di Stato puntava a sottrarsi al controllo dell’Aif?

CONSIGLIERE DIRETTIVO AIF 2012-2014 Hanno un flusso di denaro contate che è spaventoso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i flussi di denaro contante che giravano in Vaticano, c’è anche quello iraniano. Lo dimostra questa lettera rimasta finora segreta. È firmata dall’allora sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Becciu. Il prelato autorizza lo Ior a ricevere il deposito di soldi in contanti dai funzionari dell’ambasciata iraniana e a farli poi uscire dalle mura vaticane sotto forma di bonifico.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO E’ una roba da brivido no?

GIORGIO MOTTOLA È un’operazione inspiegabile questa.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO È un’operazione economicamente inspiegabile, però se la si vede sotto il profilo dell’antiriciclaggio, è un’operazione di riciclaggio. Perché si tramuta denaro di provenienza ignota, qual è il denaro contante, in denaro di provenienza nota perché arriva un bonifico tracciabile. Però è curioso no? Cosa ci deve fare l’Iran con sto denaro che gira dallo Ior?

GIORGIO MOTTOLA Non è un po' inusuale autorizzare delle persone a portare cash i soldi e farli uscire tramite bonifico? Tecnicamente si realizza tranquillamente riciclaggio così.

CONSIGLIERE DIRETTIVO AIF 2012-2014 È presumibile. Non riesco a immaginare quale possa essere l'attività dell'ambasciata da cui possano provenire dei flussi in contanti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella seconda parte della lettera Becciu invita lo Ior a vigilare che tutto avvenga in modo trasparente e secondo le norme vigenti.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO Povero capo dello Ior. Dice, guarda arriva un iraniano che ti porta i contanti, vuole un bonifico, però tu vigila. Ma cosa deve vigilare questo? GIORGIO MOTTOLA In Italia l’ambasciata iraniana può depositare in contanti e fare uscire tramite bonifico attraverso una banca?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO No. Su una banca italiana assolutamente no. Ma lo segnalano immediatamente all’Unità di Informazione Finanziaria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed esattamente un anno dopo, nel 2012, scatta un campanello d’allarme all'Aif perché si sospetta che tra i funzionari dell'ambasciata iraniana possa esserci un certo Javad Karimi, a cui gli Stati uniti hanno congelato tutti i conti perché è tra i responsabili del programma nucleare iraniano. Ma con questa lettera inedita, la Segreteria di Stato rassicura il presidente di Aif che si tratta solo di un’omonimia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il legale del cardinale Becciu ci fa sapere che l’ufficio del protocollo della Segreteria di Stato Vaticano aveva comunicato a Becciu che non ravvisava criticità sull’ operazione finanziaria con l’ambasciata iraniana. E comunque il cardinale nella sua lettera invitava lo Ior a vigilare che tutto avvenisse "in modo trasparente e di valutare secondo le norme vigenti, le reali esigenze di movimentazioni dell’ambasciata iraniana”. Ricapitolando insomma, che cosa è successo? Che nel 2011 Papa Ratzinger per evitare che il Vaticano finisse nella black list nomina, dà mandato di costituire l’Aif, l’ufficio antiriciclaggio. Incarica monsignor… il cardinale Nicora, persona integerrima, il quale a sua volta, incarica come direttore un uomo, un professionista dell’antiriciclaggio, proveniente da Banca d’Italia: Francesco De Pasquale, il quale però appena comincia a mettere il naso nei conti dello Ior, insomma comincia a farsi un po’ troppe domande, viene di fatto commissariato. Il commissario è monsignor Balestrero. Peccato che qualche anno dopo la faccia di quella che è la lotta all’antiriciclaggio della Santa Sede, viene accusato di riciclaggio, sceglie la via del patteggiamento, e sui suoi conti sono stati sequestrati ben 7 milioni di euro. Insomma, poi che cosa succede. Che De Pasquale ormai depotenziato, viene sostituito così come l’uomo scelto da Ratzinger, il cardinal Nicora. Al suo posto viene scelto l’avvocato svizzero René Brülhart, già consulente della Segreteria di Stato Vaticano, ma soprattutto è vicepresidente della società TD International che è una società di Intelligence, legata al dipartimento di Stato americano. Mentre al posto di De Pasquale, viene scelto il genero dell’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, Tommaso di Ruzza. E come arriva, come si insedia insomma, crea dei malumori soprattutto tra i dipendenti, che presentano un esposto contro di lui per presunti comportamenti scorretti. Avrebbe goduto dei benefit non dovuti. Dopo 8 anni di Ruzza viene indagato nella vicenda degli investimenti del palazzo londinese. Ecco, se avesse creduto di più nella forza dell’indipendenza, forse il Vaticano si sarebbe trovato in cassa centinaia di milioni di euro in più, da investire in quella che è la propria mission. Insomma, l’indipendenza non è una qualità spesso apprezzata perché è imbarazzante da gestire, a volte è scomoda.

Papa Francesco stupisce ancora e celebra la messa del Giovedì Santo a casa di Angelo Becciu. Papa Francesco ha dato un segno distensivo nel rapporto con Angelo Becciu e ha celebrato la Messa in Coena Domini a casa del porporato. Francesca Galici - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. Ancora una volta, Papa Francesco è riuscito a stupire con le sue azioni. Imprevedibile e poco amante degli schemi, il Pontefice nel primo giorno del Triduo pasquale ha deciso di non presenziare alla tradizionale messa del Giovedì santo in San Pietro. Ha affidato la celebrazione ufficiale al Decano del collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re, per celebrare la Messa in Coena Domini nella cappella privata all’interno del palazzo dell’ex San’Uffizio, residenza del cardinale Angelo Becciu. Un gesto che ha colto tutti di sorpresa, soprattutto per i trascorsi. Non passati nemmeno 7 mesi da quando Papa Francesco ha imposto ad Angelo Becciu, fino a settembre Prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, di rassegnare le sue dimissioni dal ruolo e, soprattutto, gli ha tolto i diritti e le prerogative del cardinalato. A causa dello scandalo del palazzo londinese di Sloan Avenue, il Pontefice ha spogliato Angelo Becciu dei suoi incarichi e di parte dei diritti decisionali che spettano a un cardinale del suo rango. Papa Francesco non si è solo recato nell'abitazione cardinalizia per la Messa in Coena Domini, ma ha anche autorizzato Angelo Becciu a rendere pubblica la notizia di quanto accaduto. Eppure, se al di là del colonnato di San Pietro il gesto del Santo Padre ha destato clamore, tra i corridoi del Vaticano lo stupore appare meno marcato. Lo definiscono un gesto "paterno" di Papa Francesco nei confronti di un uomo che ha sbagliato in un giorno importante come il Giovedì Santo. Un giorno che, come sottolineano i ben informati, il Pontefice argentino ha trascorso spesso a casa di Angelo Becciu, anche se le circostanze erano senz'altro diverse. "Questa sera Papa Francesco ha celebrato la Messa in Coena Domini presso la cappella dell'appartamento del cardinal Angelo Becciu, per manifestargli amicizia e vicinanza. Erano presenti alla celebrazione le suore che curano la abitazione del prelato ed un gruppo di focolarine", hanno riferito fonti vaticane in tarda serata. Pare che tra i due non si possa ancora parlare di un ritrovato rapporto di amicizia e di serenità ma è stata messa una prima pietra per intraprendere un percorso distensivo. "È un gesto distensivo, può essere un principio. E una buona cosa che ci fa piacere", ha commentato uno dei fratelli di Angelo Becciu all'Adnkronos. E a chi ricorda che nell'ultima cena c'era anche Giuda, Tonino Becciu replica: "Non esageriamo con queste cose. Stasera il Papa ha celebrato messa con mio fratello. È una buona notizia". È stato raggiunto telefonicamente anche il parroco di Pattada, cittadina del sassarese che ha dato i natali al porporato: "Oggi il Papa dà un segno di vicinanza al cardinale nella giornata sacerdotale. Speriamo si arrivi presto al riconoscimento dell'innocenza del cardinale rispetto a ciò per cui è accusato. Innocenza nella quale nella quale io e in tanti crediamo. Speriamo pertanto ci sia, con altrettanta velocità, il riconoscimento della sua innocenza".

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 2 aprile 2021. Papa Francesco ha scelto il momento più simbolico per il sacerdozio, la Messa in Coena Domini, per riabilitare al mondo il cardinale Angelo Becciu. Nove mesi fa lo aveva umiliato, punito e gli aveva tolto alcune prerogative cardinalizie a seguito di una inchiesta sul palazzo di Londra, in base a informazioni che ancora devono essere confermate. In attesa della chiusura delle indagini (condotte alla magistratura vaticana) Papa Francesco nella tarda serata di ieri è andato di persona a casa dell'ex prefetto della congregazione dei Santi per celebrare con lui la celebrazione che ricorda il momento in cui Gesù istituì leucarestia, il sacerdozio e il comandamento dell'amore fraterno. «Non mi aspettavo questo momento, sono ancora commosso» sussurra il cardinale Becciu con un filo di voce. Per lui la fine di un incubo. Tutto si è sviluppato in modo imprevisto proprio mentre nella basilica vaticana il rito ufficiale (disertato dal Papa) veniva affidato al cardinale Re. Nel frattempo Papa Francesco stava telefonando a Becciu chiedendogli dove avrebbe celebrato la messa. «Gli ho risposto che celebravo nella mia cappellina con le mie tre suore e alcune focolarine amiche e lui mi ha detto che si sarebbe aggiunto». Pochi minuti dopo il Papa suonava alla porta. Nella cappellina spartana l'atmosfera era di incredulità. Al momento della predica il Papa ha abbracciato idealmente Becciu, parlando dello sconfinato amore di Cristo e della sua capacità di perdonare. In Vaticano la notizia non è stata commentata ufficialmente («non confermiamo notizie di impegni privati del Papa ma non sembra strano un gesto di paternità così grande, in un giorno come questo»). Ora per il cardinale Becciu non resta che attendere l'esito delle indagini e, nel caso, il ripristino delle sue funzioni.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 2 aprile 2021. Ma Papa Francesco è un cerchiobottista? La notizia che ieri abbia dato forfait alla Messa in Coena Domini (che ricorda l’Istituzione dell‘Eucarestia e da inizio al Triduo Pasquale) nella Basilica di San Pietro e invece alla stessa ora abbia detto messa privatamente insieme al cardinale Becciu a casa sua, sembra contrastare con le solenni parole pronunciate sabato scorso per l’apertura dell’anno giudiziario del Vaticano in cui spronava i magistrati a essere incisivi nella lotta contro i crimini finanziari, con un indiretto ma evidente riferimento anche alle indagini in corso sull’acquisto del Palazzo di Londra di Sloane Ave che è costato sei mesi fa il posto a Becciu. Discorso, si noti, pronunciato quando la messa in casa Becciu era già stata decisa (e il forfait alla Basilica annunciato ufficialmente dalla Sala Stampa vaticana, che nonostante le richieste non ha mai voluto spiegare cosa nel frattempo avrebbe fatto il Papa).

Qual è il vero Bergoglio: quello del discorso di inizio dell’anno giudiziario o quello della Messa con Becciu?

Quello che ha tolto fino all’ultimo euro dalle casse della Segreteria di Stato (realizzando la riforma voluta dall’inizio del Pontificato dal molto avversato cardinale Pell)?

Oppure quello che ha autorizzato Becciu a rendere noto che ieri aveva celebrato con lui nel giorno più importante per la vita dei preti, il giorno in cui Cristo ha istituito lo stesso sacerdozio?

Quello che ha ampliato enormemente i poteri dei pm vaticani in uno degli ultimi Motu proprio in materia penale, stabilendo la formale indipendenza da ogni atro potere (anche da quello esercitato dal sovrano) nel piccolo stato? Oppure quello che a partire dalla prima telefonata rivelata dall’Huffpost ha continuato a vedere e sentire il cardinale?

Naturalmente, la “cordata“ di Becciu ha subito sottolineato, in un modo clericale che non avrà fatto piacere a Santa Marta, che la Messa coincide praticamente con un’assoluzione “giudiziaria”, perché l’inchiesta sarebbe stata smontata da una sentenza inglese che riguarda un sequestro di denaro richiesto dai pm nei confronti del finanziere Torzi. Ma chi non cade vittima del muro di specchi di interessati storytelling, sa che la sentenza di Londra non riguarda minimamente il periodo in cui Becciu era sostituto della Segreteria di Stato (ma fatti compresi tra il novembre 2018 e il maggio 2019, quando il cardinale era a capo della Congregazione delle cause dei Santi) e coinvolge solo la sistemazione finale dell’affare di Londra, che afferma la stessa sentenza inglese iniziò addirittura nel dicembre 2012, poco prima delle dimissioni di Ratzinger (chissà perché?). Inoltre sa che il sequestro di Londra, se confermato, avrebbe riguardato una cifra minore, meno di 800 mila euro, mentre la stessa sentenza ricorda che un sequestro riconducibile a Torzi per 10 milioni di euro è stato autorizzato su richiesta del Vaticano dalla Svizzera in passato. E che pochi giorni fa ben quattro sentenze del Tribunale federale svizzero di Bellinzona hanno confermato ingenti sequestri (inferiori a 300 milioni di euro, che è il danno stimato dal Vaticano alle casse della Segreteria di Stato, così si legge in queste sentenze) al finanziere che per 27 anni ha gestito i conti della Terza Loggia ed è stato artefice dello schema finanziario per l’acquisto del Palazzo. Allora cosa significa il gesto del Papa? Proprio ieri l’Osservatore Romano ha pubblicato la riproduzione di un quadro che il Papa tiene dietro la sua scrivania: Gesù che, sceso dalla croce, abbraccia Giuda, il traditore che si è impiccato. Si sa del resto che una delle iconografie più amate da Bergoglio è il capitello medievale di Vèzelay, in cui il Buon pastore si mette sulle spalle il corpo di Giuda suicida. Il Buon pastore, quello che lascia le 99 pecorelle che sono al sicuro e va in cerca di una sola. E in questo, dice il Vangelo, in Cielo c’è una grande gioia. E “gioia” è la parola con la quale ha voluto commentare Becciu (che ha sempre protestato la sua innocenza) la Messa con il Papa.

Anticipazione da “Oggi” il 12 maggio 2021. «La vita in prigione è stata umiliante, frustrante e monotona. Vivevo in isolamento in una piccola cella», ma «non mi sono mai sentito abbandonato». Lo afferma il cardinale australiano George Pell, in un’intervista esclusiva a OGGI, in occasione dell’uscita in Italia del suo libro di memorie Diario di  prigionia, edito da Cantagalli. Nell’intervista al settimanale, Pell racconta come ha vissuto i 404 giorni trascorsi in carcere a Melbourne, prima che l’Alta Corte d’Australia il 7 aprile 2020 lo scagionasse con verdetto unanime dall’accusa di pedofilia. «Anche Papa Francesco e Papa Benedetto mi hanno sostenuto con vigore», aggiunge il porporato. Dopo aver sostenuto che le affermazioni del suo accusatore, l’unica presunta vittima ancora in vita, potessero essere «frutto di fantasia o speculazione: ha cambiato versione 24 volte», avanza il sospetto «che venisse imbeccato», perché non poteva avere «la capacità di inventare una storia tanto bizzarra: un’aggressione in una sacrestia affollata dopo la Messa domenicale in Cattedrale». Nell’intervista a Oggi monsignor Pell - già Prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede - alla domanda se qualcuno può aver tramato contro di lui, risponde: «Non ci sono prove di un legame tra il mio lavoro di riforma finanziaria in Vaticano e la mia vicenda giudiziaria, anche se molti dei miei collaboratori a Roma lo ritengono possibile. Dalla Segreteria di Stato fu inviata in Australia una somma di denaro a sette cifre, ma non si sa perché né dove sia finite… Un altro fatto curioso è rappresentato dal testo di un presunto messaggio di una persona esterna, indirizzato a un funzionario della Segreteria di Stato, che afferma: “Pell è in prigione, è fuori gioco; abbiamo la strada spianata”». Cosa fa ora che è stato assolto? «Sono tornato a Roma. Prego, leggo, scrivo e tengo conferenze». Cosa le resta di questa esperienza? «Spero che la mia fede si sia approfondita e rafforzata».

Da "Libero quotidiano" il 10 febbraio 2021. Questa è la trascrizione della puntata di "Il Mix delle 5" di lunedì scorso. L'autore e conduttore è Giovanni Minoli che ringraziamo per averci consentito di riprodurla sulle nostre pagine. Minoli è stato ed è un grande innovatore del linguaggio televisivo e radiofonico, nella salvaguardia dell'essenza del giornalismo: in particolare, la curiosità di scoprire e la passione di raccontare verità occultate. Benvenuti al Mix delle 5 e mentre Draghi continua la sua fatica per formare un governo di svolta che si presenta come fortemente inedito, noi continuiamo a raccontare storie che per un giorno sono sembrate sconvolgenti, ma poi quando si capisce che non sono così, ma diverse da come sono state raccontate, vengono abbandonate sperando nel silenzio. È il caso del cardinale Angelo Becciu, principe della Chiesa, numero 3 della gerarchia vaticana, che con una modalità inedita e sospetta si vede privato delle diritti e delle prerogative di cardinale, viene escluso dal futuro Conclave, per avere tra le altre cose, speso fondi della Santa Sede per infangare con accuse infamanti il cardinale George Pell, sotto processo in Australia per pedofilia (infine assolto, ndr). La notizia trapela, L'Espresso, il Corriere, e seguendo loro i media di tutto il mondo la riprendono, perché Becciu, che appunto è il numero tre della gerarchia vaticana, fa notizia e lo scalpore è enorme, dato che secondo Google, la notizia esce su 3.100 siti del globo. Dopo l'uscita della notizia, Lucetta Scaraffia, professoressa alla Sapienza, ex direttrice del mensile dell'Osservatore Romano, Donna Chiesa e Mondo, il 23 novembre scrive un articolo su QN e confessa la sua incredulità rispetto alla notizia e qui da noi in trasmissione dice: «È chiaro che il cardinale è stato scelto come capro espiatorio per nascondere qualcosa di grosso e dare un'idea del Vaticano, rinfrescare l'immagine del Vaticano, diciamo così, come luogo dove si fa giustizia colpendo anche le cariche più alte».

Minoli: L'Espresso ha scritto che Becciu si era dimesso, lo ha scritto sette ore e cinquanta minuti prima che il cardinale addirittura incontrasse il Papa, una magia giornalistica praticamente.

Scaraffia: «Sì, suppongo che non lo sapesse ancora neanche il Papa, quindi questo mi ha stupito tantissimo e chiaramente questa è una coincidenza che fa pensare a un complotto».

Minoli: I media potrebbero aver presa per vera, nella migliore delle ipotesi, quella che potrebbe essere invece solo una clamorosa truffa...

Scaraffia: «Questo è evidente, mi stupisce che i media poi non si siano domandati quando la truffa è stata poi rivelata da queste date, da queste coincidenze sbagliate e che non abbiano detto andiamo a vedere cosa c'è dietro. Il silenzio che è succeduto agli articoli fa pensare che i media non abbiano nessuna intenzione di rivedere quello che avevano già scritto», ha aggiunto la professoressa Scaraffia concludendo: «C'è poi una evidenza, che evidentemente tutto 'sto materiale è uscito dal Vaticano». E infatti, nessuno dei media che ha strillato la notizia delle presunte colpe di Becciu, ha sentito il bisogno di raccontare anche la notizia che viene dall'Australia, proprio nei giorni scorsi, e che scagiona il cardinale Becciu dal presunto uso distorto dei fondi vaticani. Dice espressamente l'Australian Federal Police: «Non si è riscontrato, identificato nessuna condotta criminale nei pagamenti arrivati in Australia dal Vaticano». E qui in Italia, solo Libero e il suo direttore, Vittorio Feltri, non hanno mollato l'osso e continuano a parlarne, e hanno ripreso la notizia.

Minoli: Direttore Feltri, che cosa ti ha convinto a continuare a seguire il caso?

Feltri: «Dal primo momento ho avuto il sospetto che ci fosse qualcosa di storto e mi sono immediatamente persuaso che fosse partita la più grande operazione mondiale di diffamazione nei confronti di un uomo, come Becciu, che io conosco, so essere una persona specchiata. E quindi mi sono interessato, ho cercato di scavare e ho raccontato quella che poi si è rivelata essere una verità incontestabile».

Minoli: Hai avuto una fonte credibile, particolare dentro al Vaticano?

Feltri: «Sì, ho avuto naturalmente delle persone che conoscevo. Io fra l'altro non sono neanche un credente, quindi non ho dei rapporti particolari col mondo della Chiesa. Qualcuno però lo conosco. Ho fatto delle verifiche e guarda caso confermavano quello che io sospettavo e cioè che Becciu non c'entra niente, non ha fatto assolutamente nulla, è un capro espiatorio e non si capisce con quale criterio sia stato scelto. Io sono contro tutti i capri espiatori».

Minoli: Lo so bene.

Feltri: «In particolare, hanno scelto un uomo perbene, fra l'altro le sue origini sono veramente una garanzia, eppure nonostante tutto questo è stato "schioppettato" anche dal Papa, è questo che mi ha indotto a indagare».

Minoli: Ma come ti spieghi il silenzio totale sul proscioglimento in Australia di Becciu di chi prima aveva strillato la notizia? È un comportamento normale?

Feltri: «Sì, diciamo che non è una novità nella stampa italiana, questo succede anche a un poverocristo che viene perseguito dalla giustizia, viene naturalmente sputtanato su tutti i giornali, poi salta fuori che è innocente e la notizia viene magari anche data, ma a una colonna e in una pagina nascosta».

Minoli: In questo caso neanche una colonna dopo mille siti che hanno dato la notizia niente, zero, solo voi.

Feltri: «Sì, perché c'è stata un'indifferenza nei confronti nelle altrui disgrazie. Specialmente se un innocente viene preso a calci, la cosa non desta alcuno scalpore. Questo è veramente bruttissimo, lo trovo indegno di una società civile».

Minoli: Tu credi che il Papa prenderà atto di questa decisione del tribunale australiano? In fondo è stato ingannato magari suo malgrado, anzi, senz'altro.

Feltri: «Io ho saputo da fonte, naturalmente, attendibilissima, che il Papa e Becciu si sentono periodicamente al telefono, il che vuol dire che stanno studiando il modo migliore per rientrare in scena senza, diciamo così, far ridere la gente».

Minoli: Quindi è possibile una riabilitazione del cardinale Becciu?

Feltri: «Secondo me è anche molto prossima».

Minoli: Quindi tu continuerai a indagare e darai la notizia per primo.

Feltri: «Assolutamente, io quando le ho le notizie le do sempre, non è che mi faccio degli scrupoli».

Minoli: Lo so.

Feltri: «Quelle poi che sono positive, come in questo caso, vanno addirittura montate».

Minoli: Benissimo, allora aspettiamo di leggere su Libero il rientro di Becciu nel suo ruolo nella Chiesa.

Feltri: «Me lo auguro vivamente. Io ho anche parlato con Becciu, che mi ringraziava per quello che avevo fatto, e gli ho detto: guardi per favore, non mi ringrazi perché mi sono limitato a fare il mio dovere».

Minoli: Il giornalista.

(ANSA il 12 aprile 2021) - La guardia di Finanza ha arrestato Gianluigi Zorzi, il broker finanziario coinvolto nella compravendita del palazzo al numero 60 di Sloane Avenue a Londra per la quale è sotto inchiesta da parte della giustizia vaticana che gli ha contestato profitti illeciti per 15 milioni. Oltre all'arresto per Torzi, il Gip di Roma ha disposto la misura interdittiva del divieto di esercitare la professione di commercialista per Giacomo Capizzi, Alfredo Camalò e Matteo Del Sette, tutti accusati dalla procura di emissioni di fatture false. Le indagini dei finanzieri del Nucleo di Polizia economico finanziaria di Roma, scaturite dalla richiesta del Promotore di Giustizia del Vaticano, hanno permesso di ricostruire come parte dei 15 milioni di euro bonificati a due società inglesi di Zorzi - per il quale è stato richiesto l'arresto - siano stati utilizzati per acquistare azioni di società quotate in Borsa per un importo di oltre 4,5 milioni. Azioni che gli hanno consentito, dopo pochi mesi, di conseguire guadagnare oltre 750.000 euro. I soldi sarebbero anche stati utilizzati per ripianare il debito di 670.000 euro di altre due aziende allo stesso riferibili. Gli investigatori hanno poi ricostruito un giro di fatture false, non collegato all'operazione di Londra, realizzato da Torzi e Capizzi (accusato anche di autoriciclaggio) con i commercialisti di riferimento del gruppo Camalò e Del Sette per frodare il fisco. "E' assolutamente concreto ed attuale il pericolo di reiterazione dei delitti della stessa specie di quelli per cui si procede da parte degli indagati". E' quanto scrive il gip di Roma Corrado Cappiello, nell'ordinanza con cui ha disposto l'arresto del broker Gianluigi Torzi e la misura interdittiva per altre tre persone. "Appare evidente che Torzi, con la collaborazione attiva di prestanome e di tecnici di fiducia, si serva di numerose società, operanti anche all'estero, come schermo per la propria attività imprenditoriale, in gran parte basata sull'elusione fiscale, provvedendo al reimpiego dei proventi illeciti in speculazioni finanziarie". Per il giudice è "allarmante la facilità con cui Torzi e i suoi collaboratori siano riusciti a organizzare le operazioni fraudolente, individuando e sostituendo in brevissimo tempo le società da utilizzare per l'emissione e l'utilizzo delle fatture false, necessarie per riscuotere un cospicuo credito personale, celato da fittizi contratti di consulenza, predisposti da professionisti, anche attraverso la falsa retrodatazione della variazione del codice Ateco".  (ANSA) - "Oltre al procedimento penale pendente presso lo Stato della Città del Vaticano nel quale è stato recentemente tratto in arresto, Gianluigi Torzi, gravato da precedenti di polizia per abusiva attività finanziaria, truffa, emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, è indagato anche per fatti di bancarotta fraudolenta, propria ed impropria, nell'ambito del gruppo Tag Comunicazioni". E' quanto scrive il gip di Roma Corrado Cappiello, nell'ordinanza con cui ha disposto l'arresto del broker Gianluigi Torzi e la misura interdittiva per altre tre persone. "Pertanto, nei confronti di Torzi, tenuto conto della gravità dei fatti, del ruolo rivestito dallo stesso, nonché delle pendenze a suo carico, è assolutamente necessaria - scrive il gip - l'adozione della misura custodiate sollecitata dal pm, stante la palese inadeguatezza di altre più gradate: in particolare, appare evidente che l'indagato, anche in caso di sottoposizione agli arresti domiciliari, possa perpetrare ulteriori analoghe condotte delittuose, seguendo i medesimi schemi oramai collaudati e continuando a servirsi di prestanomi e di professionisti anche per inquinare l'attività di ricerca delle prove (di tipo prettamente documentate)".

Vaticano, chiesto l’arresto di Gianluigi Torzi per l’affare del palazzo di Londra. di Massimiliano Coccia su L'Espresso il 12 aprile 2021. Per il broker molisano l’accusa di false fatturazioni per operazioni inesistenti e autoriciclaggio. Si tratta di un punto di svolta nell’inchiesta sugli affari della Segreteria di Stato al tempo di Angelo Becciu. Questa mattina la Procura di Roma ha spiccato un mandato di arresto nei confronti del broker Gianluigi Torzi, nell’ambito dell’inchiesta della Guardia di Finanza “Broking Bad”. Torzi al momento si trova a Londra e non risulta reperibile. Assieme alla misura cautelare per il protagonista della trattativa finale dell’acquisizione del palazzo di Sloane Avenue a Londra voluta e sostenuta dall’ex sostituto agli Affari Generali della Segreteria di Stato, Angelo Becciu, in seguito dimissionato per da Papa Francesco per peculato, la magistratura ha emesso misure interdettive nei confronti di Giacomo Capizzi, Alfredo Camalò e Matteo Del Sette, che risultano essere indagati a vario titolo assieme al broker molisano per emissione e annotazione di fatture per operazioni inesistenti, nonché, soltanto il primo, per autoriciclaggio. L’operazione è nata dalla richiesta di collaborazione giudiziaria formulata di promotori di Giustizia vaticana in seguito allo scandalo finanziario intorno all’acquisizione dell’immobile londinese che ha causato una voragine di 400 milioni di euro nelle casse della Santa Sede e che si sta avviando alle battute finali. La gendarmeria vaticana aveva arrestato Torzi il 5 giugno dello scorso anno e successivamente lo aveva rimesso in libertà. Nelle quattordici pagine dell’ordinanza di arresto il giudice ricostruisce in base alle indagini del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Roma delle Fiamme Gialle, il meccanismo che ha portato un profitto illecito ai danni della Santa Sede di 15 milioni di euro, soldi avuti dal broker per prestazioni mai realizzate, che successivamente sono state rinvestite col tramite di due società inglesi per l’acquisizione di azioni di società quotate in borsa (Mediaset Spa, Marzocchi Pompe Spa e B.F. Spa) e per ripianare i debiti di altre due società italiane del broker la Set e la Ladhi srl. Un meccanismo di scatole cinesi, false fatturazioni che ha creato una dinamica estorsiva nei confronti delle casse vaticane che avrebbe trasformato l’affare del palazzo di Sloane Avenue in una sorta di bancomat per tutti i soggetti protagonisti della trattativa. Una modalità operativa in cui i soldi dell’Obolo di San Pietro avrebbero foraggiato le più disparate operazioni imprenditoriali senza procurare nessun benefit monetario al Vaticano ma causando perdite progressive. Inoltre, vale la pena sottolineare, che la stessa operazione di acquisto e ricompera delle quote societarie dell’immobile londinese, è avvenuta in violazione delle norme dello Stato della Città del Vaticano che delegano in via di totale esclusiva all’Amministrazione del Patrimonio Apostolico della Sede Apostolica le operazioni immobiliari e quelle finanziarie allo IOR, modalità totalmente ignorate in prima istanza dall’ex Sostituto Becciu e successivamente, per via del ricatto descritto dagli inquirenti, continuate da Mons. Pena Parra che ha sostituito il presule sardo, che fino all’allontanamento di tutti i membri dell’ufficio del suo predecessore ha attuato le strategie consigliate da Monsignor Alberto Perlasca e Fabrizio Tirabassi per limitare le perdite intorno al palazzo londinese. Strategie che facevano parte, come abbiamo più volte ricostruito su queste pagine, di un piano descritto dagli inquirenti di Oltretevere come una strategia volta alla al saccheggio delle casse della Segreteria di Stato. I militari della Guardia di Finanza hanno anche accertato un giro di false fatturazioni, non collegate all’operazione immobiliare londinese, realizzato da Torzi assieme a Capizzi e al gruppo di commercialisti di riferimento del gruppo di imprese italiane ed estere riconducibili al broker, Camalò e Del Sette che secondo i finanzieri “non avevano nessuna giustificazione commerciale se non quella di frodare il Fisco”. La richiesta di arresto di Gianluigi Torzi segna un punto di svolta nell’inchiesta vaticana sugli affari della Segreteria di Stato al tempo di Angelo Becciu, dove si attendono le conclusioni dell’inchiesta. In caso di rinvio a giudizio si tratterebbe, più che di un processo, di un passaggio fondamentale nel percorso di riforme economiche volute da Papa Francesco.

Gianluca Paolucci e Monica Serra per lastampa.it il 13 aprile 2021. «Sono libero, sono libero», dice sereno Gianluigi Torzi. Il broker coinvolto nello scandalo dei fondi vaticani è stato raggiunto ieri da un provvedimento di custodia cautelare in carcere emessa dalla procura di Roma, che contesta i reati di autoriciclaggio e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti in relazione alla «commissione» incassata dal Vaticano (15 milioni) per la vicenda del palazzo di Londra. Torzi risponde al telefono dal suo ufficio di Londra, nella tarda mattinata, dove ha appresa della richiesta di arresto «dai giornali, poi dai commercialisti che sono stati perquisiti questa mattina». Si tratta di Alfredo Camalò, Giacomo Capizzi e Matteo Del Sette, indagati con Torzi in questo nuovo filone d’indagine scaturito ancora dalla vicenda dei fondi del Vaticano per la quale lo stesso Torzi è indagato anche dalla procura della Santa Sede, in quel caso per estorsione. L’indagine della procura di Roma contesta invece il reimpiego dei 15 milioni incassati dal Vaticano – frutto quindi dell’estorsione contesta dalle autorità d’Oltretevere - tramite due società estere in una serie di operazioni: l’acquisto di azioni di società quotate in Italia e il pagamento di una serie di debiti pregressi in capo a società riconducibili allo stesso Torzi. «Siamo alla storia di giugno dell’anno scorso – spiega il broker – per la quale peraltro il tribunale inglese mi ha dato ragione». Il riferimento è al pronunciamento di un giudice inglese, che ha di fatto smontato la tsi dell’accusa vaticana sostenendo che la commissione incassata da Torzi ( i 15 milioni, appunto) non fossero il frutto di un’estorsione ma ottenuti sulla base di un regolare contratto, firmato per il Vaticano da Monsignor Alberto Perlasca il 22 novembre del 2018 e avallato tre giorni dopo dal segretario di Stato, Pietro Parolin. Torzi comunque non ha intenzione di costituirsi e aspetta serenamente gli sviluppi: «Mi dovrei costituire per cosa? Per una storia per la quale sono andato in Vaticano e parlarne e mi hanno arrestato? C’è la sentenza inglese che è chiara e inappellabile», risponde. «Aspetto quello che mi dicono gli avvocati, non scappo. Sono sereno e la mattina vado a lavorare come tutte le mattine». Secondo quanto ricostruito dalla Guardia di finanza, Torzi avrebbe impiegato parte della somma incassata dal Vaticano in una serie di acquisti di azioni di società quotate a Piazza Affari: Mediaset, Bf e Marzocchi Pompe. Un investimento di 4,5 milioni che avrebbe reso una plusvalenza di 756 mila euro in sei mesi circa. Un’altra parte della somma è stata utilizzata per ripagare vecchi debiti di una società italiana riferibile a Torzi e cessata dal 2015. Le fatture per operazioni inesistenti sono contestate sulla base di una serie di messaggi e movimentazioni bancarie, con le quali Torzi ha ricevuto oltre 400 mila euro dalla European Servicing Company, una società specializzata in cartolarizzazioni. Ma i guai di Torzi non finiscono qui. Perché anche la procura di Milano sta indagando su di lui e, tra gli altri, sull’avvocato Nicola Squillace, con cui collabora spesso. Si parla di almeno tre filoni d’inchiesta e tra le questioni al vaglio dei magistrati ci sono anche i legami del broker con aziende in odore di ‘ndrangheta. C’è Torzi nell’inchiesta sulla società di mutuo soccorso Cesare Pozzo, depredata per anni, non solo attraverso un sistema di fatture false: lavori di ristrutturazione affidati a imprenditori calabresi legati alla criminalità e che non venivano mai eseguiti. Ma anche e soprattutto dietro i 15 milioni della Pozzo investiti in titoli di diritto lussemburghese. Alla base di questi prodotti molto strutturati ci sarebbe anche un complesso sistema di cartolarizzazioni di crediti della sanità calabrese (da quel che emerge di dubbia esigibilità, se non addirittura fasulli), emessi da società che, secondo un’inchiesta della procura di Catanzaro, sarebbero, appunto, infiltrate dalla ‘ndrangheta.

Lo sterco del diavolo. Report Rai PUNTATA DEL 12/04/2021 di Giorgio Mottola, collaborazione di Norma Ferrara e Giulia Sabella, immagini di Tommaso Javidi. Da anni Papa Francesco ha avviato una battaglia interna al Vaticano per portare trasparenza nei conti della Santa Sede. Ma la resistenza interna continua a essere forte: troppi sono gli interessi finanziari in ballo. Un’inchiesta esclusiva di Report documenta come gli scandali all’ombra del Cupolone non si fermano nemmeno davanti ai Santi. Secondo una denuncia inedita raccolta dalla trasmissione, all’interno della Congregazione per le cause dei santi, la commissione vaticana che gestisce i processi di canonizzazione, un alto funzionario avrebbe chiesto una tangente per avviare il processo di beatificazione di un candidato molto noto e amato. Una vicenda avvenuta mentre il prefetto della Congregazione per le cause dei santi era il cardinale Giovanni Angelo Becciu, l’ex sostituto della Segreteria di Stato dimessosi lo scorso settembre dopo le accuse di peculato. Con documenti inediti e testimonianze esclusive Report ricostruirà gli investimenti finanziari realizzati dalla Segreteria di Stato negli ultimi anni, a partire dall’acquisto degli ex magazzini Harrod’s di Londra, un palazzo costato al Vaticano oltre 400 milioni di euro e che oggi varrebbe non più di 290 milioni. Dietro agli investimenti opachi fatti con i soldi dei fedeli, si nasconderebbero uomini d’affari spregiudicati, faccendieri, religiosi corrotti e una guerra all’interno dei servizi segreti italiani.

“LO STERCO DEL DIAVOLO”. Di Giorgio Mottola Collaborazione Norma Ferrara, Giulia Sabella Immagini Tommaso Javidi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO C’è un investimento che la Segreteria di Stato vaticana ha effettuato con i soldi delle donazioni dei fedeli ed è rimasto fino ad oggi inedito. Si tratta di un fondo altamente speculativo che scommetteva sull’arrivo di una catastrofe, di una guerra o di una pandemia. Un hedge fund in cui la Segreteria di Stato ha messo i soldi tramite un broker che da Lugano ha gestito per anni quasi un quarto del tesoro vaticano.

GIORGIO MOTTOLA Era un investimento che avrebbe reso tanto se fosse accaduto qualcosa di catastrofico?

ENRICO CRASSO – BROKER Abbiamo investito in un fondo della Invesco che prevedeva proprio dei rischi ambientali, di guerra, non pensavamo mai a una pandemia. E abbiamo investito circa l’8 per cento del patrimonio del fondo, circa 4 milioni, proprio in uno strumento di questo genere. E credo che veramente sia stata veramente un’ottima strategia, perché poi scoppiò, ahimè purtroppo la pandemia, e questo fondo cominciò a salire tantissimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il fondo Georisk era gestito dalla Banca d’affari Morgan Stanley. Garantiva profitti altissimi in caso di crisi geopolitiche o pandemiche, grazie alla speculazione sulle valute internazionali. E infatti con l’esplosione del coronavirus i rendimenti del fondo sono schizzati alle stelle. Molto più in alto di quanto avesse previsto Morgan Stanley, che infatti dopo i primi mesi di pandemia ha dovuto chiuderlo.

ENRICO CRASSO – BROKER Dovranno rispondere di questo perché a febbraio, quando scoppiò la pandemia, il fondo fece un salto.

GIORGIO MOTTOLA Era arrivato a quanto?

ENRICO CRASSO – BROKER Aveva fatto quasi il 20 per cento in un giorno. Tenga presente che il periodo successivo ci sarebbe stato un rendimento… non dico che avrebbe triplicato il valore, ma almeno raddoppiato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un investimento sulla pandemia. Ecco, è quanto ci ha confessato un broker che è stato per anni l’angelo custode di parte del tesoro vaticano. Enrico Crasso ci ha detto che, nel 2018, ha avuto mandato di investire a titolo di assicurazione sul portafoglio 4,3 milioni di euro della Segreteria di Stato Vaticana sul fondo Georisk. Il responsabile degli investimenti è il cardinale Angelo Becciu. Per il suo potere veniva anche nominato sottovoce “il papa italiano”. Angelo Becciu è stato anche a capo di un fondo particolare: dal 2011 al 2018 ha gestito la cassaforte dell’Obolo di San Pietro. Cioè quel posto dove confluivano le decine di milioni di euro delle donazioni che i fedeli facevano direttamente al Papa. Dopo alcune anomalie che sono emerse intorno al 2018, Papa Bergoglio sposta 2 il cardinale Becciu e lo mette a capo della Congregazione delle Cause dei Santi. Viene nominato prefetto. È un’istituzione che papa Bergoglio vuole riformare perché in alcuni casi i processi di canonizzazione avevano raggiunto delle cifre scandalose. Aveva messo anche un tetto ai compensi di quelle persone che seguono la causa di canonizzazione che avevano stipendi anche molto alti. Nonostante il pugno di ferro di Bergoglio, però intorno ai processi di canonizzazione si muovono interessi e personaggi oscuri. E la fabbrica dei santi continua ad essere la fabbrica dei veleni. In questi anni si stava svolgendo il processo di beatificazione di Aldo Moro, lo statista ucciso dalle Br. Il centro studi Moro aveva affidato la pratica al postulatore Nicola Giampaolo. Stava andando tutto liscio quando all’improvviso qualcosa si inceppa e, in beffa al proverbio, qualcuno ha iniziato a giocare con i santi. Il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Un tempo per raggiungere la santità era sufficiente che la grazia divina discendesse a rischiarare il cammino del futuro santo, facendo della sua vita un simbolo del messaggio evangelico. Per questo santi e beati erano molto rari. Dal 1600 al 1978 nella storia della chiesa sono stati riconosciuti poco più di 300 santi. Poi è arrivato Karol Wojtyla. E in meno di 25 anni il numero dei santi della Chiesa cattolica arriva quasi a triplicarsi. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II vengono infatti proclamati ben 482 nuovi santi e 1341 nuovi beati.

GIORGIO MOTTOLA È con Wojtyla che la Congregazione diventa una vera e propria fabbrica di santi, insomma?

ALBERTO MELLONI - PROFESSORE ORDINARIO STORIA DEL CRISTIANESIMO UNIMORE I meccanismi sono saltati durante il pontificato di Giovanni Paolo II, il quale ha trasformato i santi da - se si può dire con una certa irriverenza - beni molto durevoli, se non eterni, in beni a rapidissimo consumo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per decidere chi ha diritto al titolo di santo o di beato la Chiesa istruisce un vero e proprio processo. Prove di miracoli, racconti di martirii e testimonianze di fede eccezionale vengono giudicati qui, in questo tribunale speciale del Vaticano che sorge di fronte alla basilica di San Pietro: la Congregazione delle Cause dei Santi.

ALBERTO MELLONI - PROFESSORE ORDINARIO STORIA DEL CRISTIANESIMO UNIMORE A me capitò di collaborare alla causa di beatificazione di Papa Giovanni XXIII e mi fece sempre molto ridere il fatto che il segretario generale di allora, un domenicano austriaco, Padre Ambrosius Hetzer, la prima volta che mi ricevette in congregazione mi disse: “Venga nella madre di tutte le tangenti!”.

GIORGIO MOTTOLA Padre Hetzer definiva la Congregazione la madre di tutte le tangenti?

ALBERTO MELLONI - PROFESSORE ORDINARIO STORIA DEL CRISTIANESIMO UNIMORE Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dai documenti interni della Congregazione pubblicati dai giornalisti Nuzzi e Fittipaldi è emerso che il costo di alcune cause, come quella del beato Antonio Rosmini, è arrivato a sfiorare il milione di euro. Ed è cresciuto anche il compenso dei postulatori, vale a dire gli avvocati difensori che rappresentano il candidato alla santità in Congregazione. Insomma per diventare santi, oggi i miracoli potrebbero non bastare. Serve innanzitutto un buon postulatore.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE No, non bastano i miracoli.

GIORGIO MOTTOLA C’è anche il fattore economico?

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Ah, il fattore economico… molti sì. Abbiamo uno staff di persone che lavorano seriamente. Teologi, storici. Per quanto riguarda il riconoscimento del miracolo bisogna mettere su anche la commissione medica.

GIORGIO MOTTOLA Dicono che anche le parcelle dei postulatori siano molto salate.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Eh, dicono tutti così, ma ahimè non so perché. Ci sono parcelle particolari, poi, caro dottor Mottola, ognuno deve rispondere a nostro Signore un domani, prima o poi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicola Giampaolo è un postulatore di professione. Da anni sta portando avanti la causa di beatificazione di Aldo Moro. Il presidente della Democrazia Cristiana ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia. Per salvarlo Paolo VI si spese in prima persona.

PAOLO VI – FUNERALI DI ALDO MORO 13/5/1978 O Dio della vita e della morte, tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2012, Aldo Moro è stato proclamato servo di Dio, primo passo per diventare beato. La causa sembrava viaggiare spedita, ma poi è arrivata un’improvvisa battuta d’arresto.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Ahimè la causa è stata momentaneamente sospesa.

GIORGIO MOTTOLA Come mai?

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Perché vedevo forti pressioni dall’esterno verso la causa e nello stesso tempo era a rischio gli interessi supremi della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La beatificazione di Moro si complica nel 2018 con la comparsa di un secondo postulatore. Si tratta di Gianni Festa, un frate domenicano che spunta fuori dopo che i promotori della causa di Moro revocano a Giampaolo l’incarico.

GIORGIO MOTTOLA A un certo punto nasce quasi una faida per chi deve beatificare Moro.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Si, probabilmente c’erano troppi interessi dietro un processo di beatificazione e canonizzazione.

GIORGIO MOTTOLA Intende soldi?

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Avevo sentito anche di interessi da parte… intrufolamenti della Banca Popolare di Bari. Si sarebbe costituita una fondazione per poi maneggiare probabilmente un bel po’ di soldi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I soldi sarebbero quelli raccolti dai comitati che si costituiscono per coprire le spese del processo in Congregazione. Più noto è il candidato, maggiore è la generosità dei fedeli nelle donazioni. Per questo interviene la figlia di Aldo Moro, l’ex senatrice Maria Fida. Con una lettera a Papa Francesco, indica Giampaolo come postulatore ufficiale della famiglia e chiede alla Congregazione di interrompere la beatificazione di Moro, denunciando infiltrazioni anomale e ributtanti.

MARIA FIDA MORO - FIGLIA DI ALDO MORO C’è un limite a tutto, anche alla cattiveria. Se delle persone cattive vogliono guadagnare non sull’agonia di una persona buona gentile, amorevole.

GIORGIO MOTTOLA Ma questo secondo postulatore l’ha mai contattata, ha mai provato…

MARIA FIDA MORO - FIGLIA DI ALDO MORO No… Ipotizzo io che questo sia stato proprio turlupinato. Direi che lui era forse anche in buona fede tanto è vero che si è dimesso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dopo la lettera di Maria Fida Moro, il secondo postulatore, Gianni Festa, si dimette. Ma i problemi rimangono. La causa di beatificazione di Aldo Moro infatti in Congregazione non sembra decollare.

POSTULATORE ANONIMO C’era una ragione precisa. Un alto funzionario della Congregazione ha chiesto al postulatore Giampaolo un contributo per velocizzare la pratica.

GIORGIO MOTTOLA Un contributo? cioè una mazzetta?

POSTULATORE ANONIMO Sì, per oliare gli ingranaggi della Congregazione e far filare liscia la pratica di Moro.

GIORGIO MOTTOLA A quanto ammonterebbe questo contributo che è stato chiesto a Giampaolo?

POSTULATORE ANONIMO A quanto ho sentito, 80mila euro.

GIORGIO MOTTOLA Le è mai arrivata qualche richiesta, diciamo economica, per velocizzare i processi di cui lei...

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE No, non ho mai trovato disonesti.

GIORGIO MOTTOLA Sappiamo che sarebbe arrivata una richiesta economica precisa nei suoi confronti.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Per quale?

GIORGIO MOTTOLA Per la causa di beatificazione di Aldo Moro, per velocizzarla.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Lei sa molto, probabilmente.

GIORGIO MOTTOLA Corrisponde al vero che le è arrivata una richiesta economica?

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Per questo ho detto andiamo avanti.

GIORGIO MOTTOLA Quanti soldi le sono stati chiesti di pagare?

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Non lo avrei mai fatto.

GIORGIO MOTTOLA Ci è stata detta come cifra 80 mila euro, è corretta?

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Se le dico: è avvenuta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La richiesta della tangente sulla causa di Moro sarebbe avvenuta nel giugno del 2018, periodo in cui capo della Congregazione era stato da poco nominato il cardinale Giovanni Angelo Becciu.

GIORGIO MOTTOLA La richiesta avveniva…

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE A nome di Becciu, sì.

GIORGIO MOTTOLA A nome di Becciu è stata fatta questa richiesta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il postulatore non ci rivela il nome di chi ha chiesto gli 80 mila euro, spendendo in modo probabilmente illegittimo, il nome del cardinale Becciu. Ma dopo l’intervista scopriamo che Nicola Giampaolo ha presentato una denuncia al Papa e in Congregazione, dove comparirebbe anche il nome del presunto concussore.

GIORGIO MOTTOLA Da chi è arrivata questa richiesta?

POSTULATORE ANONIMO Dicono che sia un alto funzionario della Congregazione, un prelato.

GIORGIO MOTTOLA Un prelato, quindi un prete. Come si chiama?

POSTULATORE ANONIMO Boguslaw Turek.

GIORGIO MOTTOLA Sono tornato a trovarla.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE A me?

GIORGIO MOTTOLA Sì. Perché l’altra volta nell’intervista era stato un po’ reticente.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Uh, non ti ho detto nulla?

GIORGIO MOTTOLA Mi ha detto il peccato ma non il peccatore.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Chi è la persona che le ha chiesto questi 80 mila euro?

GIORGIO MOTTOLA Un importante ufficiale. Un nome che ci è stato fatto è Boguslaw Turek, il sottosegretario della Congregazione per le Cause dei Santi.

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE È informatissimo, è più informato di me.

GIORGIO MOTTOLA 7 È lui il soggetto che le ha chiesto di pagare questi 80mila euro per accelerare la causa di Aldo Moro?

NICOLA GIAMPAOLO - POSTULATORE Diciamo di sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Boguslaw Turek, prete di origine polacche, è sottosegretario della Congregazione delle Cause dei Santi. È l’uomo incaricato di valutare i miracoli dei candidati alla santità.

GIORGIO MOTTOLA Ci hanno detto che avrebbe chiesto dei soldi per velocizzare la pratica di beatificazione di Aldo Moro.

BOGUSLAW TUREK – SOTTOSEGRETARIO CONGREGAZIONE CAUSE SANTI No, assolutamente no. No a parte che da noi non esiste la causa di Aldo Moro in Congregazione.

GIORGIO MOTTOLA Però era cominciato il percorso. Aldo Moro era già servo di Dio.

BOGUSLAW TUREK – SOTTOSEGRETARIO CONGREGAZIONE CAUSE SANTI No, no assolutamente e poi guardi nemmeno commento delle domande del genere.

GIORGIO MOTTOLA Perché Giampaolo dice che lei gli avrebbe chiesto 80 mila euro per velocizzare la pratica di…

BOGUSLAW TUREK – SOTTOSEGRETARIO CONGREGAZIONE CAUSE SANTI No, no.

GIORGIO MOTTOLA No?

BOGULSAW TUREK – SOTTOSEGRETARIO CONGREGAZIONE CAUSE SANTI No, è una calunnia.

GIORGIO MOTTOLA Perché l’accusa è molto precisa, sarebbe avvenuto nella primavera del 2018.

BOGUSLAW TUREK – SOTTOSEGRETARIO CONGREGAZIONE CAUSE SANTI No, no guardi io a lei non devo dire niente e non ho niente da dire.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche altri postulatori avrebbero fatto segnalazioni ufficiali su comportamenti scorretti tenuti da Turek.

GIORGIO MOTTOLA Questa voce secondo cui Turek chiede soldi per velocizzare le pratiche è una voce che ha sentito anche lei o no?

DON LUIS FERNANDO ESCALANTE - POSTULATORE 8 Si, sì che l’ho sentita.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha scritto una lettera alla congregazione di cui fa parte Turek, è così? Segnalando dei comportamenti scorretti.

DON LUIS FERNANDO ESCALANTE - POSTULATORE Più di una.

GIORGIO MOTTOLA E in una di queste ha fatto riferimento anche a questo giro di soldi…

DON LUIS FERNANDO ESCALANTE - POSTULATORE Ci sono alcune cose che non devono andare…

GIORGIO MOTTOLA È capitato anche a lei che Turek abbia fatto una richiesta, dica la verità.

DON LUIS FERNANDO ESCALANTE - POSTULATORE Io non lo affermo.

GIORGIO MOTTOLA Perché mi fa l’omertoso, don Luis?

DON LUIS FERNANDO ESCALANTE - POSTULATORE Perché ancora non ho parlato con i miei capi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I capi a cui si riferisce il postulatore sono quelli della Congregazione delle Cause dei Santi, che fino allo scorso anno era guidata dal cardinale Becciu.

GIORGIO MOTTOLA Becciu era a conoscenza di queste distorsioni?

DON LUIS FERNANDO ESCALANTE - POSTULATORE Non poteva non conoscerle. Segui quelli che stanno indagando su Becciu. Becciu è un…. Una scatola di pandora.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è proprio il cardinale Becciu a rispondere per primo alla lettera della figlia di Aldo Moro, in cui denunciava le torbide manovre intorno alla beatificazione del padre.

MARIA FIDA MORO - FIGLIA DI ALDO MORO Mi ha risposto. È veramente la lettera più volgare e violenta che io abbia ricevuto.

GIORGIO MOTTOLA Alla sua lettera Becciu risponde...

MARIA FIDA MORO - FIGLIA DI ALDO MORO Come se io fossi pazza… pazza, paranoica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO 9 Invece da Papa Francesco arriva un invito ufficiale per un incontro che si tiene a porte chiuse in Vaticano.

MARIA FIDA MORO - FIGLIA DI ALDO MORO È la prima volta che io mi sono sentita amata.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa le ha detto il Papa?

MARIA FIDA MORO - FIGLIA DI ALDO MORO La cosa che mi ha colpito è che si era studiato per tutti questi mesi queste cose. Io cominciavo una frase e lui la finiva. Quindi, aveva effetivament.. sapeva tutto.

GIORGIO MOTTOLA Ma lei al Papa lei ha parlato di questa lettera che le ha scritto Becciu?

MARIA FIDA MORO - FIGLIA DI ALDO MORO Sì, gli ho detto: non le ho portato la lettera di questo signore per non amareggiarla, la verità. E lui mi ha guardato con aria contrita e mi ha detto mi sembra che sia stato punito debitamente.

GIOVANNI ANGELO BECCIU – EX PREFETTO CONGREGAZIONE DELLE CAUSE DEI SANTI CONFERENZA STAMPA DEL 25/09/2020 Ieri fino alle 6 e 2 mi sentivo amico del Papa, fedele esecutore del Papa e poi ecco, il Papa parlando mi dice che non ha più fiducia in me. Mi ha detto che accettava le dimissioni da prefetto della Congregazione dei Santi e poi mi chiedeva di rinunciare a privilegi da cardinale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella storia della Chiesa è molto raro che un Papa chieda a un suo cardinale di dimettersi. E in questo caso Papa Francesco lo ha fatto con un cardinale d’eccezione. Giovanni Angelo Becciu, uno degli uomini più potenti e influenti della Curia Romana. Per 8 anni è stato, infatti, sostituto della Segreteria di Stato. Al terzo posto nelle gerarchie vaticane dopo il Papa e il segretario di Stato.

ALBERTO MELLONI - PROFESSORE ORDINARIO STORIA DEL CRISTIANESIMO UNIMORE È qualcosa di più, non è esattamente un numero tre è il trattino tra l’uno e il due. È quello che garantisce il rapporto tra il Papa e la macchina per cui in un certo senso è un pari grado del Segretario di Stato, qualche volta più importante del Segretario di Stato stesso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il cardinale Becciu ha gestito i dossier politici più delicati e anche quelli finanziari. In segreteria di Stato, rispondeva a lui un ufficio molto riservato da sempre avvolto nel mistero. È la cosiddetta banca del Papa, la cassaforte che gestisce l’Obolo di San Pietro, vale a dire le decine di milioni di euro di donazioni offerte dai fedeli di tutto il mondo direttamente al Papa. Una montagna di soldi su cui, secondo i magistrati vaticani, negli ultimi anni si sarebbero consumate truffe, ricatti e corruzioni.

PAPA 26/11/2019 VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO IN THAILANDIA E GIAPPONE È passato quello che è passato. Uno scandalo. Hanno fatto cose che non sembrano pulite.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per capire come si arriva alle dimissioni di Becciu bisogna riavvolgere il nastro. Insomma, il postulatore Giampaolo aveva già ottenuto un importante riconoscimento: Aldo Moro servo di Dio. Nel 2018, la pratica di beatificazione di Aldo Moro è incardinata nel vicariato della diocesi di San Giovanni in Laterano. È pronta per ottenere il nulla osta ed entrare nella congregazione delle cause dei santi. È in quel momento che però si inceppa qualche cosa e Giampaolo denuncia per ottenere questo nulla osta per accelerare la pratica. Mi sono stati chiesti dal sottosegretario alla congregazione, Boguslaw Turek, 80 mila euro. E denuncia questo fatto alla Prefettura vaticana e anche a Bergoglio con un esposto. Ora Turek ribadisce la sua totale estraneità alle accuse di Giampaolo. Ci conferma di averlo incontrato in due occasioni, ma riguardavano altri due procedimenti di canonizzazione, non quelli di Aldo Moro. E anche la congregazione ci scrive che non risulta mai cominciato un processo di beatificazione di Moro. Risulta che anche nel 2018 fosse stato revocato il ruolo, il mandato di postulatore a Giampaolo dal centro studi Aldo Moro, cioè da chi lo aveva incaricato. Risulta anche che Giampaolo a un certo punto, quasi per ripicca, avesse presentato una parcella molto salata al centro studi Aldo Moro, di circa 100 mila euro. Equivarrebbe però al lavoro svolto in sei anni. Ora però la questione è questa: la denuncia sulla presunta richiesta di tangenti presentata al Papa si basa su fatti veri o è la vendetta per chi gli impedisce l’accesso ai processi di canonizzazione in Congregazione? Noi non abbiamo gli elementi per capirlo. Spetterà alla magistratura vaticana scoprire se ci sono delle responsabilità. Quello che è certo è che abbiamo respirato un’aria avvelenata. Abbiamo anche sentito altri postulatori parlare di presunti comportamenti scorretti di Turek, e hanno anche detto: il prefetto di allora non poteva non sapere. Angelo Becciu, che hanno anche definito un po’ come il vaso di pandora. Becciu nega ogni responsabilità, coinvolgimento, in questa vicenda e va anche detto che quando la figlia di Moro incontra papa Bergoglio, Becciu si era già dimesso, ma per un altro motivo. Era stato accusato dai magistrati vaticani di peculato. Avrebbe dirottato fondi verso un’associazione che faceva riferimento al fratello in Sardegna, un’associazione che, però – dice lui – faceva riferimento alla Caritas e veniva gestita direttamente dalla diocesi di Ozieri. Noi, il nostro Giorgio Mottola è andato in Sardegna e ha ottenuto la conferma dal nostro vescovo che questo fatto era come aveva raccontato Becciu. Ecco però non è la sola anomalia degli investimenti della Segreteria di Stato. Abbiamo già detto che Becciu è stato responsabile di quel fondo, l’Obolo di San Pietro, centinaia di milioni di euro che derivano dalle elargizioni dei fedeli direttamente al papa Bergoglio. C’è un investimento, in particolare, che è stato fatto in quegli anni: i prelati pensavano di averne fatto uno ottimo, investendo sul mattone, sulla proprietà del palazzo. Si sono ritrovati invece soci di un fondo di un broker abituato a fare scalate spericolate di banche e non tutte sono andate bene. Ha utilizzato anche soldi delle pensione degli ex agenti di commercio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I segreti più reconditi dell’obolo di san Pietro sono custoditi qui in Svizzera, a Lugano. In questa villa a strapiombo sul lago, dove vive Enrico Crasso. Il broker romano a cui la Segreteria di Stato ha affidato le chiavi della sua cassaforte.

GIORGIO MOTTOLA Quanti dei fondi vaticani è arrivato a gestire?

ENRICO CRASSO - BROKER Un quinto, un quarto del patrimonio della Santa Sede.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino al 2014 Crasso ha gestito al massimo 40 milioni di euro. Poi dopo l’arrivo di Becciu, Crasso fa il salto di qualità. Lascia Credit Suisse e fonda una sua società di brokeraggio a cui la segreteria di Stato, durante la gestione Becciu, arriva ad affidare oltre 400 milioni di euro.

ENRICO CRASSO - BROKER Le aspettative giustamente erano per un profilo moderato e pertanto il mio compito è stato facilitato un po’ da questo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Forse però pecca di modestia. Crasso porta a segno alcune operazioni davvero sorprendenti per un cliente dal profilo moderato. Con il suo fondo d’investimento, Centurion, in cui ha spostato una parte dei soldi della Segreteria di Stato, finanzia due produzioni cinematografiche. Tre milioni vanno a Man in Black 3 e un milione a Rocketman, il film sulla vita Elton John, star della musica pop e icona gay.

ENRICO CRASSO - BROKER I promoter volevano fare questo investimento in un film con Oliver Stone, White Lies. Che succede? Verso la fine del 2018 ci comunicano che Oliver Stone non era più disponibile a fare il film, è stata un po’ una doccia fredda, però alla fine i promoter investirono in questi film. Con una performance del 13 per cento. Tra l’altro un film veramente di grande successo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Talmente di successo per le casse della Segreteria di Stato che Elton John ha accusato la chiesa cattolica di ipocrisia. “Da un lato, scrive il cantante, accusa di peccato gli omosessuali, dall’altro guadagna con un film sulla mia vita”, che celebra il mio matrimonio gay.

GIORGIO MOTTOLA Tutti gli investimenti del fondo Centurion sono stati concordati con la Segreteria di Stato…

ENRICO CRASSO – BROKER Nulla è stato fatto di nascosto dal cliente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dentro a questo palazzo di Chelsea, quartiere extralusso di Londra, un tempo sorgevano i magazzini della prestigiosa catena Harrod’s, diventata uno dei simboli della capitale inglese. Oggi però questo gigantesco immobile rappresenta uno dei più controversi investimenti della Segreteria di Stato vaticana. Per acquistarlo ha speso complessivamente oltre 400 milioni di euro, e oggi non ne varrebbe più di 290.

ENRICO CRASSO Stiamo parlando di un asset che è un trofeo, no? Stiamo parlando dei vecchi magazzini Harrods quindi, bellissimo immobile. Il problema ritengo non era tanto la qualità dell’investimento, il problema poi è sorto come è stato gestito il fondo in particolare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La storia di questo palazzo ruota inizia con Raffaele Mincione, uomo di affari, con società basate nel paradiso offshore delle Mauritius specializzato in speculazioni finanziarie e scalate bancarie, è lui nel 2013 a vendere gli ex magazzini Harrod’s alla Segreteria di Stato. A introdurlo negli uffici vaticani è proprio lui, Enrico Crasso

GIORGIO MOTTOLA Da dove spunta fuori il nome di Mincione?

ENRICO CRASSO Era un personaggio che all’epoca godeva di una certa credibilità. Era ben conosciuto in Italia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Chi conosce bene Raffaele Mincione è il vertice di Enasarco, il fondo che gestisce le pensioni degli agenti di Commercio. Fino al 2012 gli hanno affidato 186 milioni di euro, ma non ha lasciato un buon ricordo.

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO Posso dire che a noi ci ha portato via niente.

GIORGIO MOTTOLA 7-8 milioni li avete lasciati sul campo

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO 7 milioni

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO 7 milioni li avete persi

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO Però abbiamo portato a casa l’investimento molto prima di quello che era. La domanda che lei mi deve fare è: ma lei li darebbe i soldi a Mincione? No!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I soldi che Enasarco dà a Mincione per farli fruttare finiscono in Athena, il fondo di investimento dell’uomo d’affari. Ma le pensioni degli agenti di commercio vengono usate per fare la scalata bancaria prima del Monte dei Paschi di Siena e poi della Banca Popolare di Milano.

GIORGIO MOTTOLA Mincione utilizzò i soldi degli agenti di commercio anche per fare le sue scalate bancarie. Ad esempio ci perse, mi pare, 20 milioni di euro se non sbaglio.

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO Cosa ci ha perso lui non lo so

GIORGIO MOTTOLA 13 No, ma erano i vostri soldi questi 20 milioni, non è che li ha persi lui. Li hanno persi sempre gli agenti di commercio.

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO Non è che ci hanno chiesto volete entrare nel Monte dei Paschi di Siena, nella popolare di Milano o cose del genere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che con le banche era andata male, per rimediare alle perdite, nel 2012 Mincione acquista il palazzo di Londra con i soldi delle pensioni degli agenti di commercio.

GIORGIO MOTTOLA Mincione usa i soldi che gli avete affidato, 30 milioni dei soldi che gli avete affidato, quindi dei soldi delle pensioni degli agenti di commercio, per fare quell’operazione?

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO Sì, non è bello da sentire però se l’Enasarco decide di sciogliere le relazioni con questo imprenditore è perché evidentemente ritiene che non sia utile proseguire un rapporto con questo signore

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quindi, visto che Mincione è costretto a restituire tutti i soldi a Enasarco bisogna trovare un’altra gallina dalle uova d’oro che fornisca i fondi per i suoi investimenti. Ed è così che spunta fuori la Segreteria di Stato

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO Piacere e arrivederci, lui se ne va, si porta il suo immobile e va dove sembra che comprino di tutto.

GIORGIO MOTTOLA Alla fine rischiavano di rimetterci i soldi gli agenti di commercio, ci hanno rimesso i soldi i fedeli praticamente.

ANTONELLO MARZOLLA – PRESIDENTE ENASARCO Io andrei a chiedere al Vaticano perché se lo son comprati

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2013 la Segreteria di Stato guidata dal cardinale Becciu investe con Mincione i primi 200 milioni. Ma non finiscono direttamente nell’acquisto del palazzo. Mincione fa confluire i soldi nel suo fondo Athena, che attraverso due società con sede nel paradiso fiscale di Jersey, possedeva il palazzo. Quindi il Vaticano si ritrova socio al 45 per cento di un fondo e non direttamente proprietario dell’immobile. Grazie a questo espediente Mincione può usare il denaro dei fedeli per le sue speculazioni finanziarie. A partire dalle scalate bancarie di Carige e Banca popolare di Milano ENRICO CRASSO Gli era stato raccomandato di non investire nella Banca Popolare di Milano.

GIORGIO MOTTOLA Diciamo che Mincione ha gestito un po’ come pareva i soldi del Vaticano?

ENRICO CRASSO 14 Una parola un po’ troppo… diciamo che aveva autonomia di gestione

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sin dall’inizio il palazzo rende alla Segreteria di Stato molto meno di quanto era stato preventivato. Anche perché le spese di gestione cominciano a lievitare, come il mutuo sull’immobile stipulato da Mincione che raggiunge la cifra monstre del 7 per cento all’anno.

ENRICO CRASSO Lui prendeva i soldi del mutuo, non ha mai pagato una rata di mutuo, accumulava sempre il debito. In più nella gestione dell’immobile abbiamo scoperto che metteva gli affitti a metà prezzo e si faceva pagare a nero… ha gestito, come, posso dire? Come un stupido.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I 200 milioni messi dalla segreteria di Stato nel fondo Athena di Mincione, cominciano ad assottigliarsi. Athena investe quasi 10 milioni in Sorgente Tiziano, un fondo immobiliare, oltre 5 milioni in Retelit, una società di fibra ottica, 16 milioni in Alex srl e altri 2 milioni per la scalata di Banca Carige. Tutti investimenti che si rivelano drammaticamente in perdita. A dicembre 2018, il saldo finale del fondo è di 137 milioni di euro.

ENRICO CRASSO Mincione ha gestito male. Se un gestore gestisce male, il cliente va là e dice senti mi ha rotto le palle, smetti di gestire così. Però qui c’è una persona che era affascinata da Mincione.

GIORGIO MOTTOLA E chi era?

ENRICO CRASSO Monsignor Perlasca, lo faceva proprio perché aveva una paura di dover giustificare ai revisori, era terrorizzato del revisore. GIORGIO MOTTOLA Ma perché?

ENRICO CRASSO Perché gli facevano un culo così grosso, giustamente gli facevano un culo

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Monsignor Perlasca era stato incaricato dalla Segreteria di stato e da Becciu alla gestione degli investimenti. È a lui che Raffaele Mincione avrebbe dovuto rendicontare le spese, come venivano spesi i soldi dei fedeli, i rendimenti del palazzo di Londra. Becciu dice: a me Perlasca non ha segnalato alcuna anomalia. Ora Report è in grado di mostrarvi un documento, in esclusiva, nel quale si evince che la Segreteria di Stato ha dato pieno mandato a Becciu per gestire gli investimenti, e anche per la firma degli investimenti, dei soldi nelle banche svizzere. E poi, in alcune situazioni, Becciu è stato anche il suggeritore di alcuni investimenti, il suggeritore personale. È il caso, nel 2012, di un giacimento petrolifero in Angola. Chiama Crasso e dice: perché non investiamo in questo giacimento petrolifero, e Crasso cosa fa: prende come consulente Mincione, dice “Che 15 dici se prendiamo questo giacimento petrolifero. Mincione fa: “quale giacimento petrolifero, ho io l’affare che fa per voi. Ho un bel palazzo a Londra. E in quest’altro documento che abbiamo e che mostriamo in esclusiva, si evince che è stato proprio Becciu a firmare lo stanziamento, l’investimento di soldi nel fondo Athena di Mincione. Insomma, ricapitolando: gli investimenti venivano autorizzati da Becciu, gestiti da monsignor Perlasca con la collaborazione di un funzionario laico: Fabrizio Tirabassi. Ecco, fate attenzione perché questo non è un funzionario qualsiasi. Tirabassi è l’uomo che, ad un certo punto quando si era compromesso l’affare del palazzo di Londra e bisognava sostituire Mincione, Tirabassi è l’uomo che offre l’exit strategy: porta un nuovo broker, si chiama Torzi e anche in questa vicenda, i prelati continueranno a bruciare milioni di euro per un palazzo che continueranno a non gestire, e questa volta è stato costretto a scendere in campo papa Francesco in persona.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Molto presto in vaticano capiscono che il palazzo di Londra è una bomba che rischia di esplodere. Le voci arrivano persino all’orecchio del Papa

PAPA FRANCESCO – DATA xxxxx È stato il Revisore dei conti interno a dire: qui c’è una cosa brutta, qui c’è qualcosa che non funziona.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È chiaro che bisogna sostituire Mincione. Comincia così una lunga trattativa in cui, alla fine, è costretto a entrare in scena anche Papa Francesco attraverso un suo emissario, Giuseppe Milanese. Imprenditore del settore sanitario, è la prima volta che racconta i retroscena della presunta truffa londinese.

GIUSEPPE MILANESE Io sono amico personale del Santo Padre dal 2003

GIORGIO MOTTOLA È il papa in prima persona che le chiede di entrare nella trattativa?

GIUSEPPE MILANESE Assolutamente sì, il papa dice aiuta, dai una mano perché c’era questo nuovo sostituto.

GIORGIO MOTTOL FUORI CAMPO Nel 2018, Papa Francesco rimuove il cardinale Becciu dalla Segreteria di Stato e nomina un nuovo sostituto: Pena Parra. Ma rimangono al loro posto gli uomini chiave di Becciu: Monsignor Perlasca e il suo funzionario incaricato Fabrizio Tirabassi. È proprio Tirabassi che per fare pressioni su Mincione coinvolge un altro broker, Gianluigi Torzi, basato a Londra e specializzato in cartolarizzazioni di crediti sanitari.

GIUSEPPE MILANESE Torzi come lo vedevi… si presentò con un maglioncino che non arrivava a coprire neanche tra la pancia e il pantalone.

GIORGIO MOTTOLA Però è stato coinvolto in un affare da milioni e milioni di euro.

GIUSEPPE MILANESE 16 Io non gli avrei dato manco un euro

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gianluigi Torzi viene da questo piccolo comune del Molise, Larino, dove con la famiglia gestisce Microspore, una grande industria di fertilizzanti per la quale è indagato per bancarotta.

GIORGIO MOTTOLA Com’è possibile però che venga agganciato proprio Torzi?

GIUSEPPE MILANESE C’è una continuità nel sistema

GIORGIO MOTTOLA Rispetto a Mincione?

GIUSEPPE MILANESE Improvvisamente questi devono vendere il palazzo?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma di certo c’è che Torzi riesce a convincere subito Mincione a cedere le sue quote alla Segreteria di Stato. Il prezzo però non è di favore: nonostante le perdite causate, il broker ottiene in cambio una buonuscita di 40 milioni. Come ha fatto Torzi? Tra i due c’erano da tempo rapporti d’affari molto stretti, come mostrano questi documenti esclusivi, nel 2018 Torzi presta a Mincione oltre 1 milione di euro. E non sarebbero gli unici affari in comune.

ENRICO CRASSO Non è apparso per caso Torzi. Se è vera questa investigazione, ed è vera, che comunque Torzi e Mincione erano in rapporti d’affari già da prima allora lì è una truffa vera e propria, quei due hanno fatto veramente una truffa. Hanno fatto il teatrino come si dice in gergo. Mincione è stato finanziato da Torzi per 13 milioni di euro e non si sa se da quei 40 milioni poi alla fine loro abbiano compensato.

GIORGIO MOTTOLA Proviamo dunque a chiedere spiegazioni direttamente a Torzi al telefono in presenza del suo avvocato, persuadendolo a darci un’intervista.

GIANLUIGI TORZI Marco, quale può essere una soluzione che va bene a noi e va bene anche a loro?

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI Gianluigi, noi siamo assolutamente contrari a che tu rilasci qualsiasi tipo di intervista. Questo è il mio pensiero, non avete nessun bisogno per ricostruire la verità di questa vicenda, sentire la voce di Torzi. Nessuna. Se non esigenze strategiche… GIORGIO MOTTOLA Adesso mi scaldo anche io, non sono d’accordo con lei.

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI È da un mese che glielo dico

GIORGIO MOTTOLA Un conto è sentire un avvocato che è pagato per…

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI Gianluigi fai come ritieni, io lo sai cosa penso: rinuncio al mandato se tu rilasci un’intervista.

GIORGIO MOTTOLA Dove va? Dove va? Dobbiamo fare l’intervista con lei ora. Dove va?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma passa qualche minuto e troviamo una conciliazione con l’avvocato, che conferma i rapporti consolidati tra Torzi e Mincione.

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI Si conoscevano, avevano fatto anche degli affari insieme in passato. GIORGIO MOTTOLA C’erano anche delle pendenze economiche tra Mincione e Torzi.

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI Come avviene sempre nei normali rapporti commerciali.

GIORGIO MOTTOLA L’accusa che fa Crasso è Mincione e Torzi si sono spartiti i soldi.

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI È del tutto infondata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il ruolo di Torzi non si esaurisce nella trattativa con Mincione. La proprietà dell’immobile passa infatti dal fondo Athena di Mincione a una società lussemburghese dello stesso Torzi, la Gut. Di questa società la Segreteria di Stato ha il 96,7 per cento. Ma lo statuto assegna a Torzi il controllo assoluto della gestione del palazzo. La Segreteria vaticana si ritrova punto a capo: continua a bruciare milioni di euro per un immobile che gestiscono altri.

GIORGIO MOTTOLA Come mai nella società Gut vengono lasciate mille azioni...

ENRICO CRASSO Questo non me lo deve chiedere perché io su questo non le rispondo

GIORGIO MOTTOLA Però la segreteria di Stato era consapevole del contratto.

ENRICO CRASSO Se era consapevole, deve chiederlo a loro. Io ho qualche dubbio

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO 18 Ma che la Segreteria di Stato fosse perfettamente consapevole lo dimostra lo statuto della società che Report è in grado di mostrare in esclusiva. L’articolo 1 assegna a Torzi le mille azioni speciali con diritto di voto e di gestione, e sui fogli c’è la firma di monsignor Perlasca. Com’è possibile che la Segreteria di Stato, nonostante le decine di milioni perse, abbia ripetuto il medesimo errore commesso con Mincione? Forse perché a qualcuno in Vaticano conveniva così. Nei documenti giudiziari riservati e finora inediti, Torzi racconta che il funzionario della Segreteria di Stato, Tirabassi, in cambio della gestione gli avrebbe chiesto il pagamento di commissioni fuori busta. Un sistema che sarebbe collaudato nel tempo con Enrico Crasso. Tirabassi avrebbe infatti raccontato che lui e Crasso grazie a società tra Dubai e la Repubblica Domenicana arrivavano a fatturare 20 milioni di euro all’anno con questo tipo di commissioni.

GIORGIO MOTTOLA Ci sarebbero state addirittura delle richieste di commissioni.

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI Effettivamente risulta che Tirabassi e Crasso avessero chiesto delle commissioni per questa gestione. Commissioni che Torzi si è rifiutato di promettere.

GIORGIO MOTTOLA Queste sono vere e proprie mazzette

MARCO FRANCO – AVVOCATO DI GIANLUIGI TORZI Non lo so, lei le definisce come vuole.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo l’accusa di Torzi, sarebbe Crasso in persona durante un viaggio in treno a confermare la triangolazione con Dubai e Santo Domingo e a esplicitargli che la quota spettante a lui e a Tirabassi sarebbe stata del 50 per cento su tutte le commissioni che il broker molisano avrebbe guadagnato sul palazzo.

ENRICO CRASSO Non c’è nulla di più falso.

GIORGIO MOTTOLA Tirabassi avrebbe addirittura raccontato le modalità con cui anche in altri casi avreste chiesto commissioni. ENRICO CRASSO Pensi… pensi se poteva mai dire a Torzi un cosa di questo genere.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei e Tirabassi non avevate società in Dubai che triangolavano con la Repubblica Domenicana?

ENRICO CRASSO Assolutamente no, nel modo più assoluto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma durante le trattative sul palazzo, due avvocati d’affari avrebbero provato a corrompere anche l’emissario del papa Giuseppe Milanese, facendogli capire che poteva partecipare alle stesse triangolazioni offshore

GIORGIO MOTTOLA Questa triangolazione di soldi che arrivavano tra Dubai e la Repubblica Domenicana, c’è da crederci?

GIUSEPPE MILANESE Quella riunione della sera del 5, quando mi facevano capire che io sarei potuto essere della partita… io glielo chiesi… e come? Da Santo Domingo a…. La loro capacità di girare soldi con Crasso… questi c’hanno lussemburghesi…

GIORGIO MOTTOLA Quindi di questi soldi su cui ci accordiamo, puoi far parte anche tu della partita e girano così

GIUSEPPE MILANESE Loro parlavano di spese ulteriori ci sono tante altre spese

GIORGIO MOTTOLA Intendendo stecche…

GIUSEPPE MILANESE Eh! Cioè, cercando di capire, da… a…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stando a quanto ha dichiarato Torzi ai magistrati, Tirabassi gli avrebbe raccontato che il sistema delle commissioni offshore andava avanti da anni in Segreteria di Stato e che il suo potere di gestione dei soldi dell’Obolo di San Pietro gli veniva attribuito in quanto era in possesso di materiale audio visivo su alcuni prelati, facendo esplicito riferimento al suo potere di influenza sul Cardinale Becciu.

GIORGIO MOTTOLA Ci sono altre male lingue secondo cui Tirabassi avesse materiale compromettente su molti prelati…

GIUSEPPE MILANESE Lo so bene

GIORGIO MOTTOLA Su Pena parra, aveva materiale? Aveva materiale compromettente?

GIUSEPPE MILANESE Annuisce

GIORGIO MOTTOLA Ma è possibile che Tirabassi avesse sotto ricatto…?

GIUSEPPE MILANESE Guarda lì c’è un sistema di ricatti pazzesco

GIORGIO MOTTOLA Non riesco a capire se questa è una storia in cui i preti sono in qualche modo vittima, i preti sono complici?

GIUSEPPE MILANESE Io di vittime qui non ne vedo. Qui l’unica vittima è il Papa

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo il papa nel dicembre del 2018 decide di chiudere in prima persona la partita e chiede a Milanese di organizzare in Vaticano un incontro con Torzi per il giorno di Santo Stefano con lo scopo di convincerlo a mollare la gestione dell’immobile di Londra

GIUSEPPE MILANESE Il santo padre dice fateli venire qui e chiudiamo l’accordo e di fronte al Santo Padre c’è un accordo verbale in cui il papa dice proprio testualmente chiudete questa cosa con il giusto salario.

GIORGIO MOTTOLA E il papa lo dice davanti a lei, Torzi

GIUSEPPE MILANESE E Pena Parra

GIORGIO MOTTOLA E Pena Parra. E qual era il giusto salario?

GIUSEPPE MILANESE Che sui 3 milioni si poteva chiudere. Io quel giorno devo dirti che esco con la sensazione che si poteva chiudere. Io dico: guardate che si può fare anche un contratto

GIORGIO MOTTOLA Una scrittura privata…

GIUSEPPE MILANESE A mano, fissiamoci questi concetti. No, lo facciamo dopo e…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma l’accordo sui 3 milioni concordato davanti al Papa salta presto. Pochi giorni prima davanti all’hotel Bulgari di Milano, Torzi incontra il broker Enrico Crasso e il solito funzionario della segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi che comunica a Torzi la decisione di farlo uscire dalla gestione del Palazzo Audio Hotel Bulgari

GIANLUIGI TORZI Io me ne posso anche uscì, però Fabrì devo essere pagato. Dammi 10 milioni e me ne vado, dammi 8 milioni. Che cazzo ti devo dì. Se mi dai due milioni, ti dico mi hai cacato in mano perché io ho dato 3 milioni e mezzo solo a Raffaele, ho il bonifico

FABRIZIO TIRABASSI Io c’ho 5 milioni disponibili e non ne ho più.

GIANLUIGI TORZI Ci so 50 milioni che mancano qua Fabrì, ‘ndo stanno? Porta 50 milioni e parliamo di quello che vuoi tu.

FABRIZIO TIRABASSI Sai che non è così, dai

GIANLUIGI TORZI Tu lo sai che su questa operazione c’è tutto il mondo, si?! Ci sono i servizi vostri, quelli inglesi. Questa cosa va fatta come ti dico io e nessuno si fa male perché non è che Gianluigi è caduto dal cielo e vi ha salvato l’operazione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Investire i soldi dell’Obolo di san Pietro, dice lo stesso Papa Bergoglio non c’è nulla di male, appartiene alla buona amministrazione ma non puoi investire su una fabbrica di armamenti. Deve essere un investimento sicuro, a breve termine, non può essere speculativo, soprattutto deve essere etico. Certo fa un po’ impressione vedere Papa Francesco in persona costretto a mettersi seduto intorno ad un tavolo per una trattativa con questi broker che abbiamo visto. E tuttavia, Torzi, secondo quello che ci dice l’imprenditore milanese, quello che si è occupato della vicenda del palazzo per conto del Papa, non ha rispettato gli accordi. È uscito grazie al compenso di 15 milioni di euro, elargiti dalla segreteria di stato Vaticano. Insomma alla fine l’operazione del palazzo di Londra, tra la gestione Mincione e quella Torzi, è costata allo stato Vaticano 400 milioni di euro. Per un palazzo che oggi ne vale 290. Ma perché i prelati commettono sempre lo stesso errore? Investire su un palazzo che poi lasciano in gestione ad altri? Una chiave di lettura la offre lo stesso Torzi ai magistrati e dice che Tirabassi gli avrebbe chiesto, in cambio della gestione, delle commissioni attraverso delle società offshore. Ecco, era un sistema collaudato quello che dice Torzi, grazie al quale con Crasso, confida a Tirabassi avrebbero fatturato ogni anno 20 milioni di euro di commissioni. Crasso e Tirabassi smentiscono, ma una piccola conferma ci arriva invece dall’imprenditore milanese, quello che ha curato la vicenda del palazzo per conto di Papa Francesco, che dice: guardate, quando c’è stata la vicenda del palazzo, due legali mi hanno offerto anche a me di entrare nella partita proprio attraverso dei compensi che arrivavano dalle stesse società offshore. Ecco, oggi Torzi, Mincione e Crasso sono accusati di truffa. Secondo il tribunale londinese non si può parlare di truffa perché su quella vicenda del palazzo la segreteria di Stato era costantemente informata. Mentre invece è accusato di abuso d’ufficio Monsignor Perlasca e Tirabassi invece di concorso in peculato. Il potere a questo funzionario laico da dove veniva? E ancora una volta Torzi a dare una chiave di lettura e dice ai magistrati: guardate che Tirabassi mi ha confidato che il suo potere derivava dal fatto di avere in mano documenti audio e video compromettenti per alcuni prelati. È un’accusa grottesca, dice Tirabassi, e abbiamo capito che insomma, è il momento di tirarsi gli stracci in faccia. Ognuno nega le responsabilità, le attribuisce ad altri e per noi sono tutti innocenti, almeno fino a quando stabilirà le responsabilità la magistratura vaticana. Però una cosa l’abbiamo sentita con le nostre orecchie: quegli audio registrati, dove in un colloquio tra Tirabassi e Torzi, si parla di un interesse sei servizi segreti intorno al palazzo londinese, ecco. Proprio quello dei servizi di sicurezza, l’ultimo capitolo di questa storia. Forse quello più misterioso. Il personaggio è una donna, Cecilia Marogna, spunta dal nulla, è al servizio personale del cardinale Becciu e gioca a fare la Mata Hari. Un po’ come l’alta marea che ci restituisce dal passato alcuni relitti, questa volta con dei fantasmi inclusi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Di come venissero spesi i soldi dell’obolo di San Pietro donati dai fedeli, in Vaticano in molti erano al corrente. A cominciare da alcune misteriose figure che nelle stanze della Santa Sede sono dedite alla raccolta di segreti.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Io sono a conoscenza di tante cose, la maggior parte delle quali ritengo che siano un patrimonio che io debba tenere riservato. Io sono una persona con relazioni importanti in Italia e all’estero, qualsiasi tipo di mondo. Per cui per me non era difficile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Francesca Immacolata Chaouqui è una lobbista, nominata nel 2013 da papa Francesco commissaria di Cosea, la commissione istituita per la riforma delle finanze vaticane. Due anni dopo, viene arrestata dalla gendarmeria con l’accusa di aver divulgato segreti della Santa Sede.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Dopo l’arresto io posso dire di aver concentrato tanti anni della mia vita a capire cosa accadeva là dentro. Ho iniziato a cercare le prove di quello che accadeva.

GIORGIO MOTTOLA Quindi ha raccolto informazioni?

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Ho raccolto informazioni. Sicuramente il cardinale Becciu non potrà più fare male a nessuno.

GIORGIO MOTTOLA Però la raccolta di segreti, in altri termini, si chiama anche dossieraggio. C’è lei dietro quello che è successo a Becciu?

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Vorrei tanto poterlo dire, ma purtroppo non è così.

GIORGIO MOTTOLA Lei però sembra che fosse a conoscenza di tutto prima che scoppiasse il caso.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Sembra da che cosa se posso chiederlo?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando ancora in pochi in Vaticano conoscevano la vicenda di Londra, il 28 settembre del 2017, Francesca Chaouqui manda un messaggio al cardinale Becciu con riferimenti molto precisi. L’unica cosa che può nuocerti davvero - scrive la lobbista gli affari con Tirabassi, Crasso e Mincione con i soldi dell’Obolo - la tengo per me. Io non ti Odio. Ascolta. Ti offro la pace per la seconda volta.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Quando scrivo quel messaggio nel 2017 ancora non avevo chiaro i contorni, i contorni della vicenda.

GIORGIO MOTTOLA Però i personaggi li ha beccati tutti. Crasso, Tirabassi, Mincione, sembrava informatissima.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Beh, diciamo che sono mediamente intelligente. GIORGIO MOTTOLA Il messaggio che scrivi sembra più una minaccia che rivolgi a Becciu.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY No, io non sono un tipo che minaccia. Nel momento in cui devo fare del male lo faccio.

GIORGIO MOTTOLA Se rileggiamo il messaggio dici: l’unica cosa che può nuocere davvero la tengo per me. Io non ti odio, ti offro la pace.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Ma il cardinale accettò la mia offerta di pace.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Offre la pace, ma nello stesso messaggio Chaouqui chiede al cardinale Becciu di incontrare il Papa e di riavere la tessera della spesa e della benzina del Vaticano. A queste condizioni, scrive, hai la mia parola che tutto finisce. Mai più guerra tra noi.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Era un simbolo materiale, un segno materiale che diciamo di tutto a posto.

GIORGIO MOTTOLA Di potere. FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY No no di potere, di riconciliazione chiamiamola così con le istituzioni della Santa Sede.

GIORGIO MOTTOLA Se ha un giudizio così negativo dell’operato e della figura del cardinale Becciu, perché ha tentato di fare la pace con lui.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY Alcune delle cose che il cardinale Becciu compie, non si erano ancora compiute. Per esempio in quel momento in cui scrivo quel messaggio il cardinale Becciu, non aveva ancora conosciuto Cecilia Marogna.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO 24 Cecilia Marogna è una delle donne di fiducia del cardinale Becciu. È a lei che il porporato affida la raccolta di segreti dentro e fuori dal Vaticano.

GIORGIO MOTTOLA Da Becciu le viene chiesto di fare dossieraggio praticamente.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Sì, chiamiamolo dossieraggio, sì.

GIORGIO MOTTOLA Su figure interne al Vaticano questi sono i suoi primi incarichi.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Anche sì. Dal discorso poi delle condotte amorali di alcuni alti prelati.

GIORGIO MOTTOLA Lei era un servizio segreto parallelo insomma.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Chiamiamolo così, in interazione con gli altri servizi segreti paralleli internazionali.

GIORGIO MOTTOLA Sembra un film spy complottista.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Sì, il discorso è questo, sì, esatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come dimostra questo documento esclusivo a Cecilia Marogna il cardinale Becciu conferisce un incarico ufficiale presso la Segreteria di Stato come analista Geopolitico.

GIORGIO MOTTOLA Lei si dice esperta di geopolitica, come ha maturato questa esperienza.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Da autodidatta, girando, viaggiando.

GIORGIO MOTTOLA Quindi, autodidatta… quindi non è laureata.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO No.

GIORGIO MOTTOLA Come entra in contatto con il Vaticano. È estremamente complicato avere rapporti diretti con le alte gerarchie ecclesiastiche.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Scrissi una mail, tranquillamente, nel 2016.

GIORGIO MOTTOLA Lei scrive una mail e Becciu decide di riceverla.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Sì.

GIORGIO MOTTOLA Devo dire, sembra poco credibile, che...

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Lo so, son curioso me lo disse subito perché una giovane donna, soprattutto, indipendente tratta questi temi così violenti, così particolari.

GIORGIO MOTTOLA Come ha fatto Cecilia Marogna ad entrare nell’orbita del cardinale Becciu.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI – AMMINISTRATORE DELEGATO VIEWPOINTSTRATEGY So che sicuramente delle persone gliel’hanno presentata e il cardinale ha deciso di fidarsi di lei.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima di iniziare a collaborare con la Segreteria di Stato Cecilia Marogna era molto addentro agli ambienti della massoneria italiana. Da giovanissima era entrata infatti nel direttivo del movimento Roosevelt, l’organizzazione politica fondata da Joele Magaldi, massone del Grande oriente di Italia e Maestro Venerabile.

GIORGIO MOTTOLA Lei sembra molto vicina agli ambienti massonici.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Per deformazione professionale ovviamente sì. Mi son sempre avvicinata allo studio della massoneria, dell’esoterismo, della Kabalha.

GIORGIO MOTTOLA Nel suo percorso ha anche conosciuto, frequentato, Gianmario Ferramonti.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Joele mi fece conoscere Gianmario Ferramonti, Flavio Carboni e anche il Pazienza proprio per… come tasselli.

GIORGIO MOTTOLA Un bel Pantheon, Ferramonti, Pazienza.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Beh, sì, in Italia sì.

GIORGIO MOTTOLA Manca un nome, Bisignani. Ha conosciuto anche lui?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO L’ho conosciuto una volta Bisignani…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Luigi Bisignani, Flavio Carboni, Francesco Pazienza e Gianmario Ferramonti sono legati al mondo della Massoneria un tempo vicina alla loggia P2 di Licio Gelli. In particolare Ferramonti in una recente intervista che ci ha rilasciato si definiva così.

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Io mi considero un gelliano.

GIORGIO MOTTOLA Lei si considera un gelliano, addirittura?

GIANMARIO FERRAMONTI - EX POLITICO LEGA NORD Sì, son stato amico di Gelli anche gli ultimi anni della sua vita. Gli ultimi quattro capodanni li ho passati a villa Wanda, assieme a lui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ex braccio Destro dell’ideologo della lega Gianfranco Miglio, negli anni 90 fu il trait d'union tra la lega nord e le leghe meridionali di vito Ciancimino e il tesoriere di Totò Riina, Pino Mandalari. Ferramonti recentemente sembra aver puntato su Italia Viva e sulla caduta del governo Conte. Ci confida di aver fatto pressioni a metà dicembre sull’onorevole Boschi per aprire la crisi.

GIORGIO MOTTOLA Mi hai detto l’altra volta al telefono che continui a essere in buoni rapporti con Maria Elena? anche per questa crisi vi siete sentiti.

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Diciamo che con la Boschi ho una corrispondenza.

GIORGIO MOTTOLA Ma tu continui veramente a parlarci.

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Ci scriviamo non ci parliamo.

GIORGIO MOTTOLA E la stai consigliando anche su questa fase?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Beh gli avevo dato una piccola notizia che se buttavano giù sto cretino di Conte magari gli davamo una mano vediamo.

GIORGIO MOTTOLA Ma gli davate una mano chi voi?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Allora qui hai un rappresentante di Confimpresa. Qui hai un rappresentante di Confimea, della Cifa. Insieme qualche milioncino di voti ce lo abbiamo no? E se decidiamo di…

GIORGIO MOTTOLA Spostarli sulla Boschi?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD Chi sarà al momento giusto al posto giusto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’onorevole Boschi conferma di aver ricevuto le pressioni da Ferramonti ma di non aver mai risposto. Chi invece rivendica gli stessi rapporti con Ferramonti è Cecilia Marogna.

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD È una brava ragazza, intelligente e furba.

GIORGIO MOTTOLA Tu che ruolo hai avuto?

GIANMARIO FERRAMONTI – EX POLITICO LEGA NORD È venuta a qualcuna delle mie cene romane. Io c’è stato un periodo 3 o 4 anni fa che organizzavano delle cene a Roma ogni 15 giorni, facevano a gara per esserci. Ma non roba da 10-15 ma 80-100 persone.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fatto sta che proprio grazie alle sue capacità relazionali, il cardinale Becciu affida a Cecilia Marogna il delicato compito di gestire i rapporti tra la Segreteria di Stato e i servizi segreti.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha veramente rapporti con i servizi segreti italiani?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Si, con le due cariche, il generale Carta e il generale Caravelli che tra l’altro fui io a portare in Vaticano a conoscere sua eminenza Becciu.

GIORGIO MOTTOLA Fa da intermediario per i vertici dei servizi segreti italiani?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Mi è stato chiesto perché era il periodo storico in cui c’era il cambio dei vertici.

GIORGIO MOTTOLA Le viene chiesto un interessamento presso il cardinale Becciu rispetto a queste nomine?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Entrambi non hanno mai chiesto niente di preciso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2018 il governo giallo verde di Conte, Di Maio e Salvini, stava per rinnovare i vertici dell’Aise il nostro servizio di sicurezza per l’estero. I due vicecapi Luciano Carta e Giovanni Caravelli incontrano il Cardinale Becciu, con la mediazione della Marogna. Poco tempo dopo conferma Caravelli vice e promuove Luciano Carta a direttore dell’Aise. Con Carta, la Marogna avvia una fitta corrispondenza.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Queste sono le comunicazioni avvenute tra me il generale e il suo uomo di fiducia.

GIORGIO MOTTOLA 28 Il generale Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Esattamente.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa c’è in queste conversazioni?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Dei confronti e soprattutto una cooperazione che è durata per un lasso di tempo abbastanza importante.

GIORGIO MOTTOLA Addirittura cooperazione? Lei ha cooperato con i servizi?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Esatto.

GIORGIO MOTTOLA In che tipo di operazioni?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Diversi tipi di operazione relative a quelle che sono stati i casi di sequestro di persona.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nelle conversazioni, che la Marogna scambia con il capo dell’Aise ci sono alcuni messaggi in cui lo informa sull’andamento del sequestro di Padre Pierluigi Maccalli, che in quel periodo era stato sequestrato in Niger da un gruppo terroristico.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Io ti vorrei far vedere al volo una cosa, ci siamo? Sei pronto? Video: Oggi è il 6 luglio 2020, mi chiamo Pierluigi Maccalli.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Sai che cos’è questa? Questa è una Pol, una proof of life, questa è una prova in vita.

GIORGIO MOTTOLA Questa proof of life chi te l’ha data? Chi te la manda?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Al Qaeda.

GIORGIO MOTTOLA Ti ha chiamato un rappresentante di Al Qaeda?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Beh, io con chi lavoro? Io non ne ho filiere.

GIORGIO MOTTOLA Trattavi direttamente con Al Qaeda? 

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per il salvataggio dei religiosi rapiti, la Segreteria di Stato fa arrivare 575 mila euro sui conti di una società slovena di Cecilia Marogna, la Logsic. Questi soldi però, secondo le accuse dei promotori di giustizia, sarebbero stati usati per l’acquisto di Borse di Prada, scarpe di Hogan, capi di abbigliamento di Missioni, alberghi extralusso in Costa Smeralda e ristoranti stellati.

GIORGIO MOTTOLA Le spese presso Prada, Hogan, Missoni. L’hotel Cervo da 500 euro a notte, ristoranti di lusso…

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Alcune ci sono sì. Assolutamente sì.

GIORGIO MOTTOLA Ci sono state?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Alcuni sì, certo. Rientra comunque in quello che sono il mio compenso personale.

GIORGIO MOTTOLA Nessun imprenditore però può utilizzare la carta di credito aziendale per comprare le cose per sé.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Lei dice? Vestirmi in un certo modo riguarda la mia attività. Scusi eh… Sono un professionista che comunque mi devo vestire, no? Devo comunque viaggiare, devo comunque incontrare delle persone. Sono beni strumentali.

GIORGIO MOTTOLA Quindi le considera spese aziendali comunque?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Anche, certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In questi messaggi che Report vi mostra per la prima volta, Becciu sollecita a monsignor Perlasca l’invio dei soldi alla Marogna: “Ti ricordi la questione della suora colombiana”, scrive il cardinale. “Pare che qualcosa si muova e il mediatore deve avere subito a disposizione i soldi”. In un altro messaggio specifica che ne è informato anche il Santo Padre. E così, la Segreteria di Stato dispone al figlio di Enrico Crasso il bonifico verso la società della Marogna con la causale di contributo volontario per attività umanitarie.

GIORGIO MOTTOLA Cosa c’entra con le operazioni umanitarie l’Hotel Cervo, Prada…?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO 30 Non mi sono spiegata abbastanza bene prima. C’entra eccome. Nelle risorse che ho impiegato in tutti questi quasi 5 anni di professione sono molto di più rispetto a quei 575mila euro, badiamo bene.

GIORGIO MOTTOLA Ma non era molto più semplice riconoscersi in modo preciso uno stipendio. 575mila euro quale parte era suo compenso?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Non posso affibbiarmi un quantum preciso mensilmente perché io ho strutture, ho risorse.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E tra le risorse di Cecilia Marogna c’è stato anche Francesco Pazienza, massone ed ex agente del Sismi; è entrato nelle vicende più misteriose d’Italia all’epoca della P2.

GIORGIO MOTTOLA Pazienza, lei è una delle figure più controverse della storia recente italiana.

FRANCESCO PAZIENZA – EX AGENTE SISMI Churchill diceva, il lavoro dell’intelligence è un lavoro così sporco che solo i galantuomini possono farlo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il galantuomo Pazienza è stato condannato a 10 anni per aver depistato le indagini sulla strage di Bologna. È a lui che Cecilia Marogna si rivolge per chiedere un aiuto.

FRANCESCO PAZIENZA – EX AGENTE SISMI Voleva sapere se potevo aiutarla con delle mie conoscenze in Centroamerica per la liberazione di un prete, di un frate.

GIORGIO MOTTOLA E a che titolo, perché le chiedeva una mano a liberare dei frati in Centroamerica?

FRANCESCO PAZIENZA – EX AGENTE SISMI Perché lei mi disse che se ne stava occupando per conto del Vaticano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma chi ha messo in contatto Cecilia Marogna con Francesco Pazienza?

FRANCESCO PAZIENZA – EX AGENTE SISMI Mi viene presentata da un ex ufficiale dei Carabinieri che io so perfettamente che era nei servizi.

GIORGIO MOTTOLA Che la indirizza a lei? FRANCESCO PAZIENZA – EX AGENTE SISMI Mi chiama lui, mi dice, guarda, mi fai la cortesia, ti chiamerà la signora Marogna, le puoi dare un po’ di spago? Così nasce la questione…

GIORGIO MOTTOLA Pazienza ci dice che a metterli in contatto è un ex carabiniere…

RICCARDO SINDOCA - COORDINATORE DIFESA LEGALE CECILIA MAROGNA Il mio amico Giuliano Tavaroli.

GIORGIO MOTTOLA Ecco, quindi è Giuliano Tavaroli?

RICCARDO SINDOCA - COORDINATORE DIFESA LEGALE CECILIA MAROGNA Può darsi.

GIORGIO MOTTOLA Tavaroli aveva dei rapporti stretti con Cecilia Maorgna?

RICCARDO SINDOCA - COORDINATORE DIFESA LEGALE CECILIA MAROGNA Cecilia Marogna ha conosciuto tante persone del mondo dell’intelligence.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Giuliano Tavaroli ex capo della security della Pirelli, e della Telecom di Tronchetti Provera, ha patteggiato una condanna a 4 anni e mezzo per aver messo in piedi una centrale di dossieraggio illegale. Ed è a Tavaroli che Cecilia Marogna, insoddisfatta della collaborazione di Carta, chiede il contatto di un altro agente segreto per liberare la suora sudamericana.

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Volevo capire se un altro funzionario dei servizi avrebbe avuto perlomeno interesse…

GIORGIO MOTTOLA Chi è questo funzionario dei servizi?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Mancini. E da lì appunto rientrai in contatto con Tavaroli che mi disse di farsi da portavoce con il Mancini.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marco Mancini, ex funzionario del servizio militare, è stato accusato di essere complice di Tavaroli nello scandalo Telecom e di aver avuto un ruolo nel rapimento di Abu Omar. In entrambe le inchieste è stato prosciolto. Cecilia Marogna cercava l’aiuto di Mancini ma finisce al centro di una guerra tra vecchi e nuovi servizi.

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI Mancini voleva i messaggi della Marogna che si era scambiata con Carta per fottere Carta perché lui voleva fare il vicesegretario dei servizi. Questo è il motivo per cui a un certo punto Tavaroli si occupa di questa cosa qua.

GIORGIO MOTTOLA Perché voleva perché voleva prendere questi messaggi di Carta?

FRANCESCA IMMACOLATA CHAOUQUI Della Marogna.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel settembre del 2020, poche settimane prima che si aprisse la crisi, il governo Conte doveva nominare i nuovi vertici dei servizi; si apre così ufficialmente la guerra per la successione alla guida dell’Aise. Carta nel frattempo è stato infatti nominato presidente di Leonardo. E Marco Mancini ambirebbe alla nomina di vice all’Aise e Marco Mancini ambirebbe alla nomina del vice dell’Aise. Ed è proprio in quel periodo, come dimostrano queste chat inedite, che si reintensificano i rapporti tra Tavaroli e Cecilia Marogna, che sarà arrestata pochi giorni dopo.

GIORGIO MOTTOLA Lei è mai stata fatta qualche domanda sul suo rapporto con Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Sì, da parte di Tavaroli.

GIORGIO MOTTOLA Lei a un certo punto ha capito che c’era un’intenzione di danneggiare Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Sì, far fuori Carta.

GIORGIO MOTTOLA Le viene detto di far fuori Carta?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Sì perché disturbava Carta. In un certo senso mi dicono tu devi, in senso figurato, devi essere la ghigliottina per Becciu, Bergoglio e poi il generale Carta.

GIORGIO MOTTOLA Questa allusione chi gliela fa? Tavaroli?

CECILIA MAROGNA – EX COLLABORATRICE SEGRETERIA DI STATO Tavaroli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Fare da ghigliottina a Becciu, Bergoglio e soprattutto Carta. Ecco la Marogna sarebbe diventata lo strumento consegnando le sue chat con il generale Carta di Tavaroli che voleva mettere in difficoltà l’ex capo dei servizi di sicurezza. Secondo la Chaouqui, donna delle mille relazioni che la sa lunga, la finalità sarebbe stata quella di aiutare il suo amico Marco Mancini nell’ascesa ai vertici dei servizi. Giuliano Tavaroli nega che sia questo mai avvenuto, che abbia mai cercato materiale su Carta, dice, anzi, la Marogna mi è stata presentata da Pazienza, da Francesco Pazienza, altro relitto del passato, con fantasma. Tavaroli aveva fatto parte negli anni ottanta nel nucleo antiterrorismo, insieme proprio a Marco Mancini, erano agli ordini del Colonello Umberto Buonaventura, colui che aveva perquisito il covo delle BR di via Monte Nevoso dove sarebbe stato ritrovato il memoriale di Aldo Moro, ne sarebbero state, secondo alcuni, asportate alcune parti. Poi a metà degli anni duemila, Tavaroli è rimasto coinvolto nella vicenda del dossieraggio illecito da capo della security della Pirelli e Telecom di Tronchetti Provera. Secondo la testimonianza di un alto dirigente di Telecom, Giuliano Tavaroli sarebbe stato segnalato a Tronchetti Provera dall’allora vice, dall’allora vice sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta che aveva la delega sui servizi. Ecco quello che ci rimane difficile da capire è il ruolo di Cecilia Marogna. Perché il cardinale Becciu si affida a lei per far cercare materiale compromettente sui prelati? 33 Per tenere i rapporti con i servizi di sicurezza, per occuparsi dei sequestri, questo è almeno quello che dice la Marogna, quando invece Becciu aveva a disposizione il servizio di sicurezza ufficiale dello Stato Vaticano. Aveva anche a disposizione delle Ong, come Sant’Egidio che hanno delle relazioni incredibili sui territori più a rischio, capace di prendere informazioni sul personale sequestrato in qualsiasi momento? Insomma, immaginiamo poi che la Marogna sia stata contatta dai nostri servizi di sicurezza perché come si fa sempre in questi casi, i servizi sondano ogni strada possibile, verificano le possibili ipotesi quando si tratta di un sequestro di persona. E poi una volta sondato lo spessore della Marogna, l’abbiamo scaricata. Forse è per questo che poi lei scontenta, abbia cercato la collaborazione di altri uomini dei servizi di sicurezza, quelli passati. Ecco, per capire la sua attendibilità quando mostra la prova in vita di padre Maccalli al nostro Giorgio Mottola, ecco, va detto, citando i suoi contatti diretti con Al Qaeda, va detto, quel video era reperibile anche sul web. E possiamo dire con certezza che non ha avuto alcun ruolo nella liberazione di padre Maccalli. Mentre purtroppo è ancora sotto sequestro Suor Gloria. Ecco, ci piace pensare che il volto della chiesa sia lei, o di quelli come lei che sono nel momento del bisogno, sul posto del bisogno a portare conforto di solidarietà. Di coloro che muoiono portando la parola di Dio nei territori a rischio. Ecco, da credente questa sera ho avuto una difficoltà a raccontare questa storia. Perché lo voglio dire chiaramente la chiesa non è questa, non può essere macchiata dal comportamento di quattro persone. Per fortuna la chiesa di Bergoglio ha mostrato i suoi anticorpi. Se questa storia è emersa, è venuta fuori, è proprio grazie ai meccanismi di sorveglianza che hanno attivato prima padre Benedetto e poi Bergoglio nella sua lotta alla corruzione, per la trasparenza nell’amministrazione vaticana. Abbiamo bisogno di una chiesa che raccolga i cocci di un’umanità che esce disgregata dal virus, abbiamo bisogno di una chiesa che si prenda cura dei più fragili e di coloro che abitano alla periferia del cuore.

Mario Gerevini e Fabrizio Massaro per corriere.it il 24 marzo 2021. Sullo scandalo del Vaticano relativo all’acquisto di un palazzo a Londra arriva una prima pronuncia da parte di un giudice inglese, che smonta parti importanti dell’inchiesta dei magistrati del Papa, i promotori di giustizia. La corte afferma che la Segreteria di Stato vaticana non venne ingannata dal broker molisano Gianluigi Torzi sulle modalità con cui nel novembre 2018 il palazzo di Sloane Avenue 60 passò dal fondo Athena di Raffaele Mincione — nel quale il Vaticano aveva investito 200 milioni di dollari nel 2014 — a una società veicolo, la lussemburghese Gutt, di proprietà della Segreteria. Di questa società Torzi, che agiva come intermediario, avrebbe lasciato alla Segreteria 30 mila azioni senza diritto di voto ma avrebbe tenuto per sé le uniche mille azioni con diritto di voto, quelle che gli davano diritto a gestire a tempo indeterminato l’immobile, secondo i magistrati vaticani in maniera “segreta e disonesta” per poter estorcere denaro alla Segreteria. Il 5 giugno del 2020 Torzi venne arrestato in Vaticano al termine di un lungo interrogatorio, con diverse accuse tra le quali l’estorsione, per poi essere scarcerato dopo dieci giorni e la presentazione di una lunga memoria difensiva, assistito dai legali Marco Franco e Ambra Giovene.

Una transazione commerciale. Il giudice Baumgartnen della Crown Court at Southwark ha dato un’altra lettura dei fatti, sulla base della documentazione prodotta dai promotori per ottenere la conferma del sequestro di beni a carico di Torzi. Non è quindi una sentenza che riguardi le ipotesi di reato ma la legittimità di un sequestro: ad ogni modo è una decisione che entra in profondità nel merito della questione. La decisione — che potrebbe avere un peso nella valutazione complessiva dell’operazione da parte dei promotori di giustizia vaticana Gian Piero Milano e Alessandro Diddi — è stata presa nell’ambito della richiesta di sequestro a carico della Vita Healthy ltd (nuovo nome della Sunset Entrerprise ltd), una delle società con le quali il broker ricevette 15 milioni di euro dal Vaticano nel maggio 2019 per lasciare le mille azioni con diritto di voto al Vaticano. Secondo il giudice, che ha redatto una sentenza di 42 pagine, si è trattato di una normale transazione commerciale tra due soggetti.

«Perlasca incapace e inetto». Il Vaticano non venne ingannato, sostiene il giudice che ha scongelato i beni a favore di Torzi, dato che a seguire il dossier c’era il responsabile dell’ufficio amministrativo della Segreteria, monsignor Alberto Perlasca, che era delegato dal sostituto alla Segreteria, monsignor Edgar Pena Parra. Scrive il giudice: «Il professor Diddi dice che monsignor Perlasca era incapace e inetto. Anche se questo può essere vero, agire come un cospiratore disonesto è un’altra cosa». La sentenza rivela, tra le altre cose, che esisteva un «accordo verbale» tra Torzi e il funzionario della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi (tra gli indagati nell’inchiesta dei promotori), per riconoscere al broker il 3% del valore del palazzo, stimato a fine 2017 in 275 milioni di sterline, quindi oltre 8 milioni di sterline (circa 9,1 milioni di euro).

La nota di Parolin. Nelle carte compare anche lo stesso segretario di Stato, Pietro Parolin, che il 25 novembre 2018 — tre giorni dopo la firma dei contratti con Torzi — avrebbe dato il suo avallo all’operazione. «Dopo aver letto questo memorandum, anche alla luce delle spiegazioni fornite ieri sera dal mons. Perlasca e dal dott. Tirabassi, avendo avuto rassicurazioni sulla validità dell’operazione (che porterebbe vantaggi alla Santa Sede), sulla sua trasparenza e sull’assenza di rischi di reputazione (che, in effetti, supererebbero quelli legati alla gestione del Fondo GOF) sono favorevoli alla conclusione del contratto. Grazie. P Parolin 25/11/2018», è la nota riportata dai promotori davanti alla corte inglese.

Filippo Caleri per iltempo.it il 24 marzo 2021. Sono tanti i punti oscuri nell’acquisto dell’immobile di Londra, al numero 60 di Sloane Avenue, da parte del Vaticano. E dai documenti dell’inchiesta, che iI Tempo ha potuto consultare, le responsabilità attribuite dai promotori di giustizia della Santa Sede, tra i quali l’investitore Raffaele Mincione, non chiariscono le tesi accusatorie. Tanti restano gli interrogativi. Come la perdita dei 300 milioni che continua a gravare come accusa, mentre il palazzo è ancora nella piena proprietà del Papa, e non vale zero perché ha comunque un valore di mercato. O anche il ruolo della Gutt, la società lussemburghese incaricata dalla Segreteria di Stato di acquistare l’edificio londinese, e per questo «capitalizzata» dalle stesse autorità ecclesiastiche. O ancora la procura che consentiva ai cardinali di firmare atti in nome e per conto della Santa Sede, un’autorizzazione piena e senza limiti che riporta parte delle responsabilità in capo i prelati. Insomma una trama da spy story che inizia con le accuse rivolte dai promotori vaticani a Mincione e ai fondi di investimento dei quali è uno dei vari amministratori. Nel mirino il disinvestimento da parte del Vaticano dal Global Opportunities Fund di Athena (per semplicità il Gof)e l’acquisto dell’intera proprietà dell’edificio di Londra (di cui la Santa Sede era proprietaria fino a quel momento solo del 45%) attraverso la Gutt sa di Gianluigi Torzi.

L’accusa del Vaticano. A novembre 2018 la Segreteria di Stato vaticana interrompe i rapporti con Mincione perché, al 30 settembre 2018, le quote del Gof hanno realizzato delle perdite. La quotazione in quel momento è di 137 milioni di euro, 18 in meno rispetto all’investimento iniziale. I soldi, 155 milioni, sono stati affidati quattro anni prima. Il 55% finanzia l’acquisto dell’edificio di Sloane Avenue, la parte restante va in strumenti finanziari di società riferibili a Mincione, o nelle quali lo stesso aveva interessi personali. Le perdite legate agli andamenti di mercato motivano la chiusura dei rapporti con il gestore. Ma a quel punto il Vaticano non molla tutto. Vuole mantenere un unico asset in portafoglio: l’immobile. Che, nel bilancio chiuso il 31 dicembre 2017, vale 260 milioni di euro (228 milioni di sterline) ed è gravato da un mutuo ipotecario di 146 milioni di euro (128 milioni di sterline). Per il disinvestimento - sempre secondo le carte dell’accusa - la Segreteria di Stato effettua un bonifico di 40 milioni di sterline alla Wrm Capital Asset management. I soldi sono addebitati sul conto vaticano presso Credit Suisse e girati a favore dello studio legale del fondo, Herbert Smith Frehills. Contestualmente la Santa Sede cede le quote del fondo Athena Gof azzerando la partecipazione. I pm del Cupolone considerano il versamento privo di fondamento giuridico e atto distrattivo. Ed è il primo punto oscuro della vicenda. Già, perché i soldi che arrivano al fondo sono solo il corrispettivo per la cessione delle quote della società proprietaria dell’immobile londinese. E il passaggio non avviene direttamente alla Segreteria di Stato ma alla Gutt Sa, un intermediario appositamente individuato, e della quale il Vaticano ha acquistato, il 22 novembre 2018, quote di capitale. Un cambio di investimento voluto e deciso dal Cupolone che, per il promotore di giustizia vaticana, fa di Mincione il soggetto che ha tratto il maggior vantaggio dall’operazione di Londra. In realtà il Vaticano ha speso in tutto 250 milioni di euro e si trova oggi con la proprietà di un immobile che ne vale, sulla carta, 260. Ma secondo l’accusa l’esborso è molto più alto: 360 milioni di euro. E a far lievitare il costo totale ci sarebbero le commissioni di gestione erogate a Mincione: 16 milioni di euro legate all’investimento nel fondo Athena dal 2013 al 2018 incassate da Wrm capital asset management (altra società del gruppo di Mincione). Nelle contestazioni ci sono anche le commissioni di 2 milioni per l’attività di advisor del mutuo di 128 milioni di sterline del finanziatore Cheyne stipulato sull’immobile. E non è finita. Secondo l’accusa, lo stesso finanziere italiano, avrebbe investito le somme del Vaticano in società a lui riferibili come la Time&Life che si occupava di investire in società nelle quali aveva interessi personali. I soldi affidati sono usati per acquistare quote della Banca Popolare di Milano, Carige, Retelit o in strumenti finanziari illiquidi come Sierra Spv One srl, Alex atlas, Sorgente Sgr-Fondo Tiziano. Tutte operazioni che avrebbero generato perdite ingenti per la Santa Sede. La conclusione è perentoria. Per i pm vaticani le operazioni che avrebbero distratto i fondi sono state effettuate in complicità con funzionari della Segreteria di stato.

Il petrolio e il rischio. Mincione non è uno sconosciuto nelle stanze del Cupolone. I suoi consigli, negli anni precedenti al caso londinese, sono preziosi. Ad esempio tra ottobre e novembre 2012 la segreteria di Stato pensa di investire in una società in Angola, la Falcon Oil, che deve sviluppare un giacimento petrolifero. A presentare il business alla Wrm è il Credit Suisse che la considera operatore con il know how necessario per valutare l’opportunità. L’analisi produce una serie di criticità segnalate sia al Credit Suisse sia alla Segreteria di Stato. La verifica dei conti, nel 2013, evidenzia un forte indebitamento di Falcon Oil. Così dopo i risultati dell’analisi, comunicati tra marzo e maggio 2014, che sconsiglia l’impegno, la Segreteria accantona il progetto considerato rischioso per le finanze papali.

I soldi del Papa sono al sicuro. In campo Credit Suisse. I fondi vanno verso lidi più sicuri. Come l’investimento in un fondo (il Gof) gestito da Athena riconducibile alla Wrm, nel cui board è presente anche Mincione. La Santa Sede attraverso le sue fiduciarie, Credit Suisse London e Citco, sottoscrive tra maggio 2013 e febbraio 2014 quote Gof per 147 milioni di euro. Gli investitori che materialmente mettono il cash sono i due soggetti finanziari e non la Segreteria di Stato che, formalmente, non figura nel registro del fondo. Sono due soggetti qualificati e a conoscenza dei profili di rischio assunti. Il 16 aprile 2015, la Citco trasferisce le sue quote Gof a Clearstream banking che a sua volta, il 30 novembre 2016, le rimette al Credit Suisse London.

L’Obolo di San Pietro. Il Credit Suisse in quel momento è il solo consulente dei soldi della Segreteria di Stato. La Wrm e, dunque Mincione, non trattando direttamente con il Vaticano ma con una sua fiduciaria, non è al corrente della destinazione vincolata dei soldi investiti. Solo in un secondo momento, e dalle pagine dei giornali, si scopre che le somme investite sono dell’Obolo di San Pietro, e cioè le offerte dei fedeli destinate a finanziare opere di bene. E non investimenti.(anche se è difficile immaginare che le grandi risorse possano restare liquide) Resta difficile però per chi riceve i soldi individuarne la provenienza se, a concederli, è una banca e non un prelato. E c’è la prova: una mail agli atti, datata 20 aprile 2015, spiega che il denaro investito dalla Segreteria di Stato deriva da due finanziamenti Lombard concessi da Credit Suisse e dalla Banca Svizzera italiana. Il Lombard è un finanziamento erogato a fronte di un pegno su azioni o altri titoli. Tradotto: i soldi girati alla Wrm non arrivano direttamente dalle casse di San Pietro ma da liquidità ottenuta su investimenti precedenti.

Si punta sul mattone. I 147 milioni di euro conferiti dalla Segreteria di Stato attraverso Credit Suisse London sono usati da Athena tramite il Gof per acquistare (indirettamente) il 45% dell’immobile londinese attraverso l’acquisizione di quote per 79 milioni di un altro fondo: il Ref (che lo ha nel suo portafoglio). Il residuo viene messo in strumenti finanziari e gli esiti della gestione sono comunicati con cadenza mensile e trimestrale. È il 2014. I mercati corrono e il mattone londinese segna un incremento medio del 35% rispetto a due anni prima quando il palazzo era stato acquistato da Ref.

Gli investimenti finanziari. I documenti confermano, come sostenuto dalla giustizia vaticana, che una parte dei fondi è investita nelle obbligazioni emesse da Time&Life, holding che gestisce Wrm, e nella quale Mincione ha un ruolo di membro del consiglio di amministrazione. Un investimento totalmente ripagato sia nel capitale sia negli interessi. Non c’è perdita ma un rendimento del 3% all’anno. Non solo. Tutti gli attori sono a conoscenza delle operazioni e, né Credit Suisse, né Citco, né le alte sfere vaticane contestano mai le scelte di gestione. Lo stesso per gli investimenti in società quotate come Banca Popolare di Milano e Carige. Si tratta di scelte del fondo Gof compatibili con il suo regolamento operativo. L'unico appunto alla Wrm è che per alcuni titoli scelti i risultati non siano al tempo in linea con quanto ipotizzato. Si generano temporanee perdite su titoli che restano però in carico al fondo e che, alla fine, sono bilanciate dalla plusvalenza sull’immobile di Londra.

Il Framework Agreement. L’unico obbligo che ha la Wrm, e cioè il gestore e proprietario dei fondi Gof e Ref, è agire nel rispetto dei regolamenti sottoscritti dagli investitori. Che non contestano mai l’operato e anzi esprimono apprezzamento per i risultati. C’è la seconda prova: un documento visionato dal Tempo denominato «Framework Agreement» nel quale la Segreteria di Stato dichiara un incondizionato gradimento e soddisfazione per l’operato di tutti i gestori tra gli altri di Wrm, Gof, Ref e dello stesso Mincione. L’atto è siglato da Monsignor Alberto Perlasca, sulla base della procura conferita da Monsignor Edgar Pena Parra, nominato nel 2018 sostituto della sezione degli Affari generali della Segreteria di Stato. Una qualifica che gli dà pieni poteri di rappresentanza dell’Ufficio dell’Obolo di San Pietro. Tutto quello che viene fatto con le offerte dei fedeli, investimenti compresi, è cioè autorizzato da Pena Parra.

L’operazione che fa saltare il banco. Piena armonia dunque. Ma a un certo punto il Vaticano ritiene insoddisfacenti i risultati ottenuti. È un punto cruciale. Perché invece di chiudere tutti i rapporti, liquidare e portare a casa i soldi, decide di puntare all’acquisto dell’intera proprietà dell’immobile di Londra attraverso la Gutt sa. Una società lussemburghese che, a novembre del 2018 in nome e per conto della Segreteria di Stato, riceve il mandato per acquistare il restante 55% dell’immobile. È in quel momento che, con la consulenza di studi legali internazionali, dunque in piena trasparenza, tre soggetti: il fondo immobiliare Ref, la lussemburghese Gutt e la Segreteria di Stato stipulano il Framework agreement che prevede la cessione da parte di Ref della sue quote alla Gutt. Questa tecnicamente acquista il 100% della 60SA2 (ultima scatola di una catena societaria controllata da Ref che ha in pancia il 55% dell’immobile) per un prezzo composto da una parte cash (45 milioni di euro) più il trasferimento a Wrm di tutte le quote Gof detenute dal Credit Suisse per conto del Vaticano. In sintesi il Vaticano si libera delle quote del fondo Gof, mette altro contante, e si prende il 100% del mattone. Una scelta vincente anche dal punto di vista fiscale. In Gran Bretagna la Santa Sede se ha una proprietà immobiliare al 100% è esentata dal pagamento imposte.

La vendita procede. Nella transazione viene indicato che la Gutt ha piena autorità perché qualificata per negoziare per conto del Vaticano. Non ci sono altri ostacoli perché chi acquista (Segreteria di Stato e Gutt) garantisce a Ref che il passaggio della quota dell’immobile è fatto senza violare alcuna legge, di essere in possesso di tutte le autorizzazioni per concludere il business, e di avere per la data di regolamento dell’operazione, il 29 novembre del 2018, fondi sufficienti e necessari per l’acquisto. È tutto scritto nel Framework Agreement che autorizza la chiusura, senza contenzioso, dei rapporti patrimoniali precedenti. sumultaneamente il Vaticano sottoscriveva un secondo atto con il quale acquistava 30mila azioni di Gutt per fornirle e la liquidità necessaria a perfezionare l’acquisto. Anche questo documento è supportato dalla procura di monsignor Pena Parra a monsignor Perlasca. Che, con la sua firma singola, autorizza poi la Gutt ad acquistare 45,5 milioni di azioni della 60Sa2 per ottenere, in questo modo, l’intera proprietà dell’immobile di Sloane Avenue. A dare certezza all’operazione c’è un terzo documento: la «Comfort letter» preparato dal Vaticano nel quale Perlasca garantisce che la Gutt ha piena autorità per concludere l’operazione perché capitalizzata ad hoc per concludere l’acquisto.

I dettagli operativi. Tutte le carte attestano la piena volontà della Santa Sede di concludere il business. Così il 3 dicembre 2018 viene siglato il «Sales and purchase agreement» tra Gutt e Ref per la vendita delle azioni di 60Sa2 e un contestuale «Transfer agreement» tra Gof, Segreteria di Stato e Gutt, che sposta le quote Gof in mano al Credit Suisse London a Ref per pagare parte del prezzo della cessione della 60Sa2. I pareri di studi legali lussemburghesi attestano che sia Ref (che ha in pancia l’immobile) sia Gutt (che compra per conto della Santa Sede) hanno pieni poteri per sottoscrivere i contratti. Le carte in questione chiariscono un altro punto oscuro: il presunto legame tra le società di Mincione e la Gutt dell’imprenditore molisano, Gianluigi Torzi. Non è il primo a chiamare in causa la società lussemburghese. La Comfort letter, firmata da Perlasca, conferma come la Gutt sia stata individuata come intermediario dalla sola Segreteria di Stato.

Il prezzo contestato. I 45,5 milioni di euro versati in contanti, e contestati dai pm del Vaticano, sono usati per comprare la società 60Sa2 e, indirettamente, l’intero l’immobile. La cifra arriva da valori ufficiali calcolati sull’attivo netto del bilancio del venditore: trattandosi di un asset conferito a una fondo, ogni anno viene valutato per determinare il valore sulle quote rappresentative dello stesso. Ebbene dall’ultima perizia disponibile, consegnata il 31 dicembre 2017 da Strutt e Parker (società immobiliare di Bnp Paribas Real estate Uk limited) il valore dell’immobile è di circa 310 milioni di euro.

Il risultato economico. A prescindere dall’esito processuale i dati economici dimostrano che la Santa Sede ha comunque fatto un buon investimento. Per l’immobile che è tuttora di sua proprietà ha sborsato 147 milioni di euro, tra il 2103 e il 2104 per acquisire, le quote di Gof (poi girate per pagare il prezzo per l’altro 55% dell’immobile) più 45 milioni in contanti nel dicembre 2018. Complessivamente 192 milioni di euro. In cambio ha ricevuto il 100% delle azioni della 60sa2 che, attraverso le controllate 60Sa e 60Sa1, gli ha assicurato la piena proprietà di Sloane Avenue. Nella società acquisita ci sono passività legate a un mutuo di 139 milioni di euro e cassa per circa 7 milioni. Dunque l’esborso effettivo è pari ai 192 meno i sette, cioè 185, più l’accollo del mutuo che porta il prezzo totale teorico a 324 milioni di euro. C’è di più. Oggi l’immobile renderebbe in termini di canoni circa 15 milioni all’anno e, assumendo che il rendimento medio di mercato sia tra il 4 e il 5% all’anno, si può stimare un valore (tenendo conto di Brexit e del Covid) compreso tra i 311 e i 390 milioni di euro. A confermare che la forchetta di prezzo è reale è una lettera indirizzata alla Wrm Capinvest da uno dei primari fondi immobiliari inglesi, la Fenton Whelan. Una missiva che arriva alla Wrm l’11 maggio del 2020 e che, il 20 dello stesso mese, viene girata per conoscenza al Segretario di Stato, Pietro Parolin, e a Pena Parra. La società inglese dichiara l’intenzione di sviluppare un progetto sull’immobile che viene indicato avere un valore compreso tra 308 e 336 milioni di euro. Dunque i 324 spesi dal Vaticano, e contestati, sono in linea con i valori di mercato.

Il mancato affare. C’è un particolare. Il Vaticano avrebbe ottenuto un ulteriore plusvalore se non avesse lasciato scadere le autorizzazioni per ampliare e rinnovare l’immobile di Sloane Avenue. Le società proprietarie, Ref e 60Sa, dopo l’acquisto nel 2012 ottengono dalle autorità municipali le licenze per aumentare la cubatura e avviare una parziale trasformazione dell’immobile da commerciale a residenziale. L’autorizzazione è a termine e, dopo il passaggio dell’intera proprietà dell'edificio al Vaticano, viene lasciata scadere nonostante i solleciti della Wrm per segnalare il rischio di perdere guadagni. Il valore dell’autorizzazione, considerati i costi e le risorse impegnate, è stimato tra 45 e 67 milioni di euro. Se portata a compimento il valore dell’immobile sarebbe tra 600 e 700 milioni di euro.

La storia infinita. Oggi il processo è in itinere. Per agevolare il corso della giustizia Mincione ha offerto la sua collaborazione alle autorità vaticane concedendo volontariamente la visione di tutti i suoi conti bancari e quelli delle società collegate in base alle leggi svizzere. Apertura ignorata. Solo dopo 14 mesi i pm hanno invece ottenuto la rogatoria. L’attesa inficia le attività di Mincione influenzate dalla reputazione non ristabilita. Per accelerare la decisione Athena capital, Ref, Wrm e Mincione hanno instaurato un giudizio avanti alla High Court of Justice di Londra per ottenere una sentenza dichiarativa del riconoscimento dei diritti e degli obblighi di tutte la parti in base al Framework Agreement, al Transfer Agreement, alla Procura e alla Comfort Letter. Il Vaticano è stato dunque chiamato davanti a un tribunale inglese a giustificare il suo operato. Tentativo vano perché il Cupolone tenta di opporre il difetto di giurisdizione. Uno Stato non può essere giudicato da un giudice di un altro Paese hanno spiegato i legali del Papa. Ma nell’attesa la verità langue. E intanto il palazzo continua a essere gestito per conto del Vaticano da Luciano Capaldo, che è stato socio in affari di Torzi.

Renato Farina per “Libero quotidiano” il 26 marzo 2021. Chissà se qualcuno deporrà sulla scrivania del Papa le 46 pagine del giudice della Corona, l' Onorevole Baumgartner. Almeno per par condicio ce lo auguriamo. Il 27 settembre ci fu chi appoggiò sul tavolo da lavoro del Pontefice un servizio scandalistico dell' Espresso, lì giunto per strade oscure, con lo scopo purtroppo riuscito di far impiccare davanti al mondo la reputazione di un cardinale sardo, allora sconosciuto ai più, ma assai considerato dai colleghi porporati, tale Angelo Becciu, 72 anni. Da quel momento diventò suo malgrado sciaguratamente famoso nell' universo. Era lui il Giuda del terzo millennio, predone del denaro destinato ai poveri per arricchire i fratelli, soprattutto l' abietto speculatore che aveva ordito un' immonda compravendita di un palazzo di lusso a Chelsea, nel quartiere più elegante di Londra, distribuendo tangenti a mediatori briganteschi, e derubando così le casse della carità apostolica di centinaia di milioni di euro. Falso. Totalmente falso. Il giudice di Londra ha suonato il Big Ben, e la mente va a Tortora con il suo Portobello, ahimè. Ma forse in questo caso non è tardi per rimediare, anche se forze sotterranee faranno di tutto per perseverare nella menzogna, e inventarsi nuovi agguati lungo percorsi in valli oscure non nuovi né originali nella millenaria storia della Chiesa. La storia i lettori di Libero la conoscono. Vittorio Feltri vi ha dedicato una serie di articoli dove ha dimostrato, sin dallo scorso novembre, quella che in una intervista a Giovanni Minoli ha definito: «La più grande operazione mondiale di diffamazione nei confronti di un uomo». Neppure un euro era stato dirottato indebitamente ai parenti. E - rivelammo - l' operazione londinese aveva due caratteristiche: 1) non fu una truffa per sgraffignare il denaro del Papa, aveva ogni crisma per essere vantaggiosa; 2) non fu avallata da Becciu, bensì da chi gli era succeduto come Sostituto della Segreteria di Stato (l' arcivescovo venezuelano Peña Parra) e dal suo superiore (il cardinale Pietro Parolin). Intanto però il danno era fatto, la decapitazione decretata senza processo. Becciu defenestrato, esautorato da ogni carica da Francesco, che però - conservando una sana riserva mentale - gli ha lasciato il titolo cardinalizio, pur escludendolo dal Conclave, la qual cosa era esattamente ciò che i calunniatori si proponevano. Il piccolo e tenace prete di Ozieri aveva in realtà la colpa imperdonabile di essere stato individuato come un disturbatore involontario, per la sua autorevolezza e la scarsa attitudine ai giochi, delle manovre in corso per il prossimo Conclave. Che accadrà ora? Si porterà a processo Becciu, come in una intervista proprio a L' Espresso il cardinal Parolin lascia intendere? O le accuse depositate in edicola e sul web, secondo il classico vizio italo-vaticano, cadranno senza però una riabilitazione formale del porporato vilipeso? La sentenza promulgata a Londra nei giorni scorsi, per intenderci, non nomina neppure Becciu, non esiste neppure l' ombra di una qualsiasi sua implicazione nei fatti. La sconfitta vaticana è stata rivelata dapprima dal Corriere della Sera, ripresa da Repubblica e da Domani. Stranamente è stata ignorata dai vaticanisti e dagli organi cattolici di vario rango, onde evitare di allargare lo sguardo alle implicazioni gravissime del pronunciamento londinese sui metodi inquisitori praticati all' ombra del cupolone, e sulla necessità di riparare i danni subiti in particolare da Becciu, ma anche da svariati altri soggetti, trattati da «cospiratori» senza alcuna prova e perseguitati sulla base di un puro «sospetto» (parola di Baumgartner). La Corte londinese era stata convocata per valutare la richiesta fatta per rogatoria dai promotori di giustizia (cioè i pm) della Città del Vaticano, ed eseguita immediatamente dai colleghi inglesi, così da sequestrare i conti personali e societari di un cittadino italiano, Gianluigi Torzi, il quale aveva avuto la ventura di essere già stato arrestato, dopo essere stato convocato con un sotterfugio nel piccolo Stato, e di venire confinato per dieci giorni in una cella della gendarmeria pontificia nel giugno scorso. Il responso della Corona è stato: il Vaticano ha torto. Non perché ha difettato qua e là di argomentazioni, ma perché ha «omesso» fatti che conosceva, che sarebbero andati a favore dell' accusato, e ne ha «distorti» altri. Non si tratta insomma della banale sconfitta dei pm vaticani in una causa qualsiasi per un furto di una damigiana di vino da messa. In particolare, il professor avvocato Stefano Diddi, citato con questi appellativi dal giudice londinese, non ha semplicemente perso un processo: càpita, si vince e si perde, solo Perry Mason trionfa sempre. Quel che emerge dalle righe vergate con cortese crudeltà e chiarezza (stile anglosassone) dal magistrato di Sua Maestà è una solenne bastonatura etica inflitta alla magistratura di Sua Santità. Proprio così. Non si tratta di una sconfitta tecnica, ma di una condanna morale. I pm vaticani, secondo Baungmartner, hanno operato «un chiaro travisamento» dei fatti. Hanno evitato di citare documenti - dice Baumgartner - da cui risulta chiaro che monsignor Pena Parra aveva autorizzato l' operazione, a sua volta con il consenso di Parolin. Carta canta. E allora perché questa disparità di trattamento tra prelati? Fratelli tutti, o qualcuno è fratellastro? Ci aspettiamo sorprese da parte di papa Bergoglio.

Alle battute finali le indagini sul "sistema Becciu" in Vaticano. Si va verso il processo. Dopo oltre un anno e mezzo si avvia alla conclusione l'inchiesta partita dalle anomalie riscontrate per la compravendita del palazzo di Sloane Avenue a Londra che hanno fatto emergere un’associazione a delinquere che voleva depredare l’Obolo di San Pietro. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 22 gennaio 2021. Dopo aver trascorso le vacanze natalizie nella sua Pattada, Angelo Becciu, già Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e già Sostituto agli affari della Segreteria di Stato, è tornato a Roma dove a breve lo attende l’inizio del processo per peculato, abuso d’ufficio e interesse privato intorno all’affare del palazzo di Sloane Avenue a Londra che ha causato una voragine di oltre 300 milioni di euro nelle casse vaticane. L’inchiesta, che avuto un punto di svolta lo scorso settembre, dopo che Papa Francesco (come riferito dallo stesso presule sardo)  aveva informato Becciu dell’accusa di peculato  formulata nei suoi confronti obbligandolo alle dimissioni dal dicastero ricoperto e alla rinuncia dei privilegi cardinalizi, ha trovato conferme importanti dalle risultanze delle carte bancarie trasmesse dalle autorità elvetiche a dicembre, risultanze che confermerebbero il sistema di consulenze e gestione privatistica della cassa della Segreteria di Stato, consolidando il teorema accusatorio di “un’associazione a delinquere finalizzata alla depredazione dell’Obolo di San Pietro (il fondo che raccoglie le donazioni per fini caritatevoli e assistenziali, ndr)”. Nel corso di questa settimana si è tenuto un nuovo interrogatorio nei confronti di Enrico Crasso, gestore tramite la società Sogenel, che nel corso del tempo ha cambiato più volte versione rispetto al ruolo e alla funzione di Becciu nella gestione economica e nelle dinamiche che hanno portato in Vaticano personaggi come Raffaele Mincione. Una posizione quella di Crasso che si è complicata nel corso del tempo, sia per i riscontri seguiti alle dichiarazioni di Monsignor Alberto Perlasca, sia per le evidenze di palese conflitto di interesse nella gestione dei soldi della Santa Sede investiti nel fondo Centurion sugli ambiti di interessi più disparati. Una ragnatela di investimenti capace però di ritornare sempre nelle utilità di Crasso e del suo cerchio magico, cui venivano restituite consulenze altissime, fuori mercato. L’ex gestore delle finanze vaticane, secondo gli inquirenti, avrebbe agito sino all’ultimo da scudo nei confronti del cardinale, arrivando a dichiarare la totale estraneità di Becciu nella gestione delle finanze vaticane, omettendo il forte legame che intercorreva tra i due, reso evidente anche da una fitta corrispondenza privata, tutt’altro che occasionale. Più volte, ad esempio, il finanziere romano avrebbe dichiarato di essere stato lui a portare nelle stanze vaticane Raffaele Mincione, omettendo l’intermediazione di Alessandro Noceti, oggi in quota Valeur e all’epoca in Credit Suisse, che era di base proprio a Londra e che secondo fonti interne vedeva la figura di Mincione come un modello da imitare. Noceti riceverà da Consortia ltd, società che gestisce gli immobili vaticani nella City, 700 mila euro sulla sua società “Five Ruby red limited”, dopo che un precedente bonifico di identica matrice era stato respinto dall’autorità internazionale antiriciclaggio. Noceti chiuderà la società utilizzata come veicolo qualche mese dopo e fonderà assieme a Lorenzo Vangelisti la “Valeur SA ltd”, filiale della Valeur Group. Sia Noceti che Vangelisti, nonostante i ripetuti tentativi di convocazione, non si sono mai presentati davanti agli inquirenti vaticani in qualità di persone informate dei fatti. Va sottolineato che i 700 mila euro di bonifico furono versati su un conto Barclays alle Isole Vergini e successivamente indirizzati ad altri conti correnti così da dividere l’importo della consulenza proprio sul palazzo di Sloane Avenue che, ricordiamo, fu pagato da Raffaele Mincione con i soldi avuti in gestione da Enasarco. Anche su questo aspetto gli investigatori vogliono fare piena luce: all’inizio della scorsa settimana, il promotore di Giustizia Alessandro Diddi ha audito il direttore generale di Enasarco, Carlo Bravi, in merito ai rapporti tra l’Ente e il finanziere di Pomezia Raffaele Mincione, indagato anche lui dalla magistratura pontificia. Va rammentato che le elezioni che si sono svolte prima delle festività natalizie hanno determinato la sconfitta di Alfonsino Mei, uomo legato a Mincione che nel corso del suo mandato da consigliere di amministrazione sollecitò più volte Enasarco ad elargire nuovi fondi per investimento al finanziere di Pomezia, liquidità che avrebbe utilizzato per la scalata alla Banca Popolare di Milano e alla Carige. Le elezioni dell’ente che si sono svolte lo scorso 23 dicembre hanno visto prevalere su Mei il suo sfidante Antonello Marzolla, che ad Espresso ha dichiarato “la piena disponibilità e collaborazione di Enasarco in discontinuità col recente passato che ha visto intersezioni poco chiare che hanno determinato vantaggi non per i nostri associati ma per qualcuno che ha pensato che il nostro ente fosse un bancomat per operazioni speculative distanti anni luce dalla nostra missione”. Operazioni che nel corso degli ultimi mesi, nonostante gli articoli dei giornali e i verbali dei controlli interni inviati anche agli organi vigilanti, non sono state contestate dall’ente che dovrebbe vigilare su Enasarco ovvero il Ministero del Lavoro presieduto da Nunzia Catalfo. La ministra, peraltro, ha incassato dalla Corte dei Conti la contestazione per il rinnovo della direttrice generali Concetta Ferrari, che per la terza volta ricopre l’incarico fuori da ogni principio di rotazione per evitare casi di corruzione e abusi, per mancata selezione comparativa con altri dirigenti. Concetta Ferrari all’interno del Ministero è deputata proprio alla vigilanza degli Enti previdenziali dove secondo numerose associazioni di categoria risulta essere più attenta alle nomine e ai commissariamenti che a quanto avviene all’interno delle casse degli istituti. Nel corso di queste settimane si sono infittiti i contatti tra il Ministero della Giustizia e la Santa Sede per riprendere le fila di un discorso a lungo preparato ovvero la modifica dei trattati di estradizione tra il nostro Paese e il Vaticano, trattati già in corso di aggiornamento dopo l’adesione dello Stato più piccolo del mondo ai protocolli europei contro il riciclaggio di denaro e per il trasferimento dei condannati. Un percorso lungo iniziato da Benedetto XVI e proseguito da Papa Francesco che vuole rendere la macchina della giustizia vaticana più efficiente e in grado di non far diventare nel prossimo futuro le mura leonine terreno per altri scandali correttivi, un lavoro inviso a molti, compresi coloro che hanno messo a frutto circolazione di dossier contro chi nel corso degli anni ha cercato di ripulire le finanze vaticane. L’opera di pulizia di Francesco continua e sta per investire anche il mondo della comunicazione vaticana, altro piccolo giacimento relazionale del fu Sostituto Becciu.

Renato Farina per “Libero quotidiano” l'8 febbraio 2021. In tono basso ma limpido, il sito ufficiale Vatican News comunica i risultati dell'indagine della polizia australiana. Si palpa sollievo nelle seguenti scarne parole: «L'Australia Federal Police non ha identificato alcuna condotta criminale nei pagamenti arrivati in Australia dal Vaticano. Lo dichiara un brevissimo comunicato pubblicato sul sito della Polizia federale». Si aggiunge che l'entità dei trasferimenti era stata per errore «enormemente sovrastimata» dall'ente di controllo finanziario di Canberra. Insomma, il Vaticano è a posto. Noi aggiungiamo alcuni particolari taciuti ma di evidenza clamorosa. Questo proscioglimento da parte di un autorevole organo terzo dovrebbe indurre qualcuno proprio dentro le sacre mura a battersi vigorosamente il petto. Il risultato dell'inchiesta della polizia australiana infatti sbugiarda la calunnia che più di ogni altra ha assassinato la reputazione del cardinale Angelo Becciu. Gli inquirenti del Novissimo Continente si sono dati da fare ad analizzare i flussi di denaro provenienti dal piccolo Stato del Papa per una notizia di reato fatta arrivare per vie di edicola e di web agli antipodi. Essa scintillava lugubre in un articolo intitolato «Bonifici, dossier e ricatti: la guerra tra alti prelati. Una pista porta in Australia», uscito il 2 ottobre 2020 sul Corriere della Sera a pagina 9 (e ripreso anche sul Corriere.it), firmato da Fiorenza Sarzanini, capo della redazione romana, in questi giorni promossa per meriti sul campo vicedirettore del quotidiano di via Solferino. Pochi giorni prima, il 24 settembre, il porporato sardo, 72 anni, in quel momento prefetto della Congregazione per le cause dei santi e in precedenza numero tre della gerarchia cattolica come Sostituto alla Segreteria di Stato, era stato fatto fuori grazie a un servizio dell'Espresso accreditato come veritiero davanti al Papa da chi glielo aveva posato sulla scrivania. Sarebbe stato uno scandalo che avrebbe infangato la bianca sottana di Francesco se il Pontefice non fosse intervenuto subito a punire l'uomo che, abusando della porpora, aveva dirottato l'obolo di San Pietro dalle tasche dei poveri a quella della sua famiglia sarda. Come ha svelato una serie di articoli scritti da Vittorio Feltri su Libero, le accuse erano ridicole, ma soprattutto c'era la pistola fumante della congiura. Infatti L'Espresso aveva anticipato su internet la notizia, per la fregola di vantarsi dello scoop, quando Becciu ancora non era stato costretto alle dimissioni. Sette ore e quarantotto minuti prima del fatto esso era descritto per filo e per segno. Ma eccoci al 2 ottobre. Ed ecco lo scoop, che sintetizziamo copiando il titolo web di corriere.it: «Vaticano, "bonifici di Becciu agli accusatori nel processo per pedofilia a Pell". I 700 mila euro inviati in Australia potrebbero essere stati utilizzati per "comprare" gli accusatori del rivale». La notizia è una bomba-carta micidiale, irrimediabile. Tanto più che la Sarzanini è accreditata per le sue fonti di oro colato e zampillante. In questo caso la cronista principe di giudiziaria italo-vaticana, sicura di non essere smentita, e non lo sarà, le rende pure note: a cantare sono stati «gli inquirenti vaticani». Specifica: «Le verifiche riguardano le movimentazioni disposte da monsignor Angelo Becciu». Ecco, la verifica è stata fatta dalla polizia federale australiana. Il Papa ha più volte sostenuto che la calunnia è il peggiore dei mali, e non ha rimedi umani. Bisogna cospargersi il capo di cenere. Invece? Invece non è accaduto nulla. Il Corriere della Sera ha taciuto. Il Messaggero ha riportato poche righe. Repubblica rivela il comunicato australiano, ma evita con cura di constatare lo sfaldamento del castello d'accuse, privato della sua pietra angolare. Ma non bisognerebbe indagare o almeno porre domande su chi e perché ha sparso veleno inquinando la buona fede se non altro del Papa? Si rifletta sull'enormità della calunnia. Qui non si tratta di familismo amorale (peraltro smontato da Feltri) ma di un atto paragonabile a quello dell'Iscariota. Becciu - secondo quella tesi agghiacciante - avrebbe pagato un ex chierichetto per far fuori il cardinale rivale con l'accusa di cui peggio non esiste: l'abuso di bambinetti nella sacrestia con indosso ancora i paramenti della messa. Imputazione totalmente inverosimile, come sostenuto da Libero quando il prelato di Melbourne fu condannato a sei anni di carcere, a differenza di Repubblica ed Espresso. È su questo settimanale che Massimiliano Coccia prende a braccetto la Sarzanini e il 10 ottobre accusa Becciu e «i suoi uomini» di aver utilizzato un meccanismo parallelo «per costruire il dossier e le accuse contro il cardinale australiano». E perciò l'avvocato del cardinale Pell avrebbe domandato l'apertura di un indagine internazionale. Il risultato eccolo qua: zero. L'articolo del Corriere fu allora ripreso - secondo il motore Google - da 3.100 siti nel mondo. È uscito qualcosa sul Corriere? I magnifici moralisti dei peccati altrui che hanno la penna sempre caricata ad eleganti pallettoni, non hanno niente da dire? E magari - forse - gli stessi organi vaticani? Un «pardon cardinale» sarebbe gradito. Non laverebbe l'onta, ma sarebbe qualcosa persino di cristiano.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 26 febbraio 2021. Si sa che è un Samsung, che dentro c' è una scheda Wind, che il codice di sblocco è 1313. E che fino al 13 ottobre scorso lo smartphone era nelle mani di Cecilia Marogna, la donna dei misteri del Vaticano, la consulente internazionale che la Procura pontificia accusa di essersi intascata mezzo milione di fondi. Dentro il telefono (come insegna il caso Palamara) potrebbero esserci le risposte a molte delle domande che ancora aleggiano sulla vicenda: tra cui i veri rapporti tra la Marogna e l' establishment vaticano, a partire dal cardinale Giovanni Becciu, il sostituto della segreteria di Stato degradato da Francesco. Basterebbe aprire il telefono, e così magari si capirebbe se la Marogna sia una Mata Hari con la passione delle Vuitton o la vittima di una macchinazione. Peccato che il telefono non sia più in Italia. È già oltre Tevere con tutti i suoi segreti, in mano al capo dei pm di Bergoglio, Alessandro Diddi. Ma come ci sia finito è una dei tanti misteri del caso Marogna. Perché, come è noto, il tentativo vaticano di farsi consegnare la donna dall' Italia è fallito clamorosamente, il fermo è stato annullato, la Marogna scarcerata dopo diciassette giorni a San Vittore. Vista la mala parata, il Vaticano ha comunicato all' Italia di rinunciare a una richiesta di estradizione destinata quasi sicuramente a essere respinta. E la Corte d' appello ha ordinato di restituire alla Marogna tutto ciò che le era stato sequestrato al momento dell' arresto. E qui entra in scena il Samsung. Si scopre che nel frattempo la Procura milanese, su richiesta della Santa Sede ha avviato anche una rogatoria contro la Marogna. La richiesta è partita dalla Nunziatura apostolica in Italia in direzione del ministero degli Esteri il 26 ottobre, mentre la donna era ancora nel reparto femminile di San Vittore: dagli Esteri è stata trasmessa alla Giustizia e il 19 novembre (dopo una riflessione non breve) l' allora ministro Bonafede l' ha inoltrata alla Procura di Milano. Che, anche se nel frattempo la Marogna era stata scarcerata con tante scuse, dà ai colleghi in tonaca tutto l' aiuto richiesto. E il pezzo forte è proprio il telefono con la sua miniera di chat. Chi conosce la Marogna, d' altronde, sa che è una accumulatrice quasi compulsiva di documentazione, una che non cancella mai niente. Il Samsung, dopo l' arresto della donna, approda nelle mani del pm milanese Gaetano Ruta, il sostituto procuratore che si occupa della rogatoria vaticana. L' 11 gennaio Ruta dispone il sequestro dell' apparecchio. Ma per aprire e analizzare il contenuto del telefono - trattandosi di operazioni non più ripetibili, e che in teoria possono essere manipolate - viene fissata una udienza alla presenza dei consulenti informatici di «lady Becciu». Il 22 gennaio, Ruta convoca per il giorno 29, un venerdì, i legali della Marogna per procedere «al backup del suddetto dispositivo». Ma i legali nel frattempo hanno rinunciato al mandato, la notifica alla Marogna non viene inviata. Non si sa cosa accada il 29, se la Procura faccia aprire il Samsung. Di certo c' è che il giorno dopo, sabato 30, il telefono dei misteri viene precipitosamente consegnato ai Promotori di giustizia vaticani. Sparisce fuori da ogni garanzia, in mano ad un apparato giudiziario controllato direttamente dal potere politico, ovvero dall' autocrazia vaticana. Il problema, a leggere bene le carte, è che i pm di San Pietro non hanno chiesto ai milanesi il sequestro. Nella sua richiesta del 26 ottobre, Diddi chiede solo la consegna del telefono già sequestrato al momento dell' arresto: ma è un sequestro annullato insieme alle manette. E d' altronde lo stesso Diddi spiega di poter fare a meno del telefono nel caso che «alle operazioni di estrazione dei dati non ritenga procedere direttamente Codesta autorità», ovvero la Procura di Milano. Che invece, chissà perché, prende il Samsung e lo manda in Vaticano.

Da rainews.it il 21 gennaio 2021. Il presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone ha letto la sentenza che stabilisce che Angelo Caloia e Gabriele Liuzzo sono stati condannati a 8 anni e 11 mesi di reclusione per i reati di riciclaggio e appropriazione indebita aggravata, e a pagare una multa di 12.500 euro. Lamberto Liuzzo è stato condannato a 5 anni e due mesi e al pagamento di una multa di 8mila euro; i tre imputati sono stati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici.  Il tribunale ha disposto anche la confisca delle somme già sequestrate sui conti correnti degli imputati, e ha disposto il risarcimento allo Ior e allo Sgir di circa 23 milioni. La prima udienza nel maggio 2018. Dopo oltre due anni e mezzo dalla prima udienza del 9 maggio 2018, spiega l'Ansa, si conclude il processo all'ex presidente dello Ior Angelo Caloia, all'avvocato Gabriele Liuzzo e al figlio di quest'ultimo, professor Lamberto Liuzzo, coinvolti nella vicenda delle dismissioni immobiliari operate dalla banca vaticana tra il 2001 e il 2008, con complesse operazioni ritenute dagli inquirenti d'Oltretevere a proprio beneficio personale e con un danno per l'Istituto valutato complessivamente in 57 milioni di euro. Nell'ultima udienza, il 2 dicembre scorso, il promotore di giustizia aggiunto Alessandro Diddi aveva chiesto la condanna a otto anni di carcere per peculato, riciclaggio e autoriciclaggio per Caloia (oggi 81enne, successore di mons. Marcinkus alla presidenza dello Ior dove rimase per vent'anni, dal 1989 al 2009) e per l'avvocato Liuzzo (97 anni, dichiarato contumace all'inizio del processo), oltre alla confisca diretta dei 32 milioni di euro già sequestrati sui loro conti anche presso lo Ior, e la confisca per equivalente di altre 25 milioni di euro. La motivazione della richiesta, è stato specificato, era "essersi appropriati di gran parte del patrimonio immobiliare della cosiddetta banca vaticana, 'svenduto' a loro stessi attraverso una complessa operazione di schermatura tramite società offshore e lussemburghesi e dopo che il denaro ha girato per mezza Europa. Sono finiti nella loro disponibilità praticamente tutti gli immobili di proprietà dello Ior, in particolare appartamenti di pregio a Roma e Milano". Sei anni di carcere erano stati chiesti invece per Lamberto Liuzzo, per riciclaggio e autoriciclaggio. Il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, annunciò allora che la sentenza sarebbe stata emessa nell'udienza fissata per oggi. A seguito delle notizie sull'emergere dell'inchiesta, nel dicembre del 2014, Angelo Caloia, esponente della finanza cattolica lombarda e dirigente di prima grandezza nel sistema bancario italiano, pur dichiarandosi totalmente estraneo alle accuse e "vittima di operazioni architettate da altri", si è dovuto dimettere da tutte le cariche societarie e accademiche in Italia e anche dalla presidenza della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Il lungo processo si è avvalso di complesse perizie su ciascuno degli immobili oggetto di vendita e anche, negli ultimi due anni, dei risultati delle tre rogatorie presentate in Svizzera, il cui rendiconto è arrivato in Vaticano il 24 gennaio 2020, con la quantificazione, tra l'altro, dei conti bancari riguardanti due imputati.  Inizialmente, il promotore di giustizia vaticano Gian Piero Milano aveva incriminato anche l'ex direttore generale dello Ior, Lelio Scaletti, morto però alla fine del 2015. A testimonianza di epoche passate definitivamente chiuse, lo Ior si è costituito parte civile nel processo, insieme alla Sgir, società di partecipazione immobiliare dell'Istituto vaticano. L'avvocato Alessandro Benedetti, legale dello Ior, nelle sue conclusioni ha chiesto una provvisionale in via definitiva di circa 35 milioni di euro (complessivamente per Ior e Sgir). Ma, ha commentato con l'Huffington Post, "prima dell'aspetto economico-risarcitorio l'interesse dello Ior è stato l'accertamento delle responsabilità degli imputati e la compiuta ricostruzione dei fatti, tanto che, prima che si instaurasse il processo, è stata respinta da Ior, una proposta risarcitoria avanzata dagli imputati". Questo processo insomma contiene anche un messaggio, secondo Benedetti: "il messaggio è che la festa è finita e che oggi c'è tolleranza zero nei confronti di comportamenti che hanno depredato l'Istituto".

Il caso Spotlight, la vera storia (e i numeri) degli abusi sessuali dei preti. Il caso Spotlight è una pellicola che racconta della vera indagine svolta da una redazione giornalistica per portare alla luce del sole una rete di abusi sessuali su minori perpetrati da uomini della Chiesa. Erika Pomella, Martedì 12/01/2021 su Il Giornale. Presentato il 3 settembre 2015 all'interno della cornice del Festival del Cinema di Venezia, Il caso Spotlight ha anche vinto il premio Oscar come miglior film nel 2016, dopo essersi aggiudicato anche quello come miglior sceneggiatura. Il film, che andrà in onda questa sera alle 21.15 su Rai 5, ha fatto molto parlare di sé. Il caso Spotlight, infatti, trasporta sul grande schermo la vera storia dell'inchiesta svolta nel 2002 dal Boston Globe per portare a galla una lunga lista di abusi sessuali su minori avvenuti in seno alla chiesa cattolica. Come ricorda The Wire, per l'inchiesta Spotlight, il Boston Globe vinse il premio Pulitzer nel 2003 per il servizio pubblico reso alla comunità.

Il caso Spotlight, la trama del film. L'anno è il 2001 e al Boston Globe è arrivato il nuovo direttore Martin Baron (Liev Schreiber). Sotto la sua guida, la squadra di giornalisti investigativi denominati Spotlight cominciò a indagare su alcune accuse di abusi sessuali perpetrati da oltre 70 sacerdoti appartenenti alla diocesi di Boston. L'indagine porterà a galla una serie di racconti agghiaccianti, con alcuni preti che, abusando della loro posizione, sfruttavano la fiducia e la povertà di alcuni fedeli per poter molestare liberamente dei minori. Oltre a Liev Schreiber, nel film recitano anche Michael Keaton, nei panni di Walter Robinson, e Mark Ruffalo, l'interprete di Hulk per il Marvel Cinematic Universe, in quelli di Michael Rezendes.

Il caso spotlight, la vera storia e i numeri della pedofilia. Per avere un'idea di quanto sia stata importante la vera indagine del vero team spotlight, basta andare nella homepage del sito dell'Arcidiocesi di Boston. Qui esiste una voce che si chiama Protezione dei Minori e denunce (child protection and reporting, in lingua originale). Se si clicca sopra il link, si può accedere a una lunga lista di tutti gli abusi sessuali che sono avvenuti in seno alla chiesa cattolica di Boston e che sono stati smascherati proprio dalla vera indagine del team Spotlight. La trama del film diretto da Todd McCarthy segue dunque i fatti che sono accaduti nella realtà. La storia vera dell'indagine a cui la pellicola si ispira prende infatti il via quando Marty Baron reclama l'attenzione dei suoi colleghi su una dichiarazione dell'avvocato Mitchell Garabedian (nel film interpretato da Stanley Tucci) che afferma che il cardinale Bernard F. Law, arcivescovo di Boston, fosse a conoscenza della presenza di un prete pedofilo, John Geoghan. L'accusa per Law era quella di conoscere l'orrore che veniva fatto nella sua arcidiocesi e di non aver fatto nulla per fermare le molestie.

Morto il cardinale Law, si dimise per il caso Spotlight. Come viene fedelmente raccontato dal film e ricostruito da ScreenRant, il team spotlight cominciò a indagare sulla base di queste affermazioni, pur essendo consapevoli del potere mediatico della Chiesa di mettere a tacere i mass media. Il team, composto da Walter Robinson, Michael Rezendes, Sacha Pfeiffer e Matt Carroll, scoprì ben presto che la portata dello scandalo andava ben oltre la figura di Padre Geoghan. Con il loro giornalismo investigativo, scoprirono che almeno altri 13 preti erano responsabili di abusi sessuali su minori. Sempre ScreenRant riporta di come la squadra investigativa scoprì, attraverso un ex prete di nome Sipe che aveva passato la vita a studiare la pedofilia, che il 6% dei preti era colpevole di abusi sessuali. Una percentuale che, in relazione alla popolazione di Boston, faceva salire il numero dei preti pedofili a circa 90 unità. Grazie a testimonianze di alcuni sopravvissuti agli abusi e all'indagine riportata ne Il Caso Spotlight e pubblicata nel gennaio del 2020, l'arcivescovo Law diede le dimissioni dal suo ruolo nel dicembre dello stesso anno. Tuttavia, più tardi venne promosso arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, che ancora oggi è una delle più grandi e importanti al mondo. Sull'onda dell'indagine pubblicata dal Boston Globe, nei primi anni del Duemila vennero effettuate altre ricerche sulla vita sessuale degli uomini della chiesa cattolica. Come riporta l'Internet Movie Data Base, il 12 maggio 2003 un prete svizzero pubblicò uno studio secondo il quale il 50% dei preti veniva meno al proprio voto di castità, collezionando amanti. Padre Victor Kotze, un sociologo del Sudafrica, asserì che il 45% dei preti cattolici è sessualmente attivo. Tra questi, il 53% ha rapporti con donne adulte, il 21% con uomini adulti, il 14% con ragazzi minorenni e il 12% con ragazze minorenni.

Massimo Franco per il “Corriere della Sera” il 29 dicembre 2020. Una Segreteria di Stato piccola piccola. «Povera» per volontà papale, e imbrigliata dai controlli. «Da oggi diventa un dicastero come gli altri. Non gestirà nemmeno un euro senza autorizzazione. Si occuperà di politica estera e magari interna, ma non sarà più una sorta di ministero delle finanze improprio e onnipotente». L’epitaffio di quello che storicamente è stato il centro di potere più importante del Vaticano dopo il Papa, viene da uno dei registi della svolta di Francesco: quella affidata ieri a un motu proprio, un’iniziativa personale con la quale la gestione di tutti i fondi della Segreteria di Stato passa all’Apsa di monsignor Nunzio Galantino, guardiano bergogliano della «cassaforte» patrimoniale della Santa Sede; e alla segreteria per l’Economia affidata al gesuita Juan Antonio Guerrero Alves. È l’esito dell’onda lunga, lenta e contraddittoria di un Conclave del 2013 nel quale già erano affiorati i primi dubbi sull’uso dei soldi della Chiesa. E di un processo accelerato degli scandali che hanno avuto come epicentro e simbolo il palazzo londinese di Sloane Avenue e il ruolo di una cerchia di affaristi, ecclesiastici e laici: vicenda opaca e traumatica per l’immagine del papato, che ha fatto cadere teste eccellenti e perfino eminenti, come quella del cardinale Giovanni Angelo Becciu. E ha mostrato la scarsa presa che sugli affari economici aveva il segretario di Stato, cardinale Piero Parolin. Il testo, firmato dal Papa il 26 dicembre, è perentorio, nelle disposizioni che dà. Stabilisce anche che la Segreteria per l’Economia «d’ora in avanti svolgerà anche la funzione di Segreteria papale per le materie economiche e finanziarie». In più, «la Segreteria di Stato trasferisce quanto prima, non oltre il 4 Febbraio 2021, tutte le sue disponibilità liquide giacenti in conti correnti ad essa intestati presso l’Istituto per le Opere di Religione o in conti bancari esteri, all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica su conto bancario da questa indicato». Insomma, non è un trasferimento soltanto di soldi ma di potere e di competenze, dopo anni di passi avanti e indietro delle riforme e delle commissioni partorite nella cerchia papale. La domanda da porsi, piuttosto, è come mai Francesco abbia aspettato quasi otto anni prima di mettere mano a un cambiamento a suo modo epocale: era dai tempi di Paolo VI, grande conoscitore della macchina curiale, che la Segreteria di Stato aveva concentrato poteri come se fossero quelli di Palazzo Chigi, Viminale e Farnesina messi insieme, con l’aggiunta del controllo di ingenti fondi riservati. «C’è voluto tanto tempo perché le resistenze erano forti. La mentalità del corpo diplomatico vaticano è dura a morire. Ma ora dovranno ubbidire», annuncia un prelato vicinissimo a Jorge Mario Bergoglio. Forse non è solo questione di «resistenze». Forse sono indizi di quanto a lungo sia stato difficile capire; e della cocente delusione di chi si accorge di non avere compreso o visto quanto avveniva intorno a lui, mentre i conti peggioravano di anno in anno. Chi lo ha incontrato di recente racconta un Francesco che ha accentuato la diffidenza verso gli esponenti di Curia italiani, e non la nasconde: un pregiudizio affiorato a intermittenza dal Conclave in poi; ben radicato tra i suoi referenti, soprattutto latinoamericani, e anche in un personaggio come il cardinale australiano George Pell, lo «zar dell’Economia» riemerso innocente da un processo per pedofilia sovrastato dall’ombra di un complotto dei suoi nemici in Vaticano. Così, negli ultimi mesi Francesco ha cominciato a ridisegnare per l’ennesima volta gli equilibri interni. I centri di spesa vaticani, «piccole isole autoreferenziali», sostengono a Casa Santa Marta, la residenza papale, sono stati ricondotti nell’alveo dell’Apsa. E Galantino, sebbene a digiuno di finanza, è stato abile a farsi assistere da Fabio Gasperini, di Ernst& Young. Il top manager della multinazionale britannica è stato nominato a giugno come segretario e, di fatto, numero due dell’Apsa. Ma che l’obiettivo finale fosse la spoliazione della Segreteria di Stato si è intuito quando all’inizio di ottobre il pontefice argentino ha istituito la «Commissione di materie riservate»: titolo nebuloso per coprire la vigilanza sugli appalti della Santa Sede. Ne aveva nominato i responsabili pochi giorni dopo il «licenziamento» a sorpresa di Becciu. Da ieri, la Segreteria di Stato viene ridimensionata in modo inedito: una conseguenza del protagonismo pasticcione del predecessore di Parolin, Tarcisio Bertone; del discutibile attivismo finanziario di Becciu ai tempi in cui era numero due di Parolin; di alcune decisioni controverse del papato; e del rapporto complicato, leale ma distante che si è cristallizzato tra Francesco e l’attuale segretario di Stato. Ieri si sono riuniti Galantino, il vice di Parolin, Pena Parra, e il prefetto Guerrero, nel segno di un nuovo corso senza liti. Rimane qualche domanda: quale efficacia possano avere norme nate per reazione tardiva agli scandali; e come mai non ci si sia accorti prima di un modo di agire che rischiava di saccheggiare i soldi dell’Obolo di San Pietro.

Mario Gerevini e Fabrizio Massaro per il “Corriere della Sera” il 31 dicembre 2020. I conti correnti dello Ior in Europa sono sotto attacco: un giudice maltese su richiesta del fondo di investimento Futura ha emesso un provvedimento di sequestro fino a 29,5 milioni di euro ai danni della banca del Vaticano. Lo si apprende da ambienti legali. È il più recente passaggio di una complicata guerra giudiziaria che va avanti da tempo, legata anch' essa - come la storia del palazzo di Sloane Avenue a Londra della Segreteria di Stato - a un investimento immobiliare: l'acquisto dell'ex sede della Borsa a Budapest. «Non sappiamo ancora nulla ma non siamo né sorpresi né preoccupati del provvedimento», dichiara al Corriere della Sera un'autorevole fonte dello Ior, secondo la quale si tratta di una nuova «sterile mossa del fondo per tranquillizzare i suoi investitori. Non abbiamo alcun problema di liquidità ed è assurdo pretendere di congelare beni di una banca, che è solvibile per definizione; siamo stati noi a portarli in tribunale per ottenere ragione di un inganno, e loro sono i convenuti». È la prima volta che lo Ior rompe il silenzio. Malta è il terreno dello scontro perché qui ha sede il fondo in cui lo Ior investì nel 2012, sotto la guida degli ex vertici Paolo Cipriani e Massimo Tulli e con Benedetto XVI al soglio pontificio. L'oggetto dell'investimento è in Ungheria: un grande palazzo della capitale, di fronte alla Banca centrale e all'ambasciata Usa. Era stata la nuova direzione dello Ior, affidata dal novembre 2015 a Gian Franco Mammì, a citare nel 2017 Futura Funds Sicav plc e il gestore lussemburghese Optimum Asset Management con i suoi vertici Alberto Matta e Girolamo Stabile. Ormai lo Ior è l'ente finanziario vaticano più controllato. Tra l'altro è l'unico vigilato dall'Asif, l'autorità antiriciclaggio guidata dall'ex Bankitalia Carmelo Barbagallo. Applica le leggi e la compliance richieste dagli accordi internazionali su trasparenza e controlli. E per le pendenze del passato ha scelto la strada diretta del ricorso ai tribunali, sulla linea indicata da Papa Francesco, al quale ogni anno l'istituto gira i suoi utili (38 milioni nel 2019). In questo senso il 21 gennaio ci sarà la prima sentenza in Vaticano per reati finanziari contro gli ex vertici Ior Angelo Caloia e Gabriele Liuzzo, accusati di peculato e riciclaggio nella vendita degli immobili della banca. Sono stati chiesti 8 anni e la confisca di 32 milioni. Nel caso dell'investimento a Budapest, la partita è ancora aperta. Il sequestro dei conti (Eapo-European Account Preservation Order) ottenuto da Futura mira a congelare le disponibilità liquide dello Ior presso una dozzina di banche in Europa fra Italia, Francia e Germania. Un simile provvedimento era già stato ottenuto sul territorio maltese, dove però lo Ior non ha conti. A sua volta, nel novembre 2019, lo Ior aveva ottenuto un provvedimento molto stringente dal giudice Robert Mangion, entrato anche nel merito: il fondo non può vendere il palazzo - quindi non può rimborsare gli investitori tra cui il fondo pensione Eppi (periti industriali) - senza l'ok della banca vaticana. Ma da dove nasce la contesa? Nel 2012 il gestore Futura-Optimum decide di comprare il palazzo rilevando crediti deteriorati (npl) da convertire nel 90% della società che possiede l'immobile. Costo: 32 milioni. Lo Ior si impegna fino a 42 milioni e ne versa 17 in un apposito fondo chiamato Kappa. A un certo punto però lo Ior scopre un passaggio tenuto coperto: a vendere al fondo Kappa era stata una società sconosciuta, la lussemburghese Cougar Real Estate (controllata da tre holding a Panama, Dubai e Delaware), che solo nove giorni prima aveva comprato da Enasarco gli npl per 20,4 milioni, convertendoli in azioni che ha venduto a Kappa per 32 milioni, guadagnando quasi 12 milioni. Lo Ior sospetta un inganno e chiede indietro 17 milioni più i danni. Il fondo maltese replica che è tutto regolare, che la banca del Vaticano non voleva assumersi il rischio di comprare npl ma voleva investire in una società risanata e che piuttosto la causa nascerebbe da questioni interne allo Ior, ovvero per attaccare la vecchia gestione. Ma dallo Ior ribadiscono i sospetti sui guadagni di Cougar: «Un servizio simile lo offre qualsiasi banca a pochi euro, non a 12 milioni per alcuni giorni di lavoro».

Pell e i bonifici in Australia, chiusa l'inchiesta: nessun illecito. Paolo Rodari su La Repubblica il 3 febbraio 2021. I trasferimenti finanziari avevano generato il sospetto di un tentativo di pilotare il processo per pedofilia a carico del cardinale George Pell. Ma la polizia di Canberra non ha rivelato nessuna condotta criminale. La Polizia federale australiana ha completato l'esame dei dati finanziari riguardanti i pagamenti giunti dal Vaticano. Nessun illecito è emerso. Lo fa sapere in un comunicato la stessa polizia australiana che ha chiuso quindi le indagini. Non è stata riscontrata una condotta criminale sui trasferimenti finanziari che avevano generato sospetti di riciclaggio e di un tentativo di pilotare il processo per pedofilia a carico del cardinale George Pell. La Polizia federale australiana ha dichiarato di "non aver identificato fino a oggi una cattiva condotta criminale", completando l'analisi delle informazioni sui trasferimenti fornite dall'agenzia dall'Austrac, l'ente statale di controllo per i reati finanziari, riguardo al trasferimento dalla Città del Vaticano all'Australia di 2,3 miliardi di dollari australiani (oltre 1,4 miliardi di euro), in più di 400 mila transazioni. L'Austrac aveva ammesso il mese scorso di aver commesso un errore nel calcolare l'importo totale trasferito dal Vaticano a causa di un guasto al computer. L'importo rivisto al ribasso è di 9,5 milioni di dollari australiani (6 milioni di euro), ben al di sotto dei 2,3 miliardi 1.454 milioni di euro) inizialmente calcolati. I bonifici verso l’Australia a quanto pare non sono all’ordine del giorno delle indagini svolte dalla Santa Sede in merito alla compravendita dell’immobile di Londra per la quale è indagato il cardinale Angelo Becciu. Questi è indagato per offesa al Santo Padre, peculato, abuso d'ufficio e interesse privato.

Vik van Brantegem per "korazym.org" il 28 dicembre 2020. Le informazioni che continuano ad arrivare dall’Australia, circa i bonifici vaticani verso l’Australia sono inquietanti, a dir poco. Non solo nel 2017 e 2018, ma dal 2014 fino ad oggi. E non “solo” alcuni centinaia di migliaia di euro, ma addirittura supererebbero il miliardo di Euro, in più di 400.000 transazioni. Questo si apprende dalla stampa australiana, il tutto nel silenzio assoluto della comunicazione istituzionale della Santa Sede. “Le domande sui bonifici dal Vaticano in Australia durante il processo Pell sono cruciali”, abbiamo scritto il 4 dicembre scorso, nell’ambito del caso Becciu, diventato il caso L’Espresso (del Gruppo Gedi): “Comunque, alla redazione di CNA ci si dovrebbero impegnare di più. Soprattutto devono impegnarsi a trovare chi ha fatto i bonifici australiani (perché l’unica cosa che si sa è che i soldi sono partiti dallo Stato della Città del Vaticano e sono giunti in Australia. Tutti sono stati a chiedere la motivazione (e in molti hanno anche indicato il perché, ma senza fornire prove documentale) di questi trasferimenti di denari. Però, più importante delle ragioni di tali bonifici: nessuno ha detto ancora da quali fondi sono stati presi, chi li ha mandati e chi li ha ricevuti in Australia. Il meglio deve ancora avvenire. E mentre Coccia e Damilano restano muti come pesci, il Commonwealth dell’Australia – a parte di essere un continente e una monarchia parlamentare federale – resta pur sempre un’isola, come la Sardegna. Quindi, intorno hanno un mare, e in particolare l’Australia è circondato dagli Oceani Indiano e Pacifico, dove nuotano gli squali in attesa della preda da sbranare”. Poi, ieri sul National Catholic Register (testata del Gruppo EWTN, a cui appartiene anche la CNA-Catholic News Agency), Edward Pentin è tornato sulla questione dei bonifici dal Vaticano in Australia, Pentin riferisce delle rivelazioni – a dir poco inquietanti – fatte da The Australian, il quotidiano più venduto in assoluto il Australia. L’entità dei bonifici non sarebbe “solo” 700 mila euro (o dollari, secondo chi scrive), come avrebbe detto Mons. Alberto Perlasca agli inquirenti giudiziari vaticani. Non si tratterebbe neanche di solo 2 milioni di dollari australiani, trasferiti nel 2017 e 2018, come ha fatto sapere il Cardinale George Pell in un’intervista a Huffingtonpost.it. Ma sarebbero addirittura 2,3 miliardi di dollari australiani (1,7 miliardi di dollari USA, 1,4 miliardi di euro) e a partire del 2014, in più di 400.000 bonifici. Questo è quanto ha riferito Denis Shanahan sul sito online di The Australian, citando come fonte l’Audizione di una Commissione del Senato australiano: “The Vatican and its associated entities have transferred $2.3bn to Australia since 2014 without the knowledge of senior Australian Catholic Church leaders” (Il Vaticano e le sue entità associate hanno trasferito 2,3 miliardi di dollari in Australia dal 2014 all’insaputa degli alti dirigenti della Chiesa cattolica australiana). Il Corriere della Sera aveva riferito per la prima volta il 2 ottobre scorso, che il caso dei bonifici dal Vaticano in Australia farebbe parte di un faldone di prove raccolte dagli investigatori giudiziari e promotori di giustizia vaticani contro il Cardinale Becciu, che fu costretto a rinunciare ai diritti connessi al cardinalato e a dimettersi da Papa Francesco il 24 settembre scorso. Secondo Il Messaggero, le accuse di trasferimento dei fondi in Australia sarebbero state mosse da Mons. Albert Perlasca, ex Capo dell’Ufficio Amministrativo della Prima Sezione per gli Affari Generali (che gestisce i fondi della cassaforte) della Segreteria di Stato. Il Cardinale Becciu – che era Sostituto per gli Affari Generale della Prima Sezione della Segreteria di Stato (diretto superiore di Perlasca) – ha ripetutamente negato qualsiasi illecito o tentativo di influenzare il processo del Cardinale Pell in Australi. Lo stesso Pell, finché era in Australia, non ha affrontato pubblicamente le accuse, sebbene l’ex capo del suo team di difesa legale in Australia, Robert Richter QC, abbia chiesto un’indagine pubblica sulle accuse. Il 6 ottobre Papa Francesco ha incontrato l’Arcivescovo Adolfo Tito Yllana, Nunzio Apostolico in Australia, per discutere del caso. Fine ottobre scorsi si è svolta in Commissione al Senato australiano un’Audizione da cui è emerso che i bonifici dal Vaticano all’Australia nel periodo del processo del Cardinale George Pell sono stati trasmessi dall’Agenzia di intelligence finanziaria australiana alla Polizia federale e di Victoria. I dettagli non furono resi noti. Quindi, era rimasto sconosciuto l’origine, il perché e a chi questi fondi erano stati destinati (e questa è ancora la situazione in data di oggi). Poi, il 15 dicembre scorso il Cardinale George Pell, in un’intervista rilasciata a Maria Antonietta Calabrò per Huffingtonpost.it, alla domanda: “Lei ha affermato che spera che non ci siano soldi del Vaticano, dietro le accuse contro di lei…”, Pell ha risposto: “Si, ma certamente scopriremo qualcosa. La mia stessa famiglia mi ha detto che se hanno cercato di incastrarmi la mafia, la massoneria, eccetera, è grave ma si comprende per l’opera di pulizia che stavo facendo, quello che sarebbe davvero gravissimo, è se nel complotto c’è qualcuno del Vaticano. Vede, molti soldi sono stati trasferiti dal Vaticano in Australia in due occasioni nel 2017 e nel 2018, in coincidenza con alcuni passaggi del mio processo: questi soldi sono già stati trovati. Il loro punto di arrivo in Australia è già stato trovato. E adesso sono in corso indagini della Polizia federale australiana per rintracciare dove sono finiti. Sono molti soldi: 2 milioni di dollari australiani, non solo i 700 mila dollari di cui ha riferito un quotidiano italiano, in base alle dichiarazioni rese agli inquirenti da monsignor Perlasca. Le indagini dovranno accertare se sono stati usati per scopi illegali. Certo, è un po’ anomalo. Normalmente i soldi partono dall’Australia e arrivano in Vaticano e non viceversa”. Abbiamo già sottolineato più volte in passato, che le domande sui bonifici dal Vaticano in Australia durante il processo Pell sono cruciali. L’unica cosa che si sa finora è che i soldi sono partiti dallo Stato della Città del Vaticano e sono giunti in Australia. Tutti sono stati a chiedere la motivazione (e in molti hanno anche indicato il perché, ma senza fornire prove documentali) di questi trasferimenti di denari. Però, più importante delle ragioni di tali bonifici: nessuno ha detto ancora da quali fondi sono stati presi, chi li ha mandati e chi li ha ricevuti in Australia. Non è difficile capire che il Cardinale George Pell sa molto di più di quello che dice. Il meglio deve ancora avvenire. Lui parlava di bonifici fatti nel 2017 e nel 2018: nessuno aveva definito questi parametri temporali finora. Adesso The Australian parla di almeno 400.000 bonifici dal 2014. Chi ha spedito i bonifici era sicuro a chi li mandava. Quindi, è logico presumere che chi riceveva era “complice” (nel caso fossero dei transazioni illeciti o illegali) di chi inviava. I bonifici vengono tracciati e la giustizia australiana non è quella vaticana. Gli australiani tireranno fuori dal loro marsupio chi ha inviato e chi ha ricevuto i bonifici. Questo è sicuro. È solo questione di tempo… tic tac tic tac… ed era il 4 dicembre 2020, quando l’abbiamo scritto. Quindi, ritorniamo a quanto riferito da The Australian, come riportato da Edward Pentin sul National Catholic Register di ieri. l Vaticano e le sue entità finanziarie associate hanno trasferito un totale di 2,3 miliardi di dollari australiani (1,7 miliardi di dollari USA, 1,4 miliardi di euro) in Australia dal 2014, apparentemente all’insaputa dei dirigenti della Chiesa in Australia, ha riferito il primo quotidiano australiano ieri. I trasferimenti sono aumentati da 54,1 milioni di dollari nel 2014 a 103,6 milioni di dollari nel 2015 prima di raddoppiare di nuovo a 223 milioni di dollari nel 2016 e raggiungere un picco di 439,3 milioni di dollari nel 2017, ha rivelato The Australian. L’articolo si ispira ai documenti ufficiali dell’Austrac, l’autorità di regolamentazione della criminalità finanziaria australiana, che erano stati condivisi con il Senato australiano. The Australian ha aggiunto che più di 319 milioni di dollari sono stati trasferiti nel 2018, 371,7 milioni di dollari nel 2019 e 222,7 milioni di dollari quest’anno finanziario fino ad oggi. I trasferimenti sono stati effettuati in più di 400.000 transazioni. Nonostante l’enormità dell’importo totale dei trasferimenti, diversi dirigenti di alto rango della Chiesa Cattolica Romana in Australia, parlando in condizione di anonimato, hanno detto a The Australian di essere rimasti sorpresi dalla notizia e di non essere a conoscenza dei trasferimenti di fondi. Le cifre mostrano anche che alcuni fondi, circa il 5% del totale, avrebbero potuto far parte di un fondo annuale di beneficenza. Ma Austrac non ha rivelato alcun destinatario dei fondi in Australia, e alcune fonti della Chiesa Cattolica Romana in Australia hanno affermato che i trasferimenti potrebbero essere stati investimenti del Vaticano nel mercato obbligazionario e azionario australiano, ha riferito The Australian. La scorsa settimana la polizia federale australiana ha confermato a The Australian che stava continuando a indagare sulle informazioni che aveva ricevuto dall’Austrac sui trasferimenti in Australia dal Vaticano. I tempi dei trasferimenti di fondi e il loro aumento degli importi coincidono con l’arrivo del Cardinale australiano George Pell come Prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede nel 2014 e il suo successivo ritorno in Australia nel 2017 per affrontare un processo per accuse di abusi sessuali. Pell è stato processato nel 2018, condannato e incarcerato nel 2019 e poi ha trascorso 404 giorni in prigione, prima che tutte le accuse contro di lui fossero annullate dall’Alta Corte australiana nell’aprile 2020. In autunno sono state avanzate accuse secondo cui centinaia di migliaia di euro sarebbero stati inviati dalla Segreteria di Stato in Australia durante il processo del Cardinale Pell. Fonti hanno riferito al National Catholic Register, che la documentazione a sostegno delle accuse di sospetti trasferimenti bancari dal Vaticano in Australia fa ora parte dell’indagine del tribunale dello Stato della Città del Vaticano che sta indagando sulla questione, così come altre accuse di corruzione. The Australian ha chiesto alla Sala Stampa della Santa Sede e alla Nunziatura Apostolica a Canberra un commento sui risultati dell’Austrac, ma nessuno dei due ha risposto. Il National Catholic Register ha chiesto ieri anche al Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ma non ha ancora ricevuto risposta. I dettagli dei trasferimenti sono venuti alla luce dopo che un Senatore australiano, la Signora Concetta Fierravanti-Wells, a ottobre aveva posto delle domande al governo australiano circa le accuse di tali trasferimenti di fondi. Fierravanti-Wells aveva richiesto “tutti i dettagli delle transazioni” ricevuti da un “ente o individuo vaticano”, dettagli su come quei fondi sono stati erogati e chi li ha ricevuti, nonché “la data della transazione, l’importo sborsato e qualsiasi annotazione allegato a tale trasferimento”. Rispondendo alla divulgazione di ieri, il Senatore ha detto al The Australian, che si trattava di “una quantità di denaro sorprendentemente elevata” e alla luce degli scandali finanziari in corso in Vaticano, era importante “sapere dove sono finiti i soldi”. “Vale anche la pena notare che i trasferimenti hanno subito un’accelerazione durante il periodo in cui il Cardinale Pell stava affrontando le indagini in Australia e hanno raggiunto il picco quando è stato messo da parte dal controllo finanziario del Vaticano mentre stava affrontando accuse e processi in Australia”, ha detto.

Renato Farina per ''Libero Quotidiano'' il 29 dicembre 2020. Una notiziola, sfuggita alle agenzie internazionali e ai grandi giornali italiani, è balzata come un canguro dall' Australia a sconvolgere e a ridicolizzare le carte che avrebbero dovuto seppellire il cardinale Angelo Becciu. Una montagna di denaro è destinata a rovesciare il tavolo delle calunnie, se solo non prevarrà una sacra omertà. Non è una voce, un sospetto, ma un dato certificato dall' Austrac (Australian Transaction Reports and Analysis Centre), l' intelligence finanziaria di quel Paese: dal 2014 in poi sono stati trasferiti dalla Città del vaticano un miliardo e quattrocento milioni di euro attraverso più di 400mila transazioni. Uno sciame di cavallette d' oro, nessuna uguale all' altra, ma in media del valore di 3.500 euro, per passare inosservate al radar ed essere considerate legittime dalle autorità. Non si tratta di rivelazioni trafugate in chissà quali modi, ma di dati forniti in una audizione al Senato di Canberra, e pubblicate nei giorni scorsi su The Australian, il quotidiano più diffuso dell' isola-continente. Al momento non si sa quale sia stato l'ente erogatore, e non si conosce il nome dei destinatari. A sciogliere la riservatezza possono essere soltanto le autorità vaticane o - se deciderà di rispondere a una interrogazione della senatrice Concetta Fierravanti-Wells - il governo australiano. Perché tutto questo c' entra con il caso Becciu? All' Australia ci torniamo presto. Fermiamoci intanto a Roma. Già Libero aveva dimostrato, con l' inchiesta firmata da Vittorio Feltri a partire dal 18 novembre, come la defenestrazione del prelato sardo fosse stata orchestrata dall' interno delle mura vaticane in un andirivieni di documenti. L' Espresso si era prestato per mano di Massimiliano Coccia, già sedicente segretario di Bergoglio con il nome fasullo di don Andrea Andreani, a svolgere il ruolo di sicario mediatico, facendo passare il cardinale Angelo Becciu, prima Sostituto alla Segreteria di Stato e quindi Prefetto per le Cause dei Santi, per un malfattore, capace di depredare i denari che il Santo Padre voleva destinare ai poveri per dirottarli ai suoi parenti. Ci sarebbe voluto pochissimo, come ha fatto Libero, ad appurare che il legittimo beneficiario era stata la Caritas di Ozieri. Ma intanto la torta avvelenata è impastata, informata e cotta. Il malloppo di carte è arrivato all' Espresso. L' articolo è scritto. Il direttore Marco Damilano approva. Una copia del settimanale, con il servizio calunnioso, finisce direttamente dalla tipografia abruzzese sulla scrivania del Papa a Santa Marta. All' orecchio di Bergoglio c' è chi prontamente illustra la faccenda criminosa, aggravata senza ombra di dubbio dal tradimento della buona fede del Pontefice. Al quale non resta che, in flagranza di scandalo, convocare il porporato fedigrafio e imporgli le dimissioni. Era il 27 settembre. La prova dell' intrigo la produsse l' Espresso scrivendo la notizia delle dimissioni 7 ore e 48 minuti prima che sconvolgessero la vita di un uomo innocente. Troppo zelo. In quel momento non si alzò alcuna voce in difesa del cardinale. L' unica prudenza fu praticata dallo stesso Francesco: il quale non volle "sberrettare" Becciu e lo lasciò cardinale, pur senza più le prerogative di questa carica. Per il resto la pena di morte fu eseguita all' istante: l' identità di un uomo fu frantumata nella sua pietra angolare, dove un prete pronuncia la propria offerta a Dio. Qualche tremito garantista e magari misericordioso percorse qualche laico, dinanzi a una defenestrazione senza la possibilità di difesa che urta non diciamo contro la bontà divina ma persino contro i banali criteri di giustizia umana. Poi tutto finì quando il 2 ottobre il Corriere della Sera pubblicò una notizia ancora più tremenda. La firma era quella di Fiorenza Sarzanini, introdotta nei luoghi che contano della giustizia romana e vaticana. E qui eccoci di nuovo, e in realtà per la prima volta dall' esplodere del caso Becciu, in Australia. Una diceria che anche in chi sperava in un errore ebbe l' effetto di una disillusione. Parlo di tanti vescovi e fratelli cardinali che non ebbero più il coraggio di intervenire a difesa di Becciu. Scrisse Sarzanini: «700 mila euro inviati in Australia attraverso alcuni bonifici frazionati potrebbero essere stati utilizzati per "comprare" gli accusatori nel processo per pedofilia contro il cardinale George Pell. È l' ipotesi degli inquirenti vaticani che rischia di provocare una nuova e clamorosa svolta dell' indagine avviata sugli ammanchi da centinaia di milioni di euro dell' obolo di San Pietro e altre disponibilità della Segreteria di Stato. Le verifiche riguardano le movimentazioni disposte da monsignor Angelo Becciu». La fonte è dichiarata. Qui siamo al delitto perfetto. Se l' Espresso aveva tirato una coltellata alla schiena dando del ladro a Becciu, adesso gli investigatori vaticani mentre il cardinale è prostrato a terra gli danno una mazzata sulla nuca, facendo trapelare un' ipotesi agghiacciante. Becciu avrebbe pagato un ex chierichetto per far fuori il cardinale rivale con l' accusa di cui peggio non esiste: l' abuso di bambinetti nella sacrestia con indosso ancora i paramenti della messa. Becciu dinanzi a queste accuse - mai formalizzate - rispose subito: calunnie, il Papa sa di quei fondi, e io sono tenuto al segreto. Puerile, pensarono tutti. Certo: c' erano stati dissensi aspri tra i due. Pell voleva visionare e i conti - come ministro dell' Economia appena nominato - anche della Segreteria di Stato, che si opponeva. Finché Pell dovette tornare in Australia a farsi processare, perdendo quel posto. Qui una stranezza. Chi allora accusò pesantemente Pell furono Espresso, Repubblica e Il Fatto, il Corriere non mosse un ditino di garantismo, forse anche perché Pell passava per cardinale conservatore e avverso alle novità sulla comunione ai divorziati. A difenderlo (insieme soltanto a Giuliano Ferrara su Il Foglio) fu il sottoscritto su Libero. Noi non invertiamo i ruoli. Pell era innocente allora e adesso. Così come Becciu. Ma qualcuno gioca in modo strano. E siamo alla cifra 1.400.000.000. A cosa sono serviti? Cominciamo a sgombrare il campo da qualche scoria: 1) è una cifra inverosimile per corrompere un testimone; 2) una simile provvista di quattrini può provenire solo dallo Ior o dall' Apsa, i due istituti a cui fanno riferimento le finanze e i beni della Santa Sede. La Segreteria di Stato non ha mai avuto simili disponibilità. Si avanzano ipotesi. La più plausibile è che quella massa di euro sia servita a "ristorare" (anche se è una brutta parola) in via extra-giudiziale le vittime dei 4.400 abusi sessuali di cui era accusato il clero australiano. La Chiesa australiana ha sempre rifiutato di aiutare i singoli sacerdoti. Che sia arrivato - per evitare uno scandalo insopportabile - il nulla osta in altissimis per assegnare risarcimenti da circa 350mila euro ciascuno? L' unica cosa sicura è che qualche risposta dovrebbe darla gli organi ufficiali del Vaticano. Chi ha versato quei soldi? Per quale causa? Come mai "gli inquirenti vaticani", a detta del Corriere, hanno passato un sospetto che si è rivelato un depistaggio? L' Australian Gate minaccia di essere più clamoroso del caso Becciu.

·        Il Vaticano e la Giustizia.

Da silerenonpossum.it di Marco Felipe Perfetti il 17 Dicembre 2021. I fedeli hanno anche il diritto, recita il Codice di diritto Canonico, se sono chiamati in giudizio dall'autorità competente, di essere giudicati secondo le disposizioni di legge, da applicare con equità. Sono questi i principi a cui, spesso, Silere non possum fa riferimento parlando del giusto processo nell'ordinamento vaticano. Come abbiamo più volte ribadito, e spiega bene Marco F. Perfetti autore del Codice di procedura penale vaticano nella sua presentazione del volume, l'ordinamento vaticano ha la sua natura nell'ordinamento canonico. Per questo motivo sarebbe necessario che il legislatore e chi sta procedendo all'interno dello Stato a indagare e processare gli imputati del procedimento sul palazzo londinese, si mettessero a studiare un pò il diritto canonico, il quale sembra non abbiano mai visto. Come noto, il procedimento a carico del Cardinale Becciu e 9 altri imputati ( + 4 società)  è stato reso possibile da un intervento del Sommo Pontefice in persona. Fra il 2019 e il 2020 il Pontefice aveva, su richiesta dei Promotori di giustizia, firmato 4 rescritti che, come potrete vedere, sostanzialmente dicono: "per legge non sarebbe previsto ma oggi si fa così, ve lo autorizzo io". Certo, come qualche sprovveduto potrebbe pensare, chi legifera può fare ciò che vuole, sopratutto oltre Tevere no? Eh no. Esistono dei principi, i quali sono alla base degli ordinamenti che non sono neppure superabili dal Pontefice. Il principio di legalità deve essere rispettato anche dal monarca, altrimenti viene meno lo stato di diritto e il monarca diviene un despota. Non differente da quegli ordinamenti ove mettono in carcere gli studenti solo perchè dicono la verità, lì però i giornalisti si battono il petto, qui si improvvisano papisti. I rescritti sono dei provvedimenti pontifici che "rispondono" ad esigenze che vengono sollevate. La storia ci insegna che le richieste di riscritti, e le successive risposte, attingevano argomenti molto vari ma sempre originati da casi concreti e determinati, verificatisi in fattispecie diverse: conferimento di uffici e benefici ecclesiastici, istituzione di giudici eccezionali, remissioni di pene, opinioni sulla decisione di controversie, provvedimenti di soccorso a bisognosi, concessioni di dispense da irregolarità o impedimenti matrimoniali, ecc ecc. In passato, il riscritto era stato impiegato nel diritto romano, come mezzo ordinario tramite il quale il Princeps risolveva le questioni attinenti al governo ordinario quando la sua autorità veniva sollecitata su istanza di un soggetto interessato. Come accade per altre costruzioni giuridiche romane il sistema del governo tramite il riscritto fu accolto in modo pressoché spontaneo dalla prassi dall'ordinamento vaticano e canonico. In questo modo, è chiaro, viene smentito anche l'avvocato Diddì che continua a riferire in aula di non aver avuto rapporti con il Sommo Pontefice. Ma abbiamo già chiarito ampiamente come questi soggetti non sappiano neppure cosa sia l'ordinamento canonico. Si tratta degli unici, in tutta la storia dello Stato della Città del Vaticano, rescripta SEGRETI. Ovvero, mai pubblicati né nel sito ufficiale della Santa Sede o dello Stato né negli Acta Apostolicae Sedis. Domandiamoci il perchè. Con questi atti d'imperio il Pontefice affida dei poteri ai magistrati che né lui né la Commissione per lo Stato della Città del Vaticano ha mai previsto con legge ordinaria. Eppure le raccomandazioni sono state molteplici negli anni in materia di danaro. La mancanza del principio di legalità in questi atti è palese. Si autorizza un modo di procedere che però non è quello previsto, normalmente, dalla legge. Tale principio è fondamentale. Si tratta di un principio di civilta giuridica, che garantisce la tutela dell'affidamento che i cittadini ripongono nella riconducibilita delle proprie azioni e dei rapporti giuridici che li vedono coinvolti ad una norma vigente e quindi conoscibile nel momento in cui tali azioni e rapporti hanno luogo. Bisogna poi precisare che l'art. 238 c.p.p. prevede: "Il giudice [istruttore] può ordinare negli uffici postali e telegrafici il sequestro di lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi, o di altra corrispondenza, che abbia ragione di credere spediti dall'imputato, o a lui diretti anche sotto nome diverso, o comunque attinenti al reato. Per procedere al sequestro può delegare ufficiali o agenti di polizia giudiziaria; ma l'apertura delle corrispondenze sequestrate non può essere operata che dal giudice. Il giudice può accedere agli uffici telefonici per intercettare o impedire comunicazioni, o assumerne cognizione." Non si ravvede, in quanto scritto dal Pontefice, una autorizzazione fornita ai promotori di giustizia, pertanto sorgono ulteriori perplessità sull'operato di questi soggetti a digiuno di diritto canonico.

Fuga di notizie. Nel caso Becciu la giustizia vaticana mostra gli stessi vizi di quella italiana. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 4 Dicembre 2021. Il processo della Santa Sede è l’ennesima dimostrazione che la circolazione clandestina di atti giudiziari prima della produzione nel pubblico processo è solo un grave rischio, non bilanciato da un presunto servizio sociale alla verità. Il Corriere della Sera ha pubblicato ieri un estratto di circa 15 minuti di ben 15 ore di interrogatorio di uno degli ex imputati del processo Becciu, monsignor Alberto Perlasca, già alto dirigente dell’ufficio amministrazione della Segreteria di Stato, divenuto la principale fonte di accusa a carico del cardinale, e di una decina di imputati nella nota vicenda relativa all’acquisto a prezzi spropositati di un ex magazzino Harrod nella centralissima Sloan Square a Londra. Il processo, di cui si è scritto anche qua, è il simbolo – almeno nell’intenzione dell’ufficio della pubblica accusa vaticana (Il promotore di giustizia) – della lotta senza quartiere al malaffare interno alla Santa Sede promossa da Papa Bergoglio, che aveva provveduto a rimuovere dalle funzioni senza riguardi Becciu, ex sostituto del Segretario di Stato Parolin, ad indagini ancora in corso. Come buona abitudine della giustizia laica, anche quella della sede di San Pietro si sta rivelando un colabrodo con lo stillicidio di anticipazioni, verbali ed oggi addirittura delle registrazioni degli interrogatori ancora segreti di uno dei testi decisivi dell’accusa. Di esse, il Corriere ha pubblicato un estratto estrapolando alcuni passaggi assai scottanti. Il più importante di questi riguarda proprio la conoscenza e le direttive del Santo Padre (trattare o subire richieste presuntamente estortive?) intorno ai termini della controversa trattativa con cui la Segreteria di Stato ha sciolto un sodalizio affaristico – con il discusso broker Raffaele Mincione – sulla gestione di un immobile di cui diveniva piena proprietaria, ricorrendo all’intermediazione di un altro finanziere non propriamente noto ma sicuramente dotato di forti relazioni personali e istituzionali, Pierluigi Torzi, cui sono state pagate commissioni per 15 milioni di euro (secondo l’accusa, frutto di una estorsione). Sul punto della diffusione via stampa degli atti, come dichiara a Linkiesta Massimo Bassi, difensore di uno dei principali imputati, non ci sonno dubbi: «Il divieto di pubblicazione c’è secondo l’articolo 106 del codice di rito del 1913 adottato dal Vaticano, e dura fino a quando dell’atto non sia data lettura (o visione) al dibattimento. Incredibilmente la sanzione è una contravvenzione ed essendo reato commesso all’estero non è neanche perseguibile dal Promotore». Sulle registrazioni si era consumato uno dei primi strappi tra i promotori di giustizia e il Tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone, che da Procuratore Capo a Roma aveva dimostrato una particolare attenzione al profilo dei rapporti tra il segreto d’indagine, l’informazione e la tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nei procedimenti penali. L’accusa, pur avendo dato atto nei verbali delle indagini delle registrazioni, si era rifiutata di depositarli nonostante l’ordine dei giudici, sollevando il rischio della loro indebita diffusione con la possibile lesione dei diritti di riservatezza delle persone intervenute o menzionate negli atti. Una tesi innovativa che il Tribunale aveva respinto sottolineando la natura di atto pubblico degli interrogatori, e dunque delle loro registrazioni. La pubblicazione ha colto di sorpresa anche il collegio difensivo, alcuni legali hanno già espresso il loro personale dissenso pubblicamente, ed è prevista una comune presa di posizione contro quello che sembra a tutti gli effetti un tentativo di spostare l’attenzione su profili esterni e istituzionali, compreso l’attacco al pontificato bergogliano, del tutto estranei al processo. Ma il tema non è questo, quanto la solita delicata materia della circolazione clandestina di verbali giudiziari per fini che con la ricerca di giustizia hanno poco a che fare e che, come si vede, accomuna giurisdizioni così diverse come quella vaticana e quella italiana. Linkiesta ha affrontato questo aspetto numerose volte, l’ultima delle quali per vicende “profane” come i casi Renzi/Open e l’indagine sulle plusvalenze della Juventus, il processo della Santa Sede dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la circolazione clandestina di atti giudiziari di qualunque natura (tabulati, intercettazioni, documenti contabili, filmati), prima della produzione nel pubblico processo, costituisce più un grave rischio di inquinamento che un servizio alla verità e alla giustizia. È sempre stata questa la giustificazione data allo smercio di materiali (quasi esclusivamente in chiave di accusa): un presunto controllo sociale della pubblica opinione sulle indagini giudiziarie. Invece tale prassi, promossa sin dai tempi di Mani Pulite (ma volendo si può risalire nel tempo anche al caso Montesi), dimostra che il fine principale è quello di intorbidare le acque e produrre distorsioni della realtà, ancora più gravi quando siano idonee a sostenere e avallare le tesi dell’accusa. Vi è un solo rimedio, e lo ribadiamo come giornale ancora una volta: una precisa mirata riforma dell’articolo 114 del codice di procedura penale che estenda il segreto di ufficio degli atti d’inchiesta, con il conseguente divieto di loro pubblicazione, adeguatamente sanzionato, almeno fino alla loro ammissione nel processo da parte del Tribunale e all’inizio della istruttoria dibattimentale. Risparmiamoci le solite giaculatorie sul bavaglio: in diverse democrazie occidentali come gli Stati Uniti la prassi della circolazione extra-corporea di materiali giudiziari sensibili costituisce oltraggio alla Corte ed è punito severamente anche con l’esclusione delle prove anticipate dalla decisione finale. Ora fate mente locale e pensate ad esempio se non si trovasse mai traccia della famosa carta di Ronaldo oppure che il Tribunale rifiutasse di acquisire l’estratto conto di Renzi perché irrilevante ai fini della decisione: sarebbe giusta la colata di fango preventivo sugli imputati in base a materiale neanche utilizzabile nel processo? È sperabile che la vicenda vaticana, con il probabile ennesimo uso distorto di verbali per manovre (forse) destabilizzanti e certamente non in aiuto degli imputati, spinga a una accentuata riflessione e ad adottare l’unico rimedio possibile: adeguate sanzioni per i responsabili della fuga di notizie. In fondo l’informazione strumentale e faziosa è un virus e come tale va combattuta anche coi divieti, come dimostra la guerra alla pandemia. Perché di emergenza parliamo: nessun diritto può espandersi contagiosamente in danno di altri, neanche la santa informazione. L’autore fa parte del collegio dei difensori degli imputati

Mail di Marco Felipe Perfetti a Dagospia -silerenonpossum.it il 3 dicembre 2021. Prove mutilate. Sono queste le contestazioni rivolte al Promotore di giustizia da parte delle difese degli imputati nel procedimento penale per il palazzo londinese di Sloane Avenue che vede coinvolto il cardinale Becciu e altri imputati. Sono molteplici le accuse che vengono rivolte al Vaticano in queste ore, a distanza di 14 giorni dall’ultima udienza del procedimento. Il processo ha registrato una battuta d’arresto a causa dei molteplici vizi procedurali commessi dall’ufficio del Promotore di giustizia, il pm vaticano. “Ci vuole tempo per cominciare, se mai riusciremo a cominciare” ha affermato il presidente del tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ad inizio udienza il 17 novembre scorso. E doveroso ricordare quanto ebbe a dichiarare anche Padre Federico Lombardi in merito al processo di Vatileaks 2: i collegi difensivi degli imputati devono accettare che lo Stato della Città del Vaticano e uno stato sovrano ed ha un sistema giudiziario proprio. Ciò significa che nessuno dei difensori può pensare di utilizzare la Costituzione italiana per far valere dei diritti Oltretevere. Allo stesso tempo quei diritti che noi troviamo in Costituzione o nella Carta Europea sono comunque contenuti nel codice di diritto canonico, il quale e la prima fonte del diritto vaticano, e anche nel codice di procedura penale dello Stato. Per questo motivo le contestazioni fatte dalle difese devono necessariamente trovare accoglimento, in quanto sono volte a far rispettare le regole del giusto processo.

PANORAMA - IL MISTERO DEL VIDEO FANTASMA

Innanzitutto, bisogna sottolineare come l’attività del Promotore di giustizia e stata autorizzata da Papa Francesco con alcuni “rescripta” (atti dell'autorità ecclesiastica), dei quali pero non vi e traccia ne negli Acta Apostolicae Sedis (La gazzetta ufficiale del Vaticano), ne agli atti del processo. Un elemento che fa sospettare che l’attività dell’accusa sia, tutt’oggi, irregolare. Tutto ciò e contrario al principio di legalità, che e uno dei caratteri essenziali di qualunque Stato di diritto. Inoltre, questi rescritti sono stati creati ad hoc, e successivamente all’insorgere del problema. Si e creato precedente pericoloso, travolgendo completamente quella fondamentale esigenza di assicurare che il cittadino sia in grado di conoscere, prima di agire, se dal suo comportamento possa derivare una responsabilità penale e, eventualmente, quali possano essere le azioni-sanzioni a cui andrebbe incontro.

ATTI DI INDAGINE NON DEPOSITATI

L'articolo 362 del codice di procedura penale vaticano prevede che "durante il termine per comparire, le cose sequestrate, gli atti e i documenti rimangono depositati in cancelleria, salva per le cose sequestrate la facoltà del presidente di prescrivere che rimangano nel luogo ove ne fu stabilita la custodia, fino a nuova disposizione". L’articolo seguente prevede che la citazione e nulla nel momento in cui non sono garantiti alle difese tali diritti. Dal momento in cui e stata chiusa l’istruttoria, infatti, l'accusa non ha depositato tutti gli atti. Dapprima si e evocata l'impossibilita di depositare tutti gli atti per tutelare le persone coinvolte a testimoniare, assumendo, addirittura, un diritto alla privacy di chi aveva deposto innanzi ai magistrati. Successivamente si e passati a sostenere che vi siano indagini collegate che richiedono il segreto perchè ancora in fase di definizione. Tutto ciò nonostante due ordinanze del presidente del tribunale che ordinava il deposito integrale degli atti. Davanti a questo motivo, è facile ipotizzare che la citazione in giudizio degli imputati vada considerata nulla. I tentativi, da parte del presidente del Tribunale Vaticano, di sanare questi vizi sono vani. 

NORME PROCEDURALI NON RISPETTATE

Il grande problema, nella Santa Sede, oggi e quello delle difficolta palesi di coloro che sono stati messi a capo degli uffici. Si tratta di uomini di spessore nel panorama giuridico italiano. Ma il diritto canonico e vaticano non hanno nulla a che fare con l’ordinamento italiano. E poi va considerata l’estraneità all’ambiente di queste personalità. E’ innegabile che in Vaticano ci sia un modus agendi che e sconosciuto ai più. Chi non ha mai avuto a che fare con quel mondo, non conosce i giochi di potere e le dinamiche di un micro stato unico al mondo. 

L’INTERROGATORIO DI MONS. ALBERTO PERLASCA

Dall’interrogatorio di Mons. Perlasca emergono diverse questioni intorno all’operato del Promotore di Giustizia Aggiunto, Alessandro Diddi. Dapprima egli si meraviglia, insieme al commissario della gendarmeria, di una assenza di un bilancio all’interno della Segreteria di Stato. Strano: si suppone che un magistrato di uno stato conosca la procedura degli organi dello stato stesso, come la segreteria di Stato. Sorprende che sia Diddi a chiedere a Perlasca come avrebbe dovuto funzionare. In un secondo momento, il promotore di giustizia non comprende di cosa stia parlando Perlasca. Quando il monsignore parla del Pontificio Consiglio Cor Unum, si sente il magistrato dire: “Cor?”. Possibile che un magistrato non sappia quali siano i “ministeri” all’interno della Santa Sede? Questi dettagli fanno emergere alcuni dubbi sulla macchina giudiziaria vaticana. Dall’interrogatorio (o sommarie informazioni testimoniali, non si sa come considerarle visto che non e stato chiarito il ruolo processuale di Perlasca) emergono altre perplessità. In merito all’operato dell’imputata Cecilia Marogna, vengono poste a Perlasca alcune domande in merito alla societa Inkerman Training Limited, specializzata nel settore della sicurezza e della gestione del rischio, le cui risposte pero sono omesse e bippate. Difatti la Gendarmeria in una nota di servizio scrive: “Facendo riferimento alla causale "voluntary contribution for a humanitarian mission" utilizzata per i bonifici emessi dalla Segreteria di Stato in favore della Logic doo, questo Ufficio ha svolto ulteriori accertamenti che hanno permesso di riscontrare l'emissione di n. 2 (due) bonifici emessi verso il conto corrente intestato a Inkerman Training Limited, aperto presso la Barclays Bank (IBAN GB97BUKB20830290808571). Entrambi i bonifici riportano la medesima causale adottata per i summenzionati bonifici indirizzati alla Logsic doo”. Giustamente, anche chi ha visionato gli atti si e chiesto: come mai alla Inkerman non vengono contestati questi bonifici come viene fatto nei confronti di Logsic? Infine il promotore di Giustizia Diddi dice a Perlasca: “Noi non sappiamo nulla e siamo lontanissimi dal fare pettegolezzi o altro pero uno guarda la televisione e ci sta Crozza che insinua delle cose che se fossi stato Becciu…querela l’Espresso per una cosa inventata, ma io avrei querelato Crozza gli avrei fatto male. Uno pensa veramente male. Perchè di fronte ad una aggressione così forte, tra l’altro, mi viene anche da pensare che tu che fai una aggressione così forte nei confronti di un cardinale qualche cosa di vero ci deve essere perchè e una cosa di una gravita inaudita. Lei l’ha vista la parodia?”

ALESSANDRO DIDDI 

Diddi, come uno spettatore qualunque, viene colpito della parodia di Crozza ravvedendo in essa elementi di accusa. Della serie: se lo dice lui nel suo show, qualcosa di vero deve esserci. Ma un pm non dovrebbe fare luce su un evento con i fatti? O ci si limita alle parodie?

Ernesto Galli Della Loggia per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2021. Il processo a carico del cardinale Angelo Becciu, di cui inizia domani in Vaticano la seconda udienza, è la replica a oltre un secolo di distanza - in una sede davvero inimmaginabile - di un processo celebre, quello ad Alfred Dreyfus: il capitano ebreo dello Stato Maggiore francese, vittima innocente del feroce pregiudizio antisemita delle alte gerarchie militari francesi e condannato all'ergastolo nel 1894 sotto l'accusa di spionaggio a favore della Germania. Lo è perché ogni processo in cui la condanna appare essere stata già decisa in anticipo mediante la fabbricazione di prove palesemente false e in cui l'imputato è di fatto un capro espiatorio, è una replica sostanziale di quell'evento. Potrebbe farmi velo, lo ammetto, la conoscenza personale che ho dell'imputato. Ma ci sono uomini di Chiesa che danno immediatamente l'impressione, come si dice, di crederci, di custodire nel cuore una fede e una promessa, e altri no. Altri di cui immediatamente capisci che hanno cose ben diverse per la testa. Angelo Becciu mi è sempre sembrato appartenere alla prima categoria. Posso sbagliarmi, naturalmente. Ma se mi sbaglio, se egli ha commesso realmente quanto gli viene addebitato, come si spiega allora la clamorosa violazione delle regole che ha caratterizzato l'intera istruttoria del processo? Come si spiega che per ben quattro volte a istruttoria già in corso il Pontefice sia intervenuto con la sua autorità di legislatore assoluto per consentire nuove procedure, e stabilire nuove norme immancabilmente sfavorevoli a Becciu? Mi chiedo in quale altro luogo del mondo civile ciò sarebbe stato permesso senza che ne nascesse uno scandalo. E come si spiega poi il tentativo dell'accusa di evitare la presenza in aula del principale testimone dell'accusa stessa, sottraendo così costui ad un prevedibilmente scomodo controinterrogatorio da parte della difesa dell'imputato? Ed è normale che un tale fondamentale testimone non sia altri, guarda caso, che colui che nella prima fase dell'inchiesta era lui il principale imputato: il quale oggi, invece, è miracolosamente uscito del tutto dal mirino dei giudici? È lecito o no nutrire qualche sospetto circa una così straordinaria trasformazione di ruoli? Sono, quelli che ho elencato, tutti elementi ben noti, dei quali in questi mesi gli organi d'informazione hanno riferito, certo, ma (tranne un caso) lo hanno fatto sempre in tono diciamo così sommesso, quasi reticente, spesso tra parentesi, e soprattutto evitando di legare i vari elementi tra di loro per mettere in luce la singolare qualità del procedimento avviato dietro le mura leonine. Convinti, evidentemente, che solo al Cairo si possa amministrare la giustizia secondo i desideri del potere. Potere che nel nostro caso - anche questo va ricordato - si può dire che dal suo canto abbia già provveduto ad emettere la virtuale condanna preventiva dell'imputato - addirittura prima ancora che egli divenisse giuridicamente tale - sanzionandolo con la perdita di tutti gli attributi della sua carica cardinalizia. È immaginabile, mi chiedo ancora, che dopo una tale sanzione dall'alto possa esserci la smentita clamorosa di una sentenza di assoluzione? E che razza di processo è un processo in cui almeno in parte la pena è già irrogata in anticipo, a prescindere dall'esito dello stesso? Sono abbastanza evidenti i due motivi della disattenzione della stampa e dell'opinione pubblica per i tanti aspetti poco limpidi, per usare un eufemismo, di tutta questa vicenda. Da un lato c'è in molta parte del pubblico, io credo, la volontà, spesso morbosa, di condanna a tutti i costi, di punizione esemplare nei confronti di chiunque sia a qualunque titolo sospettato (meglio se un potente naturalmente) di aver approfittato della propria carica per un vantaggio finanziario, di essersi messo illecitamente dei soldi in tasca. E dall'altro lato ci sono la figura e il prestigio di papa Francesco. Il lettore capirà quanto delicato diventi a questo punto il discorso. La figura del Pontefice gode infatti di un vastissimo consenso che lo mette facilmente al riparo dalle critiche. È un consenso cui hanno contribuito il contenuto ma forse soprattutto il tono di molte sue parole, che gli hanno conquistato tra l'altro l'appoggio pressoché incondizionato del sistema mondiale dei media. I quali, consacrandone un'immagine liberal, ne hanno accresciuto ancora di più la popolarità. È questa molto probabilmente la ragione del sostanziale silenzio che fin qui è valso a mantenere in ombra le circostanze assai anomale che hanno caratterizzato il procedimento contro Becciu. Ma i fatti sono fatti, ed è difficile sfuggire all'interrogativo cruciale che essi pongono: come si armonizzano le circostanze suddette non solo con l'immagine liberal di Francesco ma vorrei dire più in generale con quell'esercizio della giustizia che, se non del Vaticano in quanto Stato, dovrebbe essere almeno tra le prime preoccupazioni di un Pontefice? Confesso di non saper dare una risposta. E di non volere neppure provare ad azzardarne una. Ma può essere questa una buona ragione per non porsi la domanda, specialmente se ne va di mezzo la sorte di un uomo?

Errori e prove mancanti: processo Becciu a rischio. Fabio Marchese Ragona il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. Non c'è l'interrogatorio di monsignor Perlasca. La difesa: "Citazione nulla, atti non depositati". Il processo del secolo in Vaticano potrebbe finire ancor prima di cominciare. E tutti gli imputati, dieci, tra cui il cardinale Angelo Becciu, sarebbero liberi di tornare a casa senza più accuse pendenti sulla testa. Il colpo di scena potrebbe avvenire questa mattina, nell'aula del Tribunale Vaticano: sarà il presidente, Giuseppe Pignatone, a render nota la decisione della corte sulla nullità o meno del decreto di citazione in giudizio degli imputati. Da un lato la volontà di Papa Francesco di far luce sugli scandali finanziari che hanno coinvolto la Santa Sede, soprattutto nel caso della compravendita dell'ormai famoso palazzo di lusso a Londra, dall'altro, però, una serie di questioni burocratiche ancora non risolte da luglio e che mettono a rischio il prosieguo delle udienze. Gli avvocati difensori, ieri in udienza, hanno chiesto l'annullamento «per omesso deposito degli atti»: a dire dei legali, i promotori di giustizia si sono rifiutati, per motivi di privacy, di depositare, entro il 10 agosto, il materiale mancante, in particolare la testimonianza registrata in video di monsignor Alberto Perlasca, uomo chiave nel processo, che ha ricoperto fino al 2019 il ruolo di responsabile dell'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Il prelato era stato sentito cinque volte, due come indagato e tre come persona informata dei fatti. Sulla questione sono intervenuti Alessandro Diddi, promotore di giustizia aggiunto e lo stesso Pignatone. «Non abbiamo detto che non vogliamo dare i video, ma abbiamo chiesto la possibilità di tutelare la riservatezza di terzi», ha detto Diddi alle difese. Il presidente del Tribunale, però, ha sottolineato che la difesa deve avere a disposizione tutti gli atti (300 dvd per una spesa di quasi 371mila euro) e che, in riferimento a quelli sintetizzati, dovevano essere espunti prima della citazione in giudizio. Oltre agli atti mancanti, alcune difese hanno sollevato anche un'altra eccezione e cioè che alcuni dei loro assistiti non sono stati interrogati durante la fase istruttoria del processo. Lo stesso Diddi, all'inizio dell'udienza di ieri, ha avanzato, infatti, una richiesta definita da lui stesso «sorprendente»: la restituzione degli atti processuali, oltre 29mila documenti, all'Ufficio del Promotore. In pratica far ripartire da zero il processo e procedere «con il corretto interrogatorio degli imputati». L'accusa, a tal proposito, ha voluto precisare che «non si vogliono calpestare i diritti alla difesa e che questo è un modo per venire incontro alle richieste sollevate in aula dai difensori». Diddi ha puntato il dito anche contro i media, denunciando «attacchi violenti a questo Ufficio e al Tribunale», riferendo di alcuni articoli ed editoriali secondo cui «c'è una sentenza di condanna già scritta e che ci sarebbero prove false». Pignatone ha voluto subito puntualizzare: «È irrilevante ciò che esce dai media, contano gli atti e la loro completezza che ancora non c'è», evidenziando di fatto che la sua richiesta di depositare tutti gli atti, avanzata a luglio all'accusa durante la prima udienza, non è stata ancora soddisfatta. Fabio Marchese Ragona

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 6 ottobre 2021. L'accusa chiede la «restituzione degli atti» e quindi l'azzeramento del processo, per ricominciare da capo; le difese contestano il procedimento alla radice e insistono sull'istanza di «nullità». La seconda udienza del processo sugli investimenti con i fondi della Santa Sede, che vede imputati il cardinale Angelo Becciu e altri nove tra laici ed ecclesiastici, va ben oltre le classiche schermaglie procedurali. Il procedimento incentrato sull'acquisto del palazzo di Sloane Avenue, a Londra, potrebbe fermarsi prima ancora di essere davvero iniziato. Ieri il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ha rinviato l'udienza e scioglierà la riserva sulle richieste stamattina: quasi fosse una sentenza, si decideranno le sorti del processo. Degli imputati, in aula, ieri c'erano solo il cardinale Becciu, imperturbabile, e monsignor Mauro Carlino, come nella prima udienza di fine luglio. La confusione è grande. Le difese contestano sia mancati interrogatori degli imputati sia il mancato deposito degli atti, soprattutto le registrazioni audio e video dell'interrogatorio di monsignor Alberto Perlasca, il grande accusatore, testimone-chiave che all'inizio era indagato ma poi non è stato rinviato a giudizio: è stato interrogato cinque volte, le prime due da indagato e le altre come «persona informata dei fatti». I legali degli imputati hanno potuto leggere un verbale incompleto, agli atti, ma non vedere il video integrale. Pignatone aveva chiesto all'ufficio del Promotore di giustizia, cioè ai pm vaticani, di «depositare in Cancelleria entro il 10 agosto copia dei supporti contenenti le registrazioni audio e video». L'accusa ha detto che non possono essere depositate per ragioni di privacy, «per non create nocumento ai diritti delle persone che hanno partecipato agli atti». Versione contestata dalle difese: «Abbiamo chiesto fossero depositate in cancelleria, non diffusi da un tg». Il promotore di giustizia aggiunto, cioè il «pm» vaticano Alessandro Diddi, ha ribattuto che non si voleva nasconderle ma «abbiamo chiesto se era possibile regolamentarne la diffusione». È uno dei misteri del processo: che cosa si vede o sente in quel video che non compare nei verbali? Lo stesso problema riguarda il materiale informatico, alle contestazioni Diddi ha ribattuto: «Abbiamo solo chiesto il rinvio del deposito, ci sono oltre 300 dvd, e dobbiamo sapere se è necessario consegnare le copie di tutto, costerebbe 271 mila euro». E poi c'è la faccenda degli interrogatori. All'inizio è stato lo stesso pm a fare una richiesta «che potrà sorprendere», cioè la restituzione degli atti del processo all'ufficio del promotore di giustizia per procedere a quanto eccepito da molte difese: l'interrogatorio preliminare dei vari imputati non sentiti nell'istruttoria. «Vogliamo testimoniare che non intendiamo calpestare i diritti della difesa. La possibilità, ora, di rendere un interrogatorio conoscendo gli atti delle indagini è un aspetto che non si deve negare agli imputati», ha detto Diddi. Una proposta «irricevibile», hanno replicato i legali degli imputati, che insistono sugli atti non depositati e la «denegata giustizia», ovvero l'impossibilità di esercitare i propri diritti di difesa: di qui la richiesta di «nullità». Il pm Diddi, tra l'altro, ha osservato che nei media «sono stati rivolti attacchi molto violenti a questo ufficio e a questo Tribunale: secondo alcuni esiste una sentenza di condanna già scritta: si tratta di forzature per condizionare la terzietà del Tribunale». Il presidente Giuseppe Pignatone ha rassicurato: «Tutto ciò che viene citato a livello giornalistico per noi è totalmente irrilevante. Da parte del Tribunale c'è la massima serenità. Conta solo quello che è agli atti del processo, soprattutto quando riusciremo ad averli nella loro completezza».

Da espresso.repubblica.it l'11 ottobre 2021. Da quasi cinque mesi, dallo scorso maggio, è in corso a Milano un processo di cui non si parla. Eppure, è una storia impressionante. Che coinvolge i vertici dei Legionari di Cristo, la ricchissima congregazione religiosa fondata nel 1941 dal prete messicano Marcial Maciel Degollado, travolto da infiniti scandali sessuali con droga, amanti, figli segreti sparsi per il mondo. E condannato dal Vaticano, nel 2006, soltanto a dedicarsi a «una vita di preghiera e penitenza», prima di morire nel 2008. Sotto accusa ci sono quattro dirigenti della Congregazione, fortissima in Italia, Messico e Spagna, dove rappresenta l’ala conservatrice e integralista del mondo cattolico. Al centro del processo, due accuse: tentata estorsione e favoreggiamento. Pressioni e minacce per insabbiare una denuncia presentata nel 2013 in un commissariato milanese da due genitori disperati, Yolanda M. e Giuseppe L., per gli abusi sessuali subiti dal figlio nel seminario di Gozzano, vicino a Novara. Un sacerdote dei Legionari, padre Vladimir, avrebbe trasformato quel ragazzo in uno schiavo sessuale: un inferno, che lo ha spinto a meditare il suicidio, come lui stesso ha scritto in un tema conservato dai genitori, prima di abbandonare la vocazione. Per evitare lo scandalo, l’ennesimo, i quattro dirigenti della Congregazione avrebbero proposto ai due poveri coniugi un accordo scritto, illegale: negare che ci fossero mai stati abusi, se interrogati da magistrati, in cambio di 15 mila euro, da restituire se invece avessero parlato. Al loro no, deciso, sarebbe seguita una seconda proposta scritta, non più riferita ai giudici: tacere con le autorità ecclesiastiche, in cambio dei soliti 15 mila euro. Da ridare, se avessero rotto l’omertà, raddoppiati: 30 mila. Gli imputati del processo milanese, che respingono tutte le accuse, sono Luca Gallizia, italiano, ex rettore dell’università europea di Roma; Manuel Cordero Arjona, spagnolo, il legale della Congregazione; e due messicani, Victor De Luna De Santiago, responsabile economico, e Oscar Kuri Nader, direttore per il Nord Italia. I tre Legionari stranieri compaiono anche nei Pandora Papers, le carte riservate delle società offshore, analizzate da L’Espresso insieme a giornalisti americani, spagnoli e messicani. Già nel 2013 De Luna e padre Nader, che vivono nel quartier generale della Legione di Cristo, il palazzo di via Aurelia 677 a Roma, entrano come amministratori in una offshore di Hong Kong, la New Gate Foundation HK. E a fine giugno ne siglano un bilancio assurdo, senza cifre. A fine luglio invece è Cordero, tramite un’altra società estera, Education Developers Inc, a versare 2,4 milioni di dollari, a titolo di rimborso di un prestito decennale, a un trust offshore di Luis Garza Medina, messicano: un fedelissimo di padre Maciel, il fondatore dei Legionari. Medina è stato il vicario generale della Legione fino al luglio 2011, quando il Vaticano lo ha silurato. Anche gli altri tre imputati erano molto vicini a Maciel. Nel 2017 L’Espresso, con l’inchiesta chiamata Paradise Papers, aveva rivelato che i Legionari, fin dagli anni ’90, utilizzavano società delle Bermuda come tesorerie anonime per gestire centinaia di milioni: le rette pagate da migliaia di studenti delle loro scuole e collegi. Allora la Congregazione replicò che da tempo non usava più offshore. Come dire che erano problemi del passato, dei tempi del fondatore. I Pandora Papers ora mettono in dubbio la versione ufficiale. La Legione viene commissariata il 9 luglio 2010, quando Papa Benedetto XVI incarica monsignor Velasio De Paolis, poi nominato cardinale, di fare pulizia. Appena tre giorni prima, come emerge ora, Garza Medina ha costituito la prima cassaforte offshore in Nuova Zelanda, chiamata Retirement and Medicable Charitable Trust. Che alimenta anche conti svizzeri. Ed è legata ad altri trust, intestati a familiari di Medina, creati nel 2011, durante il commissariamento. Alcuni sono tuttora attivi. Gestiscono patrimoni per almeno 300 milioni. Investiti nell’acquisto di immobili nei quartieri più poveri della periferia di Miami, in Florida, e di altre città americane. Dove il consorzio Icij ha scoperto che centinaia di famiglie sono state sfrattate l’anno scorso, nonostante l’emergenza pandemia, dai misteriosi proprietari schermati dalle offshore, per poter ristrutturare e rivendere a caro prezzo le loro case. Alla domanda se questi investimenti siano stati comunicati alla Chiesa di Papa Francesco, i Legionari hanno risposto che «gli istituti religiosi non hanno un obbligo di fornire informazioni dettagliate al Vaticano sulle loro decisioni interne in materia finanziaria». Aggiungendo che solo uno dei trust, quello intitolato a opere di carità, è controllato dalla Congregazione. E confermando che gli altri appartengono a familiari dell’ex tesoriere Medina. A Milano intanto, nel processo per gli abusi da insabbiare con i soldi, si scopre che padre Vladimir, il rettore denunciato del seminario, è stato condannato in via definitiva a più di sei anni di carcere, nel 2020, ma è scappato in Sudamerica. Dalle email sequestrate emerge perfino un tentativo di coinvolgere l’allora vicario della diocesi di Milano, Mario Delpini, poi diventato arcivescovo. A incontrarlo, il 30 settembre 2013, è Gallizia, il Legionario italiano. Chiede l’approvazione della Chiesa per trattare con i genitori della vittima. Monsignor Delpini lo gela così: «Pensateci bene a fare un accordo con la famiglia, potrebbe essere usato come una prova di colpevolezza della Congregazione». Neanche un mese dopo, il 18 ottobre, la signora Yolanda si vede proporre, nella chiesa di Sant’Eustorgio a Milano, la prima scrittura privata per comprare il suo silenzio. Lei rifiuta. E dopo la seconda offerta, reagisce. Alle 08,21 del 9 gennaio 2014 chiama al telefono, intercettato dalla polizia, il cardinale De Paolis. Lui capisce che le hanno offerto denaro e commenta: «Questo è quello che si dà in Italia… Non firmi il patto, non firmi niente». Poi aggiunge: «Gli avvocati complicano le cose, anche le Sacre Scritture dicono che tra cristiani dovremmo trovare un’intesa». Yolanda esplode: «Non è un buon accordo consentire una menzogna». De Paolis è stupefatto: «No, no. Sono sorpreso da quello che hanno scritto questi avvocati… Lei ha chiesto aiuto perché ha avuto delle spese». Yolanda: «Il mio legale sostiene che ci deve essere un risarcimento, ma senza approvare clausole che non sono vere e sono pure criminali». Il giorno dopo, alle 21.19, viene intercettato padre Nader mentre parla con un legale. La linea è chiara: «In ogni caso, qualunque cosa dobbiamo firmare, la Congregazione deve essere tenuta fuori». La signora Yolanda è delusa e oggi dice all’Espresso: «Il cardinale non ha alzato un dito per aiutarci. Non è venuto incontro alle vittime. Mi sono sentita tradita. Sono cristiana, ma non sono più cattolica. Ora non vado più a messa, come mio marito». L’avvocata della famiglia, Daniela Cultrera, attacca i Legionari: «Il negoziato per comperare il silenzio delle vittime non è mai stato autorizzato dal cardinale De Paolis. E il modo in cui la Congregazione ha cercato di insabbiare lo scandalo non è un caso isolato». Chissà se qualcuno, a Milano o in Vaticano, ora indagherà sui trust offshore dei Legionari. E sulla provenienza dei tanti soldi offerti in questi anni in mezzo mondo, si spera con transazioni lecite, per zittire le vittime. Questa inchiesta è stata realizzata da Leo Sisti, Paolo Biondani, Vittorio Malagutti (L’Espresso), Spencer Woodman (Icij), Andrea Cardenas (Quinto Elemento Lab), Mathieu Tourliere (Proceso), Georgina Zerega (El Pais)

Pandora Papers, ecco i soldi ai Caraibi del consulente del Vaticano Enrico Crasso. Il finanziere sotto processo per lo scandalo che ha travolto il cardinale Becciu controlla tre società nelle British Virgin Islands. E a Miami ha comprato due case di lusso. Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Leo Sisti su L’Espresso il 5 Ottobre 2021. Nel gigantesco intrigo finanziario che va quest’oggi a processo in Vaticano, tra alti prelati, presunti falsari e consulenti d’alto bordo, c’è un filo rosso che porta a Miami, in un lussuoso appartamento della South Tower of Porto Vita, residenza esclusiva nel cuore del quartiere di Aventura. Enrico Crasso era solito trascorrere lunghi periodi in questo buen retiro per giocare a golf e rilassarsi. Quest’anno, però, niente vacanze americane. Crasso ha venduto la sua casa in Florida per 1,3 milioni di dollari (1,1 milioni di euro) nel febbraio scorso, poco prima di essere travolto dalla valanga giudiziaria che lo ha portato sul banco degli imputati insieme al cardinale Angelo Becciu, ex sostituto della Segreteria di Stato vaticana, e ad altri presunti complici come i finanzieri Gianluigi Torzi e Raffaele Mincione, tutti accusati di aver depredato le finanze della Santa Sede. L’appartamento messo in vendita era intestato alla HP Finance, una società di Miami citata nelle carte dell’inchiesta vaticana come uno degli snodi principali dei traffici illeciti di Crasso, che per oltre vent’anni, prima come manager del Credit Suisse e poi in proprio, ha gestito decine di milioni di euro su incarico, a partire dal 2012, del cardinale Becciu. Secondo la ricostruzione dei magistrati, una parte di quei soldi veniva sistematicamente dirottata nei conti bancari del consulente, ora chiamato a rispondere, tra l’altro, di peculato, estorsione, truffa e riciclaggio. Adesso, grazie alle carte dei Pandora Papers, è possibile seguire le tracce del denaro fino al paradiso fiscale delle British Virgin Island (BVI), nei Caraibi. Il nome di Crasso, infatti, ricorre più volte nell’immenso archivio di società offshore, oltre 11,9 milioni di documenti, svelato dall’Icij (International consortium of investigative journalism) e pubblicato da L’Espresso in esclusiva per l’Italia. Sono tre gli schermi offshore delle Bvi che hanno per azionista e beneficiario economico l’ex consulente del Vaticano. Si chiamano Dexiafin group, Dexia structures re e Dexie Miami. Quest’ultima nel 2007 aveva acquistato un altro appartamento in un condominio di lusso a Miami, il Grovenor House nel quartiere di Coconut Grove. La casa, pagata 2,2 milioni di dollari (circa 1,9 milioni di euro) è poi stata rivenduta nel 2018 al prezzo di 2,7 milioni di dollari (2,3 milioni di euro). Nell’atto depositato nel registro pubblico della Florida troviamo come compratore Miguel Angel Larach, un milionario dell’Honduras che l’anno successivo si è visto sequestrare su richiesta dei creditori gran parte del suo impero economico. Sempre a Miami, nella locale filiale del grande istituto di credito svizzero Ubs, Crasso aveva aperto un conto intestato alla Dexiafin structures re, un’altra società delle Bvi che compare nei Pandora Papers. Secondo le carte dell’accusa, questa sponda bancaria sarebbe servita per muovere buona parte dei 7 milioni di euro al centro di una manovra truffaldina. In sostanza, la Segreteria di Stato ha sottoscritto titoli strutturati (credit link notes) legati a obbligazioni della Dexiafin Municipal Agency, ma l’investimento sarebbe stato deciso sulla base di documentazione falsa. I soldi in teoria destinati ad acquistare i bond sono invece approdati all’Ubs di Miami sul conto della Dexiafin structures re. Chiamato in causa dagli inquirenti vaticani, Crasso ha dapprima respinto questa ricostruzione per poi ammettere, nell’interrogatorio del 9 dicembre dell’anno scorso, che il «documento era stato effettivamente predisposto» da lui. Il gioco di sponda via British Virgin Islands è solo una delle numerose complesse operazioni di cui il consulente per quasi trent’anni di casa in Vaticano è ora chiamato a rispondere in Tribunale. È stato Crasso, nel 2013 a introdurre in Vaticano Raffaele Mincione, il finanziere con base a Londra destinato di lì a poco a diventare, come viene definito dagli inquirenti, “l’indiscusso dominus delle politiche d’investimento della Segreteria di Stato”, suggeritore e principale beneficiario del fallimentare investimento nel palazzo londinese di Sloane Avenue, pagato 200 milioni di dollari. Nel frattempo, lasciato il Credit Suisse nel 2014, Crasso si è messo in proprio con sua fiduciaria personale a Lugano, la Sogenel e poi, dal 2016, è arrivato a gestire oltre 70 milioni di fondi del Vaticano con un fondo d’investimento di Malta, il Centurion. Denaro che è stato impiegato nelle iniziative più disparate, comprese alcune che potevano risultare imbarazzanti per la Santa Sede come il film hollywoodiano Rocketman, sulla vita del cantante Elton John. La lista delle operazioni sospette comprende anche l’acquisto di 7 milioni di obbligazioni della già citata Hp finance di Miami. Nel 2016 Crasso propose questo investimento alla Segreteria di Stato, senza rivelare, però, di essere il proprietario della società che avrebbe incassato quei soldi. Un’altra accusa, l’ennesima, per il finanziere che, contattato dall’Icij, si dichiara innocente ma ormai rassegnato alla condanna. «È un verdetto già scritto», dice. «Il Papa detta legge e tutti obbediscono».

Tutte le ombre di un caso montato dall’Espresso. Becciu e la Santa Inquisizione, processo senza diritto alla difesa. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. La faccenda che ha portato alle dimissioni del cardinale Becciu ha un’origine giornalistica prima che giudiziaria. Fu infatti l’Espresso, diretto da Marco Damilano, a montare il caso di quel principe della Chiesa e dell’inchiesta-calderone che l’ha coinvolto con addebiti via via fioriti intorno alla prima ipotesi di illecito (l’acquisto, a prezzo giudicato improbabile, di un palazzo londinese). Quel settimanale ha sempre negato che il proprio lavoro abbia in qualsiasi modo influenzato le determinazioni papali circa il trattamento di giustizia da riservare a Becciu (un trattamento, diciamo così, non troppo predisposto a tenere in conto le ragioni della difesa): ma non ha mai spiegato come il Papa potesse disporre delle informazioni – chiamiamole in questo modo – raccolte da l’Espresso prima che esse fossero pubblicate. E non si tratta propriamente di un dettaglio. Becciu, infatti, fece causa al settimanale e, contro l’atto di citazione notificatogli, il direttore de l’Espresso allegò che mentre uscivano le notizie di agenzia sulle dimissioni del cardinale “era in preparazione l’uscita del nostro settimanale per la domenica successiva, con la copertina con il titolo ‘Fuori i mercanti dal tempio’ e l’inchiesta di Massimiliano Coccia sullo scandalo vaticano”. Chiunque avrebbe potuto domandarsi, e avrebbe potuto domandare a l’Espresso, se non sarebbe stato più semplice spiegare che il Papa non poteva essere influenzato da notizie ancora non pubblicate. Senonché quella domanda (a parte chi scrive) non la pose nessuno, perché la risposta era nelle cose: sarebbe stato più semplice, certo, se quelle notizie non fossero state trasmesse al Papa prima della pubblicazione. Inutile dire che la scaturigine giornalistica – ma meglio diremmo velinistica – non esaurisce le ragioni di perplessità sulla vicenda. L’altro giorno vi è intervenuto Ernesto Galli della Loggia, rilevando come la (quasi) generalità della stampa abbia completamente trascurato che questo caso è strepitoso – sì – per le accuse mosse all’imputato e per l’eminenza del suo rango, ma soprattutto per il modo disinvolto con cui questo piccolo ma influentissimo Stato monarchico sta facendo mostra di poter fare giustizia. Galli della Loggia non l’ha nominata, ma l’eccezione in quel coro di silenzio è rappresentata da Vittorio Feltri, il quale, su Libero, ormai da mesi s’è incaparbito a far le pulci a quel processo parecchio strano, snocciolando lungo una specie di contro-inchiesta le contraddizioni, le forzature, le petizioni di principio poste a sorreggere un’accusa che sembra dover condurre a un esito di condanna predeterminato. Deve essersene reso conto un altro autorevole commentatore e già più volte direttore del Corriere, Paolo Mieli, il quale, nel corso di una rassegna stampa radiofonica, ha infine lasciato cadere che in effetti qualcosa incuriosisce in un processo che si sviluppa secondo un modulo puramente inquisitorio, un protocollo rimesso all’arbitrio di un’autorità somma che mentre si augura l’accertamento dell’innocenza del suo ex collaboratore riorganizza le regole del processo in favore dell’accusa che reclama la condanna di quel “marcio sistema predatorio e lucrativo”. Il marcato profilo innocentista delle sparute testimonianze di cui si è detto (Libero e Vittorio Feltri, o il Galli della Loggia che non nasconde il possibile movente amicale del proprio intervento), non destituisce di un grammo la gravissima somma di dubbi sulla purezza di questo processo e delle inchieste para-giudiziarie che l’hanno preparato: responsabile o no di quel che gli si addebita, infatti, Becciu è vittima di modalità di incolpazione difficilmente giustificabili persino agli occhi di un’opinione pubblica, come quella del nostro Paese, purtroppo abituata alla giustizia pronunciata senza prove e senza adeguato spazio per l’esercizio dei diritti di chi la subisce. Che il Cardinale Becciu abbia commesso i delitti affibbiati alla sua responsabilità, che sia invece estraneo a quei fatti o che essi non costituiscano illecito e insomma, come si dice, a prescindere dalla fondatezza o no delle accuse, resta l’evidente sommarietà di un processo che sembra molto poco orientato all’accertamento della verità e piuttosto rivolto a una conclusione preordinata, da ottenere costi quel che costi. E il costo non è soltanto (ma già basterebbe, ovviamente) la vita di una persona cui si toglie il diritto a un processo capace di chiamarsi tale in un sistema appena civile: il costo è la negazione dei principi di diritto cui un sistema si costringe pur di riaffermare la propria ragion di Stato, qualcosa che non si giustifica nemmeno in un ordinamento teocratico come quello governato dal Papa di Roma. Iuri Maria Prado

Il processo Becciu e la religione garantista. Dura lex, sed lex. Il processo Becciu e la religione garantista. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 7 ottobre 2021. Modifiche legislative ad hoc applicate solo nei confronti del cardinale e dei suoi co-imputati, dando poteri illimitati all’accusa sono possibili in una monarchia assolutista ma sono inaccettabili in un normale Stato di diritto. Non a caso il processo è già stato fermato per la violazione delle garanzie minime. Ha fatto clamore sulla stampa internazionale la notizia che il primo storico processo del Vaticano contro un cardinale, un principe di Santa Romana Chiesa, si sia già fermato per la violazione delle garanzie di legge contro alcuni imputati, al pari di tanti, troppi processi ordinari che affollano le aule di giustizia italiane. Il Tribunale dello Stato Vaticano ha annullato ieri il rinvio a giudizio del Cardinale Giovanni Angelo Becciu e dei principali imputati (i finanzieri Raffaele Mincione, Enrico Crasso e Gianluigi Torzi, il funzionario della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e un altro prelato Mauro Carlino) coinvolti nella vicenda della compravendita di un lussuoso edificio nel quartiere di Belgravia a Londra perché i rappresentanti dell’accusa vaticani, tutti autorevoli giuristi e avvocati, prima del rinvio a giudizio hanno omesso di contestare loro i reati di cui li ritengono responsabili con un formale atto di accusa regolarmente notificato. Un obbligo elementare e doveroso posto a garanzia degli imputati, il minimo sindacale per uno Stato che come il Vaticano abbia a cuore i diritti umani, tra cui il diritto canonico e le recenti bolle papali pongono anche il diritto di difesa. Come avviene quotidianamente in ogni palazzo di giustizia, un’indagine governata dal pregiudizio colpevolista di inquirenti e stampa al seguito, quando arriva al vaglio di un giudice mostra la corda delle criticità e dei vizi da cui è afflitta e che emergono per la elementare ragione che viene sottoposta finalmente al contraddittorio con gli avvocati della difesa. I fatti sono noti: il riacquisto di un prestigioso immobile nel cuore di Londra. Secondo l’accusa sarebbe stato il pretesto di un ingarbugliato complotto finanziario che con la complicità di funzionari e prelati corrotti ha indotto quest’ultima a pagare un prezzo spropositato con corrispondente indebito arricchimento dei consulenti Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi. Il tutto tramite un meccanismo di scatole cinesi e facendo leva sulle difficoltà finanziarie della Segreteria di Stato. Spesso gli investimenti finanziari causano perdite e forti recriminazioni negli investitori, lo Stato Vaticano ha ritenuto di potersi tutelare sollecitando legittimamente un’indagine penale. Il punto è che gli organi di giustizia competenti a indagare e giudicare sono sue dirette emanazioni. Il Vaticano secondo la sua Legge Fondamentale emanata il 26 novembre 2000 in sostituzione di quella precedente del 7 Giugno 1929, è uno stato governato da uno degli ultimi monarchi assoluti. L’articolo 1 stabilisce che il potere legislativo, esecutivo e giudiziario fa capo al Sommo Pontefice che lo esercita delegando ad altri soggetti, «ferma restando sempre la possibilità di un esercizio diretto da parte del Pontefice» (G. Della Torre, Lezioni di diritto vaticano). Con la Legge numero CCCLI (351) del 16 Marzo 2020 il Papa ha modificato la normativa sull’ordinamento giudiziario stabilendo che «i magistrati dipendono gerarchicamente dal Sommo Pontefice (….) sono soggetti soltanto alla legge» e soprattutto «sono nominati dal Sommo Pontefice, il quale designa ciascuno nel proprio ufficio».Con una simile struttura istituzionale ogni indagine presenta aspetti d’intuibile delicatezza, ma che si sono fatalmente esasperati in una vicenda particolarmente complessa sia per i profili tecnici che organizzativi. Non esistono precedenti di processi simili nella storia giudiziaria del Vaticano. Per di più i promotori, alle prese con immaginabili difficoltà hanno ritenuto di poterle aggirare con una serie di modifiche legislative ad hoc, sotto forma di provvedimenti amministrativi di diretta emanazione papale: i rescripta. Si tratta di innovazioni di non poco conto che hanno consegnato all’accusa un potere pressoché illimitato di indagine, potendo disporre intercettazioni e addirittura arresti senza alcun controllo di un giudice. Il problema è che tali norme sono state applicate a un solo processo e ai suoi imputati. A questo si aggiunge un’altra criticità: con un’ulteriore innovazione il Papa ha stabilito che il cardinale Becciu sia processato non da un tribunale religioso di suoi pari come sempre prima d’oggi ma da uno ordinario. Un insieme di norme ad hoc possibili in uno stato assolutista ma che nessuno Stato di diritto potrebbe accettare. Tale particolare struttura giudiziaria ha dimostrato ripetutamente la sua fragilità allorché ha dovuto misurarsi con le giurisdizioni straniere nelle indagini all’estero. Il giudice inglese ha respinto una richiesta di sequestro milionaria a carico di Gianluigi Torzi demolendo la sostanza delle accuse mosse per la vicenda di Sloan Square. Una analoga problematicità è emersa al vaglio del giudice interno vaticano, anch’esso non disponibile a condividere le semplificazioni di metodo degli inquirenti. Davanti a una pioggia di eccezioni, i giudici si sono fermati già davanti alle prime due. Oltre a quella dell’omesso interrogatorio vi è quella forse ancora più clamorosa della mancata produzione delle registrazioni dichiarazioni del principale teste d’accusa mons. Alberto Perlasca, già responsabile dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Nelle liste testimoniali compaiono tra i testimoni l’attuale Segretario di Stato Pietro Parolin e il suo numero due, il sostituto Pena Parra (successore di Becciu), che hanno seguito la compravendita riferendone anche al Sommo Pontefice. Le registrazioni dei cinque interrogatori di Perlasca, quasi tutti senza l’assistenza di un difensore sono fondamentali e il tribunale ne ha chiesto la produzione sin dalla prima udienza. Sorprendentemente e con grave pregiudizio per lo svolgimento del processo i promotori si sono rifiutati assumendo la necessità di tutelare la riservatezza dei vari soggetti intervenuti negli atti. Ciò ha alimentato dubbi e interrogativi e la mal dissimulata irritazione dello stesso tribunale di fronte a un rifiuto sorprendente di produrre una prova decisiva. La decisione del Tribunale, certo sofferta, fa intendere che oggi neanche la legittima ansia di rinnovamento portata avanti da Papa Bergoglio può fare a meno di trascurare i principi fondamentali dei diritti umani che sono patrimonio comune anche al diritto canonico, fonte principale di giustizia nell’ordinamento della Santa Sede. Le recenti prese di posizione di autorevoli intellettuali come Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli testimoniano di una visione culturale radicata. Vi è da chiedersi tuttavia se un processo modellato su quello inquisitorio dello stato liberale pre-fascista (il Vaticano ha introiettato all’atto della firma dei Patti lateranensi nel ’29 i codici penali allora in vigore) possa reggere di fronte al vaglio giudiziario che deve tener conto della cultura garantista che nonostante tutto è ormai diffusa tra i giuristi. La sensazione è che le difficoltà dell’accusa nascano da questa evidente contraddizione di conciliare una struttura inquisitoria con i principi tipici del sistema accusatorio che costituisce un precedente che i giudici vogliono mantenere tramite una applicazione costituzionalmente orientata delle norme del processo penale vaticano. Peraltro eventuali condanne pronunciate in violazione dei diritti costituzionali non troverebbero riconoscimento in Italia e in Europa allorché il Vaticano ne dovesse chiedere l’esecuzione. Cosa accadrà? È ipotizzabile che in tutta fretta i promotori cercheranno di convocare i sei imputati stralciati per interrogarli in una frenetica lotta contro il tempo onde cercare di poterli poi ricongiungere al convoglio principale, ma resta un problema allo stato irrisolvibile: la volontà dei promotori di produrre le prove richieste. Se tale rifiuto permarrà il processo difficilmente potrà andare avanti. Sbaglierebbe gravemente chi volesse riproporre in questa vicenda lo stucchevole schema della giustizia “etica” frenata dai formalismi giuridici, vero è invece che nessuna opera di riforma di uno Stato moderno, neanche della sede del Cristianesimo, può fare a meno di quella religione laica che è il rispetto delle garanzie.

L’autore fa parte del collegio difensivo nel processo Becciu

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 7 ottobre 2021. Il pasticcio vaticano si consuma di mattino presto. Quando il presidente del collegio dei giudici, Giuseppe Pignatone, con un’ordinanza a sorpresa ha deciso di bocciare una parte importante dell’atto d’accusa con cui i promotori di giustizia Alessandro Diddi e Gian Piero Milano hanno mandato a processo il cardinale Angelo Becciu e altri imputati eccellenti. Tutti accusati di aver depredato le finanze della Santa sede per la compravendita del palazzo londinese di Sloane Avenue. Pignatone non è entrato nel merito delle varie fattispecie di reato. Ma annullando il rinvio a giudizio di figure centrali come il finanziere Raffaele Mincione, Fabrizio Tirabassi, Mauro Carlino e l’avvocato Nicola Squillace, e ordinando la restituzione degli atti di gran parte delle accuse rivolte sia al banchiere Enrico Crasso sia allo stesso Becciu, ha smontato l’intero impianto procedurale disegnato dai pm di papa Francesco. Rei, di fatto, di non aver rispettato i diritti della difesa e garantiti persino da un codice penale vetusto e poco garantista come quello vaticano. Pignatone accogliendo le istanze delle difese ha certificato che Diddi e gli altri promotori in molti casi non hanno effettuato interrogatori sui fatti oggetto dell’imputazione «né i fatti sono stati enunziati in un mandato», come invece vuole un articolo del codice penale. Secondo gli imputati, in questo modo, «è stato leso in modo gravissimo il principio del contraddittorio» dal momento che sarebbero «stati rinviati a giudizio senza essere messi in grado di conoscere le contestazioni loro ascritte». E dunque senza potersi difendere in fase preliminare, con contraddittori che avrebbe potuto portare in teoria a un’archiviazione e non a un rinvio a giudizio. Diddi, uomo vicinissimo al papa e grande regista dell’accusa, a fine luglio aveva chiesto il rigetto dell’eccezione. Nell’udienza dell’altro ieri aveva invece tentato un colpo di coda, forse preoccupato dalle possibili decisioni di Pignatone: in un afflato di garantismo, aveva insolitamente chiesto che tutti i rinvii a giudizio da lui fatti gli fossero restituiti, per poter integrare il fascicolo con nuovi interrogatori e «garantire nel modo più ampio ed opportuno i diritti della difesa», evidentemente fino a quel momento non rispettati appieno. L’ex capo della procura di Roma però ha deciso di metterlo di fronte al fatto compiuto, e ha provato a mediare con un provvedimento accorto che sembra voler salvare capra e cavoli. Consentendogli contemporaneamente di non mettere la faccia su un processo che, senza aggiustamenti, partiva azzoppato da procedure viziate all’origine. Il dispositivo non evita però la magra figura fatta non solo all’ufficio dei pm, ma all’intera istituzione che ne viene indirettamente coinvolta: Pignatone ha infatti dichiarato «fondata» la violazione da parte di Diddi e gli altri pm del codice penale, anche se solo per alcuni imputati. Che di fatto vengono stralciati dal processo, che va avanti almeno per ora solo su questioni minori: tutta la vicenda del palazzo londinese, cuore del fascicolo, dovrebbe infatti essere “congelata” visto che il rinvio a giudizio di uno dei massimi protagonisti – Mincione – è stato azzerato. Anche nel caso di Becciu, per alcuni reati come il peculato in merito ai presunti finanziamenti illeciti alla cooperativa dei fratelli in Sardegna, si torna al punto di partenza. Tutti gli imputati dovranno essere ora richiamati dai promotori e interrogati sui singoli reati di cui non erano a conoscenza. Per l’accusa è una mezza Caporetto, ma poteva andare peggio. Se non nei fatti (è improbabile però che in tempi brevi si riescano a sentire tutti gli imputati), il disastro è nell’immagine approssimativa data all’esterno su un procedimento delicatissimo: la gestione delle procedure è stata quantomeno improvvida e non garantista. Dopo la vicenda dei rescritti del papa, che durante l’indagine ha, da monarca assoluto della Santa sede, modificato le norme agevolando l’accusa, le polemiche hanno riguardato anche un’altra questione rilevante: quella del mancato deposito da parte dei pm di alcune prove considerate decisive. In particolare le trascrizioni e le video registrazioni degli interrogatori di monsignor Alberto Perlasca, passato da principale imputato a grande accusatore di Becciu. Interrogatori di cui Diddi e Milano hanno consegnato solo verbali in forma riassuntiva, e che secondo le difese presentano buchi e discrasie rispetto a quanto scritto in un altro memorandum depositato dall’ex amico di Becciu. Pignatone la scorsa estate aveva già imposto ai promotori di consegnare tutti gli atti in loro possesso, e lo scorso 27 luglio Diddi «aderiva alla richiesta esplicitando», ricorda il capo del collegio, «che in proposito non c’è nessun problema». Salvo cambiare idea alla vigilia della scadenza, spiegando che la «divulgazione del materiale» porterebbe «grave e irreparabile nocumento dei diritti delle persone che hanno partecipato» all’interrogatorio. Questioni di privacy, insomma. Pignatone invece è d’accordo anche stavolta con gli avvocati difensori che segnalano come quegli interrogatori (e altre chat sequestrate ma mai depositate) sono elementi indispensabili al corretto e completo esercizio del diritto di difesa. E ha così ordinato ancora una volta ai promotori del papa di depositare tutti gli interrogatori audio e video degli imputati e di monsignor Perlasca. «Non si comprende come la tutela della riservatezza possa essere messa a rischio dalla pubblicità, propria della sede dibattimentale, di atti che per loro natura non sono sottoposti a segreto di dichiarazioni, come quelle di Perlasca, che lo stesso promotore ha indicato come fonti di prova e ha ripetutamente evocato per motivare la sua richiesta di citazione a giudizio degli imputati», chiosa il provvedimento del collegio. «Nel merito si deve in primo luogo osservare che il deposito degli atti richiesti dalle difese appare indispensabile al fine di assicurare la par condicio delle parti nella conoscenza degli atti e quindi il rispetto del principio del contraddittorio. Per altro non si può fare a meno di notare che il promotore di giustizia aveva chiaramente affermato che la videoregistrazione era stata effettuata con la piena consapevolezza e il consenso di tutti i partecipanti e che non c’era alcun problema che ne impedisse il deposito». Pignatone chiede a Diddi di sciogliere anche un altro mistero mai chiarito dall’accusa: Perlasca, un tempo indagato, è stato definitivamente archiviato o è imputato in altri procedimenti segreti di cui nulla si conosce? E se è uscito dal processo, quasi sono i motivi per cui da sospettato numero uno dello scandalo londinese (è lui ad aver messo la firma su molti atti dell’affare del palazzo) è uscito infine del tutto indenne dalla vicenda? Pignatone vuole saperlo, e come lui molti gli osservatori che non si aspettavano scontri così duri tra due uomini scelti direttamente da Francesco per gestire uno dei processi più delicati della storia recente della chiesa.

Caso Becciu, crollo di un processo mediatico. Il cardinale Becciu è stato rinviato a giudizio per una storia di compravendita di immobili. Ma ora le accuse crollano. Ecco la ricostruzione della vicenda. Valentina Stella su Il Dubbio l’8 ottobre 2021. Nei processi celebrati in Vaticano vengono rispettare le garanzie processuali? Sulla giustizia italiana ci poniamo ogni giorno questa domanda e le risposte sono le più varie. Tuttavia in territorio straniero, è impresa ancora più ardua, soprattutto perché non siamo abituati alle regole e alle procedure della Santa Sede. Ma vediamo cosa è successo, ricostruendo prima brevemente il contesto, ossia il processo iniziato lo scorso 25 luglio e che vede tra gli imputati il cardinale Angelo Becciu, ex Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi ed ex Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato. La storia è nota: tutto gira intorno alla compravendita del palazzo a Sloane Avenue a Londra, pagato dalla Segreteria di Stato vaticana, negli anni in cui Becciu era Sostituto, molto di più del suo effettivo valore, ossia circa 160 milioni di euro. Nell’inchiesta si fa riferimento anche altri investimenti sospetti, che secondo l’accusa sarebbero stati effettuati o coperti da Becciu utilizzando soldi provenienti dall’Obolo di San Pietro, che raccoglie le piccole e grandi donazioni che i fedeli affidano al Papa per le opere di carità. Con Becciu sono a processo altre nove persone, personale ecclesiastico e laico, oltre a personaggi del mondo della finanza internazionale. La Segreteria di Stato vaticana si è costituita parte civile ed è rappresentata dall’ex ministro della Giustizia, l’avvocata Paola Severino. Ora cosa è accaduto di importante? In sintesi uno duro scontro tra accusa e difesa.  Con una ordinanza letta in aula due giorni fa, il presidente del Tribunale vaticano, l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, ha disposto la parziale restituzione degli atti, limitatamente a una parte degli imputati e dei reati loro contestati, all’Ufficio del promotore di giustizia, Alessandro Diddi e Gian Piero Milano. In questo modo sono stati annullati i rinvii a giudizio del Cardinale Angelo Becciu e dei principali imputati (Raffaele Mincione, Fabrizio Tirabassi, Mauro Carlino e Nicola Squillace). In particolare, per quanto concerne Becciu, tornano all’Ufficio del Pg quelli relativi ai reati di subornazione di testimone e peculato, mentre restano in piedi quattro ipotesi di peculato e due di abuso d’ufficio. Per l’avvocato Cataldo Intrieri, legale, insieme a Massimo Bassi, di Fabrizio Tirabassi, commercialista che aveva acceso alle casse del Papa: «quanto successo deriva dal fatto che i rappresentanti dell’accusa vaticani, tutti autorevoli giuristi e avvocati, prima del rinvio a giudizio hanno omesso di contestare agli imputati i reati di cui li ritengono responsabili con un formale atto di accusa regolarmente notificato. Senza questo atto formale gli imputati sono stati privati della possibilità di potersi difendere in un contraddittorio che avrebbe potuto sfociare in una archiviazione. Inoltre in questa vicenda lamentiamo violazioni di principi basilari del diritto internazionale quale il varo di norme che danno pieni poteri ai pm vaticani di arrestare ed intercettare solo ed esclusivamente per questo processo e questi imputati, nonché il rifiuto reiterato di produrre prove decisive come le registrazioni di dichiarazioni di un monsignore pentito e sentito senza il difensore. Sono rilievi che i promotori di giustizia, che sono avvocati, qualcuno anche penalista, dovrebbero avere chiaro». La questione, secondo Intrieri, assume i contorni simili di quello che accade anche nella giustizia italiana: «Come avviene quotidianamente in ogni palazzo di giustizia, un’indagine governata dal pregiudizio colpevolista di inquirenti e stampa al seguito, quando arriva al vaglio di un giudice mostra la corda delle criticità e dei vizi da cui è afflitta e che emergono per la elementare ragione che viene sottoposta finalmente al contraddittorio con gli avvocati della difesa». In conclusione, ci dice Intrieri, «il clamoroso processo sulla vendita dell’immobile di Sloane Square è di fatto azzerato e limitato ad ipotesi di reato secondarie».  Abbiamo anche raccolto il parere del promotore di giustizia, avvocato Diddi: «resto davvero basito dal fatto che ci sono avvocati che sostengono che ci sia stata la violazione del diritto di difesa. Appena c’è stato un problema sollevato da un difensore su una questione controversa relativa alla necessità o meno di tenere gli interrogatori, come promotore di giustizia ho richiesto io la trasmissione degli atti al mio ufficio per riprendere in mano il fascicolo e ricominciare da capo. Il Tribunale me li ha restituiti, accogliendo la mia richiesta: a chi ha dato ragione, a me o alla difesa? Credo che un tale mio gesto non si sia mai visto in Italia. Io sono innanzitutto un avvocato e proprio per questo ho avuto la sensibilità di richiedere gli atti indietro. Quindi tutti queste polemiche che vengono da miei colleghi mi lasciano davvero senza parole».

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 3 ottobre 2021. Fu l’allora sostituto della Segreteria di Stato Angelo Becciu a presentare la signora Cecilia Marogna al generale Luciano Carta, al tempo all’Aise, come risorsa per i Servizi segreti italiani per l’estero. Di più, come trait d’union tra l’Italia e la rete informativa costituita dalle Nunziature (le ambasciate vaticane in tutto il mondo), che senza alcun dubbio costituiscono una risorsa appetibile per qualsiasi servizio di intelligence. Un’offerta di per sé golosa, che bypassava del tutto i rapporti consolidati tra la Gendarmeria vaticana (che agisce non solo come polizia giudiziaria e di prevenzione, ma come “intelligence” del piccolo stato del Papa) e i Servizi italiani. E che sostanzia il dubbio della creazione di un “servizio parallelo” personale di Becciu all’interno delle Mura Leonine, peraltro ammesso dalla Marogna. La donna ha prodotto pubblicamente una lettera di accreditamento del cardinale Becciu del novembre 2017 (quando Luciano Carta era vicedirettore del servizio). “Era il numero 3 del Vaticano che lo chiedeva”, avrebbe sottolinea Carta, asseritamente per risolvere sequestri all’estero di religiosi. Ma dopo un certo periodo, lo stesso generale Carta decise di “congelare” la collaborazione offerta da Becciu attraverso la “dama del cardinale”, vista la non apprezzabile (nel senso della sostanziale inutilità) del contatto. Il file Marogna venne poi definitivamente “chiuso” dal successore di Carta (dal novembre 2018 divenuto capo del servizio), il generale Gianni Caravelli (nominato nel maggio 2020). È questa la realtà molto limitata dei rapporti tra Cecilia Marogna e i nostri Servizi, come emerge dalla Relazione ispettiva del Dipartimento per le informazioni per la sicurezza (Dis), consegnata il 15 settembre scorso al Copasir, che aveva sollecitato un chiarimento sulla vicenda in base all’articolo 34 della legge di riforma del 1977. Insomma, tutto quello che ha fatto e disfatto la donna, non riguarda l’attività operativa dei nostri Servizi. Il Copasir ha ricevuto il 13 maggio 2021 un esposto della Marogna che voleva essere riconosciuta la sua attività di “agente segreta” di collegamento con l’Italia per sfuggire all’accusa di peculato incombente su di lei. L’accusa è di aver ricevuto dalla Segreteria di Stato per ordine di Becciu (già cardinale e fuori dalla Terza Loggia) pagamenti per circa 600 mila euro. L’indagine del Dis è partita il 20 maggio. E la Marogna ha fatto sapere di essere stata convocata per essere ascoltata il 23 luglio, a soli 4 giorni dall’apertura del processo vaticano contro di lei, Becciu e gli altri imputati per l’affare del palazzo di Londra. Lo stesso 27 luglio il suo avvocato ha presentato un’istanza al presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, perché la posizione della sua assistita fosse stralciata o il processo contro di lei sospeso, in attesa che la donna fosse liberata da un preteso “segreto di Stato”, italiano e addirittura Nato, di cui sarebbe stata depositaria. Il 29 luglio tuttavia una nota di palazzo Chigi attribuibile al sottosegretario Gabrielli (detentore della delega del presidente Draghi sui Servizi) chiariva in modo netto che la donna può esercitare il suo diritto di difesa liberamente perché non c’è alcun segreto dello Stato italiano che la coinvolga. È fallito quindi il tentativo di Marogna di utilizzare a sua discolpa i poteri del Copasir, che ha dovuto “prendere atto” (così la dichiarazione del presidente Adolfo Urso) delle conclusioni della relazione ispettiva del Dis. Pignatone dovrà decidere sull’istanza della donna  martedì 5 ottobre. Né è passato inosservato che l’esposto della Marogna è caduto in un momento di particolare turbolenza per i Servizi italiani, dopo il cambio di Governo e dopo le due trasmissioni di Report (12 aprile, 3 maggio) dedicate al caso Vaticano, e all’incontro tra l’allora capo dipartimento del Dis Marco Mancini (che ha avuto per anni in mano la gestione dei fondi riservati dei servizi) e Matteo Renzi. Da allora sono cambiati il direttore del Dis e anche il presidente del Copasir. Mentre Mancini ha dovuto lasciare i servizi segreti italiani, dopo peraltro non essere riuscito a rientrare all’Aise per l’opposizione del direttore Caravelli.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it l'11 agosto 2021. I magistrati del Papa titolari dell'inchiesta choc sull'immobile a Londra hanno risposto picche al Presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone che aveva chiesto loro – al termine della prima udienza del famoso processo chiamato la "mani pulite" d'Oltretevere - di depositare il video chiave relativo alla registrazione di monsignor Alberto Perlasca, collaboratore di giustizia e principale accusatore del cardinale Angelo Becciu (rinviato a giudizio con l'accusa di peculato). Pignatone chiudendo la prima udienza aveva ordinato ai magistrati di «depositare in Cancelleria entro e non oltre il 10 agosto copia dei supporti contenenti le registrazioni audio e video». Di quel video nessuno prima di quel momento aveva mai sentito parlare, come avevano messo in luce le difese dei dieci imputati. Gli avvocati avevano così chiesto di prenderne visione in tempi ragionevoli come presupposto base per avere un giusto processo. Oggi dal Vaticano è uscita la risposta dell'ufficio dei Promotori di Giustizia che hanno respinto come “irricevibili” tali richieste formulate da Pignatone. I pm vaticani spiegano in un documento di otto pagine che «l'unico atto di documentazione delle dichiarazioni resta il processo verbale redatto» e che di conseguenza «la richiesta di trascrizione delle registrazioni è, a parere di questo ufficio irricevibile». Ribadiscono inoltre che le registrazioni di Perlasca (ex responsabile dell'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato) sono state fatta allo «scopo di prevenire e rimuovere eventuali contestazioni al momento della formazione e della chiusura del verbale redatto a norma del codice». Per i magistrati il deposito dei video di Perlasca potrebbe creare «nocumento ai diritti delle persone che hanno partecipato agli atti», vale a dire avvocati e anche un interprete, i quali  non hanno dato il benestare alla riproduzione del video e alla sua divulgazione in qualsiasi forma. «A parere di questo ufficio gli audio non possono essere consegnati» per tutelare la privacy di Perlasca, del traduttore e dei legali. I pm vaticani chiedono così al presidente del Tribunale, Pignatone di rivedere la sua decisione disponendone la revoca. Ove si ravvivasse la necessità di una ostensione dei contenuti si chiede che ciò venga disposto solo attraverso la visione in cancelleria dei materiali con modalità tali da impedire ogni forma di registrazione e o riproduzione mutuando al riguardo la disciplina introdotta dal legislatore italiano con riferimento alla materia delle intercettazioni telefoniche».

DATAROOM. Vaticano, via al processo al cardinale Becciu. Dieci anni di segreti e corruzione nella Santa Sede. Milena Gabanelli, Mario Gerevini, Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 25 luglio 2021. In Vaticano è l’ora dei conti: con la giustizia e con i bilanci. Alla prima ci pensa il tribunale terreno del Papa, che da martedì 27 luglio processerà, fra gli altri, un cardinale: Giovanni Angelo Becciu. È la prima volta nella storia. I reati a vario titolo contestati ai 10 imputati sono truffa, riciclaggio, peculato, corruzione. Sui bilanci pesano i resoconti finanziari in rosso e l’uso spregiudicato, nel recente passato, dei fondi della Segreteria di Stato. Un «marcio sistema predatorio e lucrativo» secondo i magistrati del Papa, dove soggetti «improbabili se non improponibili» hanno attinto alle risorse della Santa Sede grazie anche a «limitate ma assai incisive complicità e connivenze interne».

Gli imputati. Davanti a una corte (di laici) e all’opinione pubblica di tutto il mondo verranno ripercorsi, analizzati e giudicati dieci anni di gestione segreta delle finanze del Vaticano. Oltre a Becciu, alla sbarra ci sono il suo ex segretario monsignor Mauro Carlino, la sedicente agente segreta «ingaggiata» da Becciu, Cecilia Marogna, lo storico banchiere del Vaticano Enrico Crasso, il commercialista che aveva le chiavi della cassa del Papa Fabrizio Tirabassi, gli ex vertici dell’Antiriciclaggio vaticano René Brülhart e Tommaso Di Ruzza, l’avvocato d’affari Nicola Squillace, il finanziere a cui sono stati dati in gestione 200 milioni delle offerte dei fedeli Raffaele Mincione, e il broker di valute incaricato dalla Segreteria di Stato di tutelare quel patrimonio, Gianluigi Torzi, poi arrestato con l’accusa di estorsione ai danni della Santa Sede. 

I retroscena. Per la prima volta saranno esaminate in pubblico le scelte finanziarie, gli investimenti, le logiche di selezione dei consulenti e dei banker da parte della Segreteria di Stato. Magari si chiariranno anche i punti oscuri: per esempio, per quale motivo il Vaticano abbia trattato per mesi con un presunto estorsore e perché gli abbia poi bonificato 15 milioni; o i retroscena dello scontro tra lo Ior e il segretario di Stato Pietro Parolin per un prestito (non concesso) da 150 milioni di euro; e anche quanto il Vaticano ha effettivamente perso con le scommesse finanziarie spericolate dei vari Becciu, Perlasca e Tirabassi «assistiti»da Mincione, Crasso, Torzi e da altri imputati. C’è un aspetto di immagine e reputazionale molto delicato: i fondi della Segreteria di Stato, oltre 600 milioni di euro, derivano dalle offerte dei fedeli al Papa, il cosiddetto «Obolo di San Pietro» che si raccoglie ogni anno il 29 giugno nelle chiese di tutto il mondo. È un’entrata fondamentale: da quel tesoro ogni anno i papi attingono per ripianare le perdite della macchina operativa del Vaticano. Solo il 10%, viene usato dai pontefici per la carità; la gran parte serve a sostenere le spese della Curia Romana, le ambasciate (nunziature), la comunicazione, i giornali, l’uniformità del rito in tutti i paesi, fino ai tribunali ecclesiastici.

L’obolo ricapitalizza l’azienda. Ma a quanto ammonta il buco del Vaticano? Per tre anni, fino al 2018 compreso, i bilanci della Santa Sede non sono stati resi pubblici, ma hanno sempre chiuso in perdita. Nel 2016 il bilancio vaticano ha perso 3 milioni, l’anno dopo 32 milioni. Nel 2018 ne ha bruciati 75, nel 2019 altri 11 e infine 66 l’anno scorso. Nel 2020, infatti, al deficit strutturale si è aggiunto il Covid: con i Musei Vaticani (i più visitati al mondo) chiusi per quasi un anno e minori affitti incassati dagli inquilini, c’è stato un calo di circa 100 milioni di ricavi. Complessivamente tra il 2016 e il 2020 il deficit cumulato è pari a 187 milioni. Se si aggiungono le stime sul 2021 il buco varia tra 237 e 276 milioni di euro.

A Flourish chart. Negli ultimi dieci anni le offerte all’Obolo sono calate costantemente. E così hanno contribuito sempre meno a ripianare il deficit: dai 68 milioni di euro del 2014 le donazioni sono scese nel 2020 a 44 milioni. «Tra il 2015 e il 2019 la raccolta dell’Obolo di San Pietro è diminuita del 23%, e nel 2020 è stata inferiore del 18%. È probabile che la crisi legata alla pandemia si faccia sentire ancora quest’anno», ha detto il Prefetto per l’Economia Juan Antonio Guerrero Alves. La lezione sembra imparata: sabato 24 luglio, presentando i conti 2020 ha ammesso: «Abbiamo imparato che la trasparenza ci protegge più della segretezza». 

Le perdite dagli investimenti. Il caso del palazzo di Sloane Avenue a Londra è emblematico: è costato circa 350 milioni, secondo i magistrati. Quanto ci ha perso il Vaticano? Per ora si può solo stimare: tra 73 e 166 milioni, secondo monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Apsa (una sorta di fondo sovrano del Vaticano). L’unico dato certo sul palazzo emerge dal bilancio 2019, appena pubblicato e inedito, della società che lo detiene, la London 60 limited. L’immobile ha perso quasi 49 milioni. Ma da dove arriva la maxi-perdita? Nelle carte non c’è una riga sull’andamento della gestione. Approvare con 19 mesi di ritardo solo un risicato bilancio del «famigerato» palazzo di Londra, che resta uno dei più importanti asset patrimoniali dell’intera Santa Sede, non corrisponde alla trasparenza chiesta da Papa Francesco. 

La spia del monsignore. Intanto chi gestisce il famoso palazzo? Il controverso architetto Luciano Capaldo, arrivato quasi per caso in Vaticano, è un manager che per anni ha lavorato con l’imputato Torzi. Ma il lato più sorprendente dello strano rapporto Capaldo-Vaticano emerge solo ora da alcune carte giudiziarie. Si scopre infatti che per conto di monsignor Carlino spiava il suo vecchio datore di lavoro (Torzi, appunto) attraverso l’impianto di videosorveglianza dell’ufficio londinese del broker, di cui lo stesso Capaldo aveva le chiavi d’accesso. Carlino inoltre per reperire informazioni su Torzi si appoggiava anche ad agenti segreti e si faceva coprire le spalle da un bodyguard. Non proprio quello che ti aspetti da un monsignore al vertice della Segreteria di Stato, a lungo segretario di Becciu. Dalle 29 mila pagine degli atti dell’inchiesta emergono altri affari opachi, come i soldi persi nei quattro immobili, sempre a Londra, della società Sloane & Cadogan, dove la Segreteria nel 2015 investe 67 milioni di sterline, senza alcuna perizia indipendente; a fine 2017 ne perdeva già più di 14, secondo i calcoli del revisore. Chi aveva venduto? Quattro società offshore di Jersey, che nascondono i nomi di chi ha davvero incassato quei soldi. Ci sono poi i 5 milioni bruciati nel 2017 su titoli Astaldi, già sull’orlo del crac. O ancora il flop della produzione dell’ultimo film della saga di Men in Black, quasi 3 milioni persi. 

I soldi che potrebbero tornare in cassa. Sono già sotto sequestro 64 milioni di euro degli imputati. Ma la Mani Pulite del Vaticano potrebbe portare molto di più dai due nuovi filoni d’indagine aperti dai promotori di giustizia. Uno riguarda lo Ior vecchia gestione e un suo investimento spericolato in un palazzo in Ungheria, l’ex sede della Borsa di Budapest: una vicenda complicata, già oggetto di cause civili a Malta, e che vale almeno 42 milioni di euro. Un’altra inchiesta è legata alla raccolta dell’Obolo in Italia e al suo sito web, e alla raccolta del denaro. A gestire per anni quei fondi è stato monsignor Alberto Perlasca, ora il grande pentito che sta raccontando anni di retroscena e per questo è stato graziato dai magistrati (e dal Papa). Ma molto probabilmente saranno gli altri imputati a processarlo, per difendersi. Intanto Francesco la sua sentenza di fatto l’ha già emessa, con una sorta di giustizia parallela ha allontanato e depotenziato i personaggi centrali di questa vicenda. Lo scorso febbraio ha fatto chiudere tutti i conti in Svizzera, ha tolto la cassa alla Segreteria di Stato trasferendola all’Apsa. Che solo ora, dopo oltre 50 anni, ha reso nota una sintesi di bilancio.

(ANSA il 27 luglio 2021) Si è aperto stamane nella Sala polifunzionale dei Musei Vaticani, allestita per l'occasione ad Aula di Tribunale, il processo al cardinale Angelo Becciu e ad altri nove imputati - tra prelati, funzionari della Santa Sede e manager esterni - per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana, scaturito dalle indagini sull'acquisto del palazzo di Sloane Avenue 60, a Londra, e allargatosi anche ad altre vicende. In discussione reati che, a vario titolo, vanno dal peculato all'appropriazione indebita, dalla corruzione all'estorsione. La prima udienza dell'atteso processo sarà oggi dedicata alle questioni procedurali e alla costituzione delle parti, tra cui quella della Segreteria di Stato come parte civile. Altra parte lesa è lo Ior, la 'banca' vaticana. (ANSA).

Estratto dell’articolo di Paolo Rodari per “la Repubblica” il 27 luglio 2021. (…) Per la prima volta tra gli imputati - dieci in tutto - anche un cardinale, Angelo Becciu. (…) è il primo porporato a subire un'azione del genere. Oltre a lui compaiono davanti alla Corte presieduta da Giuseppe Pignatone la manager cagliaritana Cecilia Marogna (anche lei con l'accusa di peculato), lo svizzero René Bruelhart (ex presidente dell'Autorità di vigilanza finanziaria, per abuso d'ufficio), monsignor Mauro Carlino (già segretario di Becciu, per estorsione e abuso d'ufficio), Enrico Crasso (l'uomo che da decenni aveva in gestione gli investimenti della Segreteria di Stato, per peculato, corruzione, estorsione, riciclaggio e autoriciclaggio, truffa, abuso d'ufficio, falso materiale in atto pubblico e in scrittura privata), Tommaso Di Ruzza (ex direttore dell'Aif, per peculato, abuso d'ufficio, violazione del segreto d'ufficio), Raffaele Mincione (finanziere, per peculato, truffa, abuso d'ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio), Nicola Squillace (avvocato, per truffa, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio), Fabrizio Tirabassi (minutante dell'ufficio amministrativo per corruzione, estorsione, peculato, truffa e abuso d'ufficio), Gianluigi Torzi (finanziere, per estorsione, peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio). Il giudizio riguarderà anche quattro società: tre riconducibili a Enrico Crasso per l'accusa di truffa, e una a Cecilia Marogna per il presunto peculato. Al centro del processo c'è soprattutto quello che gli inquirenti vaticani hanno definito "un marcio sistema predatorio e lucrativo" a danno della Segreteria di Stato e di suoi fondi caritativi come l'Obolo di San Pietro, con conseguenti gravi perdite per le casse vaticane, e che si sarebbe retto su "complicità e connivenze" tra operatori finanziari e consulenti esterni e addetti e dirigenti interni. (…)

Al via il processo vaticano al Cardinale Angelo Becciu. Alla sbarra tra gli altri anche i finanzieri Enrico Crasso, Gianluigi Torzi e Raffaele Mincione e la presunta esperta di intelligence Cecilia Marogna. Oltre ventimila pagine di atti depositati per ricostruire la presunta truffa legata all’acquisizione del palazzo di Sloane Avenue a Londra che ha portato alla depredazione di 400 milioni di euro delle finanze vaticane. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 27 luglio 2021. L’appuntamento per l’apertura del dibattimento è per martedì 27 luglio in una sala ricavata dai Musei Vaticani, data l’ingente mole degli indagati coinvolti (10), gli atti, i testimoni e la ragnatela di società, non sarebbe bastata l’esigua aula del tribunale Vaticano. Un processo che segna la fine di un’epoca di non perseguibilità intorno ai reati finanziari dentro la Santa Sede e di fatto mette alla sbarra un sistema di potere sopravvissuto anche al cambio di pontificato tra Ratzinger e Bergoglio. Un sistema che secondo gli investigatori avrebbe avuto ai vertici il cardinale sardo Angelo Becciu e che si sarebbe avvalso di una struttura parallela a quella consentita dai regolamenti per imporre e strutturare affari non in linea con l’etica vaticana. Papa Francesco, che tolse le prerogative cardinalizie a Becciu, in tutto questo tempo fatto di indagini dolorose ha dimostrato determinazione e ha finalmente mandato in soffitta l’idea nell’opinione pubblica di un pontificato simbolico, dove le riforme rimanevano lettera morta. Alla sbarra con Becciu andranno Enrico Crasso, Raffaele Mincione, Cecilia Marogna, Gianluigi Torzi, Monsignor Mauro Carlino, Fabrizio Tirabassi, l’avvocato milanese Nicola Squillace, Tommaso Di Ruzza e René Brülhart con accuse a vario titolo che vanno dal peculato alla truffa passando per l’appropriazione indebita. Un processo che vedrà oltre le storie di corruttela e peculato che costituiscono l’ossatura del dispositivo di rinvio a giudizio, il dibattimento porterà alla luce il metodo di gestione del potere degli uomini dell’ex numero tre del Vaticano. Dalle chat acquisite dai cellulari di Enrico Crasso, già gestore delle finanze degli Affari Generali della Segreteria di Stato, si ricostruisce il tessuto relazionale esistente tra lui e Becciu, entrambi per tutta la durata dell’inchiesta hanno sottolineato di non aver avuto mai rapporti, se non di natura ufficiale. Realtà totalmente smentita dai carteggi online tra i due; come si legge negli allegati dell’inchiesta infatti i due agiscono in regime di assoluta complicità, definendo strategie e cercando di sminare il campo con una sorta di sala stampa vaticana alternativa che si snoda nelle chat dove i due si scambiano informazioni e pareri tra cui la convinzione che dietro le rivelazioni sulle movimentazioni economiche degli Affari Generali vi siano giornalisti “foraggiati da Raffaele Mincione”. Il tentativo di indirizzare una narrazione pubblica intorno alle vicende del palazzo di Sloane Avenue a Londra si salda poi nelle conversazioni con l’idea che la magistratura non arriverà fino in fondo, un atteggiamento costante in tutti i protagonisti della vicenda, che in tutti questi anni hanno giocato a scaricare reciprocamente la responsabilità sugli altri, facendo della strategia del “tutti colpevoli nessun colpevole" una sorta di mantra teso a salvare le varie casse ancora piene di soldi in giro per il mondo. In questo senso va riposta particolare attenzione secondo gli inquirenti ai due conti correnti personali di Enrico Crasso nelle filiali UBS di Miami e del Connecticut dove avrebbe di fatto spostato i soldi delle sue società coinvolte nello scandalo vaticano. Anche per questo motivo le Autorità Finanziarie americane hanno aperto un fascicolo che anticiperebbe l’istituzione di un’inchiesta federale. Notizie similari giungono dalla Svizzera, dove gli inquirenti procedono le operazioni di setaccio dei conti e delle società che si sono rapportate con la Sogenel, il Fondo Centurion e la galassia di altre sigle che compaiono nell’inchiesta. I magistrati elvetici, che hanno fornito puntuali indicazioni alle autorità vaticane, stanno riavvolgendo il filo dello storico delle transazioni e dei rapporti, cronologia che porterebbe indietro le lancette del tempo a prima dell’affare londinese e illuminerebbe la partita dell’acquisto di derivati azionari portato avanti da Lorenzo Vangelisti e Alessandro Noceti con la filiale di Lugano di BNP e Deutsche Bank e con istituti finanziari a Singapore. Una donna, in passato consulente esterna dello IOR avrebbe raccontato agli investigatori di intere giornate dedicate all’acquisto e alla rivendita di derivati, da parte di Vangelisti che come un rider girava per il tempo della sua permanenza a Roma dentro una vettura che diveniva un salotto mobile dove prelati, lobbisti e finanzieri si alternavano. Un giro di affari estraneo a quello degli affari della segreteria di Becciu, ma che gli inquirenti elvetici tengono in considerazione per ricostruire il modus operandi del mondo finanziario intorno ad Enrico Crasso e per comprendere se vi siano maturati altri illeciti. I vari blocchi di interesse degli ex membri della segreteria del presule sardo, tra cui Fabrizio Tirabassi e Monsignor Mauro Carlino, come abbiamo raccontato in precedenza, spaziavano dagli affari immobiliari a quelli sanitari, arrivando a gestire cartolarizzazioni e rapporti con cooperative come la OSA di Giuseppe Milanese, a cui ricordiamo fu concesso un prestito obbligazionario e l’ospedale Fatebenefratelli di cui Gianluigi Torzi “acquisì” i crediti sanitari con la società Sunset ltd. Crediti mai pienamente ripagati all’ospedale che anche per questa manovra gestionale avventata da parte dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio si trova in cattive acque, tanto da essere stato messo in vendita e che come abbiamo raccontato vede il forte l’interesse del Gruppo San Donato, capitanato da Angelino Alfano e da Kamel Ghibri. Proprio ad un incontro con Angelino Alfano in qualità di rappresentante del gruppo San Donato fa riferimento l’ex sottosegretario Giancarlo Innocenzi Botti, a capo della JCI società della galassia Torzi, che arriverà a cercare di ricomprare il palazzo di Sloane Avenue con Marco Simeon e l’ex ambasciatore Giovanni Castellaneta, in una chat con il broker molisano scrive: “Ieri sono stato lungamente con Angelino Alfano, che come sai è presidente del gruppo San Donato (Rotelli) e board member di Bonelli Erede Pappalardo. Penso che possano venire fuori buone opportunità”. Anche per questo motivo Papa Francesco qualche giorno fa, nell’inedito Angelus dal Policlinico Gemelli, dove si trovava per un intervento di stenosi diverticolare al colon (la biopsia inoltre ha escluso qualsiasi ipotesi di patologia tumorale), ha tolto dal mercato ospedali ed indotti sanitari gestiti dalle congregazioni religiose, il Pontefice ha dichiarato a braccio e con sguardo severo che: “nella Chiesa succede a volte che qualche istituzione sanitaria, per una non buona gestione, non va bene economicamente e il primo pensiero è venderla. Ma la tua vocazione, Chiesa, non è avere quattrini, ma fare il servizio: salvare l’istituzione gratuita”. Un nuovo filo rosso che Bergoglio sembra aver spezzato sul nascere, un nuovo segnale a coloro che vedevano con la chiusura dell’inchiesta sul cardinale Becciu un punto di arrivo. Francesco sembra avere intenzione non solo di completare il ciclo di riforme ma di riformare la sanità vaticana togliendola dal ricatto della politica e della finanza, perché oltre la verità, per Bergoglio anche una sana ed etica gestione delle finanze, rende liberi.

Fabio Marchese Ragona per "il Giornale" il 28 luglio 2021. Un'udienza di sette ore, nella sala polifunzionale dei Musei Vaticani dove da alcuni mesi si tengono tutti i processi della piccola città-stato per permettere di rispettare le misure di distanziamento sociale. Il Vaticano, dopo quasi due anni dall'inizio dell'inchiesta, dà il via al maxiprocesso sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, in particolare sull'acquisto di un palazzo di lusso a Londra, al numero 60 di Sloane Avenue. Un'operazione da oltre 200 milioni di euro, prelevati dalle casse della Santa Sede, incluse quelle dell'Obolo di San Pietro, i fondi per la carità del Papa. Un'indagine che ha scoperchiato un sistema di corruzione all'ombra del cupolone, con faccendieri e broker che nel corso degli anni hanno svuotato la cassaforte vaticana per «attività finanziarie speculative illecite», così come le hanno definite i pm di Papa Francesco. Dei dieci imputati, tra manager, finanziari e alti prelati, alla prima udienza erano presenti soltanto in due: monsignor Mauro Carlino, già segretario particolare del Sostituto della Segretaria di Stato, accusato di estorsione e abuso d'ufficio e il cardinale Angelo Becciu, il primo porporato della storia recente a finire sul banco degli imputati per i reati di peculato, abuso d'ufficio anche in concorso e subornazione (per aver tentato di convincere, secondo l'accusa, uno dei testimoni, monsignor Alberto Perlasca, suo ex collaboratore nell'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, a ritrattare). Il cardinale è stato rinviato a giudizio con il via libera ai giudici di Papa Francesco, nove mesi dopo che il Pontefice lo aveva defenestrato dal ruolo di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, togliendogli anche i diritti connessi al cardinalato. Bergoglio nei mesi scorsi ha modificato, infatti, l'ordinamento giudiziario stabilendo che anche i cardinali e i vescovi devono essere giudicati dal Tribunale Vaticano. Precedentemente solo la Corte di Cassazione vaticana, presieduta da un cardinale poteva giudicarli. Il porporato sardo dovrà spiegare alla corte perché, quando era il numero due della Segreteria di Stato, aveva inviato centinaia di migliaia di euro della Santa Sede alla cooperativa sociale «Spes», presieduta dal fratello Tonino, braccio operativo della Caritas di Ozieri, in Sardegna. Al termine della prima udienza, Becciu ha detto ai giornalisti di sentirsi «sereno e tranquillo in coscienza, con la fiducia che i giudici sapranno vedere i fatti riconoscendo la mia innocenza. Sono venuto al processo perché mi ci ha mandato il Papa a cui sono obbediente. Ma devo annunciare», ha aggiunto, «che con grande dolore ho dato mandato ai miei legali di denunciare per calunnia monsignor Alberto Perlasca e la signora Francesca Immacolata Chaouqui (la pr calabrese, ex membro di una commissione economica vaticana, processata e condannata con pena sospesa dal tribunale vaticano per lo scandalo Vatileaks 2, ndr), per le grandi falsità dette su di me e che sono comparse nella carte processuali». Gli altri otto imputati, tra cui Cecilia Marogna, la manager che ha ricevuto 575mila euro dal porporato sardo per effettuare attività di intelligence in Africa, erano rappresentati in aula dai loro legali che hanno sollevato alcune eccezioni invocando il diritto alla difesa. Per questo motivo, dopo essersi riunita in camera di consiglio, la corte, presieduta da Giuseppe Pignatone, ha aggiornato la prossima udienza al 5 ottobre. Il presidente del Tribunale Vaticano, al termine dell'udienza ha anche revocato il mandato di cattura per il broker Raffaele Mincione, uno dei dieci imputati. Presente in aula l'avvocato Paola Severino, già ministro della Giustizia italiano, che nel processo rappresenta la Segreteria di Stato, costituitasi parte civile.

Il processo Vaticano e il diritto di difesa: un’unione impossibile? Cardinali alla sbarra, al maxiprocesso sugli scandali finanziari della Santa Sede le difese denunciano «tribunali speciali e procedure penali «ad hoc». Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 29 luglio 2021. Alla vigilia della prima udienza del maxi-processo Vaticano gli avvocati difensori avevano usato parole molto pesanti: «Un tribunale speciale», «una procedura penale ad hoc», «una sospensione della certezza del diritto». Riti sommari, procedimenti cautelari, violazione dell’habeas corpus, difetti di giurisdizione: gli inquirenti hanno raccolto elementi per quasi due anni di inchieste mentre la difesa ha dovuto preparare le sue richieste istruttorie in appena otto giorni senza nemmeno poter disporre di tutti gli atti, tuonano i legali chiedendo più tempo per organizzare la strategia di difesa. Poi hanno acceso una dura polemica sui rescritti del Pontefice (le richieste di azione) che, in quanto atti amministrativi, non possono derogare la legislazione vigente. Inoltre, ha sottolineato l’avvocato Luigi Panella (assiste il finanziere Enrico Crasso), tre di questi rescritti papali sarebbero stati concepiti ad hoc: «Hanno introdotto procedure penali solo per questo processo, in un inedito regime di eccezione». È il motivo per cui ha parlato, senza giri di parole, di tribunali speciali, suscitando la malcelata irritazione dell’accusa. Così gli ha risposto, un po’ a muso duro e con parole che lasciano perplessi l’ex guardasigilli italiana Paola Severino (autrice dell’omonima legge), oggi avvocato di parte civile della Segreteria di Stato e di Apsa (l’organismo che amministra il patrimonio della sede apostolica), spiegando che «il Papa è unico legislatore e promotore della giustizia», ed evocando «il carattere fortemente morale del processo». Ancora più categorico e di ispirazione celeste il promotore di giustizia (di fatto un magistrato inquirente con superpoteri) Gian Piero Milano il quale vola fuori dalla cornice dello Stato di diritto spiegando che i rescritti sono «espressione della suprema potestà del Papa, la cui base è in definitiva il diritto divino». Sbagliano dunque i difensori che si aggrappano capricciosi alle tutele dei moderni Stati democratici: «C’è il rischio di travisare il valore di certi atti se li si guarda con ottica laica», conclude Milano. In effetti il rischio c’è. Alla sbarra con altri nove imputati c’è il cardinale Giovanni Angelo Becciu per l’affaire dell’acquisizione di un lussuoso palazzo palazzo a Londra, in Sloane avenue 60, costato alla Santa Sede oltre 350 milioni di euro; è accusato di peculato, abuso di ufficio in concorso e subornazione. Il “grande accusatore” (assieme alla lobbista Francesca Immacolata Chaouqui) si chiama Alberto Perlasca ed è un monsignore, un tempo braccio destro di Becciu. Paradossalmente i difensori non hanno avuto accesso alla trascrizione dei suoi interrogatori che costituiscono l’architrave del teorema accusatorio: «Vorremmo avere la possibilità di ascoltarli. Esiste una registrazione ma non è stata depositata agli atti. Il diritto alla difesa è stato leso in modo grave», si è lamentato l’avvocato Fabio Viglione esponente del collegio difensivo di Becciu. Con spirito ecumenico e un po’ rintronato dalla tenacia dei legali, il presidente del tribunale vaticano e del collegio giudicante Giuseppe Pignatone, (che ha fatto allestire personalmente l’aula nell’ampia Sala multifunzionale dei musei vaticani), ha accolto le rimostranze della difesa aggiornando il processo al prossimo 5 ottobre. Più di due mesi per tentare di opporsi alla feroce macchina giudiziaria vaticana. Si annuncia dunque un processo lungo e complicato come mettono in mostra le elettriche schermaglie delle ultime ore, complicato in particolare per la difesa che, oltretevere, non dispone certamente delle stesse garanzie previste dal diritto penale italiano. «La questione è che lo Stato della Città del Vaticano è retto da un monarca assoluto. L’unico modo per cambiare la legge è che l’amato Sant’Ignazio tocchi la mente del Papa!» ha ironizzato con amarezza Domenico Aiello, legale dell’avvocato Nicola Squillace finito anche sul banco degli imputati. Insomma le premesse perché venga fatto a pezzi il giusto processo (garantito dall’articolo 111 della Costituzione della Repubblica Italiana) ci sono tutte, il corpus principale del diritto penale vaticano è infatti espressione di codici che risalgono alla fine del diciannovesimo secolo. Anche se, in teoria, qualche passo formale per adeguarsi agli standard del diritto moderno il Pontificato di Bergoglio lo aveva intrapreso nella lettera apostolica del 2013 Motu proprio che stabilisce il principio della presunzione d’innocenza fin lì sconosciuto alle aule di tribunale della Santa sede. Lo stesso papa Wojtila all’inizio del suo Pontificato si era espresso per concedere più diritti degli accusati, senza poi però formalizzarli. Stesso discorso per la nozione di “ragionevole durata del processo” e per l’abolizione dell’ergastolo, tutte misure “garantiste” contenute in Motu proprio, che però nei fatti rimangono mere petizioni di principio. La sostanza purtroppo è ben diversa come dimostrano i metodi da Santa inquisizione con cui è stata portata avanti tutta l’inchiesta sull’acquisto dell’immobile londinese. In tal senso le “aperture” contenute in motu proprio sembrano un’opera di maquillage piuttosto che un adeguamento sostanziale della legislazione vaticana alle basi della certezza del diritto. L’accusatore Alberto Perlasca per esempio è stato “graziato” dai magistrati solo dopo aver tirato in ballo il cardinale Becciu in un interrogatorio surreale, privo di assistenza legale in cui avrebbe rilasciato «dichiarazioni spontanee». E in tutte le fasi delle indagini i promotori di giustizia hanno avuto mani completamente libere seguendo l’antico motto del pool milanese di Mani Pulite: “ti sbatto in cella per farti confessare” e seminando un comprensibile panico; è quanto accaduto al broker molisano Gianluigi Torzi che si era presentato volontariamente in Vaticano per rispondere alle domande dei promotori finendo agli arresti fino a quando non ha poi denunciato gli altri imputati. In uno dei rescritti del Papa viene poi data completa discrezionalità all’Ufficio dei promotori che hanno potuto prendere «qualsiasi provvedimento di natura cautelare nell’attività dell’accertamento dei fatti», violando in modo flagrante i fondamenti dell’habeas corpus. Quando i magistrati britannici e italiani hanno emesso i mandati di cattura gli imputati non conoscevano infatti la causa del loro arresto né tanto meno hanno avuto la possibilità di farsi assistere da un avvocato.

Maxiprocesso in Vaticano, le difese protestano: «Si è allestito un tribunale speciale». Il Dubbio il 27 luglio 2021. I legali dei dieci imputati hanno sollevato diverse eccezioni, denunciando una «procedura penale ad hoc» che «sospende alla certezza del diritto». Le difese dei dieci imputati del processo che si è aperto oggi davanti al Tribunale Vaticano per lo scandalo finanziario legato alla compravendita del Palazzo londinese hanno sollevato diverse eccezioni. Il presidente Giuseppe Pignatone, a fine udienza, si è riservato su tutte le eccezioni presentate lasciando agli avvocati altro tempo per presentare copie di atti in sequestro (entro il 21 settembre). Le difese, in particolare, accusano il Vaticano di aver messo in atto una sorta di “tribunale speciale”, con quattro rescritti di Papa Francesco che hanno consentito alle indagini di andare avanti configurando un quadro di «assoluta discrezionalità» nel derogare alla legislazione vigente. Una «procedura penale ad hoc», che «sospende alla certezza del diritto», come ha sottolineato l’avvocato Luigi Panella, difensore del finanziere Enrico Crasso. I legali hanno quindi lamentato l’assenza di supporti informatici o illeggibili, la mancanza di file: circostanze che, hanno lamentato, sarebbero lesive del diritto di difesa. A rispondere è il Promotore di Giustizia Milano il quale ricorda che il Tribunale Vaticano soggiace al diritto canonico, che il rescritto è «espressione della suprema potestà del Papa, la cui base è in definitiva il diritto divino» e che «c’è il rischio di travisare gli atti se li si guarda in una ottica laica». 

Gianluca Paolucci per lastampa.it il 28 luglio 2021. «I soldi spariti del concerto di Baglioni (avevano incassato 4 milioni)». Inizia così un passaggio delle dichiarazioni rilasciate da monsignor Alberto Perlasca ai promotori di giustizia vaticani il 31 agosto 2020. Il riferimento è al concerto che Claudio Baglioni ha tenuto in Vaticano, nell’Aula Nervi, il 16 dicembre del 2016. Un evento di beneficenza, che doveva servire per raccogliere fondi per un ospedale a Bangui – capitale della Repubblica Centrafricana – e per il terremoto in Italia Centrale di quello stesso anno. Nella ricostruzione che Perlasca effettua agli inquirenti vaticani – il promotore di giustizia Gian Piero Milano e l’aggiunto Alessandro Diddi –, il monsignore ricorda come l’ospedale di Bangui «tutti sanno avere un posto del tutto speciale nel cuore del Santo Padre». Per il concerto, ricorda Perlasca, «Aula Nervi strapiena, lo dico perché ero presente». Ebbene, prosegue, «alla Segreteria di Stato arrivarono 600 o 700 mila euro!!! Non mancai di rappresentare a monsignor Becciu tutta la mia delusione: tanto clangore, per soli 700 mila euro!!! Lui mi disse che era stato il dottor Domenico Giani, a quel tempo a capo Gendarmeria, a curare l’organizzazione del concerto e tutti i successivi pagamenti. Non osai fare cattivi pensieri, ma le cose mi rimanevano ugualmente non chiare». Il prelato ipotizza un incasso dai soli biglietti di circa 325 mila euro, sulla base di «6500 posti paganti a un minimo di 50 euro l’uno» e di ritenere che né Baglioni né il governatorato si siano fatti pagare, quest’ultimo per l’affitto dell’aula Nervi. Ma, si chiede il monsignore, «come fare a quel tempo a dimostrarlo e ad impuntarsi su di una cosa della quale tra l’altro non si era sicuri? C’era il rischio reale di fare una figuraccia. Sul fatto resta comunque una pesante ombra». A proposito dell’ospedale di Bagui, Perlasca ricorda anche un’altra circostanza, «mai completamente chiarita»: una donazione del Papa dalla quale sarebbero mancati due milioni di euro. Il progetto di Bangui era seguito da Mirella Enoc, presidente dell’Ospedale Bambin Gesù. «La signora Enoc – ricorda Perlasca – continuava a insistere di nel dire di darle i soldi, perché il Papa le aveva detto di aver dato alla Segreteria di Stato una certa cifra per l’ospedale. a noi in ufficio risultavano però due milioni in meno. Sono stati rifatti i conti più volte. I conti però non sono mai tornati. Alla fine, la cosa venne lasciata cadere». «Il “miracolo di Bangui” – riporta un articolo di questo giornale del 30 settembre 2019 – nasce il 29 novembre 2015, quando Papa Bergoglio, prima di inaugurare il Giubileo della Misericordia nella Repubblica Centrafricana, va a visitare il complesso pediatrico della città. Porta i farmaci donati dall’ospedale Bambino Gesù, su iniziativa della presidente Enoc, e ai bambini e agli operatori sanitari promette: “Non vi dimenticherò”. Quattro anni dopo l’ospedale è diventato realtà, non solo, ma è stata Mariella Enoc a organizzare la formazione di nuovi medici e specialisti per la struttura sanitaria africana. “E’ stata la realizzazione di un cammino durato qualche anno, ed è stata grande la gioia - dice Enoc - di vedere ristrutturato e realizzato un ospedale fatto interamente da personale del luogo, a cominciare dall’impresa e dagli architetti”. Un’opera fortemente voluta da Papa Francesco: «Quando lui ha visto la miseria, la distruzione che c’era, come erano abbandonati i bambini mi ha detto: Mi ha strappato il cuore. Faccia qualcosa, e ha messo a disposizione anche delle risorse. E poi c’è il contributo importante di un quartiere di Novara, la parrocchia di San Martino. Una persona aveva lasciato una cospicua eredità, circa un milione di euro, con una destinazione specifica, quella di utilizzarla per la realizzazione di un ospedale in Africa, e don Clemente De Medici, il parroco, ha scelto proprio questo intervento. Sono molto contenta che sia stata proprio la mia parrocchia novarese autrice di un gesto così significativo e di grande importanza per la realizzazione di quest’opera». Secondo quanto riferito dalla Enoc nella stessa occasione, l’ospedale «L’ho potuto realizzare grazie a un contributo di 3 milioni di euro di Papa Francesco, di un milione di euro della mia parrocchia di San Martino, a Novara, e della Gendarmeria vaticana che con varie iniziative ha raccolto 750 mila euro». Il processo per i fondi della Segreteria di Stato è iniziato martedì 27 luglio in Vaticano. Perlasca è uno degli imputati ma anche il principale accusatore, con una serie di deposizioni rilasciate alle autorità anche senza la presenza dell’avvocato. Le difese degli altri imputati (tra i quali figura il cardinale Giovanni Angelo Becciu e altre nove persone) hanno richiesto il deposito delle registrazioni video delle deposizioni. La prossima udienza è prevista per il 5 ottobre. Becciu ha annunciato tramite il suo avvocato «con dolore ma con fermezza, di aver dato mandato di denunciare per calunnia monsignor Alberto Perlasca e la signora Francesca Immacolata Chaouqui, per le gravissime e completamente false dichiarazioni rilasciate nel corso delle indagini al Promotore di Giustizia, di cui ha potuto prendere cognizione soltanto da pochi giorni».

 Gianluca Paolucci per "la Stampa" il 29 luglio 2021. I soldi «spariti» del concerto di beneficenza di Claudio Baglioni in Vaticano nel dicembre del 2016. Il ruolo dietro le quinte del cardinale Angelo Becciu durante le indagini. L'affare dell'ospedale di Olbia con la Qatar Foundation. Le percentuali di Mincione. Le spese di Cecilia Marogna e i fondi ai fratelli del Cardinale. Le manovre tra le gerarchie vaticane all'epoca dello scandalo di Vatileaks. Alberto Perlasca è un fiume in piena quando, il 31 agosto 2020, si presenta agli inquirenti vaticani che stanno indagando sullo scandalo dei fondi della Segreteria di Stato. Ha chiesto di essere interrogato di nuovo, dopo un primo interrogatorio nell'aprile precedente e dichiara di riconoscere «di aver sottovalutato l'importanza dell'interrogatorio del 29 aprile e di esservi giunto impreparato, forte solo della mia convinzione di essere innocente». Perlasca, anche lui inizialmente indagato ma poi uscito dall'inchiesta, diventerà il principale accusatore del suo ex superiore, Angelo Becciu. Martedì, a margine della prima udienza del processo, Becciu - che ha sempre respinto le accuse - ha annunciato tramite il suo avvocato che querelerà Perlasca. Perlasca dice non essere mosso da rancore o da sentimenti di vendetta, ma di essere vittima di grooming: «È la tecnica utilizzata dai predatori per introdursi surrettiziamente, attraverso i sentimenti, () nell'animo delle proprie vittime»-. Perlasca si presenta agli inquirenti (il promotore di giustizia Gian Piero Milano e l'aggiunto Alessandro Diddi) senza l'avvocato dopo che quest' ultimo gli ha chiesto di valutare una difesa congiunta con monsignor Mauro Carlino: «Riconosco in ciò la mano del cardinale Becciu, nel tentativo di intorbidire, a suo vantaggio, le acque». Perlasca racconta anche come Becciu «mi ha fatto credere che (il licenziamento di alcuni funzionari della Segreteria di Stato il 30 aprile 2020, ndr.) era frutto di un accordo di Monsignor Pena Parra con i giudici e che quindi il processo non si sarebbe mai celebrato». Da qui parte il racconto di Perlasca, con un memoriale letto durante l'interrogatorio e allegato ai documenti processuali. Le difese hanno chiesto che venga fornita anche la registrazione video. Perlasca inizia dalla vicenda del palazzo di Londra, ma racconta anche che Becciu chiese di inviare denaro alla Marogna anche dopo la sua uscita dalla Segreteria di Stato. La vicenda è quella del presunto riscatto per una suora rapita in Colombia, circa 500 mila euro in una decina di versamenti finiti invece alla Marogna. Due dei versamenti vennero effettuati dopo l'uscita di Becciu dalla Segreteria ma su richiesta dello stesso Becciu. Il giorno del primo bonifico era stata costituita dalla Marogna la società in Slovenia e i fondi spesi poi in beni di lusso. «I soldi spariti del concerto di Baglioni (avevano incassato 4 milioni)». Inizia così invece uno dei passaggi inediti del racconto di Perlasca. Il riferimento è al concerto che Claudio Baglioni ha tenuto in Vaticano, nell'Aula Nervi, il 16 dicembre del 2016. Un evento di beneficenza, che doveva servire per raccogliere fondi per un ospedale a Bangui - capitale della Repubblica Centrafricana - e per il terremoto in Italia Centrale di quello stesso anno. Nella ricostruzione che Perlasca effettua agli inquirenti vaticani, il monsignore ricorda come l'ospedale di Bangui «tutti sanno avere un posto del tutto speciale nel cuore del Santo Padre». Per il concerto, ricorda Perlasca, «alla Segreteria di Stato arrivarono 600 o 700 mila euro!!! Non mancai di rappresentare a monsignor Becciu tutta la mia delusione: tanto clangore, per soli 700 mila euro!!! (...) Non osai fare cattivi pensieri, ma le cose mi rimanevano ugualmente non chiare». Dalle verifiche effettuate, altri 700 mila euro raccolti con l'evento vennero destinati, come previsto, alle vittime del terremoto e questa parte non passò dalla Segreteria di Stato.

Da iltempo.it il 29 luglio 2021. Nella prima udienza del processo per reati finanziari in Vaticano, Fiorino Ruggio, difensore di Cecilia Marogna, ha avanzato una richiesta di rinvio e stralcio in virtù del fatto che il Dis italiano (i servizi segreti) ha disposto un'indagine e quindi l'ascolto di Marogna sulla scorta di un esposto da lei presentato, correlato alla richiesta a Segreteria di Stato, Nato e Stato italiano perché sia liberata dall'obbligo di segreto che la vincola. La figura di Cecilia Marogna è legata a quella del Cardinale Angelo Becciu: è stata assunta nel 2016 come consulente di sicurezza esterna. I procuratori la accusano di aver sottratto 575.000 euro dai fondi vaticani, che l'ex numero 2 della Segreteria di Stato le aveva messo a disposizione per gestire i riscatti di alcuni ostaggi cattolici. I registri bancari però rivelano che i trasferimenti di denaro del Vaticano furono usati per pagare i conti di negozi, boutique hotel e per acquistare beni di lusso. Ma da Palazzo Chigi arriva una smentita alle parole del legale della Marogna: “In merito al procedimento penale in corso presso gli Organi di giustizia vaticani che vede interessata la Signora Cecilia Marogna si precisa che non esiste alcun obbligo di segretezza che limiti l’esercizio dei suoi diritti processuali, contrariamente a quanto invece riportato sulle agenzie di stampa nei giorni scorsi”.

Giulio Gavino per lastampa.it il 29 luglio 2021. «Persona in grado di riferire». Marco Simeon, 42 anni, sanremese, ex enfant prodige delle finanze vaticana, continua ad essere vicino alla stanza dei bottoni della Santa Sede nonostante una serie di vicissitudini, o vicende, ne abbiano fortemente limitato le presenze pubbliche. Al punto che l’ufficio del Promotore di Giustizia lo cita tra i possibili testimoni nel procedimento che interessa l’ultimo scandalo sui «veleni» d’Oltretevere, quello sul palazzo londinese di Sloane Avenue per il quale ieri ai Musei Vaticani è iniziato il processo che vede imputati il cardinale Angelo Becciu ed una serie di finanzieri, e faccendieri, che avrebbero attinto senza troppi scrupoli al «portafoglio» del Soglio di Pietro. Che Simeon c’entri, senza essere indagato, emerge dalle oltre 500 pagine dell’atto d’accusa. Non a caso circa un anno fa era stato a lungo interrogato e gli avevano anche controllato il cellulare nel quale erano emerse chat, mail e anche screenshot, materiale ritenuto illuminante per le vicende al centro del caso. A pagina 333, ad esempio, si racconta di una mail mandata a Simeon dal cardinale Becciu all’epoca (giugno 2020) alle prese con una questione relativa ad una partnership tra una società «di famiglia» e la Caritas di Roma. Becciu manda a Simeon l’accordo e aggiunge: «Marco, ecco ti invio in due mail il progetto cui ti ho accennato questo pomeriggio, grazie per l’attenzione che vorrai darci.ab». Questo, secondo gli inquirenti, rappresenta il clima di confidenza tra il finanziere sanremese e il prelato. Ma andando avanti (pagina 341) si entra nel vivo del caso Sloane con le affermazioni di Gianluigi Torzi che confessa come Giancarlo Innocenzi Botti lo avesse informato come un’eventuale vendita dell’immobile avrebbe aiutato la Segreteria di Stato: «... mi raccontava (Innocenzi Botti ndr) del fatto che questo Simeon gli avesse rappresentato l’approvazione di un nuovo planning permission per l’immobile londinese appena ottenuto e che un’eventuale vendita, a dire di questo Marco, avrebbe aiutato la SdS a risolvere la questione SA60». Per la procura dichiarazioni e acquisizioni documentali fanno emergere «che l’intera operazione non solo era ispirata da Marco Simeon, ma che questi spingeva su Innocenti Botti perchè si potesse arrivare a breve ad una proposta». Si sarebbe trattato di un’operazione in soccorso dei finanzieri in difficoltà: «Marco Simeon - raccontano gli atti - tramite Innocenzi Botti stava cercando di organizzare una proposta strumentale ad interferire con l’iniziativa di questo Ufficio, tant’è che Simeon, informato da Torzi della sua convocazione dall’autorità giudiziaria vaticana, lo consigliava di prendere tempo adducendo a giustificazione la situazione Covid». L’interesse di Simeon, in contatto con i potenziali acquirenti del palazzo londinese, arriva a concretizzarsi con una commissione da 10 milioni di euro ad una società di sua proprietà (negli Emirati Arabi), per dichiarazioni riferite da Botti a Torzi. Quest’ultimo avrebbe dovuto rinunciare ai suoi onorari per l’operazione londinese. Agli atti c’è anche una lettera a Papa Francesco che Botti aveva trasmesso a Tozzi e che secondo Botti sarebbe stata predisposta proprio da Simeon. La diffidenza di Torzi nei confronti dell’«operazione salvataggio» scema nel momento in cui il Cardinale Parolin avrebbe «dato la sua disponibilità alla conclusione dell’operazione (quella del palazzo) a condizione che la stessa fosse stata curata da un advisor». «Da quel momento - scrive l’ufficio del Promotore di Giustizia - la cordata Simeon-Innocenzi Botti-Bizzi-Castellaneta-Torzi, ovviamente si dissolveva e si può certamente concludere che si sia trattato di una operazione condotta senza alcuna volontà di realizzarla ma al solo scopo di interferire con le indagini , facendo leva sull’ipervalutazione dell’immobile che avrebbe consentito di sventolare urbi et orbi che la SdS aveva fatto un buon affare». In proposito era stato sentito anche il sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra che aveva dichiarato: «La proposta di 315/330 milioni di sterline è stata fatta a seguito di una valutazione del tutto sommaria, su sollecitazione di Botti o Simeon, con comportamenti assolutamente pressanti che io non conoscevo e che non avrei mai approvato». Il processo è al via, da definire, nel caso, la data della convocazione di Simeon come testimone.

Vaticano, processo al via Becciu alla resa dei conti denuncia i suoi nemici. Fabio Marchese Ragona il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. Il cardinale, alla sbarra per lo scandalo del palazzo di Londra, cita Perlasca e Chaoqui. Un'udienza di sette ore, nella sala polifunzionale dei Musei Vaticani dove da alcuni mesi si tengono tutti i processi della piccola città-stato per permettere di rispettare le misure di distanziamento sociale. Il Vaticano, dopo quasi due anni dall'inizio dell'inchiesta, dà il via al maxiprocesso sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, in particolare sull'acquisto di un palazzo di lusso a Londra, al numero 60 di Sloane Avenue. Un'operazione da oltre 200 milioni di euro, prelevati dalle casse della Santa Sede, incluse quelle dell'Obolo di San Pietro, i fondi per la carità del Papa. Un'indagine che ha scoperchiato un sistema di corruzione all'ombra del cupolone, con faccendieri e broker che nel corso degli anni hanno svuotato la cassaforte vaticana per «attività finanziarie speculative illecite», così come le hanno definite i pm di Papa Francesco. Dei dieci imputati, tra manager, finanziari e alti prelati, alla prima udienza erano presenti soltanto in due: monsignor Mauro Carlino, già segretario particolare del Sostituto della Segretaria di Stato, accusato di estorsione e abuso d'ufficio e il cardinale Angelo Becciu, il primo porporato della storia recente a finire sul banco degli imputati per i reati di peculato, abuso d'ufficio anche in concorso e subornazione (per aver tentato di convincere, secondo l'accusa, uno dei testimoni, monsignor Alberto Perlasca, suo ex collaboratore nell'ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, a ritrattare). Il cardinale è stato rinviato a giudizio con il via libera ai giudici di Papa Francesco, nove mesi dopo che il Pontefice lo aveva defenestrato dal ruolo di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, togliendogli anche i diritti connessi al cardinalato. Bergoglio nei mesi scorsi ha modificato, infatti, l'ordinamento giudiziario stabilendo che anche i cardinali e i vescovi devono essere giudicati dal Tribunale Vaticano. Precedentemente solo la Corte di Cassazione vaticana, presieduta da un cardinale poteva giudicarli. Il porporato sardo dovrà spiegare alla corte perché, quando era il numero due della Segreteria di Stato, aveva inviato centinaia di migliaia di euro della Santa Sede alla cooperativa sociale «Spes», presieduta dal fratello Tonino, braccio operativo della Caritas di Ozieri, in Sardegna. Al termine della prima udienza, Becciu ha detto ai giornalisti di sentirsi «sereno e tranquillo in coscienza, con la fiducia che i giudici sapranno vedere i fatti riconoscendo la mia innocenza. Sono venuto al processo perché mi ci ha mandato il Papa a cui sono obbediente. Ma devo annunciare», ha aggiunto, «che con grande dolore ho dato mandato ai miei legali di denunciare per calunnia monsignor Alberto Perlasca e la signora Francesca Immacolata Chaouqui (la pr calabrese, ex membro di una commissione economica vaticana, processata e condannata con pena sospesa dal tribunale vaticano per lo scandalo Vatileaks 2, ndr), per le grandi falsità dette su di me e che sono comparse nella carte processuali». Gli altri otto imputati, tra cui Cecilia Marogna, la manager che ha ricevuto 575mila euro dal porporato sardo per effettuare attività di intelligence in Africa, erano rappresentati in aula dai loro legali che hanno sollevato alcune eccezioni invocando il diritto alla difesa. Per questo motivo, dopo essersi riunita in camera di consiglio, la corte, presieduta da Giuseppe Pignatone, ha aggiornato la prossima udienza al 5 ottobre. Il presidente del Tribunale Vaticano, al termine dell'udienza ha anche revocato il mandato di cattura per il broker Raffaele Mincione, uno dei dieci imputati. Presente in aula l'avvocato Paola Severino, già ministro della Giustizia italiano, che nel processo rappresenta la Segreteria di Stato, costituitasi parte civile. Fabio Marchese Ragona

Scandali finanziari al Vaticano, domani parte il maxiprocesso. Il Dubbio il 26 luglio 2021. Per la prima volta alla sbarra un cardinale, Giovanni Angelo Becciu, processato da giudici laici dopo riforma di papa Francesco che abolisce i privilegi curiali. Un vero e proprio terremoto giudiziario, un avvenimento senza precedenti destinato a fare storia. Parliamo del maxiprocesso per reati finanziari in Vaticano che inizia domani nella sala polifunzionale dei Musei Vaticani, allestita come tribunale per l’occasione. A finire alla sbarra saranno in dieci: dal cardinale Giovanni Angelo Becciu, ex sostituto alla Segreteria di Stato, ai broker finanziari che avrebbero raggirato la Santa Sede, passando per Cecilia Marogna, assunta come “intermediaria” per liberare degli ostaggi dalle mani di gruppi terroristici in Africa. Gli imputati, accusati a vario titolo di truffa, riciclaggio, autoriciclaggio, abuso d’ufficio, estorsione, corruzione, appropriazione indebita, peculato, rischiano il carcere, oltre a multe salatissime. Quello che inizia domani, dopo due anni di indagini, può definirsi un processo storico anche perché è il primo a celebrarsi dopo la riforma avviata da Papa Francesco, che con motu proprio dell’aprile scorso ha introdotto modifiche all’ordinamento giudiziario vaticano, disponendo che anche vescovi e cardinali siano giudicati dal tribunale ordinario della Santa Sede. Le indagini sono scattate dopo lo scandalo dell’acquisizione di un palazzo di lusso a Londra, a Sloane avenue 60, costato alla Santa Sede in tutto oltre 350 milioni di euro. L’affare immobiliare risale al 2014, quando la segreteria di Stato decise di investire 200 milioni di euro in un fondo gestito dal broker Raffaele Mincione: metà della cifra andò all’edificio, metà in altri investimenti. Quattro anni dopo, l’investimento originale aveva già perso 18 milioni di euro. Fu per questo che fu coinvolto Gianluigi Torzi, un altro broker, con il compito di far rientrare gli investimenti. Per i procuratori però Torzi ingannò la Santa Sede, ottenendo prima pieni diritti di voto sulla holding che gestiva l’immobile, con l’acquisto di oltre mille azioni, poi estorcendo al Vaticano 15 milioni di euro per ottenere il controllo dell’edificio che pensava di aver già acquisito. Mincione e Torzi sono accusati di frode, riciclaggio di denaro, appropriazione indebita, ma negano tutto. Anche Becciu nega le accuse di appropriazione indebita e di pressioni su monsignor Alberto Perlasca, che aveva inizialmente gestito l’acquisizione del palazzo e che ora non è tra gli imputati. All’ex numero 2 della Segreteria di Stato è legata la figura di Cecilia Marogna, assunta nel 2016 come consulente di sicurezza esterna. I procuratori la accusano di aver sottratto 575.000 euro dai fondi vaticani, che Becciu le aveva messo a disposizione per gestire i riscatti di alcuni ostaggi cattolici.

Angelo Becciu, Renato Farina: rovinato senza lo straccio di una prova, la conferma otto mesi dopo. Renato Farina su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Mercoledì 9 giugno 2021, data storica, da segnarsi, a 150 anni da Roma capitale d'Italia, c'è stata una manovra congiunta della guardia pontificia e dei militari italiani in Italia. Non era mai successo, di certo non dopo la Breccia di Porta Pia. Rispetto ad allora mancavano gli zuavi, perché il loro glorioso corpo è stato sciolto, così come i bersaglieri con le loro piume di gallo cedrone. Mentre nelle rispettive tombe si rivoltavano Pio IX e Giuseppe Garibaldi, uniti per la prima volta da sentimenti comuni, sono arrivati in Sardegna in sette, quattro fiamme gialle e tre papalini, per un blitz che sarebbe dovuto essere rapido e silenzioso. Ma con la solita riservatezza quest' atto coperto da segreto istruttorio è finito istantaneamente a scelti cronisti romani di giudiziaria. In particolare la più pronta a riferire la notizia è stata Adnkronos. E si è capito chi era il bersaglio dell'operazione multinazionale o se vogliamo ecumenica: il cardinale Angelo Becciu, che ha appreso a mezzo stampa di essere ufficialmente indagato «per più ipotesi di peculato, commesse in qualità di pubblico ufficiale vaticano, attraverso il trasferimento di fondi pubblici vaticani alla cooperativa sociale a responsabilità limitata Spes» gestita dal fratello Antonino a Ozieri, diecimila abitanti, provincia di Sassari. Nonostante sin dal 24 settembre scorso, il vescovo monsignor Corrado Melis avesse messo a disposizione tutte le carte ai superiori, senza riceverne alcuna richiesta informale o formale, ieri gli ufficiali di polizia giudiziaria dei due Stati si sono presentati nella sede episcopale, sequestrando il sequestrabile, qualsiasi nota e noterella tra il 2011 e il 2021. Anche alla Caritas. Già che c'erano - non si sa se la guardia pontificia o quella di finanza - hanno interrogato due fedeli che stavano pregando in chiesa. Mi scuso, se nella mia prosa si percepisce una colonna sonora da operetta balcanica, perché in realtà qui dentro si consuma la tragedia di una persona che può essere simpatica o antipatica, ma di certo ha subìto e sta ancora subendo un trattamento che nulla ha a che fare con i principi giuridici standard che dovrebbero correre in Europa. Qui si parla ovviamente di Angelo Becciu. Rivediamo un poco la vicenda, che i nostri lettori conoscono bene essendo stata oggetto di una inchiesta di Vittorio Feltri.

L'ATTO DI ACCUSA. Il 24 settembre 2020 l'allora ministro per le Cause dei Santi si reca da Francesco per una tranquilla udienza di tabella (così si dice in Vaticano). Entra alle 18 e 02 nello studio del Papa. In 22 minuti il Pontefice gli rovescia addosso le cateratte dello Stige. L'accusa è quella che ha sul tavolo: una copia dell'Espresso secondo cui esistono documenti inoppugnabili che documentano lo schifo di denaro destinato ai poveri e invece usato dal cardinale sardo, in precedenza sostituto alla Segreteria di Stato (numero 3 ma in realtà collaboratore più stretto del numero 1), per arricchire i fratelli. Becciu viene destituito da ogni incarico, Bergoglio gli lascia la porpora, ma per così dire la devitalizza come un dente cariato: non potrà accedere al conclave né ai raduni dei cardinali, i concistori. Insomma: un cardinale allo stato vegetale, un uomo deprivato della sua reputazione dall'autorità morale più al tache esista. Nessuna difesa possibile. Nessuna comunicazione ufficiale di inchiesta da parte dei promotori di giustizia (leggi pm) vaticani. Essendo state le accuse anticipate dall'Espresso, l'avvocato Natale Calli pari ha proceduto in sede civile, contestando il reato di diffamazione per conto del piccolo prete di Ozieri, con puntuale risposta ai supposti illeciti. Centomila euro erano stati assegnati, stante le prerogative del suo ufficio e la caratteristica dell'Obolo di San Pietro, alla Caritas di Ozieri, e i denari erano ancora nelle mani del vescovo. Come non detto. Dopo otto mesi vissuti a bagnomaria nell'acido muriatico della globalizzazione mediatica, con il sollievo solitario il giovedì santo di una visita carica di affetto di Francesco, Becciu attendeva qualcosa, un proscioglimento formale, oppure un'accusa chiara. Senza accusa non ci si può difendere, ma si muore soffocati dalle dicerie pretesche che sono le peggiori. Tanto condannate in altissimis quanto di fatto favorite dall'apparato lumachesco. Il solito Espresso aveva scritto il 2 marzo 2021 che «si stanno per chiudere le indagini sul cardinale Angelo Becciu» e il 25 maggio che esse erano «al giro di boa», che è pure il nome di un serpente. Ed ecco le perquisizioni. E involontariamente le carte uscite dal segreto istruttorio rivelano il fiasco. Non avevano e non hanno prove. Le cercano adesso disperatamente. Lo ammettono candidamente: ci è necessario recuperare «tutta la documentazione contabile e fiscale (...), essendo l'esame di tale documentazione indispensabile per la dimostrazione della sussistenza delle ipotesi di distrazione di fondi pubblici per le quali Becciu è attualmente indagato». Estraggo due parole: «Documentazione indispensabile». Cioè: ipotesi, sospetti. Dopo otto mesi cercano le prove. È una confessione. Quello che ha indotto il Papa alla defenestrazione seduta stante con annesso sput***to galattico, in realtà è un castello costruito sulla sabbia, un tipo di costruzione su cui a quanto pare Gesù Cristo ha avuto a suo tempo parole piuttosto definitive. 

George Pell, diario di prigionia di un cardinale innocente. Nico Spuntoni su Il Riformista il 16 Giugno 2021. Dagli ambienti principeschi dei palazzi pontifici alle tante piccole umiliazioni vissute in due penitenziari di massima sicurezza. Quella del cardinale George Pell è la storia di una caduta che induce a riflettere sulla caducità del potere terreno. Ma è una storia che non avremmo dovuto conoscere perché l’ex numero tre del Vaticano, finito dietro alle sbarre con l’accusa infamante di abusi su minori, non era colpevole. Così decreto in maniera definitiva l’Alta Corte australiana nell’aprile del 2020, ribaltando all’unanimità la precedente sentenza d’Appello che aveva confermato la prima condanna a sei anni pronunciata dal tribunale di Melbourne. Un finale scontato per chiunque si fosse soffermato a leggere senza paraocchi pregiudiziali le carte di un processo dalle mille anomalie: l’accusa inverosimile di un abuso avvenuto in cinque minuti nella sacrestia di una cattedrale al termine di una Messa domenicale di più di venti anni fa, la smentita di una delle due presunte vittime prima di morire, le venti testimonianze a favore dell’imputato ignorate dalla giuria popolare per avallare completamente la versione piena di contraddizioni dell’unico accusatore. “Solo perché alcune prove indicano l’innocenza non significa che la giuria non avesse diritto a condannarlo”, ebbe a dire la pubblica accusa davanti alla Corte Suprema lasciando ai posteri la frase-manifesto di una delle vicende giudiziarie più inquietanti della storia contemporanea del diritto in Occidente. Nei suoi 404 giorni di isolamento, Pell è riuscito a scrivere un “Diario di prigionia” di cui è uscito a metà maggio un primo volume in italiano (edizione Cantagalli) e il cui ricavato gli servirà a pagare le ingenti spese legali sostenute durante il calvario iniziato nel 2017. La notizia del rinvio a giudizio lo colse mentre era ancora a Roma e ricopriva l’importante incarico di prefetto della Segreteria vaticana per l’Economia. Nonostante potesse avvalersi dell’immunità diplomatica, il cardinale scelse di tornare in Australia e di affrontare il processo come un agnello in mezzo ai lupi, mentre era già partita la macchina del fango mediatica nei suoi confronti. Una scelta che Pell spiega indirettamente nel libro quando riporta la sua volontà di far sì che “l’impossibilità delle accuse venisse dimostrata in base all’evidenza dei fatti piuttosto che il processo si concludesse a mio favore soltanto per via di un cavillo”. Il porporato è consapevole che sul banco degli imputati insieme a lui c’è l’intero cattolicesimo australiano e che “un verdetto di non-colpevolezza è molto importante per la Chiesa, ma anche per la credibilità del sistema giudiziario australiano qui da noi e oltreoceano”. Nel libro, l’autore non mette in discussione l’esistenza di un problema pedofilia nella Chiesa e, anzi, confessa di pregare ogni sera prima di addormentarsi per le vittime di questa piaga. Ma nel suo caso specifico percepisce che la giuria lo “avesse ritenuto riprovevole, meritevole di essere punito per questioni estranee al processo, e che ‘fosse successo qualcosa’“. Scrive Pell in un passaggio significativo: “sono stato vittima della politica dell’identità; bianco, maschio, in una posizione di potere, appartenente a una Chiesa i cui membri avevano commesso atti vili e i cui leader, fino a poco tempo fa, avevano messo in atto un vero e proprio insabbiamento”. Una ricostruzione che fa tornare alla mente la sentenza d’assoluzione di un altro vescovo australiano, Philip Wilson, anche lui accusato di aver coperto un presunto abuso e anche lui rivelatosi innocente nonostante una pesante campagna denigratoria che lo costrinse alle dimissioni e ne deteriorò la salute fino alla morte. Prosciogliendolo dall’infamante capo d’imputazione, il giudice ricordò che la responsabilità penale è personale e che Wilson non poteva essere chiamato a scontare le responsabilità generali della Chiesa sullo scandalo abusi perché “le generalizzazioni su individui o istituzioni” sono “piene di pericoli soprattutto nel campo del diritto penale che è e deve essere sempre individuale”. Anche Pell nella sua via Crucis giudiziaria ha avuto la fortuna di incontrare un giudice assennato, quel Mark Weinberg che pur messo in minoranza in Corte d’Appello, scrivendo una lunga e dettagliata relazione in dissenso dai suoi due colleghi contribuì probabilmente a far sì che l’Alta Corte accettasse il ricorso presentato dal team difensivo. Il “Diario di prigionia” è una lettura utile non tanto per sbirciare dal buco della serratura di un cardinale in carcere, ma per farsi un’idea delle conseguenze che una persecuzione mediatico-giudiziaria fondata sul nulla può avere sulla pelle di una persona. Più delle piccole umiliazioni della vita in cella, come le continue perquisizioni o le manette in aula, a ferire il cardinale sono le amarezze che arrivano dall’esterno: la revoca del titolo onorifico di vice patron della squadra di football del cuore che aveva contribuito a salvare, la rimozione della targa con il suo nome dalla sala riservata agli alunni più famosi dalla sua ex università, la campagna di denigrazione ai danni dei testimoni a lui favorevoli, persino la mancata consegna di un dottorato ad honorem ad un gesuita che aveva difeso pubblicamente la sua innocenza. La sua condizione di uomo pubblico ed esponente di un’istituzione largamente malvista lo rese il bersaglio perfetto di un’offensiva mediatica spietata che – di pari passo con quella giudiziaria – mise da parte “ogni ragionevole dubbio” e finì per condizionare persino la sua esperienza dietro le sbarre: Pell, infatti, racconta di come il direttore del penitenziario, di fronte alla richiesta di avere una sedia più alta vista la sua imponente stazza, abbia opposto un rifiuto motivato dal fatto che non voleva essere accusato dalla stampa di avergli concesso un trattamento privilegiato. Il “Diario di prigionia” del cardinale si conclude temporaneamente con una preghiera affinché “tutti coloro che mi hanno sostenuto, e io stesso, riusciremo ad avere la saggezza per andare avanti nel migliore dei modi per far sì che quanto è accaduto a me non accada mai più a nessun altro australiano innocente”. E non dovrebbe accadere più anche in qualsiasi altra parte del mondo. Nico Spuntoni

·        Il Vaticano e la Mafia.

Dagospia l'1 aprile 2021. ANCHE LA CHIESA SI È ACCORTA CHE LA MAFIA NON C'È SOLO IN SICILIA.

Giacomo Galeazzi per lastampa.it l'1 aprile 2021. Il dicastero vaticano per lo Sviluppo umano integrale ha riunito nei giorni scorsi la commissione che lavora alla scomunica dei mafiosi. Tra i presenti all’incontro il sacerdote anti-mafia don Luigi Ciotti, l’ex procuratore Capo di Roma, Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano e l’arcivescovo di Monreale, monsignor Michele Pennisi, nella cui diocesi è stato dato alle fiamme il portone della chiesa di Corleone. «La scomunica dei mafiosi va uniformata a livello nazionale perché questo vuoto normativo a livello generale è dovuto alla difficoltà nel conoscere i meccanismi con cui il malaffare legato a questa tipologia di associazioni criminali ha potuto insinuarsi e radicarsi in tutti i gangli della società a livello nazionale», puntualizza il presule siciliano.

In tutta Italia. Il gruppo di studio ha l’incarico in Vaticano di approfondire la minaccia delle mafie alla Chiesa e alla società civile. Per indicare alle Conferenze episcopali regionali come estendere a tutta Italia quella scomunica per i mafiosi che è già in vigore nelle diocesi siciliane. «La criminalità organizzata non è più un’emergenza solo del Mezzogiorno ma anche al Nord e al centro», sottolinea l’arcivescovo di Monreale, che he nel suo territorio ha i comuni di San Giuseppe Jato e di Corleone. E aggiunge: «I clan vanno dove ci sono i soldi e con la crisi è più conveniente per loro fare affari lontano dalle loro terre sempre più impoverite e intrecciare rapporti con potentati economici e politici in ogni regione».

Mentalità. La task force, in funzione al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, ha l’obiettivo di approfondire il fenomeno mafioso anche attraverso esperti, laici e religiosi, magistrati, italiani e stranieri. Alla ricerca di «nuove strade per combattere la mafia sensibilizzando la società civile e le istituzioni contro il crimine organizzato. La mafia danneggia la Chiesa e la mentalità ecclesiale perché propone modelli opposti alla Chiesa», precisa monsignor Pennisi. «Abbiamo definito le condizioni per la conversione dei mafiosi che non può essere ridotta a un fatto intimistico ma deve avere una dimensione pubblica, essere seguita da una riparazione del male fatto, da una richiesta di perdono alla vittime e dall’abbandono della criminalità organizzata. Chi non si converte è fuori dalla comunione ecclesiale, è scomunicato. E la scomunica comminata è una pena medicinale, un monito in vista di un possibile ravvedimento e della conversione».

Delitto canonico. Perciò, evidenzia il presule siciliano, «la legge penale universale deve contenere una configurazione del delitto canonico di mafia la più ampia possibile perché il fenomeno assume oggi contorni globali. Ci siamo chiesti perché la scomunica non valga in quei luoghi in cui vi sia la presenza di associazioni mafiose, i cui aderenti non risultano invece colpiti da scomunica in assenza di un decreto formale da parte dei singoli vescovi o delle conferenze regionali o nazionali. Il modello è la scomunica già in vigore per i mafiosi nelle diocesi siciliane. «L’obiettivo è estendere all’episcopato italiano e mondiale ciò che nelle diocesi siciliane è stato stabilito per chi si rende colpevole di peccato di omicidio collegato alla mafia-  spiega monisgnor Pennisi-. A tal fine, nell’anniversario monito di San Giovanni Paolo II ai mafiosi, la Conferenza episcopale siciliana ha pubblicato un documento intitolato ‘Convertitevi’ sull’incompatibilità tra l’appartenenza alla Chiesa e ai clan mafiosi». A sollevare la necessità di estendere al nord la scomunica ai mafiosi, evidenzia monsignor Pennisi, «sono stati i vescovi meridionali: nel Mezzogiorno la sensibilità verso la minaccia mafiosa è maggiormente avvertita. Ma oggi il connubio mafia-affari è nazionale ed è un problema pastorale che non può essere confinato nelle regioni del sud. L’impegno civile a favore della legalità riguarda ogni cittadino».

Pena canonica necessaria. «Per il cristiano la lotta alla mafia richiede un incremento di responsabilità, per questo sono state chiamate in causa categorie morali e teologiche come la conversione e il peccato - afferma monisgnor Pennisi -. I modelli a cui ispirarsi sono l’appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi e le prese di posizione forti di Papa Francesco, incluso lo storico incontro con i familiari delle vittime innocenti della mafia nella primavera del 2014. Francesco ci chiede di coinvolgere nello stesso atto di condanna sia la ’ndrangheta che la mafia, la camorra, la sacra corona unita e altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso, come a voler dire che si tratta di piaghe che non conoscono cittadinanza». Oltre al fatto di commettere specifici delitti è «l’esser di per se stesso un mafioso che costituisce un delitto e necessita di una pena canonica e cioè la privazione dei funerali religiosi, la scomunica», conclude l’arcivescovo di Monreale.

I precedenti. La Conferenza episcopale siciliana in una lettera collettiva già nel 1944, pur senza espliciti riferimenti alla mafia, dichiarava: «Per parte nostra dichiariamo colpiti di scomunica tutti quelli che si fanno rei di rapina o di omicidio ingiusto o volontario». Nel 1952 nel Concilio plenario della Sicilia questa scomunica fu estesa ai mandanti e ai collaboratori dei reati di mafia. Nel febbraio del 1973 i vescovi siciliani condannano con fermezza «il fenomeno perdurante della mafia che infetta alcune zone della nostra isola». Nel 1982 si scomunicava chi si fosse macchiato di crimini violenti che hanno «come matrice la mafia e la nefasta mentalità che la muove e la facilita». La scomunica è stata ribadita il 13 aprile 1994. La Chiesa siciliana, per bocca dei suoi pastori, ha ribadito un mese fa che la mafia è peccato e i mafiosi sono peccatori perché oppongono un «rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza». A questo peccato «si rendono solidali anche i fiancheggiatori dell’organizzazione mafiosa e coloro che ne coprono i misfatti con la connivenza e con il silenzio omertoso».

Peccato gravissimo. «Far parte della mafia si configura come un peccato gravissimo, che di fatto pone al di fuori della comunione ecclesiale chi lo compie - chiarisce monisgnor Pennisi -. Per questo motivo noi vescovi abbiamo rimarcato l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, consapevoli che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, il suo impegno catechetico, la sua prassi pastorale, la sua azione sociale. Non sarebbe comprensibile che un delitto di stampo mafioso nelle diocesi della Sicilia venga punito con la scomunica, mentre se commesso in un’altra regione possa restare indifferente alla pena non essendoci una stessa sanzione canonica».

L’input di papa Francesco. Nel discorso di papa Francesco a Sibari del 21 giugno 2014 c’è l’esplicita condanna del comportamento mafioso di chi commette atti criminali tipici della mafia, ma anche della stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati». Francesco non mette solo in evidenza il peccato grave in cui si trovano i mafiosi. Dice che questa condizione di peccato dei mafiosi è anche un delitto penale che comporta la scomunica perché c’è l’idolatria, l’adorazione del male, del denaro che «prende il posto dell’adorazione per il Signore».

·        Vaticano e Massoneria.

Papa Francesco, il caso della "strana croce" travolge il Pontefice: "Sembra un simbolo massonico", in pubblico così. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 28 settembre 2021. La strana croce pettorale di Francesco, d'argento e non d'oro come quelle dei papi, ha sempre destato curiosità e interpretazioni, ma senza conclusioni certe. Abbiamo parlato finora di un "Codice Ratzinger", un sistema di comunicazione sottile, ma inequivocabile, con cui Benedetto XVI invia messaggi logici che parlano di sede impedita, di un'abdicazione mai avvenuta e di un papato emerito inesistente (questo, peraltro, da poco confermato). Che vi sia anche un "Codice Bergoglio", che si avvale non della logica, ma di simbolismi esoterici per inviare segnali ai suoi fedelissimi? Il guaio è, coi simboli massonici, che sono mutuati in blocco da quelli cristiani, anche se il loro significa to, noto agli iniziati, è alla rovescia. Del resto, la "bestia nera" per la Chiesa cattolica è sempre stata la stra-scomunicata Massoneria che, rifiutando il "Dio che si è fatto uomo", insegue un umanesimo spiritualizzato, un "uomo che si fa dio". Un libro ormai introvabile, "Ero massone. Dalle tenebre della Loggia alla luce di Cristo" di M. Caillet (2013), svela un dettaglio choccante e univoco sulla croce di Bergoglio. Questa reca, infatti, il "Buon Pastore" che però, stranamente, ha le braccia incrociate, come un dio egizio. Dopo ricerche e confronti con specialisti di tale iconografia, possiamo confermare come non esista nella storia dell'arte cristiana un'immagine simile di Gesù Buon Pastore perché le braccia incrociate prefigurerebbero il sacrificio della croce e non c'è alcuna associazione dal punto di vista biblico-teologico. Solo un Buon Pastore ha tuttavia le braccia così, ed è quello dei Rosacroce, un ordine mistico-esoterico di cui si è sempre vociferata l'aderenza con gruppi deviati di gesuiti. Oggi l'Amorc, che ne è l'erede, si trova diffuso in America Latina e possiede un'importante loggia a Buenos Aires. Ed ecco come Caillet descrive l'ordinazione ricevuta al 18° grado di Principe Rosa Croce: «Poi imparai il segno dell'ordine, l'atteggiamento del Buon Pastore: in piedi, con le braccia incrociate sul petto». E ancora, "Esonet", portale di esoterismo: «Anche per la preghiera in piedi, gli avambracci sono incrociati sul petto. Questa, nella Scuola della Rosa Croce, è conosciuta come la "posizione del Buon Pastore" ed era quella assunta dai Faraoni seduti sul trono». Le società esoteriche, infatti, attingono largamente a fedi precristiane, come quella egizia ed ebraica. Notevole come il giuramento del 18° grado da Principe Rosa Croce citi l'egualitarismo delle religioni, con una formula che accomuna Cristo, Baal, Javeh, Brahma, il sole, il fuoco, persino totem di legno (Pachamama?). Sarà dunque un caso che nell'udienza del 24 giugno 2020, festa di San Giovanni ma anche della Massoneria -, Bergoglio sia intervenuto sul Buon Pastore? Torna in mente anche la "rugiada", da poco inserita nella II preghiera eucaristica del nuovo messale. Ne parlavano i cristiani nel III secolo, appena cento anni prima che fosse "codificato" teologicamente lo Spirito Santo. Come mai il ripristino di questa antica, obsoleta metafora? Non avrebbe senso, a meno di non scoprire che la rugiada, importante elementale esoterico, è il "Nettare dei Rosacroce" e veniva raccolta coi lenzuoli dagli alchimisti. Il problema è che il Dio rosacrociano è incompatibile con la fede cristiana: è la "meta universale" di Pitagora, la natura e l'universo, pieno panteismo. Gesù sarebbe uno spirito appartenuto all'evoluzione umana e lo Spirito Santo un raggio cosmico entrato nel suo corpo. Non stupisce che, oggi, i Rosacroce siano propugnatori dell'ecologismo, del sincretismo e della solita fratellanza umana, cui Bergoglio ha dedicato l'enciclica "Fratelli tutti" raccogliendo entusiasmi presso le logge massoniche di tutto il mondo. Coincidenze? Chissà, lasciamo un velo, in modo che chi non ha la pazienza di confrontarsi col diritto canonico o con l'iper-logico Codice Ratzinger possa essere illuminato anche dall'"intuizione alchemica" e capire quale sia questo famoso "unico papa" di cui parla Benedetto XVI, da otto anni, senza mai specificare quale.

Il primo documentario su Francesco, Benedetto XVI, la Mafia di San Gallo e la massoneria ecclesiastica.

Il video, sconvolgente, affronta anche la rinuncia di Benedetto XVI giudicata invalida da molti canonisti. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 07 giugno 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Due giorni fa, è stato pubblicato il documentario in italiano e inglese “Il messaggio nella bottiglia”: 40 minuti sconvolgenti dove si analizzano, sulla base di oggettivi dati di fatto, temi scottanti come la rinuncia di Papa Ratzinger; la “Mafia di San Gallo”; la genealogia episcopale dei cardinali appartenenti ad essa; l’obiettivo storico della massoneria (ecclesiastica e laica) di demolire la Chiesa cattolica; la mistificazione del personaggio di San Francesco; la svolta materialista della neo-chiesa e l’incredibile potenza di fuoco mediatica che propone un’immagine di Francesco molto diversa da quella che, secondo gli autori, è la realtà. Tra gli intervistati, il frate italo-americano Alexis Bugnolo, il prof. Francesco Lamendola e lo youtuber Marco Cosmo del canale “Decimo Toro” che ha messo in rete il filmato. L’autore è un ignoto regista che ha preferito celarsi per non essere falciato nella carriera. Il documentario è visibile su Youtube QUI ma siccome potrebbe essere censurato o bloccato dagli amministratori (come già avvenuto per quelli di Mons. Viganò) è stato pubblicato anche su Rumble. Secondo gli intervistati, esiste una antica gerarchia infedele nella Chiesa, collegata anche all’ordine dei Gesuiti e fortemente ispirata alla Massoneria, che si è impadronita del potere dopo una preparazione di almeno duecento anni, praticamente dalle prime infiltrazioni della Libera muratoria nella Chiesa. Personaggio chiave di questa corrente, il card. Mariano Rampolla del Tindaro, che doveva diventare papa, ma la cui elezione fu bloccata dall’imperatore d’Austria, proprio per le sue aderenze alla Massoneria. Della Mafia di San Gallo, discendente da Rampolla, ha scritto, del resto, lo stesso primate del Belgio card. Danneels nella sua autobiografia, ammettendo candidamente che il gruppo di cardinali supermodernisti di cui faceva parte voleva deporre Benedetto XVI e che il loro campione era il card. Bergoglio. Citiamo dalla “Biographie” del 2015: “E’ un gesuita confratello di Martini e cardinale arcivescovo di Buenos Aires, si chiama Jorge Mario Bergoglio. L'atteggiamento di Bergoglio si guadagna la fiducia di molti dei partecipanti al Gruppo di San Gallo, compreso Danneels. […] Anche se i cardinali del gruppo di San Gallo presenti a Roma inviano a Ivo Fürer una cartolina con il messaggio: "Siamo qui insieme in spirito di pace", fu il cardinale Ratzinger ad essere scelto dal conclave come successore quasi ovvio del papa polacco, anche se durante il pre-conclave, il cardinale gesuita Jorge Mario Bergoglio era un'alternativa realistica”.

Il volume non è mai stato tradotto in italiano, né smentito dal Vaticano, nella probabile prospettiva che la questione venisse dimenticata. Tuttavia, un faro sulla vicenda della Mafia di San Gallo è stato tenuto strenuamente puntato fin dal 2015 dal teologo palermitano Don Alessandro Minutella, scomunicato due volte senza processo canonico (dal bergogliano card. Beniamino Stella) nel 2018 che, dal suo canale Youtube “Radio Domina Nostra”, ripete ogni giorno che Bergoglio non è il papa e che Benedetto XVI non si è mai dimesso. Il canale oggi è seguito da oltre 50.000 persone e le sue dirette, con catechesi o messe in latino, spesso doppiano gli spettatori in diretta della messa di Francesco messa in onda da Vatican News. E' il prete più seguito in Italia ma i media fanno finta che non esista (ovviamente). Spiega nel documentario il Prof. Lamendola, docente di Lettere e Filosofia, che l’obiettivo della Massoneria è quello di distruggere la Chiesa cattolica dall’interno per instaurare un Nuovo Ordine Mondiale, che adesso sta prendendo forma. Tornano in mente le parole di Francesco rilasciate a La Stampa addì 15 marzo 2021: “Sprecheremmo la crisi chiudendoci in noi stessi. Invece, edificando un NUOVO ORDINE MONDIALE basato sulla solidarietà, studiando metodi innovativi per debellare prepotenze, povertà e corruzione, tutti insieme, ognuno per la propria parte, senza delegare e deresponsabilizzarci, potremo risanare le ingiustizie”. La Massoneria - spiega sempre Lamendola - persegue obiettivi completamente all’inverso rispetto alla Chiesa di Cristo, obiettivi del tutto materialisti. La Fratellanza umana di cui scrive Bergoglio nell’ultima enciclica non è una fratellanza dovuta al fatto che si è tutti figli di Dio, ma che si è tutti figli della Madre Terra, la Pachamama appunto, di cui abbiamo scritto. Non per nulla, nell’enciclica non si parla mai di Dio, né di Gesù Cristo. Fra Bugnolo ribadisce come la scomposizione formale dell’incarico papale in munus e ministerium, alla base della trappola giuridica della rinuncia, fosse stata predisposta  a suo tempo da Giovanni Paolo II e dallo stesso card. Ratzinger. Emerge un fatto nuovo: Benedetto XVI ha, in effetti, inspiegabilmente nominato cardinali molti membri della Mafia di San Gallo, e/o modernisti e/o suoi nemici giurati. Questo si può spiegare con il fatto per cui la rinuncia invalida al papato fosse stata già programmata da molto tempo per annullare definitivamente questa corrente in seno alla Chiesa. Ospiti del vaticanista Aldo Maria Valli, abbiamo spiegato tutto il senso dell’operazione. Tempo fa avevamo ventilato che il “trucco” potesse essere ispirato al terzo Segreto di Fatima. In ogni caso, Francesco e i suoi possono dormire sonni tranquilli. Nessuno farà niente. Qualche tempo fa avevamo trovato un pronunciamento inequivocabile di Ratzinger in un suo libro intervista. Ha convinto molti, è stato ripreso anche dal più importante quotidiano cattolico tedesco, il Die Tagespost, ma ugualmente non si è smosso niente. Papa Benedetto potrebbe anche esporre una scritta al neon fuori della sua finestra con scritto “Il papa sono io” e tutti penserebbero a una distrazione, a una coincidenza, a un complottismo. Non interessa a nessuno la questione. I bergogliani fanno finta di niente, al massimo bullizzano gli interlocutori come fece l’Avvenire, dandoci esplicitamente degli imbecilli. I tradizionalisti, che detestano Benedetto XVI, pensano che, in quanto “modernista” (secondo loro), Ratzinger sia un impreparato e un approssimativo, del tutto inaffidabile, quindi queste “leggerissime” incongruenze non li sfiorano nemmeno. Per loro, il fatto che Ratzinger abbia invertito la parola munus con ministerium è solo una sbadataggine, anche se chiama in causa  i canoni 124, 332 § 2, 188, 17 del Diritto canonico che rendono clamorosamente nulla la sua rinuncia, stando a una quantità di canonisti. Ignorano una serie infinita di discrasie che abbiamo evidenziato e ricostruito secondo il disegno del “Piano B”. I conservatori, invece, sono concentrati sulle demolizioni esplosive della Chiesa cattolica che sta attuando Francesco: si disperano perché adesso dovranno rinunciare anche alla Messa in latino, ma non riescono a farsi venire un dubbio: forse qualcosa è andato storto nella rinuncia di Benedetto XVI e quindi magari lo Spirito Santo risulta “non pervenuto”? Forse Francesco non è il vero papa? L’interrogativo non li sfiora. Molti sperano di sistemare le cose alla dipartita di Bergoglio, dimenticando che se Benedetto non si è dimesso, Francesco è un antipapa e il collegio cardinalizio conta 80 cardinali invalidi: ergo, nella sua linea successoria saranno tutti antipapi. Quindi, il fatto che la Chiesa cattolica sia finita per sempre … è un dettaglio trascurabile. Tranquilli, sono solo coincidenze, distrazioni, complottismi… Anche questo documentario, per quanto ben fatto e fondato su fatti evidenti, sarà ignorato da tutti.

Vaticano, Papa Francesco "massone"? Il Grande Oriente d'Italia: segnali concreti nell'ultima enciclica "Fratelli tutti". Libero Quotidiano il 26 ottobre 2020. L'enciclica di Papa Francesco "trionfo della massoneria". A sostenerlo sono gli stessi grembiulini del GOI, il Grande Oriente d'Italia, storica loggia italiana. L'apertura del Pontefice alle unioni civili tra gay con Fratelli tutti, come sottolinea anche il Fatto quotidiano, non ha scatenato l'atteso coro di proteste dall'ala conservatrice della Chiesa. E questo perché, secondo il monsignor Carlo Maria Viganò, tra i più critici nei confronti di Bergoglio, gli stessi conservatori sanno che Francesco "spera che un gruppo di cardinali lo accusi formalmente di eresia, che ne chieda la deposizione. E così facendo, Bergoglio avrebbe il pretesto di accusare questi prelati di essere 'nemici' del Papa, di porsi fuori dalla Chiesa, di volere uno scisma". Viganò però definisce la sortita del Santo Padre "l'ennesimo embrassons-nous di matrice massonica" e qui arriva, a sorpresa, la conferma dei massoni, quelli veri. Sul mensile del GOI, Erasmus, si ricordano le "non poche analogie con i principi e la visione massonica" dell'ultima enciclica papale. L'esaltazione della fratellanza non sarebbe altro che la celebrazione del "trinomio massonico" composto con Libertà e Uguaglianza. E la stessa Cecilia Marogna, la "dama di Becciu" ultima donna degli scandali della Chiesa, conclude malizioso il Fatto, sarebbe arrivata in Vaticano insieme sulla scia della cattomassoneria: "Consigliata da Carboni, Pazienza e finanche dal massone democratico Magaldi".

"Maria che scioglie i nodi": l'immagine cara a Francesco e i risvolti esoterico-massonici. Il committente dell'ex voto diffuso da Bergoglio in tutto il mondo apparteneva a una società protomassonica. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 03 giugno 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Il 31 maggio Francesco ha affidato cinque intenzioni alla “Maria che scioglie i nodi”, un’immagine che in questo periodo sta avendo grande diffusione e successo. Ora, premesso che la devozione sincera e amorevole dei credenti - dal punto di vista della fede - viene sicuramente ascoltata ed esaudita dalla Vergine Maria, al di là che Essa sia raffigurata in questa o quell’altra immagine, vi sono alcuni dati di fatto oggettivi che devono essere conosciuti.

Francesco viene spesso accusato di non brillare particolarmente per la sua devozione mariana. Ha negato alla Madonna il titolo di Corredentrice; tende spesso a definirla solo “madre e discepola” con una certa assonanza con il Luteranesimo; ha abrogato la Festa della Traslazione della Santa Casa di Loreto, praticamente declassificando il fatto soprannaturale della casa di Maria trasportata dagli angeli (testimoniato da San Nicola da Tolentino) a mera leggenda e tradizione. Si sono spesso registrate, sempre in ottica apparentemente filo-protestante, sue resistenze a parlare dei dogmi mariani fondamentali, come la verginità perpetua. Eppure, di una sola immagine mariana, in particolare, Bergoglio è STRAORDINARIAMENTE DEVOTO. Non della Madonna di Lourdes, né di quella di Fatima (alla quale ha detto di preferire la Maria dei Vangeli), né di quella di Pompei, o del Buon Soccorso, tutte immagini miracolosissime, che guarirono malati terminali, furono protagoniste di apparizioni e di straordinari altri fenomeni soprannaturali riconosciuti dalla Chiesa, ai quali ovviamente, crede chi ha fede. No, è un’immagine insolita, priva del Bambino Gesù. In questa, Maria è raffigurata molto bella, tanto che può sembrare perfino un po’ troppo scollata per via di un lembo del vestito color rosa carne. In una riproduzione dall’originale, la figura appare addirittura con una spalla scoperta. Scrive Avvenire che quando nel 1986 l’allora padre Bergoglio vide l’ex voto della Madonna che scioglie i nodi, nella chiesa gesuita di St. Peter, ad Augusta, in Germania, rimase “folgorato”: fece stampare centinaia di cartoline di questa immagine e la diffuse in Argentina e in tutto il Sudamerica. Un parroco di Buenos Aires, Juan Ramón Celeiro, scrisse anche una Novena alla Marie Knotloeserin, ovvero una preghiera che va recitata nell’arco di nove giorni, una strofa al giorno. Ed ecco l’origine dell’immagine.

Nel 1700, il canonico tedesco Hyeronimus Ambrosius Langenmantel commissionò al pittore Schmidtern un dipinto come ex voto per ricordare una grazia ricevuta da suo nonno, il nobile Wolfgang, che aveva dei seri problemi coniugali con la moglie Sophie. Questa, per ricordare tutti i litigi avuti col marito, aveva riempito di nodi il nastro nuziale con cui all’epoca si sposavano i tedeschi: un nodo stretto con il nastro simboleggiava, infatti, il vincolo matrimoniale. Wolfgang Langenmantel, alle soglie della separazione, portò il nastro annodato da un gesuita, padre Jakob Rem, il quale lo offrì a Maria. La Vergine, per miracolo, sciolse tutti i nodi del nastro e riportò la pace e l’amore fra marito e moglie.

Rispetto agli straordinari miracoli delle altre effigi mariane, questo sembra abbastanza modesto, eppure Francesco ne ha divulgato un culto totalizzante. Come mai? Cosa avrà di particolare questa immagine? Non si può tacere il fatto che vi siano alcune patenti sovrapponibilità del simbolo del nastro annodato con l’universo alchemico-esoterico. Un nastro o un cordone pieno di nodi, infatti, è un simbolo massonico di primaria importanza, già noto alle società muratorie medievali: esso collega le due colonne spezzate del tempio di Salomone, Jachin e Boaz. I nodi nel nastro, del tipo “Savoia” proprio come quelli dell’immagine della Madonna sciogli-nodi, simboleggiano i “nodi d’amore” che uniscono i Fratelli, riunendoli in una sola famiglia su tutta la Terra. E’ pur vero che di simboli massonici mutuati dal Cristianesimo ve ne sono tanti, ma abbiamo fatto qualche ricerca in più sul committente, Hyeronimus Langenmantel. Era un erudito e apparteneva alla Fruchtbringenden Gesellschaft, (Società dei Carpofori) la quale aveva uno scopo educativo: l'uso impeccabile del tedesco. Gli storici della massoneria Ludwig Keller e Wolfstieg sostennero che questa accademia determinò le linee di influenza sulla Massoneria, che nascerà di lì a poco, nel 1717. La Fruchtbringende Gesellschaft  era qualcos’altro che una semplice società linguistica – citiamo dall’enciclopedia massonica - piuttosto un'associazione che perseguiva determinati interessi religiosi o quanto meno morali e sociali, soprattutto la penetrazione della Germania con la tolleranza e la pace e l'educazione della gioventù adulta. I membri coltivavano segreti volti alla creazione di un Cristianesimo pacifista, sincretista e “inclusivo”, dato che la società accoglieva molti protestanti ma anche alcuni cattolici “dialoganti”. Membro della società e amico di Langenmantel era il gesuita Athanasius Kircher, grande scienziato, egittologo e alchimista. E’ quindi fattuale che l’ex voto della Marie Knotloeserin nacque in un contesto culturale gesuitico, catto-protestante, proto-massonico, sincretista, per nulla estraneo a interessi alchemici ed esoterici. Ed ecco che l’immagine che scioglie e/o annoda il nastro (non sappiamo se Maria nella scena sta sciogliendo uno dei nodi “aggiunti” o riannodando quello coniugale) rievoca inevitabilmente il motto alchemico “SOLVE ET COAGULA”, il ciclo di morte e rinascita che sarà tanto caro ai massoni. Non basta. L’utilizzo di cordicelle o nastri annodati per scopi precipuamente MAGICI è antichissimo, tanto da ricorrere persino nelle tavolette cuneiformi mesopotamiche che trattavano di stregoneria. Esiste anche un RITO DEI NOVE NODI che ricorda in modo inquietante la NOVENA della Madonna che scioglie i nodi: ogni giorno, per nove giorni, bisogna fare un nodo in un punto preciso di una cordicella dato che:  

“Con il 1° nodo, l’incantesimo comincerà.

Con il 2° nodo l’incantesimo si avvererà.

Con il 3° nodo cosi sarà.

Con il 4° nodo il potere si svelerà.

Con il 5° nodo l’incantesimo vivrà.

Con il 6° nodo l’incantesimo si fisserà.

Con il 7° nodo il cambiamento avverrà.

Con l’ 8° nodo il destino agirà.

Con il 9° nodo quel che è fatto sarà”.

“I nodi verranno SCIOLTI UNO ALLA VOLTA PER NOVE GIORNI CONSECUTIVI, nell’ordine numerico con il quale sono stati legati.  Quando verrà sciolto l’ultimo, il potere sarà al massimo, e l’energia sarà liberata con un urlo”.

Non è la prima volta che un elemento iconografico-liturgico promosso, o introdotto, o approvato da Francesco trova una casuale (?) corrispondenza con il mondo magico-esoterico-massonico.

Un esempio clamoroso è stato poco tempo fa l’inspiegabile cambiamento della II preghiera eucaristica nel messale. Il testo è stato cambiato

da: “Santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito”

a: “Santifica questi doni con la “RUGIADA” del tuo Spirito”

A parte che, stando alla lingua, l’”effusione” è un’azione che vede protagonista lo Spirito Santo in prima persona e non è un suo “prodotto” come la rugiada, (che quindi è un oggetto diverso dallo Spirito Santo) quest’ultima è stata inserita in riferimento al fatto che, nel III secolo, i primi cristiani, con la metafora della rugiada, prefiguravano lo Spirito Santo che sarebbe stato “codificato” poco più tardi, nel IV secolo. Allora non si capisce perché recuperare una metafora ormai obsoleta, che esisteva prima della teologia dello Spirito Santo, se dal IV secolo in poi la persona trinitaria era stata già ben definita. Che senso ha? Per una strana coincidenza, abbiamo scoperto che la RUGIADA E' UN ELEMENTALE ESOTERICO MASSONICO importantissimo, tanto che ancora negli anni ’70, l’ultimo alchimista francese, Armand Barbault, nelle notti di primavera raccoglieva la rugiada con lenzuoli per farne vari intrugli.  A tutte queste coincidenze, aggiungiamo le 67 lettere di apprezzamento ricevute da Francesco da logge massoniche di tutto il mondo; la lettera “Ai cari fratelli massoni” pubblicata dal card. Ravasi sul Sole 24 ore e i continui appelli di Francesco alla Fratellanza universale. Non è un po’ troppo? Siamo quindi costretti a riconoscere che la nuova chiesa di Bergoglio, sia per casuale, sfortunata coincidenza o per una diretta volontà, strizzi spesso e volentieri l’occhiolino alla Massoneria (e al suo armamentario estoerico) scomunicata dalla Chiesa in 586 pronunciamenti, lungo tre secoli, in quanto completamente antitetica al Cattolicesimo.

·        Il Papa e l’Immigrazione.

Gian Guido Vecchi per il "Corriere della Sera" il 6 dicembre 2021. Alla fine Francesco si ferma ancora a stringere mani, accarezza i capelli di una bambina ma il sorriso è un po' tirato, lo sguardo interdetto, dei bimbi ripetono «papa, papa». Venire e andare via da questo campo significa provare imbarazzo, prima che pietà. «Sono qui per guardarvi negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti». Sfilano i minibus dei visitatori verso l'aeroporto e due ragazzini restano lì, su un terrapieno, a salutare. «Troviamo il coraggio di vergognarci davanti ai volti dei bambini», dice il Papa, e si rivolge all'Europa e al mondo: «Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà». Ieri Francesco è tornato a Lesbo, tra i rifugiati del «Reception and Identification Centre» di Mavrovouni che ha sostituito Moria, poco distante, distrutto da un incendio nel settembre 2020. Cinque anni fa ne era tornato sconvolto. Non che ora sia molto meglio. «Dopo tutto questo tempo constatiamo che sulla questione migratoria poco è cambiato. In Europa c'è chi persiste nel trattare il problema come un affare che non lo riguarda. È triste sentire proporre l'impiego di fondi comuni per costruire muri». Ora la tendopoli di Moria è stata sostituita da file di container in riva al mare, giornata un po' nuvolosa ma limpida, tra le barche dei pescatori e le motovedette si vede nitida, a cinque miglia, la costa della Turchia, sono arrivati tutti da là. Medici Senza Frontiere informa che a Lesbo, in base ai dati Onu, ci sono 2.487 rifugiati e richiedenti asilo, 2.144 in questo campo, il 68 per cento in fuga dall'Afghanistan. Si può uscire al massimo due volte la settimana, orari rigidi, sabato e domenica chiuso, niente scuola se non per l'impegno dei volontari. Resta l'attesa, come un limbo. «Non sappiamo nulla dei nostri visti» dice Masa Amini, che sta nell'isola «da due anni e quattro mesi» con il marito Mohammad e la figlia Msoooma, otto anni. È afghana anche Zami Ali, sedicenne, e spera «che il Papa possa fare qualcosa, dire al mondo la nostra situazione, sono a Lesbo da due anni e qui è un po' meglio di Moria ma d'inverno fa freddo, spesso manca l'elettricità, in tenda siamo sette...».  Tetti di lamiera, teloni di plastica a riparare dell'umidità, biancheria stesa ad asciugare su cime da barca tese nei corridoi stretti tra i container, bambini che giocano con i gatti, una signora che ha perso la sua famiglia e piange da sola su una sedia di legno. Alla vigilia hanno ripulito dall'immondizia i canali di scolo, resta qualche tenda lacera come a Moria ma è nascosta a ridosso del muro sormontato dal filo spinato. La polizia sbarra i passaggi tra i container, Francesco parla sotto un tendone poco distante davanti a una rappresentanza dei migranti. Già ad Atene ha richiamato i fondamenti della nostra civiltà. Qui a Lesbo c'erano Saffo e Alceo che cantava «la meraviglia» dei fanciulli di fronte a una conchiglia. Ma il «mare biancheggiante» dei lirici eolici è diventato «un freddo cimitero senza lapidi», dove i bambini affogano. Non può andare avanti così. «È facile trascinare l'opinione pubblica instillando la paura. Vanno affrontate le cause remote, non chi ne paga le conseguenze. Perché non si parla delle guerre dimenticate, del traffico d'armi?». Il Papa cita Elie Wiesel: «Quando la vita e la dignità umana sono in pericolo, i confini diventano irrilevanti». E avverte: «Quando i poveri vengono respinti si respinge la pace. Chiusure e nazionalismi, la storia insegna, portano a conseguenze disastrose. La migrazione è un problema del mondo ed è in gioco il futuro di tutti, che sarà sereno solo se integrato». In questi anni, tramite Sant' Egidio, è riuscito a portare a Roma da Lesbo 220 persone, ne arriveranno ancora 80. E altri 50 da Cipro. La xenía dei greci antichi, il Samaritano: «Non è ideologia religiosa, sono radici cristiane concrete». Altro che filo spinato: « Si offende Dio disprezzando l'uomo creato a sua immagine, lasciandolo in balia delle onde, nello sciabordio dell'indifferenza, talvolta giustificata persino in nome di presunti valori cristiani». Il tono è solenne: «Prego Dio di ridestarci dalla dimenticanza. E prego l'uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l'indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai marg 

Paolo Rodari per "la Repubblica" il 5 dicembre 2021. Circa duemila e cinquecento rifugiati, per la maggior parte afghani, qualche siriano. Bambini donne e uomini che sono riusciti ad arrivare in Europa dalla Turchia, ma che non possono lasciare il campo. I cancelli di Kara Tepe, a Lesbo, sono chiusi, per molti addirittura da due anni. Papa Francesco vi arriva questa mattina, dopo essere atterrato da Atene, ultima tappa del suo trentacinquesimo viaggio apostolico. Prima di prendere la parola si intrattiene qualche minuto con i profughi: «Sorelle, fratelli, sono nuovamente qui per incontrarvi. Sono qui per dirvi che vi sono vicino. Sono qui per vedere i vostri volti, per guardarvi negli occhi. Occhi carichi di paura e di attesa, occhi che hanno visto violenza e povertà, occhi solcati da troppe lacrime». Bergoglio arrivò a Lesbo già nel 2016. Con lui c’era il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, che disse: «Chi ha paura di voi non vi ha guardato negli occhi. Chi ha paura di voi non ha visto i vostri volti. Chi ha paura di voi non vede i vostri figli. Dimentica che la dignità e la libertà trascendono paura e divisione. Dimentica che la migrazione non è un problema del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale, dell’Europa e della Grecia. È un problema del mondo». Il Papa ricorda oggi queste parole e conferma: «Sì – dice – è un problema del mondo, una crisi umanitaria che riguarda tutti». Ma mentre sui cambiamenti climatici e sulla pandemia qualcosa sembra muoversi, «tutto sembra latitare terribilmente per quanto riguarda le migrazioni». I rifugiati vivono all’interno di container bianchi. A pochi chilometri si vedono le coste turche sulle quali, nel 2015, depositarono il corpo senza vita di Alan Kurdi. Aveva tre anni. L’odore dei bagni chimici è nauseabondo nonostante le autorità locali abbiano dato una ripulita poche ore prima dell’arrivo del Papa: «Quando i poveri vengono respinti – dice Francesco – si respinge la pace». E ancora: «Chiusure e nazionalismi – la storia lo insegna – portano a conseguenze disastrose». Fin dal primo viaggio a Lampedusa, nel luglio del 2013, i migranti sono stati nel cuore del Papa, al centro delle sue preoccupazioni. «È un’illusione pensare – spiega oggi – che basti salvaguardare se stessi, difendendosi dai più deboli che bussano alla porta. Il futuro ci metterà ancora più a contatto gli uni con gli altri. Per volgerlo al bene non servono azioni unilaterali, ma politiche di ampio respiro. La storia, ripeto, lo insegna, ma non lo abbiamo ancora imparato. Non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso che qualcuno è costretto a sobbarcarsi!». Francesco cita Elie Wiesel, testimone della più grande tragedia del secolo passato: «È perché ricordo la nostra comune origine che mi avvicino agli uomini miei fratelli. È perché mi rifiuto di dimenticare che il loro futuro è importante quanto il mio», scrisse. Il Papa fa sue queste parole e prega Dio «di ridestarci dalla dimenticanza per chi soffre, di scuoterci dall’individualismo che esclude, di svegliare i cuori sordi ai bisogni del prossimo». E prega anche «l’uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l’indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini! Contrastiamo alla radice il pensiero dominante, quello che ruota attorno al proprio io, ai propri egoismi personali e nazionali, che diventano misura e criterio di ogni cosa». Dall’ultima visita a Lesbo sono passati cinque anni. Poco è cambiato da allora. C’è stato e c’è tanto impegno da parte di volontari, ma «dobbiamo amaramente ammettere che questo Paese, come altri, è ancora alle strette e che in Europa c’è chi persiste nel trattare il problema come un affare che non lo riguarda». Dice il Papa: «Quanti hotspot dove migranti e rifugiati vivono in condizioni che sono al limite, senza intravedere soluzioni all’orizzonte!». «È triste sentir proporre – continua – come soluzioni, l’impiego di fondi comuni per costruire muri. Certo, si comprendono timori e insicurezze, difficoltà e pericoli. Si avvertono stanchezza e frustrazione, acuite dalle crisi economica e pandemica, ma non è alzando barriere che si risolvono i problemi e si migliora la convivenza. È invece unendo le forze per prendersi cura degli altri secondo le reali possibilità di ciascuno e nel rispetto della legalità, sempre mettendo al primo posto il valore insopprimibile della vita di ogni uomo». E ricorda ancora Wiesel che il 10 dicembre 1986, nel discorso di accettazione del Premio Nobel per la pace, disse: «Quando le vite umane sono in pericolo, quando la dignità umana è in pericolo, i confini nazionali diventano irrilevanti». E allora perché, domanda Bergoglio, «invece, con lo stesso piglio, non si parla dello sfruttamento dei poveri, delle guerre dimenticate e spesso lautamente finanziate, degli accordi economici fatti sulla pelle della gente, delle manovre occulte per trafficare armi e farne proliferare il commercio?». «Vanno affrontate le cause remote, non le povere persone che ne pagano le conseguenze, venendo pure usate per propaganda politica!», risponde. E ancora: «Per rimuovere le cause profonde, non si possono solo tamponare le emergenze. Occorrono azioni concertate. Occorre approcciare i cambiamenti epocali con grandezza di visione. Perché non ci sono risposte facili a problemi complessi». È sotto gli occhi di tutti: il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, «sta diventando un freddo cimitero senza lapidi». Questo grande bacino d’acqua, culla di tante civiltà, «sembra ora uno specchio di morte». «Non lasciamo che il mare nostrum si tramuti in un desolante mare mortuum, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro! Non permettiamo che questo ‘mare dei Ricordi’ si trasformi nel “mare della dimenticanza”. Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà!».

Il Papa tra i migranti di Lesbo. "Stop al naufragio della civiltà". Serena Sartini il 6 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il Pontefice nel campo profughi: "Vergogniamoci davanti ai bambini, chiusure e nazionalismi portano a disastri". L'abbraccio ai migranti di Lesbo, l'appello disperato affinché nel Mediterraneo si fermi «il naufragio di civiltà». Cinque anni dopo la sua visita nel 2016 «poco è cambiato» nell'isola dell'Egeo, nel Reception and Identification Centre, dove sono ospitati i rifugiati. Fino a qualche tempo fa era il più grande d'Europa, lo chiamavano l'inferno di Moria. Poi un incendio ha distrutto tutto. Nel cuore del suo viaggio a Cipro e Grecia, Papa Francesco visita l'area attrezzata per l'accoglienza dei rifugiati ma soprattutto incontra loro, gli ultimi, i rifugiati. «Sono nuovamente qui per incontrarvi. Sono qui per vedere i vostri volti - esordisce Francesco - per guardarvi negli occhi. Occhi carichi di paura e di attesa, occhi che hanno visto violenza e povertà, occhi solcati da troppe lacrime». Il Pontefice cammina in mezzo ai profughi, attraversa le baracche e i container che accolgono oltre duemila rifugiati provenienti dalle zone di conflitto dell'Asia e del Medio Oriente fino a quelle dell'Africa. Ascolta attento le loro storie, lo sguardo fisso sui loro occhi. La migrazione «è un problema del mondo, una crisi umanitaria che riguarda tutti», ammonisce. «La pandemia ci ha colpiti globalmente, ci ha fatti sentire tutti sulla stessa barca, ci ha fatto provare che cosa significa avere le stesse paure - sottolinea Francesco -. Abbiamo capito che le grandi questioni vanno affrontate insieme. Ma mentre si stanno faticosamente portando avanti le vaccinazioni a livello planetario e qualcosa, pur tra molti ritardi e incertezze, sembra muoversi nella lotta ai cambiamenti climatici, tutto sembra latitare terribilmente per quanto riguarda le migrazioni. Eppure ci sono in gioco persone, vite umane». Da Lesbo Papa Francesco manda poi un messaggio forte all'Europa, scuotendola dall'indifferenza: «Dobbiamo amaramente ammettere che questo Paese, come altri, è ancora alle strette e che in Europa c'è chi persiste nel trattare il problema come un affare che non lo riguarda. È tragico. E quante condizioni indegne dell'uomo. Quanti hotspot dove migranti e rifugiati vivono in condizioni che sono al limite, senza intravedere soluzioni all'orizzonte. Eppure il rispetto delle persone e dei diritti umani, specialmente nel continente che non manca di promuoverli nel mondo - ammonisce il Papa - dovrebbe essere sempre salvaguardato, e la dignità di ciascuno dovrebbe essere anteposta a tutto». Bergoglio bacchetta l'Europa. «Chiusure e nazionalismi - la storia lo insegna - portano a conseguenze disastrose. Non si voltino le spalle alla realtà, finisca il continuo rimbalzo di responsabilità, non si deleghi sempre ad altri la questione migratoria, come se a nessuno importasse e fosse solo un inutile peso». E poi la condanna nel voler costruire «muri e fili spinati». Certo, «si comprendono timori e insicurezze, difficoltà e pericoli. Si avvertono stanchezza e frustrazione, acuite dalle crisi economica e pandemica, ma non é alzando barriere che si risolvono i problemi e si migliora la convivenza». Infine la supplica di Bergoglio: «Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà. Questo grande bacino d'acqua, culla di tante civiltà, sembra ora uno specchio di morte. Non lasciamo - conclude Bergoglio - che il mare nostrum si tramuti in un desolante mare mortuum, che questo luogo di incontro diventi teatro di scontro! Non permettiamo che questo mare dei ricordi si trasformi nel mare della dimenticanza. Il Mediterraneo, che per millenni ha unito popoli diversi e terre distanti, sta diventando un freddo cimitero senza lapidi». Serena Sartini

Mario Giordano per “La Verità” il 20 maggio 2021. Ma davvero? Li ha denunciati? Don Albino Bizzotto: proprio lei? Ha denunciato sei sinti? L'avrebbero truffata? Per 370.000 euro? Addirittura? E come è possibile? I sinti non erano tutti buoni? Onesti? Lavoratori? Non erano un popolo da comprendere? Da conoscere? Da accogliere senza diffidenza? Non è stato proprio lei, padre Bizzotto, prete degli ultimi, costruttore di pace, a farci una testa così per decenni sulla nobiltà d'animo di chi vive nei campi nomadi? Non andava in tv a bollare ogni notizia sui «i sinti che rubano» o sui «sinti che truffano» come segno di discriminazione razzista? Non era lei uno di quelli che insorgeva contro ogni minima accusa nei confronti dei rom, spacciandola per un progrom nazista? E adesso che fa? Si mette ad accusare i sinti? Che truffano? Che rubano? Solo perché hanno derubato lei? È un po' come se Toro Seduto s'alzasse in piedi a denunciare gli Sioux: i pellerossa sono dei criminali. O come se Sandokan alla fine buttasse a mare i tigrotti di Mompracem: dei pirati non ti puoi fidare. Ecco: don Albino Bizzotto che denuncia i sinti come truffatori è un film che all'improvviso regala un finale a sorpresa. Il prete degli ultimi, il costruttore di pace, un'intera vita passata a difendere la cultura dei nomadi, si accorge a 81 anni che la cultura dei nomadi gli ha appena sottratto fraudolentemente 370.000 euro. Somma, per altro, non propriamente pauperistica. Colpisce, infatti, che tutto quel denaro fosse a disposizione del prete degli ultimi: da Beati i Costruttori di Pace a Beati gli Incassatori di Oboli, insomma. A patto, però, che gli incassatori non si fidino troppo dei loro beniamini dei campi rom. Altrimenti gli unici beati sono i truffatori. I quali truffatori, nella circostanza, si sono impossessati del denaro nei modi più diversi. «Ho un problema con l'avvocato», diceva un sinti. E don Albino sborsava. «Ho un'auto da comprare», diceva un altro sinti. E don Albino sborsava. «Ma poi me li restituisci, vero»?, chiedeva il prete. E loro lo rassicuravano: «Ma certo, si fidi di noi». Don Albino, ovviamente, si fidava. Del resto: perché non fidarsi dei sinti? Non si può mica essere razzisti. Si capisce. Alcuni fra i sinti, per altro, avevano una lista di precedenti lunga come la quaresima, molti anche per furti e truffe. Il don costruttore di pace lo sapeva, ma non essendo razzista, non lo diceva a nessuno. Nemmeno a se stesso. E così continuava a prestare loro soldi. A un certo punto, per la verità, un piccolo sospetto gli era venuto. Infatti a un sinti che chiedeva una quantità ingente di denaro per comprare medicine, in un sussulto di preoccupante diffidenza, don Albino aveva proposto: «Anziché darti i soldi, ti compro direttamente le medicine». Ma guarda caso, d'incanto, il bisogno farmacologico si era improvvisamente dissolto nel nulla. Il prete degli ultimi con un lampo di lucidità si dev'essere reso conto che quel denaro non serviva davvero per curarsi. Ma, per non diventare razzista, ha continuato a far finta di nulla. E a sborsare. Così, minaccia dopo minaccia, telefonata dopo telefonata (gliene hanno fatte ben 14.000, pare), gli hanno sottratto 370.000 euro. Tutti soldi di donazioni, oboli, lasciti, cinque per mille, otto per mille, denari cioè che generosi benefattori affidavano al sacerdote convinti di aiutare i costruttori di pace. Non i costruttori di truffe. E ci si potrebbe chiedere anche come sia possibile che somme così ingenti siano lasciate nella disponibilità di un prete ultraottantenne che le gestisce come se fossero i resti del bar dell' oratorio. Non a caso il vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, dopo essersi detto addolorato per la vicenda e dopo aver ringraziato la Guardia di finanza per l'intervento, ha sottolineato la «necessità di trasparenza nella gestione economica dei bilanci» e la necessità di «un maggior controllo amministrativo». Come a dire: caro don Albino, i sinti saranno dei truffatori. Ma tu sei stato ciula. E in effetti a ben pensarci questa volta riesce difficile prendersela con i sinti. I quali, non hanno fatto altro che comportarsi secondo i loro costumi. Il prete costruttore di pace non diceva sempre che li voleva aiutare? E loro si sono fatti aiutare. Hanno approfittato di tanta generosa disponibilità, che il sacerdote esibiva ad ogni occasione. Ricordate nell'ottobre 2019, quando un sinti di 32 anni mise incinta una dodicenne? Tutta l'Italia si indignò e lo chiamò pedofilo, ma don Albino lo difese: «È la loro cultura, va compresa». E vi ricordate quando nel 2014 il Comune di Padova cercò di ripulire le strade dai bivacchi di mendicanti e di borseggiatori, fra cui molti sinti? Don Albino insorse: «Non possiamo essere senza cuore». E allora, siccome la loro cultura va compresa e noi non possiamo essere senza cuore, non riusciamo proprio a capire come mai adesso lei, caro don Bizzotto, abbia denunciato quei sinti che le hanno sottratto 370.000 euro. Non avrà mica scoperto, alla bella età di 81 anni, che ci sono dei sinti che rubano? E che denunciarlo non è da razzisti? Possibile? E come la mettiamo con tutto quello che è andato in giro dicendo per anni? Quant'è dura accorgersi che erano balle piene di retorica? Quanto è doloroso? Più o meno che perdere tutti quei soldi dei benefattori?

Ora San Giuseppe diventa "protettore degli esuli": la svolta del Papa. Francesco Boezi l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. San Giuseppe è ufficialmente il patrono degli esuli. Papa Francesco non rinuncia alla centralità dei migranti per la sua pastorale e anzi rilancia. Non è una scelta nominalistica ma di sostanza: San Giuseppe, per la Chiesa cattolica, ora è anche "protettore degli esuli". L'interpretazione di papa Francesco ha lasciato il segno. Per il Santo Padre, Giuseppe è sempre stato "Patris Corde", con cuore di padre. Una figura cui ispirarsi, per apprendere la semplicità ma pure i doveri della cristianità. Misericordia è forse la parola che descrive meglio il ruolo che San Giuseppe ha svolto nella vicenda terrena del Cristo. L'esegesi di questo successore di Pietro guarda in direzione di quella virtù. Il vescovo di Roma ha sintetizzato la sua visione nel dicembre scorso, quando ha dichiarato che "San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di Maria", così come riporta la Sir. Esuli però fa rima con migranti. Se c'è un tratto distintivo di questo pontificato, quello è l'estensione del diritto all'accoglienza erga omnes. Conosciamo le critiche pervenute da destra. Gli esuli sono i senza patria per antonomasia. Coloro che per il primo vescovo di Roma gesuita andrebbero accolti senza se e senza ma. Anzi, esule è soprattutto chi è costretto alla lontananza dalla sua nazione d'origine. Chi cerca rifugio. Dalle "periferie economico-esistenziali", tanto care al regnante, oggi si scappa per la speranza (altra parola chiave della pastorale bergogliana) di un futuro migliore. Le litanie per San Giuseppe, "patrono degli esuli", divengono tanto simboliche quanto significative per la contemporaneità: "Nel centocinquantesimo anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, il Santo Padre Francesco ha reso nota la Lettera Apostolica Patris corde - ha fatto sapere Arthur Roche, segretario della Congregazione per il Culto Divino e della Disciplina dei sacramenti, stando pure a quanto ripercorso dall'Agi - , con l'intento di accrescere l'amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio". Si tratta dell'ennesima avvertenza dell'ex arcivescovo di Buenos Aires per il mondo che verrà. Imitare San Giuseppe è un atteggiamento che Francesco ha richiamato spesso in questi otto anni sul soglio di Pietro. San Giuseppe non è il protagonista della cristologia, ma è un modello raggiungibile. Questo, almeno, è quanto sembra pensare il pontefice argentino. Chi rivendica l'obbligatorietà di una patria, di un luogo d'origine, potrà non essere concorde. Quando il Papa ha accostato i migranti alla fuga dall'Egitto della Sacra Famiglia si è levato un coro di voci scandalizzate. La regalità familiare, il "prossimo" che non andrebbe cercato così lontano ed il concetto stesso di fuga che avrebbe poco a che fare con il migrare: critiche note, con radici nel tradizionalismo cosiddetto e nella dottrina. Ma il pensiero del Papa è noto, differisce dal conservatorismo alla occidentale maniera e guarda con favore all'universalità di un messaggio che possa abbracciare più popoli e più culture. La Chiesa cattolica procede per la sua strada: "In questa luce - ha aggiunto Roche - è parso opportuno aggiornare le Litanie in onore di San Giuseppe, approvate nel 1909 dalla Sede Apostolica, integrandovi sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi che hanno riflettuto su aspetti della figura del Patrono della Chiesa universale". Non è lessico ma materia che entra di diritto nella concezione di ogni ambiente ecclesiastico, che è chiamato ad adeguarsi. I migranti fanno parte del futuro tanto quanto gli esuli, e Francesco su questo aspetto non è disposto a tornare indietro. Ci sarà chi, come di consueto, userà storcere il naso. Diceva Joseph Ratzinger che la Chiesa non è una democrazia ed è un assunto buono pure per i tempi odierni.

·        Vaticano e Gay.

Irene Soave per corriere.it il 22 luglio 2021. Un vescovo americano, Jeffrey Burrill, finora segretario generale della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti e parte attiva della cordata di vescovi conservatori che voleva negare la comunione al presidente «abortista» Joe Biden, si è dimesso martedì: The Pillar, un sito di informazione e inchieste che segue la Chiesa Cattolica, ha rivelato che dal suo telefonino acquisivano dati popolari app di dating gay come Grindr, che per almeno tre anni, dal 2018 al 2020, il prelato ha usato quasi tutti i giorni. Inoltre la geolocalizzazione del suo telefono, acquisita dalle stesse app, lo rintracciava regolarmente in bar gay, saune per soli uomini e case private dove aveva appuntamenti, anche durante viaggi di lavoro per conto della Curia. Martedì l’annuncio dell’arcivescovo Jose Gomez. «Vi informo con rammarico che monsignor Jeffrey Burrill si è dimesso da segretario della Conferenza», ha scritto ai vescovi. «Lunedì siamo entrati al corrente che presto sui media sarebbe uscita notizia di possibili comportamenti impropri». Le condotte di Burrill, ha precisato subito l’arcivescovo, «non riguardavano minori». Ma la Conferenza ne ha accettato l’addio “per evitare distrazioni”. Lo scandalo può suscitare doppia antipatia se si pensa che proprio sotto la guida di Burrill, settimane fa, la Conferenza Episcopale americana aveva approvato una misura voluta da una cordata di vescovi conservatori, che getta le basi per poter negare la comunione al presidente Biden, a causa del suo sostegno alla libertà di abortire. Eppure suscita anche questioni etiche. Come è possibile che una testata d’inchiesta, The Pillar, sia entrata in possesso di dati così sensibili come l’iscrizione a un sito di dating e la geolocalizzazione per tre anni di un privato cittadino? L’inchiesta del sito The Pillar su Jeffrey Burrell mostra che è stato possibile, per un giornalista, accedere ai «big data» raccolti da Grindr; identificare quelli che riguardavano una sola persona, cioè il prelato, senza il suo consenso; e poi divulgarli. Questo può avvenire, negli Stati Uniti, perché la raccolta di dati è un mercato ancora in gran parte privo di regole: così ad esempio l’agenzia del fisco, l’Irs, usa da tempo i dati sui consumi e sullo stile di vita per stanare gli evasori; e alcune agenzie militari private geolocalizzano le persone di cui sono alla ricerca grazie a app di preghiera o persino di bricolage. «L’app Grindr, come molte app di dating, usa la geolocalizzazione perché consente di trovare partner vicini», spiegano i reporter del sito The Pillar, che è sotto accusa, sui social, per l’eticità di una simile indagine. «L’app, dal lato degli sviluppatori, non identifica i nomi degli utenti. Semplicemente dà a ciascuno un codice numerico unico che li identifica». Le app vendono questi dati in modo aggregato a inserzionisti e agenzie interessate: ma i dati «possono essere analizzati», e il singolo codice utente scorporato. The Pillar ha ottenuto il pacchetto di dati degli utenti di Grindr da un’agenzia che li commercia. E ha potuto isolare il caso di Burrill incrociando le multiple geolocalizzazioni dello stesso numero nella sede della Curia, e poi nella casa di campagna della sua famiglia: in questo modo, dare un volto al «numero anonimo» è stato facilissimo. 

Ddl Zan, dal Vaticano nuovo appello alla politica: legge "ingiusta" come l'aborto. Felice Manti il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Come si deve comportare un cattolico di fronte alla legge Zan? E qual è il dovere di un politico che si ispira ai valori della Chiesa? Due semplici domande per una risposta che non lascia dubbi. Come si deve comportare un cattolico di fronte alla legge Zan? E qual è il dovere di un politico che si ispira ai valori della Chiesa? Due semplici domande per una risposta che non lascia dubbi. «Vale ciò che Papa Francesco disse sul gender nell'Esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia («Il gender è un'ideologia che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna, prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia») e ciò che Giovanni Paolo II scrisse nell'enciclica Evangelium Vitae agli articoli 73 e 74», dice una nota della Congregazione della Dottrina della Fede che Il Giornale ha potuto consultare in esclusiva. Si tratta infatti della risposta che la Congregazione ha inviato a Pro Vita & Famiglia Onlus, storicamente contraria alla norma perché «impone una visione della sessualità soggettivista, fluida, non binaria, contraria all'etica naturale e all'antropologia biblica e cristiana». Il ddl Zan, fa intendere la lettera datata 1 ottobre, è da considerarsi «intrinsecamente ingiusto al pari di aborto e eutanasia», che per la Chiesa restano «crimini che nessuna legge può pretendere di legittimare». Chissà che cosa ne pensano i famigerati «cattolici adulti» del Pd e del centrodestra, che in più di una circostanza hanno manifestato aperture alla norma. Con quale faccia diranno che non c'è alcun contrasto tra le loro convinzioni religiose e una legge che rischia di restringere pericolosamente il campo della libertà di espressione? Già oggi chi ha osato dissentire rispetto al ddl Zan è oggetto di pesante aggressione e di odio. Sarà ancora lecito dire che un bambino ha diritto a una mamma e un papà o che l'utero in affitto è una pratica spregevole senza rischiare di finire davanti a un giudice? La lettera di Pro vita risale ai primi di luglio, quando la legge che in teoria punta a punire - giustamente - la violenza di matrice omofobica e transfobica e tutelare la comunità Lgbt e i «generi» esistenti dall'odio aveva disvelato il suo vero volto: separare il sesso dal genere (articolo 1) e sdoganare «l'identità di genere percepita» a uno spettro di «orientamento sessuale» a sua volta mutevole, per arrivare a una identità di genere fluida. Una percezione del sé che fa a pugni con la dottrina cattolica del «maschio e femmina li creò» ma anche con il buonsenso. È infatti in questa confusione che è facile cadere vittima di affermazioni che suonino come «omofobe» senza volerlo essere. Già la Cei si era espressa criticamente per ben due volte. Poi era arrivata la forte presa di posizione della Segreteria di Stato della Santa Sede, in una «nota verbale» indirizzata all'Ambasciata d'Italia, rilevando che la normativa avrebbe inciso negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario. Ora l'autorità dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede conferma l'incompatibilità assoluta tra la Fede cattolica e il ddl Zan. Una grave criticità per i cattolici sta nell'idea di portare la fluidità di genere nelle scuole. «Iniziative come la Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia si moltiplicheranno - avverte Pro Vita & Famiglia Onlus - perché le organizzazioni Lgbtq+, forti della copertura legale del ddl Zan», sanno già che «la resistenza da parte di genitori o professori sarà bollata come transfobica e potenzialmente discriminatoria». Ma è giusto parlare di sessualità in una scuola materna? «Ci sembra che, rispetto a questa impostazione ideologica, la dottrina cattolica si ispiri a principi del tutto opposti, e dunque - conclude Pro Vita & Famiglia Onlus - le norme avrebbero l'effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica». E qui si torna al monito contenuto nell'Enciclica di San Giovanni Paolo II: «I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche in contrasto con la Legge di Dio». Il senso e il fine della libertà per i cattolici, infatti, «risiede nell'orientamento al vero e al bene». Punto. Per la Dottrina della Fede il ddl Zan è una di queste «legislazioni globalmente ingiuste», il cui assenso non può mai essere giustificato «né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede». Ora i sedicenti «cattolici adulti» dei due schieramenti non facciano i bambini, fingendo di non capire. Il tempo degli infantilismi e dei facili alibi è finito. Felice Manti 

"Su questi temi la Chiesa non è sola". Matteo Sacchi il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. La storica: "La realtà è che esistono due sessi. E nessuno può negarlo". Lucetta Scaraffia ha insegnato Storia contemporanea all'università La Sapienza di Roma ed è membro del Comitato nazionale di bioetica dal 2007. Nel corso di una lunga carriera, che vanta collaborazioni anche con molte testate giornalistiche, tra cui Le Monde, si è occupata di storia della chiesa e di storia della religiosità. Date monografie come La fine della madre, Storia della liberazione sessuale o Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia è naturale chiedere la sua opinione sul dibattito chiaramente riaperto dal Ddl Zan sui rapporti tra Stato e Chiesa cattolica.

Partiamo dal Ddl Zan. Ci sono stati degli interventi della Chiesa cattolica che possiamo definire delle ingerenze?

«Onestamente a me sembra di no. La Chiesa Cattolica ha solo ribadito la sua dottrina, che per altro era nota, non mi sembra abbia minacciato alcunché. Né di levare l'investitura di cattolico a deputati o senatori, né di togliere i sacramenti o chessò io a chi vota il Ddl Zan. Nessuno ha parlato di scomuniche, ha semplicemente espresso il suo parere. Cosa che ha diritto di fare come hanno diritto di fare tutti. Come del resto hanno fatto molte persone o istituzioni che non sono d'accordo con il Ddl Zan pur non essendo cattolici».

Quali sono i documenti prodotti dalla Chiesa che hanno un valore specifico in questo dibattito?

«Tutti i testi che fanno riferimento all'esistenza di due sessi e per la Chiesa questa è una realtà che non può essere negata. Ma in questo la Chiesa non è sola, ci sono persone, e non solo di destra che sostengono le stesse posizioni. Vorrei ricordare che, in Francia, Sylviane Agacinski, la moglie di Jospin con una solida storia a sinistra, ha scritto un libro in cui dice chiaramente che l'umanità è divisa in uomini e donne. Poi capire come trattare le persone a cavallo tra i due sessi è questione legislativa per lo Stato, morale per la Chiesa. Ma senza mettere in discussione il fatto».

Quali sono i casi in cui, durante la storia italiana l'intervento della Chiesa su temi etici si è fatto sentire di più?

«Sicuramente per il divorzio e per l'aborto, che sono state due battaglie perdute per la Chiesa. Tra l'altro sono state perdute anche perché le donne volevano sia il divorzio che l'aborto. Ma sia il referendum per il divorzio che quello per l'aborto presentavano una struttura molto diversa rispetto al Ddl Zan. Il problema era punire o impedire la libertà. Un conto è dire che l'aborto è un peccato, io sono cattolica e lo penso, però mandare in prigione le donne che hanno abortito è una cosa crudele e inutile... Questo di nuovo non vuol dire che la Chiesa non può dire che l'aborto è un peccato».

Retrospettivamente la chiesa ha mai fatto pressioni dirette o si trattava di moral suasion?

«Di pressioni dirette nessun politico ha mai raccontato. Di certo il rischio di perdere elettori c'era, era quello a far paura. I cattolici sono stati, ed in piccola parte lo sono ancora, un bacino elettorale ambito. Persino il Pci stava attento a non scontentarli. Oggi sono meno forti. Ma questa resta un'influenza legittima».

Quindi per trovare un'ingerenza vera davvero dobbiamo tornare al Non Expedit?

«Sì però è durato poco e molti cattolici in quel caso hanno disobbedito. Era una battaglia inutile contro il nuovo Stato italiano, solo una questione di potere. Ma non ha davvero nessun legame con la politica di oggi. Il Papa fa molte ma molte più pressioni, sui migranti, per motivi giusti e comprensibili, che sul Ddl Zan. In quel caso si è rivolto direttamente allo Stato. Ma non si scandalizza nessuno. E non si spaventa nessuno».

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arc

Non era mai successo prima. Vaticano contro il ddl Zan, una "nota verbale" per fermare la legge: “Viola il Concordato”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Il Vaticano interviene ‘a gamba tesa’ nel già complicato dibattito italiano sul ddl Zan, disegno di legge contro l’omotransfobia che prende il nome dal deputato Dem Alessandro Zan, attualmente fermo in commissione Giustizia del Senato. Monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, ha chiesto formalmente al governo italiano di modificare il ddl Zan poiché “viola il Concordato”. Una mossa che stupisce, quella del Vaticano: è la prima volta infatti che la Chiesa interviene durante l’iter di approvazione di una legge, esercitando le facoltà previste nei Patti Lateranensi. Come riporta il Corriere della Sera Gallagher, di fatto il ‘ministro degli Esteri’ di Papa Francesco, si è presentato lo scorso 17 giugno presso l’ambasciata italiana in Vaticano consegnando una “nota verbale”, ovvero una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata, nelle mani del primo consigliere. Nel testo si legge che “alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato”. Cosa vuol dire? Il riferimento è quei commi del Concordato tra Santa Sede e Vaticano dl 1984 che assicurano alla Chiesa la “libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale”, come recita il comma 1, e che garantiscono “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” col comma 2. L’accusa che arriva dal Vaticano è, pur con un linguaggio ‘sobrio’, di quelle pesanti: secondo la nota verbale il ddl Zan attenterebbe alla “libertà di pensiero” della comunità cattolica, oltre alla “libertà di organizzazione”. Per quest’ultimo caso l’esempio sarebbe l’articolo 7 del ddl Zan, che non esclude le scuole private dall’organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia. La mossa del Vaticano, pur straordinaria perché mai prima d’ora la Chiesa era intervenuta nell’iter di approvazione di una legge italiana, in parte non sorprende. La Cei, Conferenza episcopale italiana, già due volte è intervenuta ufficialmente per bocciare il disegno di legge, mosse però “politiche” e mai arrivate con l’uso ufficiale della diplomazia. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giovanni Viafora per corriere.it il 22 giugno 2021. Il Vaticano ha attivato i propri canali diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il «ddl Zan», ovvero il disegno di legge contro l’omotransfobia. Secondo la Segreteria di Stato, la proposta ora all’esame della Commissione Giustizia del Senato (dopo una prima approvazione del testo alla Camera, lo scorso 4 novembre), violerebbe in «alcuni contenuti l’accordo di revisione del Concordato». Si tratta di un atto senza precedenti nella storia del rapporto tra i due Stati — o almeno, senza precedenti pubblici —, destinato a sollevare polemiche e interrogativi. Mai, infatti, la Chiesa era intervenuta nell’iter di approvazione di una legge italiana, esercitando le facoltà previste dai Patti Lateranensi (e dalle loro successive modificazioni, come in questo caso).

La «nota verbale». A muoversi è stato monsignor Paul Richard Gallagher, inglese, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. In sostanza, il ministro degli Esteri di papa Francesco. Lo scorso 17 giugno l’alto prelato si è presentato all’ambasciata italiana presso la Santa Sede e ha consegnato nelle mani del primo consigliere una cosiddetta «nota verbale», che, nel lessico della diplomazia, è una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata. Nel documento — pur redatto in modo «sobrio» e «in punta di diritto» — le preoccupazioni della Santa Sede: «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato — recita il testo — riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato».

I commi. Questi commi sono proprio quelli che, nella modificazione dell’accordo tra Italia e Santa Sede del 1984, da un lato assicurano alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale» (è il comma 1); e, dall’altro garantiscono «ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (il comma 2). E sono i veri nodi della questione.

«Libertà a rischio». Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la sopracitata «libertà di organizzazione» — sotto accusa ci sarebbe, per esempio, l’articolo 7 del disegno di legge, che non esenterebbe le scuole private dall’organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia —; ma addirittura attenterebbero, in senso più generale, alla «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Nella nota si manifesta proprio una preoccupazione delle condotte discriminatorie, con il timore che l’approvazione della legge possa arrivare persino a comportare rischi di natura giudiziaria. «Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni», è infatti la conclusione del documento consegnato al governo italiano.

Cosa succede. Il giorno stesso, a quanto risulta al Corriere, la nota sarebbe stata consegnata dai consiglieri dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede al Gabinetto del ministero degli Esteri di Luigi Di Maio e all’Ufficio relazioni con il Parlamento della Farnesina. E ora si attende che venga portata all’attenzione del premier Mario Draghi e del Parlamento. Ma cosa potrebbe succedere adesso? In teoria, stando al Concordato, potremmo essere davanti anche all’ipotesi in cui, di fronte ad un problema di corretta applicazione del Patto, si arrivi all’attivazione della cosiddetta «commissione paritetica» (prevista dall’articolo 14). Ma è presto per trarre conclusioni. L’unica cosa certa è che siamo oltre ad una semplice moral suasion.

Il salto di qualità. Il punto, come detto, riguarda proprio il «livello» su cui la Santa Sede ha deciso, questa volta, di giocare la partita. Le critiche della Chiesa al «ddl Zan» non sono certo nuove. Sul tema la Cei è già intervenuta ufficialmente due volte: la prima nel giugno del 2020 («Esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio», dissero all’epoca i vescovi); e la seconda non più tardi di un mese e mezzo fa («Una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza», era stata la nota del presidente Gualtiero Bassetti). Per non parlare delle singole prese di posizione («È un attacco teologico ai pilastri della dottrina cattolica», ha affermato di recente, per esempio, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta»). Ma si è sempre trattato di pur legittime prese di posizione «esterne», «politiche». Come le tante, dirette e indirette, cioè mediate dai partiti di riferimento, registrate negli anni (nel 2005 il cardinal Ruini arrivò a schierarsi pubblicamente a favore dell’astensionismo nel voto referendario sulla fecondazione assistita). Ma mai si era attivata la diplomazia. Mai lo Stato Vaticano era andato a bussare alla porta dello Stato Italiano chiedendo conto, direttamente, di una legge.

Omofobia: Letta, sosteniamo ddl, pronti a dialogo su nodi. (ANSA il 22 giugno 2021) "Noi sosteniamo la legge Zan e, naturalmente, siamo disponibili al dialogo. Siamo pronti a guardare i nodi giuridici ma sosteniamo l'impianto della legge che è una legge di civiltà". Lo ha detto il segretario del Pd Enrico Letta a "Radio anch'io" su Radio Rai 1 a proposito della notizia riportata dal Corriere della Sera di una iniziativa della Santa Sede contro il disegno di legge Zan contro l'omotransfobia in quanto violerebbe il Concordato.

Giovanni Viafora per il "Corriere della Sera" il 22 giugno 2021. Il Vaticano ha attivato i propri canali diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il «ddl Zan», ovvero il disegno di legge contro l'omotransfobia. Secondo la Segreteria di Stato, la proposta ora all' esame della Commissione Giustizia del Senato (dopo una prima approvazione del testo alla Camera, lo scorso 4 novembre), violerebbe in «alcuni contenuti l'accordo di revisione del Concordato». Si tratta di un atto senza precedenti nella storia del rapporto tra i due Stati - o almeno, senza precedenti pubblici -, destinato a sollevare polemiche e interrogativi. Mai, infatti, la Chiesa era intervenuta nell' iter di approvazione di una legge italiana, esercitando le facoltà previste dai Patti Lateranensi (e dalle loro successive modificazioni, come in questo caso). A muoversi è stato monsignor Paul Richard Gallagher, inglese, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. In sostanza, il ministro degli Esteri di papa Francesco. Lo scorso 17 giugno l'alto prelato si è presentato all' ambasciata italiana presso la Santa Sede e ha consegnato nelle mani del primo consigliere una cosiddetta «nota verbale», che, nel lessico della diplomazia, è una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata. Nel documento - pur redatto in modo «sobrio» e «in punta di diritto» - le preoccupazioni della Santa Sede: «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato - recita il testo - riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall' articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato». Un passaggio delicatissimo. Questi commi sono proprio quelli che, nella modificazione dell'accordo tra Italia e Santa Sede del 1984, da un lato assicurano alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale» (è il comma 1); e, dall' altro garantiscono «ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (il comma 2). E sono i veri nodi della questione. Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la sopracitata «libertà di organizzazione» - sotto accusa ci sarebbe, per esempio, l'articolo 7 del disegno di legge, che non esenterebbe le scuole private dall' organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia e la transfobia -; ma addirittura attenterebbero, in senso più generale, alla «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Nella nota si manifesta proprio una preoccupazione delle condotte discriminatorie, con il timore che l'approvazione della legge possa arrivare persino a comportare rischi di natura giudiziaria. «Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni», è infatti la conclusione del documento consegnato al governo italiano. Il giorno stesso, a quanto risulta al Corriere, la nota sarebbe stata consegnata dai consiglieri dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede al Gabinetto del ministero degli Esteri di Luigi Di Maio e all' Ufficio relazioni con il Parlamento della Farnesina. E ora si attende che venga portata all' attenzione del premier Mario Draghi e del Parlamento. Ma cosa potrebbe succedere adesso? In teoria, stando al Concordato, potremmo essere davanti anche all' ipotesi in cui, di fronte ad un problema di corretta applicazione del Patto, si arrivi all' attivazione della cosiddetta «commissione paritetica» (prevista dall' articolo 14). Ma è presto per trarre conclusioni. L' unica cosa certa è che siamo oltre ad una semplice moral suasion. Il punto, come detto, riguarda proprio il «livello» su cui la Santa Sede ha deciso, questa volta, di giocare la partita. Le critiche della Chiesa al «ddl Zan» non sono certo nuove. Sul tema la Cei è già intervenuta ufficialmente due volte: la prima nel giugno del 2020 («Esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio», dissero all' epoca i vescovi); e la seconda non più tardi di un mese e mezzo fa («Una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l'obiettivo con l'intolleranza», era stata la nota del presidente Gualtiero Bassetti). Per non parlare delle singole prese di posizione («È un attacco teologico ai pilastri della dottrina cattolica», ha affermato di recente, per esempio, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta). Ma si è sempre trattato di pur legittime prese di posizione «esterne», «politiche». Come le tante, dirette e indirette, cioè mediate dai partiti di riferimento, registrate negli anni (nel 2005 il cardinal Ruini arrivò a schierarsi pubblicamente a favore dell'astensionismo nel voto referendario sulla fecondazione assistita). Ma mai si era attivata la diplomazia. Mai lo Stato Vaticano era andato a bussare alla porta dello Stato Italiano chiedendo conto, direttamente, di una legge.

Il colpo "segreto" che ha paralizzato i Dem. Francesco Boezi l'11 Luglio 2021 su Il Giornale. Una singola nota verbale del Vaticano ha mandato in confusione democratici e laicisti non solo sul Ddl Zan, ma su tutta la narrazione ultra-progressista. Un colpo ben assestato. Una mossa capace di animare il dibattito, rendendo in salita l'approvazione del Ddl Zan: se l'intenzione del Vaticano era quella di complicare l'iter del disegno di legge più discusso del momento, quel proposito ha avuto un seguito di tutto rispetto. Dalla nota diplomatica in poi, la politica ha avuto un bel da fare. Con una postilla: la Santa Sede ha dichiarato di non essere contraria alla legge. Il Vaticano ha, al massimo, domandato modifiche per tutelare la libertà d'espressione prevista anche nell'ambito del Concordato, che è un trattato internazionale che l'Italia ha il dovere di rispettare. Lo ha ribadito anche il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente Cei, in un'intervista rilasciata a Repubblica: è stata chiesta una rivisitazione, non uno stralcio. E poi quella nota, stando alle intenzioni delle mura leonine, tutto doveva essere tranne che pubblica. Il Partito Democratico è rimasto comunque spiazzato. Il segretario Enrico Letta ha reagito, erigendo una barriera contro cui il Ddl Zan potrebbe schiantarsi. Al Nazareno sono in difficoltà palese. Che i Sacri Palazzi siano maestri di tattica non è mistero. Che certa politica non spicchi per capacità strategica anche. Il clamore che ha accompagna questa fase è indicativo: lo scombussolamento riguarda le stesse certezze su quel provvedimento. Quelle che i Dem non hanno più. Se il Partito Democratico avesse deciso di mediare, oggi racconteremmo un'altra storia. Ma tant'è. Martedì è la giornata clou: quella in cui dovrebbe chiarirsi il destino di una legge che è divenuta il simbolo dello scontro ideologico contemporaneo. Una discussione politica più elastica avrebbe fatto del Ddl Zan un argomento magari perfettibile, ma comunque realizzabile. Il Pd ha deciso che questa possibilità non c'è. Così, la bioetica e i suoi dintorni sono stati elevati a terreno di scontro. Come accade nel quadro polarizzato degli States, dove quasi non si parla d'altro, con tutto quello che ne consegue sul clima. In questa storia, c'è almeno un fraintendimento: Papa Francesco è sempre stato cristallino in materia. Chi pensava che il pontefice fosse un sostenitore della cosiddetta "teoria gender" legge poco o sbaglia i calcoli. Inoltre, la segretezza di quel documento avrebbe dovuto garantire un volo a bassa quota. Qualcuno (c'è chi parla di "manina") ha optato per la pubblicazione: il resto è cronaca. Il Vaticano non voleva irrompere sulla scena - come pensano gli anticlericali - , bensì sollevare alcune questioni, con strumenti appropriati e in punta di penna. Tanto è bastato a mandare in confusione i teorici del "Papa progressista". Gli stessi che sono stati smentiti dai fatti. E che ora non vogliono sentire ragione. I laicisti - dicevamo - hanno replicato con un coro condito dalle consuete punte di anticlericalismo. Il Vaticano ha posto questioni giuridiche e di compatibilità tra un'eventuale legge dello Stato ed il Concordato. Fedez si è domandato "chi ha concordato il Concordato". Sono due metodi diversi: uno, legittimo, che ha alzato il livello dialettico; l'altro, sempre legittimo, ma semplicistico, che fa del furore ideologico il suo substrato. La Santa Sede non sembra temere l'approvazione di una legge che contrasti e sanzioni l'omotransfobia, anzi. Semmai a preoccupare gli ambienti ecclesiastici è proprio il terriccio culturale entro cui si muovono i promotori del Ddl Zan, con le possibili evoluzioni illiberali a fare da sfondo. Una singola nota diplomatica ha mandato in tilt un intero universo ideologico. Diventa legittimo chiedersi, come qualcuno si aspettava, cosa sarebbe accaduto se Papa Francesco avesse manifestato aperto disappunto, affacciandosi su piazza San Pietro.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

La nota, gli incontri e il Papa: ecco cosa è successo in Vaticano. Francesco Boezi il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Il Vaticano reagisce al Ddl Zan. Con l'atto formale emerso ieri, la Santa Sede rivendica libertà. Ecco cosa si muove in queste ore tra le mura leonine. Molti si stupiscono perché non se lo sarebbero mai aspettato. Ma l'atto formale con cui il Vaticano è intervenuto sul Ddl Zan, oltre a essere legittimo, è in linea con quanto scritto e detto in materia bioetica (e non solo su quella) durante questo pontificato. La nota verbale di cui si parla in queste ore è un atto formale. Se la Conferenza episcopale italiana avesse espresso un parere non sarebbe stato lo stesso, e non avrebbe fatto il medesimo rumore. Ecco perché, con buone probabilità, la protagonista di questa vicenda è la Segreteria di Stato. Non solo: visto che l'oggetto della discussione è divenuto il Concordato, è normale che a intervenire sia il dicastero presieduto dal cardinale Pietro Parolin. Diviene un discorso di competenze, cosa che Oltretevere è ancora molto sentita.

La scelta dei tempi. Le tempistiche sono un fattore da non sottovalutare in questa storia. Sarebbe stata una "interferenza", come vanno denunciando adesso certi ambienti progressisti, se l'iter parlamentare fosse appena iniziato. Ma il Ddl Zan è già in discussione, e ad oggi più di qualche esponente politico di spessore ha già rimarcato la necessità di approvarlo così com'è. Poi c'è chi come il segretario del Pd Enrico Letta sembra aver cambiato idea in maniera repentina. Il timing dei sacri palazzi, insomma, sembra tenere conto pure della politica e dei suoi tempi. Perché siamo in una fase avanzata.

Quegli incontri nei Sacri Palazzi. Fonti qualificate hanno riferito a ilGiornale.it di incontri che sarebbero avvenuti nei giorni scorsi, in particolare di meeting tra la segreteria di Stato ed esponenti del mondo conservatore. Insomma, qualcuno dotato di un certo peso politico avrebbe insistito con il "ministero degli Esteri" della Santa Sede con motivazioni tagliate sulle criticità del Ddl in oggetto. Altre fonti sostengono che la segreteria di Stato avesse già deciso di agire attraverso una mossa ufficiale, che si sarebbe declinata nelle asserzioni che vengono accostate a monsignor Paul Richard Gallagher. Se ne dicono tante. Certo è un evento raro. E questo forse perché quasi mai una norma aveva messo in discussione il Concordato nella sua stessa impostazione. Almeno stando ai contenuti della nota che sono rimbalzati ieri di quotidiano in quotidiano. L'alto ecclesiastico originario di Liverpool, del resto, avrebbe posto proprio la questione del rispetto del Concordato, che è un architrave della storia diplomatica italiana e vaticana: "Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall'articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato". Tra le frasi che abbiamo avuto modo di leggere, quella sulla libertà garantita alla Chiesa cattolica; è di sicuro tra le più rilevanti. Roma ne fa pure una battaglia di libertà, quindi.

I protagonisti della vicenda e il ruolo del Papa. I protagonisti di questa vicenda sono almeno tre. Il primo è il cardinale Pietro Parolin, teorico e pratico del multilateralismo diplomatico e figura chiave di questo pontificato. Il secondo è monsignor Paul Richard Gallagher, che sarebbe l'autore della nota e dunque il consacrato preposto, pure per via del suo status di segretario per i Rapporti con gli Stati, ad occuparsi in prima persona della faccenda. Infine, Papa Francesco, che molti associano al progressismo ideologizzato (quindi indirettamente ad un presunto riguardo verso qualunque provvedimento provenga da parte progressista), ma che non può non aver letto i contenuti della nota verbale. Questa storia secondo cui il pontefice argentino non verrebbe messo al corrente di alcune prese di posizione ufficiali provenienti dalle mura leonine (o che non le condividerebbe) è ormai un leitmotiv. In termini di procedure tipiche nelle stanze vaticane, però, è sostanzialmente impossibile che un atto del genere venga inoltrato senza la previa visione ed approvazione del pontefice. Vale pure per le benedizioni alle coppie omosessuali che certi ambienti tedeschi vorrebbero approvare. Jorge Mario Bergoglio, sin da quando si è seduto sul soglio di Pietro, ha identificato la cosiddetta "teoria gender" - quella che per i conservatori sarebbe alla base del Ddl Zan - con qualcosa che andrebbe "contro il progetto di Dio". Ipotizzare che Francesco la pensi in un modo e la segreteria di Stato in un altro, dunque, risulta un po' forzato, per usare un eufemismo. Possibile che la Curia viva una fase di scontro interno? Pensare che all'interno del Vaticano esistano sia ecclesiastici favorevoli al Dll Zan sia elementi contrari è del tutto naturale. La Chiesa cattolica, durante questi ultimi decenni, è stata animata da un pluralismo che coinvolgerà in via indiretta anche certi scossoni legislativi che la politica avrebbe intenzione di dare. Questo però non può significare che la segreteria di Stato agisca senza badare al pensiero e alla pastorale del sovrano pontefice.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, via...

Paul Richard Gallagher, il diplomatico vaticano dietro la missiva contro il ddl Zan. Roberto Vivaldelli il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. L'arcivescovo di Liverpool, nominato da Papa Francesco Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, è il firmatario della nota contro il Ddl Zan che sta facendo discutere la politica italiana. Paul Richard Gallagher, 67 anni, è il responsabile della diplomazia del Vaticano, Segretario per i rapporti con gli Stati nominato da Papa Francesco nel 2014. Com'è emerso nelle ultime ore grazie a uno scoop del Corriere della Sera, con un atto senza precedenti nella storia dei rapporti tra Vaticano e lo stato italiano, l'arcivescono Gallagher ha firmato la nota consegnata il 17 giugno scorso nella quale chiede formalmente al governo italiano di modificare il "ddl Zan", ovvero il disegno di legge contro l’omotransfobia. Secondo la Santa Sede, infatti, "alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato". Posizione che ha scatenato il dibattito politico italiano e le prese di posizione dei vari partiti che compongono la maggioranza. Ma chi è Paul Richard Gallagher? Nato a Liverpool il 23 gennaio 1954, frequenta in gioventù il collegio "San Francesco Saverio" di Woolton.

Dal 2014 Gallagher è responsabile della diplomazia vaticana. Dopo il servizio prestato presso l'arcidiocesi di Liverpool, Gallagher si iscrive alla Pontificia accademia ecclesiastica a Roma, la scuola che forma i diplomatici della Santa Sede. Dal 1º maggio 1984 diventa ufficialmente membro della diplomazia della Santa Sede e ricopre incarichi diplomatici per conto del Vaticano in Tanzania, Uruguay e Filippine. Nel 2000 il grande salto di qualità nella sua carriera, quando viene nominato da Papa Giovanni Paolo II inviato speciale con funzioni di Osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa. Dopo un'esperienza in Australia come nunzio apostolico nel 2012, nel 2014 diventa Segretario per i rapporti con gli Stati per volontà dell'attuale Pontefice. Come sottolinea il Corriere della Sera, l'arcivescono inglese è "cordiale, simpatico in privato ma blindato in pubblico, pragmatico, molto inglese". Sulla politica estera della Santa Sede ha però le idee chiarissime. Come ricorda proprio il Corriere della Sera, nel recente passato Gallagher si è schierato contro il ritorno del nazionalismo nel mondo: "I nazionalismi scatenati hanno la tendenza ad escludere e il Papa ci invita a fare attenzione ai pericoli insiti nei sovranismi". La Chiesa, sottolineò, "non ha visioni nazionalistiche, apprezza molto l’amor di patria ma questo deve essere condito da un senso di apertura verso gli altri". In Vaticano, è uno dei principali promotori dell'apertura diplomatica alla Cina. Nel febbraio 2020 incontrò, nella cornice importante a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco 2020, Munich Security Conferente 2020, Wang Yi, ministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese. "Nel corso del colloquio" riportava il comunicato della Sala Stampa della Santa Sede "sono stati evocati i contatti fra le due Parti, sviluppatisi positivamente nel tempo". In particolare, si è evidenziata l’importanza dell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi, firmato il 22 settembre 2018, rinnovando la volontà di proseguire il dialogo istituzionale a livello bilaterale per favorire la vita della Chiesa cattolica e il bene del Popolo cinese". Una svolta diplomatica fondamentale, della quale l'arcivescovo inglese è stato assoluto protagonista. Ora la nota dell'arcivescovo resa nota dal Corriere della Sera sta facendo discutere la politica italiana, tutta. E non c'è alcun dubbio che - piaccia o meno - le parole del responsabile della diplomazia vaticana peseranno come un macigno nella discussione del Ddl Zan, come dimostra peraltro l'apertura al dialogo da parte del segretario del Pd, Enrico Letta.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al...

L'arcivescovo e la polemica sul disegno di legge. Chi è Paul Richard Gallagher, il Segretario di Stato del Vaticano della nota contro il ddl Zan. Vito Califano su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Paul Richard Gallagher è arcivescovo e segretario per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. Sarebbe stato lui a muoversi, secondo lo scoop de Il Corriere della Sera, con un documento consegnato all’ambasciata italiana in Vaticano e quindi al ministro degli Esteri, per sollevare le preoccupazioni della Santa Sede in merito al disegno di legge Zan, in esame al Senato, contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo. Il compito ricoperto da Gallagher è quello di una sorta di ministro degli Esteri della Santa Sede. Parla correntemente l’italiano, il francese e lo spagnolo, oltre che all’inglese naturalmente. Gallagher infatti è nato a Liverpool nel 1954. È cresciuto al collegio San Francesco Saverio di Woolton. È stato ordinato sacerdote nel 1977 e ha conseguito il dottorato in medicina presso la Pontificia accademia ecclesiastica a Roma. È membro diplomatico della Santa Sede dal 1984, presso la quale ha cominciato la sua attività in Tanzania, Uruguay e nelle Filippine. È stato membro della diplomazia della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, nominato da Papa Giovanni Paolo II; quindi nunzio apostolico in Burundi, in Guatemala, in Australia. È stato nominato arcivescovo titolare di Holdelm nel 2004. Dal 2014 è Segretario per i Rapporti con gli Stati, nominato da Papa Francesco. Gallagher si sarebbe presentato lo scorso 17 giugno all’ambasciata italiana presso la Santa Sede e al Primo Consigliere avrebbe consigliato una cosiddetta nota “non verbale”. Lo scoop de Il Corriere della Sera, se confermato, configurerà un gesto emblematico, senza precedenti: la prima volta che viene impugnato la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa del 1984. O almeno pubblicamente impugnato. Per la Santa Sede il ddl potrebbe mettere in discussione l’articolo 2 dell’accordo, e in particolare il comma 1 che assicura alla Chiesa “libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale”; e il comma 2 che garantisce “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Altro punto di discordia: l’articolo 7 del disegno di legge che prevede l’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia che metterebbe in difficoltà le scuole cattoliche e che gli oppositori del ddl hanno strumentalizzato facendola passare come un’occasione di propaganda per la Comunità Lgbtq+. Contro il disegno di legge si era esposta anche la Cei, la Conferenza Episcopale dei Vescovi Italiani, senza arrivare al livello del dibattito configurato dalla “nota non verbale” qualora fosse confermata. Immediata la reazione dei promotori e sostenitori del ddl: la libertà di espressione non viene messa in discussione dal disegno, hanno spiegato, a differenza di chi si rende protagonista di episodi che possano incitare alle molestie e alla violenza. Il ddl mantiene insomma separate la propaganda dall’istigazione, punendo la seconda a differenza della prima.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il ddl Zan mette a nudo la definitiva debolezza della Chiesa. Carlo Tecce su L'Espresso il 22 giugno 2021. Il Vaticano che impugna il concordato contro il disegno di legge è un atto contro la storia che umilia la Conferenza episcopale e i presunti cattolici in politica. Come è successo in passato, anche stavolta perderà. Il Vaticano che impugna il concordato con lo Stato per chiedere all’Italia di modificare il disegno di legge contro le discriminazioni di genere, più noto come ddl Zan, compie un atto di inedita e ormai definitiva debolezza. Com’è accaduto nell’ultimo mezzo secolo, appena la Repubblica è diventata matura e la società ha cominciato a rimuovere la cappa di oppressione civile con i referendum su divorzio e aborto, anche stavolta la Chiesa è destinata a perdere. Non con l’Italia: con la storia. Il documento ufficiale che il monsignor Paul Richard Gallagher, il ministro degli Esteri di papa Francesco, ha consegnato all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede per protestare formalmente, come ha ricostruito nei dettagli il Corriere della Sera, è un doppio messaggio che si rivolge all’interno più che all’esterno della Chiesa: sancisce il fallimento politico della Conferenza episcopale italiana, sin dal principio del pontificato di Jorge Mario Bergoglio delegata a esercitare la sua influenza (o ingerenza) sui governi e sui partiti; risolve l’equivoco di un Papa troppo progressista (o secolarizzato) che rischia di provocare uno scisma. Francesco si pone come il capo di una organizzazione religiosa che si apre al dialogo col mondo, il mondo nuovo, ma non deroga ai suoi princìpi, ai suoi dogmi, ai suoi scritti. Già sette anni fa, mentre ancora si scopriva il pontefice argentino che scelse il nome di Francesco e una croce di ferro, era palese l’approccio diverso rispetto a Benedetto XVI o Giovanni Paolo II, lo spirito conciliare, il ricordo di Paolo VI. Però Bergoglio non è il liquidatore di ciò che rappresenta il cattolicesimo: “Il pensiero dominante – disse – propone una falsa compassione. Quello che si ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un gesto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientifica produrre un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono. Aborto, eutanasia e fecondazione: sono risultati di una falsa compassione, come anche lo è usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre”. Bergoglio intervenne dopo la sentenza della Consulta che autorizzava la fecondazione eterologa. Da allora si stima siano nati circa 10.000 bambini.

Quando l’Italia reclamò maggiori diritti, per esempio con il divorzio, la Chiesa schierò la Democrazia cristiana e il segretario Amintore Fanfani che, nel comizio conclusivo della campagna elettorale, si spese con il celebre anatema: “Vostra moglie andrà con la serva”. Dopo il concordato col governo di Bettino Craxi e il lento crollo della prima Repubblica e di uno schema consolidato, ci fu il lungo regno del cardinale Camillo Ruini alla Cei che professò il trasversalismo: non c’erano più un partit0 di riferimento, ma dei politici di riferimento, sparsi ovunque e capaci di muoversi quando serve. Fu così che il Pdl trasformò il caso di Eluana Englaro e l’eutanasia in una profonda e violenta bandiera del centrodestra che ebbe il suo apice quando l’onorevole Gaetano Quagliariello, fra i banchi di Montecitorio, gridò all’omicidio. Il 14 dicembre del 2017, l’Italia si è data una legge, non esaustiva, ma una legge: il testamento biologico, approvato in Senato dal centrosinistra e dagli odierni alleati dei Cinque Stelle. La Chiesa ha scarsa aderenza nei partiti se si va oltre le dichiarazioni alle agenzie di stampa. La Conferenza episcopale italiana ha tentato anche di promuovere un movimento politico cattolico nel mentre condannava Matteo Salvini baciatore di santini e corone. Divisa dalle correnti e lontana dalla realtà, monsignor Gallagher certifica la confusione di una Chiesa che non insegue fedeli, ma fantasmi. 

Il Vaticano contro il ddl Zan. Letta apre al dialogo, ma il Pd blinda la legge. Dem sulle barricate per difendere la norma voluta dal deputato Alessandro Zan contro l'omotransfobia. Quello del Vaticano, che fa ricorso a facoltà previste dai Patti Lateranensi, è di un atto senza precedenti. Simona Musco su Il Dubbio il 22 giugno 2021. Il Vaticano interviene a gamba tesa nel dibattito politico italiano, chiedendo di «rimodulare» il ddl Zan «in modo che la Chiesa possa continuare a svolgere la sua azione pastorale, educativa e sociale liberamente». Un intervento invocato attraverso una nota verbale informale, consegnata da monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato Vaticana, all’Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede il 17 giugno 2021, in quanto il testo violerebbe, in alcuni punti, «l’accordo di revisione del Concordato», come riportato ieri dal Corriere della Sera. Una richiesta che, dunque, ha riacceso il dibattito politico, con il Pd sulle barricate a difendere la norma voluta dal deputato Alessandro Zan per punire violenza e discriminazione contro la comunità Lgbti+ e la Lega che spinge affinché si ridiscuta il testo, a lungo osteggiato in Aula. E in mezzo c’è anche il giallo della “correzione” fatta dalla base del Pd alle parole del segretario Enrico Letta, che si era detto disponibile al confronto. Si tratta di un atto senza precedenti, compiuto dal Vaticano facendo ricorso a facoltà previste dai Patti Lateranensi. «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato — si legge nella nota — riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato». Tali commi prevedono che l’Italia assicuri alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica». Inoltre, garantisce ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni «la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». La norma, secondo il Vaticano, metterebbero in discussione la «libertà di organizzazione», attentando, più in generale, alla «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Sotto accusa, in particolare, l’articolo 7 del disegno di legge, «che non esenterebbe le scuole private dall’organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la trasnfobia e attenterebbe alla libertà di pensiero della comunità dei cattolici». In un primo intervento a Radio Anch’Io, il segretario del Pd, Enrico Letta, si è detto aperto «al confronto in Parlamento», dicendosi disponibile a guardare «con il massimo spirito di apertura ai nodi giuridici, pur mantenendo un favore sull’impianto perché la norma è di civiltà per il nostro Paese». Parole alle quali hanno subito replicato il presidente della Commissione Giustizia al Senato Andrea Ostellari e il leader del suo partito, Matteo Salvini. «La mia proposta è sempre valida – ha evidenziato Ostellari -. Riuniamo i presidenti dei gruppi del Senato e i capigruppo in commissione e sediamoci a un tavolo. Le audizioni si possono ridurre. Inauguriamo, finalmente, una fase di confronto, leale e costruttivo». Per il segretario della Lega, l’intervento del Vaticano è di «buon senso»: «Del Ddl Zan – ha sottolineato Salvini – abbiamo sempre contestato il fatto che fosse un bavaglio nei confronti della libertà di opinione, quindi se c’è la volontà di ragionare insieme su un testo che non cancelli la libertà di opinione, ma che tuteli da aggressioni e discriminazioni, noi siamo assolutamente d’accordo». Ma respinge ogni accusa l’autore del ddl, il dem Zan. «Alla Camera sono sempre state ascoltate con grande attenzione tutte le preoccupazioni e, come anche confermato dal Servizio studi Senato, il testo non limita in alcun modo la libertà di espressione, così come quella religiosa. E rispetta l’autonomia di tutte le scuole. L’iter non si è ancora concluso. Vanno ascoltate tutte le preoccupazioni e fugati tutti i dubbi, ma non ci può essere alcuna ingerenza estera nelle prerogative di un parlamento sovrano», ha affermato. Attorno a lui si è stretto subito il Pd, che ha manifestato il proprio sostegno convinto al ddl. «Naturalmente vogliamo leggere con attenzione le carte sui nodi giuridici, che al momento sono solo in un articolo di giornale», affermano fonti del Nazareno, specificando la posizione del segretario Letta. Precisazione che non è passata inosservata tra i leghisti: «Letta parla, e subito dopo fonti del Nazareno correggono le sue parole sulla legge Zan. Già una volta il Pd aveva sfiduciato clamorosamente Letta, quando era a Palazzo Chigi, e recentemente buona parte del partito l’ha smentito sulla tassa di successione come fatto anche dal presidente Draghi. Ora il Partito democratico si prepara a cacciare Letta dalla segreteria?». Contro la presa di posizione del Vaticano si è schierato, invece, il Partito Radicale: «Pur essendo convinti che la repressione sessuale si superi con la liberazione sessuale e non con la repressione penale o con una imposizione culturale di Stato, le ragioni della Santa Sede per chiedere il rispetto del Concordato sono pretestuose – si legge in una nota -. La Santa Sede è preoccupata di dover parlare nelle proprie scuole della Giornata nazionale contro l’omofobia. Ma questo problema non esiste a meno che le scuole private godano di finanziamenti pubblici (da poco raddoppiati!). È difficile rinunciare ai denari pubblici in nome dei propri convincimenti ma è la stessa Chiesa cattolica che insegna che non si può servire Dio e Mammona. E non si capisce perché, se la Santa Sede brandisce il Concordato, come suo diritto, non lo abbia mai fatto lo Stato, come sarebbe stato suo dovere, nei confronti della Santa sede per le politiche dello Ior o per quelle sulla pedofilia», si conclude la nota.

Zan, la bomba di Fico: "Nessuna ingerenza". Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Alle preoccupazioni sulla contrazione delle libertà di pensiero derivanti dal ddl Zan del Vaticano ha risposto Roberto Fico, ospite di Agorà. La nota verbale della Santa sede allo Stato italiano in cui si manifesta preoccupazione per la limitazione della libertà di pensiero nel caso in cui il ddl Zan venisse approvato nella sua attuale stesura sta facendo molto discutere a tutti i livelli. Dopo le dichiarazioni a favore di social da parte di Fedez e di Elodie, eletti maître à penser del pensiero unico (ma solo su certi temi) si è fatta sentire la voce istituzionale, quella di Roberto Fico. Il presidente della Camera dei deputati è intervenuto nel programma Agorà su Rai3 per difendere il ddl Zan, chiedendo al Vaticano un passo indietro nelle questioni dello Stato italiano. "Come rispondere alla richiesta del Vaticano di modificare il ddl Zan? È molto semplice, il Parlamento è assolutamente sovrano, i parlamentari decidono in modo indipendente quello che vogliono o non vogliono votare", ha dichiarato Roberto Fico. Il presidente della Camera, quindi, ha proseguito: "Il ddl Zan è già passato alla Camera ed è stato votato, frutto di discussione e dibattito nelle commissioni e in Aula, adesso è al Senato e quindi fa la procedura parlamentare normale. Noi come Parlamento non accettiamo ingerenze, il Parlamento è sovrano e tale rimane sempre". Lo Stato Vaticano ha chiesto maggiore attenzione all'Italia sulla base dell'articolo 7 della Costituzione italiana, che dice: "Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi". Il Concordato tra Stato e Chiesa è considerato alla stregua di un trattato internazionale, che regola i rapporti tra i due Stati. Ma a differenza dei normali trattati internazionali, essendo i Patti inseriti nella Costituzione, questi non possono essere modificati unilateralmente senza modificare la Costituzione, ma solo in caso di accordo bilaterale. Infatti, come si specifica nel terzo comma dell'articolo 7 della Costituzione, "le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale". Lo Stato Vaticano si è limitato a ricordare all'Italia l'esistenza del Concordato e, in base a quello, è stato chiesto di verificarne l'accordanza con il ddl Zan. Ma prima di Roberto Fico, è stato Alessandro Zan, primo firmatario della legge che porta il suo nome, parlare di ingerenze dal suo profilo Twitter: "Vanno ascoltate tutte le preoccupazioni e fugati tutti i dubbi, ma non ci può essere alcuna ingerenza estera nelle prerogative di un parlamento sovrano".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Da lastampa.it il 23 giugno 2021. Draghi ha iniziato a rispondere alle richieste dei senatori. Tra le tante domande, la risposta più attesa è quella annunciata ieri sul caso del concordato tra Italia e Vaticano: «Mi preme ricordare che il nostro è uno stato laico, non è confessionale, quindi il parlamento ha tutto il diritto di discutere e legiferare. Il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per verificare che le nostre leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il Concordato con la Chiesa». Specificando come «la laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso. La laicità è tutela del pluralismo e delle diversità culturali». Poi ribadisce brevemente la posizione del governo italiano sulla situazione dell’Ungheria e la legge contro l’omosessualità: «Ieri l'Italia ha sottoscritto con 16 Paesi europei in cui si esprime preoccupazione per gli articoli di legge in Ungheria in base a cui si discrimina l'orientamento sessuale». E ha esaurito la risposta alle polemiche tornando sul Ddl Zan: «Senza entrare nel merito della discussione parlamentare, che il governo sta seguendo, questo è il momento del Parlamento, non è il momento del governo».

Ddl Zan, il giurista del Concordato: «Nessuna violazione». Ma Draghi non la pensa così. Chiara Pizzimenti su Vanityfair.it il 24/6/2021. «Il nostro è uno Stato laico, non confessionale. Il Parlamento è libero di discutere e legiferare e il nostro ordinamento è in grado di dare tutte le garanzie verificare che le nostre leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il Concordato con la Chiesa». Mario Draghi alla fine è intervenuto sulla questione Ddl Zan-Vaticano ribadendo la laicità dello stato italiano. Una risposta che probabilmente nemmeno serviva per Francesco Margiotta Broglio, giurista fra i più importanti in Italia, a capo della commissione paritetica sul Concordato fra lo Stato italiani e la Santa Sede dal 1984 al 2014. Secondo Margiotta «non c’è alcuna violazione». La nota consegnata da monsignor Gallagher all’ambasciatore Sebastiani dice il Ddl Zan violerebbe l’articolo 2 del Concordato quello in cui si dice che la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa. «Nel Ddl Zan», spiega il professore a Repubblica, «non c’è ingerenza negli affari della Chiesa. Uno dei punti del contendere, da parte dei vescovi, è l’articolo 7 del disegno di legge in cui si prevede l’istituzione della Giornata nazionale contro omofobia e transfobia, con le scuole invitate ad organizzare incontri, attività sul tema. Se è evidente che non si possono obbligare le scuole private “confessionali” a festeggiare questa giornata, è altrettanto evidente che la Chiesa non può certo chiedere allo Stato di non fare leggi che essa, la Chiesa, ritiene contrarie alla propria dottrina cattolica». Al professore pare che il Vaticano ripeta la via e l’esperienza dei referendum su divorzio e aborto, superando i confini degli accordi, non il contrario, e mostrando con questo agire debolezza. «La Chiesa fece fuoco e fiamme prima contro il divorzio e poi contro l’aborto, minacciando la rottura dei patti. Non è successo ed entrambe sono poi diventate leggi dello Stato. Così sarà per il disegno di legge Zan che oltretutto, vorrei ricordare, vieta anche ogni discriminazione fondata su motivi razziali o religiosi».

Fedez e Cappato guidano la crociata contro Papa Francesco e le ingerenze del Vaticano sul Ddl Zan. Piero de Cindio su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Papa Francesco è stato esautorato dalla base della Chiesa e scoppia la polemica social sul Ddl Zan. A margine della richiesta formale al Governo Italiano attraverso il Segretario per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher. Di “rivedere il decreto a contro l’omotransfobia e le disabilità” perché in conflitto con il concordato. L’atto consegnato il 17 giugno ed emerso all’attenzione della cronaca dopo meno di una settimana, ha fatto esplodere migliaia di commenti sulla rete che hanno inveito contro la scelta dello Stato Vaticano di esporsi contro una riforma in itinere nel Parlamento Italiano. Il dibattito derivato dalla discussione di questa notizia ha in poche ore generato su Twitter la bellezza di 12.269 tweets, 209.876 mi piace, 30.960 condivisioni, 10.693 commenti e 5.245 citazioni. “Un dato impressionante che ha rappresentato un colpo molto duro all’immagine della chiesa – dichiara al Riformista Livio Varriale, autore della ricerca – non ci sono commenti positivi nei confronti del Vaticano e questo fa in modo che si oscuri la narrazione delle motivazioni poste in essere dallo Sato comandato da Papa Francesco”. HASHTAGS – Le parole chiave per individuare tali discussioni sui social sono state, oltre a Vaticano, ddlzan e concordato “la maggior parte delle persone non sapeva manco che esistesse il concordato come strumento giuridico di relazione tra Stato e Chiesa Vaticana – spiega Varriale – bene però che questa polemica abbia insegnato qualcosa di nuovo alla massa. Oltre all’hashtag LGBT e Chiesa, rimbalza all’occhio quello di Emanuela Orlandi e questo dimostra che il livello di aggressività e di strumentalizzazione nei confronti del clero abbia avuto anche toni accesi che fanno riferimento ad una delle peggiori pagine della storia Vaticana”. 

LIKES – Ad avere la meglio in termini di like e condivisione, il marito di Chiara Ferragni, Fedez, che ha incalzato quanto lasciato dopo le polemiche del primo maggio dove fece un endorsement pubblicamente contro coloro che ostacolavano il percorso di approvazione del Decreto. Marco Cappato, attivista per l’eutanasia in Italia, quest’ultima osteggiata proprio dal Vaticano, ha raccolto consensi posizionandosi al secondo posto. Al terzo c’è invece Vladimir Luxuria, rappresentante del mondo LGBT in Italia, insieme all’avvocato attivista per i diritti della categoria Cathy la Torre ed allo stesso Alessandro Zan. 

MENZIONI – “Dalle menzioni è possibile capire quali sono stati i personaggi inghiottiti dalla polemica indipendentemente dalla parte assunta” Spiega Varriale “Il Corriere ha fornito la notizia di riferimento, seguito dalla Repubblica e Fatto Quotidiano mentre Fedez per la seconda volta coglie un’occasione ghiotta per rappresentare i suoi interessi anticlericali più volte predicati. Boldrini e Papa Francesco sono le figure politiche più coinvolte, seguiti dal duo del Pd Letta e Zan. Per quanto riguarda la Lega, il trio Salvini, Borghi e Pillon si conferma il bersaglio preferito dalla massa su questioni afferenti le tematiche LGBT, mentre chiude la classifica dei top 20 il pro vita Mario Adinolfi che ha avuto posizioni sempre molto nette contro Ddl Zan”. 

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

"Fedez ha detto fesserie. Il Vaticano paga le tasse, ecco le cifre". Fabio Marchese Ragona il 24 Giugno 2021 su Il Giornale. Il presidente dell'Apsa smentisce il rapper: "È disinformato, nel 2020 oltre 5 milioni di Imu". Nella polemica sul Concordato tra Italia e Santa Sede, con il Vaticano che ha chiesto al Governo la rimodulazione del testo Zan, si è inserito anche il rapper Fedez che da tempo sostiene pubblicamente il ddl. Il re del tormentone estivo, ha lanciato dal suo profilo Instagram, che conta 12,6 milioni di followers, accuse al Vaticano sul tema degli immobili. «Amici», ha chiesto con ironia il cantante ai suoi seguaci, «voi avevate concordato qualcosa? Non avevamo concordato, amici del Vaticano, che ci davate delle tasse arretrate sugli immobili e che l'Unione Europea ha stimato in cinque miliardini o forse di più? In realtà non si sa, perché avete perso il conto degli immobili, ne avete troppi». Affermazioni che non vanno giù a monsignor Nunzio Galantino, presidente dell'Apsa, l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica che gestisce gli immobili della Santa Sede.

Monsignor Galantino che cosa risponde a Fedez?

«L'unica risposta che si può dare a una persona disinformata sono le carte, i fatti. Non so se lo faccia per ignoranza o per malafede. Non ci sono alternative. A fronte di affermazioni che lui non può documentare, io posso invece documentare che il Dicastero che presiedo paga».

Avete pagato?

«Nel 2020 l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato 5,95 milioni di euro per l'Imu e 2,88 milioni di euro per l'Ires. A queste vanno aggiunte le imposte pagate da Governatorato, Propaganda Fide, Vicariato di Roma, Conferenza Episcopale italiana e singoli enti religiosi. Nel 2019 abbiamo pagato oltre 9 milioni e 300 mila euro. Ed è tutto documentato! Poi se si vuole andare in processione con Fedez, si vada pure. Il problema è che qualcuno, pur sapendo queste cose, continua a dire che la Chiesa non paga...»

Fedez parla di miliardi di euro di arretrati...

«Chi dice che il Vaticano ha evaso 5 miliardi di Imu allo Stato non offre nessun dato che permetta di verificare questa affermazione. Da chi denuncia la rilevante somma che il Vaticano avrebbe evaso bisognerebbe farsi dire: in base a quale legge, su quali immobili e in riferimento a quale periodo è stato quantificato il debito del Vaticano? Bisogna ribadire che sugli immobili dati in affitto quelli che rendono davvero da sempre le imposte vengono pagate senza sconti o riduzioni. In passato, le polemiche furono alimentate perché l'Ici prevedeva l'esenzione per gli immobili degli enti senza scopo di lucro, integralmente utilizzati per finalità socialmente rilevanti (come scuole, mense per i poveri o centri culturali). È da sapere che l'esenzione non riguarda solo la Chiesa, ma tutte le Confessioni religiose, i partiti, i sindacati ecc. Ho persino chiesto a coloro che fossero a conoscenza di evasione da parte di enti ecclesiastici, di denunciarli subito alle competenti autorità, assicurando il mio appoggio».

Perché secondo lei Fedez ha fatto queste affermazioni?

«Bisognerebbe chiedere a lui, è difficile dare spiegazioni, io non lo conosco nemmeno, non so chi sia, lui può fare quello che vuole, ma chi lo ascolta deve sapere che almeno su questo argomento ha detto cose che, nella migliore delle ipotesi, non conosce. Perché a fronte delle mie parole ci sono dei fatti e ho le prove per smentirlo. La gente decida se vale più un documento o la parola di Fedez...»

La questione degli immobili vaticani è terreno fertile per chi vuol fare polemica...

«A metà luglio pubblicheremo il bilancio dove ci sarà elencato il numero degli immobili, in Italia, all'estero, ecc. e così saranno serviti anche questi benpensanti».

Forse il problema è che in passato la Chiesa non rendeva tutto pubblico?

«La responsabilità è anche nostra che talvolta, all'epoca, non abbiamo fatto buona o sufficiente comunicazione...».

Adesso con Papa Francesco le cose son cambiate?

«Dobbiamo riconoscerlo, oggi posso dire tu hai detto una fesseria e parli di cose che non conosci. O lo fai in malafede o perché lo ignori. Io ti aiuto a superare la tua ignoranza, se lo accetti o non lo accetti sono problemi tuoi. Grazie a Dio, il tempo del silenzio è finito!». Fabio Marchese Ragona

Ddl Zan, la vergogna di Fedez: se non la pensi come lui ti insulta, sfregio e insulti alla Chiesa. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Per il ddl Zan, finché c'è Fedez c'è speranza. C'è sempre un innegabile tempismo nel rapper Federico Lucia, quando si tratta di cavalcare l'onda arcobaleno. Prendete il suo ultimo j' accuse su Twitter. È bastato che il Vaticano, attraverso il cardinale Paul Gallagher ministro degli Esteri del Papa, levasse gli scudi diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il disegno di legge contro l'omotransfobia in quanto violatore dei Patti Lateranensi, che subito Fedez il templare delle minoranze chiassose, insorgesse. E che, armato di tweet e telecamera, muovesse contro i preti a testa bassa: «Il Vaticano che ha un debito stimato di 5 miliardi di euro su tasse immobiliari mai pagate dal 2005 ad oggi per le strutture a fini commerciali dice all'Italia 'guarda che con il Ddl Zan stai violando il concordato». Aggiungendo, inoltre: «E comunque, siamo uno Stato laico. Un'altra cosa, voi potete mettere becco sulle leggi italiane però perchè quando in Italia viene sgamato un pretino pedofilino, il pretino non viene processato dalla giustizia italiana?». A far da eco a Fedez contro il Concordato si alzano voci dal web e quelle di Paola Turci ed Elodie («Ringrazio i miei per non avermi battezzata») in una furiosa giostra anticattolica. Ora, l'intervento della diplomazia vaticana che -rivela il Corriere della sera- esprime "preoccupazione" per una legge dello Stato italiano e che va oltre la semplice moral suasion, è tanta roba. E, nella visione di uno stato laico, c'è poco da confutare nella reazione di Fedez. La Chiesa ha i suoi problemi con immobili e pedofili. Ma il problema è che con quel documento squisitamente giuridico del Vaticano depositato all'ambasciata italiana, il Fedez-pensiero c'entra come i cavoli a merenda. È parlare due lingue diverse, è come chiedere un giudizio sul Recovery e sentirsi rispondere sui gol di Insigne. Tra i commenti che plaudono al rapper ne estraggo due controcorrente: «Attenzione a parlare del Concordato, perché è citato nella nostra Costituzione all'art 7 (Patti lateranensi). Ti supporto in tante battaglie, compreso il ddl Zan, ma parlare del Concordato vuol dire parlare della Costituzione. Occhio a non fare il passo più lungo della gamba». E ancora: «Non condivido la posizione del Vaticano, questo accostamento non ha molto senso. Che la Chiesa cattolica sia portavoce di una grande fetta della popolazione italiana è un dato di fatto, la democrazia è anche questo». Sono due giudizi emblematici. È esattamente questo il senso: il rispetto dell'opinione altrui e il tracciato della democrazia da cui Fedez tende a deviare pericolosamente. Tra l'altro, se proprio non si sente minoranza e vuol fare il figo con la forza dei suoi 12 milioni e rotti di followers, la lotta con 1,32 miliardi dei seguaci della Chiesa cattolica sarebbe impari. In realtà la faccenda è tecnica. Per la Santa Sede l'art.7 del ddl Zan non esenterebbe le scuole private dall'organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro omofobia, lesbofobia e transfobia, violando la "libertà di organizzazione" al comma 1 e 3 dell'art.2-; e attenterebbe alla «libertà di pensiero» dei cattolici. Il che, in punta di diritto, è impeccabile. Suggerisce Gennaro Acquaviva revisore con Craxi del Concordato dell'84: la Chiesa non ha torto, se la libertà e l'autonomia della scuola cattolica vengono messe a rischio nel momento in cui la stessa scuola «viene obbligata a fare qualcosa che va contro la propria coscienza e i propri principi». Qui, la disputa è tra Stati sovrani. Credo che Fedez ne sappia quanto io della discografia di Guè Pequeno o di Fabri Fibra.

Dagoreport il 23 giugno 2021. "La Chiesa non è contro il Ddl Zan e non lo contesta né sul piano teologico né nel merito. Si chiede solo la rimodulazione di due punti caratterizzati da una criticità tecnica affinché siano più facilmente interpretabili". Don Filippo Di Giacomo, giornalista e canonista, interviene sulla ridda di polemiche scatenate dalla pubblicazione della "nota verbale" con cui il Vaticano segnalava al governo le sue perplessità sul Ddl Zan. "Il primo equivoco della vicenda - precisa Di Giacomo - è legato alla natura del documento in questione. Si tratta di una "nota verbale", ovvero il modo usuale con cui le diplomazie si parlano, si confrontano e scambiano osservazioni. Enfatizzarlo come una 'lettera ufficiale' è pura idiozia, anche perché siamo in una fase interlocutoria del dialogo tra due parti, lo Stato italiano e la Chiesa, i cui rapporti sono regolati dall'articolo 7 della Costituzione. Il confronto verte sulla difesa di quegli spazi di libertà religiosa che riguardano non solo i cattolici ma anche ebrei, musulmani e i seguaci di altre confessioni". Gli attacchi di Fedez alla Santa Sede? Il cantante ha berciato: "Il Vaticano non paga le tasse immobiliari e dice che l'Italia sta violando il Concordato". Notizia mezza tarocca visto che, nel 2020, l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato 5,95 milioni di euro di IMU, 2,88 milioni per l'Ires senza contare le imposte pagate da Governatorato, Propaganda fide, Vicariato di Roma, Conferenza Episcopale italiana e singoli enti religiosi… "Evidentemente il cantante si considera uno specchio di virtù - ironizza Di Giacomo - In Italia è diffusa un'idea di laicità che fa ridere: della serie, se parla un prete bisogna metterlo a tacere. E' una "laicità" in chiave anti-cattolica. Uno stato laico non interviene, non si intromette e non ha pregiudizi. Negli ultimi mesi, invece, una quindicina di funzioni religiose sono state interrotte mentre si stava pregando per i malati o per le persone bisognose. Alcuni parroci sono stati denunciati solo perché nel bollettino parrocchiale ricordavano, sui temi della sessualità, quel che c'è scritto nel catechismo…". "Si parte sempre dal preconcetto - prosegue Di Giacomo - che ogni volta che parla un prete, stia esprimendo un "no". Mentre sul caso del Ddl Zan si sta solo manifestando, nel rispetto dell'articolo 21 della Costituzione, una perplessità su due articoli (tra cui quello legato alle sanzioni) non chiari e, dunque, non idonei a garantire la piena libertà di coscienza. D'altronde quel che la Chiesa chiede, cioè una rimodulazione di due passaggi del testo per una più facile interpretazione e una più serena osservazione della legge, è stato espresso anche dagli esperti, tra cui ex presidenti della Corte costituzionale, sentiti dalla Commissione parlamentare". Di Giacomo piccona anche l'apparente monolite di consenso intorno al controverso disegno di legge: "Dieci giorni fa c'è stato un convegno, organizzato da un'associazione Lgbt, dal titolo "Per salvare il Ddl Zan, cambiamo il Ddl Zan". Siamo sicuri che il mondo Lgbt, nella sua totalità, aderisca senza riserve alla proposta?". Resta una questione "politica", tutta interna al Vaticano, sulla diffusione della "nota verbale": chi l'ha data alla stampa? Di Giacomo non ha dubbi: "E' uno sgarbo al Papa. La diplomazia non è un oggetto rococò da mettere in salotto e si muove a un livello in cui la discrezione è sovrana. Come diceva l'arcivescovo Marcinkus 'il Vaticano è un paese abitato da 500 lavandaie'. Quel che va precisato è che chiunque abbia deciso di dare il documento ai giornalisti non è certo estraneo alla gestione Bergoglio. Nella Santa Sede vige uno spoil system totale: da quando è stato eletto, otto anni fa, il Papa ha nominato molte persone, ne ha sostituite altre. E oggi chi ricopre un incarico di responsabilità Oltretevere, è stato scelto da lui…"

Ddl Zan, il paradosso di una legge che va contro la Costituzione: pena aumentata se l'aggressore fosse di colore? Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 01 giugno 2021. «L'odio si combatte con i fatti», dice l'onorevole Alessandro Zan, che è il relatore del disegno di legge che porta il suo nome e inventa aggravanti nel caso di atti violenti e di discriminazione «fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità». E quali sarebbero i fatti con cui si combatte l'odio è presto detto: galera, galera e galera, perché è questo il presidio progressista a tutela delle vittime di quei comportamenti odiosi, la galera e ancora la galera. Non conta che la Costituzione indichi il sesso tra le condizioni che la legge non può considerare per attribuire o revocare diritti, e non conta che un atto violento contro un omosessuale, un transessuale, un sessualmente orientato di qui o di là, o l'istigazione a commetterlo, siano oggi perfettamente punibili: niente da fare, ci vuole questa legge perché la cronaca riporta casi di aggressione ai danni di quelle categorie (brutta parola: ma sono i sostenitori di questa ignominia legislativa a dividere la società in corporazioni sessiste). E così la coppia gay picchiata a Palermo, la lesbica presa a testate a Catanzaro o le bottigliate all'omosessuale pugliese diventano riprove che è indifferibile creare un diritto speciale perché altrimenti quei delitti rimangono impuniti: una bugia bella e buona, confezionata mentre il legislatore ordinario si incarica di spiegare che non intende intervenire sulla libertà di manifestazione del pensiero e sulle «condotte legittime», stabilendo lui, il legislatore ordinario, le ragioni di compatibilità del proprio lavoro con la Costituzione. Per capirsi: domani un'altra maggioranza chiude un giornale scomodo e spiega che però non è mica intervenuta sulla libertà di stampa. Ma facciamo un esempio più scottante. Si ipotizzi che qualcuno denunci un alto tasso di criminalità tra quelli con la pelle scura, e sulla base di questo rilievo proponga un aggravamento di pena per il responsabile del delitto che appartenga a quella categoria: e immaginiamo che nel mettere in legge questa trovata spieghi che la norma non vuole interferire col precetto costituzionale. Bene: cosa fa se non applicare in altra direzione lo stesso criterio del ddl Zan? Alcuni (pochissimi) hanno tentato di spiegare queste cose ai tanti (pochi soltanto ignoranti, moltissimi in malafede) per i quali l'approvazione di questa legge costituisce l'avvenimento capitale del nostro progresso civile, ma non ci sono santi: chi rema contro sotto sotto si compiace della violenza omofoba. Ed è bestemmia l'idea che la contestazione di questo ddl sia sorretta da ragioni altrettanto degne rispetto a quelle agitate da chi ne sostiene l'indispensabilità: ragioni sistematiche e liberali, le prime, che esigono un po' di studio e qualche consuetudine con la prassi democratica, roba antipatica presso i cultori del modello Greta-Fedez-Zan.

Dalla Boldrini a Luxuria, in campo il fronte anti Vaticano. Luca Sablone il 22 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra sulle barricate contro la Santa Sede dopo le critiche al ddl Zan: "Inaccettabile intromissione della Chiesa, ora acceleriamo ancora di più e aboliamo il Concordato". Non potevano ovviamente mancare infiniti comunicati stampa da parte di esponenti della sinistra, fortemente indignati per la presa di posizione del Vaticano sul ddl Zan. Al governo italiano è stato chiesto di accogliere le preoccupazioni avanzate soprattutto perché si ritiene che siano minacciate la libertà di organizzazione e di pensiero della comunità dei cattolici. A guidare il fronte rosso contro la mossa della Santa Sede è Laura Boldrini, secondo cui l'approvazione del ddl Zan resta assolutamente prioritario: "È una legge di civiltà. Punisce i crimini d'odio per omolesbobitransfobia, misoginia, abilismo e promuove il rispetto. Non c'è rischio per la libertà di pensiero poiché esclude la propaganda di idee". La deputata del Partito democratico si è detta sì disponibile ad ascoltare il Vaticano, ma ha tenuto a ribadire che la decisione finale spetterà al Parlamento: "Ascoltiamo anche il Vaticano, ma il Parlamento è sovrano".

Il Pd non molla. In mattinata Enrico Letta ha provato a blindare di nuovo il testo del ddl Zan: "Noi siamo sempre stati favorevoli a norme molto forti contro l'omotransfobia. Rimaniamo favorevoli a queste norme e al ddl Zan". Ma alla posizione del Vaticano è seguita una sostanziale sottolineatura non indifferente: il segretario del Pd ha aperto a possibili modifiche. "Siamo pronti a guardare i nodi giuridici pur mantenendo un favore sull'impianto perché la norma è di civiltà per il nostro Paese. Il nostro è sempre stato un atteggiamento di apertura", ha dichiarato. Fonti del Partito democratico però tengono comunque a far passare un messaggio piuttosto chiaro: "Il Pd sostiene convintamente il ddl Zan. Naturalmente vogliamo leggere con attenzione le carte sui nodi giuridici, che al momento sono solo in un articolo di giornale". Non molla neanche il senatore dem Andrea Marcucci, che non vuole perdere ulteriore tempo e chiede arrivare rapidamente a una decisione finale: "È sempre tempo di libera Chiesa in libero Stato, non di guerre di religione. Il ddl Zan vada al più presto in Aula, il Parlamento decida autonomamente".

Il fronte rosso anti-Vaticano. Non solo dal Pd. Le dure risposte al Vaticano arrivano in generale dall'area di centrosinistra. Ad esempio per Chiara Appendino, sindaco di Torino, questa è addirittura l'occasione per imprimere una forte accelerata: "Una posizione senza precedenti, il Parlamento è stato votato dal popolo, legittimato giustamente a legiferare e il mio auspicio è che, alla luce di quello che è accaduto con questa lettera, si vada avanti ancora di più rapidamente con tutte le forze politiche che hanno deciso di sostenerlo". Polemiche le parole di Vladimir Luxuria, secondo cui la Santa Sede - intervenendo come legislatore e suggerendo quali sono i punti da modificare - ha compiuto un "enorme passo indietro". Ritiene che sia "una grande bufala" pensare che una scuola privata cattolica debba sentirsi obbligata a parlare di omofobia il 17 maggio, che potrebbe diventare la Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la tran­sfobia. Dunque Luxuria invita a proseguire la battaglia per arrivare all'ok definitivo al ddl Zan: "Questo è un banco di prova sul rispetto di un principio costituzionale. Abbiamo fatto grandi battaglie come quella sull'aborto e sul divorzio. Teniamo duro anche su questa". "Uno Stato laico non può subire simili ingerenze e intromissioni", lamenta a gran voce Riccardo Magi. Il deputato di +Europa si è espresso duramente su Facebook dopo la tesi del Vaticano per cui il ddl Zan violerebbe - in alcuni contenuti - l'accordo di revisione del Concordato: "Una cosa mai successa prima, un fatto di una gravità inaudita nel rapporto mai davvero limpido tra l'Italia e il Vaticano. "Ama il prossimo tuo", ma solo se rispetta le loro norme. Noi lo diciamo da decenni e ora lo ribadiamo: aboliamo il Concordato!".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in d...

Da "corriere.it" il 22 giugno 2021. «Oggi un ringraziamento speciale va ai miei genitori che non mi hanno battezzata. Grazie». Elodie, con una story su Instagram, prende una posizione chiara in relazione alla vicenda del ddl Zan, dopo le notizie secondo cui il Vaticano ha chiesto di modificare il provvedimento. La cantante, già in passato, aveva manifestato in maniera eloquente le proprie opinioni sul tema. Sui social, davanti al no della Chiesa alle unioni omosessuali, aveva affermato: «Per fortuna la gente continuerà ad amarsi pur non avendo la "benedizione" del Vaticano».

"Grazie ai miei non sono battezzata". Ma Elodie scorda un particolare. Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Non tutti i sostenitori del ddl Zan si sentono rappresentati da Elodie, che rivendica di non essere stata battezzata con la croce tatuata sul braccio. Da ieri il discorso sul ddl Zan è tornato prepotentemente alla ribalta per la nota con la quale il Vaticano ha chiesto allo Stato italiano maggiore attenzione perché, così com'è scritto, violerebbe il Concordato. La Santa sede ha manifestato seria preoccupazione per la libertà di pensiero dei cattolici ed è divampata la polemica da parte dei sostenitori del disegno di legge a firma di Alessandro Zan, che hanno chiesto meno ingerenza della Chiesa nel processo decisionale dello Stato italiano. Tra loro anche Fedez ed Elodie, i due cantanti sempre pronti a schierarsi dalla parte delle battaglie più social che hanno già ampia eco mediatica e non di quelle che, per esempio, avrebbero bisogno di maggiore visibilità. Il populismo permea i discorsi dei due cantanti, probabilmente all'oscuro dell'articolo 7 della Costituzione, nel quale si specifica che, tra Stato e Chiesa, i "rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi". E, proprio in virtù del Concordato, il Vaticano ha chiesto all'Italia di verificare che il ddl Zan non vada a ledere la libertà e l'autonomia delle scuole cattoliche. Che Elodie si presenti in video con una storia nella quale, con orgoglio, dice "oggi un ringraziamento speciale va ai miei genitori che non mi hanno battezzata", è avulso dal senso del discorso. E lo è al pari di Fedez che chiede alla Chiesa di pagare "5 miliardi di tasse immobiliari". Il battesimo è un percorso personale che non dovrebbe essere utilizzato a fini propagandistici. Le parole di Elodie, che sembra porsi in posizione moralmente superiore rispetto a chi, invece, ha ricevuto il battesimo, hanno indignato molti. E c'è chi ha fatto notare alla cantante la supponenza delle sue parole: "Elodie non è stata battezza, il che la pone al di sopra di ogni battezzato. Cara Elodie, facciamo che se tu sia battezzata o meno ce ne frega poco e niente ma facciamo anche che come vuoi che gli altri rispettino il tuo pensiero tu debba rispettare quello degli altri". Un presupposto che spesso manca in chi sostiene il ddl Zan, soprattutto sui social. Ma è un altro l'elemento che maggiormente stride con il "ringrazio che non mi hanno battezzata". Sul braccio sinistro di Elodie spicca una grande croce, simbolo di cristianità. Appare quanto meno contraddittoria la sua presenza sul corpo di chi rivendica con onore di non aver ricevuto il sacramento del battesimo. E infatti non manca chi glielo fa notare. Uno dei tanti che ha sottolineato questa ipocrisia, dopo aver riportato le sue parole ha aggiunto: "E ha una croce tatuata sul braccio. Dal club degli illuminati de sinistra è tutto, a voi studio". Ma c'è di più, perché anche tra chi spinge affinché venga approvato il ddl Zan c'è chi critica il modo di porsi dei due cantanti: "Si può essere favorevoli al ddl Zan e, allo stesso tempo, non sentirsi rappresentati da Fedez ed Elodie? Rendiamo più maturo il dibattito, please!". Una richiesta più che legittima da parte di chi si è stancato delle strumentalizzazioni social e vuol portare il discorso a un livello più alto, che prescinde dalla smania del consenso.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Tagadà, Antonio Padellaro e il pesantissimo sospetto su Papa Francesco: "Cosa succede lì dentro?". Vaticano e ddl Zan, una bomba. Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Antonio Padellaro ha commentato la notizia della richiesta del Vaticano di modificare il DdlZan, richiesta inviata con una missiva al governo. Un caso enorme, rivelato dal Corriere della Sera: "Interferenza pesante, che pensa Papa Francesco, cosa succede lì dentro?", si chiede il direttore del Fatto Quotidiano, ospite di Tagadà in onda su La7 condotto da Tiziana Panella. Il Vaticano infatti ha chiesto al governo italiano di modificare il ddl Zan, il disegno di legge contro l'omotransfobia ora in commissione Giustizia del Senato, perché "violerebbe in alcuni contenuti l'accordo di revisione del Concordato". Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la "libertà di organizzazione", ma in senso più generale, alla "libertà di pensiero" della comunità dei cattolici. L'intervento della Santa Sede sul governo italiano ha l'obiettivo "non di bloccare" il ddl Zan ma di "rimodularlo in modo che la Chiesa possa continuare a svolgere la sua azione pastorale, educativa e sociale liberamente", spiegano fonti vaticane.  Questo però ha dato molto fastidio a Padellaro che ci vede una grossa ingerenza del Vaticano nella politica italiana. Il giornalista chiede così il parere del Papa. Nel frattempo al Vaticano ha subito risposto l'autore del disegno di legge: "Il ddl Zan è stato approvato da un ramo del Parlamento a larga maggioranza, e l'iter non si è ancora concluso. Vanno ascoltate tutte le preoccupazioni e fugati tutti i dubbi, ma non ci può essere alcuna ingerenza estera nelle prerogative di un parlamento sovrano". Così Alessandro Zan del Pd su twitter. 

«Così la Santa sede mette in discussione la laicità dello Stato». Il Vaticano contro il ddl Zan, parla la senatrice dem Monica Cirinnà: «Siamo di fronte a una presa di posizione molto netta in una materia che è affidata al Parlamento». Simona Musco su Il Dubbio il 23 giugno 2021. Nessun pericolo per la libertà di opinione – «che è resta distinta da una inesistente “libertà” di istigare alla discriminazione o alla violenza» – e nessun pericolo per l’autonomia scolastica. A dirlo è la senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà, tra le più agguerrite sostenitrici della legge presa di mira dal Vaticano. Legge alla quale, a nome dell’intero partito, ribadisce oggi il più incondizionato appoggio. «Sicuramente ci sono dei profili molto delicati di tenuta del principio di laicità dello Stato – dice al Dubbio -. Mi auguro non si arrivi ad una crisi diplomatica».

Come giudica l’intervento del Vaticano sul ddl Zan?

Mi fa riflettere molto, come cittadina e come rappresentante delle istituzioni repubblicane, che la Santa sede senta la necessità di pronunciarsi in modo così duro su una legge che ha il solo obiettivo di proteggere le persone da discriminazione e violenza.

L’autonomia legislativa e la laicità dello Stato sono messe in discussione?

Siamo di fronte a una presa di posizione molto netta in una materia che, al momento, è affidata al Parlamento, avvenuta in forme inedite e con un’intensità senza precedenti nella storia della Repubblica. Come tale deve essere valutata, alla luce del principio costituzionale di laicità e della lettera dell’articolo 7 della Costituzione. Sarà necessario riflettere su quanto accaduto, anche al di là degli stretti profili di merito legati al ddl Zan.

Come risponde alle obiezioni sollevate da Monsignor Gallagher?

La nota vaticana riprende obiezioni largamente diffuse nel dibattito sul ddl Zan. Posso solo rispondere ribadendo che a queste obiezioni è stato dato ascolto e risposta già alla Camera, in sede di discussione e approvazione del testo. Non ci sono pericoli per la libertà di opinione – che è resta distinta da una inesistente “libertà” di istigare alla discriminazione o alla violenza – e non ci sono pericoli per l’autonomia scolastica.

Secondo l’arcigay si tratta di un “attentato alla Costituzione” e di un tentativo di aprire una crisi diplomatica. Secondo lei è davvero così?

Sicuramente ci sono dei profili molto delicati di tenuta del principio di laicità dello Stato. Non so se si arriverà a una crisi diplomatica e sicuramente non me lo auguro. Quel che è certo è che la politica deve essere in grado di dare una risposta equilibrata ma netta, rivendicando il proprio ruolo nel quadro dei principi sanciti dalla Costituzione.

Per coloro che da sempre si sono opposti a questa norma una delle note dolenti è quella che riguarda la scuola. Ci sono margini di trattativa su questioni come questa?

L’articolo 7 del ddl – quello che istituisce la Giornata contro l’omolesbobitransfobia prevedendo anche che possano svolgersi iniziative nelle scuole – è stato modificato alla Camera proprio per ribadire il pieno rispetto del principio di autonomia scolastica. Non ci sono pericoli di sorta. Concentriamoci sull’importanza di prevenire discriminazioni e violenza a partire dalla formazione e dalla cultura, piuttosto che agitare fantasmi inesistenti.

Come influirà questa vicenda sui lavori parlamentari?

La posizione del Partito democratico non muta. È necessario porre fine all’ostruzionismo di queste settimane, portando al più presto il ddl in Aula. È l’ostruzionismo a impedire il confronto democratico sui contenuti, non altro.

Alessio Poeta per “Chi” il 22 giugno 2021. Alessandra Mussolini, negli anni, ha capito che la coerenza appartiene solo a chi non ha idee. Ha abbandonato la politica, ha trovato il suo equilibrio, si è interrogata spesso sul senso della vita e per questo ha scelto di supportare il Ddl Zan. «Non la chiamerei conversione, né redenzione. Sarebbe riduttivo. Io non faccio altro che analizzare le situazioni, senza barriere e senza essere condizionata, in alcun modo, dalle etichette. Eppure, ciononostante, viviamo una realtà così particolare dove la tolleranza non vale per tutti, ma solo per alcuni».

Domanda. La foto pubblicata sui suoi social con scritto Ddl Zan, sul palmo della mano sinistra, ha scatenato il putiferio e fatto il giro del mondo.

Risposta. «Ho aderito a una campagna per una battaglia che considero più che giusta. Niente di straordinario, tra l’altro, visto che è sempre stato il leitmotiv della mia esistenza. Oggi più che mai bisogna combattere tutti assieme le tante discriminazioni che, purtroppo, esistono ancora». 

D. C’è chi sostiene che questa sia una legge che limiti, in qualche modo, la libertà d’espressione.

R. «Sono dell’idea che, in questo caso specifico, la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri».

D. A sposare certe lotte, non ha paura di deludere i suoi sostenitori?

R. «La verità? No! Chi ha apprezzato e condiviso il mio spirito libero e liberale, nonché le tante battaglie fatte, sono sicura che continuerà a farlo. E poi, io, parlo per me in quanto cittadina. Non rappresento, né voglio condizionare nessuno».

D. L’Italia e gli italiani sono pronti?

R. «Occorre iniziare oggi per le generazioni future. Ogni rivoluzione culturale necessita di tempi molto lunghi e su questo dissento da chi vorrebbe cambiare sempre tutto e subito. Se si pensa che ancora oggi la donna viene accompagnata all’altare, dal padre, e viene consegnata al futuro marito...».

D. Fa strano sentirla parlare così visto che, nel 2006 ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, urlò a Vladimir Luxuria: «Meglio fascista che fr***o».

R. «Usai quell’espressione in risposta a una violenta provocazione sul mio cognome. Non volevo offendere, ma porre fine a una spiacevole discussione».

D. Ha mai chiesto scusa?

R. «Le basti pensare che io e Vladimir, oramai, siamo amiche. Ci troviamo spesso come ospiti nelle stesse trasmissioni televisive e non rinunciamo mai a due risate assieme». 

D. Sarebbe favorevole alle adozioni per le coppie dello stesso sesso?

R. «I bambini abbandonati negli istituti sono la peggiore sconfitta di ogni società. L’amore deve prevalere su tutto».

D. I detrattori delle battaglie arcobaleno usano la Gpa (gestazione per altri, volgarmente chiamata utero in affitto) per seminare dubbi.

R. «Non le nascondo che anche io, su questo argomento spinoso e delicato, nutro molte perplessità. Figuriamoci quando si parla di sfruttamento della donna dietro questa pratica». 

D. Se uno dei suoi tre figli, un domani le rivelasse la propria omosessualità?

R. «Per me conta, oggi più che mai, solo ed esclusivamente la loro felicità». 

D. E si è mai chiesta del perché molte famiglie siano così reticenti nell’accettare la sessualità dei propri figli?

R. «Perché, nonostante tutto, la nostra società non è così aperta come sembra, tanto che talvolta l’omosessualità di un figlio diventa un’onta per tutta la famiglia. Quando poi la sessualità non è nient’altro che la più intima condizione di ogni individuo sulla quale nessuno dovrebbe discutere. Invece oggi mi sembra ci sia una vera e propria ossessione».

D. Quando Platinette dichiara che “inserire l’identità di genere nei programmi scolastici è una violenza”, che cosa pensa?

R. «Mi torna in mente il mio disagio quando da bambina sulla pagella c’era scritto: “Firma del padre o di chi ne fa le veci”. I miei genitori erano divorziati e firmava sempre mia madre e questo non ha idea di quanto mi facesse soffrire». 

D. È più importante l’educazione in casa o nelle scuole?

R. «Senza alcun dubbio quella dei genitori».

D. Questo è il mese dell’orgoglio gay. Ritiene sia ancora utile marciare, tra carri e colori, sulle note di I will survive?

R. «Trovo che musica e colori siano la migliore cura dopo un periodo buio e triste come quello dal quale stiamo faticosamente tentando di uscire. Mi auguro che questo spirito si riversi in ogni manifestazione, politica e non».

D. Se venisse invitata come madrina?

R. «Madrina? Semmai padrina!». 

D. Il politicamente corretto e quest’attenzione maniacale alle desinenze affinché finiscano con la “a”, porterà a qualcosa?

R. «Trovo inutile e anche un po’ ridicolo cambiare al femminile un termine maschile. Non sarà mai questo a eliminare le disparità esistenti. E non è certo per questo che un sindaco, un notaio, un avvocato donna si sentono meno rappresentative della categoria». 

D. Ha mai ricevuto avance da parte di una donna?

R. «No, sempre e solo “disavance”». (Ride).

D. Sono stati più gli uomini o le donne, negli anni, a entrare in competizione con lei?

R. «In modo anche piuttosto preponderante gli uomini e, talvolta, usando anche mezzi abbastanza sleali, ma le dirò: meglio guardare avanti». 

D. E se le chiedessi di guardare al futuro?

R. «Mi fermerei al presente. La pandemia mi ha insegnato a vivere giorno per giorno».

D. E io che pensavo rispondesse, dopo questa intervista, “un ritorno in politica con il Pd”.

R. «Allora, come temevo, la strada che porta all’accettazione dell’altrui pensiero è ancora lunga. Molto lunga». (Sorride). 

D. Quando si guarda allo specchio, oggi, chi vede?

R. «Una donna soddisfatta di ciò che ha realizzato e che, con fatica, cerca di mantenere un atteggiamento di ottimismo nonostante quello che stiamo vivendo da oltre un anno».

D. Si piace?

R. «A fasi alterne». 

D. E se tornasse indietro poserebbe ancora per Playboy?

R. «Certo, a patto che venisse fatto un servizio anche per... Playgirl!».

«Ma io, giurista cattolico, dico: quello del Vaticano non è un atto di guerra». Scontro sul ddl Zan, parla l'ex presidente della Consulta Cesare Mirabelli: «Siamo all'interno di un rapporto tra due soggetti di diritto internazionale che hanno stipulato un accordo». Valentina Stella su Il Dubbio il 23 giugno 2021. Il professor Cesare Mirabelli, giurista, ex presidente della Corte Costituzionale, è stato Segretario della Commissione per l’attuazione dell’Accordo di revisione del Concordato e per le intese con le altre confessioni religiose. In merito alla nota della Santa Sede inviata al nostro Governo per lanciare un allarme sul Ddl Zan che potrebbe determinare una violazione del Concordato del 1984, Mirabelli dice: «Gli articoli 4 e 7 lasciano troppo margine interpretativo. La Chiesa non può rischiare sanzioni penali se decide di non benedire unioni omosessuali o se una associazione cattolica è formata da persone di un unico sesso».

Presidente in base a quale principio la Santa Sede ha inviato una richiesta formale al nostro Governo di modifica del Ddl Zan?

Non la qualificherei come una richiesta formale di modifica del Ddl Zan. Siamo all’interno di un rapporto tra due soggetti di diritto internazionale che hanno stipulato un accordo e uno dei due segnala all’altro che esiste il rischio che quell’accordo sia violato. Non si tratta di un atto di protesta o di contestazione ma di un gesto di cooperazione. Le pongo una domanda: è intrusivo segnalare il rischio che un patto sia violato? Oppure bisogna aspettare che sia violato per poi contestarlo e aprire un contenzioso? Le note verbali rappresentano uno strumento usuale di comunicazione, di segnalazione di problemi, di formalizzazione di osservazioni o richieste di chiarimenti. Non è una dichiarazione di guerra, ma un tentativo di prevenire un contenzioso. Una reazione diplomatica dopo la presunta violazione sarebbe stata certamente più grave e avrebbe irrigidito di più i rapporti tra i due Stati.

In che cosa potrebbe consistere un contenzioso?

Tutto quello che riguarda la violazione di un accordo di tipo internazionale. Può darsi che lo Stato italiano ritenga che l’accordo non sia violato e allora nascerebbe un conflitto che dovrebbe pervenire ad una composizione amichevole della controversia.

Secondo la Santa Sede il Ddl Zan violerebbe l’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato del 1984. Può spiegare in che termini?

L’articolo 2 sostanzialmente riafferma sul piano bilaterale delle garanzie di libertà che la Costituzione già riconosce: quella religiosa nella forma dell’esercizio del magistero ecclesiastico, dell’insegnamento, della libertà della Chiesa di avere una sua visione antropologica e di manifestarla. E poi anche la garanzia per i cattolici, ma non solo evidentemente per loro, di piena libertà di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

E allora quali sarebbero gli elementi critici?

Soprattutto gli articoli 4 e 7 del Ddl Zan dovrebbero fornire delle garanzie per la libertà di pensiero e religiosa ma in realtà lasciano un ampio margine interpretativo sulle eventuali conseguenze penali. Si può sanzionare una opinione manifestata, una convinzione, una scelta di idee se non è diretta intenzionalmente a determinare atti di violenza? Oppure non si può manifestare una idea che sia difforme da un sentire diverso? Il disegno di legge cerca di garantire la libertà delle scelte e il pluralismo delle idee ma lo fa in una maniera ritenuta non adeguata e non appropriata che mette a rischio penale determinate espressioni, indipendentemente dalla volontà della parte di scatenerà della violenza. Si tratta di un rischio per i cattolici ma anche per tutti gli altri cittadini. È discriminazione, ad esempio, non consentire da parte della Chiesa la benedizione di unioni omosessuali? Questo rientra nella libertà della Chiesa che va garantita. Non ci può essere il rischio di denuncia penale per queste situazioni. Trattandosi di reati occorre davvero la massima chiarezza. L’altro punto sul quale mi pare la nota della Santa Sede faccia delle osservazioni concerne la libertà della scuola culturalmente orientata. Le scuole cattoliche non sarebbero esentate dall’organizzazione della futura Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia. Inoltre, nella scuola pubblica va rispettato l’indirizzo educativo dei genitori. La scuola deve essere un luogo di educazione alla tolleranza e di rispetto della dignità di ogni persona. In generale il rapporto temporale e di contesto tra una posizione culturale e religiosa espressa e l’eventuale successivo atto violento o discriminatorio è assolutamente vago. Addirittura le associazioni cattoliche potrebbero essere perseguite per i ruoli differenti al loro interno tra uomini e donne: immagini che ci sia una associazione che per statuto è formata solo da donne o solo da uomini. È una discriminazione non tollerabile? Può costituire un elemento che sprona alla violenza? Voglio ricordare una cosa.

Prego…

Tempo addietro un giornale ha pubblicato l’opinione di una giurista la quale si riservava di denunciare una università, non appena il Ddl Zan fosse stato approvato, perché un libro di bioetica usato nel corso degli studi aveva posizioni antropologiche rispetto agli omosessuali non conformi alla linea che la legge segue. Fin quando rimangono opinioni o insegnamento vanno contrastati con opinioni ed insegnamenti, non con sanzioni penali. Perciò va garantita la libertà di espressione. Ma mi preme sottolineare un’altra cosa.

Mi dica.

Questo non toglie nulla all’esigenza di assicurare il pieno rispetto delle persone quale che sia la loro condizione o la loro scelta di vita. Non è in gioco la dignità della persona, che deve essere garantita in modo assoluto.

Assodato che la nota della Santa Sede sia legittima, Lei ritiene che sia anche opportuna? Molti l’hanno letta come una ingerenza del Vaticano nei nostri affari.

Non la riterrei una ingerenza se si tratta di una enunciazione rispetto ad un accordo che vincola le parti. Il Parlamento potrà – e a mio giudizio dovrebbe – tenere in considerazione le osservazioni della Santa Sede per valutare il merito delle questioni. Tra l’altro si tratta di temi dibattuti anche nell’ambito dello Stato.

Ci sono dei precedenti come questa nota, non divenuti pubblici?

Non possiamo saperlo ma comunque si tratta di strumento diffuso quello delle note verbali in cui si condensa in un piccolo scritto quello che direi al mio interlocutore.

Ci sono spazi per un’ulteriore revisione del concordato dopo quella del 1984 che, come nel 1946, raccolse il favore sia della maggioranza che dell’opposizione?

Mi pare che il concordato del 1984 abbia funzionato e che ci sia stato un clima di cooperazione come quello attuale che permane tra lo Stato e la Chiesa. Il principio alla base è quello della collaborazione nella distinzione delle competenze.

Concordato Vaticano Italia del 1984, cos’è e perché, secondo la Chiesa, il Dl Zan lo viola. Giampiero Casoni il 22/06/2021 su Notizie.it.  Concordato Vaticano-Italia, perché secondo la chiesa il Dl Zan lo viola: la nota consegnata da monsignor Gallagher allo Stato italiano solleva un vespaio. Concordato Vaticano-Italia, ricordare cos’è e perché secondo la chiesa il ddl Zan lo violerebbe è improvvisamente diventato faccenda cruciale. Lo è nella misura in cui in questi giorni il Vaticano ha formalmente chiesto al governo italiano di modificare il disegno di legge contro l’omotransfobia approvato dalla Camera il 4 novembre del 2020. Ma innanzitutto: perché il Vaticano ha il diritto, non la facoltà, si badi, ma il diritto, di chiedere allo Stato italiano di modificare una sua legge? La risposta sta proprio nella natura del Concordato che si intende violato con il Dl Zan, almeno secondo la dichiarazione ufficiale consegnata dal segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, monsignor Gallagher, all’ambasciata italiana e arrivata fresca e venefica sul tavolo del ministro Di Maio.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan viola un “contratto” che risale al 1929. I Patti Lateranensi che si sostanziarono nel Concordato risalgono al 1929, quando il Regno d’Italia decise di porre fine alla “Questione romana” postasi anni prima con il culmine del Risorgimento. Con la presa di Roma resa iconica dall’episodio della Breccia di Porta Pia l’Italia pose fine al potere temporale dei papi, che per mezzo del loro rappresentante di allora, Pio IX, reagirono malissimo e vietarono ai cattolici di partecipare alla politica italiana. L’allora capo del governo Mussolini però aveva (ancora) bisogno di legittimare il fascismo in punto di diritto e consenso, soprattutto per accedere al serbatoio delle associazioni cattoliche giovanili e farne un “balillificio”. Perciò promosse e stipulò i Patti del Concordato con cui Chiesa e Regno d’Italia mettevano a contratto i reciproci rapporti.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan e la revisione del 1984. Il Concordato venne poi sottoposto a conferma e revisione nel 1984, quando Bettino Craxi e il cardinale Casaroli rinnovarono l’impegno e ne modellarono l’impalcatura alle mutate circostanze storiche. Insomma, il sunto spiccio è che ci sono cose in cui per legge e non per velleità “invasive” la Chiesa può mettere il naso nelle faccende dello Stato. E perché questa facoltà è stata esercitata a proposito del Dl Zan? Qui la faccenda si fa complicata e in aiuto arriva una “rinfrescata” su cosa disciplina il disegno di legge contro l’omotransfobia. Il Ddl voluto dal dem Alessandro Zan prevede la reclusione fino a 18 mesi o una multa fino a seimila euro nei confronti di chi commette o istiga ad atti di discriminazione. Inoltre prevede anche il carcere da 6 mesi a 4 anni nei confronti di chi istiga o commette violenza: poi, e qui lo snodo giuridico cruciale, prevede l’esercizio dell’azione penale per chi partecipa a organizzazioni che incitano a discriminazione o violenza. Il testo annovera dieci articoli con l’estensione dei cosiddetti reati d’odio per discriminazione razziale, etnica o religiosa a chi compia discriminazioni verso omosessuali, donne, disabili.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan viola il “diritto di discriminare”. In buona sostanza e per metterla giù bruta il Vaticano ritiene che il Dl Zan “discrimini il suo diritto a discriminare”, e siccome quel diritto è sancito da una legge precedente e prevalente (Il Concordato) quella successiva (Il Dl Zan) scardinerebbe spirito e legiferato del ‘29 e la conferma dell’84. Ma in quali punti si sostanzierebbe questo peloso paradosso giuridico? Nell’articolo 2 ed ai commi 1 e 3 della versione revisionata del Concordato del 1984. Leggiamo: “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”.

Concordato Vaticano-Italia, quali commi viola il Dl Zan. Poi il comma 3 che garantisce “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ora, dato per assunto che per sua impalcatura etica (discutibile) e per Diritto di Stato Sovrano (inattaccabile) il Vaticano fa un punto di orgoglio ed azione normativa manifestare il pensiero, per singole o associate istanze, secondo criteri che non sono proprio aderenti ed afferenti con la condanna dell’omotransfobia, una legge che vieta la manifestazione di quei sentimenti in realtà vieta al Vaticano di esercitare un diritto sancito da una legge, quella scaturita dall’accordo di Villa Madama, quando Stato e Chiesa “rinnovarono i voti” della pace fatta nel 1929.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan, le scuole e la Giornata Nazionale contro l’Omotransfobia. E sulla scorta di questo principio il Vaticano critica anche un altro effetto del Dl Zan: quello per cui le scuole private non sono esentate dal partecipare alla istituita Giornata Nazionale contro l’Omotransfobia. Le scuole cattoliche sono private e il Vaticano non vuole che i suoi spot didattici celebrino una cosa che proprio in forza della sua mistica didattica ritiene che non sia affatto faccenda da festeggiare.

Perché è impossibile abolire il Concordato. Andrea Muratore su Inside Over il 23 giugno 2021. Il Vaticano è entrato in gamba tesa nel dibattito pubblico italiano pronunciandosi ufficialmente sul Ddl Zan-Scalfarotto, il discusso e controverso disegno di legge sull’omotransfobia che violerebbe l’accordo di revisione del Concordato siglato nel 1984 dalle autorità d’Oltretevere e dal governo italiano di Bettino Craxi. Secondo la Santa Sede, infatti, il Ddl sull’omotransfobia andrebbe rivisto (non eliminato, come erroneamente riportato) laddove violerebbe la libertà garantita alla Chiesa cattolica dall’articolo 2, commi 1-3 dell’accordo di revisione del Concordato  che assicurano alla Chiesa Cattolica in Italia “libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale”  e garanzie “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. “Chi ha concordato il Concordato?” è stato il commento del principale alfiere del Ddl Zan nel dibattito pubblico italiano, Fedez, che assieme a diversi esponenti della sinistra progressista ha alzato le barricate contro il Vaticano in una giornata, quella del 22 giugno, che dopo le esclusive rivelate dal Corriere della Sera è stata caratterizzata da un forte tam-tam mediatico e social attorno all’ipotesi radicale di abolizione del Concordato. La nostra società odierna vive chiaramente in una fase contraddistinta dalla fine del mito dei competenti, e questo è palesemente sotto gli occhi di tutti, ma il mondo dei social, degli influencer e dell’immediatezza ha prodotto un fenomeno decisamente inverso, una diffusione generalizzata e spesso dannosa di opinioni semplicistiche, raffazzonate e fuorvianti, molto spesso promosse proprio da coloro che hanno i seguiti più vasti di follower e contatti. Riccardo Magi, deputato di +Europa, è stato il primo esponente delle istituzioni a portare nel dibattito il tema dell’abolizione del Concordato in ritorsione alla mossa senza precedenti della Santa Sede. Una posizione che, come vedremo, è semplicemente inattuabile. In primo luogo perché il Concordato fondato sui Patti Lateranensi del 1929 e sugli Accordi di Villa Madama del 1984, sottoscritto da Italia e Santa Sede, ha un surplus di profondità giuridica e politica, stabilendo di fatto la costituzione della Città del Vaticano come Stato sovrano ed indipendente e trovandosi ad essere un ibrido tra un trattato internazionale e un accordo tra un’istituzione politica e una confessione religiosa come molti stipulati in precedenza dai Papi sin dai tempi di Napoleone. In secondo luogo, perché la Costituzione italiana, all’Articolo 7 (dunque nel pieno dei principi fondamentali dello Stato), tutela con forma speciale l’intesa siglata dal nostro Paese con la Chiesa cattolica e le sue istituzioni. Il fatto che l’Articolo affermi che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” segnala per che motivo la nota vaticana si sia concentrata sulle questioni di merito del Ddl Zan e non sia stata strutturata come un’entrata in gamba tesa rischiosa. Nel 1948 la Costituzione entrò in vigore anche grazie alla mediazione che la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista riuscirono a trovare sull’inserimento del Concordato nella suprema carta, accettato con lungimiranza da Palmiro Togliatti. In sostanza, nota Il Sussidiario, “la Costituzione italiana ha tutelato la realtà considerata parte integrante del sistema di valori civili, morali, politici e religiosi – ovvero la Chiesa: se questo dovesse cambiare in futuro, non è dato saperlo ad ora e di certo non dovrebbe essere il punto di discussione all’interno di un disegno di legge in tema di diritti civili-libertà di opinione”. Infine, vi è una questione d’ordine politico di cui tenere conto. Il Vaticano non ha fatto, in fin dei conti, che esplicitare in termini chiari e precisi quanto già sottolineato dalla Conferenza episcopale italiana, che nelle scorse settimane non aveva chiuso unilateralmente al Ddl Zan ma chiesto solo, semplicemente, che i punti più controversi venissero chiariti e sanati. La nota con l’appello al Concordato è sicuramente dura, ma in sostanza dà applicazione a quanto aveva espresso nelle scorse settimane il cardinale Bassetti, presidente della Cei, che rispetto al ddl Zan contro l’omofobia aveva dichiarato che ci fosse ancora tempo per un “dialogo aperto” per arrivare a una soluzione priva di “ambiguità e di forzature legislative”. E la reazione aperturista di Enrico Letta, segretario di quel Partito Democratico che è il primo propugnatore della nuova legge, alla nota vaticana fa capire che proprio questo è l’obiettivo politico dell’Oltretevere. Il punto, dunque, è sulla lettera del Concordato, sui suoi articoli espliciti, e non sulla ratio di fondo che ne ha giustificato la promozione e la stipulazione. Ogni dibattito da social sugli inviti al governo italiano a recedere unilateralmente da un accordo che regola i rapporti con la principale confessione religiosa del Paese e determina l’indipendenza di uno Stato sovrano per le questioni del Ddl Zan è semplicemente malposto o fuorviante. Sarà la mediazione politica a dover sanare ogni effettivo punto di attrito.

Il sospetto di Bizzarri che asfalta la sinistra: "Ddl Zan scritto male?". Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Luca Bizzarri si espone domandando se, forse, il ddl Zan non avesse problemi di stesura e contro di lui si è scatenato il fuoco amico. Se anche a sinistra iniziano a esserci dubbi sul ddl Zan, forse un problema effettivamente esiste. E Luca Bizzarri ci ha provato a farlo notare su Twitter con una lucidità invidiabile, la stessa con la quale si è poi dovuto difendere dai kompagni per aver azzardato una critica al disegno di legge di Alessandro Zan, che da ieri è tornato al centro dell'attenzione per l'appunto fatto dal Vaticano sulla possibilità che nella sua attuale stesura violi il Concordato. "Però, dopo mesi, dopo che viene attaccata da destra (evabè, ci sta) da una parte di sinistra, dalle femministe, e ora pure dai preti… Non è che questa legge Zan è, semplicemente, scritta male? Perché a volte i pasticci e gli slogan fanno più danni degli omofobi, temo", ha scritto l'attore sollevando un legittimo dubbio. La legittimità del dubbio e il diritto di critica, però, non fanno parte del mondo radical chic, al quale comunque Bizzarri appartiene. Infatti sono bastati pochi minuti all'attore per ricevere centinaia di commenti, molti dei quali infarciti di populismo spiccio e di poca conoscenza dell'argomento. Diversi anche i personaggi noti che hanno contraddetto Luca Bizzarri, che ha semplicemente espresso un suo libero pensiero in merito al ddl Zan sul quale, forse, i kompagni vorrebbero non ci fosse critica in nome di un concetto democratico molto particolare. A Luca Bizzarri, per esempio, ha risposto Luca Viotti, ex europarlamentare del Partito democratico: "No, caro Luca. Sul #ddlzan decine di giuristi hanno scritto opinioni favorevoli e contrarie. Puoi leggerli, farti un’idea e sostenerla pubblicamente. Fare una domanda su twitter sai bene che non risolverà il tuo dubbio ma, ripeto, creerà polemiche e avvelenerà i pozzi". Quindi Twitter va bene solo per fare propaganda pro ddl Zan per i dem, non per sollevare dubbi? E infatti Luca Bizzarri ha replicato: "Scusa ma sei tu che dici che decine di giuristi hanno scritto opinioni favorevoli E CONTRARIE. Visto che le ho lette, mi chiedo se non sia migliorabile. O quei giuristi con idee contrarie sono tutti dei pericolosi omofobi? Ma perché ogni volta che mi dai torto poi mi dai ragione?". Messo con le spalle al muro, Viotti ha risposto: "Se hai letto quelle opinioni ti sarai già fatto un’idea: la legge va bene o non va bene. Dì liberamente quel che pensi e se pensi che sia 'migliorabile' aiuta il dibattito dicendoci cosa va modificato, quali parti". E Luca Bizzarri ci ha provato a dire la sua sul modo di migliorare il ddl Zan: "Per esempio vorrei sapere se nella legge viene trattato il caso in cui qualcuno possa dirti: 'Puoi partecipare al dibattito ma solo nei modi e nei termini che dico io'". Ma dopo questa domanda, di Viotti, si sono perse le tracce. Luca Bizzarri ha avuto modo di scontrarsi anche con un giornalista che, per aver espresso un dubbio sul ddl Zan, ha accusato l'attore di sostenere le fake news. E la reazione di Bizzarri non si è fatta attendere: "Ma cosa sostengo? Ma quali fake news? Lo ripeto, la reazione pavloviana di quelli come te che se uno non urla immediatamente 'bravo, giusto!' ma si pone semplicemente delle domande sulla soluzione (sul problema siamo tutti d’accordo, spero) sarebbe esilarante, non fosse tragica".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Ma l'ingerenza è un autogol. Marco Zucchetti il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Per anni, chi in Italia ha difeso la sacrosanta libertà di parola e pensiero delle gerarchie ecclesiastiche sui temi etici della politica italiana, ha usato un argomento semplice: la Chiesa fa la Chiesa. Per anni, chi in Italia ha difeso la sacrosanta libertà di parola e pensiero delle gerarchie ecclesiastiche sui temi etici della politica italiana, ha usato un argomento semplice: la Chiesa fa la Chiesa. Ovvero tutela legittimamente il suo magistero, la sua dottrina, anche i suoi interessi. Ma se appelli, prediche e moral suasion sono un diritto, l'atto formale con cui il Vaticano chiede al governo italiano «non di bloccare, ma di rimodulare» il disegno legge Zan è qualcos'altro. Non una discussione fra due istituzioni (e Nazioni, giova ricordarlo), ma una battaglia di carte bollate su una norma, peraltro non ancora promulgata. È il segno che la Chiesa, oltre a fare la Chiesa, torna a sentire l'impulso - covato dai tempi di San Pietro e messo in soffitta dalla breccia di Porta Pia e dal Non expedit - di fare anche lo Stato. Su questo Giornale lo abbiamo scritto molte volte: il disegno di legge Zan contro l'omotransfobia è divisivo, pasticciato e presenta più di un nodo sulla salvaguardia della libertà di pensiero e sulla propaganda fra i minori a scuola. Posto che queste criticità sono state espresse da un ventaglio molto eterogeneo di categorie, dai comunisti ai vescovi, dalle femministe ai conservatori, davvero serviva al dibattito questa specie di anatema? L'intervento della Santa Sede sposta il centro del discorso. Perché ora non si discetta più di una legge buona o cattiva, ma di chi deve decidere se lo è. E la sensazione è che anche quei liberali che osteggiano il provvedimento siano infastiditi da un'ingerenza così pesante. Gli italiani meritano di essere rappresentati da una classe politica che si prenda la responsabilità di decidere se il ddl Zan fa schifo, è ottimo o è da modificare, senza essere imbeccata o commissariata da un'autorità esterna. Invece lo spettacolo dei partiti in queste ore è penoso. La sinistra degli ultrà arcobaleno che ha fatto muro in Parlamento ora si affretta a dire che è giusto dialogare. I sovranisti che tuonavano contro il «ce lo chiede l'Europa», ora esultano se le richieste arrivano da Oltretevere. Pochi che ricordino un semplice punto: compito degli eletti, a cui spetta il potere legislativo da Costituzione, è ascoltare tutti (dunque anche una Chiesa cristiana cattolica su cui si fonda la cultura nazionale) e poi legiferare in autonomia, salvo assumersi le responsabilità davanti agli elettori delle proprie scempiaggini. E sull'eventuale incompatibilità con i trattati internazionali è la Consulta a doversi esprimere. Fine della querelle dallo stantio sapore Risorgimentale. Invece questa scomposta entrata a gamba tesa senza precedenti polarizza le posizioni, rinfocola le solite accuse da bar alla Chiesa che non paga le tasse e difende i pedofili e riesce nel miracolo di trasformare un provvedimento discutibile nella bandiera dell'indiscutibile primato dello Stato laico. Così che - invece di salvaguardare «la libertà garantita ai cattolici dall'articolo 2 del Concordato» - il Parlamento finirà per approvare la legge per ripicca, e per dimostrare un'orgogliosa autonomia (presunta). Con il risultato che la legge passerà e limiterà la libertà di tutti, non solo dei cattolici. In punta di diritto starà ai giuristi decidere se la protesta è fondata. Ma politicamente è un autogol goffo, ostile e anche un po' fastidioso. Viene da dire che per fortuna chi amministra il Vaticano non viene eletto a suffragio universale: difficilmente verrebbe rieletto. Marco Zucchetti

La nota, gli incontri e il Papa: ecco cosa è successo in Vaticano. Francesco Boezi il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Il Vaticano reagisce al Ddl Zan. Con l'atto formale emerso ieri, la Santa Sede rivendica libertà. Ecco cosa si muove in queste ore tra le mura leonine. Molti si stupiscono perché non se lo sarebbero mai aspettato. Ma l'atto formale con cui il Vaticano è intervenuto sul Ddl Zan, oltre a essere legittimo, è in linea con quanto scritto e detto in materia bioetica (e non solo su quella) durante questo pontificato. La nota verbale di cui si parla in queste ore è un atto formale. Se la Conferenza episcopale italiana avesse espresso un parere non sarebbe stato lo stesso, e non avrebbe fatto il medesimo rumore. Ecco perché, con buone probabilità, la protagonista di questa vicenda è la Segreteria di Stato. Non solo: visto che l'oggetto della discussione è divenuto il Concordato, è normale che a intervenire sia il dicastero presieduto dal cardinale Pietro Parolin. Diviene un discorso di competenze, cosa che Oltretevere è ancora molto sentita.

La scelta dei tempi. Le tempistiche sono un fattore da non sottovalutare in questa storia. Sarebbe stata una "interferenza", come vanno denunciando adesso certi ambienti progressisti, se l'iter parlamentare fosse appena iniziato. Ma il Ddl Zan è già in discussione, e ad oggi più di qualche esponente politico di spessore ha già rimarcato la necessità di approvarlo così com'è. Poi c'è chi come il segretario del Pd Enrico Letta sembra aver cambiato idea in maniera repentina. Il timing dei sacri palazzi, insomma, sembra tenere conto pure della politica e dei suoi tempi. Perché siamo in una fase avanzata.

Quegli incontri nei Sacri Palazzi. Fonti qualificate hanno riferito a ilGiornale.it di incontri che sarebbero avvenuti nei giorni scorsi, in particolare di meeting tra la segreteria di Stato ed esponenti del mondo conservatore. Insomma, qualcuno dotato di un certo peso politico avrebbe insistito con il "ministero degli Esteri" della Santa Sede con motivazioni tagliate sulle criticità del Ddl in oggetto. Altre fonti sostengono che la segreteria di Stato avesse già deciso di agire attraverso una mossa ufficiale, che si sarebbe declinata nelle asserzioni che vengono accostate a monsignor Paul Richard Gallagher. Se ne dicono tante. Certo è un evento raro. E questo forse perché quasi mai una norma aveva messo in discussione il Concordato nella sua stessa impostazione. Almeno stando ai contenuti della nota che sono rimbalzati ieri di quotidiano in quotidiano. L'alto ecclesiastico originario di Liverpool, del resto, avrebbe posto proprio la questione del rispetto del Concordato, che è un architrave della storia diplomatica italiana e vaticana:"Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall'articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato". Tra le frasi che abbiamo avuto modo di leggere, quella sulla libertà garantita alla Chiesa cattolica; è di sicuro tra le più rilevanti. Roma ne fa pure una battaglia di libertà, quindi.

I protagonisti della vicenda e il ruolo del Papa. I protagonisti di questa vicenda sono almeno tre. Il primo è il cardinale Pietro Parolin, teorico e pratico del multilateralismo diplomatico e figura chiave di questo pontificato. Il secondo è monsignor Paul Richard Gallagher, che sarebbe l'autore della nota e dunque il consacrato preposto, pure per via del suo status di segretario per i Rapporti con gli Stati, ad occuparsi in prima persona della faccenda. Infine, Papa Francesco, che molti associano al progressismo ideologizzato (quindi indirettamente ad un presunto riguardo verso qualunque provvedimento provenga da parte progressista), ma che non può non aver letto i contenuti della nota verbale. Questa storia secondo cui il pontefice argentino non verrebbe messo al corrente di alcune prese di posizione ufficiali provenienti dalle mura leonine ( o che non le condividerebbe) è ormai un leitmotiv. In termini di procedure tipiche nelle stanze vaticane, però, è sostanzialmente impossibile che un atto del genere venga inoltrato senza la previa visione ed approvazione del pontefice. Vale pure per le benedizioni alle coppie omosessuali che certi ambienti tedeschi vorrebbero approvare. Jorge Mario Bergoglio, sin da quando si è seduto sul soglio di Pietro, ha identificato la cosiddetta "teoria gender" - quella che per i conservatori sarebbe alla base del Ddl Zan - con qualcosa che andrebbe "contro il progetto di Dio". Ipotizzare che Francesco la pensi in un modo e la segreteria di Stato in un altro, dunque, risulta un po' forzato, per usare un eufemismo. Possibile che la Curia viva una fase di scontro interno? Pensare che all'interno del Vaticano esistano sia ecclesiastici favorevoli al Dll Zan sia elementi contrari è del tutto naturale. La Chiesa cattolica, durante questi ultimi decenni, è stata animata da un pluralismo che coinvolgerà in via indiretta anche certi scossoni legislativi che la politica avrebbe intenzione di dare. Questo però non può significare che la segreteria di Stato agisca senza badare al pensiero e alla pastorale del sovrano pontefice.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario

Il risveglio della Chiesa. Felice Manti il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Eppur si muove. La Chiesa tuona contro le storture del ddl Zan che vincola la libertà di pensiero. Di tutti, non solo dei cattolici. Eppur si muove. La Chiesa tuona contro le storture del ddl Zan che vincola la libertà di pensiero. Di tutti, non solo dei cattolici. Lo fa a sorpresa, senza troppe liturgie, con un atto inusuale che i detrattori del Papa ammantano di fragilità per svilirne la potenza, ovattarne il fragore. E invece è un sussulto d'orgoglio che fa tremare chi pensava di poter addomesticare un pensiero che sopravvive immutato da migliaia di anni. E che risveglia un senso di appartenenza un po' sfiorito sotto i colpi della secolarizzazione, ammonendo tutti che la liquidazione dei cattolici è ancora di là da venire. È come negli anni Settanta, osserva qualcuno, quando la Chiesa ha scommesso contro l'aborto e il divorzio. Ha perso una battaglia, certo. Ma non la sua identità. Con questa nuova scommessa il Vaticano rivendica il suo bottino, la supremazia dei suoi valori non negoziabili, striglia una classe politica imbelle, le ricorda che non si possono mescolare diritti e desideri e superare indenni la traversata del Tevere. Certo, passata la paura per la scossa che ha terremotato il Parlamento, l'armata Brancaleone del ddl Zan ha schierato i suoi cavalli e i suoi alfieri a difesa della laicità dello Stato. Ex sacerdoti sposati con uomini, cantanti convintamente mai battezzati, laici di professione, tutti insieme appassionatamente a sperticarsi di esegesi biblica, a interpretare la parola di Dio al Vaticano e alla Cei, ad ammonire i cattolici, a vagheggiare di una Chiesa profondamente divisa. Come se uno juventino volesse spiegare il tremendismo granata al Grande Torino, e fa già ridere così. Anziché entrare nel merito del ddl Zan e della sua deriva ideologica si ritira fuori il solito distillato anticlericale, «pénsino ai preti pedofili», «e allora l'Imu», «aboliamo il Concordato». Chi lodava il Bergoglio pro immigrazione ora ne reclama l'interferenza, smascherando la sua sulfurea ipocrisia. Puoi parlare finché reciti a memoria il pensiero unico. Ma non praevalebunt, non prevarranno. Non questa volta. La ferita al Paese aperta negli anni Settanta brucia ancora. Per spezzare «in nome del popolo sovrano» un legame deciso a tavolino, senza sentimenti e pieno di violenza, abbiamo svuotato i legami familiari, abusandone fino a codificarli in mediocri contratti. Per togliere al padre padrone qualsiasi diritto sul corpo della donna abbiamo spento la luce a milioni di creature la cui unica colpa è non avere parola, figurarsi diritto di voto. Oggi la risposta è una famiglia frammentata, l'utero che si voleva proteggere si svende al mercato della genetica. Il nuovo, comodo alibi si chiama «omotransfobia», lo spauracchio è la violenza contro gli omosessuali. Fenomeno spregevole, già ampiamente normato e lontano dall'essere un'emergenza, a meno di una difficile alchimia statistica. Lo dice un costituzionalista «laico» come Michele Ainis: «Il ddl Zan è superfluo perché le fattispecie che enumera sono tutte già nel nostro codice penale». Imporre una giornata sulle teorie gender alle scuole elementari, cattoliche o meno, è un abominio. Si vuole manipolare la chimica, la biologia e financo l'italiano per rivendicare una presunta molteplicità di identità di genere, rendere eguali nelle officine dell'ipocrisia le diversità, imbrigliare l'intimità e renderla mutevole in base a una «percezione», indipendentemente da un «percorso di transizione sessuale». Una fictio juris, che inventa una realtà che non esiste. Come sempre la Chiesa, che mette al centro la persona, non i suoi desideri, rivendica una verità cristallina. Eppure, in questi tempi è un atto rivoluzionario, il peso di una croce che solo la Chiesa può sollevare senza il timore di soccombere. Felice Manti

DAGONEWS il 23 giugno 2021. Come riportato nel suo articolo di oggi sul “Corriere della Sera” da Massimo Franco, la diffusione della nota verbale del Vaticano sul DDL Zan è uno sgambetto che colpisce il Papa, ma principalmente indirizzato al Cardinal Bassetti, segretario della Conferenza Episcopale Italiana. A far circolare il documento è stato “il partito di Ruini”, che ha voluto mandare un segnale contro la timidezza e l’immobilismo delle gerarchie ecclesiastiche sul disegno di legge. Tra le mura leonine si vocifera di un messaggio fatto recapitare da Bergoglio direttamente a “Mariopio” Draghi: “Pace con l’Italia”. Un segnale di via libera al DDL Zan che passerà con piccoli ma sostanziali aggiustamenti.

Massimo Franco per il "Corriere della Sera" il 23 giugno 2021. «Se non fossimo intervenuti, rischiavamo un pronunciamento della Cei simile a quella su Joe Biden dei vescovi americani contrari a dare la comunione ai politici che sostengono il diritto all' aborto». La lettura che nel cuore del potere vaticano si dà dello strappo della Santa Sede sulla legge Zan in materia di omofobia rimanda agli equilibri precari nel mondo cattolico; al rapporto complicato tra il papato di Francesco e l'episcopato italiano; e all' insoddisfazione nei confronti del presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti, e della stampa di area cattolica, accusati sottovoce di eccessiva timidezza. Le rimostranze contro governo e Parlamento dove è in discussione una legge contestata e divisiva vanno filtrate con lenti che non riguardano soltanto le relazioni con Palazzo Chigi, il M5S e una parte consistente della sinistra. La nota di protesta della quale ha dato notizia il Corriere, con l'accusa di violare alcune norme del Concordato, è in primo luogo un modo per ricompattare un'unità in bilico. E riflette la preoccupazione della Chiesa italiana di ritrovarsi con una legislazione che farebbe finire «nel tritacarne delle accuse di discriminazione e omofobia» qualunque sacerdote. D' altronde, erano mesi che cresceva la pressione di alcuni settori dell'episcopato su Bassetti. Si voleva una presa di posizione netta, dura: anche a costo di essere accusati di un'ingerenza di altri tempi. Ma si è aspettato a causa dell'epidemia del coronavirus, e dell'esigenza di non esasperare una contrapposizione sgradita al Papa e scivolosa per le implicazioni politiche. «La Cei aveva parlato due volte, ma con toni troppo accomodanti», si spiega. «Un segnale di debolezza». Esponenti come l'ex presidente della Cei, Camillo Ruini, hanno dato voce a chi voleva un atteggiamento di netta contrarietà. Ai vescovi che lo hanno interpellato, Ruini ha detto che occorreva «battersi nella certezza di avere ragione». Secondo il cardinale, «sarebbe una follia se con la legge Zan si pretendesse di chiuderci la bocca, di non farci insegnare il catechismo. È una legge che non può essere applicata così com' è». La svolta vaticana si è avuta dopo che il 17 giugno scorso l'ambasciatore d' Italia presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, ha ricevuto la nota dalle mani del «ministro degli esteri», l'inglese monsignor Richard Gallagher. Alla fine ha prevalso l'esigenza di battere un colpo, per quanto clamoroso e senza escludere l'eventualità di un irrigidimento delle forze politiche. Nell' iniziativa vaticana si avverte un calcolo: quello di dividere partiti e schieramenti meno granitici nel sostegno alla legge di quanto appaia ufficialmente. La legge Zan è considerata figlia di una fase di governo cementata lungo l'«asse radicaleggiante», viene definito così, tra l'allora premier grillino Giuseppe Conte e l'allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Sotto voce, esponenti dei Cinque Stelle e del Pd ammettono che qualche ragione il Vaticano può accamparla. È noto, ad esempio, che in questi mesi si sono consolidati i rapporti tra monsignor Gallagher e il ministro degli Esteri grillino, Luigi Di Maio. Ma si tratta di posizioni che appaiono minoritarie. Anche perché non mancano nemmeno vescovi perplessi dall' iniziativa presa da Gallagher per conto della segreteria di Stato e avallata da Francesco. Il timore è che ridia fiato a chi invoca una disdetta del Concordato; a chi chiede alla Chiesa di pagare gli arretrati sui suoi immobili; e punta il dito contro la pedofilia dei sacerdoti. A caldo qualcuno ha tentato perfino di accreditare la nota della Santa Sede come «uno sgambetto a Bassetti e un dispetto al Papa»: tesi grottesca e insultante nei confronti del pontefice. La realtà è che l’asse giallorosso M5S-Pd ha avuto a lungo sponde potenti nelle gerarchie cattoliche. La confusione delle reazioni che l'iniziativa sta provocando testimonia quanto la mossa arrivata da Oltretevere spiazzi posizioni date per scontate. Al vertice del Pd, che un Ruini defilato definisce in privato «una pagliuzza», il segretario Enrico Letta ha parlato subito della possibilità di ridiscutere alcuni aspetti giuridici del disegno di legge, pur difendendone l'impianto. Il problema è che voci anonime filtrate dal partito hanno ribadito una linea di chiusura totale. Il Vaticano ora fa sapere che l'obiettivo è «rimodulare, non bloccare la legge Zan». Il leader della Lega, Matteo Salvini, schierato con la Cei col resto del centrodestra, con toni moderati ha chiesto di vedere Letta per trovare una mediazione. Ma non sarà facile, con un sistema politico e un mondo cattolico divisi e sfibrati. Forse è un caso ma è in uscita un libro di intellettuali cattolici, tra cui Giuseppe De Rita, Andrea Riccardi e Romano Prodi, ma anche la regista Liliana Cavani, sul declino della Chiesa italiana. Titolo: «Il gregge smarrito».

Fiorenza Sarzanini e Francesco Verderami per "il Corriere della Sera" il 23 giugno 2021. La segreteria di Stato vaticana «auspica che la parte italiana possa tenere in debita considerazione le argomentazioni e trovare così una diversa modulazione del testo continuando a garantire il rispetto dei Patti lateranensi». Eccolo il passaggio chiave della nota verbale consegnata dal cardinale Paul Richard Gallagher il 17 giugno e subito tramessa dall' ambasciatore italiano presso la Santa Sede Pietro Sebastiani al ministero degli Esteri, a Palazzo Chigi e al Quirinale. Ecco la frase che impegna il governo - la «parte italiana» - a trattare. La comunicazione è giunta per via diplomatica, ma non c' è dubbio che il premier fosse già stato informalmente messo a parte dalla Sante Sede del disagio per la possibile approvazione della legge, se è vero - come sottolinea un ministro - che «le note verbali sono elementi abituali, sempre frutto di precedenti incontri». Numerose fonti di governo lo confermano, spiegando come sia «impensabile che il Vaticano abbia formalizzato una posizione così netta senza alcuna avvisaglia precedente. Il tema viene valutato con grande attenzione». E già oggi in Parlamento Mario Draghi dirà che «dovranno essere valutati gli aspetti segnalati da uno Stato con cui abbiamo rapporti diplomatici». Un modo per rispondere alle sollecitazioni vaticane in attesa di trovare - grazie anche al lavoro degli esperti - una soluzione che non appare facile. Il disegno di legge Zan è infatti già stato approvato dalla Camera e l'esecutivo dovrà scegliere la strada per inserirsi nel percorso parlamentare senza «interferire». Secondo la Santa Sede «alcuni contenuti della proposta legislativa avrebbero l'effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa e ai suoi fedeli». La norma contestata riguarda la mancata esenzione delle scuole cattoliche dalle attività previste nella Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia e la transfobia. In particolare si stigmatizza «il riferimento alla criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi fondati sul sesso». Nella nota verbale c' è un passaggio in cui si sottolinea che «ci sono espressioni della sacra scrittura e della tradizione ecclesiale del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa rivelazione divina». Proprio sulla base di questa considerazione si sollecita la revisione del ddl Zan. Da qui si dovrà adesso ripartire per sbrogliare la matassa di una legge che aveva già evidenziato profonde divisioni tra i partiti della maggioranza. Una moral suasion da portare avanti con estrema cautela, ma anche con la determinazione di non mettere in discussione gli accordi tra l'Italia e lo Stato Vaticano. La reazione del premier Draghi nel corso della conferenza stampa convocata dopo l'incontro con la presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen, a chi gli chiedeva che cosa farà il governo, dimostra quanto spinosa sia la questione. «È una domanda importante», ha sottolineato evidenziando la necessità di «rispondere in maniera strutturata». E così confermando l'esigenza di garantire i rapporti con la Santa Sede, di salvaguardare l'indipendenza del Parlamento ma anche di accompagnare l'approvazione di norme che proteggano le libertà. Per questo viene letto come un segnale importante la scelta del ministro per gli Affari europei Vincenzo Amendola di firmare - insieme ad altri 13 Stati membri dell'Unione - una «richiesta di chiarimenti» avanzata nei riguardi dell'Ungheria su alcune leggi approvate in quel Paese che «producono discriminazioni in base all' orientamento sessuale». E finora «non sono arrivati chiarimenti soddisfacenti». Intervenendo oggi in Parlamento, Draghi fornirà chiarimenti lasciando probabilmente intendere che la soluzione non è comunque imminente. Servirà una riflessione approfondita, e il tempo verrà usato per far decantare il clamore. Magari consentendo ai gruppi della larga maggioranza di lavorare a un compromesso su un testo che è diventato terreno di scontro politico. E che peraltro non avrebbe i numeri per essere definitivamente approvato. Si vedrà se la mossa del Vaticano spingerà i partiti verso un accordo. 

l "non possumus" sui diritti scatena la rissa tra partiti. Cosa sono i Patti Lateranensi e cosa c’entrano con il Ddl Zan. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 23 Giugno 2021. È un fatto senza precedenti (almeno quelli noti) la richiesta del Vaticano al governo italiano di modificare il ddl Zan, il disegno di legge contro l’omofobia. Dalla Segreteria di stato – secondo quanto ha rivelato ieri il Corriere della Sera – è partita una nota a firma del segretario vaticano per i Rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher. Nel documento, prontamente inoltrato al governo dall’Ambasciatore italiano presso la Santa Sede – che l’ha ricevuto il 17 giugno – si sottolinea che alcuni passaggi del decreto legge Zan violerebbero “l’accordo di revisione del Concordato” del 1984. Secondo quanto è trapelato la Nota rileva che «alcuni contenuti della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato». Di che si tratta esattamente? Il comma 1 dice: “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. Il comma 3 stabilisce invece che «è garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Il costituzionalista Cesare Mirabelli ha spiegato quali siano le questioni problematiche in una lunga conversazione con VaticanNews, la testata informativa italiana del Dicastero per la Comunicazione. «Non si tratta di contestare o di contrastare la protezione particolare che vuole essere assicurata a determinate categorie di persone», ha spiegato Mirabelli. Gli aspetti rischiosi hanno a che fare con la tutela «della libera espressione di convinzioni che possono essere legate a valutazioni antropologiche su alcuni aspetti. È particolarmente rischioso se la previsione di norme penali possano limitare la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero. Sotto questo aspetto la nota verbale della Santa Sede è una comunicazione che viene fatta, una segnalazione di attenzione per il rischio di ferire alcuni aspetti di libertà che l’accordo di revisione del Concordato assicura. Non si chiedono quindi privilegi». In maniera ancora più specifica il costituzionalista ha notato: «Si deve evitare che ci sia un rischio di sanzionare penalmente espressioni o comportamenti che sono riconducibili a convincimenti, ma che non sono né di aggressione, né di violenza, né di incitazione all’odio, anche se possono altri su queste opinioni fondare le loro condotte». Inoltre un “punto critico” riguarda la libertà della scuola e la libertà educativa dei genitori. «Se varata (la legge Zan, ndr), questo tipo di garanzie, che la legge vuole introdurre, diventa una presenza non allineata con l’impostazione educativa dei genitori o l’orientamento, ad esempio, di istituzioni che possono essere cattoliche, ma anche di altro orientamento culturale, che hanno una diversa identità». Tra le questioni sollevate c’è il fatto che le scuole cattoliche non sarebbero esentate dall’organizzazione della futura Giornata nazionale contro l’omofobia, ma si evidenziano anche timori più generali per la “libertà di pensiero” dei cattolici e anche delle possibili conseguenze giudiziarie nell’espressione delle proprie idee. Sollecitata in proposito, la Sala stampa vaticana ha confermato all’agenzia Ansa l’intervento sul ddl Zan, spiegando che ha l’obiettivo “non di bloccare” il ddl Zan ma di «rimodularlo in modo che la Chiesa possa continuare a svolgere la sua azione pastorale, educativa e sociale liberamente». Tra i capi-dicastero della Santa Sede, è toccata una domanda, nella conferenza stampa di ieri su tutt’altro tema, al cardinale Kevin Joseph Farrell, Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. Il porporato ha spiegato genericamente che «certamente c’è la preoccupazione della Santa Sede e di ciascuno di noi». Sul piano politico, dopo le anticipazioni del Corriere della Sera, sono fioccate le dichiarazioni dei partiti. Il deputato Pd Alessandro Zan non ha dubbi: «Il testo non limita in alcun modo la libertà di espressione, così come quella religiosa. E rispetta l’autonomia di tutte le scuole». Il segretario del Pd Enrico Letta, su Twitter, ha scritto: «Attendiamo quindi di vedere i contenuti della Nota della Santa Sede lì preannunciata. Ma abbiamo fortemente voluto il ddl Zan, norma di civiltà contro reati di odio e omotransfobia e confermiamo il nostro impegno a farla approvare». «Sul ddl Zan io sono pronto a incontrare Letta, anche domani, per garantire diritti e punire discriminazioni e violenze, senza cedere a ideologie o censure, e senza invadere il campo di famiglie e scuole», ha sottolineato il leader della Lega, Matteo Salvini, sempre su Twitter. Il senatore leghista Andrea Ostellari ha precisato che dopo aver sentito la presidente del Senato «ho fatto richiesta formale di acquisire il testo della rilevante nota che lo Stato Vaticano ha inviato alla Farnesina. Ai fini del lavoro che sta compiendo la commissione Giustizia del Senato, è fondamentale conoscere e valutare i rilievi sollevati dalla Santa Sede». Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay, dal canto suo rileva che «l’attivazione della diplomazia Vaticana con l’utilizzo del Concordato per cercare di bloccare l’iter della legge Zan al Senato è un qualcosa senza precedenti nelle relazioni tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, il tentativo esplicito e brutale è quello di sottrarre al Parlamento il dibattito sulla Legge e trasformare la questione in una crisi diplomatica, mettendola nella mani del Governo Draghi per far si che tutto venga congelato». Per Antonio Tajani di FI «non siamo una caserma e ci sarà qualcuno che può pensarla in maniera diversa». Per la ministra della Famiglia Elena Bonetti «c’è un dibattito in Parlamento e Italia Viva porta avanti un’idea di ricomposizione della politica. Per dotare il Paese di una legge che condanni l’omotransfobia va usato il metodo del dialogo tra i partiti, non del dibattito ideologico». Barricadero Nicola Fratojanni, segretario nazionale di Sinistra Italiana: «Occorre che governo e Parlamento reagiscano in modo deciso. E voglio dire al Vaticano che, se vede minacciato il Concordato, allora quel Concordato lo possiamo anche ridiscutere».

La Conferenza episcopale italiana è intervenuta due volte, il 10 giugno 2020 ed il 28 aprile 2021, per ribadire che non serve una nuova legge rispetto alle norme attualmente esistenti che puniscono l’omofobia. Il presidente dei vescovi italiani, cardinale Bassetti, il 17 maggio, sempre al Corriere della Sera, diceva che «se si ritiene utile una legge specifica contro l’omofobia, va bene», ma occorre “la chiarezza”: perché «così com’è ora è un testo che si presta a essere interpretato in varie maniere e può sfociare in altre tematiche che nulla hanno a che vedere con l’omofobia, gli insulti o le violenze». Ma l’ultima parola spetterà a Mario Draghi. «Domani io sono in Parlamento e risponderò in maniera ben più struttura di quanto possa fare oggi», ha detto il premier a margine della conferenza stampa con Ursula von der Leyen.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Vittorio Feltri e la follia del ddl Zan: "Vietato dire onora il padre e la madre", i Dieci Comandamenti da stracciare. Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. “Occhio. Se passa la legge Zan bisogna correggere i dieci comandamenti: non si potrà dire onora il padre e la madre, ma onora il genitore uno e il genitore due. Divertente”. Così Vittorio Feltri in un commento su Twitter ha scatenato la sua proverbiale ironia, centrando però un punto importante. Sul ddl Zan la discussione si è infiammata nuovamente dopo che il Vaticano ha chiesto formalmente di modificare alcuni passaggi che violerebbero il Concordato. Ovviamente si è scatenata una feroce polemica politica, anche se Pd e M5s si sono poi tirati indietro alla Camera, non ponendo la questione a Mario Draghi, che pure aveva fatto sapere di aver preparato una risposta articolata. Si confida che al Senato qualcuno si faccia avanti, anche perché gli italiani pretendono giustamente risposte. Nel frattempo Feltri nel suo editoriale odierno ha espresso il suo punto di vista: “Il Vaticano c’è. È uno Stato che con l’Italia ha firmato un concordato che fissa le regole di buon vicinato. E queste regole vanno rispettate in forma bilaterale”. “Pertanto - ha aggiunto - è da fessi prendersela col monsignor Gallagher, ministro degli Esteri del Papa, soltanto perché dichiara apertis verbis che la legge Zan, di cui si discute da tempo, non è conforme ai patti sottoscritti tra la chiesa e il nostro nevrotico paese. Attaccare i preti, come sta avvenendo, poiché la pensano diversamente dai progressisti è una operazione scorretta sotto ogni punto di vista”. 

Ddl Zan, Vittorio Feltri denuncia la vergogna della sinistra: i compagni che vogliono imbavagliare la Chiesa. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Il Vaticano c'è. È uno Stato che con l'Italia ha firmato un concordato che fissa le regole di buon vicinato. E queste regole vanno rispettate in forma bilaterale. Pertanto è da fessi prendersela col monsignor Gallagher, ministro degli Esteri del Papa, soltanto perché dichiara apertis verbis che la legge Zan, di cui si discute da tempo, non è conforme ai patti sottoscritti tra la Chiesa e il nostro nevrotico Paese. Attaccare i preti, come sta avvenendo, poiché la pensano diversamente dai progressisti è una operazione scorretta sotto ogni punto di vista.  La libertà di opinione è sacra e inviolabile, ed è garantita tra l'altro dalla nostra Costituzione. Quindi le gerarchie ecclesiastiche non possono essere zittite perché esprimono le loro idee circa l'omofobia. Esse, secondo le norme vigenti, sono autorizzate a intervenire sulle questioni etiche senza subire ritorsioni di alcun genere. È assurdo impedire a vescovi e cardinali di osteggiare una leggediscutibile. Personalmente non sono credente e neppure omofobo. Delle abitudini sessuali dei miei simili non mi importa un accidente. Dirò di più, non ho mai conosciuto una persona che detesti gli omosessuali e li combatta come nemici dell'umanità. Non capisco il motivo per cui si debba varare una regola per puni rechi non abbia in simpatia gli omosex, i quali se vengono aggrediti da qualcuno ovvio siano tutelati dal codice penale, come qualsiasi connazionale. Ma è assurdo che menare un invertito sia più grave, e meriti sanzioni più pesanti, che non menare altri cittadini. Gli uomini e le donne sono tutti uguali e meritano lo stesso rispetto. Creare distinzioni tra chi ama i maschi ole femmine è fuori da ogni logica, ciascuno faccia ciò che desidera, non c'è bisogno di creare una graduatoria per stabilire se sia peggio dare un cazzotto a un omosessuale che a un etero. In certe nazioni islamiche si arriva al punto di impiccare quelli che il popolo definisce froci, il che ci ripugna. Ciononostante non si può neppure considerare, come ci accingiamo a fare noi, che gli omofili costituiscano una razza eletta degna di maggior rispetto. Tra l'altro alcuni giorni fa la scrittrice Murgia ha manife stato il suo disgusto nei confronti di Figliuolo, quello dei vaccini, in quanto indossa la divisa militare. E nessuno l'ha rimproverata. Ergo. Gli alpini se ti stanno sulle scatole è una cosa normale, se non apprezzi i trans devi essere condannato. Siamo alla follia. Adesso tocca al Vaticano essere messo sotto accusa perché critica, usando argomenti che non è importante condividere, la legge Zan. Ormai la censura è scatenata e colpisce chiunque non si adegui al conformismo più bieco. Non si tiene neanche conto che gli italiani e gli europei sono tutti pervasi dalla cultura cristiana, la quale abbiamo assimilato in famiglia e a scuola. Come diceva Benedetto Croce: non possiamo non dirci cristiani. 

Ddl Zan, la clamorosa frase "rubata" a Papa Francesco: "Ora me li chiedono tutti", terrorizzato da Sergio Mattarella. Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Un caso deflagrato con lo scoop del Corriere della Sera. Si parla della lettera inviata dal Vaticano alla Farnesina, ossia al governo, in cui viene avanzata la richiesta di fermarsi sul ddl Zan, il contestatissimo disegno di legge sulla omotransfobia contro il quale, ora, piove il veto anche della Santa Sede. Una missiva, quella del Vaticano, che sarebbe dovuta rimanere segreta: risale infatti a giorni fa. Eppure è diventata di dominio pubblico. E, forse, alla Santa Sede era proprio l'obiettivo che volevano raggiungere. Il dibattito, ovviamente, si è infiammato: che ne sarà del disegno di legge tanto voluto dal Pd e tanto osteggiato dal centrodestra, Silvio Berlusconi compreso? E nel frattempo fioccano indiscrezioni, retroscena, illazioni. Papa Francesco sapeva? Il Pontefice condivide? Probabilmente sì, dato che la missiva è vergata dal ministro degli Esteri vaticano, fedelissimo di Bergoglio. E ancora, si legge di spaccature profondissime alla Santa Sede dopo quanto accaduto. Un contesto esplosivo, insomma, nel quale entra a gamba tesa l'irresistibile Osho, ovviamente sulla prima pagina de Il Tempo, il quotidiano capitolino diretto da Franco Bechis, nell'edizione di oggi, mercoledì 23 maggio. In prima pagina, ecco il titolo: "Il Vaticano non fa Zan Zan. No alla legge sull'omofobia". E in calce l'ironia di Osho. Una foto di Papa Francesco, alle sue spalle Sergio Mattarella, e quella frase "rubata" al Pontefice: "Mò questi me chiedono tutti l'arretrati Ici... guarda eh". Insomma, Osho, a modo suo, svela il vero e inconfessabile timore del Papa.

Vaticano contro il ddl Zan, Antonio Socci: Papa Francesco divorzia dalla sinistra, "le vere ragioni dello strappo". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Il fatto che la Santa Sede sia stata costretta a fare un passo diplomatico formale per segnalare al Governo italiano che il disegno di legge Zan, attualmente sotto esame parlamentare, violerebbe il Concordato fra Stato italiano e Chiesa Cattolica sul tema della libertà (attenzione: non si sta parlando di un "privilegio" della Chiesa, ma delle libertà di tutti gli italiani) è un evento eccezionale, che è accaduto raramente e che dovrebbe far suonare un campanello d'allarme. Infatti in questa occasione la Chiesa non entra nel merito di questa o quell'opinione su omosessualità, genere o famiglia, temi su cui ci sono molte idee diverse (di sicuro sotto l'attuale pontificato non sono mai state intraprese particolari "battaglie culturali" in proposito). Ma la Santa Sede ha preso questa iniziativa eccezionale proprio in difesa delle tante sensibilità diverse, cioè in difesa del diritto di libertà che, in Italia, dovrebbe accomunare tutti in base al dettato costituzionale che è recepito nella revisione del Concordato del 1984 fra Stato italiano e Chiesa Cattolica. È curioso che quella Sinistra che applaude il papa ogni volta che interviene su temi politici riguardanti altri stati, non di diretta competenza della Santa Sede, come l'emigrazione, si irriti se la stessa Santa Sede interviene su temi che attengono al Concordato che ha sottoscritto con lo Stato italiano. In particolare la nota diplomatica vaticana richiama l'attenzione del Governo sull'articolo 2, commi 1 e 3, del Concordato. Il comma 1 recita: "La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica". E il comma 3: "È garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". La Santa Sede ha voluto porre formalmente all'attenzione del Governo il problema della libertà religiosa, della libertà educativa e della libertà d'opinione a proposito del Ddl Zan - scrive il vaticanista Giuseppe Rusconi - in particolare per gli articoli 1 (identità di genere), 4 (libertà d'opinione), 7 (istituzione della Giornata nazionale sui temi Lgbt) e 8 (la "strategia della Corte Costituzionale, ieri ha ricordato alcuni problemi posti da questa legge che preoccupano la Santa Sede: «Addirittura le associazioni cattoliche potrebbero essere perseguite per i ruoli differenti al loro interno tra uomini e donne. Ancora: un'università cattolica potrebbe essere denunciata penalmente per l'adozione di testi di bioetica, come già c'è chi preannuncia di fare, non ap pena il Ddl Zan sarà approvato». Carlo Giovanardi, già ministro per la famiglia, esulta per l'iniziativa vaticana: «Da mesi stiamo spiegando come quel testo, già approvato dalla Camera, non riguarda affatto violenze o discriminazioni, ma si prefigge l'obiettivo di colpire penalmente chi vuole essere libero di esprimere una opinione e di indottrinare i bambini sin dalle elementari alla ideologia Lgbt». Ma oltre ai politici cattolici e a giuristi come Alfredo Mantovano, autore del libro "Legge omofobia perché non va" (Can tagalli), anche un costituzionalista come Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta ed ex ministro di Grazia e Giustizia, si è espresso per la modifica del Ddl Zan. Perfino un giurista laico come Michele Ainis, editorialista di Re pubblica e L'Espresso, ha sotto lineato le grosse criticità dique sta legge. Probabilmente in Vaticano hanno sperato fino all'ultimo di evitare il passo diplomatico. In questi mesi hanno sperato che il Pd (in particolare il suo segretario, Letta) accettasse il dialogo per concordare con tutti una legge contro l'intolleranza, senza ledere diritti di libertà. Era intervenuta anche la Cei, chiedendo di evitare «derive liberticide» e più recentemente è arrivata a dire che non era necessario cancellare tutta la legge, ma solo correggerla. Ma le Sinistre (Pd, M5S, Leu) - ricorda Giovanardi - «hanno innalzato un muro, opponendosi con arroganza e sicumera ad ogni tipo di confronto, non soltanto con la opposizione parlamentare e la società civile, ma anche con le femministe, che attraverso l'imposizione del gender vedono messe a rischio storiche battaglie per la emancipazione delle donne». Enrico Letta, di fronte alle critiche di alcuni dirigenti Pd, aveva indicato di approvare il Ddl Zan «così com' è». Perché? Si ritiene che - con il crollo del governo giallorosso - il Pd lettiano, smarrito e confuso per l'arrivo del governo Draghi, abbia cercato una qualche vittoria politica per dare un segno di vitalità. Forse fiutando la strumentalizzazione, Italia viva si era dissociata, aprendo alle modifiche del testo della legge. È chiaro perciò che ora l'iniziativa vaticana sia sentita da Letta come una pesante bocciatura per sé. Ma è anche un segnale forte per certi settori "rivoluzionari" del mondo cattolico. Il Pontefice, soprattutto nelle ultime settimane, sembra voler smentire chi finora ha auspicato (o temuto) che volesse ribaltare la Chiesa. Pare che siano in corso - in queste ore - sottili "pressioni" perché il Papa sconfessi la sua Segreteria di Stato. Ma - come dice il professor Mirabelli - «non si può immaginare che un passo di questo genere sia avvenuto senza l'assenso esplicito di Papa Francesco». Tutto può essere, ma una smentita delegittimerebbe lo stesso Pontefice e demolirebbe la Segreteria distato, cioè il governo della Chiesa. A chi ha parlato della nota vaticana come «un dispetto della Curia contro il Papa», ha replicato il sito Il Sismografo (molto vicino alla Segreteria di Stato vaticana e di idee bergogliane) scrivendo: «Una certa stampa che dice di rispettare i cattolici dovrebbe per primo rispettare il Papa e non usarlo per i suoi giochi di potere». Far credere che certe iniziative «accadano alle spalle del Pontefice, non è accettabile» ha aggiunto, «questa narrazione danneggia enormemente il prestigio e la credibilità di Papa Francesco poiché lo fa percepire come un pastore poco lineare, non trasparente, manipolatore del vero e del falso». Invece, per capire il suo pontificato, c'è chi ricorda il magistero di questi anni di Francesco sulla libertà dei popoli, per esempio gli interventi in cui ha messo in guardia dalle «colonizzazioni culturali». Come questa sua omelia: «Si toglie la libertà, si decostruisce la storia, la memoria del popolo e si impone un sistema educativo ai giovani».

Vaticano contro ddl Zan, Pietro Senaldi: "Il Pd? Convinto che Papa Francesco debba comportarsi come loro". Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Il condirettore di Libero Pietro Senaldi sul Ddl Zan e la reazione del Pd: "Il Pd si è perso il Papa, perché al Ddl Zan il Vaticano si è opposto: in base a questa legge noi del Vaticano potremmo essere accusati di essere omofobi e razzisti. Ovviamente, i progressisti, convinti che il Papa tifasse per loro si sono indignati. Direi che siamo al cortocircuito: la sinistra quando qualcuno sostiene qualcosa che gli fa comodo diventa un idolo, sennò diventa un poveretto. Questa è la stessa sinistra che si inginocchia di fronte a Binden, all'Europa, a Macron, quella pronta a cedere la sovranità all'Europa su tutto. I nodi stanno arrivando al pettine: si vuole imporre il proprio pensiero per legge vietando agli altri di esporre le proprie idee. Siamo alle soglie di una dittatura politico-mediatica".

Otto e Mezzo, delirio-Michela Murgia sul ddl Zan: "Se uno viene pestato?". Per lei chi dice "no" vuole nascondere le violenze. Libero Quotidiano il 24 giugno 2021. Nel salottino di Lilli Gruber a Otto e Mezzo, nella puntata in onda su La7 mercoledì 23 giugno, tiene banco il ddl Zan. Il tutto al termine della giornata in cui in Parlamento, dopo l'intervento del Vaticano contro il disegno di legge, Mario Draghi ha ribadito la laicità dello Stato aggiungendo però che toccherà alle aule decidere sul testo in questione. Insomma, da parte del premier non sembra esserci la volontà di tirare dritto su un provvedimento troppo divisivo per la sua maggioranza. Ed ecco che in studio dalla Gruber campeggia Michela Murgia, la scrittrice rossa e fierissima sostenitrice del ddl Zan, la quale argomenta: "Il termine è nella natura della legge, che istituisce quella omofobica e transfobica, oltre che quella verso i disabili e le donne, come una discriminazione. Quello che non si vuole che venga scritto nero su bianco è che queste categorie subiscono una discriminazione", la spara. "Se uno viene picchiato per strada, si dice che viene picchiato da un balordo e non perché omosessuale o in quanto donna. Nel momento in cui si nega il fenomeno, non si vuole una legge che il fenomeno lo certifica. Quando dicono che vogliono modificare il testo, significa che vuole fermare il testo", sentenzia la Murgia. Insomma, secondo lei l'obiettivo di chi è contrario al ddl Zan è imboscare violenze e discriminazioni. Non, semmai, tutelare la libertà d'espressione che in alcune circostanze sembra essere seriamente minacciata. La Murgia, per inciso, si è distinta nelle ultime ore anche per un intervento su La Stampa, in cui ha messo nero su bianco come, a suo giudizio, la contrarietà del Vaticano al ddl Zan sarebbe dovuta alla paura di "dover insegnare il rispetto delle persone nelle scuole paritarie". Frasi che danno la cifra del personaggio in questione...

Ddl Zan, Michela Murgia contro il Vaticano: "La paura di rispettare le persone" (e quella balla sui licenziamenti). Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Parla di una "entrata a gamba tesa" che non si vedeva "dai tempi non rimpianti della presidenza Cei del cardinal Ruini" del Vaticano sul ddl Zan Michela Murgia. Che in un articolo su La Stampa scrive. Addirittura l'attacco viene, sottolinea la scrittrice dalla "segreteria di stato vaticana, l'equivalente del ministero degli esteri, con una nota a firma del segretario per i rapporti con gli stati". Insomma, prosegue la Murgia. "la percezione è che il ddl zan sia solo l'ennesima arma della guerra che va consumandosi nelle stanze vaticane, dove c'è da mesi la corsa a chi più mette in imbarazzo papa Francesco allo scopo di delegittimarne l'autorevolezza esterna, visto che quella interna è compromessa da tempo". Quindi la scrittrice sinistra lancia una frecciata a Matteo Salvini e Giorgia Meloni: "La parte più retriva dello scenario politico, quella che si fa i selfie con Orban, è già pronta a sfruttare questa lotta intestina, ma il timore fondato è che tutta la politica italiana, sempre intimorita dallo spauracchio curiale, possa essere incline a dar retta alla richiesta di rivedere un disegno di legge che è già frutto di mille compromessi". Ma, attacca la Murgia, "la principale preoccupazione vaticana è che, se la legge viene approvata, le scuole cattoliche non saranno esentate dal dover insegnare il rispetto per le persone, quale che sia la loro condizione e il loro orientamento. Ma perché mai dovrebbe essere diversamente? Perché per una parte del sistema scolastico finanziato dallo stato dovrebbero valere leggi diverse da quelle che valgono per tutti gli altri? Se le scuole cattoliche rivendicano la qualifica di paritarie, sarebbe ora che lo fossero in tutto, non solo quando si tratta di ricevere i fondi pubblici". E conclude durissima: "Purtroppo, anche senza aspettare il ddl Zan, la realtà è che le scuole cosiddette paritarie la discriminazione la praticano già. Se divorzia o va a convivere, chi vi insegna corre già il rischio di poter essere licenziato, nonostante sia anche con le sue tasse che viene garantita l'esistenza degli istituti cattolici all'interno del sistema educativo pubblico". Anche se non è esattamente così. 

Da ansa.it il 24 giugno 2021. Il presidente della commissione Giustizia del Senato, il leghista Ostellari, ha convocato per mercoledì un tavolo di confronto della maggioranza sul ddl Zan contro la omotransfobia. un passo verso la trattativa dopo la tensione con il Vaticano. “Lo Stato italiano è laico, non confessionale. Concordo pienamente con il presidente del Consiglio Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano”, ha detto anche il Segretario di Stato vaticano Parolin, aggiungendo che la Santa Sede non vuole bloccare la legge ma esprime una preoccupazione su possibili interpretazioni. Il card. Parolin spiega la genesi dell'iniziativa della Santa Sede: "Avevo approvato la Nota Verbale trasmessa all'ambasciatore italiano e certamente avevo pensato che potevano esserci reazioni. Si trattava, però, di un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica. Un testo scritto e pensato per comunicare alcune preoccupazioni e non certo per essere pubblicato". Il Segretario di Stato vaticano rileva poi che "l'intervento è stato preventivo proprio per fare presenti i problemi prima che sia troppo tardi. Il disegno di legge è stato già approvato, peraltro, da un ramo del Parlamento. Un intervento solo successivo, una volta cioè che la legge fosse stata adottata, sarebbe stato tardivo. Alla Santa Sede si sarebbe potuto imputare un colpevole silenzio, soprattutto quando la materia riguarda aspetti che sono oggetto di un accordo". Infine spiega perché sia intervenuto il Vaticano e non la Cei: ""La Conferenza episcopale italiana - dice Parolin a Vatican News - ha fatto tutto il possibile per far presenti le obiezioni al disegno di legge. Ci sono state due dichiarazioni in proposito e il quotidiano dei cattolici italiani, Avvenire, ha seguito con molta attenzione il dibattito. Anche la Cei, con la quale c'è piena continuità di vedute e di azione, non ha chiesto di bloccare la legge, ma ha suggerito delle modifiche. Le preoccupazioni della Santa Sede sul ddl Zan sono legate al fatto che "il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo. L'esigenza di definizione è particolarmente importante perché la normativa si muove in un ambito di rilevanza penale dove, com'è noto, deve essere ben determinato ciò che è consentito e ciò che è vietato fare".  Le preoccupazioni della Santa Sede sul ddl Zan sono legate al fatto che "il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo. L'esigenza di definizione è particolarmente importante perché la normativa si muove in un ambito di rilevanza penale dove, com'è noto, deve essere ben determinato ciò che è consentito e ciò che è vietato fare".

Ddl Zan, il cardinale Pietro Parolin: "Mario Draghi ha ragione, lo Stato è laico". Libero quotidiano il 24 giugno 2021. Ora, dice la sua il cardinal Pietro Parolin. Si parla ovviamente del ddl Zan, della lettera del Vaticano e di quanto detto alla vigilia in aula alla Camera da Mario Draghi. "Non è stato in alcun modo chiesto di bloccare il ddl Zan. Siamo contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale, come pure della loro appartenenza etnica o del loro credo. La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è", ha rimarcato il porporato. Uno schiaffo alla sinistra, insomma, che ha puntato il dito affermando che la sovranità del Parlamento fosse in pericolo. Quella sovranità che, spiega Parolin, nessuno ha voluto mettere in discussione. Il sottosegretario di Stato in Vaticano, interpellato da Vatican News, aggiunge di condividere le parole di Draghi al Senato: "Lo Stato italiano è laico, non è uno Stato confessionale, come ha ribadito il presidente del Consiglio. Concordo pienamente con il presidente Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano. Per questo si è scelto lo strumento della Nota Verbale, che è il mezzo proprio del dialogo nelle relazioni internazionali", puntualizza. Tutto chiaro: il Vaticano chiede semplicemente di modificare il ddl Zan poiché violerebbe il Concordato. Parolin, successivamente, si spende nello spiegare le principali preoccupazioni della Chiesa, che sono legate al fatto che "il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo - rimarca Parolin -. L'esigenza di definizione è particolarmente importante perché la normativa si muove in un ambito di rilevanza penale dove, com'è noto, deve essere ben determinato ciò che è consentito e ciò che è vietato fare", conclude il sottosegretario di Stato.

Massimo Franco per il "Corriere della Sera" il 25 giugno 2021. «Mario Draghi non poteva che dire quanto ha detto in Parlamento. Sa che il Vaticano vuole una mediazione, e credo sia la stessa intenzione del governo...». Il messaggio che arriva dai vertici della Santa Sede è di chi ritiene di avere compiuto una mossa obbligata, e di avere ricevuto una risposta. E adesso si prepara a una trattativa lunga e difficile, avendo di fronte non Palazzo Chigi ma un Parlamento percorso da fremiti ideologici che al momento sembrano non dare spazio al dialogo; e soprattutto mostrano uno schieramento che va dal M5S al Pd, aggrappato in apparenza alla bandiera della legge Zan sull' omofobia così com' è, quasi fosse una sorta di confine invalicabile tra progresso e reazione. L' ostacolo più serio sono «le due tifoserie che si combattono a colpi di ideologia», impedendo qualunque passo avanti. Il primo effetto è che si incrina la collaborazione stretta, perfino la subalternità della Chiesa cattolica allo Stato italiano nei mesi della pandemia. E la paura è che questo faccia riemergere un fronte ostile al Concordato. Il paradosso politico è che a difendere il Vaticano sono Lega, Fratelli d' Italia e Forza Italia: partiti considerati non in sintonia con l'attuale pontificato su temi dirimenti come l'immigrazione, il sovranismo, e il modo di intendere l'identità e i valori cristiani. L' imbarazzo delle gerarchie ecclesiastiche è palpabile. Da leader come Matteo Salvini «ci divide un alfabeto culturale diverso», spiega un alto prelato. Il problema è che il lessico della Santa Sede fatica a fare breccia nell' intero arco politico. Colpisce la mancanza di partiti considerati sponde affidabili. «Al massimo ci sono individui in grado di dare voce alle nostre ragioni», si spiega. «Ma sono troppi e insieme troppo deboli». Trasuda l'irritazione nei riguardi del vertice del Pd, oscillante tra aperture e chiusure: viene ritenuto condizionato dalla componente ex comunista e vittima di una «deriva radicale». Quanto al grillismo, l'atteggiamento è stato sempre di profonda diffidenza: sebbene sia emersa a intermittenza la tentazione di utilizzare esponenti che ricoprono ruoli istituzionali. Ma la questione è drammatizzata dalle divisioni che attraversano lo stesso mondo cattolico. Intorno alla nota ufficiale consegnata il 17 giugno all' ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, fioriscono le voci più curiose: indiscrezioni che segnalano confusione e tensioni nelle gerarchie ecclesiastiche. Ma il fatto che sia stata la Santa Sede a compiere il passo ribadisce un principio: è il Vaticano come Stato a chiedere il rispetto del Concordato con l'Italia. I vescovi hanno un ruolo diverso: anche se la pressione è arrivata da lì. Il modo in cui ieri il cardinale Pietro Parolin, «primo ministro» di Francesco, ha rivendicato con Vatican News l'iniziativa, conferma la divisione dei compiti con una Cei accusata di eccessiva timidezza. L' idea di un Papa defilato, quasi neutrale, è goffa e strumentale; e riceve smentite a tutto tondo. «Il principio è che di tutto quello che si fa si informano sempre i superiori», ha detto Parolin. E a ribadire al Messaggero la sintonia sull' iniziativa tra Francesco e il segretario di Stato è anche Giovanbattista Re, decano del Collegio cardinalizio. L' obiettivo primario è disarmare chi parla di ingerenza: si vedrà con quale esito. Parolin afferma di concordare «pienamente con il presidente Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano. Per questo si è scelto lo strumento della Nota verbale, che è il mezzo proprio del dialogo nelle relazioni internazionali». Aggiunge che si trattava di «un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica». Sono toni difensivi che tradiscono un disagio. Cercano di giustificare una mossa che, sebbene definita un «mezzo proprio», rimarca l'assenza di dialogo tra le due sponde del Tevere e la preoccupazione per il testo del deputato del Pd, Alessandro Zan, in discussione in Parlamento. Difensivo è anche il modo in cui Parolin assicura di non voler chiedere «in alcun modo di bloccare la legge»; e di essere «contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale». Il tema, semmai, è come la legge può essere interpretata, con il rischio di «spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è». Traduzione: il Vaticano teme che la magistratura possa usare la legge contro i sacerdoti, e «rendere punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna». Per questo si chiede che venga cambiata in alcuni punti «prima che sia troppo tardi» e si imputi alla Santa Sede «un colpevole silenzio». Da chi? Evidentemente, dall'interno dello stesso mondo cattolico. La parolina magica è «modulazione». Ma trasferirla in un testo che radicalizza e agita il Parlamento non sarà facile: a meno che alla fine il governo o qualcun altro, con gradualità e cautela, abbandoni la sua «terzietà» e offra un consiglio per uscire da una situazione al momento senza sbocchi.

Chi è Pietro Parolin, lo stratega di papa Francesco. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 25 giugno 2021. Dietro ogni grande statista aleggia l’ombra di abili diplomatici e strateghi lungimiranti, novelli cardinali Richelieu che alla luce dei riflettori del palcoscenico internazionale preferiscono l’anonimato e il buio garantiti dal dietro le quinte, il luogo in cui si decide il film e in cui vengono scritti i copioni degli attori. Nel caso della Chiesa cattolica, unica nell’essere una potenza di cielo, nell’avere un’agenda innatamente votata all’universalità, nel possedere un esercito armato di croci e nell’operare su un orizzonte temporale orientato alla Fine dei tempi, colui che sta suggerendo all’orecchio dell’attuale sovrano di Roma, Francesco, risponde al nome di Pietro Parolin.

Una vita dedicata alla Chiesa. Pietro Parolin nasce il 17 gennaio 1955 nel micro-comune vicentino di Schiavon. Di umili origini – la madre insegnava alle scuole elementari, il padre era ferramenta –, Parolin sperimenta il dolore del lutto a soli dieci anni, perdendo il padre in un incidente stradale. Quattro anni più tardi, nel 1969, all’età di soli quattordici anni, il giovane Parolin riceve la “chiamata” ed entra nel seminario vescovile di Vicenza: sarà l’inizio di una lunga ed ascendentale carriera all’interno della Chiesa cattolica. Dopo aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale nel 1980, cioè undici anni dopo l’entrata in seminario, Parolin trascorre i primi tre anni da chierico presso la diocesi di Vicenza. In lui, però, i superiori vedono qualcosa; perciò lo inviano a Roma. Una volta qui, nella capitale d’Italia e nel cuore della Cristianità occidentale, Parolin si iscrive alla Pontificia università gregoriana e viene ammesso alla Pontificia accademia ecclesiastica – è il 1983 –, ovvero la storica scuola di formazione della diplomazia vaticana. Nel 1986, dopo aver conseguito una laurea in diritto canonico presso la Gregoriana, parte alla volta della Nigeria per servire nella nunziatura apostolica ivi operante. Rimarrà a Lagos tre anni, cioè fino al 1989, per poi essere trasferito in Messico. E sarà precisamente qui, a Città del Messico, che il promettente Parolin riuscirà a far sì che il suo nome venga conosciuto a San Pietro, negoziando con il governo messicano il riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica e l’apertura di relazioni diplomatiche ufficiali con la Santa Sede – due fascicoli congelati da sessant’anni, ovvero dalla sanguinosa guerra cristera degli anni Venti e Trenta. Raggiunto l’accordo con Città del Messico, Parolin viene richiamato a Roma: per lui c’è un posto all’interno della Segreteria di Stato, l’equivalente vaticano di un ministero degli Esteri, che, naturalmente accettato, ricoprirà fino al 2000.

La scalata ai vertici della piramide pietrina. La guerra fredda è finita e la Chiesa cattolica può e deve trarne vantaggio per espandersi in nuovi territori, evangelizzando laddove, fino ai primi anni Novanta, era stato tanto impossibile quanto impensabile – come la Cina –; questa era l’idea che accomunava Giovanni Paolo II, il futuro Benedetto XVI e anche gli strateghi Tarcisio Bertone e Parolin. Quest’ultimo, mostrando una predilezione per l’Oriente, dopo essere stato investito dal papa polacco del ruolo di sottosegretario agli Esteri della Segreteria di Stato – è il 2002 –, comincia a viaggiare in Asia, gettando le basi per la svolta cinese del Vaticano. Nel 2009 viene nominato nunzio apostolico in Venezuela dall’allora Benedetto XVI. L’obiettivo del pontefice è chiaro: delegare all’abile Parolin la gestione dello spinoso fascicolo Hugo Chavez, con il quale la Chiesa venezuelana è ai ferri corti sin dagli albori del bolivarismo per una serie di ragioni, in primis per le accuse di interferenza negli affari interni del Paese. I rapporti, pur continuando ad essere tesi, con il tempo miglioreranno progressivamente: un altro successo per il Parolin, che, non a caso, lo stesso anno della nomina a nunzio apostolico, verrà consacrato arcivescovo.

Al servizio di papa Francesco. Profondo conoscitore dell’America Latina – Parolin parla fluentemente spagnolo –, nella quale ha aiutato la Chiesa a prosperare dal Messico al Venezuela, ma anche abile negoziatore, nonché lungimirante stratega – a lui si deve la posa della prima pietra nei rapporti con Pechino, visitata per la prima volta nel 2005 –, l’arcivescovo viene eletto segretario di Stato da papa Francesco nel 2013. Fatto cardinale l’anno successivo alla nomina a segretario di Stato, Parolin si mette subitaneamente a lavoro per dare concretezza a quelli che sono i sogni propri e del nuovo vescovo di Roma: la costruzione di una “Chiesa in uscita” – uscita definitiva dall’Occidente ed ingresso più marcato nelle “periferie del mondo” –, la formulazione di un corso d’azione equilibrato nell’ambito nella cosiddetta “terza guerra mondiale a pezzi” e la trasformazione del Vaticano in una forza catalizzatrice della transizione multipolare. A Parolin si devono, tra le altre cose, il raggiungimento della dichiarazione di L’Avana del 2016 con la Chiesa ortodossa e l’accordo sulla nomina dei vescovi cinesi; due avvenimenti storici che hanno condotto il Vaticano ad avvicinarsi rispettivamente alla Russia e alla Cina, ossia i due principali rivali dell’Occidente nel contesto della nuova guerra fredda, inimicandosi gli Stati Uniti e, a latere, l’intera internazionale sovranista. E a lui si deve anche, ad esempio, l’accordo di pace tra il governo colombiano e le Farc del 2016 – mediato dal Vaticano. Descritto da alcuni vaticanisti come un vincitore della “guerra civile vaticana” che ha dilaniato San Pietro negli anni della transizione dall’era Ratzinger all’era Bergoglio, Parolin, oggi, può essere ritenuto a tutti gli effetti il secondo uomo più potente della Chiesa cattolica e l’artefice del grande ritorno del Vaticano nell’arena internazionale. E, nello stesso modo in cui Agostino Casaroli è ricordato dai contemporanei per aver aiutato Giovanni Paolo II ad abbattere l’impero sovietico, Parolin, forse, potrebbe essere celebrato dai posteri come colui che ha facilitato la transizione multipolare e che, soprattutto, ha saputo traghettare la Chiesa dall’anziano, poststorico e postcristiano Occidente alle giovani e vibranti periferie del mondo, riconfermandone la natura unica di catéchon impegnato a lavorare per il bene e per la pace in un mondo afflitto dal male e dalle guerre.

Legge Zan, il paradosso del Vaticano: in campo contro i pasdaran clericali. Paolo Pombeni su Il Quotidiano del Sud il 24 Giugno 2021. E’ DIFFICILE gestire qualsiasi cosa in un paese in cui ormai si parla a ruota libera anche a livelli molto alti. La vicenda delle reazioni alla nota verbale vaticana su quanto prevederebbe il ddl Zan se diventasse legge (il che per il momento ancora non è) porta a considerazioni poco consolanti. Iniziamo dall’aspetto più banale: la canea sulla presunta violazione della sovranità del parlamento perché il Vaticano ha reso noto, nei termini più soft possibili fra quelli ovviamente che restano agli atti (questo non avviene con telefonate, incontri informali, ecc.), che a suo giudizio alcune limitate norme ledevano diritti che il Concordato aveva riconosciuto alla Chiesa. Banalmente tutti dovrebbero sapere, anche al vertice della Camera, che un trattato internazionale è di suo uno strumento che nei limiti previsti limita la sovranità di entrambe le parti. Tanto per capirci, ricordiamo un episodio emblematico. Quando nel febbraio 1998 un aereo dei marines Usa volando troppo basso rispetto alle normative tranciò i cavi della funivia del Cermis in Trentino provocando la morte di 20 persone, in base ad un trattato internazionale quei militari non poterono essere sottoposti alla giustizia italiana, perché c’era una riserva di giurisdizione per quella americana (che, sia detto per inciso, vergognosamente non punì poi gli avventati militari). Il fatto era gravissimo, ma purtroppo un trattato legava le mani e non ci fu nulla da fare. Il Concordato del 1984 sottoscritto fra l’Italia e la Santa Sede è un trattato internazionale ed è stato approvato dal parlamento italiano, dunque è un atto che promana anche dalla sovranità italiana. Se il Vaticano chiede il rispetto di quel testo si muove nel suo buon diritto e l’Italia farebbe una pessima figura a livello internazionale se ritenesse che i patti che sottoscrive sono carta straccia se così viene deciso da una quota di opinione pubblica eccitata. Ovviamente si può discutere del merito dei rilievi della Santa Sede, dimostrando che non sono fondati, perché non ci sarebbe nessuna violazione degli accordi. Questo è un punto molto delicato e meriterebbe considerazioni diverse dal far rivivere scontri fra clericali e anti clericali, scontri del tutto fuori luogo oltre che fuori tempo. Si viene così ad affrontare il secondo punto della questione, che è ancora una volta la resa a trasformare in legge pulsioni demagogiche con scarsa attenzione alla porta generale delle norme. Nel caso specifico non si tratta dell’approvazione di una legge che sanzioni in modo adeguato quelli che sono crimini d’odio e di intolleranza verso persone con orientamenti sessuali che in passato sono stati ingiustamente e infondatamente ritenuti aberranti. Fin qui sono tutti d’accordo, inclusa la Santa Sede. Si tratta invece del fatto che si è esagerato nel perseguimento dell’obiettivo, non solo proponendo di definire per legge un aspetto delicato e privato delle relazioni sessuali fino ad arrivare a codificare delle teorie sul “genere” la cui determinazione non è compito dello stato laico (giustamente si respinge che lo facciano gli stati che sono organizzati su base religiosa), ma arrivando ad imporre che la novità sia insegnata nelle scuole con apposite giornate dedicate. Con molta ironia ci verrebbe da dire che se si dovessero dedicare specifiche giornate a discutere di tutte quelle che i diversi gruppi definiscono storture, alla scuola non resterebbe tempo per insegnare altro (e già abbiamo deficit di apprendimento nei ragazzi). Più seriamente sappiamo bene in cosa si tramuterebbero le giornate scolastiche contro l’omotransfobia: occasioni perché docenti più militanti si mettessero a far concioni ideologiche sul tema aumentando la confusione già esistente, mentre per la maggior parte diventerebbe occasione per uno svolgimento burocratico e annoiato di quanto prescritto coi ragazzi ben felici di un giorno senza interrogazioni, compiti e obblighi di studio. E’ triste pensare che per portare un po’ di ragionevolezza in questa impennata di radicalismo alla moda sia dovuta intervenire la Santa Sede. Come è stato già messo in evidenza da più parti, l’ha fatto per evitare che risorgesse uno spazio per il clericalismo arrabbiato a cui strizzano l’occhio i partiti di destra che si sono riscoperti cristiani. Con ciò ha reso un servizio ad un paese che impegnato com’è su temi assai rilevanti per il nostro futuro non ha proprio bisogno di queste crociate all’amatriciana a cui si è pronti da destra e da sinistra. C’è da sperare che i partiti prendano al volo l’occasione e senza farsi condizionare dai nuovi pasdaran del radicalismo da social trovino modo di fare una buona legge che giustamente colpisca in maniera efficace i crimini e le discriminazioni ispirati da preclusioni verso gli orientamenti sessuali delle persone (che sono e devono rimanere nella sfera privata intangibile dallo stato). Si può farlo senza cadere nell’imposizione di una sorta di religione-ideologia di stato, contribuendo invece a far progredire la cultura diffusa del paese sulla via del rispetto per le persone e per le loro legittime scelte di vita. Sarebbe stato meglio che a queste conclusioni la politica italiana fosse giunta da sola senza bisogno di esservi costretta da un intervento esterno. Purtroppo in questi tempi dominati dalla simpatia per leggi che “spazzano” di qui e di lì, di su e di giù, la buona cultura giuridico-istituzionale sta diventando un optional non molto richiesto.

DAGONEWS il 25 giugno 2021. Quante cose si scoprono spippolando sui social. Può capitare, ad esempio, di imbattersi nell'account twitter di Padre Antonio Spadaro, direttore della rivista "La Civiltà Cattolica". Il gesuita giornalista, penna anche del "Fatto", posta un tweet in cui annuncia: "Saluti da Anagni. A Fiuggi con i ministri Carfagna, Brunetta, Patuanelli, Garavaglia, il Presidente Zingaretti, il Segretario Generale della Farnesina Sequi, il sindaco di Firenze Nardella e altri a raccontare l’Italia che verrà". Ah, beato lui che ha tempo da perdere a disegnare scenari nei convegni! In ogni caso, a corredo dell'annuncio, c'è il faccione di Spadaro e sullo sfondo il campanile della cattedrale di Santa Maria ad Anagni. Una torre di 30 metri che si erge in tutta la sua svettante potenza. Pochi minuti dopo, su un altro social (Instagram) e su un altro account, quello di Francesco Sechi, appare una foto praticamente identica. L'ex autore di "Mattino 5" viene fotografato ad Anagni, con lo sfondo della cattedrale, stesso cielo grigio. Nulla di male, ovviamente. Soprattutto perché Francesco Sechi, ex segretario di Marcello Dell'Utri, è l'assistente di Padre Spadaro. Insieme hanno anche pubblicato su "La Civiltà Cattolica" una lunga intervista a Mogol. Sechi ha un profilo facebook molto seguito (427 mila follower) che inonda di meme, opinioni pret-à-porter e scemenze raccattate in rete. A volte tuona contro la proroga dello stato d'emergenza ("E' un colpo di stato"), si schiera con il poliziotto che alla stazione Termini ha sparato al migrante svalvolato armato di coltello, snocciola tutti i suoi dubbi sulle vaccinazioni e fa battute sugli elettori del M5s. In un'intervista di novembre 2016 concessa alla rivista "Slide", Sechi viene definito "professionista della comunicazione", "spin doctor per personaggi illustri" (ma di chi?). Sostiene di aver "affiancato 'grandi''" e di avere nel curriculum "oltre agli studi all'Università anche la laurea nell'università della strada". Il 40enne sardo spargeva umiltà a fiotti: "Ho appreso tanto quanto da un pastore del mio paese quanto da un ministro, tanto da un muratore quanto da un presidente del Consiglio" (ma quali ministri e presidenti ha frequentato?). Confessa che "la mamma è il suo primo amore" e altre banalità un tanto al chilo che è possibile leggere  qui su issuu.com. Sul suo account instagram, Sechi posta la foto con papa Francesco, la benedizione da lui ricevuta, un selfie con San Pietro sullo sfondo ma anche immagini più "intime". Una mentre fa la doccia (chissà chi c'era a fotografarlo…), un'altra mentre si allena con deltoide in bella vista, un'altra ancora con camicia aperta e petto in mostra. C'è persino una foto cui imbraccia un bel kalashnikov, a evocare forse l'ispirazione della sua carità cristiana: porgi l'altra guancia e poi spara. Padre Spadaro, da sempre molto sensibile alle tematiche Lgbt (tanto da intervenire a favore dell'approvazione del Ddl Zan: "Occorre appoggiare norme che hanno senso difensivo di persone vulnerabili e non abbiano senso offensivo di legittime idee"), sbertucciato da "la Verità" che maliziosamente lo ha definito esponente della "Chiesa arcobaleno", ha avuto modo di fare una ricognizione dei social del suo amico e collaboratore? Ha tastato con mano e verificato il misterioso quanto roboante curriculum di Sechi? Ah, saperlo…

Lorenzo Bertocchi per "la Verità" il 25 giugno 2021. C'era una volta l'uso politico della religione secondo padre Antonio Spadaro. Il direttore de La Civiltà Cattolica, solo una settimana fa, dalle colonne del New York Times, richiamava alla pia devozione i vescovi statunitensi, rei di «usare l'accesso all' eucaristia come arma politica». Del Vangelo secondo Spadaro però 168 vescovi americani non hanno saputo che farsene, probabilmente ritenendolo apocrifo, visto che hanno deciso a larga maggioranza che il documento sulla coerenza eucaristica s' ha da redigere, anche per quei politici cattolici (vedi il presidente Joe Biden) che si dicono tali e poi sostengono politiche contrarie all' insegnamento della Chiesa. È una questione di libertà religiosa. Ancora ieri, nel giorno della grande sberla sul ddl Zan, il gesuita americaneggiava su Twitter: «"Quando il cristianesimo è ridotto a costume, a norme morali, a rituali sociali, allora perde la sua vitalità e il suo interesse esistenziale per gli uomini e le donne del nostro tempo" (monsignor Christophe Pierre, Nunzio apostolico negli Usa)». Sulla legge anti omofobia, la dottrina Spadaro ha fatto un po' il controcanto ai vescovi italiani che, almeno nel comunicato del 10 giugno 2020, scrivevano di non riscontrare alcun vuoto normativo. «Occorre appoggiare norme», cinguettava, invece, uno Spadaro un po' criptico, «che hanno senso difensivo di persone vulnerabili e non abbiano senso offensivo di legittime idee». Probabilmente l'intento del consigliere del Papa era sempre quello di evitare l'uso politico della religione e aprire il mondo cattolico all' inclusione, un po' come il quotidiano dei vescovi, Avvenire. Nel giugno 2020, infatti, la penna d' elezione per questioni Lgbt, Luciano Moia, intervistava lo stesso Alessandro Zan, esattamente il giorno dopo che era stata pubblicata la già citata nota Cei. Ovviamente l'intervista appare oggi un po' in ginocchio, visto che faceva risaltare le parole del relatore sul fatto che «non sarà una legge bavaglio, né una legge liberticida». Talmente poco liberticida che, infatti, il 17 giugno la Segreteria di Stato vaticana ha fatto pervenire al governo italiano una «nota verbale» in cui si chiede di fare attenzione al testo del ddl Zan in quanto c' è il rischio di veder ridotta la «libertà garantita alla Chiesa cattolica dall' articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato». Qui, di uso politico della religione, a ben vedere, c' è pochissimo, perché la Santa Sede gioca in «punta di diritto», che, potrà anche non piacere, ma è una posizione laica. Certo, il direttore del quotidiano dei vescovi, Marco Tarquinio, lo scorso 15 aprile, rispondendo proprio a una lettera di Alessandro Zan, sottolineava che il testo ha subito «un'evoluzione indubbia anche se non sufficientemente chiara e ancora insidiosa», in ossequio al diktat che il testo va fatto, sebbene «rimodulato». Ma l'inclusione del quotidiano dei vescovi non dava troppo spazio a quel manipolo di prelati coraggiosi che, invece, sul ddl Zan le parole chiare le hanno dette. Innanzitutto il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, monsignor Antonio Suetta, che in una lettera del giugno 2020 scriveva che «non si può accettare che una legge, perseguendo un obiettivo "ideologico", metta a rischio la possibilità di annunciare con libertà la verità dell'uomo, sia pur con l'obiettivo di prevenire forme di discriminazione contro le quali, come già ricordato, è sufficiente applicare le disposizioni già in vigore». E ieri lo stesso Suetta ha ribadito che quello del Vaticano, con riferimento al Concordato, è un «atto opportuno fatto da chi ha competenza per farlo». Ma tanti altri si sono seduti sulla comoda posizione di dare un colpo alla botte e uno al cerchio, nel nome dell'inclusione e del rispetto della dignità di tutti. Un po' per convinzione, un po' per pavidità. Bisogna però riflettere che l'atto posto dallo Stato del Vaticano nei confronti dello Stato italiano è un fatto storico e in un certo senso unico che cambia le carte in tavola. Il livello su cui si è spostato il contendere è ben altro di quello dei comunicati o delle lettere pastorali, delle articolesse o dei cinguettii, qui la preoccupazione della Santa Sede è formale e riguarda una materia delicatissima e fondamentale come la libertà religiosa, declinata in questo caso nella libertà di predicazione e di educazione. Tutti coloro che fino a ieri martellavano sui ponti da gettare, e sui cui spesso trascinavano anche oltre la sua volontà il Papa, dovranno fare i conti con questa laicissima presa di posizione a cui Francesco ha dato il suo placet. Ricordiamo che tra le cose che urtano la libertà di predicazione e educazione ci sono anche passaggi del Catechismo o delle Scritture o atti del Magistero che forse qualcuno all' interno della Chiesa mal digerisce, ma su cui lo Stato del Vaticano ha chiesto conto al governo italiano affinché venga rispettata la libertà religiosa. La pastorale, per quanto inclusiva e dialogante con tutti, vede tracciarsi davanti una sottile linea rossa invalicabile. Da ieri, quelli che avendo da eccepire sulle derive liberticide del ddl Zan venivano trattati da cripto-omofobi, impresentabili, hanno un paio di alleati in più per sostenere le loro idee. Per quanto la linea del «troncare e sopire» ora venga messa in atto dalle regie mediatico-curiali, con ampio utilizzo del «non affossare», ma «rimodulare», il ddl Zan, se non è morto, è gravemente ferito.

«L’attacco del Vaticano al ddl Zan sembra un dispetto della Curia contro il Papa. Di cui non si sentiva il bisogno». Lo sconcerto di padre Alberto Maggi. «Ma guardando alla storia non è una novità: la Chiesa da sempre si è opposta al progresso». Simone Alliva su L'Espresso il 22 giugno 2021. “Un dispetto al Papa”. Sconcertato Padre Alberto Maggi, sacerdote e biblista, frate dell'Ordine dei Servi di Maria che a Montefano ha fondato il Centro studi biblici " Vannucci" commenta la nota della Segreteria di Stato del Vaticano secondo cui il ddl Zan violerebbe "l'accordo di revisione del Concordato". Padre Maggi che già quarant’anni fa dava la comunione agli omosessuali cattolici ben conoscendo le loro sofferenze per l’esclusione della Chiesa si dice attonito: «Sembra tutto così surreale. Non so se è stata un’iniziativa dall’alto oppure se è stata una mossa. Certo è sorprendente ma non se ne sentiva il bisogno».

Ha detto “una mossa”. Forse per colpire la presunta apertura di Papa Francesco alle questioni Lgbt?

«Mi sembra chiaro che Papa Francesco abbia i bastoni tra le ruote e questi non vengono dagli esterni ma dall’interno della Chiesa. Quelli che non tollerano questa sua apertura. Ma è sempre stato così. Le Curie sono sempre state la palla al piede dei Papi. Non apertamente, il tentativo però è stato quello di rallentare o affossare. Tanto i Papi passano ma la Curia resiste a sé stessa. Può darsi che sia un dispetto al Papa. Può darsi. Ma guardando alla storia non è una novità: la Chiesa da sempre si è opposta al progresso. Eppure alla fine ci deve arrivare. Pensi che c’è stato un Papa contrario anche all’uso della bicicletta e scomunicava i preti che la usavano. Papa Giuseppe Sarto. Ma si rende conto? La bicicletta era una novità scandalosa».

Lei crede che sui diritti civili i fedeli siano più avanti di questa Chiesa?

«Non lo penso io. Il Cardinale Carlo Maria Martini disse che la Chiesa era indietro di duecento anni. Ma Martini era stato generoso. La Chiesa è molto più indietro. Come preti abbiamo una garanzia: lo Spirito del signore che ci apre gli occhi di fronte ai nuovi bisogni della società. La società non è statica ma cambia. Il rischio è quando di fronte a nuove situazioni, come questa, restiamo impauriti o incapaci e quindi diamo vecchie risposte. Sa, quando diamo vecchie risposte la gente non ci ascolta e fa bene, va avanti. La garanzia della Chiesa è essere capaci di dare nuove risposte e vedere il bene dell’uomo come valore assoluto». 

Ascoltandola direi che lei è favorevole al ddl Zan. Nella Chiesa siete in pochi a dirlo apertamente.

«Il cardinal Bassetti aveva parlato di miglioramenti. L’apertura c’è. Ma certo nessuna legge è perfetta. Ci saranno sempre dei punti che vanno migliorati. Ma appunto il Cardinal Bassetti non l’ha bocciata. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Poi però la Chiesa si muove un passo avanti e due indietro ma la società va sempre avanti. Questa di oggi e molte altre sono pietre di inciampo della Chiesa. Pensi che oggi, parlando della legislazione ecclesiastica, se lei divorzia non può accedere alla comunione. Se ammazza sua moglie basta confessarsi. Possibile che sia più grave il peccato del divorzio che quello dell’omicidio? Oggi per la Chiesa è così. Distruggere un amore, che pensiero inaccettabile. Il buon senso della gente ha lo stesso valore dello Spirito Santo. La chiesa deve imparare ad ascoltare». 

Lei disse: si benedicono le case, gli animali, gli oggetti, ma due persone che si vogliono bene no.

«Sì è incredibile. Il peccato è il male che fai agli altri. Cosa c’è di male nelle persone che si vogliono bene? È una novità? No, nei secoli passati queste persone erano semplicemente nascoste. Oggi parlano di degenerazione dei tempi ma non è vero. Sono sempre esistite solo che prima venivano lasciate ai margini, si nascondevano nell’oscurità mentre oggi, per fortuna, vivono alla luce del sole. Per vedere il male in due persone che si vogliono bene quanta perversione bisogna avere in testa?»

Il ddl Zan riguarda anche il futuro. Gli studenti, i giovani lgbt. Lei è diventato un punto di riferimento per moltissimi giovani cattolici lgbt.

«Io non sono esperto di morale. La mia piccolissima competenza sono i vangeli. I gruppi omosessuali hanno sentito nel mio messaggio un tono diverso e mi hanno coinvolto. Una volta partecipai a programma televisivo (Uno Mattina, ndr ) per parlare di omosessualità e Vangelo. Sa, da quella volta non mi hanno chiamato più. Comunque, tre giorni dopo ho ricevuto la lettera di un ragazzo di Lugano. Quella mattina questo ragazzo di 30 anni aveva tentato il suicidio, dopo una notte passata a piangere. Decise di arrampicarsi sul tetto, per non farsi sentire accese il televisore a tutto volume. Era sintonizzato su Rai1. Mi scrisse: “ascoltai le sue parole scoppiai in un pianto. Padre Maggi qualsiasi cosa accada sappia che lei ha salvato una vita, la mia” Pensi a quanta gente ha sofferto, si tolgono la vita, la mortificano perché? Per quale motivo?» 

Salvare vite e difendere i più deboli dovrebbe essere la missione cardine della Chiesa

«La buona notizia è per tutti. Il peccato nei Vangeli è il male che si fa agli altri. Gesù ci ha avvertito: attenti, perché voi ponete dei pesi sulle spalle delle persone e non le risollevate neanche con un dito. Oggi per gli omosessuali l’unica soluzione è vivere casti. Io sono frate da 50 anni e ho scelto questo celibato e so quanto sia difficile. Ma non posso imporlo agli altri, non posso dire devi essere celibe, non devi avere una famiglia così facendo metto dei pesi sulle spalle di queste persone. Comunque andiamo avanti sereni. Queste uscite sono cose che non andrebbero neanche considerate, l’umanità va avanti. Ecco perché il Papa dice spesso: pregate per me. Preghiamo per il Papa e sosteniamolo».

Piergiorgio Odifreddi per “La Stampa” il 24 giugno 2021. Rispondendo all'intervento del Vaticano sulla legge Zan, il presidente del Consiglio ha dichiarato che «lo stato Italiano è laico e il Parlamento è libero», e i parroci di strada hanno accusato una manina di aver agito all'insaputa del papa. In realtà, il Vaticano ha semplicemente sollevato un dubbio di incostituzionalità, com' è nel suo pieno diritto, confermato implicitamente da Draghi. L'articolo 7 della Costituzione stabilisce infatti che i rapporti fra Stato e Chiesa siano regolati dal Concordato ereditato dal fascismo. Non bisogna dunque prendersela con il Vaticano che rivendica l'attuazione di quei patti, ma con coloro che dapprima li hanno voluti, da Mussolini a Togliatti, e in seguito li hanno mantenuti. Cioè, con tutti i nostri leader politici, nessuno dei quali ha mai chiesto una revisione costituzionale o una denuncia unilaterale di quell'anacronismo: meno che mai gli ex democristiani come Renzi e Letta, o gli ex allievi dei preti come Conte e Draghi. Quanto al papa, solo gli ingenui e i disinformati possono non sapere che il suo "progressismo" è una leggenda mediatica, e che quand'era in Argentina intervenne ben più pesantemente di ora contro i matrimoni civili, con toni definiti allora "medievali e inquisitori". Il Vaticano si preoccupa che la legge Zan possa obbligare le scuole a insegnare l'identità di genere, e paradossalmente non ha tutti i torti: quest' ultima, infatti, viene definita nell'Articolo 1 della legge come "l'identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso". La legge decreterebbe in tal modo una cesura tra la percezione psicologica di un individuo e la sua realtà fisiologica: la prima dev' essere naturalmente tutelata e difesa, perché ciascuno ha diritto di avere le opinioni e i sentimenti che desidera, ma la seconda non può semplicemente essere negata o rimossa, perché anche i fatti hanno i loro diritti. Per fare un altro esempio, di cui si può forse parlare più serenamente, tutti conoscono il detto di Thomas Mann nei Buddenbrook: "si ha l'età che si sente di avere". Ora, nessuno si sogna di negare a un ottantenne il diritto di sentirsi un ventenne, o viceversa, ma questo non significa che allora dobbiamo tutti dire, o addirittura insegnare nelle scuole, che non esistono l'età biologica o il tempo, e che non possiamo misurarli. Eppure, è proprio questo che i post-moderni predicano da decenni, all'insegna del motto di Nietzsche: "non ci sono fatti, solo interpretazioni". E non è un caso che gli scienziati si secchino, perché sanno che invece i fatti ci sono eccome, e che le interpretazioni non vanno affatto tutte bene, se li negano o li rimuovono. E' singolare che a cercare di introdurre l'ircocervo dell'identità di genere nella legislazione italiana sia un decreto che porta la firma di un ingegnere come Zan, invece che di un filosofo del pensiero debole come Vattimo. Ma è proprio l'accoppiamento della sacrosanta difesa del diritto alle scelte sessuali e affettive, da un lato, con la condannabile introduzione dell'identità di genere, dall'altro, che rischia di affossare l'uno e l'altra. Ora, sono più importanti i fatti, e in particolare la necessità di tutelare le scelte di vita individuali, e di difenderle dalle vessazioni e dalle violenze, o le interpretazioni, e cioè le ideologie sociologiche post-moderne? Non sarebbe meglio riconoscere che anche da sinistra si sono sollevate perplessità di vario "genere" su queste ideologie, che rischiano di far buttare nel lavandino il bambino insieme all'acqua sporca? A proposito di sinistra, ammesso che la parola abbia ancora un significato qui e oggi, non sarebbe meglio migliorare la legge anche dal punto di vista dei diritti sessuali e affettivi? Ad esempio, si parla sempre di "coppie", dimenticando questa volta il detto di Alexandre Dumas figlio: "le catene del matrimonio sono così pesanti che a volte bisogna essere in tre per portarle". La vera liberazione non è il riconoscimento delle coppie di fatto, ma dei triangoli e degli altri poligoni. Ecco, parlare di legalizzazione della poligamia sarebbe sicuramente un argomento interessante e di sinistra, e forse quello sì che potrebbe finalmente far saltare il banco con il Vaticano!

L'intervento del Vaticano per fermare i diritti. Preti in cella per il ddl Zan, una tesi che sfiora il ridicolo. Salvatore Curreri su Il Riformista il 28 Giugno 2021. Quando uno Stato può dirsi laico? Certo, quando non c’è una religione di Stato. Ma non basta, e le reazioni di segno opposto alla nota verbale della Santa Sede sul ddl Zan lo dimostra. C’è chi, soprattutto tra i non credenti, la considera un’inaccettabile ingerenza perché considera la laicità innanzi tutto come separazione istituzionale tra Stato e Chiese. E chi, all’opposto, soprattutto tra i credenti, l’ha apprezzata perché considera la laicità soprattutto come libertà d’esercizio del magistero pastorale. In realtà, benché la laicità presupponga e richieda ovunque la distinzione tra dimensione temporale e dimensione spirituale, il modo in cui si realizza varia storicamente nel tempo e nello spazio. Così abbiamo Stati laici che s’ingeriscono negli affari della Chiesa nazionale (giurisdizionalismo) fino al punto che il Sovrano ne è a capo (Gran Bretagna); Stati che considerano la religione il collante sociale che fonda la loro identità (God Bless America…); Stati che considerano la laicità in senso negativo (per sottrazione) come assoluta neutralità delle istituzioni pubbliche nei confronti del fenomeno religioso, visto come fattore di potenziale divisione sociale (Francia, dove ad esempio per questo motivo è vietata l’ostensione di simboli religiosi). Stati, infine – come il nostro – che intendono la laicità in senso inclusivo (per addizione) perché considerano la religione non solo come un’esperienza spirituale privata, ma anche un fattore di rilievo sociale al quale lo Stato deve guardare con favore perché espressione della personalità di ciascuno (Corte cost., sentenza n. 334/1996). Per questo, l’art. 19 della nostra Costituzione precisa che “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa” non solo “in qualsiasi forma, individuale o associata” ma anche “di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. E per questo lo Stato regola la dimensione pubblica del fenomeno religioso, stipulando accordi bilaterali con la Chiesa cattolica (Concordato) e con le confessioni acattoliche (intese) per soddisfare loro esigenze specifiche, concedere loro particolari vantaggi o imporre particolari limiti, dare rilievo giuridico a loro atti (come nel caso del matrimonio), disciplinare infine materie di comune interesse. Bene dunque ha fatto il presidente del Consiglio Draghi in Parlamento a non limitarsi a ribadire l’ovvia laicità del nostro Stato, aggiungendo piuttosto che essa non equivale a “indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni” ma si traduce nella “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (Corte costituzionale, sentenza n. 203/1989). Questo spiega perché, nel nostro Paese, è sancito, ad esempio, il diritto d’obiezione di coscienza per motivi religiosi; il diritto all’assistenza religiosa nei luoghi pubblici (i ricoverati negli ospedali, i detenuti nelle carceri, i militari nelle caserme, gli studenti che vogliono frequentare l’ora di religione); il diritto di non lavorare per onorare determinate festività religiose; i finanziamenti pubblici per costruire edifici destinati al culto. Alla luce di una concezione inclusiva, in cui Stato e Chiesa cattolica sono chiamati nei loro rapporti “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese” (art. 1 Concordato), la suddetta nota verbale esprime legittimamente le preoccupazioni della Santa Sede sulla possibilità che il ddl Zan incida negativamente sulla libertà della Chiesa cattolica di svolgere la sua missione pastorale e di quella dei fedeli di esercitare i loro diritti politici (riunione, associazione, espressione). Libertà garantite dal Concordato (v. rispettivamente artt. 2.1 e 2.3) e per questo che potevano essere oggetto d’intervento solo da parte della Santa Sede e non della Conferenza Episcopale Italiana, alla quale l’art. 14.2 del Concordato lascia solo la regolazione tramite intese di “ulteriori materie”. Ma, ancor prima, libertà garantite dalla Costituzione(artt. 17-21) per cui, sotto questo profilo, il richiamo al Concordato non aggiunge nulla agli argomenti a sostegno della pretesa natura liberticida del ddl Zan (dovendosi ovviamente escludere che la Chiesa si sia mossa per esservi esentata, rivendicando la propria libertà a essere omofoba…). Ciò chiarito, continuo a ritenere infondate le preoccupazioni espresse sul ddl Zan. Così come contro il referendum sul Trattato costituzionale dell’Ue i francesi nel 2004 furono terrorizzati dall’arrivo degli idraulici polacchi che gli avrebbero tolto il posto di lavoro, ora l’argomento principe della propaganda contro il ddl Zan è quella del povero prete che verrebbe arrestato dai gendarmi (con i pennacchi, con i pennacchi…) al termine della sua omelia a favore del matrimonio solo tra uomo e donna, oppure contro le adozioni delle coppie omosessuali o la maternità surrogata. Argomento d’indubbia presa ma giuridicamente infondato. Come ho già cercato di argomentare su queste colonne (v. il mio intervento dello scorso 15 maggio) a essere colpito è soltanto il pensiero che istiga a compiere atti discriminatori e violenti. Si continua a obiettare: come si fa a stabilirlo? Non si lascerebbe così troppa discrezionalità al magistrato di turno, magari anticlericale? E a nulla varrebbe scrivere nella proposta di legge (art. 4) che «sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti», perché, secondo tali critici, tale articolo finirebbe per ammettere la fondatezza del pericolo segnalato (strano argomento, invero: quando non c’era tale precisazione, la si richiedeva; ora che è scritta, la si ritiene un’auto-accusa: insomma, come fai sbagli…). Tutte queste obiezioni hanno un difetto: considerano il ddl Zan come se introducesse per la prima volta i reati contro l’eguaglianza quando invece essi già esistono. Il ddl Zan, infatti, si limita ad estendere i delitti già previsti contro l’eguaglianza, aggiungendo alle discriminazioni per motivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi” quelle fondate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. Quanti sostengono, quindi, che si tratti di una proposta di legge repressiva della libertà d’espressione e lesiva dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, a causa della fumosità dei concetti di “istigazione” e “atto discriminatorio” dovrebbero per coerenza estendere la loro accusa d’incostituzionalità all’intera legge Reale-Mancino (oggi trasfusa nell’art. 604-bis c.p.) e, dunque, temere per la loro libertà di parola anche in materia razziale, etnica, nazionale o religiosa. Se non l’hanno mai fatto prima e non lo fanno è perché sanno che hanno contro tutta la giurisprudenza che, pronunciandosi sulle fattispecie oggi previste, ha chiarito da tempo che l’istigazione a compiere atti discriminatori è punita perché «realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali». Difatti, «l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale» (Cass., V pen. 31655/2001). Ad essere punito per tali motivi non è, dunque, la propalazione di un sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, o le mere manifestazioni di ostile disprezzo nei confronti di una persona, tutti rientranti sotto la tutela della libertà d’espressione ex art. 21 Cost., bensì le opinioni che, per il contesto in cui vengono espresse, sono per stretta consequenzialità idonee «a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori» (Cass., III pen. 36906/2015) nei confronti di un soggetto non per quel che fa ma per quel che è da parte di chi la considera deviante dall’unico modello ritenuto ammissibile (Cass., VI pen. 33414/2020). L’istigazione esprime quindi una manifesta volontà diretta a creare in un vasto pubblico, come nel caso della diffusione ed amplificazione veicolata dai social network, il concreto pericolo del compimento di atti d’odio e di violenza fisica e morale. L’ha ricordato di recente anche la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Beizaras e Levickas c. Lituania condannata per non aver previsto sanzioni penali nei confronti di utenti di Facebook che avevano postato auguri di morte a due omosessuali fotografati mentre si baciavano. Forse quando si lamenta la violazione della libertà d’espressione i critici del ddl Zan farebbero bene a guardare altrove. All’Ungheria? Esatto. Salvatore Curreri

Ddl Zan, Augusta Montaruli a Omnibus: "Finiremo tutti alla sbarra", il più pericoloso degli errori nel testo della legge. Libero quotidiano il 24 giugno 2021. Si parla del ddl Zan e della reazione del Vaticano da Gaia Tortora a Omnibus nella puntata di oggi 24 giugno e Augusta Montaruli, di Fratelli d'Italia, spiega perché il suo partito è contrario. "Non ci piace perché non è scritto bene", dice in collegamento: "Un provvedimento scritto male su temi fondamentali come la libertà di vivere la propria sessualità e la libertà di espressione debba invitare tutti a fare una riflessione aggiuntiva", attacca la Montaruli. "Affrontiamo il tema ma scriviamolo bene". Ma oltre a un problema di forma, c'è un problema di sostanza. Secondo la Montaruli, infatti, "nel merito ci sono aspetti che sono un'ombra. Non si discute il diritto sacrosanto di vivere la propria libertà sessuale. Ma dove finisce questa libertà? Nella libertà di espressione come il ddl Zan?", si chiede la meloniana. Che sottolinea un altro aspetto fondamentale: "Non si specifica quali siano gli 'atti discriminatori'. Cosa si intende per 'atti discriminatori'? Tutto verrà rimesso nelle mani della magistratura".  E ancora, "tutto è soggetto all'interpretazione". Quindi c'è il tema per esempio dell'utero in affitto e quello delle adozioni per le coppie omosessuali. La Montaruli si riferisce al fatto che con "atti discriminatori" potrebbe poi per esempio rientrare l'adozione per le coppie gay, la registrazione di coppie monogenitoriali eccetera e soprattutto si pone con essa un'altra questione: "Un sindaco può diventare imputato se per esempio si rifiuta di iscrivere una coppia monogenitoriale". Insomma, il rischio che tutto finisca in mano ai magistrati e alla loro libera interpretazione c'è tutto.

Ddl Zan, Concordato e le polemiche. Anche il Vaticano teme i Pm, la legge crea arbitrio. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Giugno 2021. Per carità, siamo tutti d’accordo. Chi volete che in questo Paese, vocazionalmente conformista, si accodi a Orban o a suoi consimili a proposito dell’omofobia? Salvo qualche aspirante alla lapidazione mediatica, o qualche grullo che non manca mai, è impossibile o quasi che si trovi qualcuno sano di mente che ritenga siano ammissibili atti di discriminazione o peggio ancora di violenza «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità», come recita il titolo del disegno di legge Zan. Il tema, però, non è se una legge sia opportuna per prevenire e contrastare simili comportamenti, ma quale legge si debba approvare senza che, per tutelare anche la più minuta diversità sessuale e identitaria, sia messa in pericolo la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa, la libertà di insegnamento di tanti. Si è ricordato nelle polemiche recenti che la Repubblica è uno Stato laico. Ce lo dicono autorevoli e recenti asseverazioni che certo ci tranquillizzano, ma questo non vuol dire che si possa sostituire alla confessionalità di un credo o di una fede, una inflessibile religione della tolleranza assoluta che, a ben guardare, non rinviene spazio e legittimazione in alcuna norma della Costituzione. Benché una generica e bonaria tolleranza sia largamente predicata e invocata come la nuova religione del Terzo millennio, in verità i Costituenti la tennero fuori dalle porte della Carta. Non la menzionarono affatto nei suoi articoli, preoccupati com’erano dal possibile incedere di un relativismo che poteva minare l’etica repubblicana la quale, invece, si fonda su valori non negoziabili né suscettibili di mediazioni al ribasso. Relativismo e tolleranza non sono sinonimi, né si equivalgono poiché la comprensione e anche la difesa delle altrui convinzioni non può comportarne l’equivalenza con le proprie le quali, in una coscienza rettamente orientata, prevalgono sulle altre per il solo fatto di essere profondamente accettate e vissute da ciascun individuo. Dopo il 1750 la Francia fu inondata da scritti sulla tolleranza, tra i quali il famoso Trattato sulla tolleranza di Voltaire che riassumeva, si badi bene, la tolleranza nella regola aurea del «non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fatto a sé stessi». Roba scontata si potrebbe dire, ma che con il relativismo ha poco a che vedere. È scontato, è vero, ma a patto che, nel momento in cui si mette mano alla pistola del codice penale, si sia sufficientemente chiari su cosa si intenda sanzionare e su quali condotte si intenda punire. Ed è su questo crinale che la Chiesa italiana sembra aver inteso reagire. Invero a muoversi è stata la Segreteria di Stato, ossia il ministero degli Esteri del Vaticano, uno Stato estero che ha in piedi un Concordato con la Repubblica, ossia un patto che pone vincoli precisi al Parlamento il quale – invece che baloccarsi nella retorica dell’assoluta sovranità legislativa (che non esiste in Costituzione) – dovrebbe ricordare che ha il preciso dovere di far fronte agli obblighi internazionali assunti verso la Santa Sede. È noioso e didascalico, ma piuttosto che accodarsi al coro di quanti strepitano senza aprire un codice, è bene intendersi almeno su alcuni degli obblighi che la Repubblica ha assunto con il Vaticano in favore della Chiesa italiana e dei cattolici, intesi come singoli. Tra questi spiccano «la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare, è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale» (articolo 2, comma 1) e poi «è garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». In altre parole, i cattolici presenti nel Paese – siano essi o meno cittadini italiani – usufruiscono formalmente di una tutela rafforzata della propria libertà di manifestazione del pensiero e finanche della propria libertà educativa (articolo 9) che ha fondamento insieme nella Costituzione e nel Concordato. Da questo punto di vista si deve comprendere che il Vaticano non può arretrare neanche di un millimetro su questo crinale e che il Soglio di Pietro opera non a proprio vantaggio, quale Stato straniero, ma in favore della comunità dei cattolici residenti in Italia, della Chiesa che la Repubblica riconosce, nel suo ordine, come indipendente e sovrana (articolo 1). Roba da sbadiglio è chiaro. Mentre hanno causato una mezza insurrezione alcune autorevoli dichiarazioni che al rispetto di questi patti si sono richiamati. Monsignor Nunzio Galantino, uomo di primo piano delle gerarchie ecclesiastiche italiane, ha detto: «Non è mia competenza, ma penso che si debba stare attenti a non usare formulazioni che nelle mani, e nelle teste, di malintenzionati diventino strumenti di intolleranza». Poi, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede: «La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è». Qualcuno ha pensato che il cardinale, convenendo sul dato della laicità dello Stato, abbia inteso fare una sorta di marcia indietro, laddove è chiaro che proprio quella laicità impedisce derive verso una sorta di religione neutra della tolleranza che con quella posizione è palesemente incompatibile. Ma non è questo il punto. Entrambi hanno manifestato la preoccupazione che si rimetta ai tribunali il compito di stabilire cosa sia discriminatorio e cosa non lo sia. Una magistratura cui la Santa Chiesa, e non da sola di questi tempi, guarda con circospezione e con un certo sospetto almeno a partire dalla guerra dei crocifissi nelle aule scolastiche che venne vissuta come il segnale di un’intolleranza laicista verso ogni fede religiosa. Al di là dei tecnicismi che possono riguardare le singole norme penali, manca nella legge Zan una nozione chiara di atti discriminatori e, ad esempio, non è evidente se il rifiuto di una scuola confessionale di iscrivere i figli di coppie omogenitoriali possa o meno essere sanzionato penalmente o civilmente. Non è in discussione se sia un comportamento giusto o ingiusto, condivisibile o deplorevole, quel che conta è se possa portare o meno a un processo. E basta leggere l’articolo 4 per capire che un po’ di cautela non guasterebbe affatto: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime ri­conducibili al pluralismo delle idee o alla li­bertà delle scelte, purché non idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti». A parte il fatto che, per fortuna, quella libertà è «fatta salva» dalla Costituzione e non dalla legge Zan, è davvero singolare che «condotte legittime» sono tollerate alla condizione però che non determinino «il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti». È chiaro che si è fuori da ogni tipicità e che così si affidi ai tribunali un compito immane e preoccupante, ossia quello di stabilire ex post e sulla base di opinioni in gran parte opinabili cosa sia consentito o cosa vietato. Battaglia dura e oltre Tevere hanno il patema di chi sa bene che la fede affonda la propria storia in un processo ingiusto celebrato in una piazza di esagitati. Alberto Cisterna

Ddl Zan, Giulia Bongiorno: "Paradossale, chi vuole difendere l'uguaglianza pone limiti alle nostre libertà". Libero Quotidiano il 28 giugno 2021. "Sta facendo un ottimo lavoro, non ha bisogno di consigli". Un elogio quello indirizzato a Marta Cartabia arrivato direttamente da Giulia Bongiorno. L'avvocato, nonché senatrice della Lega, non ha potuto fare a meno di spendere belle parole per il ministro della Giustizia: "Trovare una sintesi è complicato, perché sul tema giustizia si agitano sensibilità molto diverse: per esempio, c'è chi pensa che il garantismo sia un esercizio di vuota retorica, dimenticando che è un principio inserito nella nostra Costituzione". Soddisfazione da parte del Carroccio sulla riforma del processo penale: "Sono molto soddisfatta della proposta del Ministro di superare il testo Bonafede sulla prescrizione, che è stato oggetto di un duro confronto tra la Lega e i Cinque Stelle quando eravamo al governo". Non mancano comunque piccole divergenze su appello e Cassazione. Per la Bongiorno si tratta di una fase particolarmente delicata, dove la magistratura è in crisi, "frutto delle distorsioni di un correntismo esasperato". Da qui l'appello rivolto dalle colonne de La Stampa affinché "non possiamo limitare i controlli sulle sentenze". Una richiesta non per forza legata alla sfiducia nei giudici, ma "essere innocenti - spiega la leghista a chi si presenta da lei - potrebbe non bastare per essere assolti. Sui piatti della bilancia, simbolo della giustizia, temo che a volte potrebbero non esserci solo le prove. È grave, ma è così". L'esempio è dietro l'angolo e conferma quanto denunciato dall'ex membro del Consiglio superiore della magistratura, Luca Palamara: "Se ci si imbatte in un giudice ambizioso e il pm di quel processo appartiene a una corrente che potrebbe incidere su una promozione, è lecito avere dei dubbi sulla sua imparzialità? Le impugnazioni sono forme di controllo degli errori dei giudici precedenti e a questa garanzia non si può rinunciare". È proprio questo l'obiettivo dei referendum proposti in tandem con i Radicali: l'indipendenza della magistratura. Non meno schiette le posizioni sul disegno di legge Zan. La proposta tutta piddina contro l'omotransfobia ha trovato un forte avversario, oltre che nel centrodestra, anche nel Vaticano. Eppure non c'è da stupirsi, visti i pericoli giuridici che si verrebbero a creare. Quali? Presto detto: "Si usano definizioni normative che paiono contrastare con la difesa del pluralismo. Si deve tener conto della libertà di religione, di insegnamento e di espressione. È paradossale che una legge volta a tutelare l'uguaglianza si presenti come un limite alla libertà altrui. Nessuno vuole affossare il ddl Zan, ma servono alcune correzioni per raggiungere una condivisione tra tutte le forze politiche su un tema delicato".

Ddl Zan, cortocircuito: "Vergognatevi, giù le mani dagli immigrati". Lesbiche contro gay pride: se ci fosse già la legge...Libero quotidiano il 24 giugno 2021. “Non aderiamo al Milano Pride perché nel suo documento politico si avanza indirettamente la richiesta per noi inaccettabile dell’utero in affitto. Il Milano Pride mette nero su bianco che le persone omosessuali sono ‘costrette a migrazioni per costruire la propria famiglia. Lo Stato italiano deve vergognarsi’. Ma secondo noi la vergogna è paragonare coppie bianche, privilegiate e facoltose alle persone migranti”. Così in una nota stampa Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica Nazionale. Insomma, siamo al cortocircuito: la scissione delle lesbiche dal Pride di Milano. Uno strappo che arriva proprio nei giorni in cui si discute del ddl Zan. Un'accusa, quella della Gramolini, in cui si parla apertamente di discriminazioni. Insomma, circostanza che potrebbe portare proprio all'applicazione della tanto discussa legge. Curioso anche il fatto che il movimento delle donne si scagli contro quello del Pride, che raccoglie tutto l'universo Lgbt, tirando in ballo gli immigrati. Che vergogna, questa la sintesi del loro pensiero, paragonarsi ai poveri migranti, voi uomini bianchi e ricchi che potete migrare all'estero per coronare i vostri sogni. Pagando. Insomma, un assoluto e totale cortocircuito, come accennato qualche riga sopra. “Il Milano Pride chiede anche che si possa autocertificare il cambio anagrafico di sesso, trasformato in una ‘procedura comunale’, questa per noi è una banalizzazione della transessualità e altererebbe le statistiche (su gap salariale, violenze ad esempio) danneggiando le donne in tanti i campi: quote, sport, pari opportunità. A noi- continua Gramolini- importano i diritti lgbt+, i diritti delle donne e i diritti umani, che devono progredire insieme in una sintesi responsabile e senza mercificazioni. Per questo la nostra giornata di Pride a Milano sarà domenica 27 giugno con il convegno "Differenti, non escludenti", pieno di voci decise a confrontarsi affinché continui la dialettica delle idee”.  “Ascolteremo la giornalista di Micromega Cinzia Sciuto, la filosofa Raffaella Colombo, la scrittrice Monica Lanfranco, l’assessora del PD Irene Zappalà. E parleremo con tante attiviste di nuovi diritti e falsi diritti, di realtà del sesso, di necessari emendamenti al ddl Zan e di relazioni tra donne”, spiega ancora la Gramolini. Intanto, Palazzo Marino si è acceso da mercoledì e fino a sabato coi colori dell’arcobaleno proprio per il Milano Pride 2021. Per la prima volta l’illuminazione dura quattro notti: dal tramonto fino all’alba la facciata della sede istituzionale in piazza della Scala si tingerà dei sei colori della bandiera arcobaleno.

Legge anti-omofobia, i gay si ribellano: "Casta di ottimati omosessuali, ce la vediamo in Tribunale". Antonio Rapisarda Libero quotidiano il 26 luglio 2020. «Sostengono a parole il fatto che siamo tutti "uguali" e poi proprio loro creano una casta di "ottimati" Lgbt? Rispetto alla quale è vietata, codice penale in mano, persino la critica?». Finirà che per difendere gli insegnamenti di «Alessandro Magno o di Yukio Mishima», omosessuali che «hanno garantito la continuità di imperi e ridestato tradizioni», anche Mario Ravetto Flugy, gay e conservatore, 61enne e dirigente di Fratelli d'Italia, se la vedrà in Tribunale. Tutto questo grazie al cosiddetto ddl Zan: il controverso testo unico che intende perseguire gli atti discriminatori fondati «sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere». Un paradosso? Lo stesso accadrà ad Umberto La Morgia, 31enne romano con la tessera della Lega in tasca, che in un video-denuncia diventato virale spiega che sarà messo all'Indice come «omofobo interiorizzato» per il semplice fatto di essere un gay che crede nella famiglia naturale. E che dire, poi, di Giorgio Ponte - scrittore e insegnante - consapevole che con tale dispositivo «pensano di aver trovato il modo per fermarmi»: ossia di bandire la sua storia di omosessuale cattolico «come fanno i Black lives matter con le statue». Non se ne sorprende, infine, Carlotta che dal Veneto racconta come fin dagli anni di Sociologia si è sentita «più discriminata come donna di destra dagli stessi militanti "arcobaleno" che come lesbica da tutti gli altri». Sono quattro storie "diversamente omosessuali", quattro testimonianze raccolte da Libero di quella maggioranza silenziosa che si oppone a fianco delle piazze pro-family di "Restiamo liberi" al dispositivo della legge liberticida, ammantata di anti-omofobia, targato Pd. Progetto che in realtà rappresenta per tanti gay "non allineati", di destra, cattolici o conservatori, nient' altro che l'arbitrio vetero-marxista e decostruzionista di una «classe sì ma di privilegiati». Da Palermo Mario Ravetto, di destra fin dai tempi dei calzoni corti, smonta alla radice l'allarmismo che sta alla base del ddl: «In Italia non c'è mai stato odio contro noi omosessuali. Pensiamo solo che addirittura era un tratto distintivo sotto l'impero romano...». A surriscaldare il clima, al contrario, sono proprio gli agenti di quella che lui chiama «intolleranza arcobaleno»: «Molti giovani genitori mi dicono di essere spaventati non dal naturale sviluppo dell'orientamento sessuale del proprio figlio, quanto dal fatto che alcune presunte "innovazioni" didattiche come le favole impregnate dalla teoria gender o le campagne Lgbt innestate dentro le serie tv possano influenzare e confondere i più piccoli. Ecco: con questa legge opporsi a tutto questo sarà penalmente rilevante».

LA COSTITUZIONE

Trent' anni in meno ma spinto dallo stesso afflato conservatore è Umberto La Morgia, sviluppatore di start-up che si è messo in testa di creare un "ponte" fra comunità gay e Family day: «Credo che la famiglia, a prescindere dai sentimenti, sia quella inserita e riconosciuta nella nostra Costituzione: l'unione fra uomo e donna, cellula fondamentale per lo sviluppo». Affermare un'ovvietà del genere sarà presto reato con la legge Zan? «Lo scopriremo dopo il 25 luglio», sorride anche se ammette che già questo dubbio è preoccupante: «L'impianto della legge è nebuloso. Ma ancora più pericoloso è il meccanismo logico: per tutelare e per difendere una minoranza non si può essere "eterofobici", ossia discriminatori verso una maggioranza, o avere comportamenti intimidatori nei confronti di chi dissente. Io stesso sono stato vittima di insulti inquietanti da parte degli estremisti Lgbt per il solo fatto - da consigliere comunale nel bolognese - di essermi dichiarato omosessuale di destra già lo scorso anno, contro le volgarità dei Gay Pride e la follia dell'utero in affitto».

Giorgio Ponte da parte sua si è rivolto direttamente ai vari Zan, Scalfarotto e Boldrini. «Ho chiesto a loro: per quale ragione ritenete quella Lgbt una categoria protetta in maniera "speciale" rispetto a qualsiasi altra? Qual è il senso di essere diseguali di fronte alla legge? Non credete che sia questa discriminazione?». Risposte non pervenute. La sua è la storia di un omosessuale che ha trovato nella Chiesa la spinta per accettarsi senza scadere nel rivendicazionismo: «Mi ha reputato all'altezza dell'esistenza e mi ha scosso dal mio vittimismo». Troppo per certo attivismo gay, dato che per «loro devi essere della "giusta" visione». Il risultato? «Dal 2015 sono riempito di messaggi in cui mi incitano ad ammazzarmi o che mia madre avrebbe fatto meglio ad abortire». Giorgio ha continuato a testimoniare la sua esperienza, «come fanno i medici e gli psicologi che sostengono che un bambino ha bisogno di una madre e di un padre». Il dubbio monta adesso, leggendo il testo unico Zan: «Con una legge simile hanno uno strumento in più per bloccarci. Un bavaglio di massa».

CRIMINALIZZATI

Il paradosso dei paradossi è incarnato da Carlotta. Stigmatizzata da sinistra in quanto donna di destra e come donna lesbica da parte degli integralisti dei diritti gay. «Tentano di criminalizzarci: ci accusano di non essere omosessuali come gli altri...». Tutto questo per il fatto di credere che i sessi esistono: «Noi siamo fatti di natura e cultura, non siamo essere "fluidi"». Uno stigma per i sostenitori del ddl Zan che gridano alla transfobia contro lesbiche e femministe: «Con la scusa di combattere l'odio intendono istituire l'odio per legge. Chiunque osa dire qualcosa di diverso - come è avvenuto alla Rowling (la creatrice della saga di Harry Potter, ndr) - diventa un discriminatore da bastonare con la legge». Insomma, anche per gli omosessuali non irregimentati quella contro il ddl Zan è una battaglia di civiltà. «È una Lepanto sociale», tuona Ravetto, contro «una religione mortifera: l'omosessualismo ideologico non contempla la continuità...».

Sulla stessa scia La Morgia secondo il quale tutta questa temperie nichilista è parallela all'implosione della sinistra: «Prima l'obiettivo era la lotta di classe, poi è diventata lotta fra i sessi. Oggi si è ridotta alla lotta all'interno della persona stessa, con lo scopo di distruggere l'identità. Perché una persona spaccata interiormente è più manipolabile». La crociata anti-omofoba, dunque, come grande operazione di mercato. «Sul desiderio di riscatto dell'omosessuale hanno costruito un impero - conclude Ponte. E all'insoddisfazione di fondo che muove ciascuno di noi, hanno dato l'illusione che la felicità sarà possibile solo quando tutti staranno zitti». Dietro questo "bisogno" si costruisce una narrazione che diventa legge? «Sì, perché basta una persona che sussurri la verità e quella ti farà crollare».

Luigi Accattoli per il "Corriere della Sera" il 28 giugno 2021. Nuova mossa del Papa verso le persone omosessuali: stavolta a sostegno di un gesuita statunitense, James Martin, che è sotto attacco da parte della destra cattolica per la sua posizione di «accompagnamento» comprensivo di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali (Lgbt). La mossa è interpretabile come una correzione di immagine, più che di linea, dopo la pubblicazione della «nota» della Segreteria di Stato al governo italiano sul disegno di legge Zan e soprattutto dopo la dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede che il marzo scorso definiva inaccettabile la «benedizione» in chiesa delle coppie omosessuali. «Dio si avvicina con amore a ognuno dei suoi figli, a tutti e a ognuno di loro. Il suo cuore è aperto a tutti e a ciascuno. Lui è Padre»: così scrive Francesco in una breve lettera autografa in spagnolo, inviata a James Martin in occasione del webinar «Outreach 2021» che si è tenuto sabato scorso, un incontro di persone di ambienti cattolici statunitensi che si occupano delle persone Lgbt. È stato Martin a pubblicare oggi la lettera su Twitter, dopo che ieri l'aveva letta nell' incontro. «Lo "stile" di Dio - scrive ancora il Papa - ha tre tratti: vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è il modo in cui si avvicina a ciascuno di noi. Pensando al tuo lavoro pastorale, vedo che cerchi continuamente di imitare questo stile di Dio. Tu sei un sacerdote per tutti e tutte, come Dio è Padre di tutti e tutte. Prego per te affinché tu possa continuare in questo modo, essendo vicino, compassionevole e con molta tenerezza». Francesco ringrazia infine padre Martin per il suo «zelo pastorale» e per la «capacità di essere vicino alle persone con quella vicinanza che aveva Gesù e che riflette la vicinanza di Dio. Prego per i tuoi fedeli, i tuoi "parrocchiani", tutti coloro che il Signore ha posto accanto a te perché tu ti prenda cura di loro, li protegga e li faccia crescere nell' amore di nostro Signore Gesù Cristo». Padre Martin, 60 anni, è collaboratore della rivista America dei gesuiti statunitensi e consultore del Dicastero vaticano per la comunicazione. Il Papa l'aveva ricevuto in udienza privata il 30 settembre 2019. Presentando la lettera di Francesco nell' incontro di ieri, Martin ha raccontato d' aver scritto al Papa un messaggio personale nel quale l'informava che un suo nipote aveva preso il nome di Francesco alla cresima e gli ricordava l' appuntamento dell' altro ieri, per il quale in precedenza (l' incontro era programmato per il 2020, poi rinviato per il Covid) gli aveva chiesto l'invio di un messaggio di incoraggiamento. Dal Vaticano vengono dunque interventi severi, dottrinali e diplomatici, sulla frontiera omosessuale, posti - con l'approvazione del Papa - da organismi curiali di primaria importanza. Ma vengono anche parole e gesti «comprensivi» da parte di Francesco. La combinazione di questi due segnali sta a indicare la ricerca di una linea di compromesso: incoraggiare chi promuove un nuovo atteggiamento senza però tradurlo in nuove direttive formali. La via che sta percorrendo Bergoglio su questo spinoso argomento è stretta e piena di difficoltà. Oggi all' Angelus Francesco ha fatto un invito ad aiutarlo con la preghiera, che forse rimanda a tali difficoltà: «In prossimità della festa dei Santi Pietro e Paolo, vi chiedo di pregare per il Papa. Pregate in modo speciale: il Papa ha bisogno delle vostre preghiere! Grazie. So che lo farete».

«Noi cattolici Lgbt, figli di un Dio minore. Papa Bergoglio ci ascolti e dica sì al ddl Zan». Simone Alliva su L'Espresso il 24 giugno 2021. Condannati dalla Chiesa i fedeli omosessuali chiedono apertura: l’orientamento da tutelare è quello del bene. «Qualunque proposta che serve per proteggere chi è più debole deve essere appoggiata da chi fa del Vangelo la propria vita». Dai Pacs alle unioni civili, passando per una legge contro l’omotransfobia. I toni della Chiesa cattolica contro le leggi di riconoscimento per le persone Lgbt sono storicamente aspri e senza appello. “Disordine”, “sciagura”, “pericolo per la pace”: erano queste le parole che fino a pochi anni fa le gerarchie cattoliche rilasciavano a indirizzo degli omosessuali. Oggi il registro cambia. “Chi sono io per giudicare un gay” è la frase di apertura alla comunità arcobaleno più nota di Papa Bergoglio. Ma la posizione del papato resta sempre la stessa. Il muro che il Vaticano ha alzato nei confronti della comunità arcobaleno sembra invalicabile. In ultimo la decisione di impugnare il Concordato con lo Stato per chiedere all’Italia di modificare il disegno di legge contro il ddl Zan. Un «verbo» che si mostra potente; eppure, fragilissimo di fronte alla fede di moltissimi cattolici Lgbt. «Per me la fede è come l’aria che respiro. Non riuscirei a immaginare una vita senza» dice Paolo Spina 35, medico ospedaliero. «La Chiesa ha generato in me la fede. Vivo ogni giorno seguendo il Vangelo dal lavoro al mio rapporto con gli amici fino a quello con il mio fidanzato Domenico con cui vivo da un anno e mezzo». Paolo fa parte del “Progetto Giovani Cristiani LGBT”, formato da ragazzi e ragazze, fra i 18 ed i 35 anni. «Per tanto tempo sono stato arrabbiato. Non nei riguardi di Dio ma di una gerarchia che si discosta dalla vita della gente. Da questa arrabbiatura è nata una consapevolezza: non so se voglio la benedizione del Papa della mia unione con Domenico ma so che è finito il momento di chiedere permesso. Mi va di vivere da cristiano, testimoniare anche con i miei errori, come la mia vita possa essere diversamente buona da un momento in cui viene proposto». Sul ddl Zan Paolo non ha dubbi: «Qualunque proposta che serve per tutelare chi è più debole deve essere appoggiata da chi fa del Vangelo la propria vita». E la deriva liberticida denunciata dalla Chiesa? «La preoccupazione di ogni cattolico dovrebbe essere quella di diffondere il Messaggio del Vangelo che è di rispetto, bontà, amore, comprensione condivisione ed empatia. La ricerca di ciò che ci unisce rispetto a ciò che ci divide dovrebbe essere prioritario. Mi piacerebbe una Chiesa che camminasse di più che riconoscesse che non c’è nulla di irriformabile se non l’orientamento del bene».

LA REPUBBLICA E LE INGERENZE

Chi condanna non vede, o non vuol vedere, e agisce come se fede cattolica e omosessualità fossero inconciliabili. Ma il popolo dei credenti è ben altra cosa. Lo racconta bene Alberto Lisci, genitore di Costanza, Pietro e Francesco: «Sono cattolico praticante da sempre, mi sono avvicinato al mondo Lgbt da quando mia figlia ci ha detto di essere lesbica e di avere una relazione con una donna. Come genitore non posso che cercare con i mezzi che possiedo di tutelare mia figlia e difenderla da attacchi verbali o fisici. Quello che mi ferisce non è la critica al ddl Zan ma che la mia Chiesa, o almeno una parte di essa, pensi a tutelare non il bene della sua gente, di tutta la sua gente, ma il proprio».

Le parole di Alberto riflettono quelle di moltissimi genitori di omosessuali e mettono in luce due modi di vivere la Chiesa: «Ho sempre pensato che esistessero due Chiese, una misericordiosa, accogliente, inclusiva e non giudicante, l’altra giudicante e condannante, in virtù di un potere che le permetteva di agire senza mai ascoltare il suo popolo e a cui tutto le era permesso. Mi spiace, ma da quella parte non ci sto, ascolto chi mi ama, e vuole il mio bene, mi accoglie e cammina al mio fianco. Di preti, religiosi e religiose, operatori pastorali, uomini e donne di buona volontà ne ho incontrati tanti ed è a loro che do ascolto, è a loro che affido la mia parte più intima. Spero vivamente che questa primavera di cambiamenti porti a un mondo migliore e spero vivamente che tutti noi possiamo farne parte».

Alessandra Gastaldi, project manager all’interno del Grants Office di un Istituto di ricerca. Nel mondo dell’associazionismo è legale rappresentante di Cammini di speranza ODV- associazione nazionale di cristiani Lgbt: «La fede è parte fondamentale della mia vita, quando ho preso coscienza del mio orientamento ho provato a ignorarla per un po’, ma poi mi sono accorta che non era possibile, quindi ho cercato i gruppi di credenti Lgbt che mi hanno aiutato a capire che il Dio mi ama senza se e senza ma. Una volta che capisci questo anche le difficoltà con la dottrina sono meno schiaccianti». E aggiunge: «Da cattolica non capisco come una legge che tutela le persone ad oggi discriminate nella nostra società senza intaccare il diritto di opinione possa essere un problema».

Confusione e rabbia sono sentimenti comuni di moltissimi fedeli Lgbt: «Da cattolico gay provo tanta rabbia», racconta Luigi, 27 anni, dottorato in Matematica a Milano. «Cerco di portare questi temi nelle mie comunità: la parrocchia e gli spazi cattolici che abito. Ma c’è sempre un muro di silenzio. Non si conoscono i temi, c’è anche paura a parlarne. Le chiusure non sono inaspettate, ma si parla di noi senza di noi. Sono mesi che sul ddl Zan la Cei chiede un tavolo ma noi non siamo invitati a partecipare. Dalla mia chiesa vengo trattato come uno scandalo da nascondere». Sull’opposizione della Chiesa contro la Giornata contro l’Omotransfobia, Luigi ride: «Sono anni che i vescovi partecipano alle veglie di preghiera “contro” durante la giornata. Nel 2019 il 17 maggio il vescovo di Palermo aveva invitato una lettera a tutte le diocesi per andare alla veglia, così il cardinale di bologna Zuppi ha presieduto la veglia. Non si capisce questa perplessità».

La capacità di ascolto delle gerarchie vaticane è quello che manca anche per Andrea Rubera portavoce di 'Cammini di Speranza', associazione nazionale di persone cristiane Lgbt: «La Chiesa avrebbe dovuto avviare un approfondimento interno. Ciò che spaventa è l’accezione identità di genere», spiega: «Del resto tutto l’impianto di teologia morale della Chiesa è basato su due monoliti inscalfibili: uomo e donna concepiti come complementari, a cui vengono attributi ruoli sociali e familiari. Un impianto difficile da smantellare. Invece di capire le sfumature dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere si preferisce combattere. Auspico che la Chiesa affronti con consapevolezza un percorso di approfondimento e conoscenza, riconoscendo le persone che vivono sulla loro pelle un argomento che la Chiesa tratta solo in modo ideologico. Serve l’incontro con le persone omosessuali e transessuali, approfondimento e chiarezza. Solo così si potrà rasserenare anche su un eventuale legislazione a supporto delle persone omosessuali e transessuali».

La comunità Lgbt cristiana resiste dunque, vittima di condanna secolare, ma convinta più dell'amore di un Dio che degli uomini che vogliono rappresentarlo, ed è una comunità che risponde di sé dinanzi alla propria coscienza. Come dice Paolo: «Due fidanzati eterosessuali lo sanno che la Chiesa vieta il sesso prima del matrimonio, però valutano dentro la loro conoscenza. Io sono cattolico, voglio credere a questa Chiesa e prima o poi guardando come vivo io si accorgeranno che c’è qualcosa oltre il loro naso. Mi appello alla mia coscienza. La coscienza è l’ultima voce a cui devo rispondere, si posiziona anche sopra quella del Papa, come dice San Tommaso D’Aquino».

"Io gay cattolico odiato dagli omosessuali. E vi dico perché...." Francesco Curridori il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Giorgio Ponte, scrittore e omosessuale cattolico racconta a ilGiornale.it la propria esperienza di vita e il motivo per cui si schiera contro il ddl Zan. "La mia speranza è che, quando qualcuno finisce un mio libro, possa aver ricevuto qualcosa che lo spinga a riprendere in mano la sua vita". Giorgio Ponte, giovane scrittore, insegnante e omosessuale cattolico racconta a ilGiornale.it la sua esperienza di vita e spiega le sue prese di posizione politiche.

Quando e come hai scoperto di essere omosessuale?

"La mia tendenza omosessuale si è sviluppata con l'adolescenza. Inizialmente è stata preceduta da una confusione sul mio sesso d'appartenenza. Già verso i sette anni fantasticavo sulla possibilità di trasformarmi in una principessa e i miei giochi avevano al centro figure femminili. Poi, questa cosa è venuta meno e, nel momento in cui sarei dovuto essere attratto da chi sentivo diverso da me, ho sviluppato un'attrazione verso chi mi era simile perché, essendo cresciuto sempre in un contesto femminile, di fatto, non conoscevo il mio sesso d'appartenenza. Sentivo, quindi, diverso da me chi mi era simile perché non avevo relazione con quel tipo di mondo. All'inizio questa attrazione è nata come un'attenzione verso gli uomini più grandi e, poi, tutto si è acuito dopo l'esperienza di abusi che ho subito".

Di che tipo di abusi si trattava?

"Tra gli 11 e i 14 anni mi è capitato che più di una volta venissi disturbato da persone più grandi mentre prendevo i mezzi per andare a scuola. La mia impotenza davanti a questi abusi mi ha confuso. Queste persone mi confusero ancora di più, incuneandosi in un modo distorto nel mio bisogno di attenzione da parte del mondo maschile. Non riuscire a difendermi mi faceva sentire corresponsabile, colpevole e questa è una cosa molto comune a tantissime vittime di abusi".

Quando hai fatto coming-out?

"Non ho mai fatto coming-out: ho fatto una condivisione di vita, che è ben diverso. il coming-out è una dichiarazione in cui si antepone la propria omosessualità alla propria identità, facendo coincidere le due cose. La persona si pone davanti agli altri con questa etichetta pretendendo di essere riconosciuto in quanto omosessuale. Io, invece, ho condiviso con la mia famiglia verso i 26-27 anni la mia storia personale e le ferite che mi portavo dietro, mentre verso i 25 ho smesso di vivere nascosto la mia omosessualità. Non ho mai fatto dichiarazioni. Ho semplicemente lasciato che questa cosa fosse una tra le mille altre della mia vita. Non nascondo la mia omosessualità né la esalto. Il coming-out è una cosa diversa".

La tua famiglia come ha preso la notizia?

"Per la mia famiglia non è stata una sorpresa perché c'erano già stati tanti segnali. Il punto non è stato l'omosessualità, ma condividere le nostre ferite comuni da cui l'omosessualità è nata. È stato importante poter guardare in faccia i miei genitori e i miei fratelli e raccontarci tutta la sofferenza interiore che ci portavamo dentro da tanto. Era importante poterci perdonare a vicenda del male che ci eravamo fatti involontariamente".

Quando hai scoperto la fede?

"La fede ha sempre fatto parte della mia vita. Vengo da una famiglia dove Dio non è un rito, ma una persona reale, uno “di casa” e questo è stato certamente un dono. Tuttavia la mia esperienza di fede a un certo punto doveva portarmi a chiedermi le mie ragioni per cui credevo, diverse da quelle dei miei genitori. Dovevo capire chi fosse davvero quella Persona che abitava la mia casa e di cui mi dicevano cose che non mi sembravano vere. Di fronte agli abusi subiti mi chiedevo: perché Dio, che dovrebbe amarmi, non mi ha difeso? Le risposte sono arrivate grazie a un cammino di fede fatto con una congregazione di suore che gestiva mia scuola, giù a Palermo: Dio era lì con me, in quel dolore, e aspettava solo che me ne accorgessi, per trarre con Lui da esso nuova Vita".

Come riesci a conciliare la tua fede e il tuo orientamento sessuale?

"A una persona omosessuale non è richiesto nulla di diverso da quel che è richiesto ad ogni altra persona sulla terra e cioè di coltivare la castità dell’amore che non è semplicemente continenza, ma imparare ad amare senza possedere e questa cosa è richiesta a tutti, anche agli sposi. Esiste infatti anche una castità matrimoniale. A volte si possono avere rapporti sessuali con la propria moglie formalmente perfetti ma sostanzialmente non liberi: anche tua moglie puoi usarla solo per il tuo piacere personale. Così come potresti non alcun rapporto sessuale eppure non essere comunque casto. La castità è l'amore gratuito che, a seconda del proprio stato di vita, significa anche, ma non solo non avere rapporti sessuali. Io da questo punto di vista non sono diverso da qualsiasi altro single o non spostato. Se una persona arriva a 50 anni senza essere sposato gli viene chiesto la stessa condizione di vita che viene richiesta a me: una castità che è anche continenza. Questo non vuol dire che io riesca sempre a viverla. I periodi di maggiore libertà di solito sono quelli in cui il mio cuore è colmo d'amore, ma ho anche periodi in cui il peso delle situazioni che vivo fa riemergere la mia fragilità. Vivo la vita che vivono tutti e combatto come tutti per essere sempre più libero. Per fortuna so che questa non è una battaglia che combatto da solo, ma con Dio. So che c'è una bellezza più grande che ho anche sperimentato e perciò, per quante cadute possa avere, quella è la direzione verso la quale cerco di camminare".

Hai mai subito delle discriminazioni omofobiche?

"No e non all'interno della chiesa. Ho subito del bullismo legato al fatto che ero un bambino facilmente emarginabile perché grasso e non bravo nello sport. L’omosessualità è venuta dopo. L’essere emarginato mi ha portato a desiderare un riconoscimento da parte del mondo dei maschi che si è erotizzato diventando un'attrazione omosessuale. Sono stato discriminato più dal mondo gay in quanto cattolico che dal mondo cattolico in quanto omosessuale".

Che tipo di discriminazioni hai ricevuto dal mondo Lgbt per le tue posizioni?

"Il mondo Lgbt giudica omofobo il fatto che io parli di ragioni psicologiche dell'omosessualità e di storie di persone che hanno riscoperto una dimensione eterosessuale, così come il fatto che io cerchi la castità. Per quel mondo, io sono un omofobo interiorizzato, cioè qualcuno che odia se stesso, pur avendo dimostrato il contrario in molti modi e occasioni. Ho ricevuto ridicolizzazioni, minacce e diffamazioni da gente che mi attribuisce cose che io non ho mai detto o manipola le mie dichiarazioni".

Cosa ti ha spinto a esporti pubblicamente e a partecipare al Family Day?

"Sapevo che c'era un universo di gente con una visione di vita diversa da quella del mondo Lgbt la cui voce non era rappresentata da nessuno. Non è solo un fatto di fede, ma di come si guarda il mondo e l'essere umano. Oggi ci sono tante persone che non si sentono libere di parlare perché hanno paura di esprimere un pensiero in contrasto con quello del Main Stream. A un certo punto ho capito che c'era bisogno che qualcuno si esponesse per dare coraggio a tanti altri che sono convinti di essere i soli al mondo a vivere diversamente, soltanto perché chi vive secondo l'ideologia Lgbt ha più voce per farsi sentire".

Perché sei contrario ai matrimoni gay?

"Celebrare il matrimonio gay significa alimentare la convinzione che ci sia una stabilità a lungo termine in un rapporto omosessuale cosa che, nella mia esperienza diretta e osservata, non è possibile per ragioni strutturali di non complementarietà. Poi è chiaro che anche tra uomo e donna oggi la stabilità delle relazioni è terribilmente precaria, per la stessa immaturità affettiva che sta alla base anche dell’attrazione omosessuale, ma in quel caso si tratta di un'opzione. Tra uomini, invece, è la regola: una coppia o si frantuma una volta passata l’idealizzazione, a lungo andare non è in grado di restare fedele. Al di là di questo, il matrimonio gay si basa su un falso antropologico: se cose uguali davanti alla legge devono avere lo stesso trattamento, dare gli stessi riconoscimenti a una coppia omosessuale come a una eterosessuale significa dire che le due coppie sono sostanzialmente uguali, ma perché questo sia vero, bisogna anche sostenere che uomo e donna sono sostanzialmente intercambiabili. E questo è falso. Uomo e donna sono sostanzialmente diversi, né migliori né peggiori, ma diversi, pertanto due uomini, non possono essere uguali a un uomo e una donna (anche qui, diversi non vuol dire peggiori), e quindi non possono avere lo stesso trattamento davanti alla legge. E se fingiamo di credere che le unioni civili italiane siano diverse dal matrimonio perché non richiedono fedeltà e non permettono le adozioni, siamo degli illusi: come in tutte le nazioni dove simili leggi “a metà” sono passate, sappiamo che questo è solo il primo passo per poi ammettere in futuro anche le adozioni gay che non tengono conto del bene del bambino, il quale per crescere ha bisogno, nelle migliori delle condizioni possibili, almeno di un padre e di una madre".

Cosa pensi del ddl Zan?

"Penso che sia una legge non necessaria, esattamente come non lo era quella sulle unioni civili. In quel caso perché a livello di diritto privato tutto ciò che doveva tutelare la legge era già tutelato, mentre per quanto riguarda il DDL, già adesso chiunque dovesse picchiare un omosessuale è punibile per legge con in più avrebbe l'aggravante per futili motivi. Il DDL Zan non solo non aggiunge niente a livello di tutele, ma aggiunge moltissimo a livello di prevaricazione perché categorizza un certo tipo di reato rendendolo più grave rispetto alle discriminazioni che altre persone possono subire per altre ragioni. Inoltre non definendo in maniera oggettiva quali siano le condotte omofobe rende, di fatto, denunciabile qualsiasi atto non conforme a un certo tipo di ideologia in quanto potrebbe ledere “la sensibilità” di una persona omosessuale, anche la semplice espressione di idee contrarie. La sensibilità, infatti, non è un dato giuridico, poiché per definizione essa cambia da persona a persona, e l’applicazione di una legge non può quindi mutare in funzione di essa. La legge deve basarsi su qualcosa di oggettivo e misurabile e né un'opinione né un desiderio hanno queste caratteristiche. Inoltre, proprio come la legge sulle unioni civili, il ddl Zan fa un torto antropologico perché dice che non esiste più la distinzione uomo-donna, ma parcellizza l’identità umana sulla base di categorie aleatorie legate al desiderio. Questo è molto pericoloso perché potremmo arrivare al paradosso per cui chiunque, anche se non ha fatto l'operazione totale, potrebbe pretendere che la gente lo riconoscesse come donna e in quanto donna richiedesse di accedere, per esempio, alle quote rosa in una lista di partito: pena denuncia per discriminazione. Al di là di quel che uno vive nella sua vita privata, infatti, fare una legge su criteri del tutto interpretabili rischia di generare un caos incontrollato anche all'interno dello stesso attivismo che sta sostenendo la legge: da mesi Lesbiche e femministe sono sul piede di guerra contro i Trans per questa ragione. Non si capirà più chi è la vittima e chi è il carnefice e tutti avranno un pretesto per denunciarsi a vicenda e, in qualche modo, ci sarà sempre qualcuno a cui verrà fatto un torto".

Politicamente come ti identifichi?

"In questi anni non sono mai stato sotto il cappello di nessun movimento, partito o associazione. Anche quando ho militato tra le Sentinelle in Piedi non l'ho fatto come segno d'appartenenza, perché le sentinelle sono una forma di manifestazione, non un’organizzazione cui aderire. Mi riserbo, perciò, il diritto di restare in silenzio e libero su questo. Dal momento che non nutro una fiducia incondizionata in nessuno che non sia Cristo, per il resto voto quei partiti che difendono i valori in cui credo, a prescindere dai motivi per cui lo fanno e a prescindere dalle condotte personali dei loro leader. In fondo, un uomo politico è chiamato a guidare la società e il bene collettivo e dei singoli individui e non è detto che una persona brava a fare questo nella vita pubblica sia altrettanto bravo a farlo nella sua vita privata. Sappiamo bene che i grandi uomini politici che hanno salvato l'Occidente in tempi di grande crisi, a livello personale, avevano tonnellate di vizi. La coerenza non è di questo mondo, purtroppo, e chi si ritiene al di sopra di questa legge non scritta, pecca di superbia. Se invece parliamo di correnti politiche, senza soffermarci su un partito o su un altro, personalmente credo che se una persona è davvero cristiana, non si può identificare oggi con quell’ala della sinistra che sostiene tutte le leggi contro la vita e l’essere umano nelle sue componenti strutturali, solo in virtù dell’appeal che ha quella millantata attenzione verso gli immigrati, che in realtà, il più delle volte è un'attenzione fatta di spot e di buonismo e non di concretezza. Aborto, eutanasia, divorzio, unioni civili, suicidio assistito, leggi omosessualiste… Tutte le battaglie della sinistra moderna sono per la distruzione della società. Non posso scandalizzarmi per gli uomini che muoiono in mare, se lascio che migliaia di bambini tutti i giorni vengano uccisi nelle pance delle loro madri. Non posso preoccuparmi solo di come accogliere lo straniero, se lo accolgo in un mondo disintegrato alle sue fondamenta. Inoltre non posso amare una corrente ideologica che nasce dalla divisione del mondo in poveri buoni e ricchi cattivi e sull’odio sociale tra essi. L’odio non è mai la strada. Ci sono emergenze sociali sul cui approccio si può discutere e poi ci sono i fondamenti della vita: i valori non negoziabili".

Quando e come è nata la tua passione per la scrittura?

"È nata con me. Fin da piccolo ho sempre avuto il desiderio di raccontare storie, perché ne ho sempre riconosciuto il grande potere salvifico e di insegnamento: un storia ti permette di trasmettere un concetto rendendolo vivo, molto più che parlare del concetto stesso in maniera teorica. Io desideravo raccontare la speranza e la scrittura è il modo con cui cerco di farlo".

La tua più grande paura?

"Morire senza aver fatto tutto quello per cui Dio mi aveva chiamato a questo mondo: senza aver amato abbastanza; senza aver speso tutti i talenti che avevo; senza aver raccontato tutte le storie che avevo da raccontare o aver speso ogni goccia di questa vita per il bene che mi era chiesto"

Il tuo più grande errore?

"Non saprei decidere. Di errori ne ho fatti molti, ma a parte quelli dettati dal vizio, gli altri erano sempre mossi da una ricerca autentica della volontà di Dio, e nel momento in cui li ho commessi mi sono fidato di ciò che in quel momento mi sembrava la scelta migliore. Così ho fatto esperienza di come, per quanti errori si possano fare, se si sta realmente cercando la propria strada, nessun errore è veramente tale, ma solo un passo in più che ti avvicina alla strada che Dio ha pensato per te".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia...

Assedio a Orban per una legge che non parla di omofobia ma di pedofilia. Meloni: quanti l’hanno letta? Adele Sirocchi sabato 26 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Viktor Orban, l’Europa è in pressing contro il premier ungherese per la legge che vieta la propaganda gender ai minori. Orban non cede di un millimetro ma intanto la retorica anti-Ungheria si fa sempre più asfissiante e va dalle tirate d’orecchio di Ursula von der Leyen al documento dei 17 paesi in difesa dei diritti sconfinando nei campi di calcio tinti di arcobaleno.

La legge parla di minori e non dell’omosessualità. Orban intanto replica attaccando: «L’omosessualità non c’entra con questa legge. Si parla dei minori e dei loro genitori, tutto qui». Con lui si è schierato l’omologo sloveno Janez Jansa. E Judit Varga, ministro ungherese della Giustizia, si infuria: «L’orientamento sessuale e l’identità di genere rientrano pienamente nelle tutele della Costituzione ungherese». E sostiene che nel suo Paese «tutti sono liberi di esprimere la loro identità sessuale come ritengono». In pratica si attacca una legge di cui nessuno vuole conoscere il contenuto. Un appunto che anche Giorgia Meloni fa proprio. Ieri ha dichiarato in proposito: “Io la legge l’ho letta e le cose sono distanti da come vengono raccontate. La legge è scritta con toni che non mi piacciono. Ma è una legge che vieta la propaganda gender nelle scuole da parte di organizzazioni che non appartengono al sistema di istruzione ungherese”.

Cosa contiene la legge ungherese. Oggi solo Libero e la Verità si preoccupano di informare i lettori su cosa contiene la contestata legge ungherese, il cui titolo è «Sull’adozione di misure più severe contro i pedofili e sulla modifica di alcune leggi per la protezione dei bambini». Il primo titolo – scrive la Verità – prevede un emendamento alla legge sulla protezione dei bambini e l’amministrazione della tutela. Il nuovo articolo recita: «Per garantire la realizzazione degli obiettivi stabiliti nella presente legge e l’attuazione dei diritti dei minori, è vietato rendere accessibile alle persone che non hanno raggiunto l’età di 18 anni un contenuto pornografico o che rappresenta la sessualità in modo gratuito o che diffonde o ritrae la divergenza dall’identità corrispondente al sesso alla nascita, il cambiamento di sesso o l’omosessualità».

Le norme e i divieti della legge di Orban. Il terzo titolo – scrive ancora La Verità – riguarda la modificazione della legge sulla pubblicità. La nuova norma recita: «È vietato rendere accessibile alle persone che non hanno raggiunto l’età di 18 anni la pubblicità che ritrae la sessualità in modo gratuito o che diffonda o ritragga la divergenza dall’autoidentità corrispondente al sesso alla nascita, il cambiamento di sesso o l’omosessualità». Vi è poi il titolo 5, che prevede una stretta sui programmi classificati come «non adatti a un pubblico di età inferiore ai 18 anni», cioè quelli in cui elemento centrale è «la violenza, la diffusione o la rappresentazione della divergenza dall’identità personale corrispondente al sesso alla nascita, del cambiamento di sesso o dell’omosessualità o la rappresentazione diretta, semplicistica o gratuita della sessualità». In pratica, la legge censura i contenuti che ritiene impropri e legati a tutta la sfera della sessualità e non solo a quella dell’orientamento sessuale Lgbt. Si può discutere se sia opportuno “proteggere” i minori in questo modo ma non è certo corretto presentarla come una normativa anti-gay.

La leader di Fdi dice la sua. Roma Pride 2021, Meloni: “Cristo lgbt è irrispettoso”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 26 Giugno 2021. Il corteo Roma Pride 2021 è arrivato a piazza della Repubblica e la manifestazione si è conclusa. Ad aprirsi invece ora sono le polemiche, e a farlo è la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “Leggo che il corteo del Roma Pride è aperto da un ragazzo travestito da ‘Cristo Lgbt’, con stimmate colorate e bandiera arcobaleno. Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c’è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi? E aggiungo: come si concilia la lotta alle discriminazioni, alla violenza e all’odio con i cori di insulti e minacce contro chi non è d’accordo con il ddl Zan? Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno. Io la penso così. Qualcun altro evidentemente no”, conclude così il suo pensiero affidato alla pagina Facebook. Il corteo del Roma Pride 2021 ha raggiunto piazza della Repubblica. Sono partiti in migliaia, dall’Esquilino senza i tradizionali carri. I sostenitori Lgbti+ hanno sfilato in modo pacifico e senza scontri di sorta, sventolando bandiere arcobaleno e cartelli in favore del ddl Zan. Si sono sentiti cori di Bella Ciao e le canzoni di Raffaella Carrà. L’organizzazione del Pride è stata a cura del circolo di cultura omosessuale Mario Mieli che ha curato anche lo striscione di apertura del corteo che recitava: “Orgoglio e Ostentazione”. Alle sue spalle, in riferimento alle ultime dichiarazioni del Vaticano in merito al ddl Zan: “Per la laicità dello Stato aboliamo il concordato”. Riccardo Annibali

L'ira della Meloni: "Guardate questo cristo Lgbt..." Federico Garau il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Al corteo arcobaleno di Roma compare anche il "Cristo Lgbt". Meloni: "Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno". Mentre si continua a discutere in merito al Ddl Zan, sale la tensione per le strade italiane, dove proprio oggi hanno sfilato cortei a favore dei diritti Lgbt. Almeno sei le città dello stivale coivolte, da Milano a Roma, fino ad arrivare ad Ancona, L'Aquila, Faenza e Martina Franca, in provincia di Taranto. Nel corso delle sfilate, anche manifestazioni di insofferenza: al gay pride di Bologna, nella giornata di apertura, impronte rosa sono state volutamente impresse sui volti di alcuni famosi politici appartenenti alla destra, come Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Simone Pillon, Mario Adinolfi, Viktor Orbàn e Donald Trump. Ma le provocazioni del popolo arcobaleno non sono finite, come mostrato dalla leader di Fratelli d'Italia sulla propria pagina Facebook.

Il "Cristo Lgbt". A guidare il corteo del Roma Pride di oggi, infatti, c'era un ragazzo travestito da "Cristo Lgbt". Un'immagine difficile da accettare per chi ha a cuore certi simboli religiosi. "Leggo che il corteo del Roma Pride è aperto da un ragazzo travestito da 'Cristo Lgbt', con stimmate colorate e bandiera arcobaleno", ha dichiarato Giorgia Meloni, postando la foto della sfilata. "Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi?", si è domandata la presidente di FdI. E ancora: "Aggiungo: come si concilia la lotta alle discriminazioni, alla violenza e all'odio con i cori di insulti e minacce contro chi non è d'accordo con il ddl Zan? Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno. Io la penso così. Qualcun altro evidentemente no". Con il loro atteggiamento intransigente nei confronti di chi non la pensa come loro, i sostenitori del Ddl Zan stanno mostrando proprio quel comportamento discriminatorio che tanto condannano.

"La Chiesa mi vuole morto". Fra i manifestanti, del resto, c'è anche chi non ha rispetto per le istituzioni religiose, e arriva addirittura a condannarle. "La Chiesa perseguita le persone Lgbt da 2000 anni. Di fronte a un ddl che può provare ad arginare i fenomeni di odio dovrebbe almeno rispettare l'autonomia del Parlamento italiano invece di appellarsi a un concordato vecchio di 90 anni", ha apertamente dichiarato all'AdnKronos un manifestante del corteo di Roma, che sfilava con un cartello recante la scritta 'Sono gay e la Chiesa cattolica mi vuole morto'. In realtà le intenzioni della Chiesa con la sua richiesta di rimodulazione del decreto di legge erano ben altre, come dichiarato dal Segretario di Stato Pietro Parolin, ma evidentemente il messaggio non è passato.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger).

Il gay pride blasfemo fa esplodere le polemiche. Federico Garau il 27 Giugno 2021 su Il Giornale. Non è piaciuta la provocazione del mondo Lgbt, in tanti ad insorgere sui social. Dopo le parole della Meloni, arriva la condanna di Salvini: "Una schifezza, un’offesa e una sgradevole mancanza di rispetto". È scoppiata un'autentica bufera in seguito ai cortei arcobaleno che ieri hanno sfilato per le strade dello Stivale al fine di riaffermare i diritti del popolo Lgbt e sostenere con forza il Ddl Zan: da Milano a Roma, fino ad arrivare a Martina Franca (Taranto), tante le immagini delle sfilate, dove non sono mancate provocazioni nei confronti della Chiesa, rea di aver chiesto una rimodulazione del disegno di legge. Fra queste, a fare scalpore è stata di sicuro quella del "Cristo gay" impersonato da un giovane agghindato ad arte, con tanto di stimmate colorate. Una foto che ha fatto il giro dei social, scatenando l'ovvia reazione dei religiosi. La prima a far sentire la propria voce è stata la leader di Fratelli d'Italia, che postando sui propri account social l'immagine del "Cristo gay" ha commentato: "Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi? Aggiungo: come si concilia la lotta alle discriminazioni, alla violenza e all'odio con i cori di insulti e minacce contro chi non è d'accordo con il ddl Zan? Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno. Io la penso così. Qualcun altro evidentemente no". Parole che hanno poi provocato la reazione dell'ex deputato grillino passato al gruppo misto Giorgio Trizzino: "Che Giorgia Meloni si erga a difensore della Cristianità rivendicando che al Roma Pride non possa mostrarsi un ragazzo travestito da Gesù Cristo, mi fa molto pensare. Mi chiedo come mai la patriottica Giorgia si ricordi di essere cattolica e praticante solo in queste circostanze, mentre mostra gravissimi vuoti di fede quando urla che bisogna respingere al mittente quei poveri migranti che cercano un po' di vita approdando sulle nostre coste". A replicare alla frecciata del deputato Trizzino è stato il rappresentante di FdI Andrea Delmastro. "Si atteggia ad ayatollah della cristianità e lancia una laica scomunica a Giorgia Meloni, rea di aver stigmatizzato il disgustoso Cristo Lgbt", ha commentato Delmastro, riferendosi all'ex pentastellato. "Meloni ha, con equilibrio e pacatezza, difeso il sentimento di cristianità, offeso e vilipeso dalla manifestazione Lgbt chiedendosi perché l'affermazione di presunti diritti debba passare per la denigrazione di Cristo". In realtà sono in molti a non aver affatto gradito le provocazioni del popolo arcobaleno, che avrebbe potuto tranquillamente manifestare ed esprimere le proprie idee senza attaccare quei simboli ritenuti preziosi non soltanto dai cristiani praticanti, ma anche da coloro che nutrono un forte rispetto nei confronti delle tradizioni religiose del Paese. Durante le manifestazioni di ieri si è visto di tutto, non solo il "Cristo gay", ma anche un papa Francesco mascherato e striscioni ed insulti rivolti contro il Vaticano ("Per la laicità dello Stato aboliamo il Concordato", o "Vaticano vaff...", solo per citarne alcuni). "Nel 2021 è chiaro a tutti quanto la comunicazione conti. E che nessuno si permetta di fare lo splendido con la figura di Maometto perché lì si tratta di “rispetto”, o paura. Allora mi chiedo il senso di sputare in faccia ai cristiani. Accorcia le distanze?", ha sbottato la senatrice di FdI Daniela Santanchè. Ad unirsi agli indignati, anche il giornalista e scrittore del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi: "Ieri il Gay Pride di Roma è stato aperto da uno striscione antivaticano con un tizio che irrideva la figura di Gesù, nudo con corona di spine, stimmate e drappo arcobaleno", ha commentato. "Ho invidiato i musulmani che riescono a far rispettare Maometto, inculcando in quei 4 cialtroni la paura". Parole pesantissime che hanno naturalmente scatenato un autentico putiferio sui social network. A far discutere anche il pride di Milano, dove non sono mancati gli slogan contro la Chiesa. A postare le immagini del corteo, dove è apparsa una "seconda versione" del Cristo gay, è stato un indignato Matteo Salvini. "Ieri in piazza a Milano..." ha scritto il leader della Lega. "Secondo me raffigurare Gesù Cristo con minigonna e tacchi a spillo non è una simpatica provocazione, è una schifezza, un’offesa e una sgradevole mancanza di rispetto".

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Felice Manti per "il Giornale"  il 28 giugno 2021. Orgoglio e pregiudizio. No, Jane Austen non c'entra, anche se nella comunità Lgbt lei è un'icona perché si favoleggia fosse lesbica. Balle. L'orgoglio è quello andato in scena ieri ai Gay Pride, da Milano a Roma, il pregiudizio è il solito: siccome «la Chiesa perseguita i gay da 2mila anni» (altra balla) allora perché non trasformare anche Gesù in un'icona gender, mettergli dei tacchi a spillo, imbrattare la sua croce con un simbolo fallico e guadagnarsi una foto sui giornali? Un attivista l'ha fatto, e il risultato l'ha ottenuto. «Secondo me raffigurare Gesù Cristo con minigonna e tacchi a spillo non è una simpatica provocazione, è una schifezza, un'offesa e una sgradevole mancanza di rispetto», twitta Matteo Salvini. «Che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi?», aveva detto già l'altro giorno la leader Fdi Giorgia Meloni. Se oggi qualcuno volesse sostenere che questo attivista gay ha insultato una religione nel cui nome, nel 2020, sono morte 4.761 persone, potrebbe farlo senza timore di smentita. D'altronde, i dati parlano chiaro: l'anno scorso 340 milioni di persone sono state perseguitate perché credono che un ragazzo di 33 anni morto in croce fosse il figlio di Dio. Ma con il ddl Zan sarà ancora possibile difendere il proprio credo da una bestemmia arcobaleno? Sarà ancora possibile dire che un bambino ha diritto a una mamma e a un papà senza finire davanti a un giudice? Secondo il Vaticano e molti esperti, no. La Chiesa è un facile bersaglio, soprattutto se rivendica la propria libertà di culto prevista nel Concordato. Ma, come dice padre Laurent Cabantous, «la libertas ecclesiae è il cuore di ogni altra libertà, e la Chiesa nel proteggere i suoi diritti difende la libertà di tutti». Nessuno nel centrodestra vuole giustificare i reati di omotransfobia, tanto che Lega, Fdi e Forza Italia hanno presentato una proposta di legge, molto più ragionevole e meno ideologica, per venire incontro alle istanze della comunità Lgbt. Eppure il tema resta lo stesso: il ddl Zan serve perché copre un vuoto normativo o è solo un cavallo di Troia per imbavagliare i cattolici? La Pd Monica Cirinnà ha gettato la maschera: «Va approvato così com'è - ha detto a margine del Gay Pride di Roma - se dovesse essere modificato meglio non avere nessuna legge». Segno che il problema non è combattere veramente l'omotransfobia, ma approfittare di un clima favorevole per mettere fuori gioco chi si ostina ad opporsi al pensiero unico che predica amore vero ma razzola di utero in affitto, fluidità di genere e ideologia gender nelle scuole. «Se non ci sarà una legge perché la parte oltranzista del Parlamento non si siederà con la volontà di approvare una norma buona e condivisa, ai cittadini sarà chiaro chi stava realmente dalla parte dei diritti e delle libertà e chi, invece, faceva solo finta», dice Licia Ronzulli di Forza Italia. Intanto ieri un ragazzo, Orlando Merenda, si è gettato sotto un treno a 18 anni, i pm indagano per bullismo e omofobia, altro segno che una nuova legge non serve. Il ragazzo sui social aveva scritto «il problema delle menti chiuse è che hanno la bocca aperta», qualcuno ha replicato «morte ai gay». Non è puntando il dito contro il nemico, che sia un prete o un militante Lgbt, che si risolve il problema dell'omofobia. Non è spaccando il Paese mettendo all'indice cattolici e moderati che si insegna la tolleranza per chi percepisce il proprio corpo come qualcosa di estraneo. È anche per questo che Papa Francesco lunedì scorso ha scritto (a mano e in spagnolo) al padre gesuita James Martin, considerato un difensore dei diritti Lgbt, dicendo che «il cuore di Dio è aperto a tutti, si avvicina con amore ad ognuno dei suoi figli». Perché il rispetto prevede altrettanto rispetto, l'odio semina odio, e nessuna legge potrà impedirlo. Qualcuno, duemila anni fa, è morto per amore di tutti. Anche di Orlando.

Adriano Prosperi per “La Stampa - TuttoLibri” il 4 giugno 2021. Non solo un vizio ma «il vizio» per definizione, riconoscibile perché innominabile: di questo racconta qui Francesco Torchiani. È la nota dominante di una tragica lunghissima storia, equamente dominata da poteri politici e religiosi. I classici lavori di George Mosse hanno spiegato come virilismo e rigetto delle amicizie maschili siano nati all’ombra dello Stato forte del nazionalismo tedesco che ha portato all’«omocausto» nazista. E se per la Chiesa l’omosessualità è stata per secoli una «eresia indicibile» punita col rogo, come ha ricordato in un suo recente libro Vincenzo Lavenia, è stato con lo stigma del vizio che la società borghese ha reso infernali le esistenze e spinto fino al suicidio i «diversi». E ora c’è l’occasione di imparare da questo dolente e documentato resoconto di Francesco Torchiani come si sia arrivati non alla conclusione di secoli di intolleranza ma allo stato attuale di una speciale fobia collettiva che da noi fiammeggia ancora perfino nel Parlamento italiano. Un’anomalia tutta italiana blocca l’approvazione del disegno di legge Zan in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere. La legge, approvata alla Camera, è rimasta a metà del percorso col cambio di governo. E ora rischia di perdersi perché in difesa del maschilismo nazionale sono scesi i partiti della destra nostrana, che con l’argomento classico degli insabbiatori - maiora premunt, c’è altro da fare - vorrebbero mantenere l’Italia al di qua di una frontiera dei diritti civili e delle tutele legali che gli Stati Uniti hanno varcato nel 1974 e la Francia nel 2004 (ambedue con governi di destra). Intanto la cronaca nera ci pone davanti di continuo a violenze e delitti pubblici e privati generati da una repulsione fortissima, un vero e proprio odio che scatena perfino i genitori contro i figli. Non di questa cronaca truce e avvilente racconta Torchiani, ma del nero fiume di una lunga storia per lo più sotterranea e oscura, che alla superficie vede il vento del rifiuto gonfiare le candide vele della Chiesa. Qui l’adozione di un codice della natura iscritto nel precetto biblico del «crescete e moltiplicatevi» e del rogo per gli omosessuali a imitazione dello zolfo del dio biblico su Sodoma e Gomorra, ha radicato un rifiuto teologico che ancora oggi, mentre questo volume era in stampa, ha ispirato un rifiuto dell’ex Sant’Uffizio opposto alla richiesta della benedizione religiosa ai matrimoni omosessuali. Secondo la congregazione vaticana della dottrina della fede l’acqua santa è riservata alle realtà che rientrano nel disegno divino: e il matrimonio senza finalità di procreazione non vi rientra. Con quell’acqua benedicente si può benedire una grande quantità di oggetti e di contesti (armi e cannoni inclusi), ma non l’amore umano. Di questo amore e dell’odio e dell’orrore che l’hanno circondato e ancora lo circondano, questo libro racconta tante storie, diverse e diversamente penose a scorrerle nella letteratura e nelle vite. Hanno però in comune un leitmotiv: quello della persona lacerata dalla vergogna e dall’impossibilità di amare che cerca consiglio, comprensione, aiuto da una voce amica. E la cerca di preferenza nella religione madre dell’odio. Si apre a un amico religioso, meglio se uomo di chiesa in nome della religione che ha come messaggio l’assoluto primato paolino dell’amore. È qui che dopo molte tergiversazioni e molte tortuose ipocrisie vediamo ripetersi sempre la stessa scena: il consigliere e amico offre la sua compassione e i suoi consigli ma senza mai discostarsi da una considerazione del caso come una disgrazia irrimediabile, da curare e sopportare. L’onda dei sentimenti d’amore che spinge chi bussa alla porta si infrange ogni volta contro il muro dell’untuosa dolcezza degli uomini di chiesa. Esemplare la durezza del cattolico Paul Claudel, dolce e accogliente poeta dell’Annunciazione, nel rispondere a André Gide che gli aveva scritto chiedendogli: «Per quale viltà dovrei eludere questo problema nei miei libri? Non io ho scelto di essere così». Niente vale a scalfire il rifiuto profondo, la riprovazione quando non addirittura l’orrore del confidente per qualcosa che continua ad apparirgli vergognoso e riprovevole, come una macchia mostruosa da nascondere a ogni prezzo. Il punto estremo di comprensione da parte dei teologi cattolici non va al di là della definizione dell’omosessualità come una malattia contagiosa davanti alla quale il confessore deve mostrare pazienza e comprensione. Da un lato, la Chiesa resta attaccata all’idea che la legge divina e quella della natura coincidano e che solo la riproduzione della specie giustifichi i rapporti sessuali, per cui l’omosessualità sarebbe solo una grave immoralità, un «peccato abominevole». E dall’altra le leggi civili continuano a punire i comportamenti. La riprovazione si traduce in linciaggio pubblico. È noto il caso di Pier Paolo Pasolini denunciato nel 1949 per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico ed espulso per indegnità morale dal PCI. Più grave ancora il caso che nel 1968 ebbe per vittima lo scrittore e pensatore Aldo Braibanti. Per lui, condannato a nove anni di galera, la sentenza riesumò il reato di plagio nascondendo ipocritamente quello di omosessualità. Ma l’intellettuale cattolico Igino Giordani mirò dritto al vero oggetto chiedendo che per quella «infezione morale, civile e sociale» che corrodeva la società si prendessero misure pubbliche adeguate. Diverse le reazioni di teologi non italiani, come Gregory Baum che negli anni ’70 denunziò la cultura prodotta dalla Chiesa perché contribuiva all’emarginazione di uomini e donne, commettendo un vero crimine contro di loro. Di fatto negli anni del Concilio Vaticano II e dell’enciclica di Paolo VI Humanae vitae, nonostante le migliori intenzioni il magistero cattolico non riuscì a lasciarsi alle spalle la granitica certezza del proprio compito di dare voce a una legge divina eterna e universale. L’unica soluzione per chi ne viveva sulla sua carne l’impulso incancellabile era quella di combattere quella colpevole anomalia che non poteva in nessun modo ricevere l’approvazione della Chiesa. E questo continuava a spingere alla disperazione chi, come Severino Frullani, dal fondo del carcere di Grosseto, mandava nel giugno 1979 una lettera al quotidiano Lotta continua dove si chiedeva perché la chiesa discriminasse chi come lui era «un diverso» ma voleva «essere comunque un cristiano». Torchiani ripercorre fino ai nostri giorni le tappe del confronto/conflitto tra Chiesa cattolica e la lotta per i diritti del popolo gay, attraversata da terribili vicende come l’aids. Di fatto l’episodio dell’incendio della bandiera vaticana a Santiago del Cile nel 2001 dice fino a qual punto la situazione si fosse incancrenita prima che il nuovo pontefice Francesco cogliesse nel viaggio di ritorno dal Brasile del 2013 l’occasione per attenuare verbalmente il rifiuto con la famosa battuta: «Chi sono io per giudicare?». Ma l’apparente segno di novità svaniva quando nella esortazione apostolica Amoris laetitia di qualche anno dopo la dichiarata offerta di rispetto per le persone omosessuali si accompagnava al ribadito rifiuto di riconoscere nelle unioni gay la più pallida analogia col presunto disegno divino sul matrimonio.

“Galleria neovaticana” di Marco Tosatti documenta la lobby gay ai vertici della Chiesa. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 aprile 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

E’ uscito da circa un mese lo sconvolgente “Galleria neovaticana. Modernismo, vizi innominabili e corruzione ai tempi di Bergoglio” (ed. Radiospada). E’ l’ultimo libro del decano dei vaticanisti  italiani Marco Tosatti, un collega con 40 anni di esperienza giornalistica al massimo livello nel mondo ecclesiastico. Il volume non è stato recensito dai grandi media e questo – purtroppo va detto -  offre la migliore certificazione del fatto che si tratti di una pubblicazione ben documentata. Agile e rigoroso, “Galleria neovaticana” riporta le vicende di una serie di personaggi fortemente compromessi per immoralità, (o per copertura di abusi), che ruotano intorno a Francesco e ne costituiscono de facto lo strumento governativo. Riportiamo di seguito la prefazione dell'arcivescovo Carlo Maria Viganò che già denunciò la condotta del cardinale americano - vicino al clan Obama e grande sostenitore di Bergoglio - Theodore McCarrick, abusatore seriale di seminaristi, poi ridotto allo stato laicale. Nel libro ci si imbatte nelle vicende altamente scabrose, ma decisamente meno conosciute di molti altri prelati  - e dei loro segretari - che oggi occupano posti di potere nelle più alte gerarchie ecclesiastiche. Ciò che stupisce è come, nonostante i “curriculum”, questi personaggi siano stati nominati in posti chiave. Emerge anche la questione dell’omosessualità endemica nella Chiesa, termine accuratamente evitato da Bergoglio che parla, piuttosto, di “clericalismo”. La pedofilia c’entra poco o niente qui, dato che gli abusi di cui si tratta sono per la stragrande maggioranza esercitati da ecclesiastici maturi su giovani preti o seminaristi maggiorenni. Lascia attoniti, peraltro, la testimonianza dello scrittore francese Frédéric Martel, attivista lgbt, autore del voluminoso “Sodoma” che riporta una serie di dicerie sulle abitudini omosessuali del clero alto e basso. Matteo Matzuzzi, collega de Il Foglio, definì quel libro: “Un estenuante sbrodolamento di pettegolezzi, insinuazioni, allusioni, frasi a effetto non supportate da alcuna statistica o prova, come quella sul fatto che in Vaticano quattro preti su cinque sarebbero gay”. In “Sodoma”, Martel si dimostra favorevole a Bergoglio mentre attacca, peraltro sulla base di pure illazioni, il card. Burke, ritenuto avversario di Francesco. Ma la cosa sconcertante è che l’autore di quest’opera pesantemente diffamatoria del clero sia stato OSPITATO PER UNA SETTIMANA AL MESE IN VATICANO. “Lo ammette anche Martel – riporta Tosatti -  quando scrive che mons. Battista Ricca, anfitrione di Santa Marta e nominato dal Pontefice prelato dello IOR, definito da Sandro Magister “il prelato della lobby gay”, che ha visto la sua carriera diplomatica bruscamente troncata per storie collegate all’omosessualità, gli insegna come entrare e muoversi, e gli dà la possibilità di alloggiare una settimana al mese in Vaticano. E incontra anche padre Spadaro, lo spin doctor comunicativo e non solo del Pontefice… Se tutto questo è vero, e ripetiamo che non c’è stata nessuna smentita, né ufficiale né ufficiosa, è legittimo pensare che Sodoma faccia parte di un’operazione permessa dai vertici”. Lo scopo? Da un lato sarebbe quello di contribuire a sdoganare la pratica omosessuale (non l’omosessualità come condizione) che oggi, per la dottrina cattolica, continua ad essere uno dei “quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”. (1-Omicidio volontario 2-Peccato impuro contro natura 3-Oppressione dei poveri 4-Defraudare la giusta mercede a chi lavora). Dall’altro, quello di screditare l’ala conservatrice accusandola di cupa e ipocrita omofobia secondo il vecchio cliché per il quale chiunque si pronunci contro la pratica omosessuale sia in realtà un gay represso.

Prefazione di Mons. Carlo Maria Viganò arcivescovo titolare di Ulpiana, già nunzio apostolico negli Stati Uniti d'America Ringrazio l’amico Tosatti per essersi assunto il gravoso onere di raccogliere, in un’inquietante galleria degli orrori, gli esponenti della composita corte di Francesco. Certamente non possiamo negare che i personaggi qui enumerati non siano stati ordinati e promossi ben prima che Jorge Mario Bergoglio si affacciasse al balcone della Loggia di San Pietro; ma è innegabile che per molti di costoro il cursus honorum ha conosciuto un significativo progresso in questi anni. Specchio del livello morale della chiesa della misericordia, i prelati e chierici della Galleria bergogliana confermano lo scandalo dato ai fedeli, il disonore arrecato alla Santa Chiesa, l’offesa alla Maestà divina e, non ultima, la sistematica demolizione del prestigio della Gerarchia cattolica. I cui vertici, come avviene peraltro nel mondo civile, mai come oggi sono completamente avulsi dal popolo di Dio, mentre assecondano con cortigiano entusiasmo l’avvento del Nuovo Ordine e della Religione dell’Umanità. Un’anima pietosa potrà forse esser tentata di usare una qualche indulgenza verso i chierici traviati, rilevando che le loro colpe sono in fondo frutto dell’umana debolezza e che siamo tutti peccatori. Questa forma di tolleranza per un malcostume ormai divenuto endemico al Clero sopravvive da decenni, vantando tra i propri fautori coloro che solitamente ordinano e promuovono i loro intrinseci, condividendone non di rado le colpe. Da costoro, certamente, non saranno mai giudicati né condannati, né la loro coscienza si sentirà oppressa dalla silenziosa disapprovazione di chi non ha una doppia vita. Ma quale dirittura morale, quale dignità ci si può attendere da personaggi che vivono manifestamente rinnegando la loro vocazione e profanando il loro stato sacerdotale? Quale condanna del peccato e del vizio ci si può aspettare, da parte di quanti vi sono sprofondati al punto da non riuscire nemmeno a dissimularne l’attaccamento? “Questo volume ha il merito di scoprire un mondo di corruzione e di perversione che costituisce la base del consenso di cui godono Papa Francesco e gran parte della gerarchia. Un consenso fondato anche sulla possibilità di manovrare a proprio piacimento i sottoposti, usando le loro colpe o le loro riprovevoli inclinazioni per ottenere un’obbedienza falsa, poiché motivata dal ricatto. Non è certamente questo il modo di governare della Chiesa di Cristo: basterebbe questo per comprendere – in ragione delle promesse di Nostro Signore – che la crisi del corpo ecclesiale ed in particolare della Gerarchia è destinata ad inesorabile sconfitta. “Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effemminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno del Regno di Dio” (1Cor 6, 10). Guardiamo a quest’opera di Marco Tosatti come ad un primo volume che attende di esser completato. Un volume in cui si possano elencare i santi Pastori che, in questa tempesta che infuria contro la Chiesa Cattolica, sapranno distinguersi non per peccati ma per virtù, al di sopra di ogni ricatto; che sappiano governare conformemente allo scopo per cui essi hanno ricevuto l’autorità, obbedendo a Dio piuttosto che agli uomini; che dimostrino coerenza di vita con l’integrità della professione della Fede. E forse, proprio costringendoci a guardare nell’abisso di immoralità di una parte del Clero, i buoni potranno esser spronati a moltiplicare l’impegno di santità, di umiltà e di sacrificio, in modo da attirare sulla Sposa dell’Agnello quelle benedizioni e quelle grazie che altri oggi tengono lontane. Tempora bona veniant.

 “Se non posso benedire le coppie omosessuali, non benedico neanche le palme”. Il gesto di protesta di don Giulio Mignani, parroco di Bonassola, contro il documento della Congregazione per la dottrina della fede. Nextquotidiano.it il 29/3/2021. Un gesto forte e significativo che arriva al termine di alcune settimane di aperto dibattito all’interno (ma anche all’esterno) della Chiesa dopo il pronunciamento della Congregazione per la dottrina della fede che impedisce, di fatto, ai sacerdoti di benedire le coppie composte da persone dello stesso sesso. A compierlo è stato don Giulio Mignani, parroco di Bonassola (in provincia di La Spezia) che non ha voluto benedire i ramoscelli di ulivo nella domenica della Palme in segno di protesta. La benedizione delle palme è “collegata alla processione in ricordo dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Non potendo fare tale processione, a motivo delle norme anti-Covid, personalmente ritengo non abbia allora senso benedire le Palme”, ha detto don Giulio Mignani. Ma le normative vigenti anti-contagio non hanno rappresentato l’unico elemento che ha portato il parroco di Bonassola a prendere questa decisione. Il forte gesto, nella domenica che apre la Settimana Santa per i cristiani, è anche una protesta dopo le ultime “indicazioni” arrivate dalla Congregazione per la dottrina della fede. “Sono estremamente contento che questa mia decisione di non benedire le palme e gli ulivi avvenga a pochi giorni dalla pubblicazione del documento della Congregazione per la dottrina della fede – ha detto don Giulio Mignani facendo riferimento al documento che impedisce ai sacerdoti di benedire le coppie composte da persone dello stesso sesso -.  Nella chiesa si benedice di tutto, non solo le palme ma a volte, purtroppo, sono state benedette anche le armi, però non si può benedire l’amore vero e sincero di due persone perché omosessuali. Ma, ancora più grave, è il fatto che si continui a chiamare ‘peccato’ questo loro amore”. La protesta nel giorno della Domenica delle Palme non è solo simbolica e dà un forte segnale alla Chiesa, dal suo interno. E ricalca anche quanto avvenuto solo dieci giorni fa in Austria. Il parroco di Bonassola, infatti, ha concluso il suo discorso facendo riferimento a quel che accade sulla terra che, non per forza, combacia con il vero senso della fede cristiana: “A rimetterci non sono certo le persone omosessuali, le quali possono tranquillamente fare a meno della benedizione della Chiesa, perché intanto c’è Dio a benedirle. A rimetterci è piuttosto la Chiesa”.

Patrizia Spora per "la Stampa" il 30 marzo 2021. «Credo in una Chiesa profetica e capace di cambiare non perché trascinata dagli eventi della storia, come avvenuto in passato. Mi piacerebbe vedere una Chiesa in grado di anticipare gli accadimenti, capace di dire che l' amore omosessuale non è peccato. So che non riuscirò a vederlo ma spero che un domani ci siano anche i matrimoni in chiesa per le coppie dello stesso sesso. Questa presa di posizione mia, di altri parroci e vescovi è una forma di amore per la Chiesa che se non farà passi avanti perderà la caratteristica di madre accogliente». Don Giulio Mignani, 50 anni, parroco di Bonassola e Framura nel Levante Ligure, domenica delle Palme durante l' omelia ha detto che se la Chiesa non dà il permesso di benedire le coppie formate da persone dello stesso sesso «allora non ha senso benedire neppure palme e ramoscelli d' olivo. Nella chiesa si benedice di tutto, a volte anche le armi, però non si può benedire l'amore vero e sincero di due persone perché omosessuali». Una forma di protesta contro il documento emanato dalla Congregazione della Fede il 15 marzo scorso, che vieta ai sacerdoti di benedire le unioni di persone dello stesso sesso. Una contestazione verso la Santa Sede, quella di don Giulio, che arriva dopo il precedente annuncio di avere intenzione di "abolire" la forma rituale perché «la benedizione delle palme è strettamente collegata alla processione iniziale in ricordo dell' ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme». A sostegno di don Giulio, parroco da venti anni (prima faceva il bancario) si sono schierati la influencer Chiara Ferragni e il marito, il rapper Fedez. Ma ci sono anche appelli al vescovo della Spezia Luigi Ernesto Palletti, da parte di cittadini e di qualche esponente locale di destra perché richiami all' ordine il parroco, che già in passato si era espresso a favore delle unioni omosessuali e aveva fatto suonare Bella Ciao in chiesa. «Non mi aspettavo tutto questo clamore - dice -. Mi hanno commosso due ragazze di Roma unite civilmente, mi hanno detto di sentirsi amate e accolte. Non ho sentito il vescovo, mi parlerà giovedì santo dopo la messa in cattedrale». Ma ieri la Curia della Spezia-Sarzana-Brugnato, attraverso una nota si è detta addolorata per le esternazioni di don Giulio. «Oltre a omettere la tradizionale benedizione dei rami di olivo - a suo dire a motivo delle norme anti Covid - ha manifestato la sua presa di posizione sul "responsum" della Congregazione della Dottrina delle Fede circa la possibile benedizione delle coppie dello stesso sesso. È riprovevole omettere o compiere un gesto liturgico legando ciò a un intervento di protesta personale, tanto più se rivolto a un pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede che espone con rispetto, serenità e verità, il perché la Chiesa non dispone e non può disporre del potere di benedire dette unioni».

Paolo Rodari per repubblica.it il 15 marzo 2021. Al quesito proposto: “La Chiesa dispone del potere di impartire la benedizione a unioni di persone dello stesso sesso?”, si risponde, “negativamente”. Torna il responsum della Congregazione per la Dottrina della Fede ad un dubium. La prassi in uso da anni all’ex Sant’Uffizio riguarda questa volta la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso, una pratica che alcuni sacerdoti in giro per il mondo, in particolar modo nel Nord Europa e in Germania, hanno fatto propria senza tuttavia che la Santa Sede avesse mai detto la sua. Il Vaticano, tramite il dicastero guidato dal cardinale Luis Ladaria e dall’arcivescovo Giacomo Morandi, risponde argomentando il “no” anche con una lunga nota esplicativa che, come tradizione, è firmata con tre asterischi. Il responsum, è spiegato, esce dopo che Francesco è stato informato “e ha dato il suo assenso alla pubblicazione”. Spiega l’ex Sant’Uffizio che la risposta al dubium “dichiara illecita ogni forma di benedizione che tenda a riconoscere le loro unioni”. Illiceità che la nota esplicativa corredata al responsum riporta a un triplice ordine di motivi, in connessione tra loro.

Il primo è dato “dalla verità e dal valore delle benedizioni”. Esse appartengono al genere dei sacramentali, i quali sono “azioni liturgiche della Chiesa” che esigono consonanza di vita a ciò che essi significano e generano. “Di conseguenza, una benedizione su una relazione umana richiede che essa sia ordinata a ricevere e ad esprimere il bene che le viene detto e donato”.

Il secondo motivo è inerente al fatto che “l’ordine che rende atti a ricevere il dono è dato dai disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore”. “Disegni, continua ancora la nota, “cui non rispondono relazioni o partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio, vale a dire fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna, aperta di per sé alla trasmissione della vita. È il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso”. Ma, spiega la Congregazione guidata da Ladaria, non è solo il caso delle coppie omosessuali “quasi che il problema siano soltanto tali unioni”. “Bensì qualsiasi unione che comporti un esercizio della sessualità fuori del matrimonio, la qual cosa è illecita dal punto di vista morale, secondo quanto insegna l’ininterrotto magistero ecclesiale”.

Il terzo motivo è dato “dall’errore, in cui si sarebbe facilmente indotti, di assimilare la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso a quella delle unioni matrimoniali”. Per la relazione che le benedizioni sulle persone intrattengono con i sacramenti, spiega ancora la nota, “la benedizione di tali unioni potrebbe costituire in certo modo una imitazione o un rimando di analogia con la benedizione nuziale, impartita all’uomo e alla donna che si uniscono nel sacramento del matrimonio. Il che sarebbe erroneo e fuorviante”.

Bergoglio "piegato alle logiche di potere del Vaticano". Papa Francesco contro le coppie gay, ex prete: “Non siamo pedofili…” Redazione su Il Riformista il 16 Marzo 2021. Nessuna benedizione. La Chiesa non riconosce le coppie omosessuali. Con il placet di Papa Francesco, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha risposto negativamente al seguente quesito: “La Chiesa dispone del potere di impartire la benedizione a unioni di persone dello stesso sesso?“. Il no, si assicura, non è discriminatorio, ma è giustificato dal richiamo alla “verità del rito liturgico e di quanto corrisponde profondamente all’essenza dei sacramentali” come sono appunto le benedizioni. E per essere coerenti, viene osservato, bisogna che quando si invoca una benedizione su alcune relazioni umane occorre che ciò che viene benedetto “sia oggettivamente e positivamente ordinato a ricevere e ad esprimere la grazia, in funzione dei disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore“. Per questo motivo non è lecito impartire una benedizione a relazioni “che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio” ovvero “fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita”. Per la Chiesa benedire una coppia gay costituirebbe “una imitazione o un rimando di analogia con la benedizione nuziale, invocata sull’uomo e la donna che si uniscono nel sacramento del Matrimonio” e, non esistendo alcun fondamento “per assimilare o stabilire analogie, neppur remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”, va dunque considerato un illecito. La posizione del Vaticano, seppur non dissimile da altre posizioni assunte dalla Chiesa su determinate questioni, viene accolta con una certa delusione da chi aveva visto come un’apertura le parole di Papa Francesco che aveva parlato del diritto degli omosessuali a essere in una famiglia.

EX PRETE DELUSO – “Si spera sempre in una figura come Francesco che possa dare un segno di cambiamento, quando poi va a firmare un documento del genere, che ci riporta allo stile proprio del condanno ma non condanno. Non condanno gli omosessuali ma tutto quello che gli omosessuali fanno. Un omosessuale deve vivere sotto una campana di vetro e non avere contatti con il mondo, allora può rientrare nei paradigmi accettati dalla Chiesa, altrimenti è destinato a vivere una vita di sofferenza, di rinuncia e di privazione della propria identità. Io dico sempre: se sono così, io non l’ho scelto. Se Dio ci ha creato così è perché ci ha creato non persone sbagliate, ma persone normali”. E’ l’amaro sfogo a LaPresse di don Giuliano Costalunga, ex sacerdote che ha sposato il suo compagno alle Canarie, a proposito della chiusura del Vaticano ai matrimoni gay. “Francesco è un amabilissimo comunicatore con il popolo, ma poi sottosta anche lui alle logiche di potere che ci sono nella compagine vaticana. Perché firmare un documento del genere significa bruciare tutte le belle affermazioni che ci ha fatto in questi anni. Io non ho ancora visto un documento di Papa Francesco in cui ufficialmente riabiliti la compagine degli omosessuali, facendoli sentire uomini e donne in cammino in una compagine di vita cristiana. Non siamo malati, né pedofili, siamo uomini e donne che vivono la loro identità nella normalità di una vita quotidiana. Privarci di questo significa ridurci a bambole messe lì che non possono fare nulla. E questo è avvilente”, ha concluso.

LE REAZIONI POLITICHE – “Essendo un rappresentante di un’istituzione laica come il Parlamento tendo sempre a non entrare nelle questioni che riguardano una confessione religiosa, ovviamente sul piano umano sono molto dispiaciuto e penso che sia comunque lontano ai sentimenti della maggior parte dei cattolici che sono per sostenere qualsiasi forma di amore”, dice a LaPresse il deputato Pd Alessandro Zan, attivista Lgbt che ritiene il parere “un passo indietro”: “sul piano sociale si stanno facendo passi da gigante – osserva – invece sul piano della dottrina e del magistero purtroppo la Chiesa non evolve e questo rappresenta un’occasione persa”. Per la senatrice Dem Monica Cirinnà, ugualmente interpellata sul tema, “è un’ulteriore dicotomia tra la Chiesa accogliente di Francesco e le varie gerarchie. Comunque non cambierà alcunché nelle nostre norme, continueremo e essere inclusivi e accogliente. Lo Stato fa lo Stato – chiosa – e la Chiesa la Chiesa”. Non si chiudono le porte però ai singoli, che manifestino “la volontà di vivere in fedeltà ai disegni rivelati di Dio così come proposti dall’insegnamento ecclesiale”. E del resto “Dio stesso non smette di benedire ciascuno dei suoi figli pellegrinanti in questo mondo, perché per Lui ‘siamo più importanti di tutti i peccati che noi possiamo fare’. Ma non benedice né può benedire il peccato: benedice l’uomo peccatore, affinché riconosca di essere parte del suo disegno d’amore e si lasci cambiare da Lui. Egli infatti "ci prende come siamo, ma non ci lascia mai come siamo"”.

"Sono allibito per scelta del Papa con i gay". La comunità Lgbt contro Francesco. Da Alessandro Cecchi Paone a Vladimir Luxuria fino ad Elton John. Le reazioni dei volti della comunità Lgbt al "no" del Vaticano alle benedizioni alle unioni gay. Novella Toloni - Mar, 16/03/2021 - su Il Giornale. Il secco "no" alle benedizioni delle unioni gay arrivato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ha aperto un grosso dibattito, ma soprattutto ha scatenato la reazione della comunità Lgbt. Sono in molti, infatti, nelle ultime ore ad essersi espressi pubblicamente contro la decisione del Vaticano di non impartire la benedizione alle unioni tra persone dello stesso sesso. Alessandro Cecchi Paone è stato tra i primi a manifestare il suo dissenso sulla decisione, sottolineando il contrasto tra le parole di Papa Francesco e la scelta della Congregazione per la Dottrina della Fede: "Sono abbastanza allibito dalla divaricazione fra la Pastorale di Papa Francesco, che poco tempo fa disse chiaramente che le coppie gay avevano diritto a formare una qualche forma di famiglia e quello che io continuo a chiamare 'Sant'Uffizio', quello che ha bruciato Giordano Bruno, che (verso i gay, ndr) continua ad affermare una dottrina mortificante, discriminatoria e persecutoria". Una manifestazione della crisi profonda, ha proseguito Cecchi Paone, "in cui versa la Chiesa Cattolica. Una Chiesa divaricata in modo forse insanabile, con da un lato l'apertura al mondo di Papa Francesco e dall'altro quella che guarda indietro di almeno due secoli, come diceva il Cardinale Martini". Per Vladimir Luxuria la presa di posizione della Chiesa rappresenta, invece, uno stop al processo di rinnovamento avviato da Papa Francesco. "La posizione della Chiesa la conoscevamo già da un po' di tempo, ma questa decisione blocca quel processo avviato da Papa Francesco che ci ha fatto sperare in una novità, in una maggiore apertura e in un ponte. Con queste dichiarazioni tale processo subisce uno stop", ha detto Luxuria all'Adnkronos. Nessuna deroga per le relazioni stabili, riconosciute invece giuridicamente: "La Chiesa può pensare quello che vuole, ma la cosa importante è che ci sia un riconoscimento giuridico. La Chiesa, affermando che non è lecito benedire le Unioni Civili e che quindi si possono benedire solo le singole persone, sembra dire che valiamo solo come singole persone e che non possiamo provare un sentimento che ci lega a un'altra persona e che ci porta a formare una famiglia". La Chiesa, pur ribadendo il rifiuto ad ogni discriminazione ingiusta nei confronti delle persone omosessuali, ha confermato l'impossibilità di comparare le nozze eteroressuali a quelle omosessuali. Come riporta il responsum: "La benedizione delle unioni omosessuali non può essere considerata lecita, in quanto costituirebbe in certo qual modo una imitazione o un rimando di analogia con la benedizione nuziale". Parole che hanno scatenato la dura reazione di uno degli esponenti più famosi della comunità Lgbt internazionale, Elton John, che su Twitter ha scritto: "Come può il Vaticano rifiutarsi di benedire i matrimoni gay perché 'sono peccato', ma trarre felicemente profitto investendo milioni in 'Rocketman' - un film che celebra la mia scoperta della felicità grazie al mio matrimonio con David? #ipocrisia". Anche Fabio Canino ed Ermal Meta hanno scelto i social networ per dire la loro sulla decisione del Vaticano. Il conduttore e giurato di Ballando con le stelle ha pubblicato su Twitter la foto di un sacerdote che, con l'aspersorio, sembra benedire con l'acqua santa una sfilza di fucili: "Il Vaticano non benedice le coppie gay. Meglio benedire i fucili. Coerenti le ragazze". Mentre Ermal Meta ha cinguettato: "Ci si amerà lo stesso. Anzi, pare che senza benedizione l'amore sia più forte".

Da "rollingstone.it" il 16 marzo 2021. Elton John contro il Vaticano: «ipocrita». Ieri la Congregazione della Dottrina della Fede si è pronunciata sulla illiceità della benedizione dei matrimoni gay. «Non è e non intende essere un’ingiusta discriminazione, quanto invece richiamare la verità del rito liturgico e di quanto corrisponde profondamente all’essenza dei sacramentali, così come la Chiesa li intende», scrive la Congregazione. Postando gli screenshot di due articoli, uno del Guardian ci cui si spiega la posizione dell’organo del Vaticano e uno del Daily Beast in cui si illustrano gli interessi economici della Chiesa nel biopic su Elton John Rocketman, il cantante scrive su Twitter: «Come può il Vaticano rifiutarsi di benedire i matrimoni gay perché “sono peccato” e intanto trarre profitto investendo milioni in Rocketman, un film che celebra la felicità finalmente trovata grazie al matrimonio con David?». Il messaggio finisce con l’hashtag #hypocrisy.

Da leggo.it il 19 marzo 2021. Dopo il “no” di ieri del Vaticano alla benedizione delle coppie omosessuali, le reazioni non si sono fatte attendere anche tra personaggi di primo piano in Italia. Tra cui Fabio Canino, che sceglie un modo decisamente choc per commentare la vicenda: «Il Vaticano non benedice le coppie gay. Meglio benedire i fucili. Coerenti le ragazze», il suo post sarcastico su Twitter, a cui allega la foto di un sacerdote che con l'aspersorio sembra benedire con l'acqua santa una sfilza di fucili. «Ci si amerà lo stesso. Anzi, pare che senza benedizione l'amore sia più forte», ironizza invece Ermal Meta su Twitter. «Sono abbastanza allibito dalla divaricazione fra la Pastorale di Papa Francesco che poco tempo fa disse chiaramente che le coppie gay avevano diritto a formare una qualche forma di famiglia e quello che io continuo a chiamare “Sant'Uffizio”, quello che ha bruciato Giordano Bruno, che (verso i gay, ndr) continua ad affermare una dottrina mortificante, discriminatoria e persecutoria», le parole all'Adnkronos di Alessandro Cecchi Paone. Voler ribadire il suo 'no' alla benedizione delle unioni omosessuali «è l'ennesima manifestazione della crisi profonda in cui versa la Chiesa Cattolica. Una Chiesa divaricata in modo forse insanabile, con da un lato l'apertura al mondo di Papa Francesco e dall'altro quella che guarda indietro di almeno due secoli, come diceva il Cardinale Martini». La presa di posizione della Chiesa blocca «quel processo avviato da Papa Francesco che ci ha fatto sperare in una novità, in una maggiore apertura e in un ponte. Con queste dichiarazioni tale processo subisce uno stop», dice all'Adnkronos Vladimir Luxuria. «La posizione della Chiesa la conoscevamo già da un pò di tempo -prosegue- Sappiamo che l'unica istituzione che la Chiesa riconosce è il matrimonio tra uomo e donna a fini procreativi, che dovrebbe essere anche un vincolo indissolubile. Ci sono poi le leggi dello Stato, quella sul divorzio e quella sulle Unioni Civili, perciò la Chiesa può pensare quello che vuole ma la cosa importante è che ci sia un riconoscimento giuridico». Per Luxuria la Chiesa «affermando che non è lecito benedire le Unioni Civili e che quindi si possono benedire solo le singole persone sembra dire che valiamo solo come singole persone e che non possiamo provare un sentimento che ci lega a un'altra persona e che ci porta a formare una famiglia», spiega. «Voglio sperare che il percorso iniziato da Papa Francesco proceda comunque, così come tante altre cose che dovrebbero essere rinnovate nella Chiesa come la Comunione divorziati, la questione del Celibato o quella del sacerdozio femminile. La Chiesa dovrebbe accogliere tutti i suoi credenti. Alla Chiesa Cattolica vorrei chiedere: ma il figlio di una coppia gay ha il diritto ai sacramenti?», conclude Luxuria. A fare da apripista erano state alcune diocesi tedesche, da Magonza a Dresda, ma diversi sacerdoti, anche in Italia, si sono interrogati negli ultimi tempi sulla possibilità di benedire le coppie omosessuali. Ieri è arrivato netto il “no” della Congregazione per la Dottrina della Fede, un provvedimento preso dopo essersi consultati con Papa Francesco che «ha dato il suo assenso». La nota arriva come risposta ad un “dubium”, un quesito: «Non è lecito impartire una benedizione - afferma l'ex Sant'Uffizio - a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell'unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso». Nessuna discriminazione, assicura il Vaticano. Ma il mondo gay tuona contro la posizione della Santa Sede. «La scelta del Papa di non benedire le coppie omosessuali è un passo indietro per quei credenti che speravano nel nuovo Papa, ma non deve influenzare la politica italiana», commenta Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay per i diritti Lgbt+. «Purtroppo - aggiunge - quotidianamente sentiamo politici di tutti gli schieramenti che affermano di ispirarsi al Papa». In alcuni ambiti ecclesiali - ricorda la Dottrina della Fede - si stanno diffondendo progetti e proposte di benedizioni per unioni di persone dello stesso sesso. «Non di rado, tali progetti sono motivati da una sincera volontà di accoglienza e di accompagnamento delle persone omosessuali - sottolineano il Prefetto, il card. Luis Ladaria, e il segretario, mons. Giacomo Morandi - alle quali si propongono cammini di crescita nella fede». Ma la benedizione è un «sacramentale» e come tale non può essere considerata lecita, in quanto «costituirebbe in certo qual modo una imitazione o un rimando di analogia con la benedizione nuziale, invocata sull'uomo e la donna che si uniscono nel sacramento del matrimonio». «La dichiarazione di illiceità delle benedizioni di unioni tra persone dello stesso sesso non è quindi, e non intende essere, un'ingiusta discriminazione», assicura la Congregazione specificando che questo infatti «non esclude che vengano impartite benedizioni a singole persone con inclinazione omosessuale».

Da Corriere.it il 19 marzo 2021. Anche Loredana Bertè interviene a sostegno delle unioni gay e contro il Vaticano che qualche giorno fa ha detto di non poter benedire le coppie omosessuali in quanto la Chiesa «non benedice né può benedire il peccato». La cantante ha pubblicato una foto sui social in cui si vede un prete intento a benedire dei fucili, corredata di queste parole: «La parola AMORE porta con sé il senso poetico latino dell’assenza della morte. A-MORS: assenza di morte. L’amore è un valore assoluto ed è UNIVERSALE! Non ha bisogno di benedizione alcuna. In questo nuovo medioevo, lasciamo che continuino a benedire la morte». Le dure parole della cantante si aggiungono a quelle, fra gli altri, di Elton John che ha denunciato l'ipocrisia del Vaticano nel non benedire le unioni gay quando invece la Chiesa ha investito somme ingenti nel suo biopic «Rocketman». Loredana Bertè, 70 anni, ha corredato il suo post degli hashtag #loveislove e #LGBTQ, ricevendo subito il plauso di tanti utenti.

Si benedice di tutto (anche le armi) ma l’amore ricambiato no. La Congregazione per la dottrina della fede esclude la possibilità di una benedizione per le coppie omosessuali mentre diverse confessioni cristiane (chiese luterane, anglicane e non) riconoscono forme religiose, anche matrimoniali, di unioni omosessuali. Luigi Mariano Guzzo su Il Quotidiano del Sud il 21 marzo 2021. “Chi sono io per giudicare?”. Le parole di Papa Francesco, pronunciate nel 2013, pochi mesi dopo l’elezione al soglio di Pietro, di ritorno dalla Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro, lasciavano presagire l’inizio di una nuova stagione della Chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali. Da allora sono trascorsi otto anni. In talune circostanze si è parlato di accompagnamento, di accoglienza, di disponibilità pastorale. Ma il tutto tra alti e bassi, in maniera all’apparenza ondivaga. Nel Sinodo dei vescovi sulla famiglia del 2015 si è ribadito che “ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, vada rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto” (“Relazione finale”, 76). Poi, nel 2018 Papa Francesco ha sottolineato che la “famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola”. Mentre nel 2020, tra una smentita e l’altra del Vaticano, è sembrato che lo stesso Pontefice guardasse con favore alla tutela civile per le coppie fra persone dello stesso sesso. Infine (per ora…), lunedì scorso la Congregazione per la dottrina della fede ha escluso la possibilità di una benedizione per le coppie omosessuali, mettendo nero su bianco, se mai ci fosse qualche dubbio a riguardo, che il Papa è stato informato e ha dato il suo assenso alla pubblicazione del documento. Ciò, proprio nel momento in cui in Germania i cattolici vivono un’esperienza sinodale di dibattito e di confronto su nuovi cammini pastorali e tra i punti all’ordine del giorno rientra anche quello delle benedizioni delle unioni omosessuali.

A volte, si sa, le coincidenze…Se molti vescovi e fedeli tedeschi (non solo, ad onor del vero) ritengono che la questione sia talmente delicata e complessa da non poter essere risolta d’autorità con un “no” secco, l’ex Sant’Uffizio pare determinato nel confermare la dottrina cattolica, quella tradizionale: le unioni fra persone dello stesso sesso rappresentano scelte e prassi di vita “oggettivamente ordinate ai disegni rivelati di Dio”. Ne consegue che la Chiesa, scrive il dicastero romano, “non benedice né può benedire il peccato”. Sì, è vero: ogni giorno, tutti i giorni, sono benedetti persone, animali, cose più varie. Persino le armi, è capitato (e capita, purtroppo). Ma le unioni omosessuali no, queste no. Al limite, possono essere benedette le persone omosessuali, prese singolarmente, non in due. D’altronde, il Catechismo della Chiesa cattolica (1992) in materia non ha subìto modifiche: gli atti omosessuali sono “intrinsecamente disordinati” perché “contrari alla legge naturale” e “in nessun caso possono essere approvati”. Inoltre, ad essere “oggettivamente disordinati” sono tanto gli atti quanto le “tendenze omosessuali”, specie se “profondamente radicate”. E, malgrado l’obbligo del celibato, non può diventare sacerdote cattolico chi “pratica l’omosessualità”, chi presenta “tendenze omosessuali profondamente radicate” e chi sostiene la “cultura gay” (Istruzione della Congregazione per l’educazione cattolica, 2005). È questo l’insegnamento ufficiale della Chiesa. E nonostante il primo pontefice latino-americano, parlando a braccio con i giornalisti, si fosse lasciato sfuggire l’espressione: “chi sono io per giudicare?”, a proposito degli omosessuali, nulla è cambiato. Anzi, la conferma di una formale esclusione della benedizione rincara la dose. Il tutto si gioca sul concetto di natura. Il terreno sul quale si cammina è la filosofia di San Tommaso.  Per farla breve, l’uomo è naturalmente inclinato verso alcuni beni: vita, salute, libertà, conoscenza… I rapporti tra uomo e donna sono finalizzati alla generatività biologica, in quanto orientati alla vita. Lo stesso non può dirsi per quelli omosessuali. Ne deriva che l’ordine della natura è violato. La logica può sembrare stringente, ma è sempre rapportata all’interno di un sistema concettuale ben definito, quello tomistico. È sufficiente provare ad uscire un po’ fuori, che diverse premesse con relative conclusioni cadono inesorabilmente. Ad essere in discussione non è il tentativo di inserire l’azione dell’uomo all’interno di un ordine razionale. Il problema sta nell’imprimere un valore etico alla natura, o meglio ai fatti naturali.  La circostanza che in natura un rapporto fra persone dello stesso sesso non implica generatività biologica non è di per sé giusta o sbagliata. È semplicemente un fatto.  Certo, non è semplice per la Chiesa superare secoli e secoli di tradizione tomistica. Non lo riuscirà a fare un Papa, e neanche un gruppo di vescovi. È necessario che una diversa coscienza ecclesiale maturi dal basso, dai fedeli tutti, dalle donne e dagli uomini del nostro tempo, attraverso spazi di incontro e strumenti di partecipazione sinodale, come sta avvenendo in Germania; probabilmente anche grazie ad un concilio, come sostiene Luigi Sandri. Questa coscienza deve poi farsi (finalmente) mobilitazione. Ci vuole una circolazione critica delle idee, delle conoscenze, dei saperi. Quando l’autorità ecclesiastica sentenzia, in maniera categorica, che l’unione omosessuale è peccato e che quell’unione non può essere bene-detta da Dio, interviene (drammaticamente) sulla vita delle persone e sui progetti esistenziali. Come può l’amore di Dio escludere due uomini e due donne che sperimentano questo stesso amore nella verità di una relazione sincera? si è chiesto Dea Santonico, mamma di un figlio omosessuale, in una bellissima lettera aperta a Papa Francesco. D’altronde, diverse confessioni cristiane (chiese luterane, anglicane…) ormai riconoscono forme religiose, anche matrimoniali, di unioni omosessuali. E ci sono stati, ci sono, preti cattolici che contravvengono la legge ecclesiastica e benedicono le coppie omosessuali (don Franco Barbero, dimesso dallo stato clericale nel 2003, ha raccolto alcuni schemi liturgici in un bel libro pubblicato da “L’Hammartan Italia” nel 2013). Peraltro, se la Chiesa cattolica non ha fatto i conti con il concetto di natura, le cose non vanno meglio sull’altra sponda del Tevere, nel nostro Stato laico. In Italia l’istituto delle unioni civili fra persone dello stesso sesso (le legge n. 76/2016) si basa sull’art. 2 della Costituzione, quale formazione sociale, e non sull’art. 29 che definisce la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”. La famiglia, costituzionalmente intesa, rimane ancorata al matrimonio, che nel nostro ordinamento rimane eterosessuale. Alle unioni omosessuali viene riconosciuta tutela giuridica ma non la dignità costituzionale di famiglia. Dal punto di vista pratico, cambia poco o nulla. Ma, dal punto di vista simbolico, il peso di questa scelta legislativa è enorme. Ora, scusate, andate voi da due persone che si amano, che condividono un progetto di vita in comune, anche sulla base di un vincolo normativo, e dite loro che non sono famiglia. Bene che vada, vi daranno una pacca sulle spalle (come a dire, della vita non si è capito molto). Perché la famiglia è amore ricambiato vicendevolmente. E, per i credenti, non è già questa una benedizione del Signore?

Gian Guido Vecchi per il "Corriere della Sera" il 25 marzo 2021. «Molte madri benedicono i loro figli. Mia madre lo fa ancora oggi. Non esco di casa senza che lei mi benedica. Una madre non rifiuterà la benedizione, anche se suo figlio o sua figlia ha problemi di vita. Al contrario». Le parole del cardinale Christoph Schönborn, 76 anni, arcivescovo di Vienna e teologo domenicano, sono destinate ad avere un grande peso nel dibattito che si è aperto nella Chiesa dopo il «no» secco della Congregazione per la Dottrina della Fede alla possibilità di benedire coppie omosessuali. Il testo dell'ex Sant'Uffizio è stato «approvato» dal Papa. Ma Francesco ha grande considerazione di Schönborn, cui chiese di presentare l'esortazione Amoris Laetitia, contestatissima per l'apertura alla possibilità di concedere la comunione, in casi particolari, ai divorziati e risposati. Al Sinodo sulla Famiglia fu proprio Schönborn a trovare la soluzione, citando la Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino per invitare a guardare, al di là della casistica della dottrina, la concretezza delle persone: il compito della prudenza «non è solo la considerazione della ragione» ma anche la sua «applicazione all'opera» che è «il fine della ragion pratica». Ecco, «La questione se sia possibile benedire le coppie dello stesso sesso è nella stessa categoria», spiega ora. Le parole del cardinale di Vienna sono affidate al settimanale diocesano Der Sonntag, in uscita oggi: «Non sono stato contento di questa dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede. Per la semplice ragione che il messaggio che è passato nei media di tutto il mondo è stato solo un "no". E questo è un "no" alla benedizione, qualcosa che ferisce molte persone nel profondo, come se dicessero: "Madre, non hai una benedizione per me? Anch'io sono tuo figlio, dopotutto"». La Chiesa, ricorda Schönborn, «è Mater et Magistra, come si dice tradizionalmente, Madre e Maestra: deve insegnare, ma è prima di tutto una madre». Così succede che molte persone omosessuali e credenti «si pongano proprio questa domanda: "La Chiesa è madre per noi? "Rimangono figli di Dio, vogliono anche vedere la Chiesa come madre». Di qui il dolore, «perché si sentono respinti dalla Chiesa». Certo, «non si è affatto capito» che nel testo dell'ex Sant'Uffizio «si possa trovare anche una preoccupazione positiva». Il cardinale richiama «l'alta considerazione in cui è tenuto il matrimonio sacramentale, che è quasi diventato una rarità nel mondo di oggi» e dice: «È qualcosa di grande e sacro, l'alleanza di un uomo e una donna per la vita, promessa e fatta davanti a Dio, che può poi portare anche a figli che sono percepiti come un dono di Dio». Quindi, «la legittima preoccupazione della Congregazione è che una celebrazione di benedizione non dia l'impressione che qui si stia contraendo un matrimonio sacramentale». Ma «questo "sì" alla famiglia non deve essere detto in un "no" a tutte le altre forme», aggiunge: «Se la richiesta non è uno spettacolo, se è sincera ed è veramente la domanda della benedizione di Dio per un cammino di vita che due persone, in qualsiasi situazione, stanno cercando di percorrere, allora non sarà loro negata tale benedizione. Anche se, come sacerdote o vescovo, devo dire: "Non hai raggiunto tutto l'ideale". Ma è importante che tu viva la tua strada sulla base delle virtù umane, senza le quali non c'è una partnership di successo». E «questo merita una benedizione», conclude il cardinale: anche se bisogna «riflettere attentamente» sulla «giusta forma di espressione».

Anche il Papa è d'accordo. Amore gay? Si può benedire "il peccatore", ma non "il peccato". Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 16 Marzo 2021. La Congregazione per la Dottrina della Fede, il massimo organo teologico cattolico, fa sapere che la Chiesa non dispone del potere di impartire la benedizione a unioni di persone dello stesso sesso. La formula scelta è la risposta ad un quesito che a quanto si è appreso proviene da ambienti cattolici tedeschi. La risposta è netta: “non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso”. La risposta è accompagnata da un’ampia spiegazione teologica, in cui si precisa che se la benedizione – in quanto ‘sacramentale’ cioè atto liturgico sacro – non è ammessa, allo stesso tempo “non intende essere un’ingiusta discriminazione”. Da un lato la Chiesa “dichiara illecita ogni forma di benedizione che tenda a riconoscere le unioni” omosessuali, però non cessa di accogliere le singole persone omosessuali. La formula è: la Chiesa “benedice l’uomo peccatore” ma non può dichiarare lecito il peccato che qui è sotto forma di una “scelta ed una prassi di vita che non possono essere riconosciute come oggettivamente ordinate ai disegni rivelati di Dio”. L’ultima riga del documento spiega che Papa Francesco ne ha espressamente approvato il contenuto, e le firme sono del cardinale Luis Ladaria, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, gesuita, del segretario mons. Giacomo Morandi. Nulla di nuovo dal punto di vista della dottrina: nelle sue dichiarazioni pubbliche a giornalisti e televisioni, Papa Francesco apre le porte ai singoli omosessuali, divorziati, risposati, ed alle unioni civili. Ma quanto ad una ‘legalizzazione’ ecclesiale non ci sono spiragli: il peccato è peccato perché la Chiesa vede il matrimonio tra un uomo ed una donna, indissolubile, con figli, come un’istituzione voluta da Dio e basata sulla legge naturale. Mai modificabile.

Luciano Noia per “Avvenire” il 16 marzo 2021. Gli omosessuali devono essere accolti «con tenerezza e rispetto». Possono essere benedetti singolarmente. Possono avere «gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita».  Ma non possono essere benedetti come coppia, perché il gesto non sarebbe coerente con la natura dei "sacramentali" (segni sacri tra cui rientrano appunto le benedizioni), che vanno concessi solo nelle circostanze ordinate a servire ciò che è conforme al disegno di Dio. Inoltre la benedizione rischia di legittimare una prassi sessuale irregolare, perché fuori dal matrimonio. E, altra possibilità da scongiurare, può creare confusione con le nozze-sacramento visto, che come si spiega in Amoris laetitia, «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppur remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Ecco perché, rispondendo a un quesito specifico, la Congregazione per la dottrina della fede ritiene "illecite" le benedizioni concesse alle coppie omosessuali, anche se questo non implica un giudizio negativo sulle singole persone né va inteso come un gesto discriminatorio. Anzi, la nota - approvata dal Papa - specifica che non va esclusa la «presenza in tali relazioni di elementi positivi, che in sé sono pur da apprezzare e valorizzare», anche se questi elementi positivi non sono «comunque in grado di coonestarle (giustificarle, renderle legittime, ndr) e renderle quindi legittimamente oggetto di una benedizione ecclesiale, poiché tali elementi si trovano al servizio di una unione non ordinata al disegno del Creatore». Si invitano comunque i pastori ad accogliere le persone omosessuali «con rispetto e delicatezza» e a trovare le modalità più opportune per accompagnarle in un percorso di fede. Una nota con cui la Congregazione per la dottrina della fede intende porre un argine a una prassi diffusa soprattutto in alcune aree del Nord Europa, in particolare modo in Germania e Austria. Tra gli altri, si erano espressi esplicitamente a favore della benedizione alle coppie omosessuali il vescovo di Limburg, Georg Batzing, che è anche presidente della Conferenza episcopale tedesca, e il vescovo di Magonza, Peter Kohlgraf. Ora la Congregazione chiude il dibattito con una serie di motivazioni che, se sono evidenti sul piano teologico, rendono senz' altro più complessa l' accoglienza pastorale. Da dove nasce questa dichiarazione? Innanzi tutto, si spiega nella Nota vaticana, dalla natura stessa dei cosiddetti "sacramentali" quei gesti liturgici tra cui rientrano appunto le benedizioni. Non sono sacramenti ma, come segni sacri, ottengono importanti effetti spirituali. Il Catechismo della Chiesa cattolica specifica, poi, che «i sacramentali non conferiscono la grazia dello Spirito Santo alla maniera dei sacramenti; però mediante la preghiera della Chiesa preparano a ricevere la grazia e dispongono a cooperare con essa» (n. 1670). La Chiesa ha quindi il dovere di verificare che «ciò che viene benedetto sia oggettivamente e positivamente ordinato a ricevere e ad esprimere la grazia, in funzione dei disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore ». Le coppie omosessuali rispondono a questo disegno del Creatore? A parere della Congregazione no, e quindi «non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell' unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso». Altro motivo che ha indotto la Congregazione a considerare inopportune le benedizioni è il rischio di creare «imitazioni o rimandi di analogie» con la benedizione impartita dal sacerdote durante la celebrazione del rito del matrimonio tra uomo e donna. Questo sì un sacramento, e non semplicemente un "sacramentale". Sembra un gioco di parole ma, dal punto di vista teologico, la differenza è sostanziale. Che cosa fare quindi per fare in modo che le comunità cristiane e i pastori possano comunque accogliere con rispetto e delicatezza le persone con inclinazione omosessuale? Questo è il grande problema pastorale. La Nota lascia a vescovi e sacerdoti la fatica di individuare «le modalità più adeguate, coerenti con l'insegnamento ecclesiale, per annunciare il Vangelo nella sua pienezza». Gli omosessuali, nello stesso tempo, «riconoscano la sincera vicinanza della Chiesa - che prega per loro, li accompagna, condivide il loro cammino di fede cristiana - e ne accolgano con sincera disponibilità gli insegnamenti ». Infine, come detto, si ribadisce che la «risposta al dubiumproposto non esclude che vengano impartite benedizioni a singole persone con inclinazione omosessuale, le quali manifestino la volontà di vivere in fedeltà ai disegni rivelati di Dio così come proposti dall' insegnamento ecclesiale». E si rammenta che Dio stesso non smette di benedire ciascuno dei suoi figli pellegrinanti in questo mondo, perché per Lui siamo più importanti di tutti i peccati che noi possiamo fare. Ma non benedice né può benedire il peccato: benedice l' uomo peccatore, affinché riconosca di essere parte del suo disegno d' amore e si lasci cambiare da Lui.

Da “Avvenire” il 16 marzo 2021. «Un documento aperto, che prende posizione contro il rischio di legittimare le benedizioni delle coppie omosessuali mettendole sulle stesso piano delle coppie eterosessuali coniugate ma, allo stesso tempo, riconosce che nell' amore omosessuale esistono elementi positivi». Lo spiega padre Maurizio Faggioni, teologo morale e docente di bioetica all' Accademia alfonsiana, autore della voce omosessualità nel Dizionario di teologia morale della San Paolo. «Il significato è trasparente: possiamo valorizzare sotto il profilo umano alcuni aspetti di una relazione tra persone dello stesso sesso, ma - fa osservare il teologo - la Chiesa sente che, anche nelle esperienze migliori, non si può parlare propriamente di una realtà sponsale. La qualità dell' amore omosessuale è diversa, nella sua dinamica profonda, da quella dell' amore coniugale e il matrimonio resta per la morale cattolica l' unico contesto significativo per l' intimità sessuale». Una benedizione per una coppia omosessuale che ricalca la benedizione delle nozze non risponde alla verità delle cose? «Non significa che le persone omosessuali siano escluse dall' essere benedette. Credo - aggiunge padre Faggioni - che, seguendo il Catechismo, dobbiamo interrogarci seriamente sul senso che una "amicizia disinteressata" ( amicitia gratuita, dice il testo originale) può avere per una persona omosessuale». L' amicizia può essere benedetta? «Nella Chiesa orientale antica - ricorda padre Faggioni - c' era una solenne benedizione dell' amicizia. Qualcuno ha voluto vedervi una forma di benedizione delle coppie omosessuali. Ovviamente si tratta di una forzatura, ma la teologia deve ancora riflettere e interrogarsi, alla luce dello Spirito e con l' aiuto delle scienze umane, per meglio comprendere i complessi chiaroscuri della esperienza omosessuale». Per padre Pino Piva, gesuita, da anni impegnato nella cosiddetta "pastorale di frontiera" con persone lgbt, si tratta di un documento importante perché, nel ribadire posizioni già note che derivano dal Catechismo, non dimentica di mettere in luce il dovere dell' accoglienza, del rispetto e, addirittura, riconosce che all' interno delle coppie omosessuali possono esserci elementi positivi «da apprezzare e valorizzare». Rimane lo snodo pastorale su come esprimere nella prassi questo riconoscimento positivo, ma questo non è certo compito della Congregazione ma della pastorale. «D' altra parte - spiega - è un intervento che non sorprende vista la discussione avviata in molte Chiese, in particolare in quella tedesca. Si intende semplicemente ricordare quanto già noto circa il senso della "benedizione" in quanto "sacramentale"; e ciò che il Catechismo già da tempo afferma circa gli atti omosessuali ». La novità, positiva, secondo padre Piva, è tutta negli aspetti pastorali. «Mi colpisce la reiterata intenzione di non colpire le persone, ma solo un aspetto della loro esperienza di vita (certo, non secondario). L' articolo esplicativo esprime un' attenzione pastorale molto chiara; una preoccupazione a non apparire "discriminatorio", sottolineando quanto la non discriminazione delle persone omosessuali sia parte della dottrina e delle intenzioni pastorali della Chiesa». Quasi che con la delicatezza pastorale si voglia compensare la chiarezza dell' affermazione dottrinale. «Sì, trovo molto significativa l' affermazione che, pur non potendo benedire l' unione tra persone omosessuali supponendo che il rapporto sessuale faccia parte di questa unione, si affermi però che possono essere benedette le persone omosessuali, la loro storia di vita e il loro cammino di fede; questi possono essere benissimo oggetto di benedizione. Non solo - riprende padre Piva - anche per le unioni stesse infatti viene riconosciuta «la presenza in tali relazioni di elementi positivi, che in sé sono pur da apprezzare e valorizzare. In questa frase riconosco una citazione implicita della Relatio post disceptationem del Sinodo 2014 in cui i vescovi si chiedevano: "Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità?'. L' intervento della Congregazione non risponde a questo quesito, ma in qualche modo ne fa sentire l' urgenza». Don Stefano Guarinelli, docente di psicologia alla Facoltà teologica dell' Italia settentrionale, inquadra la Nota della Congregazione per la dottrina della fede dal punto di vista dello studioso che da anni sta cercando linguaggi comuni per mediare tra la parola del magistero e quello della scienza. «Sull' omosessualità - osserva - non abbiamo dati definitivi e riconosciuti. Anche dal punto di vista psicologico facciamo una grande fatica a trovare linguaggi interpretativi efficaci per comprendere il grande problema dell' orientamento.  Abbiamo bisogno di tempo per capire, riflettere, ragionare ». Il prete-psicologo, autore di numerosi studi sull' argomento tra cui il recente Omosessualità e sacerdozio (Editrice Ancora), ritiene che su questo fronte, proprio per la complessità e la difficile definizione della materia, andrebbe sostenuta una linea di mediazione e di attesa, al riparo da chi vorrebbe collocare la Chiesa su posizioni totalmente aperturiste, ma anche da chi vorrebbe un' adesione inflessibile alla norma. «Dobbiamo avere l' umiltà di riconoscere che in questo campo nessuno ha la "soluzione del giallo". Spingendo troppo da una parte creiamo confusione, dall' altra però ci sono persone in attesa da tanti anni di parole accoglienti, che potrebbero essere nuovamente ferite». Secondo don Guarinelli, in questi ultimi anni, la pastorale sta facendo molto bene, con il desiderio evangelico di crescere nell' intelligenza delle cose. Occorre proseguire sulla linea rinnovata dal doppio Sinodo sulla famiglia e poi dall' Esortazione post-sinodale di papa Francesco, senza abbandonare la strada della pazienza e della misura.

·        Vaticano e Gender.

Il Papa: «Il gender è un’ideologia pericolosa e diabolica. E non c’entra con la questione gay». Sveva Ferri martedì 21 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. L’ideologia gender è «pericolosa», perché «è astratta rispetto alla vita concreta di una persona, come se una persona potesse decidere astrattamente, a piacimento, se e quando essere uomo o donna». Papa Francesco è tornato sulla tema nel corso della discussione coi Gesuiti di Bratislava, avuta nel corso del recente viaggio apostolico in Slovacchia, durante la quale il Pontefice ha ribadito che «questo non ha nulla a che fare con la questione omosessuale» e che la Chiesa deve dimostrarsi accogliente con le persone gay.

L’ideologia gender «pericolosa» e «diabolica». Il testo integrale della conversazione, che si è tenuta il 12 settembre, è stato pubblicato oggi dalla rivista dei gesuiti, La Civiltà cattolica. Vi si legge che, in risposta a uno dei presenti che citava l’ideologia gender tra le «diaboliche colonizzazioni ideologice» cui spesso fa riferimento il Pontefice, lo stesso Bergoglio ha chiarito che «l’ideologia ha sempre il fascino diabolico, come dici tu, perché non è incarnata». «In questo momento – ha proseguito il Papa – viviamo una civiltà delle ideologie, questo è vero. Dobbiamo smascherarle alle radici. La ideologia del gender di cui tu parli è pericolosa, sì. Così come io la intendo, lo è – ha spiegato papa Francesco – perché è astratta rispetto alla vita concreta di una persona, come se una persona potesse decidere astrattamente a piacimento se e quando essere uomo o donna. L’astrazione per me è sempre un problema».

Il Papa: «La questione gay è un’altra cosa».  «Questo – ha poi avvertito Francesco – non ha nulla a che fare con la questione omosessuale, però. Se c’è una coppia omosessuale, noi possiamo fare pastorale con loro, andare avanti nell’incontro con Cristo. Quando parlo dell’ideologia, parlo dell’idea, dell’astrazione per cui tutto è possibile, non della vita concreta delle persone e della loro situazione reale». Dunque, il Papa, nella conversazione con i gesuiti di Bratislava, ha invitato ad abbandonare rigidità e atteggiamenti controproducenti, sia nei confronti delle coppie gay sia verso quelle risposate.

Le coppie di risposati «non sono condannate all’inferno». «Penso al lavoro che è stato fatto, padre Spadaro (il direttore di La Civiltà cattolica, ndr) era presente al Sinodo sulla famiglia per far capire che le coppie in seconda unione non sono già condannate all’inferno. Ci dà paura accompagnare gente con diversità sessuale. Ci fanno paura gli incroci dei cammini di cui ci parlava Paolo VI. Questo è il male di questo momento. Cercare la strada nella rigidità e nel clericalismo, che sono due perversioni».

L’elogio della «libertà del Vangelo». «Oggi – ha osservato Bergoglio – credo che il Signore chieda alla Compagnia di essere libera, con preghiera e discernimento. E un’epoca affascinante, di un fascino bello, fosse anche quello della croce: bello per portare avanti la libertà del Vangelo. La libertà! Questo tornare indietro lo potete vivere nella vostra comunità, nella vostra Provincia, nella Compagnia. Occorre stare attenti e vigilare. La mia non è una lode all’imprudenza, ma voglio segnalarvi che tornare indietro non è la strada giusta. Lo è, invece – ha concluso il Pontefice – andare avanti nel discernimento e nell’obbedienza».

I cattolici si spaccano sul ddl Zan: la Chiesa al banco di prova. Francesco Boezi il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Tra chi rifiuta qualunque dialogo e chi si dice possibilista sull'approvazione di una legge, c'è un clima di spaccatura anche all'interno della Chiesa cattolica. C'è chi pensa che il dialogo sia un dogma e chi ritiene che il miglior dialogo sia quello dei "no" privi di diritto d' appello. I cattolici, ancora una volta, sono protagonisti di un distinguo. È una storia antica, che da qualche anno soffre d'inflazione giornalistica: la base "contro" i vertici, le istituzioni "contro" i fedeli, la "piazza" "contro" i vertici che non mobilitano più. Dove "contro" significa soprattutto avere una strategia in testa molto diversa. L'oggetto della dialettica, in questa circostanza, è il Ddl Zan. Quello attorno cui pure la politica si divide senza nascondersi. Il cardinal Gualtiero Bassetti, che non è un ecclesiastico qualunque considerata la presidenza della Conferenza episcopale italiana, è parso possibilista. Spiegando, certo, che sei debba correggere. Ma Bassetti non ha chiuso all'ipotesi approvazione. Il che, dando uno sguardo ai toni utilizzati dagli emisferi culturali cattolici sulla proposta in discussione in Parlamento, costituisce di per sé una notizia. "Guardi - ha detto infatti il cardinale in un'intervista rilasciata a IlCorrieredellaSera - , che ci si ponga il problema di difendere le persone omosessuali da insulti omofobi, aggressioni o violenze, per me non è né è mai stato un problema, ci mancherebbe. Tutte le creature devono essere difese, protette e tutelate. Però la legge dev'essere chiara e non prestarsi a sottintesi". Il disegno di legge insomma necessità di chiarimenti, ma non c'è una contrarietà di partenza. Per chi in questi giorni scende in piazza per motivare la fermezza dei suoi "no", è un apriti cielo o quasi. La questione posta dal cardinale sembra essere questa: meglio "correggere" che "affossare". Poi il cardinal Bassetti specifica: "Io ho sempre sostenuto che non ci fosse bisogno di questo disegno di legge perché c'è già tutta una legislazione sufficiente a tutelare le persone contro le discriminazioni e le violenze - ha dichiarato il porporato italiano -. Non ne vedevo la necessità, tutto qui. Ma è chiaro che se poi decidono di andare avanti, non è una questione che spetti a me decidere, c'è un Parlamento. Se si ritiene utile una legge specifica contro l'omofobia, va bene, come dicevo non è certo questo il problema". Qual è la sostanziale linea di demarcazione tra l'atteggiamento di Bassetti e quello della base dei cattolici? L'apertura, che forse per Bassetti è opportuna. Ma che per tanti cattolici proprio non lo è. Per il cardinale, il Ddl Zan va corretto. Per i cattolici che si stanno mobilitando nelle piazze italiane bisogna proprio "affossarlo". E non si tratta - com'è stato spiegato in più circostanze -, di essere omofobi, ma di avere delle perplessità riguardo l'impostazione stessa del disegno di legge ed i suoi effetti. Del resto, il sociologo Luca Ricolfi, che dal centrodestra o dall'"oscurantismo" cattolico non proviene di certo, ha palesato qualche perplessità, in diretta durante un'edizione recente di Quarta Repubblica. L'omofobia esiste e su questo i dubbi sono pochi. Il tema semmai è comprendere come e se intervenire. Tra chi pensa che un ddl come quello promosso da Zan e dalle forze progressiste sia necessario e chi invece è certo che l'attuale sistema giuridico fornisca già tutti gli strumenti per punire chi lo merita ce ne passa. Il linguaggio del vescovo Antonio Suetta, ad esempio, non è apparso simile a quello di Bassetti: Il disegno di legge Zan - ha detto il vescovo di Ventimiglia-Sanremo all'Adnkronos - "sovverte la legge di Dio oltre che quella naturale". Sono più o meno i toni di certi pro life, che però nelle mobilitazioni sono da tempo maggioritari. La negazione della legge di Dio, secondo il vescovo Suetta, non è certo intravedibile nella parte del Ddl che intende contrastare le discriminazioni. Semmai "la negatività grave della legge Zan - insiste il presule - è l'introduzione delle tematiche relative all'ideologia gender che rappresentano il sovvertimento della legge naturale e della legge di Dio. Della legge naturale perché un maschio è un maschio, una femmina è una femmina. Poi - chiosa Suetta - è evidente che ogni persona va rispettata per l'orientamento sessuale che esprime indipendentemente dalle valutazioni che ognuno può dare". Dicevamo del dialogo. Cercando d'interpretare le parole del secondo ecclesiastico, è lecito notare come le aperture, se ci sono, siano molto meno marcate. Il dialogo è o non è un dogma? E dialogare significa assecondare l'approvazione della legge, previo magari modificare le parti meno accettabili per le istituzioni ecclesiastiche? La differenza risiede in questo passaggio, che però è focale. Un po' perché racconta molto del tipo di battaglia che i cattolici intendono condurre sulla bioetica, vero banco di prova dell'Occidente e dell'umanità che verrà. E un po' perché segna anche il passo dell'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti dei partiti dell'arco progressista, vediamola così. Il Papa è un oppositore assoluto del gender. Eppure, in alcuni contesti ecclesiastici, la tanto osteggiata "teoria" (non ci riferiamo alle dichiarazioni di Bassetti bensì alla spinta culturale proveniente, ad esempio, da alcuni ambienti ecclesiastici nord americani) ha trovato spazio, e persino sostenitori. Sono diversità legittime e consuete per il dibattito pastorale. Ma forse sono pure distinguo che contribuiscono a "rompere" o comunque ad indebolire il fronte dei cattolici.

Benedetto XVI, in arrivo un nuovo scritto contro il pensiero gender che cancella le differenze. Adele Sirocchi venerdì 19 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. E’ in lavorazione un nuovo testo di Papa Benedetto XVI. Nel quale affronterà il tema del pensiero gender. Lo anticipa e ne parla Giulio Meotti nella sua newsletter quotidiana. Si tratta – spiega Meotti – di una prefazione a una raccolta di scritti sull’Europa. “In essa, Ratzinger critica il gender e si chiede come mai tutti i sostenitori della natura in voga oggi cancellino la differenza sessuale naturale. Il volume uscirà in sei lingue”. Per la Chiesa il pensiero gender, che mira a cancellare la differenza sessuale, rappresenta una sfida importantissima. Ne ha parlato anche papa Francesco, opponendosi a un processo di colonizzazione ideologica che soprattutto in Europa e negli Usa sta penetrando nelle scuole, nelle famiglie, nella cultura dell’intrattenimento. Il Papa emerito saprà parlarne da fine teologo quale è. E anche offrendo un’arma dialettica interessante: se si difende la natura (tema caro a Ratzinger che ha sempre evocato la necessità di proteggere la bellezza e la bontà della Creazione) come mai tutta questa avversione alla natura sessuale con la quale veniamo al mondo? Una contraddizione alla quale è difficile dare risposta da parte dei movimenti ecologisti radicali. I quali da un lato mobilitano i giovani contro l’inquinamento e incoraggiano forme di neo-luddismo ma, dall’altro, predicano la assoluta libertà di scegliere la propria identità sessuale come sa la natura, in questo campo, non contasse nulla. Benedetto XVI aveva parlato delle insidie del pensiero gender anche durante il suo pontificato mettendo in guardia contro una “antropologia atea”  che scioglie l’uomo da ogni “costituzione naturale”. Un atteggiamento che conduce a “una radicale negazione della creaturalità e filialità dell’uomo, che finisce in una drammatica solitudine”.

Come nasce la teoria gender. Ma quando e come nasce la teoria del gender? Padre di questa ideologia è considerato lo psichiatra John Money, che per primo utilizzò l’espressione “identità di genere” in base alla quale un individuo si percepisce come maschio, femmina, omosessuale, lesbica, transessuale, bisessuale o sessualmente fluido indipendentemente dall’imprinting genetico e dalla conformazione dei genitali. Money fu protagonista del drammatico caso di David-Brenda Reimer: un bambino cui fu donata una nuova identità femminile con un intervento chirurgico. Lo psichiatra raccomandò ai genitori di educarlo come se fosse una bambina. Il caso fu enormemente pubblicizzato come la prova che le teorie di Money sull’identità di genere avevano fondamento scientifico. David-Brenda Reimer però si uccise in età adulta, compromettendo il successo delle tesi di Money. Secondo gli autori del libro Unisex. La creazione dell’uomo senza identità (Arianna editrice), Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, l’enorme diffusione della teoria dell’identità di genere fu dovuta al fatto che dai primi anni Novanta l’Onu nei suoi documenti introdurrà al posto del termine “sesso” il termine “genere”, consacrato poi nel lessico contemporaneo come parola sostitutiva di “sesso” alla Conferenza mondiale sulle donne a Pechino. L’esperto di marketing Paul E. Rondeau, della Regents University, nel 2002 dettò le linee guida per Vendere l’omosessualità all’America, una strategia per piazzare un “prodotto” culturale come la “gayzzazione”. Strategia fondata su tre caposaldi: Desensitize (desensibilizzare), inondare la società di modelli del tipo che interessa fino a renderli comuni, persino noiosi. Jam (bloccaggio), mettere in atto una censura delle posizioni contrarie alle proprie indicandole come discriminatorie, bigotte e fondamentalmente ipocrite. Convert (convertire), puntando alla massa di coloro che non hanno idee forti sull’argomento per  portarli all’accettazione dell’idea proposta.

La teoria dell’identità di genere e le scuole. La scuola è naturalmente il luogo privilegiato dove è possibile mettere in atto questa strategia. Non a caso nel 2010 una raccomandazione del Comitato dei ministri europeo invita all’introduzione nelle scuole Ue di momenti di sensibilizzazione per evitare discriminazioni verso gay e lesbiche, il che apre la strada appunto alla diffusione dei postulati sui quali poggia la teoria dell’identità di genere. Molte polemiche ha suscitato in Francia a partire dal 2013 l’inserimento di corsi finalizzati a promuovere la parità dei sessi e a combattere l’omofobia miranti in realtà a decostruire l’ideologia della complementarietà tra i sessi. Il punto d’arrivo, secondo alcuni studiosi più pessimisti, non sarebbe affatto la legittima e sacrosanta tolleranza verso le minoranze, ma l’approdo culturale a un transumanesimo basato su individui indifferenziati e più manipolabili in virtù della loro identità fluida.

·        Vaticano e donne.

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 19 maggio 2021. Parità tra Dame e Cavalieri. Praticamente una rivoluzione. Il cardinale Fernando Filoni- Gran Maestro dell' Ordine del Santo Sepolcro - seguendo la road map tracciata da Papa Francesco ha riformato il rito d' ingresso al fine di non discriminare le Dame presenti nella secolare struttura che una tradizione fa risalire alla prima crociata, anche se i primi documenti risalgono al 1336. Da allora però tutti i papi hanno annesso giuridicamente questa organizzazione alla Santa Sede che da sola garantisce la vita e la sussistenza a tutte le scuole, gli istituti religiosi, i seminari, i consultori, gli orfanotrofi, i dispensari cattolici presenti in Terra Santa, per un totale di 14 milioni di dollari versati annualmente. Una potenza.

Ilaria Sacchettoni per "corriere.it" il 20 maggio 2021. Assieme hanno rinunciato al sacerdozio. Assieme chiedono, ora, che la loro decisione sia rispettata. Per interrompere forse l’ondata di curiosità che aveva colpito la comunità di Città di Castello dopo la notizia — divulgata la settimana scorsa — della rinuncia al sacerdozio da parte di don David Tacchini e don Samuele Biondini, i due sacerdoti della parrocchia di San Pio X che si sono innamorati e hanno ottenuto la dispensa dal celibato chiedono coralmente il rispetto della propria riservatezza. E smentiscono le voci più maligne che li volevano sul punto di diventare padri: «Smentiamo la notizia diffusa che stiamo per diventare padri» dicono. La notizia imprudentemente veicolata da qualche trasmissione televisiva aveva tenuto banco per giorni. Ebbene, spiegano l’ex parroco e il suo vice, si tratta di rumori senza fondamento.

I due sacerdoti ringraziano i parrocchiani. La comunità di fedeli si era dimostrata particolarmente comprensiva nei confronti di padre Samuele e don Daniele, molto amati dai loro parrocchiani («sono due santi!») e la loro reputazione ne era uscita, se possibile, rafforzata. Motivo per cui ora i due ex sacerdoti ringraziano tutti: «Ringraziamo tutti coloro che hanno manifestato il loro affetto nei nostri confronti e tutte le persone con le quali abbiamo camminato e continueremo a camminare nell’amore di Gesù». La frase suona come un proposito, quello di proseguire nell’esperienza religiosa pur dall’esterno della comunità pastorale. Ma ai due preme soprattutto smentire alcuni virgolettati riportati da qualche giornale romano nei giorni scorsi: «Le affermazioni che ci sono state attribuite — dicono — in alcuni casi virgolettandole non sono mai state rilasciate da noi».

La dispensa dal celibato. I rimpianti, se ci sono, sono un fatto interamente privato, dicono: «Abbiamo soltanto chiesto e ottenuto la dispensa dal celibato. Conseguentemente, secondo le norme vigenti non possiamo esercitare il ministero. Abbiamo scelto di non parlare della nostra vita nei giornali o in tv perché crediamo più consono affrontare tale tema in un contesto di relazioni umane e di autenticità». Poco mediatici, molto riservati.

Michele Milletti e Walter Rondoni per “Il Messaggero” il 15 maggio 2021. Uno sguardo, qualche parola, un sentimento forte che gli abiti sacri non hanno potuto soffocare. È nato così il caso di Città di Castello, con il parroco della chiesa di San Pio X, don Samuele Biondini, e il vicario don David Tacchini che hanno abbandonato l'abito talare per amore di due donne. Amore a seconda, almeno per David che ha confessato agli amici: «Quando l'ho rivista me ne sono innamorato di nuovo». Pioggia, vento, nuvole basse e nere: un venerdì da giudizio universale in città, e i fedeli che frequentano la chiesa parrocchiale di giudizi sulla vicenda ne danno eccome. Inevitabile. Come inevitabile che siano divisi tra pro e contro. Anche se il pensiero di fondo è comune: «Siamo dispiaciuti, ma dobbiamo rispettarne le volontà, augurando loro una vita felice, sono stati eccezionali». Sempre pronti ad accogliere, sempre pronti a dare cibo ed alloggio. Sempre pronti all'elemosina.

LA RICOSTRUZIONE Il primo a mostrare cedimenti è stato don David, tifernate doc, 40 anni il 16 aprile, ordinato nel 2014, uno zio prete, volontario in Kosovo ed in Congo, un periodo nella comunità ecclesiale nella vicina Citerna. «Una bellissima persona fuori e dentro» nel giudizio di un giovane parrocchiano. «Già da diversi mesi aveva annunciato di prendersi una pausa di riflessione e non si vedeva più in parrocchia, ci aveva spiegato che doveva fare chiarezza con se stesso, poi abbiamo saputo che aveva trovato l'amore», ricordano sul sagrato. Una volontaria laica, conosciuta prima di entrare in seminario. È per lei che avrebbe deciso di lasciare. «A qualcuno don David confidò che quell'incontro, dopo tanto tempo che non si vedevano, aveva fatto scoccare la scintilla» sostiene una donna. «L'amore è più forte di tutto, penso sia giusto far sposare i sacerdoti, possono avere famiglia ed essere pastori della comunità. Siamo esseri umani, abbiamo tutti bisogno d'amare». La pioggia, dopo una pausa, torna a cadere fitta ed insistente. Dal portone spalancato della chiesa arriva, smorzata, la cantilena dei vespri che mezza dozzina di donne recita nella penombra. Il quartiere, uno dei più grandi e popolosi di Città di Castello, è come sospeso nel tempo, consapevole di vivere momenti che segneranno per sempre l'intera comunità. Marciapiedi deserti. Si contano sulle dita di una mano i clienti al Circolo Enal. Lontano da qui, nella frazione di Lerchi, a casa dei genitori, don Samuele Biondini cerca di sfuggire al clamore. «Non ho niente da aggiungere a quanto comunicato dal vescovo», avverte affacciandosi dal terrazzo mentre chiede di «non essere ripreso o fotografato». Intanto, di lui si parla. «Ognuno fa quello che vuole, ma ci siamo rimasti male, dicono che la sua compagna sia in dolce attesa», mormora uno. «Ha scritto al vescovo di incontrare i parrocchiani per spiegare i motivi della sua scelta», gli fa eco un amico. Nato nel 1970 a Tradate, nel Varesotto, ordinato sacerdote nel 1997, appassionato di canto, don Biondini ha esercitato il proprio ministero a Trestina, sempre nel Tifernate, prima di arrivare a San Pio X, a ridosso del centro di Città di Castello. Responsabile della pastorale giovanile, gli viene riconosciuto il merito d'aver «riacciuffato molti ragazzi». Ad un certo punto è stato lui, ad aver avuto bisogno di un aiuto, di un braccio dove appoggiarsi. L'ha trovato in un'infermiera. E da lì, pian piano, sarebbe sbocciato l'amore. «Mia figlia gli ha telefonato, dicendogli quanto fosse dispiaciuta, lui le ha risposto che lo è altrettanto ma che è felice così», conferma una donna. Che aggiunge: «Hanno fatto la loro scelta e l'hanno annunciata».

Luca Benedetti Walter Rondoni per “Il Messaggero” il 14 maggio 2021. I sussurri già parlavano di questione di cuore. E ora si aggiungono anche le grida per spiegare l'abbandono dell'abito talare di due sacerdoti. Succede nella parrocchia San Pio X a Città di Castello, nell'Umbria già famosa per un altro abbandono della missione sacerdotale, quello di Riccardo Ceccobelli, già don a Massa Martana e ora fidanzato con Laura. A Città di Castello, prima è stato il turno del vicario, don David Tacchini, 40 anni, che continua altrove, ma in Altotevere, il suo impegno di assistenza ai più deboli. Unica differenza, la relazione, si racconta in città, più stretta con una volontaria laica conosciuta già prima del seminario. E ora di nuovo vicinissima all'ex sacerdote. Tanto che proprio per lei avrebbe deciso di lasciare i voti. Quindi il titolare della parrocchia, don Samuele Biondini, 50enne, amatissimo, sempre pronto ad aiutare gli altri. Un punto di riferimento per il quartiere, uno dei più popolosi a ridosso del centro. La decisione probabilmente non ha sorpreso quanti erano al corrente delle sue crescenti difficoltà nell'esercizio del proprio ministero. Per chi lo conosce sarebbe stato questo disagio a spingere don Samuele a trovare la spalla di una infermiera cui aggrapparsi. Donna per cui per è nato l'amore. Né conferme né smentite all'indomani del messaggio nel quale il vescovo, monsignor Domenico Cancian, reso pubblico che «don David Tacchini, quasi un anno fa, e più recentemente don Samuele Biondini hanno chiesto ed ottenuto dal Santo Padre la dispensa dagli obblighi derivanti dalla Sacra Ordinazione». Nessun accenno ai motivi, ma l'ammissione che «il presbiterio e tutta la comunità diocesana accolgono con sofferenza e allo stesso tempo con rispetto la libera decisione di David e Samuele». Mentre torna il ricordo di quanto accaduto a Massa Martana, un centinaio di chilometri da Città di Castello, un'oretta di superstrada E45, dove Riccardo Ceccobelli, 42 anni, da 9 prete, gridò al mondo il suo amore per una giovane parrocchiana. Laura, 26enne, infermiera, catechista nella stessa parrocchia. Un rapporto di semplice conoscenza, poi di amicizia allacciato da quattro anni, diventato qualcosa di profondo a settembre dell'anno scorso. A gennaio le dimissioni. In aprile, infine, la scelta di rendere partecipe la comunità di un sentimento sempre più difficile da nascondere. «Amo e rispetto la Chiesa. Non posso non continuare ad essere coerente, trasparente e corretto con essa come finora sono sempre stato. Il mio cuore è innamorato seppure non abbia mai avuto modo di trasgredire le promesse che ho fatto, voglio provare a vivere quest'amore senza sublimarlo, senza allontanarlo», annunciò dall'altare, una domenica mattina, l'oggi ex parroco a San Felice, affiancato dal suo vescovo. «La ragione della mia presenza in mezzo a voi è quella di dirvi a viso aperto che don Riccardo Ceccobelli ha manifestato il desiderio di domandare al Santo Padre la grazia della dispensa dagli obblighi del celibato, perciò ha chiesto di essere dimesso dallo stato clericale e dispensato dagli oneri connessi alla Sacra Ordinazione», spiegò monsignor Gualtiero Sigismondi ai fedeli. «Alla luce di queste decisioni dobbiamo approfondire anche il ruolo, importante e fondamentale, che i seminari hanno nel percorso vocazionale», riflette in queste ore monsignor Renato Boccardo, arcivescovo di Spoleto-Norcia e presidente della Ceu, la Conferenza episcopale umbra. «Il celibato è un orientamento altro che si dà alla propria vita e quindi anche alla propria affettività e sessualità e lo si può vivere in pienezza e con il cuore colmo di gioia solo rispondendo pienamente alla chiamata del Signore», spiega. «Nel rispetto delle scelte personali, accompagniamo con la preghiera questo momento difficile e di sofferenza che incide nella storia delle persone interessate e delle Chiese locali umbre».

Agostino Gramigna per corriere.it il 13 aprile 2021. Prima ha parlato il vescovo. Poi il sacerdote. Così davanti ai fedeli don Riccardo Ceccobelli, 41 anni, ha aperto il suo cuore. Ha confessato di amare la Chiesa ma anche una donna. «Non posso non continuare a essere coerente, trasparente e corretto con essa come finora sono sempre stato. Ma il mio cuore è innamorato. Voglio provare a vivere quest’amore senza sublimarlo, senza allontanarlo». Pantalla è tutta in un paio di strade che s’intersecano. In una di queste sono allineate le case di tre sorelle e due fratelli. E in quella di nonna Quintilia sono nati i genitori di don Riccardo, il parroco che per amore ha rinunciato alla tonaca. L’annuncio è stato fatto ai fedeli dal vescovo Gualtiero Sigismondi durante l’ultima messa domenicale a Massa Martana. I parrocchiani sono balzati sui banchi. Ma tutti a Pantalla, come nella vicina Massa Martana, in provincia di Perugia, sapevano da tempo. La notizia circolava. Don Riccardo era stato visto in giro con una donna. Senza farne un dramma era stata nonna Quintilia il mese scorso ad annunciare la cosa al cugino del sacerdote: «Sai, Riccardo si spreta. C’è questa ragazza...». Don Riccardo ha chiesto la dispensa dal celibato sacerdotale e la riduzione allo stato laicale. La madre di Riccardo, Mirella, cerca di spiegare: «Siamo una famiglia di cattolici, io avevo pregato perché mio figlio diventasse prete. Riccardo è di indole buona, faceva parte dell’Azione cattolica, da giovane aveva avuto già una donna, forse di più, ma non mi ha sorpreso quando mi ha detto di voler diventare prete. Una vita vissuta. Lui è fatto così, è uno schietto. Proprio l’altro ieri ne stavo parlando con mio fratello. Riccardo mi ha sentita: “Devi proprio spifferare i mie affari?”». Il cugino racconta però che quando Riccardo studiò teologia, si laureò con il massimo dei voti e annunciò di voler fare il prete, non tutti i parenti avevano capito quella scelta. «Era considerato un bel ragazzo, che lavorava come operaio in una fabbrica e che forse avrebbero voluto veder metter su famiglia». Poi il viaggio in Albania. «Stava attraversando un momento delicato, un periodo di sbandamento. Un prete lo invitò a seguirlo in Albania. E fu lì che ebbe la conversione. Disse: “Ho visto la povertà assoluta, non è possibile che io mi lamenti di tutto e c’è gente che non ha nulla”». Don Riccardo è ben voluto dai parrocchiani. Il cugino sorride: «Dipendesse dal lui continuerebbe a fare il sacerdote, non ha avuto nessuna crisi. E resterà nell’ambito della Chiesa. Non è che questa vita gli dispiacesse. Semplicemente s’è innamorato».

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 14 aprile 2021. «Erano le 11,27 di domenica 11 aprile, piangeva il cielo e piangevo io. Stavo correndo in macchina sotto la pioggia verso Massa Martana per l' ultima messa della mia vita, l' ultima messa celebrata da me, voglio dire. Avevo fretta, dunque, ma a un certo punto davanti mi si è parato un carretto che trasportava un albero d' ulivo. Il carretto andava piano e io avevo voglia di superarlo. Ma poi mi è venuta in mente la storia che imparai da piccolo al catechismo: la pianta che viene spostata, un giorno fruttificherà altrove. Ecco, io ora mi sento come quella pianta d' ulivo. Mi sto spostando. Per me è stato un segno di Dio».

Si ricorda anche l' ora esatta di quel momento: le 11,27. «Ho visto l' orologio. Beh, credo che almeno per me sarà indimenticabile».

Don Riccardo Ceccobelli, 42 anni, ha chiesto già a Gualtiero Sigismondi, vescovo della diocesi di Orvieto-Todi, la grazia della dispensa dall' obbligo del celibato e la dimissione allo stato laicale. Dice che non tornerà più indietro.

Ci vuole raccontare, don Riccardo?

«Appena si è saputa la notizia, mi ha chiamato una mia amica. Mi ha detto: Ma che hai fatto? Ti sei rincoglionito per una donna, hai proprio scapocciato, come si dice dalle nostre parti in Umbria. E adesso tutti a pensare chissà che cosa, ma io dovevo farlo questo salto nel buio, perché è vero che ho smesso di fare il prete ma non di essere prete, che questo sia chiaro. E non potevo continuare perciò a tenermi questa cosa dentro di me. Lo dovevo a Dio, al mio vescovo, ai miei parrocchiani. Una questione di onestà, di libertà, di trasparenza».

Quando ha scoperto di essere innamorato di Laura?

«Noi ci conosciamo da quattro anni, perché io da sei sono, ero, il parroco di Massa Martana e ci siamo incontrati in parrocchia. Ma è da settembre scorso che è cambiato per sempre qualcosa dentro di me. Ho cominciato a percepire dentro un' emozione, io però all' inizio ho fatto di tutto per tenere sotto controllo la situazione, ve lo giuro, ho sperato che trovasse un fidanzato, ma ogni giorno che passava stavo sempre più male. Una sera ho provato forte il bisogno di chiamarla al telefono. Non riuscivo a dormire senza sentire la sua voce. Quando lei mi ha risposto, io le ho detto: "Pronto? Ciao, sono io". E subito dopo ho avvertito un benessere, una grande pace dentro di me. E mi sono addormentato. A gennaio ho presentato le dimissioni al vescovo».

Laura adesso è vicino a lui, ha 26 anni, fa l' infermiera e anche la catechista e per questo, dice, "noi comunque vogliamo restare nella Chiesa, se ci sono delle regole da rispettare vogliamo farlo, senza dare scandalo". Insieme sembrano davvero due ragazzi innamorati. Lo sono. Riccardo vuol condividere con noi un bel ricordo dell' inizio. Loro due si sono conosciuti così.

«Quattro anni fa, eravamo in nove sul pulmino della parrocchia sulla strada da Orvieto a Todi, un nostro amico aveva messo un cd di un rock metallico tremendo, allora io mettevo il dito sul volume per abbassarlo e lei lo rialzava, io abbassavo e lei rialzava, finché non mi ha rotto il dito. All' ospedale mi hanno dovuto mettere tre chiodi. Così di recente, stavamo parlando delle nostre eventuali nozze future, io un po' per scherzare le ho detto: "Che bisogno c' è di sposarsi, io la fede la porto già incastrata nel dito da quattro anni"».

Per adesso, però, non si parla nemmeno di fidanzamento.

«Stiamo aspettando la dispensa dall' obbligo del celibato», dice Laura. «Io non sono ancora mai andato a cena dai suoi genitori e già mi tremano i polsi solo al pensiero», aggiunge lui sorridendo. Però don Ceccobelli adesso sta soffrendo di nuovo moltissimo. Ha l' occhio sinistro bendato per quanto ha pianto in queste ultime tre notti, da quando la notizia è diventata ufficiale.

«Sì il tanto pianto, a causa delle lenti a contatto, mi ha fatto venire un' infiammazione. Il mio oculista s' è spaventato, gli ho dovuto dire il perché».

In un momento così, si sente di dire qualcosa a Papa Francesco?

«Gli chiedo di pregare per me, di pregare anche per tutti i parroci del mondo e per quelli in particolare che si trovano nelle mie condizioni. In questi giorni ho pensato molto a certe coincidenze: l' 11 aprile, cioè la data della mia ultima messa, nell' anno 1123 si chiuse il concilio lateranense con la dichiarazione dell' obbligo del celibato per i sacerdoti. E il 12 aprile, quando si è aperto il mio processo canonico, 388 anni prima fu processato Galileo Galilei. Voglio dire che forse dietro tutto questo c' è il disegno di Dio. Il celibato è un dono ma è un dono anche quello che mi sta succedendo. Non spetta a me cambiare certe regole, ma forse è un invito a riflettere. Me lo ha detto anche il vescovo: questo sarà un tema della Chiesa. So già che il mio vescovo lo faranno santo».

Quanti pettegolezzi, quante cattiverie adesso dovrà sopportare.

«Niente mi spaventa con l' aiuto di Dio. Mi chiamano gli amici, i parenti, magari lo dicono con mille attenzioni, ma vogliono tutti capire se in questa storia c' è anche il sesso. E non sanno invece che io e lei non siamo ancora mai usciti una volta da fidanzati, mano nella mano».

Le chiederanno se intende sposarsi, avere dei figli...

«Sì se Dio vuole, ma io che ne so, potrebbe finire tutto anche tra una settimana. Da ragazzino ho avuto nove fidanzate ma da più di vent' anni non ho una storia. Lei poi è una donna forte: quante volte mi ha detto "se vuoi mi allontano, fai la tua scelta". E io adesso l' ho fatta. E mi sento libero».

Però ha attraversato anche una crisi profonda.

«Certo, ma non ho mai messo davanti al popolo di Dio i miei bisogni e le mie necessità. Per questo ho dovuto lasciare, non potevo più continuare».

Don Riccardo è appena rientrato a casa dopo sei anni vissuti in parrocchia. La sua Polo nera è carica di bagagli, c'è dentro pure una carabina.

«Eh sì mi hanno messo tanto in croce i parrocchiani perché una volta l' ho utilizzata per spaventare un piccione. Ma la verità è che mi scagazzava sopra la tovaglia dell' altare e per pulire la tovaglia dell' altare in tintoria ci vogliono cento euro perché è larga 8 metri e lunga 3. Ahivoglia il Papa a dire di non fare offerte per i matrimoni! I soldi ai parroci servono eccome per mandare avanti la baracca».

Dalla Polo spuntano anche tutti i vangeli chiusi in una busta, la tonaca bianca, il materasso. Lui è scalzo, solo un paio di sandali ai piedi, malgrado il freddo dell' Umbria alle cinque della sera cominci a farsi sentire. Un pile nero, pantaloni tecnici da montagna, gli occhiali da sole a goccia per nascondere la benda. Era un prete di strada, don Riccardo, sempre in mezzo ai giovani. Lo è stato fino all' ultimo giorno da quando fu ordinato sacerdote 12 anni fa.

Adesso è molto provato, i capelli lunghi come la barba, fuma una sigaretta dopo l' altra, ma ha voglia di andare avanti.

«Non voglio spoilerare niente ma in giro m' hanno già offerto cinque lavori. Non ho paura di questo salto nel vuoto, sono pronto a prendermi tutte le mie responsabilità, ho il crocefisso al collo che mi accompagna».

I suoi genitori, Carlo e Mirella, ma anche il fratello Alberto e la sorella Carla sono vicino a lui. Tutti insieme nel salotto di casa guardano la televisione che sta parlando della vicenda. Il sindaco di Massa Martana, Francesco Federici, usa parole di grande umanità e comprensione verso il suo parroco. Ma tutto il paese ha solidarizzato subito, già domenica, quando c' è stato l' annuncio del vescovo in chiesa: don Riccardo Ceccobelli si è innamorato e ci lascia.

Che dicono papà Carlo e mamma Mirella?

«Loro due mi hanno sempre detto: se hai fatto questa scelta, hai fatto bene, se sei contento tu siamo contenti noi. Mio fratello Alberto all' inizio era contrario, ma poi ha letto la felicità nel mio volto».

Franca Giansoldati Alessia Marani per "il Messaggero" il 9 marzo 2021. «Dobbiamo lottare per la dignità delle donne, sono loro che portano avanti la Storia». Tornando dall'Iraq, con ancora negli occhi le immagini delle ferite alla città di Mosul dove i jihadisti stupravano e vendevano al mercato le ragazze yazide, Papa Francesco ripercorre tanto orrore e - non a caso - sceglie l'8 Marzo per denunciare con forza le violenze cui sono soggette, persino «nel Centro di Roma», tante giovanissime straniere. Una piaga sommersa e molto remunerativa per il racket che ben conoscono tante associazioni che operano nella Capitale. Talitha Kum, la Giovanni XXIII, le Scalabriniane e l'eroica suor Eugenia Bonetti, 80 anni ma ancora attiva, l'emblema mondiale di questa campagna di salvezza. Tutte realtà religiose sostenute concretamente dal Papa per salvare dal marciapiede ragazzine spesso minorenni, senza documenti, ricattate, schiavizzate. Praticamente fantasmi.

L'APPELLO. Ai giornalisti Francesco ha affidato un appello rendendo omaggio al mondo femminile senza nascondere la preoccupazione per un fenomeno che non accenna a diminuire. «Le donne sono più coraggiose degli uomini, è vero, ma la donna anche oggi è umiliata, e vorrei andare all'estremo». L'estremo a cui fa riferimento è la storia di Nadia Murad, la yazida ex schiava, fuggita miracolosamente fino a diventare la testimone all'Onu dei crimini contro l'umanità commessi dal Califfato a Mosul. Il suo libro autobiografico ha pietrificato il Papa. «C'era la lista dei prezzi delle donne. Non ci credevo. Le donne si vendono, si schiavizzano. Ma succede anche nel Centro di Roma. E il lavoro contro la tratta è un lavoro di ogni giorno». Lo sanno bene le realtà cattoliche. Durante il Giubileo della Misericordia Francesco ha visitato con monsignor Fisichella una casa protetta dove ha incontrato una ragazza mutilata. «Le avevano tagliato l'orecchio perché non aveva portato i soldi giusti. Era stata trasportata da Bratislava nel bagagliaio della macchina. Una schiava, rapita. Quindi questo succede anche fra noi, i colti». Francesco ha destinato alcuni edifici destinandoli al recupero delle ragazze, ha finanziato progetti e ha messo all'asta una Lamborghini Huracane che gli era stata regalata. Aveva persino scomunicato gli uomini che alimentavano questo turpe fenomeno («sono dei criminali»). Don Aldo Bonaiuto, il sacerdote anti-tratta, non ha dubbi che con il Covid il fenomeno a Roma sia più nascosto. «Quando il Papa si riferisce al Centro di Roma parla della zona dentro al Raccordo. Ne abbiamo discusso assieme qualche settimana fa: sono andato a trovarlo e assieme abbiamo fatto una videochiamata con alcune di queste ragazze salvate. Il racket in questo periodo di pandemia ha solo spostato le ragazze nelle strade laterali alle grandi arterie, la Colombo, la Salaria eccetera. Se il fenomeno della schiavitù a Roma è esteso la colpa è dei clienti. Se non ci fosse la domanda non ci sarebbe nemmeno questo mercato ignobile, frutto di una mentalità maschilista e vergognosa».

B&B E VIDEOCHIAMATE. A Roma, stando ai dati dell'associazione anti-tratta Parsec, si cela la più grande fetta del mercato delle schiave del sesso, circa il 15% di quello nazionale. Un esercito di 2500 donne e trans che sono letteralmente vendute in strada, a cui se ne aggiungono almeno altre 1500 costrette a farlo nelle case o nei centri massaggi. Si contano più di trenta differenti nazionalità, con in cima le potenti mafie nigeriana e albanese che gestiscono le rotte dall'Africa e dall'Est. Nel migliore dei casi le schiave con la loro attività si comprano il costo del viaggio e poi tornano libere. Ma, spesso, non riusciranno mai a sottrarsi al giogo. Il Covid, però, ha imposto, prima una battuta d'arresto, poi dei cambiamenti. I pattuglioni della polizia lungo le consolari con tanto di multe, ostacolano e spostano il fenomeno. Solo pochi giorni fa i carabinieri di piazza Dante, rione Esquilino, hanno scoperto e chiuso tre centri massaggi a luci rosse gestiti da cinesi tra San Giovanni e il Nomentano, ma le indagini erano partite da una casa d'appuntamento in zona Prati. Nel Centro di Roma, appunto. E in Centro, adesso, trans e schiave del sesso cominciano il loro calvario già nel primissimo pomeriggio. «Ma scalfire il sistema delle tratte è difficile - spiega un investigatore di lungo corso - perché difficile è rompere il muro dell'omertà e della paura».

L’8 marzo è la Festa dell’Ipocrisia. Gianluigi Nuzzi su Notizie.it l'08/03/2021. Il Papa, nella sua omelia, dice parole che accudiscono e coccolano tutti noi, ma se c'è una società maschilista questa è proprio la Città del Vaticano. Buon 8 marzo. Questa dovrebbe essere la festa della donna, ma in realtà è la festa dell’ipocrisia. Ognuno dice la sua sventolando una bandiera di diritti come se questi non dovessero essere già naturali, connaturati, sedimentati nelle coscienze. Ma così purtroppo non è. Ho riascoltato le parole di un’omelia di Papa Francesco nella quale il pontefice dice che la donna è armonia, che il suo compito non è lavare i piatti ma dare poesia e bellezza alla vita. La donna, continua, è stata creata da Dio perché sia madre di tutti. Ma se c’è una società maschilista e assolutamente incentrata sull’uomo, questa è proprio la Città del Vaticano, una monarchia assoluta dove le donne sono figure marginali. Le suore lavano le mutande e i piatti ai vecchi porporati e, più in generale, la donna nella storia della Chiesa non ha mai ricoperto un ruolo di rilievo. Non ci sono donne che hanno potere nello Stato Pontificio. I cardinali e i vescovi detengono strettamente il comando e tutta la struttura di potere è formata da uomini. Il Papa, nella sua omelia, dice parole che accudiscono e coccolano tutti noi, ma qualche passo (vero) nel suo mondo andrebbe ancora fatto.

Gianluigi Nuzzi. Giornalista, ha iniziato a scrivere a 12 anni per il settimanale per ragazzi Topolino. Ha, poi, collaborato per diversi quotidiani e riviste italiane tra cui Espansione, CorrierEconomia, L'Europeo, Gente Money, il Corriere della Sera. Ha lavorato per Il Giornale, Panorama e poi come inviato per Libero. Attualmente conduce Quarto Grado su Rete4 ed è vicedirettore della testata Videonews. È autore dei libri inchiesta "Vaticano S.p.A." (best seller nel 2009, tradotto in quattordici lingue), "Metastasi", "Sua Santità" (tradotto anche in inglese) e "Il libro nero del Vaticano".

Germania, una rivoluzione rosa nella Chiesa cattolica. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 25 febbraio 2021. La Chiesa cattolica tedesca sta tentando di reinventare se stessa attraverso dei cambiamenti in materia di tradizione e dottrina nell’aspettativa di rallentare il proprio declino e di monopolizzare il tema della modernizzazione del cattolicesimo. Il rischio di uno scontro frontale con Roma è concreto, specialmente quando le ambizioni del ribelle e progressista clero tedesco sforano nella protestantizzazione, ma la posta in palio è elevata: avere una voce in capitolo nella ristrutturazione della bimillenaria Chiesa cattolica.

Una donna a guidare i vescovi tedeschi. Un evento significativo ma non sorprendente è accaduto a Berlino nella giornata del 23 febbraio. La Conferenza Episcopale Tedesca (DBK, Deutsche Bischofskonferenz), al culmine di una video-assemblea plenaria organizzata per discutere delle dimissioni dello storico segretario generale Hans Langendörfer, in servizio da ventiquattro anni, ha eletto a maggioranza il suo successore: una donna. Langendörfer, di estrazione gesuita, è stato sostituito da Beate Gilles, una rinomata teologa che, parola di monsignor Georg Bätzing, vescovo di Limburgo e suo conoscente, “è fortemente inserita nelle diverse strutture della Chiesa cattolica ed è dotata delle migliori capacità organizzative”. La sua elezione ha dello storico: mai, prima di lei, un simile onere-onore era stato affidato ad un laico, per di più donna. Secondo Bätzing, fra i grandi promotori della nomina della Gilles, si tratta di un “segnale forte che i vescovi stanno mantenendo la promessa di promuovere le donne in posizioni di dirigenza”.

Le aspettative sono alte. La Gilles assumerà l’incarico in maniera ufficiale ed effettiva a partire dal primo luglio di quest’anno, e le aspettative su quello che potrebbe essere il suo contributo alla causa cattolica sono incredibilmente alte. La teologa, invero, ha un curriculum pregiato ed eloquente che, sperano i vescovi, potrebbe rivelarsi utile a drenare l’emorragia di fedeli (e di donazioni) che sta conducendo la Chiesa cattolica tedesca sull’orlo dell’estinzione. La teologa è nota per aver guidato il Dipartimento per i bambini, i giovani e la famiglia dell’Ordinariato episcopale di Limburgo, e ha una formazione specialistica in risoluzione di problematiche sociali e del lavoro e in comunicazione religiosa sui media. In breve, la Gilles potrebbe aiutare i vescovi a formulare dei piani d’azione atti ad accentuare l’impronta sociale e la presenza mediatica della Chiesa cattolica. Oltre al ruolo direttivo nella DBK, sempre a partire dal primo luglio, la Gilles assumerà anche il controllo della Federazione delle diocesi tedesche – e del suo bilancio, attualmente equivalente a 120 milioni di euro. Quel che è accaduto il 23 febbraio è che un laico, peraltro di sesso femminile, è divenuto il capo informale della Chiesa cattolica tedesca; un terremoto rosa i cui effetti non resteranno circoscritti a Berlino e che è indicativo della direzione verso la quale si sta incamminando l’impero più antico del mondo.

Cosa sta accadendo in Germania? L’elezione della Gilles è l’emblema dell’agenda riformista messa in moto dalla cerchia di potere ruotante attorno all’influente cardinale Reinhard Marx; una cerchia che, oltre a voler laicizzare l’ecclesia, anela al concretamento di cambiamenti dottrinali in materia di omosessualità e sacerdozio femminile. Il rischio di uno scontro frontale con Roma è concreto, specialmente perché sussiste il rischio di una “protestantizzazione del cattolicesimo”, ma la posta in palio è elevata: avere una voce in capitolo nella ristrutturazione della bimillenaria Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica tedesca, inoltre, ha anche dei problemi di natura impellente da risolvere, pena una morte senza resurrezione: la fuga di fedeli e donatori, il fallimento dei piani di evangelizzazione e la competizione nel mercato delle fedi con religioni più vibranti, come l’islam. La Gilles, nell’ottica dell’ala progressista del clero tedesco, potrebbe e dovrebbe contribuire a mitigare ciascuno dei tre fenomeni attraverso tele-evangelizzazione, consolidamento della forza sociale della Chiesa – è il datore di lavoro privato più importante della Germania – e svecchiamento d’immagine. Le incognite all’orizzonte, però, sono molteplici: l’elezione della Gilles è stata celebrata con enfasi dai movimenti del femminismo cattolico, come Maria 2.0, ma è erroneo e disinformante veicolare l’idea che la Chiesa cattolica tedesca sia un tutt’uno solido e solidale, forgiato dal e promuovente il progressismo quasi-scismatico alla Marx. La polarizzazione tra fazioni, durante l’era Gilles, potrebbe aumentare notevolmente e lavorare in senso contrario ai piani della DBK. Ultimo ma non meno importante, la storia sembra suggerire che le rivoluzioni rosa siano controproducenti – un’evidenza che la Chiesa cattolica dovrebbe quantomeno tenere in considerazione. La femminilizzazione del clero e le alterazioni dottrinarie non hanno inibito in alcun modo il declino delle realtà protestanti di America settentrionale e Scandinavia; al contrario hanno incoraggiato i rimanenti praticanti ad allontanarsi – perché non più in grado di riconoscersi nelle chiese di appartenenza – e i laici (non credenti) ad imporre delle agende riformiste che, con la scusante della modernizzazione, hanno alimentato dei processi di snaturamento aventi come capolinea la sterilizzazione del cristianesimo.

La decisione di Papa Francesco. Suor Nathalie Becquart sarà la prima donna a votare nel Sinodo dei vescovi: “Fiducia per le donne nella Chiesa”. Rossella Grasso su Il Riformista l'8 Febbraio 2021. Papa Francesco continua la sua rivoluzione: Suor Nathalie Becquart sarà la prima donna a votare nel Sinodo dei vescovi. Bergoglio ha scelto due nuovi sottosegretari al Sinodo tra i religiosi e in particolare ha voluto una saveriana, francese, suor Becquart già responsabile della pastorale giovanile e vocazionale presso la Conferenza episcopale francese, e dal 2019 consulente per il Sinodo dei vescovi. Si tratta di una nomina particolarmente significativa. Il Sinodo dei vescovi è un’istituzione permanente che ha il compito di aiutare e consigliare il Papa nel governo della Chiesa cattolica. Da quando fu istituito da Papa Paolo VI nel 1965, nel Sinodo avevano potuto votare esclusivamente i vescovi. Alcune donne nel corso degli anni erano state uditrici e avevano avuto la facoltà di intervenire nell’assemblea, ma mai di votare. La prima reazione della religiosa a questa nomina è nel segno di una “chiamata al servizio”, di “un’avventura” che inizia con la fiducia del Papa che non ha mai nascosto il suo desiderio di coinvolgere le donne nelle decisioni e nel discernimento nella Chiesa. “Questo compito lo accolgo come un segno di fiducia verso le donne nella Chiesa – ha commentato  Suor Nathalie Becquart subito dopo la nomina in un’intervista a Vatican News – per le religiose, e più in generale anche per i laici e come risposta a tutto ciò che è stato detto durante gli ultimi Sinodi e su cui il Papa insiste molto: la sfida di coinvolgere le donne nelle decisioni e nel discernimento nella Chiesa”. Diplomata all’École des hautes études commerciales de Paris, suor Nathalie Becquart è anche filosofa, teologa e sociologa. Nel 2005 ha preso i voti perpetui, e nel corso della sua vita ecclesiastica ha ricoperto diversi incarichi, tra cui quello di direttrice spirituale della Rete della Gioventù Ignaziana in Francia, di coordinatrice generale del pre-Sinodo dei Giovani in Vaticano, e il ruolo di Consultore della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi.

Domenico Agasso per "La Stampa" il 12 gennaio 2021. Papa Francesco cambia il codice di Diritto canonico e apre due ministeri alle donne: il Lettorato e l'Accolitato, che riguardano la lettura durante le liturgie e il servizio all'altare. Ma questo non significa ordinazione sacerdotale femminile, cioè donne prete. E così difficilmente rallenteranno i tentativi di fuga «dottrinaria» in avanti in corso soprattutto nella Chiesa tedesca. Nonostante vari altolà vaticani, molti vescovi in Germania stanno accelerando nel loro lungo sinodo interno (iniziato un anno fa, durerà ancora un anno) per avviare riforme su temi sensibilissimi e tabù: sacerdoti sposati, apertura alle coppie gay e ruoli apicali accessibili anche alle donne, introduzione delle diaconesse. Ribaditi con forza in questi giorni dal capo dei presuli teutonici, monsignor Georg Bätzing, pastore di Limburg, che ha richiesto (in un'intervista al periodico Herder Korrespondenz) di spalancare «il ministero sacramentale alle donne», dunque almeno il diaconato ma possibilmente anche il sacerdozio femminile, e «benedire le coppie omosessuali» con un atto «visibile» e «pubblico» che segnerebbe la differenza con il matrimonio. A queste vanno aggiunte varie dichiarazioni di altri prelati tedeschi che muovono verso la «normalizzazione» della concezione dell'omosessualità nella Chiesa. Queste spinte progressiste da Berlino agitano il sonno di monsignori e porporati in Vaticano, spaventati dagli spettri di uno scontro aperto e di una spaccatura che potrebbe addirittura prefigurare scenari clamorosi, «degenerando in una chiesa nazionale tedesca», come paventano vari prelati, e anche il cardinale arcivescovo di Colonia, Rainer Maria Woelki. I presuli tedeschi puntano a rendere il sinodo «vincolante», cioè decisionale come se la Chiesa tedesca fosse autocefala. Temi chiave: «Autorità, partecipazione e separazione dei poteri»; «moralità sessuale»; «forma della vita sacerdotale»; «le donne nei ministeri della Chiesa». Roma aveva già avvertito: solo il Vaticano può decretare su questi temi. E il Papa nel giugno 2019 aveva inviato ai vescovi tedeschi una lettera per chiedere unità. Ha invocato di «camminare insieme», Germania e Vaticano. Più secchi altri due stop posti da Oltretevere nei mesi successivi. Il richiamo in una lettera del cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, accompagnata da una valutazione di monsignor Filippo Iannone, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi, in cui si affermava che la volontà di rendere vincolanti le decisioni del Sinodo locale «non è ecclesiologicamente valida». Finora tutto ciò, compreso un colloquio Bergoglio-Bätzing, non è bastato. Nel frattempo il Papa, dopo l'istituzione di una nuova Commissione di studio sul diaconato femminile, spera che possa distendere gli animi il Motu Proprio «Spiritus Domini» varato ieri, con cui rende istituzionalizzata una prassi già autorizzata: le donne che leggono la Parola di Dio durante le Messe o che svolgono un servizio all'altare, come ministranti (chierichette) o dispensatrici della comunione. Finora tutto ciò avveniva senza mandato, «in deroga a quanto stabilito da San Paolo VI, che nel 1972 - ricorda Vatican News - pur abolendo i cosiddetti "ordini minori", aveva deciso di mantenere riservato l'accesso a questi ministeri alle sole persone di sesso maschile». Ora la nuova formulazione del canone recita: «I laici che abbiano l'età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti». Viene dunque abolita la specificazione «di sesso maschile». Secondo il Pontefice «per la Chiesa è urgente che si promuovano e si conferiscano ministeri a uomini e donne». Aprire ufficialmente le porte alle donne nel Lettorato e nell'Accolitato non vuol dire però che potranno diventare sacerdotesse, precisa Francesco facendo proprie le parole di papa san Giovanni Paolo II: «Rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l'ordinazione sacerdotale».

Donne sull’altare? Don Pino le aveva già. Luigi Mariano Guzzo su Il Quotidiano del Sud il 12 gennaio 2021. Il 13 giugno 2007 scrissi dell’esperienza vissuta nella parrocchia “Madonna di Pompei” di Catanzaro: numerose ragazze, in età adolescenziale, partecipano al servizio liturgico e vestono come “chierichette”. L’iniziativa matura in un contesto di una comunità ecclesiale viva, aperta, generosa, da pochi mesi guidata da don Pino Silvestre, teologo, vicario episcopale, con alle spalle una decennale esperienza missionaria in Brasile e attento studioso delle teologie della liberazione e del terzo mondo (don Pino sarà parroco di “Madonna di Pompei” fino al 2019, attualmente è rettore della Chiesa del Monte dei Morti, nel centro storico del capoluogo di regione). Il titolo dell’articolo non lascia adito a fraintendimenti: «Le donne sull’altare per coltivare la grazia». E nel corpo del testo scrivo: «tutti possono testimoniare che la presenza di queste ministranti è un vero arricchimento per l’intera comunità parrocchiale. Infatti, le ragazze mettono a servizio del gruppo liturgico il proprio ingegno e la propria sensibilità e operosità». In quell’occasione mi chiama un sacerdote per dirmi: «non stai facendo del bene a don Pino». Il senso delle parole è chiaro: don Pino potrebbe avere delle difficoltà nella sua “carriera ecclesiastica” a motivo di ciò che racconto nell’articolo. Sarebbe meglio – mi dice ancora il prete – non pubblicizzare molto la presenza di donne nel gruppo liturgico della parrocchia, cioè che servivano all’altare con il camice bianco. Certamente, da parte del prete, vi è stato un eccesso di prudenza per un sentimento di protezione nei confronti dell’amico don Pino, il cui nome, in quegli anni – non è mistero – circolava per diverse sedi episcopali. Ma l’episodio, reinterpretato con gli occhi di oggi, la dice lunga su come la Chiesa sia cambiata in poco più di tredici anni. Portare le donne sull’altare sembrava, fino a pochissimo tempo addietro, l’eccezione di un prete di frontiera, come don Pino, mentre oggi diventa (finalmente) la regola. Con il “Motu Proprio” promulgato ieri, Papa Francesco elimina la riserva maschile per i ministeri istituiti del lettorato e dell’accolitato. Solo poche settimane fa, su queste stesse colonne de “Il Quotidiano del Sud”, l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace e presidente della Conferenza Episcopale Calabra Vincenzo Bertolone, affermava, con coraggio, che nella Chiesa «non c’è una vera e piena comunione di genere» e che «urge una riserva profetica, per allargare gli spazi della presenza femminile». Adesso, questa decisione di Francesco va proprio nella direzione di un piccolo passo verso quella più ampia comunione di genere nella Chiesa, di cui parlava l’arcivescovo Bertolone nel suo editoriale che pare anticipare le tendenze di riforma che coinvolgono i ministeri nella Chiesa. D’altronde, di fatto, le donne già leggono e servono all’altare ormai da anni nelle nostre comunità ecclesiali. Anche se ciò non significa che il diritto certifica, con i crismi della legalità formale, una situazione fattuale, e neanche che la Chiesa tenta di adeguarsi al ruolo della donna nella società civile. Sarebbe riduttivo pensare questo. Più in profondità, teologicamente, la Chiesa nei “segni dei tempi” – come li chiamava Giovanni XXIII, il Pontefice che ha avuto l’intuizione di indire il Concilio Vaticano II – individua le ragioni per rispondere più fedelmente al messaggio di Gesù Cristo, così che riconosce tanto per le donne quanto per gli uomini un carisma specifico, all’interno della comune vocazione battesimale, a proclamare la Parola di Dio e a servire sull’altare. Vi è insomma una dimensione originaria della dignità femminile nella Chiesa cattolica. Certo, non è stato semplice arrivare a maturare una simile consapevolezza. E la strada è ancora lunga. Basti pensare che il Sinodo dei vescovi aveva auspicato l’apertura del lettorato alle donne nel 2008, dodici anni addietro. Papa Francesco va oltre questa richiesta sinodale ed estende alle donne anche l’accolitato. In tal modo, si realizza un’eguaglianza tra donna e uomo nell’accesso ai ministeri laicali, pur permanendo la riserva maschile per i ministeri ordinati (diaconato, presbiterato ed episcopato), che viene ribadita nell’atto pontificio. Anche se, com’è noto, la possibilità del diaconato alle donne è al vaglio di una commissione di studio (la seconda sul tema nel pontificato di Francesco). E peraltro questa possibilità non comporterebbe problemi con la supposta derivazione divina – secondo il magistero di Giovanni Paolo II ribadito in più occasioni dallo stesso Bergoglio – del sacerdozio ministeriale riservato agli uomini: il “grado” del diaconato, nonostante sia “ordinato”, manca del carattere sacerdotale. Tant’è che lo stesso Benedetto XVI nel 2009 ha riformato il Codice di diritto canonico sottolineando l’assimilazione a Cristo capo esclusivamente per i sacerdoti e i vescovi e l’abilitazione a servire per i diaconi. Comunque sia, per il diaconato alle donne sembra sia necessario ancora attendere. Mentre, per il lettorato e per l’accolitato è ormai riconosciuto un accesso paritario.

Ciò significa che le donne sull’altare dovranno servire proprio come gli uomini, senza necessità di ruoli e funzioni qualitativamente diversi. Esperienze pionieristiche, come quelle della comunità “Madonna di Pompei” – cito questa, perché l’ho vissuta in prima persona -, oggi appaiono quasi profetiche. E rispetto a preti come don Pino si deve dire che avevano ragione loro, ad intercettare i “segni del tempi” per accogliere la novità dello Spirito di Dio, sognando e anticipando quella “Chiesa povera e per i poveri” desiderata oggi da Papa Francesco.

·        La Chiesa ed il Matrimonio.

Papa Francesco: "L'aborto è un omicidio con un sicario. La vita va rispettata". Giustina Ottaviani su  Libero Quotidiano il 16 settembre 2021. «L’aborto è un omicidio con sicario» e «sì alle unioni civili tra persone omosessuali ma il sacramento del matrimonio tra uomo e donna è un’altra cosa». Papa Francesco rimette i paletti alla conferenza stampa improvvisata sul volo di ritorno dalla Slovacchia. Conversando con i giornalisti al rientro in Vaticano Bergoglio ha parlato del dialogo con le autorità ungheresi, di antisemitismo e dei vaccini, come pure della comunione ai politici che approvano leggi abortiste. Il Pontefice ribadisce i punti fermi. L’aborto «è più di un problema, è un omicidio», ha detto il Papa, per questo la Chiesa è così dura sull’argomento, «perché se accettasse questo è come se accettasse l’omicidio quotidiano». «La Chiesa» perciò «non cambia la sua posizione» ma «ogni volta che i vescovi hanno gestito non come pastori un problema si sono schierati sul versante politico». E per essere più chiaro: «A chi non può capire farei questa domanda: è giusto uccidere una vita umana per risolvere un problema? È giusto assumere un sicario per uccidere una vita umana? Scientificamente è una vita umana. È giusto farla fuori per risolvere un problema?». Riguardo al dibattito all’interno della Conferenza episcopale Usa, poi, se negare la comunione ai politici cattolici favorevoli alle posizioni dei "pro-choice", tra cui il presidente Joe Biden il Pontefice ha ribadito che chi pratica l’aborto «uccide» ma ha criticato la posizione di alcuni vescovi cattolici che vogliono negare la comunione. Il pastore «se esce dalla pastoralità della Chiesa diventa un politico e questo lo vedete in tutte le condanne non pastorali della Chiesa». Bergoglio trova anche il tempo di scherzare sull’intervento al colon. «Sono ancora vivo» dice. E riguardo ai complimenti che gli fanno i giornalisti che sottolineano «il risultato splendido, lei è ringiovanito!» gli dicono, taglia corto:«Mi hanno detto che qualcuno voleva farsi l’intervento... Ma non è stata una cosa estetica». Ok alle unioni civili gay ma il matrimonio è un’altra cosa. «Gli Stati hanno la possibilità civilmente di sostenerli, di dare loro sicurezza di eredità, salute, non solo per gli omosessuali, ma per tutte le persone che vogliono associarsi. Ma il matrimonio è matrimonio» ha ribadito. Ce n’è anche sul capitolo vaccini: «Ci sono no vax anche in Vaticano - ha affermato Papa Francesco ai giornalisti -Anche nel collegio cardinalizio ci sono negazionisti e uno di questi, poveretto, è ricoverato con il virus ... ironia della vita», riferendosi al cardinale Raymond Burke, ricoverato in terapia intensiva.

L'avvertimento del Papa: ecco cosa ha detto sulla famiglia. Francesco Boezi il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. Papa Francesco, in un videomessaggio, ha ribadito che la famiglia può essere solo quella costituita dal "maschile" e dal "femminile". Sarà l'ennesima volta che lo ripete, ma è sempre bene sottolinearlo per far comprendere quale sia la sua linea: il Papa ha circoscritto il campo della famiglia al "maschile" ed al "femminile". Jorge Mario Bergoglio ha specificato che per famiglia va intesa quella costruita "con la trama e l'ordito del maschile e del femminile". Il pontefice non è nuovo ad esternazioni di questo tipo. Una parte importante del dibattito odierno, però, è occupato a pieno titolo da quella che viene chiamata "ideologia" o "teoria" gender. I progressisti ne hanno fatto una bandiera. E la dialettica, soprattutto quella italiana, che riguarda soprattutto il legislatore, oltre all'opinione pubblica, verte sul piano legislativo. Il Papa potrebbe dunque aver deciso di mandare un segnale complessivo alle istituzioni cattoliche ed ai fedeli del mondo intero, rimarcando la linea da seguire in bioetica sul concetto di "famiglia". L'occasione per ribadire la necessità di un maschile e di un femminile per la costituzione e la definizione di un nucleo familiare - come riportato da Aci Stampa - è stata fornita da un incontro del Forum “A che punto siamo con l’applicazione di Amoris Laetitia?", la discussa lettera apostolica con cui il Santo Padre ha aperto alla concessione della comunione per i divorziati risposati, suscitando tuttavia le aspre critiche del "fronte tradizionale", ma anche lo scalpore di un gruppo di porporati che è arrivato a porre una serie di dubbi al Papa attraverso una lettera scritta cui non è mai stata data risposta pubblica. Quella polemica è ormai sepolta, mente la Chiesa cattolica è impegnata in prima linea nella discussione sull'opportunità di quanto previsto dal Ddl Zan, che per lo più trova la contrarietà degli ambienti ecclesiastici (ma con più di qualche distinguo). Il Papa non è nuovo a invettive dirette o indirette contro la "teoria" gender: in una circostanza recente, Bergoglio ha sottolineato la contrarietà di quella ideologia al "progetto di Dio". Certo Francesco non si è mai pronunciato contro il Ddl Zan, e anzi il Papa ha dato prova di essere meno interpretabile di quanto si pensi su certi aspetti, ad esempio quando ha aperto alle leggi sulla "convivencia civil" in documentario andato in ondato durante il Festival del Cinema di Roma, ma il pensiero del Papa sulla tutela della famiglia rimane lapalissiano. Quello che gli oltranzisti chiamano "attacco alla famiglia naturale", poi, non passa solo dai decreti o dalle proposte di legge che interessano l'Italia: per i cattolici l'offensiva rivolta alla famiglia è in corso da parecchio tempo. Non solo in Italia, ma nel contesto globale, dove il supremo vertice della Chiesa cattolica tende a guardare quando inoltra messaggi pubblici che non hanno possibilità di appello. Il rapporto ideologico tra "famiglia" intesa nel senso cattolico e "gender", ad esempio, è uno dei punti sollevati dai vescovi americani che hanno iniziato a criticare l'operato di Joe Biden, che in linea di principio dovrebbe recarsi in Vaticano tra non molto, per il primo e storico incontro con Bergoglio. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, con i suoi primi provvedimenti è apparso sin da subito concorde nel favorire alcuni "nuovi diritti", che i cattolici considerano del tutto inopportuni o quasi. Al contempo, sappiamo quanto la Chiesa tedesca stia spingendo per alcune modifiche catechetiche che potrebbero coinvolgere anche l'accoglimento di alcuni dettami rivoluzionari. Il gender, insomma. è solo una delle questioni bioetiche in campo tra quelle che animano il clima odierno nella Chiesa, che deve anche badare al piano politico, che è poi quello della società contemporanea. Nelle frasi del pontefice al Forum, è possibile rintracciare anche quella secondo cui "vedere con i propri occhi l’amore di Cristo vivo e presente nell’amore degli sposi, che testimoniano con la loro vita concreta che l’amore per sempre è possibile!”, oppure l'espressione per cui "in virtù del sacramento del matrimonio, ogni famiglia diventa a tutti gli effetti un bene per la Chiesa". Non solo difesa della famiglia, quindi, ma anche evidenziature sulla centralità del matrimonio. I media tendono spesso a non dare il giusto risalto ad alcune considerazione del pontefice. In specie quando queste considerazioni esulano dal campo di certa narrativa che si vorrebbe dominante. Durante questo pontificato, Bergoglio ha tuttavia ripetuto spesso e volentieri asserzioni contrarie a certe istanze della modernità.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. P

Vittorio Feltri contro il matrimonio: "Un intralcio. Uomo e donna? Non sono fatti l'uno per l'altro". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 febbraio 2021. Natalia Aspesi, giornalista di talento, viene letta da decenni su vari giornali ed è apprezzata dal pubblico perché non scrive mai banalità. Ciò detto, ieri su Repubblica ho gustato un suo articolo riguardante le donne che sfondano e quelle che affondano. Conteneva osservazioni interessanti, però complessivamente ricalcava vecchi concetti, diciamo pure un po' scontati. Ai suoi ragionamenti, comunque non contestabili, vorrei aggiungere alcune riflessioni compiute esaminando la realtà. La maturazione femminile è avvenuta molto rapidamente dalla seconda guerra mondiale in poi. Le ragazze finalmente, spinte dalle famiglie, hanno spalancato le porte dell'Università e hanno a poco a poco conquistato le sfere più elevate della cultura. Oggi dimostra di essere inferiore nell'ambito della erudizione chi suppone che le signore non siano all'altezza degli uomini. Basta dare una occhiata ai livelli che esse hanno raggiunto nelle varie professioni un tempo riservate ai maschi. Inutile ricordare che le loro scalate sono state faticose e intralciate dai noti pregiudizi. Le più evolute, a mio giudizio, sono quelle che non hanno mitizzato il matrimonio, la convivenza con un compagno, e non sono ossessionate dal desiderio di maternità, assai diffuso per questioni naturali. Non è vietato sposarsi, ovvio, tuttavia ciò può essere un intralcio, una scocciatura, addirittura un peso. Due persone possono amarsi più a lungo e più intensamente se non campano sotto lo stesso tetto. La qualcosa comporta difficoltà insuperabili. Dopo un periodo in cui lui e lei stanno accanto di giorno e di notte, scatta l'insofferenza. Dormire in due nel medesimo letto poi è contro ogni logica. Basta uno sbadiglio a disturbare il partner, non parliamo poi se uno dei due russa, è la fine dell'affetto non solo del trasporto. La questione sessuale è molto delicata. Il desiderio viene ammazzato dall'abitudine, gli stessi esercizi ripetuti lo annullano senza soluzione. E qui scattano le corna che non aiutano certo la concordia coniugale, insomma o due sposi si conquistano spazi individuali (due stanze separate e due bagni sono il minimo sindacale) oppure lo sfascio è garantito al 90 per cento. Inoltre, la pace è assicurata soltanto da patti chiari. La moglie non è una serva, i lavori domestici devono essere svolti pure dal marito, altrimenti la parità va a farsi benedire. Nel caso poi ci siano di mezzo dei figli, la spartizione dei compiti va fatta col bilancino. Altrimenti le donne vengono penalizzate persino sul lavoro, il quale richiede impegno totale. Lo spirito che eventualmente deve sostituire l'attrazione fisica, mai duratura, è quello del mutuo soccorso. Le unioni matrimoniali per resistere devono obbedire alle stesse regole che governano una società imprenditoriale. In caso contrario il nucleo familiare diventa un inferno in cui germogliano perfino violenze. Per concludere veniamo alla prole. Non solo la educazione da impartire occorre sia concordata, ma altresì gli impegni che essa comporta o sono spartiti tra i genitori oppure anche i bambini cresceranno pieni di preconcetti. Uomini e donne sono uguali in tutto. Se non ce ne convinciamo la sofferenza sarà un prodotto ineliminabile. Le donne lo sanno. Gli uomini mica tanto.

La riforma "nascosta" del Papa: così cambia la nullità del matrimonio. Bergoglio ha da tempo esso nel mirino il processo sulla nullità del matrimonio. Una riforma importante, ma nascosta. Francesco Boezi - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. C'è un certo dibattito su una delle ultime riforme di papa Francesco. Un provvedimento passato un po' in sordina, forse perché molto tecnico. Parliamo della riforma della nullità matrimoniale nel diritto canonico. In realtà, le modifiche risalirebbero al 2015, ma siccome adesso si iniziano a vedere i primi effetti, gli esperti sono tornati a dire la loro. Alla fine del gennaio del 2021, Jorge Mario Bergoglio, che tra i tanti cambiamenti sta anche cercando di sterzare in relazione alla cosiddetta "giustizia vaticana", ha ribadito le sue intenzioni. Il Santo Padre, inaugurando l'anno giudiziario in Santa Sede, ha posto accenti sulla necessità che le procedure siano sempre più "agili", "accessibili" e "gratuito". Ci riferissimo a settori laici, parleremmo di semplificazione. Ma la tendenza è comunque quella.

Il Motu proprio di riferimento. Certo, in questo caso il fine è anche quello di non ridurre il matrimonio ad una formalità giuridica. E il Papa, nella medesima circostanza citata, parlando della nullità matrimoniale, si è riferito ad una "dalla memoria, fatta di luci e di ombre, che hanno segnato una vita, non solo dei due coniugi ma anche dei figli", così come riportato da La Stampa. Francesco - lo sappiamo - è un rivoluzionario. Soprattutto per quel che riguarda la trasparenza interna e l'organizzazione curiale, con la messa in discussione delle logiche acquisite, Bergoglio ha dimostrato una ferma volontà di modificare l'andazzo. E questo sembra riguardare anche la prassi procedurale che riguarda la nullità matrimoniale. Il Motu Proprio del 2015 mediante cui il Papa è intervenuto sul punto, ossia Mitis Iudex Dominus Iesus, attiene ad un materia particolare. L'introduzione del cosiddetto "processo breve" in ambito matrimoniale, del resto, avrebbe potuto sollevare le critiche di chi tende a difendere lo status quo. C'era insomma il rischio che le novità del pontefice argentino venissero associate a qualche tentativo di ridurre la stessa centralità dottrinale dell'istituto "matrimonio". Un conflitto vero e proprio non c'è stato. La cosiddetta "opposizione" a Bergoglio si è concentrata su altri temi. Di sicuro, i tradizionalisti hanno scelto di attaccare su Amoris Laetita o sulla apertura dell'ex arcivescovo di Buenos Aires sulle unioni civili. Di nullità matrimoniale e matrimonio si è insomma discusso con molta parsimonia. E questo nonostante la dichiarazione di nullità matrimoniale, mediante la riforma bergogliana, sia divenuta effettivamente meno problematica da ottenere. L'argomento a primo acchito si presta poco, perché è poco mediatico. Inoltre, nel 2015, la "destra ecclesiastica" non era ancora esplosa, con le critiche che poi abbiamo avuto modo di conoscere e raccontare nel corso di questi anni. Con buone probabilità, l'esigenza di mettere mano alle lungaggini temporali del vecchio modello procedurale erano e sono condivise dai più. Qualche giorno fa, sul Domani, è apparsa pure questa riflessione: "L'aspetto controverso della riforma non è tanto l'eliminazione della doppia sentenza, di cui già si parlava in un convegno di canonisti nel 2000, quanto le modalità tecniche con cui sono state formulate le condizioni, i luoghi, le fasi e i tempi del processo più breve: come fare le opportune verifiche o testimonianze, per esempio, se i tempi di verifica vengono accorciati". Anche sul piano dei tecnicismi e dei loro effetti, in buona sostanza, si discute. L'interventismo del Santo Padre non fa che suscitare interesse. Ma di cosa si sta discutendo davvero?

La riforma di Francesco. La chiamano riforma del processo breve in materia di nullità matrimoniale, ma è corretto tagliare l'argomentare in questo modo? Rosario Vitale non è soltanto un assiduo commentatore di approfondimenti come questo per ilGiornale.it, ma è anche il direttore di Vox Canonica, un periodico, uno dei primi se non il primo dei tempi recenti, che si occupa di diritto canonico in chiave divulgativa e non solo. E il religioso - interpellato pure in questa circostanza da ilGiornale.it - sgombra subito il campo da parecchi dubbi, chiarendo quale sia in realtà la ratio del provvedimento del vescovo di Roma: "Si è parlato e aggiungo, speculato tanto - esordisce l'esperto - , circa la riforma del Santo Padre, il così detto "processus brevior". Si è detto - aggiunge Vitale - tutto e il contrario di tutto, cerchiamo quantomeno di fare chiarezza su alcuni punti che ritengo fondamentali". Arriva dunque la prima spiegazione: "Intanto c’è da dire che il processo breve, da qualcuno inteso quasi come un processo amministrativo, è un vero e proprio processo, e per tali ragioni richiede la presenza di tutti i soggetti coinvolti, così come pure tutte le solennità del caso: deposizioni, dichiarazioni, documenti, giudici, difensori del vincolo ecc… anche per quanto concerne i tempi, la casistica ci dice che in media un processo breve ha una durata minima di tre mesi". Un processo breve, quindi, non è un non processo. E questo è già un elemento utile a delimitare il campo. Devono esistere dei presupposti. Non tutti possono usufruire delle regole previste dal Mitis Iudex Dominus Iesus. Bisogna - come spiega Vitale - che la fattispecie venga integrata da casi specifici: "Devono sussistere due elementi: la nullità del matrimonio deve essere evidente e manifesta, non deve sussistere contrasto tra le parti. In poche parole, deve sussistere quello che in diritto chiamiamo fumus boni iuris e unitamente a questo, la certezza morale che quel matrimonio sia nullo, allo stesso tempo le parti in causa, devono manifestare coesione e unità nel ritenere nullo il loro matrimonio, per qualsivoglia motivo che la canonistica annovera tra le possibili cause, e che per utilità non stiamo qui ad elencare". In parole povere: la riforma di Bergoglio non svilisce affatto il matrimonio in quanto istituzione sacra e benedetta da Dio.

Il presunto svilimento dottrinale ed il ruolo dei vescovi. In numerose circostanze l'attuale pontefice è stato accusato da destra, per semplificare, di svilire o di modificare in senso progressista la dottrina cristiano-cattolica. E pure questa storia del processo breve per la nullità matrimoniale poteva finire in questo grande calderone. Come abbiamo accennato, attorno a questi aspetti non è stato registrato un attivismo specifico. In fin dei conti, si tratta di non essere troppo invadenti nei confronti della vita delle persone, come lascia intendere Rosario Vitale: "Non vi è nessuna involuzione - prosegue Vitale nella sua disamina - , la dottrina non cambia, e non potrà cambiare nemmeno con un Motu Proprio, né oggi né mai. Il processo breve - continua - ha la peculiarità di arrivare ad una certezza morale e oltre ogni ragionevole dubbio in quelle cause ove, sussistendo un’evidenza così lampante e la quasi totale mancanza di conflitto tra le parti, si possa giungere ad una soluzione in tempi relativamente celeri e con costi di gestione decisamente più bassi". Non siamo neppure dinanzi ad un caso mediatico, com'è stato per via dell'apertura del Papa nei confronti delle leggi che dispongono sulla "convivencia civil". La sensazione è che vi sia una sostanziale comunanza d'intenti attorno a questa particolare riforma promossa dall'assoluto vertice ecclesiastico. Sì, ma sui punti controversi di questa riforma cosa risponde l'esperto? Una delle questioni sollevate riguarda il ruolo dei presuli, che sulla base della riforma bergogliana sono chiamati a giudicare:"Non li definirei controversi - risponde Vitale -, ma certamente sono aspetti che hanno bisogno di un maggiore approfondimento, ad esempio il ruolo dei Vescovi nel processo breve: sappiamo che il Vescovo è il giudice nei processi brevi, lo ha ribadito anche il Santo Padre nell’ultima allocuzione alla Rota...". C'è quello che sembra un "però": "Se da un lato però il giudice è il Vescovo, dall’altro è difficile pensare ciò allorquando un Vescovo non abbia le competenze specifiche per farlo (studi pregressi in ambito canonistico) o alle volte il tempo". I vescovi giudici non possono che far riflettere. Ma Francesco ha ribadito la sua volontà nell'ultima allocuzione alla Rota: "Il giudice è il Vescovo, va aiutato dal vicario giudiziale, va aiutato dal promotore di giustizia, va aiutato, ma lui è il giudice, non può lavarsene le mani". Bergoglio, com'è spesso capitato, tira dritto.

Le altre questioni aperte. Non è finita qui. Se non altro perché lo studioso di diritto canonico sottopone alla nostra attenzione un altro punto che meriterebbe di essere studiato con atteggiamento certosino. Peraltro sembra che le domande siano state poste dallo stesso papa Francesco: "Altro argomento importante, è l’accompagnamento dei figli o della parte soccombente. Così affermava il Papa: 'Di fronte a un matrimonio che giuridicamente viene dichiarato nullo, la parte che non è disposta ad accettare tale provvedimento è comunque con i figli un unum idem'. Pertanto, è necessario che si tenga conto della rilevante questione: che ne sarà dei figli e della parte che non accetta la dichiarazione di nullità?”. La Chiesa cattolica non può lasciare sola la parte in contrasto con la decisione presa. E la decisione, com'è noto per i processi matrimoniali, finisce con il coinvolgere anche gli eventuali figli: " Sono ancora argomenti che meritano per la loro importanza, la giusta considerazione". Vitale fornisce un giudizio che tutto sommato si rivela positivo: "Penso che sia stato fatto tantissimo fino ad oggi, il processus brevior seppur ancora con margini di miglioramento, è un giusto connubio tra la prassi canonistica, il diritto canonico, la dottrina e i tempi che viviamo". Più che altro il problema, supposto sempre che esista, è legato alla necessità che i vescovi, che peraltro sono stati chiamati a giudicare, ne sappiano eccome di diritto canonico: "Più che un miglioramento, la mia è una considerazione, un auspicio, sarebbe opportuno che più sacerdoti o laici, studiassero le materie canonistiche e che in ogni diocesi si potessero istruire questi tipi di processi, ciò aiuterebbe la pastorale e il popolo di Dio ad avere le giuste e doverose risposte e nei giusti tempi", chiosa il religioso Rosario Vitale.

Il Papa: “Procedure gratuite per la nullità matrimoniale. I figli vittime innocenti di divorzi e rotture”. Francesco apre l’Anno giudiziario in Vaticano e invita i giudici della Rota romana a proseguire «con tenacia» la riforma dei processi brevi. Salvatore Cernuzio su La Stampa il 29 Gennaio 2021. Procedure «accessibili e agili, possibilmente del tutto gratuite» per la nullità matrimoniale che non è e non può essere «un atto freddo di mera decisione giuridica» che prescinde «dalla memoria, fatta di luci e di ombre, che hanno segnato una vita, non solo dei due coniugi ma anche dei figli». Papa Francesco apre l’anno giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano in Sala Clementina e con officiali, avvocati e collaboratori del Tribunale della Rota Romana presenti all’udienza, affronta il tema spinoso del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità matrimoniale, riformato nel 2015 con il motu proprio «Mitis Iudex Dominus Iesus» che ha introdotto il cosiddetto processo breve. Il Papa - che inizia il suo discorso scusandosi perché parlerà da seduto a causa dell’«ospite un po’ molesto» che è la sciatica che lo tormenta - posa lo sguardo sulla «tragedie» vissute da tante famiglie, concentrandosi in particolare sui tanti figli «vittime innocenti di tante situazioni di rottura, divorzio o di nuove unioni civili». Approfittando dei ringraziamenti al decano della Rota Romana, monsignor Pio Vito Pinto, che «avrà tra alcuni mesi la giovinezza di 80 anni e dovrà lasciarci», Francesco denuncia le «tante resistenze» emerse in diocesi d’Italia e del mondo alla riforma dei processi matrimoniali. «Vi confesso - dice, distaccandosi dal testo scritto - che dopo la promulgazione, ho ricevuto delle lettere, tante, quasi tutte di notai che perdevano la clientela. E lì il problema dei soldi. In Spagna si dice: «por la plata baila el mono», per i soldi balla la scimmietta. Anche ho visto con dolore in alcune diocesi la resistenza di qualche vicario giudiziale che con questa riforma perdeva potere perché si accorgeva che il giudice non era lui ma il vescovo». «Il vescovo è il giudice», rimarca Francesco, raccontando a braccio un aneddoto personale: «Poco tempo dopo (l’introduzione della riforma) mi chiamò un vescovo: “Io ho questo problema, una ragazza vuole sposarsi in Chiesa ma è stata sposata anni fa. È stata costretta perché incinta. Ho fatto di tutto, ho chiesto a un prete di fare il vicario giudiziale, i testimoni dicono che è stata forzata, che quel matrimonio era nullo… Santità, cosa devo fare?”. Gli ho detto: hai una penna in mano? Firma! Tu sei il giudice, senza tante storie». Riallacciandosi al discorso iniziale di Pinto, Francesco parla della «doppia sentenza» per la nullità matrimoniale nominando Papa Lambertini (Benedetto XIV) che ne fu il fautore. «Era un grande nella liturgia, aveva buon senso anche dell’umorismo, ma ha dovuto fare la doppia sentenza per problemi economici in qualche diocesi», dice. Oggi bisogna «tornare alla verità», esorta il Pontefice: «Il giudice è il vescovo: va aiutato dal vicario giudiziale, dal promotore di giustizia, ma lui è il giudice non può lavarsene le mani, e tornare a questo è la verità evangelica». Di questa verità fanno parte «coniugi e figli» che, afferma Jorge Mario Bergoglio, «costituiscono una comunità di persone, che si identifica sempre e certamente col bene della famiglia, anche quando essa si è sgretolata». Proprio il “bonum familiae” viene intaccato quando i matrimoni falliscono; in passato si erano aperti infatti spiragli perché esso potesse rappresentare un capo di nullità. Una possibilità «opportunamente chiusa», ricorda Papa Francesco, che torna a raccomandare che il “bonum familiae” non sia visto «in modo negativo, quasi possa ritenersi come uno dei capi di nullità». Si tratta infatti «sempre e comunque» del «frutto benedetto del patto coniugale» che «non può estinguersi in toto con la dichiarazione di nullità». «Non si può considerare l’essere famiglia come un bene sospeso, in quanto è frutto del progetto divino, almeno per la prole generata. I coniugi con i figli donati da Dio sono quella nuova realtà che chiamiamo famiglia», insiste il Pontefice. Da qui apre la riflessione sul caso di un matrimonio giuridicamente nullo, in cui una parte non è disposta ad accettare il provvedimento: «È comunque con i figli un unum idem», un tutt’uno, afferma. Bisogna, però, tenere conto di una questione rilevante: «Che ne sarà dei figli e della parte che non accetta la dichiarazione di nullità? Finora tutto sembrava ovvio, ma purtroppo non lo è. Occorre, quindi, che alle affermazioni di principio seguano adeguati propositi di fatto, sempre ricordando che la famiglia è la base della società e continua ad essere la struttura più adeguata per assicurare alle persone il bene integrale necessario per il loro sviluppo permanente». «La nuova unione sacramentale, che segue alla dichiarazione di nullità, sarà di certo fonte di pace per il coniuge che l’ha domandata», sottolinea il Papa. Tuttavia, domanda, «come spiegare ai figli che, ad esempio, la loro mamma, abbandonata dal loro padre e spesso non intenzionata a stabilire un altro vincolo matrimoniale, riceve con loro l’Eucaristia domenicale, mentre il padre, convivente o in attesa della dichiarazione di nullità del matrimonio, non può partecipare alla mensa eucaristica?». Papa Bergoglio richiama su questo punto il doppio Sinodo sulla Famiglia (2014-15) e l’esortazione apostolica Amoris laetitia, quale «utile strumento pastorale» in cui «vengono date chiare indicazioni affinché nessuno, soprattutto i piccoli e i sofferenti, sia lasciato solo o trattato come mezzo di ricatto tra i genitori divisi». Proprio per approfondire le prassi pastorali introdotte dall’esortazione, Francesco ha indetto l’Anno della Famiglia Amoris laetitia, a partire dal prossimo 19 marzo. Nel suo discorso il Papa si rivolge poi ai giudici: «Nelle vostre sentenze - raccomanda - non mancate di testimoniare questa ansia apostolica della Chiesa, considerando che il bene integrale delle persone richiede di non restare inerti davanti agli effetti disastrosi che una decisione sulla nullità matrimoniale può comportare». Al Tribunale Apostolico, come anche agli altri Tribunali della Chiesa, «viene chiesto che siano rese più accessibili e agili, possibilmente del tutto gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità». «Voi - prosegue - che avete un ministero ecclesiale in un settore tanto vitale qual è l’attività giudiziaria, siete chiamati ad aprirvi agli orizzonti di questa pastorale difficile, ma non impossibile, che riguarda la preoccupazione per i figli, quali vittime innocenti di tante situazioni di rottura, divorzio o di nuove unioni civili». L’invito del Papa ai giudici è quindi a non stancarsi di «riservare ogni attenzione e cura alla famiglia e al matrimonio cristiano»: «I giudici devono pregare tanto», dice a braccio, perché così, «prima di ogni decisione da prendere sulla verità del matrimonio», non dimentichino «il bene dei figli, la loro pace o, al contrario, la perdita della gioia davanti alla separazione». Un appello va, infine, ad ogni vescovo – «padre, pastore e giudice nella propria Chiesa» – a  «proseguire con tenacia e portare a compimento un necessario cammino ecclesiologico e pastorale, volto a non lasciare al solo intervento delle autorità civili i fedeli sofferenti per giudizi non accettati e subiti». Anche i collaboratori del vescovo, in particolare il vicario giudiziale, come pure gli operatori della pastorale familiare e soprattutto i parroci, devono sforzarsi ad «esercitare quella diaconia di tutela, cura e accompagnamento del coniuge abbandonato ed eventualmente dei figli, che subiscono le decisioni, seppur giuste e legittime, di nullità matrimoniale».

·        Le Suore.

Massimiliano Castellani per “Avvenire” il 15 dicembre 2021. Sister Act, in versione italica, adesso danza su un campo di calcio. «Non fate le zitellone!», è stato il messaggio affettuoso, rivolto con il sorriso, da papa Francesco l'ottobre scorso alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Il Santo Padre ha chiesto espressamente alle amate sorelle, e alle suore di ogni congregazione, di aprirsi al mondo, di non comportarsi mai da "bigottone". Messaggio pienamente ricevuto dalla Sister Football Team, la prima Nazionale al mondo composta interamente da suore e religiose. Un'idea illuminante, balenata nei mesi bui della pandemia alla fervida mente di Moreno Buccianti, ex calciatore e già fondatore, nel 2005, della Seleçao dei sacerdoti. «Un'esperienza davvero fatta sul campo quella con la Nazionale sacerdoti, con 500 partite di beneficenza e progetti solidali anche internazionali, come quello unico e irripetibile per i bambini di Betlemme: la prima amichevole di una selezione cristiana contro la nazionale palestinese di calcio». Era l'anno di grazia 2010, lo stesso in cui Buccianti su un campo di Ostia incontrò per la prima volta suor Daniela Cancilia: «Mi aveva impressionato per la sua facilità di palleggio, una calciatrice nata». Ora, i tre mesi di scouting per creare la nuova Nazionale italiana suore portano la firma proprio di suor Daniela e suor Ornella Maggioni che confessa: «Ho subito sposato il progetto di Moreno, anche perché è un'opportunità unica per creare dei momenti di incontro tra suore e religiose sparse in tutta Italia». Il ct Buccianti, che è anche il patron e responsabile della comunicazione della Sister Footbal Team, incassa la fiducia e racconta gli inizi di questa nuova avventura, sulle vie, anzi i campi, altrettanto infiniti ed universali del pallone. «Il nostro debutto è stato a giugno. Ad accoglierci a Roma, alla So.Spe c'era suor Paola D'Auria, tifosissima della Lazio, che ha tenuto a battesimo la Nazionale suore ospitando le mie convocate nella foresteria della casa famiglia. E la prima amichevole l'abbiamo disputata contro una formazione di madri, vittime di violenza, ospiti della So.Spe». Con le maglie della la S.S Lazio messe a disposizione dal club del presidente Claudio Lotito («grande tifoso della prima ora della Sister Team e che attraverso la preziosa mediazione all'interno del suo club della dott.ssa Annamaria Nastri ha concesso l'affiliazione della nostra Nazionale ») sono scese in campo: suor Daniela Cancilla (Gubbio), suor Annika Fabbian ( Vicenza), suor Marta Ronzani (Roma), suor Francesca Avanzo e suor Gilberta Ugeito (San Giovanni Valdarno), suor Silvia Carboni (Cagliari), suor Marianna Segneri (Roma), suor Celeste Berardi (Roma) suor Regina Muscat (Roma), suor Livia Angelilli (Roma) e le due romene, suor Emilia Jitaru e suor Corneli Magbici (Roma). E le convocate al secondo raduno sono aumentate numericamente, per partecipare, lo scorso 25 novembre al quadrangolare "Un pallone, un sorriso", organizzato in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Al PalaDesio le Sisters in quell'occasione si sono confrontate in partite di calcio a 5 contro una formazione di artisti della tv, una selezione femminile del Vaticano e la squadra delle "Farfalle", le ragazze della Nazionale della ginnastica ritmica allenate dal ct Emanuela Maccarani, per un derby tutto in famiglia, è la moglie di mister Buccianti. «Il torneo l'ha vinto la squadra del Vaticano che ha alle spalle l'esperienza e anche delle qualità tecniche al momento superiori alle nostre sorelle », spiega il ct della Nazionale suore che ad oggi può contare su 18 sorelle d'Italia. Ma ci sono alcune che stanno facendo "pressing" per ottenere il benestare dalle rispettive madri superiori e rispondere alle imminenti convocazioni. Non vede l'ora che arrivi la prossima «chiamata calcistica», la "veterana", classe 1974, della Sister Team, suor Silvia Carboni. È l'unica tra le sue consorelle a non svolgere l'attività di insegnante, ma quella sociale in una casa famiglia dei somaschi di Cagliari. «Sono nata ad Assemini, prima che lì sorgesse il centro sportivo del Cagliari, squadra di cui sono tifosissima, così come sono molto amica della famiglia del presidente Giulini - dice suor Silvia -. Il calcio è sempre stata la mia passione, non assecondata in famiglia: i miei preferivano che facessi tennis, ma poi al villaggio turistico di nascosto giocavo tutta l'estate a pallone con i maschietti, e crescendo ho organizzato il primo torneo universitario di calcio a 11 con il Cus Cagliari». Suor Silvia, la "regista" della Nazionale delle suore non ha mai smesso di giocare e soprattutto di far giocare a calcio: «Il pallone è da sempre presente nella mia casa famiglia e proprio oggi porterò 40 seminaristi della Sardegna a disputare un torneo nel carcere minorile di Cagliari, dove da tempo abbiamo sperimentato il grande potere di inclusione che il calcio ha con i giovani detenuti». Suor Annika Fabbian, la vicentina punta di diamante della Nazionale, che vanta trascorsi di tutto rispetto nel calcio a 5, è entusiasta: il suo sogno di ragazzina continua grazie a questa Nazionale in cui «fin dal primo incontro è come se ci conoscessimo da sempre. E questo è lo spirito di una "Chiesa Madre", in cui, sulla linea di papa Francesco, non esistono diffidenze tra le diverse congregazioni da cui proveniamo, ma solo una gran voglia di condividere e nel nostro caso di fare spogliatoio ». Una squadra amata sui social dai tifosi della Sister Team che la sostengono e chiedono l'amicizia alle sorelle d'Italia del pallone. «La speranza è che diventiamo sempre di più - dice suor Silvia - . La novizia, suor Francesca Avanzo, detta "Cica", è la dimostrazione di madri superiori illuminate che hanno compreso che noi come gli apostoli non lasciamo il nostro lavoro per seguire Gesù, ma semplicemente continuiamo a farlo in un'altra maniera. Essere suore, e anche calciatrici in maglietta e calzoncini, vuol dire non rinnegare noi stesse: dietro l'abito si rimane sempre donne con le proprie passioni e la nostra consacrazione non viene mai meno se usiamo il calcio come strumento per aprire un dialogo con il mondo e abbattere quei muri pregiudiziali che spesso lo limitano». E anche questa "tattica", è in perfetta sintonia con lo spirito calciofilo di papa Francesco che a Buccianti di recente ha inviato una lettera in cui esprimeva tutto il suo favore per l'attività solidale svolta con la Seleçao dei sacerdoti. «Quel messaggio del Papa lo considero il passaporto per continuare, anche con la Nazionale italiana suore, a portare il nostro sostegno, morale ed economico dove serve», sottolinea il ct che nel 2018 in piazza San Pietro era riuscito ad organizzare il primo e unico campionato europeo per nazionali di sacerdoti. «Sulla scia di quella rassegna scrissi al Presidente del Pontificio consiglio della cultura e dello sport, il cardinale Gianfranco Ravasi, per proporgli l'idea di un mondiale interreligioso e so che la cosa gli piacque, ma poi non riuscimmo a realizzarlo». Ora, dopo aver ricevuto dal prof. Franco Ascani la "Ghirlanda d'Honneur" per «le attività solidali svolte attraverso il calcio », con tanto di encomio del presidente del Coni Giovanni Malagò e del n.1 della Federcalcio Gabriele Gravina, Buccianti ci riprova: «Sogno un Mondiale in Vaticano per sole nazionali di suore». L'anno che verrà potrebbe essere quello giusto per coronare anche questo sogno. Intanto il prossimo raduno della Nazionale dovrebbe tenersi tra Roma, alla So.Spe di suor Paola, e Genova, con l'appoggio di don Roberto Fischer, ex dj, direttore diocesano e presidente della web radio "Fra' Le Note". «Don Roberto - conclude il ct Buccianti - è un sacerdote che conosce bene i protagonisti del grande calcio e potrebbe darci una mano a far crescere la nostra Nazionale suore». Sister act continua, sempre su un campo di pallone

Leonardo Di Paco per "la Stampa" il 21 dicembre 2021. «Ho parlato poco fa con il vicario della diocesi, non è d'accordo. Vi seguirò da lontano, buon tutto». Non importa se il fine è nobile, il calcio non è roba per religiose. Suor Lidia, consacrata diocesana che opera in una casa di accoglienza nelle campagne cuneesi, lo ha scoperto sulla propria pelle. E ieri ha dovuto rinunciare alla chiamata di mister Moreno Buccianti, l'allenatore della nazionale italiana suore, e mettere la parola "fine" a un sogno inseguito a lungo. Per lei non ci sarà nessun debutto: le «Sisters» che dovranno fare a meno del suo talento. Le ragioni del passo indietro di suor Lidia dalla neonata nazionale delle suore (il primo raduno risale alla scorsa estate) portano dritti alla diocesi di Mondovì, i cui vertici si sono a mettersi di traverso venuti a sapere della convocazione della sorella. «Suor Lidia aveva saputo della nazionale delle Sisters e si era fatta avanti chiedendo di avvicinarsi alla nostra realtà affiliata alla Lazio», racconta Buccianti, ex calciatore e già fondatore, nel 2005, della nazionale di calcio dei sacerdoti. «Abbiamo parlato al telefono in diverse occasioni, eravamo d'accordo di vederci di persona al prossimo evento che stiamo organizzando in Toscana. La realtà delle Sisters è in crescita, siamo sempre alla ricerca di nuove sorelle per allargare il gruppo». Così la giovane religiosa era stata inserita nel gruppo Whatsapp della nazionale dove aveva già iniziato a prendere confidenza con le sue nuove compagne. «La vedevo carica, motivata. Poi però ci ha fatto sapere che non se ne farà più niente, che dovrà seguirci da lontano». Le ragioni dello stop vanno chieste a don Flavio Begliatti, 61 anni, dal 2018 vicario generale della diocesi di Mondovì, una delle più estese del Piemonte con quasi 200 parrocchie. Interpellato, prima minimizza: «Non mi sembra niente di strano, esistono anche tanti preti appassionati di calcio o che, addirittura, giocano». Se però si parla di suore che vogliono indossare scarpette e parastinchi l'atteggiamento cambia: «Non è nostra intenzione proseguire su quella linea, non vogliamo che ci siano delle religiose che fanno parte di quella squadra. Certo non sono decisioni che possono essere prese così». Buccianti, che nel 2018 riuscì a organizzare il primo e unico campionato europeo per nazionali di sacerdoti in piazza San Pietro, non si scompone: «Ovviamente mi dispiace quando accadono certe cose, anche perché questa esperienza con le Sisters è meravigliosa». Dovendosi rapportare con il mondo religioso «non è facile far quadrare tutto, a volte ci sono delle dinamiche complicate da gestire». Ma l'obiettivo di tutte le suore che fanno parte della squadra è semplice. «Utilizzare il calcio per avvicinare i ragazzi allo sport, rilanciare la vita parrocchiale, e trasmettere dei messaggi positivi». Quanto a suor Lidia - incassato lo stop dei vertici della diocesi - ha abbandonato il suo sogno dedicandosi anima e corpo - come fa da anni - alla comunità, in cui opera, per donne vittime della tratta. E a chi le chiedeva dello stop si è limitata a dire di avere grande stima per don Begliatti e di aver accettato la decisione della diocesi senza protestare.

Stefania Falasca per “Avvenire” il 24 dicembre 2021. L'ultima si chiama Magdalene. Le viene negato di studiare e preteso un atteggiamento servile. Magdalene è un nome fittizio, come quello delle altre, delle dieci altre che hanno voluto rimanere anonime. Ma che hanno coraggiosamente accettato di parlare strappando via quel velo di silenzio che per anni ha coperto le violenze subite. Abusi in gran parte di potere, di coscienza, di autorità, abusi spirituali che lasciano aperte ferite dilanianti e lividi inguaribili quanto le violenze sessuali. Abusi consumati dentro le mura dei chiostri, all'interno degli istituti delle congregazioni femminili. Di questi conventi paralizzati da comportamenti che lo psichiatra Tonino Cantelmi definisce «predatori», legati alla «gestione del potere», che sconfinano spesso in «autoritarismi compulsivi», offre uno spaccato il libro Il velo del silenzio del giornalista di "Vatican news" Salvatore Cernuzio appena uscito per le edizioni San Paolo (208 pagine, euro 20) con l'introduzione di padre Giovanni Cucci e la prefazione a firma di Nathalie Becquart, sottosegretario della Segreteria generale del Sinodo.

«Questo libro di testimonianze ci fa sentire le grida e le sofferenze, troppo spesso taciute, di donne consacrate - afferma suor Becquart - che sono entrate in comunità religiose per seguire Cristo e si sono trovate in preda a situazioni dolorose che, per la maggior parte di loro, le hanno portate a lasciare la vita consacrata». 

Casi isolati? Sono tanti, troppi, i comuni denominatori nelle storie di queste religiose ed ex religiose che provengono da latitudini e background completamente differenti - mette in evidenza il gesuita Cucci - e che fanno pensare che non si tratti di singoli casi, in cui a rimetterci sarebbero donne particolarmente fragili, tendenti alla depressione o troppo deboli e "pazze" per reagire, ma che evidentemente sia presente un sistema malsano, basato su strutture di potere e su quel clericalismo che papa Francesco in diverse occasioni ha stigmatizzato come un cancro per la Chiesa.

Testimonianze autentiche, dunque, dove si descrive la frustrazione di fronte al tentativo di infrangere il muro di omertà e pressioni nella comunità ecclesiale che le hanno impedito di far luce sull'abuso subito (giustificato anche con motivazioni "teologiche" dal proprio confessore) e soprattutto di mettere il predatore nella condizione di non nuocere.

Racconti in carne e ossa che gettano luce su una grave problematica interna a un sistema di vita consacrata femminile fatta di paura, mobbing, ricatti, manipolazioni discriminazioni razziali, violazione della dignità fino all'umiliazione, violazione della coscienza, emarginazione, e della quale non solo gli istituti di vita religiosa ma tutta la comunità ecclesiale fatica a guardare e a prendere coscienza.

Limitarsi a rilevare numeri e statistiche precise o a identificare le Congregazioni in oggetto per sostenere che il problema non ci riguarda è un modo di evitare il confronto - fa osservare padre Cucci - e finisce per riproporre la medesima dinamica mostrata dagli abusi sessuali compiuti dai presbiteri: tutelare il buon nome dell'istituzione sacrificando la vittima.

Queste donne hanno compiuto scelte coraggiose, non sono venute a patti con la propria coscienza, eppure pagano tutto ciò a caro prezzo: sono abbandonate a loro stesse. Chi ha abusato è invece rimasto al proprio posto, godendo dei privilegi di sempre. L'intento del libro è perciò quello di aprire gli occhi e far comprendere i meccanismi e le cause che determinano tali abusi. Entrare nel merito delle varie forme di abuso significa prima di tutto stigmatizzare una mentalità, il clericalismo, come sua possibile radice.

La modalità del clericalismo nelle comunità femminili sembra essere la tendenza a rimanere per più tempo possibile al vertice imponendo una mentalità unica e uniformante all'interno dell'istituto secondo il proprio criterio, facendolo passare come volontà di Dio, marginalizzando, colpevolizzando e punendo chi pensa diversamente. Gli abusi di coscienza sono in gran parte conseguenza dell'abuso del nome di Dio, strumentalizzato per gratificare il proprio operato.

Come prevenire queste situazioni e quali sono le vie per una guarigione? Per padre Cucci è indispensabile attuare un cambio di mentalità e introdurre nel percorso formativo il tema della prevenzione degli abusi nelle sue varie forme e l'accompagnamento delle vittime. La nuova Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis prevede la trattazione esplicita di queste tematiche per coloro che si preparano al sacerdozio.

Non c'è motivo - fa osservare il gesuita - per cui questo non possa essere fatto anche all'interno delle comunità religiose femminili. In un certo senso, attraverso il libro, Salvatore Cernuzio dà una percezione molto concreta di ciò che la Congregazione per la vita consacrata ha chiaramente evidenziato nel suo importante documento di orientamento Per vino nuovo otri nuovi (2017): la sfida di un necessario rinnovamento e di una giusta formazione nell'esercizio dell'obbedienza e dell'autorità.

Siamo tutti chiamati - riprende Nathalie Becquart - a prendere coscienza di queste pratiche erronee di obbedienza e di esercizio dell'autorità nella Chiesa, intesa come potere e dominio, che purtroppo non riguardano solo le comunità di vita consacrata: ciò che funzionava in un contesto relazionale piramidale e autoritario non è più desiderabile né vivibile nella sensibilità di comunione del nostro modo di intendere e volersi Chiesa. 

Per suor Becquart, è quindi impensabile una conversione dell'agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del popolo di Dio: «Insieme chiediamo al Signore la grazia della conversione e l'unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio. E di ascoltare la chiamata che ci richiede di abbandonare il modello clericale della Chiesa e di entrare in una visione di Chiesa sinodale, che implica l'ascolto e la partecipazione di tutti e l'assunzione di responsabilità congiunte».

(ANSA il 4 novembre 2021) - Un'altra donna sale a un incarico di vertice nell'organigramma vaticano. Una suora ricoprirà infatti la carica di segretario generale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Per tale incarico, papa Francesco ha nominato oggi suor Raffaella Petrini, F.S.E., finora Officiale della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli. Il Papa ha anche nominato un laico vice-segretario generale del Governatorato, nella persona dell'avvocato Giuseppe Puglisi-Alibrandi, capo ufficio dell'Ufficio Giuridico del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Suor Raffaella Petrini è la prima donna a ricoprire la carica di segretario generale del Governatorato vaticano, l'organismo che esercita il potere esecutivo, in vece del Papa, nello Stato della Città del Vaticano, e che dal punto di vista del diritto internazionale è un'entità distinta dalla Santa Sede. Fu istituito il 20 marzo 1939. Trova sede nello storico Palazzo del Governatorato in Vaticano. Suor Petrini è nata a Roma il 15 gennaio 1969. Ha conseguito la Laurea in Scienze Politiche presso la Libera Università Internazionale degli Studi Guido Carli e il Dottorato presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino, dove è attualmente Docente. Dal 2005 finora è stata Officiale della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli. Il nuovo vice-segretario generale, l'avvocato Giuseppe Puglisi-Alibrandi, è invece nato a Roma il 23 ottobre 1966. Ha conseguito la Laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Dal 2014 è Officiale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano ove, dal 2017, è Capo Ufficio dell'Ufficio Giuridico, Stato Civile, Anagrafe e Notariato. Il Papa ha oggi anche nominato membro della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano il cardinale Mauro Gambetti, O.F.M. Conv., che è arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano, presidente della Fabbrica di San Pietro e vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano.

Il Papa alle suore: "Non vivete come zitellone". Nell'incontro con le Figlie di Maria Ausiliatrice, Bergoglio ammonisce: "Fuggite dalla mondanità spirituale". La Repubblica il 22 ottobre 2021. Il Papa mette in guardia dalla "mondanità spirituale" e avverte che ci sono diavoli "educati" che entrano nelle vite in maniera subdola. "Non dimenticatevi che il peggiore male che può accadere nella Chiesa - ha detto Papa Francesco nell'incontro con le Figlie di Maria Ausiliatrice - è la mondanità spirituale. Posso dire quasi che sembra peggio di un peccato, perché la mondanità spirituale è quello spirito così sottile che occupa il posto dell'annuncio, che occupa il posto della fede, che occupa il posto dello Spirito Santo". Il diavolo "non entra forzando, no,  - spiega il Papa - entra educatamente: suona il campanello, dice buongiorno. Sono diavoli educati. Noi non ci accorgiamo che stanno entrando". "Così succede con la mondanità spirituale. Persone che hanno lasciato tutto, hanno rinunciato al matrimonio, hanno rinunciato ai figli, alla famiglia... e finiscono, scusate la parola, 'zitellone', cioè mondane, preoccupate per quelle cose". "Per favore - ha ribadito Papa Francesco parlando alle Salesiane -, fuggite dalla mondanità spirituale. E anche dallo status: 'Io sono religioso, io sono religiosa...'". Evitare, è l'appello del Pontefice, che "invece di essere donne consacrate a Dio, diventano così 'signorine educate'".

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 24 ottobre 2021. Zitelle e zitellone. Ancora una volta davanti alle suore il Papa si è lasciato andare e, andando a ruota libera, le ha di nuovo prese in giro mettendo in evidenza il rischio di diventare acide o bisbetiche, utilizzando per descriverle quello stereotipo sessista da tempo messo al bando. Un cliché che il Papa rispolvera spesso se si trova davanti al mondo religioso femminile.

Papa Francesco e le suore

Incontrando le suore della Curia Generalizia delle Figlie di Maria Ausiliatrice il Papa ha voluto metterle in guardia dalla «mondanità spirituale»: «Persone che hanno lasciato tutto, hanno rinunciato al matrimonio, hanno rinunciato ai figli, alla famiglia... e finiscono – scusate la parola – 'zitellone', cioè mondane, preoccupate per quelle cose... E l’orizzonte si chiude, perché dicono: 'Questa neanche mi ha guardato, quella mi ha insultato, quella...'. I conflitti interni che chiudono. Per favore, fuggite dalla mondanità spirituale. E anche dallo status: 'Io sono religioso, io sono religiosa...'. Esaminare questo. È il peggio che può accadere».

Cosa ha detto

Insomma una lavata di testa in piena regola. Una cosa analoga era accaduta diversi anni fa durante l'udienza a 800 suore venute da tutto il mondo in rappresentanza di 1900 ordini religiosi. Si trattava dell'assemblea dell'Uisg, l'organismo di rappresentanza. Anche in quella circostanza si era lamentato delle suore che con il loro comportamento arcigno fanno danno alla Chiesa. 

«Non siete zitelle»

«Siate madri, non zitelle: la castità deve essere feconda». Il Papa aveva ricordato alle suore che la castità deve essere «una castità feconda che genera figli spirituali. La consacrata è madre. Siate madri come figure della chiesa madre, non si può capire Maria e la Chiesa senza la maternità, e voi siete icona di Maria e della Chiesa».

Il messaggio

Al termine dell'incontro odierno Papa Francesco ha chiesto a tutte di pregare per lui perchè, ha detto, «non è facile fare il Papa». Ha anche aggiunto che  un dovere dei giovani è' «custodire gli anziani, imparare da loro, dialogare con i vecchi" anche se “i vecchi a volte diventano un po' capricciosi - siamo così' - e i difetti nella vecchiaia si vedono meglio; ma è' anche vero che i vecchi hanno quella saggezza, quella grande saggezza della vita: la saggezza della fedeltà di diventare vecchi nella vocazione».

Il lavoro "nero" delle suore, senza orari né contratti. (ANSA il 2 ottobre 2021) Segretarie, infermiere, insegnanti ma anche badanti e colf: le religiose sono spesso al servizio di cardinali, diocesi, parroci, scuole e cliniche cattoliche. Ma il loro lavoro in molti casi non è considerato tale. Non ci sono orari, contratti, diritti. La denuncia di una situazione abbastanza diffusa ma tenuta normalmente sotto tono arriva dal mensile dell'Osservatore Romano “Donne Chiesa Mondo”. Il numero di ottobre è dedicato alla vita delle suore e il giornale del Papa ha scelto di puntare i fari su questa realtà, dopo aver denunciato in passato anche il fenomeno degli abusi, di autorità e sessuali, che si consumano nei conventi. "Nei rapporti delle suore con i loro datori di lavoro c'è stato un offuscamento di quelli che io chiamo i confini. E' una questione che dobbiamo affrontare". A parlare così, nell'intervista al mensile femminile del giornale vaticano, è Maryanne Loughry, suora della Misericordia, docente al Boston College e consulente del Centro dei Gesuiti per i Rifugiati. Per la religiosa serve "la trasparenza e la conoscenza dei propri diritti basata dove possibile su accordi scritti". (ANSA).

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 2 ottobre 2021. «Nei rapporti delle suore con i loro datori di lavoro c'è stato un offuscamento di quelli che io chiamo i confini. È una questione che dobbiamo affrontare». Maryanne Loughry, suora della Misericordia, docente al Boston College e consulente del Jesuit Refugee Service, non la manda a dire. Suore che lavorano per preti, vescovi, cardinali, diocesi, scuole e cliniche cattoliche, e lo fanno senza orari né diritti né contratti. Il mensile «donne chiesa mondo» dell’Osservatore romano, coordinato da Rita Pinci, torna ad affrontare il problema delle religiose e della disparità, dopo aver denunciato più volte abusi d’autorità e sessuali, nella Chiesa comandata dagli uomini. «Vi raccontiamo come vivono le suore e le monache. O meglio di che vivono, come provvedono alle necessità della vita quotidiana, in che modo si organizzano. Questioni che sembrano lontane dal sacro: soldi, salari, lavoro, consumo. Le religiose, questa è la cosa da chiarire, contrariamente al clero — preti, parroci, vescovi, cardinali — non ricevono uno stipendio. Ogni convento e ogni congregazione trova i suoi mezzi di sussistenza e di guadagno, ogni suora e ogni monaca regola la sua vita e il suo lavoro, si collega, in modo diverso, con il mondo della produzione e del consumo», considera Ritanna Armeni nell’articolo introduttivo. Certo, la situazione è complessa, scrive Lucia Capuzzi: «Le statistiche dicono di circa 650mila donne sparse nei cinque continenti e la situazione è diversificata, cambia per Paese, congregazioni, famiglie religiose, istituto; dipende anche dal singolo carisma. Dipende se sono attive o contemplative. Suore o monache. Ma, vale per tutte, le religiose non hanno forme di finanziamento esterno e devono mantenersi con le proprie — oggi poche — forze (mentre, ad esempio, in Italia c’è l’Istituto per il sostentamento per il Clero che paga lo stipendio ai sacerdoti, base circa 1000 euro al mese). Quelle che possono lavorano: insegnanti, educatrici, infermiere, oste- triche, e ci sono medici, badanti, operaie, cameriere, domestiche, ingegnere, architette. Altre sono impegnate nelle pastorali delle diocesi o al servizio della Santa Sede e da questa vengono pagate». Del resto, l’emergenza sanitaria ha complicato le cose: «La pandemia ha aggravato la crisi già in corso interrompendo le attività tradizionali di monasteri, abbazie e conventi che storicamente, oltre che luogo di preghiera e aiuto per il prossimo, sono stati centri culturali, sociali ed economici. Il monastero è stato per secoli una piccola città, generalmente autosufficiente, aiutato dal fatto che le suore spesso erano di origine gentilizia e portavano in dote terre e beni. Hanno resistito così fino a tutto l’Ottocento. Poi l’impoverimento economico è stato progressivo. Da ultimo, lockdown e restrizioni alla mobilità – primo fra tutti l’azzeramento del turismo religioso – li hanno mandati in crisi, esattamente come le altre imprese “secolari”». Ma esistono tante, troppe situazioni opache, quelle di cui parla suor Maryanne Loughry, intervistata da Federica Re David: «Succede che cambino le mansioni, che la sorella si trovi a dover lavorare fino a tardi la sera, o nel weekend, senza tempo per se stessa e la sua Congregazione. E che né lei né la superiora abbiano un testo scritto di cui valersi. Sarebbero d’aiuto accordi con i diversi ministeri partner su stipendi, orari, mansioni e referenti». Ma non è facile: «Può esserlo nei Paesi europei e occidentali, dove abbiamo dimestichezza con questi accordi e contratti. Ma ci sono persone o congregazioni di cui ancora ci si approfitta quando non ci sono tali accordi scritti. Questo può portare a situazioni in cui una o più sorelle non lavorano più per la diocesi o per il parroco e di conseguenza perdono l’alloggio, diventano quasi homeless senza preavviso». Grazia Villa, avvocata per i diritti della persona, si domanda in un altro articolo: «Quanto e quando l’esercizio dell’autorità superiore, connessa anche al voto di obbedienza, si trasforma in abuso di potere, anche “finanziario”, quindi in una forma di violenza economica? E quanto e come la dipendenza economica diventa un fattore di mancata denuncia degli abusi sessuali, subiti da donne consacrate da parte di religiosi? Quanto incide la sottomissione economica della vittima, soprattutto nei luoghi di maggiore povertà economica di provenienza, non solo per l’omessa denuncia, ma anche come elemento di ricatto e coercizione da parte dell’abusante?».

Il Metoo delle suore: "Diritti anche a noi". Fabio Marchese Ragona il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le religiose rivendicano indipendenza e denunciano abusi e disparità. Chiedono regole e contratti, anche se si tratta di lavori svolti per la Chiesa. Lodano i movimenti come Me Too e Black Lives Matter perché «hanno portato un grande segno di uguaglianza nel mondo» e sognano che anche nella Chiesa, definita «molto gerarchica», possano esser riconosciute o ascoltate. Si potrebbe forse parlare di «rivoluzione rosa», con le suore in prima linea a rivendicare rispetto e diritti dopo una vita al servizio degli ecclesiastici, spesso «predatori», autori di abusi e violenze nei loro confronti, così come denunciato pubblicamente anche da Papa Francesco. L'ultimo numero di Donne chiesa mondo, il mensile femminile dell'Osservatore Romano, è interamente dedicato alle consacrate che, a distanza di anni dalle prime coraggiose denunce, tornano a fare il punto dopo che il vaso di Pandora è stato scoperchiato, «anche se la strada è ancora lunga». A parlare è Maryanne Loughry, suora della Misericordia, docente al Boston College e consulente del Jesuit Refugeee Service. La consorella invoca trasparenza nei rapporti di lavoro, chiede che ci sia conoscenza dei diritti di tutte le suore e che tutto sia basato su accordi scritti, non più verbali e basati sull'obbedienza: «Succede - racconta la suora portando un esempio - che cambiano le mansioni, che la sorella si trovi a dover lavorare fino a tardi la sera, o nel week end, senza tempo per se stessa e la sua Congregazione. E che né lei né la superiora abbiano un testo scritto di cui valersi. Sarebbero d'aiuto accordi con i diversi ministeri partner su stipendi, orari, mansioni e referenti». E poi c'è la questione degli abusi sessuali, finanziari e fisici compiuti sulle consacrate spesso anche dai preti: nel 2019 Papa Francesco ne aveva parlato di ritorno dal viaggio ad Abu Dhabi ammettendo che «il problema esiste nella Chiesa, io credo che si faccia ancora, ma ci stiamo lavorando. Questo succede anche perché la donna è considerata di seconda classe». A tal proposito, sul mensile rosa della Santa Sede, si sottolinea quanto la mancanza di indipendenza finanziaria delle suore (o delle donne in generale) impedisca loro di sottrarsi alle violenze. E ci si domanda «Quanto incide la sottomissione economica della vittima, soprattutto nei luoghi di maggior povertà, non solo per l'omessa denuncia ma anche come elemento di ricatto?». Fabio Marchese Ragona

Mariangela Garofano per "ilgiornale.it" il 3 febbraio 2021. Orrore a Speyer, Germania, dove sono venuti alla luce gravissimi episodi di pedofilia legati alla Chiesa. I fatti risalgono agli anni 60/70, quando un gruppo di suore forniva bambini con dei problemi a politici e prelati. Come scrive il Messaggero, le violenze sono state rivelate in tribunale da uno dei ragazzi abusati, che ha raccontato di come una quarantina di "religiose" di un convento a Spyra, obbligava i poveri bambini affidati alle loro cure, a rapporti con pedofili in cambio di soldi. Il testimone ha raccontato agli inquirenti di aver subìto più di 1000 violenze nel periodo in cui risiedeva nel collegio, un numero spaventoso, che da l’idea della portata della vicenda. Il ragazzino veniva trascinato nella casa di un prete una o due volte al mese dalle suore aguzzine, ma gli orrori non sono finiti. Dalle testimonianze emergono anche descrizioni dettagliate di orge con politici locali e prelati. Uno di questi era il vicario generale della diocesi dell'epoca, ora morto senza aver pagato per le atrocità commesse. Il vescovo attuale, monsignor Wiesemann, ha duramente condannato gli episodi e ha deciso di prendersi un anno sabbatico dopo lo choc subìto. “Anche io ho energie limitate per i pesi che devo portare”, ha affermato il monsignore. Le suore non solo "fornivano" i bambini ma avrebbero anche servito bevande a coloro che prendevano parte alle violenze. Intanto una delle vittime, K. Haucke, che oggi ha 63 anni, ha chiesto un maxi risarcimento alla Chiesa e all'Ordine delle Suore del Divino Redentore per le violenze sofferte. Fino ad oggi si sono fatte avanti 15 vittime che hanno testimoniato e raccontato le terribili violenze a cui venivano sottoposti da bambini. Ma la Chiesa Cattolica tedesca, che vede un aumento dei casi di pedofilia nel clero dal 1946 ad oggi, ha rifiutato indennizzi a sei cifre alle vittime. I vescovi avrebbero proposto una somma di 50.000 euro per ciascuna vittima, cifra considerata troppo bassa dagli attivisti. Intanto il presidente della Conferenza episcopale tedesca, Georg Baetzing, ha annunciato che sarà istituito un comitato indipendente per esaminare i reclami e disporre i pagamenti. Alcune delle vittime si sono però opposte alla decisione della Chiesa, chiedendo fino a 400.000 euro per “la copertura sistematica e decennale dei crimini contro i bambini e gli adolescenti da parte della Chiesa".

Alberto Luppichini per "Libero quotidiano" il 19 gennaio 2021. È fitto il mistero delle suore di clausura, creature così devote al Signore lassù da scegliere una vita da recluse, lontano da tutti e distanti dalle miserie di questa esistenza. Stupefacente. Esse hanno deciso di affrontare le tribolazioni quotidiane senza conforti terreni, consacrandosi in tutto e per tutto a un Dio che non si vede e non si tocca, non si può abbracciare né chiamare in soccorso nei momenti più cupi. «Pace e bene!», il congedo utilizzato da molte suorine, esprime tuttavia una invidiabile serenità d' animo e una sorprendente calma serafica, dispensata con inaudita naturalezza. Si tratta di una inclinazione d' animo così estranea a noi povericristi, colti di continuo da schizofrenici mutamenti di umore sulla base degli accadimenti che ci coinvolgono. È proprio l' aspetto psicologico a colpirci, di questa umanità così strana. Viene spontaneo chiedersi come mai, uscite di casa in giovane età, anziché spendere i propri talenti in questo o quel settore, esse abbiano dedicato la vita al Signore, uscendo dalla società e rinchiudendosi nella preghiera e nell' isolamento fisico e spirituale. Libero è riuscito a parlare con le suore di clausura bergamasche, provando a indagare l' insondabile della loro misteriosa psiche. Siamo in via Arena, nel pieno di Città Alta. Qui sorge il monastero delle Benedettine di Santa Grata, con alte mura che sembrano separare la gente della strada, sorda ai richiami dell' eternità, da queste religiose appassionate, convinte che l' isolamento spirituale conduca diretti in Paradiso. Suor Maria Teresa Bergamaschini, madre superiore del monastero, è nata in via Porte Dipinte, proprio nella Città Alta vicino all' antico edificio in cui ha deciso di consacrare la sua vita a Dio.

«IL MONDO È QUI DENTRO». Partiamo proprio dall' alone di mistero che avvolge la scelta di queste religiose. «Mentre fuori si "fa", qui si prega. La peculiarità della clausura è la preghiera fatta sette volte al giorno nella cappella, come recita il Salmo. L' essenza della vita di clausura è la Presenza, è l' Essere. A noi non è chiesto tanto di fare, ma di essere una Presenza. Si dice spesso che noi avremmo lasciato il mondo. Non è vero. Il mondo non si lascia, il mondo si porta all' interno di queste grate. Una ragazza che si consacra alla clausura lo fa proprio perché attratta da questo obiettivo e da questo stile di vita, che permette di dedicarsi alla preghiera ma soprattutto di essere una Presenza per chiunque. Chiunque bussa al monastero trova sempre una sorella disposta ad ascoltare con il cuore e senza giudicare. Nei monasteri ci sono donne laureate in medicina o in matematica, che hanno lasciato carriere anche importanti perché ad un certo punto della vita hanno sentito questa chiamata». La vocazione è l' aspetto forse più misterioso di queste suorine che affrontano le loro tribolazioni terrene nell' intimità del loro rapporto con il Signore lassù. «Per me è stata una tragedia, mai avrei immaginato di entrare in un monastero. Avevo tutti altri programmi per la mia vita: volevo diventare medico, andare in missione, sposarmi, avere figli. Non sono la classica suorina che già da piccolina pensava di mettere il velo. Poi a 27 anni mi è esploso il fuoco dentro, grazie a una frase che mi ha colpito molto: "Servono maestri che diano testimonianza ma anche avvocati che stiano con le braccia aperte come Mosè sul monte". Così ho sentito il desiderio di fare altro. Fino ad allora volevo girare il mondo e parlare di Dio agli uomini. Ad un certo punto ho capito la mia vocazione: stare ferma ai piedi del Tabernacolo e parlare degli uomini a Dio. Così mi sono avvicinata alla clausura».

PRIORITÀ DIVERSE. Annamaria, all' inizio, nutriva verso la clausura i dubbi che attanagliano la maggior parte di tutti noi. Poi tutto cambia, e la vita monastica le appare come l' orizzonte naturale per spendersi in aiuto degli affanni di questa esistenza. «Sono cresciuta vicino al monastero, a Bergamo Alta, ma non ne conoscevo nemmeno l' esistenza. Poi nel 1987 sono stata al cinema a vedere "Thérèse", un film sulla vita di Santa Teresa di Lisieux, religiosa del 1800. Quando sono uscita dal cinema ho guardato la mia amica sconvolta. Non mi piaceva quella vita lì! Così ho avuto la curiosità di toccare con mano se ancora nell' 87 lo stile della vita monastica fosse ancora così noioso come nel film. Abbiamo suonato al monastero di via Arena, ho iniziato a parlare con una monaca, poi con un' altra. Mi hanno intrigato i loro racconti di ciò che accadeva all' interno delle quattro mura. Ad ogni modo, mi sono sentita di entrare solo dopo molti anni, nel 1995». Lo sguardo della religiosa trasmette una calma e una serenità estranee alla gente di strada. Quale può essere la spiegazione? «Abbiamo priorità diverse. Noi non abbiamo un cartellino da timbrare né un lavoro da mantenere per garantire un futuro alla propria famiglia. Allo stesso tempo è pur vero che, nonostante la frenesia della vita quotidiana, le priorità si possono cambiare. Il nostro faro è la ricerca di Dio, lo rispecchiamo tutti i giorni attraverso la preghiera. All' esterno, la corsa al consumismo e la fatica del lavoro rovina tutto, ma può essere gestita meglio ritornando all' essenziale. Questo può avvenire soltanto se gli uomini tornano ad avvicinarsi a Dio. San Paolo dice: qualsiasi cosa voi facciate, fatelo per il Signore. Questo lo può fare chiunque». Persi nelle miserie della nostra insensatezza, abbiamo smarrito la bellezza della semplicità. Solo recuperando l' essenziale torneremo a credere in noi stessi e, forse, in un qualche Signore lassù.

·        Vaticano ed Ecologia.

Un monopattino per ridurre l'inquinamento in regalo all'"ecologista" Papa Francesco. Redazione il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Assosharing dona il veicolo: "L'obiettivo? Aria pulita e qualità della vita". Un monopattino elettrico simbolo dell'amore e il rispetto per l'ambiente urbano e incentivo per una mobilità più pulita e sostenibile. È il dono ricevuto ieri da Papa Francesco in Vaticano da parte di Assosharing, la prima associazione di categoria del comparto sharing mobility in Italia, in prima linea nella sfida per lo sviluppo sostenibile. Il monopattino, rigorosamente bianco, è stato consegnato durante una visita informale da Matteo Tanzilli, presidente dell'associazione. Il quale ha commentato: «L'aria delle nostre città inquinata dai gas di scarico delle automobili richiede una nuova mobilità attenta alla qualità della vita con l'obiettivo di lasciare un pianeta meno inquinato. Ripercorrendo l'insegnamento dell'Enciclica Laudato sii, con cui il Santo Padre ha voluto indicare la via ai fedeli e al mondo intero in materia di sostenibilità e cura dell'ambiente, Assosharing (l'associazione di categoria della mobilità sharing che raccoglie le maggiori aziende del settore) ha voluto recapitare un piccolo omaggio al Papa, contribuendo a ridurre quello che il Santo Padre ha definito il debito ecologico verso i nostri figli». Un chiaro riferimento alla seconda Enciclica di Papa Francesco, «sulla cura della casa comune», pubblicata il 18 giugno 2015, con al centro un concetto molto chiaro: «L'ecologia integrale come nuovo paradigma di giustizia, perché la natura non è una mera cornice della vita umana». Suddivisa in sei capitoli, l'Enciclica raccoglie, in un'ottica di collegialità, diverse riflessioni delle Conferenze episcopali del mondo e si conclude con due preghiere, una interreligiosa ed una cristiana, per la salvaguardia del Creato. Principi che sono stati richiamati anche nel corso dell'incontro formale di ieri durante il quale Tanzilli ha omaggiato il Pontefice del monopattino papale: una specie di equivalente su due ruote elettriche della ben più celebre Papamobile. «La natura sulla terra è un dono meraviglioso del Signore ed è nostro dovere e privilegio custodirlo come nostro bene più prezioso. Questa esigenza è ormai sentita anche dalla comunità internazionale come si evince dalle indicazioni dell'Unione Europea e dagli obiettivi globali dell'Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile delle Nazione Unite», ha sottolineato il presidente di Assosharing. Dopo la laurea in Project Management presso la facoltà di Architettura della Sapienza, Tanzilli ha proseguito gli studi alla Columbia University di New York, conseguendo successivamente il master in cybersicurezza. Di recente è stato selezionato dalla rivista Forbes tra i 10 manager U35 più brillanti nel settore dei rapporti istituzionali. 

Lorenzo Bertocchi per “La Verità” il 19 marzo 2021. Speriamo che alla fine abbia ragione Antonello Venditti, quando canta che «certi amori non finiscono/ fanno dei giri immensi/ e poi ritornano». Perché a leggere la rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, quaderno n° 4098, l'ultimo uscito, si potrebbe anche pensare che l'amore verso Gesù stia facendo davvero dei «giri immensi», cosmici. Il padre Seil Oh, professore di sociologia a Seul, offre un saggio che attira fin dal titolo, «Per una conversione ecologica», perché il povero lettore spera finalmente di chiarirsi le idee su questa particolare «conversione» tanto alla moda nel papato di Francesco. Anche perché il cattolico terra-terra era rimasto a quel «Convertitevi e credete al Vangelo» che risultava direttamente dalla bocca di Gesù. Può darsi che l'una comprenda l'altra, che la conversione ecologica comprenda quella al Vangelo, ma tra le righe del gesuita coreano si fatica un po' a capire dove cominci l'una e dove finisca l'altra. A una prima lettura abbiamo appreso che il professore ha una certezza, che la pandemia sia figlia del «caos ecologico provocato dalla diffusione di virus contagiosi originati da animali selvatici» e siccome «gli esseri umani non cessano di esplorare e di sfruttare terre vergini, come le foreste amazzoniche o l'Antartide, difficilmente ci si potrà sottrarre a simili malattie». Il problema è che secondo La Civiltà Cattolica questo disastro ecologico è figlio, ça va sans dire, «del più dannoso "predatore onnivoro"», cioè l'uomo. Ecco il peccato ecologico di cui dobbiamo pentirci, un peccato da divoratori del Pianeta animati solo dai «miopi obiettivi di interesse nazionale e finalizzati al mercato». Deve essere sfuggito al professore, almeno noi non lo abbiamo colto, che il Creatore ha posto il creato a disposizione dell'uomo affinché lo usi come strumento per crescere e progredire, con armonia ed equilibrio certo, ma non perché uomo e creato siano praticamente posti sullo stesso piano ontologico. Il sapore di queste pagine è in larga parte quello che si assaggia nei testi dell'ecologismo più radicale. Anche l'antropocentrismo è superato, «noi esseri umani», scrive il gesuita, «tendiamo a porci al centro del mondo, tuttavia abbiamo bisogno di qualche antidoto a un antropocentrismo così velenoso e arrogante del Pianeta». La via della salvezza è «la simbiosi», che «ci impone di vivere con tutte le creature del cosmo: le altre creature e gli altri gruppi etnici non sono oggetti da sfruttare a vantaggio delle nostre società benestanti». Dall'antropocentrismo al cosmocentrismo, questo sembra il passaggio, e meno male che dopo qualche riga il professore ci offre una piccola sorsata di acqua scrivendo che di fronte alle polarizzazioni delle «politiche identitarie» (sic) abbiamo «bisogno di Dio come del "Totalmente Altro"». Anche se, aggiunge subito, ne abbiamo bisogno «per aprire lo spazio riflessivo del senso ultimo della vita in simbiosi». È la via della salvezza, non c'è niente da fare. Questa simbiosi passa, par di capire, dal superamento e dall'appiattimento di tutte le differenze, in una logica di «fratellanza globale». Un olismo che va dalla difesa della biodiversità, al cammino comune e indistinto tra le varie culture (anche fossero, che so, tribali o pagane?), passando così a una solidarizzazione dei beni che per l'Occidente «predatore» dovrebbe passare da una decrescita (più o meno) felice. Per fare tutto questo, soprattutto quando usciremo dalla crisi da pandemia, la prospettiva indicata sembra essere quella di un governo globale capace di superare la resistenza delle sovranità politiche e dei poteri economici. Arrivato fin qui, lo ammetto, pensavo di trovare indicato come modello un Che Guevara al grido di el pueblo unido jamas sera vencido, invece, con certa sorpresa, il padre Oh ha uno scatto. «In un mondo chiuso sul quale il Covid-19 ha proiettato fosche nubi», scrive, «il fattore essenziale per l'intera umanità è una conversione ecologica, intesa come conversione personale e collettiva all'amore e alla misericordia del Creatore». Una riverniciatura utile a sacralizzare un po' l'incedere profano in salsa ecologica? Difficile dirlo, alcuni passaggi del saggio, infatti, sono interessanti, laddove si critica una certa finanza, la tecnocrazia prometeica, la condanna del consumismo, ma non si dice a chiare lettere che per stabilire il giusto ordine del creato e sociale è condizione essenziale quella di dare a Dio il posto di Dio. «La pandemia ha fatto sì che il nostro mondo disincantato oggi riveli chiaramente la natura vulnerabile della società globale», scrive Oh. In un certo senso si può concordare, ma se vogliamo salvare il creato dobbiamo prima salvare l'uomo dalle colpe di quell'ecologismo che vogliono la natura autonoma e autosufficiente dal Creatore. Altrimenti, qualcuno potrebbe anche pensare che questi testi siano utili certamente per arrivare a un nuovo paradigma culturale, ma buono soprattutto per colmare il vuoto ideologico a sinistra. Noi comunque, pensando a Gesù e ai gesuiti de La Civiltà Cattolica, speriamo sempre che abbia ragione Venditti: «certi amori non finiscono/ fanno dei giri immensi/ e poi ritornano».

·        Il Concilio tra i cristiani.

La proposta. Unire le Chiese cristiane resta un sogno bello e impossibile. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Un Concilio, finalmente, per tutti i cristiani. Parola di Paolo Ricca, 85 anni, pastore valdese, figura di grande spicco e spessore nel panorama religioso italiano e non solo. Su Jesus, il mensile delle Edizioni San Paolo, in una lunga intervista, avanza una proposta (per la verità sta tutta nel titolo, il testo è più sfumato… e fumoso). Ecco il passaggio centrale: serve una “unità conciliare dell’unica Chiesa cristiana, come nella Chiesa cristiana antica. Il Concilio è stata la prima e fondamentale forma dell’unità cristiana, fin dal cosiddetto Concilio di Gerusalemme, del libro degli Atti, capitolo 15. Le Chiese ortodosse, giustamente, identificano la storia dell’unità cristiana con la storia dei Concili veramente ecumenici, nei quali cioè tutta la Chiesa era rappresentata. Così dovrà essere nel futuro, anche se sono tante le difficoltà per realizzare oggi un Concilio veramente ecumenico. Probabilmente bisognerà partire dalle Chiese locali e da lì, lentamente e pazientemente, costruire o ricostruire una coscienza conciliare della Chiesa andata smarrita nei secoli passati”. E poi una digressione lunga, anche se interessante, tipicamente valdese, sui passi avanti e i passi indietro di papa Francesco, che da un lato dialoga – ad esempio con i luterani – e dall’altro eredita una struttura gerarchica e centralizzata con cui tiene a freno le spinte centrifughe e la complessità del mondo cattolico. Cosa c’è di nuovo? Proprio niente. Se non fosse che l’intervista, pure nella fumosità dei contenuti attorno all’idea di “Concilio”, mette il dito su una piaga reale, aperta, e di cui forse pochi hanno consapevolezza nel mondo cattolico e in quello cristiano. La piaga è la seguente: con il Coronavirus il mondo è cambiato in profondità. Vivere, lavorare, riflettere, non sarà più come prima. L’economia, la politica, le società, la cultura, sono state toccate dalla pandemia e cambiate profondamente. Le disparità emerse alla luce del sole. Il “nazionalismo vaccinale” è la spia di una politica economica, sanitaria, e politicante, che si illude di creare oasi in cui qualcuno si possa salvare a scapito degli altri. Ma non siamo più al tempo del Decamerone, dei muri, delle città che chiudono le porte per difendersi da virus, briganti, pestilenze, guerre. La globalizzazione è un fatto, non si torna indietro. Il mondo è il mondo, non si divide e anche l’idea di nazione non regge di fronte alla pervasività della finanza e men che meno di fronte alla pervasività di un virus. O tutti o nessuno, insomma. Papa Francesco ha espresso questa sfida con l’enciclica Fratelli tutti che sintetizza le idee di fondo di un pontificato che ha decisamente virato verso l’idea di “Bioetica Globale”. La difesa della vita non è questione ideologica da schieramenti pro o contro qualcosa (eutanasia, aborto et similia) ma va promossa e difesa come qualità della vita, possibilità di sviluppo sociale, culturale, economico per tutti, dentro una cornice di rispetto dell’ambiente e di sostenibilità perché il pianeta che abbiamo lo dobbiamo conservare per dare un futuro alle prossime generazioni. E finalmente cessino guerre, distruzioni, terrorismi, omicidi legalizzati, forme di sfruttamento. Pare poco? È un programma di rinnovamento epocale. L’emergenza pandemica, il cambiamento globale che ha innescato, insieme al cambiamento climatico, dovrebbero imporre un solo programma al mondo cristiano: unirsi. Del resto rimanere divisi tra cattolici e chiese cristiane (a loro volta diverse tra loro) è in aperta, palese, acclarata violazione di quel Vangelo che tutti dicono di voler seguire e del dettato di San Paolo. Ai Corinzi (1 Cor. 1,10-17) Paolo di Tarso contestava le divisioni già esistenti tra partiti diversi legati all’uno o all’altro leader dell’epoca. Oggi è diventato veramente intollerabile, di fronte alla vastità dei problemi, vedere i capi religiosi (per non parlare dei politici) cincischiare con le loro beghe interne invece di concentrarsi sulle sfide davvero epocali e sul modo per uscirne tutti insieme. Quindi si faccia pure un Concilio, come adombra Paolo Ricca, per dire finalmente che le chiese cristiane, cattolica compresa, si uniscono insieme, si fondono, come era nel Primo Millennio e fino al Quindicesimo secolo. Ma ce li immaginiamo cattolici, luterani, valdo-metodisti, anglicani e via dicendo – gli “evangelical” Usa, per esempio – entrare tutti in una famiglia unica? Insieme con il mondo ortodosso dei vari Patriarcati? E quante “poltrone” verranno abolite in un colpo solo? Quanti posti di potere saranno improvvidamente vacanti? Quanti “generali” si ritroveranno di punto in bianco senza esercito? Sarebbe bellissimo, un’utopia degna di un romanzo di fantapolitica religiosa! Altro che Concilio, sarebbe il segnale di una rivoluzione conciliare planetaria. La cartina al tornasole delle idee impossibili di questo tipo è la vicenda della comunità ecumenica di Bose. Ecumenica, appunto, che però si rivolge al Papa perché i suoi membri non sanno più come fare ad andare d’accordo e non resta altro rimedio che andare dal Santo Padre. E già qui, come ho scritto diverse volte, la “cosa” scricchiola. Ma ora Enzo Bianchi se ne va da Bose (e i maligni discettano sui costi dell’appartamento dove abiterà…), dopo un anno circa di tira e molla; ed è dovuto intervenire un teologo di chiara fama come Giannino Piana per sottolineare l’ingiustizia del trattamento riservatogli, assai poco misericordioso per una Chiesa che alla misericordia si appella sempre (un po’ come se il famoso figliol prodigo fosse stato preso a schiaffi dal padre e cacciato in malo modo…!!!) e con tutta l’opacità di una vicenda poco spiegata e poco chiara nonostante i molti comunicati stampa anche loro assai fumosi. Poi negli ultimi giorni è venuto fuori anche il colpo di coda dello Statuto cambiato. Pare che dopo le dimissioni di Bianchi nel 2017, per la paura di perdere finanziamenti, qualcuno abbia aggiunto una noterella nello Statuto – nella versione da presentare ai bandi di finanziamento – per dire che Bianchi resta come garante. Quindi denaro assicurato. Peccato che la noterella sia assente nello Statuto ufficiale, depositato in tribunale. Miserie umane, ovviamente; trivialità economiche e tutto umano, molto umano. Che c’azzecca con il Concilio e con l’ecumenismo? C’azzecca nel senso che è davvero necessaria una drastica rivoluzione nel modo di pensare. Il Concilio cristiano universale dovrebbe farla finita con le divisioni e dire che tutti i cristiani si riuniscono una volta per tutte come era nel Primo Millennio. Un guardare indietro, a quando la vita ecclesiale era più “sana”, per ripartire in avanti. E ripartire abolendo le rendite delle posizioni di potere, con un Papa in quanto Vescovo di Roma che conserva una forma di primato tutta da ridefinire e da tutti accettata, con una prassi sinodale stringente, efficace, reale, capace di risolvere le questioni aperte. E soprattutto inaugurare l’era della trasparenza, dove i segreti vengono aboliti (tipo Bose, dove non si sa quale sia il reale problema) e si decreta la fine perpetua e assoluta della religione usata come potere, come una bomba da sganciare sul dissidente di turno per escluderlo, tipo fuori dalla porta o dietro la lavagna. Va bene, forse, per bambini troppo irrequieti ma non per persone largamente adulte. Una rivoluzione insomma. Per il momento limitiamoci a sognarla, visto che il sognatore ancora non è perseguibile penalmente dal diritto civile o ecclesaistico. Ma sarebbe ora di cominciare a crederci e passare dal sogno alla costruzione della realtà.

·        Il Sovrano Militare Ordine di Malta.

Da corriere.it il 13 novembre 2021. È morto Matthew Festing, ex Gran Maestro dell’Ordine di Malta. Festing, scozzese, avrebbe compiuto 72 anni il 30 novembre, ed è entrato in coma improvvisamente a malta il 4 novembre scorso. Un malore improvviso lo aveva colto dopo aver preso parte alla professione religiosa dell’ex governatore della banca centrale di Malta, Francis Vassallo. Festing era stato al centro di una vicenda estremamente complicata, relativa alla successione nello Smom - il Sovrano Militare Ordine di Malta. Nel dicembre 2016, come raccontato qui da Gian Guido Vecchi, l’allora Gran Maestro aveva cacciato il Gran Cancelliere Albrecht Freiherr von Boeselager, numero due dell’Ordine. Papa Francesco aveva nominato una commissione per chiarire e comporre la vicenda. Il Gran Maestro del più antico ordine cavalleresco — si fa risalire agli ospedalieri nati a Gerusalemme nell’XI secolo — aveva però rivendicato, in nome del diritto internazionale, l’«autonomia» e la «sovranità» dell’Ordine rispetto al Papa, cui in teoria dovrebbe obbedienza assoluta. Nel 2017, Francesco aveva allora convocato Festing, facendolo dimettere. Sullo sfondo di questa guerra, scoppiata in un mondo di antiche famiglie della nobiltà europea, le spaccature interne fra inglesi e tedeschi, tra «professi» religiosi e «laici», tra chi segue la linea di Francesco e chi vi si opponeva. Non è un caso che, secondo quanto ricostruito, dietro alla decisione di Festing di cacciare il Gran Cancelliere ci fosse Raymond Leo Burke, il cardinale ultraconservatore, tra i più strenui ed espliciti oppositori del Papa, cui Francesco aveva affidato il ruolo di «patrono» dell’Ordine di Malta. Festing aveva accusato von Boeselager di aver permesso che una Ong collaboratrice dell’Ordine distribuisse preservativi in Africa e nel Myanmar; Von Boeselager aveva replicato che l’iniziativa era locale, ne era all’oscuro e l’aveva bloccata appena saputo. Burke aveva portato la questione dinanzi a papa Francesco, il quale aveva chiesto — fermo restando il rispetto della morale cattolica — di risolvere il problema con il dialogo. Festing aveva però sollevato von Boeselager dall’incarico; il Gran Cancelliere cacciato si era appellato alla Santa Sede; il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato del Papa, aveva in due lettere ribadito quanto chiesto dal Papa («Sull’uso e sulla diffusione di metodi e mezzi contrari alla legge morale, Sua Santità ha chiesto un dialogo sul modo in cui possano essere affrontati e risolti eventuali problemi, ma non ha mai detto di cacciare qualcuno»). La richiesta del Papa è caduta nel vuoto; il pontefice ha creato una commissione per dirimere la questione; Festing aveva subito rifiutato ogni collaborazione con la commissione, adombrando anzi «conflitti di interesse» di tre membri della commissione; così il Papa aveva chiesto a Festing di lasciare il suo incarico. 

·        La Chiesa Ortodossa.

Da fanpage.it il 26 giugno 2021. Un prete ha attaccato sette vescovi della Chiesa Ortodossa che lo avevano convocato in un'udienza disciplinare per espellerlo e ha sfregiato con l'acido alcuni di loro. La terribile aggressione ha avuto come scenario il monastero di Petraki, nel quartiere di Ambelokipi, ad Atene, dove il prete ortodosso di 37anni, Theofylaktos Kombos, era stato convocato mercoledì davanti a una commissione di suoi superiori per rispondere di alcuni suoi comportamenti giudicati assolutamente non compatibili con l'abito che indossa. Quello che doveva essere un confronto verbale in pochi attimi si è trasformato in una aggressione violenta che ha costretto tre vescovi all'immediato ricorso alle cure del pronto soccorso e al ricovero in ospedale con ustioni sul corpo. Il prete, un uomo di 37 anni, probabilmente aveva già pianificato tutto e quando è apparso davanti alla commissione composta da sette vescovi ha estratto l'acido e lo ha gettato contro i volti dei suoi superiori che si erano dati appuntamento presso la sede del Sinodo della Chiesa di Grecia per decidere se estrometterlo. Col suo getto è riuscito a colpirne in maniera seria tre prima di tentare la fuga ma è stato fermato dalla polizia e arrestato. Il totale dei feriti è di dieci in quanto oltre ai sette metropoliti, sono rimasti feriti anche un poliziotto che era accorso e altre due persone che erano sul posto. "Ha tirato fuori una bottiglia grande e con entrambe le mani ha gettato su di noi il contenuto. All'inizi pensavamo fosse acqua santa ma quando abbiamo visto che il liquido diventava rosso, abbiamo capito e gli occhi hanno iniziato a bruciare" ha raccontato uno dei vescovi ferito in maniera lieve. 

Il prete era stato accusato di possesso di droga. Tra i tre vescovi feriti seriamente, tutti hanno ustioni al volto e uno è molto grave. Il ministro della Sanità greco, Vassilis Kikilias, infatti ha visitato in ospedale i tre vescovi e ha spiegato che uno di loro verrà trasferito in un'altra struttura per un intervento di chirurgia plastica. Secondo i giornali locali, il prete autore del gesto rischiava l'espulsione dalla Chiesa perché accusato di traffico di droga. L'uomo infatti era stato trovato in possesso di 1,8 grammi di cocaina nel giugno del 2018. A seguito di quel fatto, il 36enne era stato già rimosso dia suoi incarichi e rischiava l'espulsione anche se aveva sempre ribadito che il caso della droga era un complotto ai suoi danni. Il gesto ha spinto la commissione sinodale a confermare la sua espulsione.

·        Le chiese evangeliche.

Da "lastampa.it" il 16 settembre 2021. La chiesa evangelica luterana d'America, che con circa 3,3 milioni di fedeli è una delle chiese cristiane più grandi degli Stati Uniti, ha insediato il suo primo vescovo apertamente transgender: il reverendo Megan Rohrer, che guiderà la San Francisco's Grace Cathedral in California, uno dei 65 sinodi della chiesa, sovrintendendo a quasi 200 congregazioni di un'ampia zona. L'elezione è avvenuta a maggio, dopo che il vescovo attuale aveva annunciato il suo ritiro, e prevede un incarico di sei anni alla guida del sinodo. Rohrer, che usa il pronome di genere neutro “they”, è stata anche la prima persona transgender a essere ordinata dalla Chiesa evangelica luterana in America e in precedenza ha servito a San Francisco, tra cui al dipartimento di polizia della città, essendo anche attivista per la comunità di senzatetto e Lgbtiaq+ locale. La Chiesa evangelica luterana ha accolto sette pastori e pastore Lgbtiaq+ nel 2010, quando ha permesso le relazioni omosessuali dei pastori, tra cui Rohrer: «Sono entrato in questo ruolo perchè una comunità diversa di luterani della California e del Nevada del nord ha devotamente e premurosamente votato per fare questa cosa storica», ha commentato Rohrer, sposato e con due figli. Che alla sua comunità ha rivolto un messaggio d’amore: «Se me lo permetterete, e penso che lo farete, la mia speranza è di amarvi e oltre a questo, di amare ciò che voi amate».

Dal Vangelo secondo John Wayne. Perché gli evangelici ignorano la disconnessione tra le loro storie e la Storia. Kristin Kobes Du Mez su L'Inkiesta il 16 agosto 2021. Alcune chiese degli Stati Uniti nascondono le verità sgradevoli per proteggere il loro “marchio”. Così, per molti dei loro fedeli, abituati a una narrazione “depurata”, la verità è spesso destabilizzante. Le cose in cui crediamo hanno una storia. Come storica delle religioni, io lo do per scontato. Ma mi ero dimenticata di quanto questo concetto risultasse invece estraneo a molti evangelici negli Stati Uniti. Gli evangelici si identificano come cristiani “che credono nella Bibbia”: i pastori evangelici predicano “valori biblici” e i leader evangelici promuovono valori “tradizionali” nella sfera secolare e pubblica, intervenendo su argomenti come, ad esempio, la politica fiscale e il controllo delle armi. Tutte queste convinzioni sono impacchettate e vendute come bibliche, immutabili ed eterne. Gli evangelici non sono i soli a considerare come eterne e immutabili le cose in cui credono: per i credenti di tutti i tipi, il concetto stesso di verità assume un’aura di eternità. Una simile certezza può però essere resa più complicata dalla conoscenza della storia. La storia rivela che accanto a elementi che hanno una continuità nel tempo, ci sono anche molti cambiamenti rilevanti e dimostra come molte delle cose che passano per essere tradizionali abbiano, in realtà, un’origine piuttosto recente. Inoltre, collocando in un contesto più ampio i fenomeni che studia, la storia rivela anche quanto i fattori economici, politici e sociali possano influenzare le cose che le persone ritengono vere in una determinata epoca. Gli evangelici sono tuttavia rimasti ignari, in modo straordinario, di quali connessioni vi siano tra le loro stesse storie e la storia in generale. Non è che gli evangelici ignorino del tutto la storia, è che tendono a preferire una versione tutta loro degli eventi. A livello popolare, alcuni pseudostorici hanno fatto strame delle testimonianze della storia per tessere racconti fantasiosi sulle origini cristiane dell’America. E, all’interno dei circoli accademici, alcuni storici evangelici hanno prodotto delle narrazioni che tendono a minimizzare i lati oscuri della loro tradizione religiosa. Un resoconto più complesso della storia dell’evangelicismo è straordinariamente destabilizzante per chi si sia sempre confrontato soltanto con un ritratto edulcorato del proprio passato. Gli evangelici sono sconvolti, ad esempio, nell’apprendere che il reverendo Billy Graham era politicamente ambizioso, aveva promosso il militarismo americano e aveva passato sotto silenzio delle atrocità avvenute in Vietnam. Oppure quando vengono a sapere che, riguardo ai diritti civili, il bilancio che lo riguarda è decisamente altalenante. Questo non è il Graham che conoscevano e amavano. Anche quando si mostri semplicemente che le cose non sono sempre state come lo sono adesso, la storia può risultare destabilizzante. Per esempio, c’è stato un tempo in cui molti protestanti conservatori rifiutavano l’idea stessa di “America cristiana”. E quelli a cui è stato insegnato che il patriarcato è un elemento essenziale dell’ortodossia cristiana sarebbero sorpresi se conoscessero la lunga storia del femminismo nel movimento evangelico. Gli evangelici hanno anche creato un ampio network economico e culturale che rafforza un’autopercezione acritica e sprovvista di complessità. Stazioni radio cristiane, case editrici cristiane, testi scolastici cristiani e programmi per l’istruzione impartita in casa rafforzano una narrazione che dipinge gli evangelici come i bravi ragazzi che lavorano coraggiosamente per conto di Dio in questo mondo. I peccati della nazione – razzismo, sessismo, xenofobia, nazionalismo bianco – sono dipinti non come problemi tradizionalmente endemici, ma come deragliamenti dal “vero evangelicismo”. Le critiche che provengono dall’esterno sono ignorate o vengono derubricate ad attacchi aggressivi, e questo contribuisce a rafforzare il complesso di persecuzione degli evangelici. E, dal momento che in questo network economico-culturale sono in gioco profitti enormi, ragioni ideologiche e ragioni finanziarie convergono nello sforzo di non far allontanare i consumatori evangelici dall’ovile. La consapevolezza che quello in cui si crede abbia una storia non preclude la possibilità di affidarsi a verità che stanno al di sopra della storia e non impedisce ai credenti di orientare le proprie scelte personali e i propri valori politici in base a testi sacri o a convinzioni teologiche. Ma certamente induce i credenti a prendere in considerazione il fatto che le forze storiche e le appartenenze culturali potrebbero aver contribuito a plasmare le loro più profonde convinzioni, in modi perfino contrari ai fondamenti della loro stessa fede. Il potere destabilizzante della storia mi è diventato completamente chiaro l’estate scorsa quando è stato pubblicato il mio libro “Jesus and John Wayne: How White Evangelicals Corrupted a Faith and Fractured a Nation” (Gesù e John Wayne: come gli evangelici bianchi hanno corrotto una fede e spaccato una nazione). Il libro ricostruisce il modo in cui un ideale militante di virilità bianca cristiana abbia finito per pervadere la cultura popolare degli evangelici in America. Negli ultimi settantacinque anni, gli ideali eroici ispirati da mitici guerrieri, soldati e cowboy – molti dei quali sono stati interpretati sullo schermo da uomini come John Wayne o come il Mel Gibson del film “Braveheart” – hanno trasformato la fede stessa, sostituendo con un aggressivo grido di battaglia gli insegnamenti biblici più importanti, come quello di amare il prossimo e i propri nemici. Nel giro di pochi giorni dopo l’uscita del mio libro, ho cominciato a ricevere dai lettori lettere e messaggi. E, a quasi un anno di distanza, la mia casella continua a riempirsi di numerosi messaggi ogni giorno, la gran parte dei quali sono scritti da evangelici. Mi avevano avvertito che avrei dovuto prepararmi a essere ferocemente trollata, ma questi non sono messaggi di odio. Quasi tutti i messaggi contengono, formulata in vario modo, la stessa frase: «Questa è la storia della mia vita. Grazie per avermi aiutato a capire». Per spiegare questa affermazione, i lettori narrano la storia della loro vita con dettagli inequivocabili. Sono stati indottrinati nei valori familiari dell’evangelicismo dall’ascolto quotidiano del programma radiofonico di James Dobson “Focus on the Family”. Hanno fatto acquisti nelle librerie cristiane e hanno partecipato agli incontri dei Promise Keepers che sono una branca, riservata agli uomini, del movimento evangelico. Hanno fatto propri gli insegnamenti della “purity culture” e hanno strutturato il loro matrimonio intorno al principio dell’autorità maschile e della sottomissione femminile. Hanno orgogliosamente votato Ronald Reagan e hanno partecipato ai warrior boot camp organizzati nei fine settimana dalle loro chiese. Eppure, nonostante la loro conoscenza di prima mano delle cose di cui ho scritto, molti lettori hanno manifestato profondo stupore dopo aver visto per la prima volta quali contorni avesse il mondo in cui avevano vissuto gran parte delle loro vite. Uno di loro lo ha spiegato così: «Mi ero imbattuto in moltissimi di questi alberi, ma non avevo mai visto la foresta». La frequenza con cui le persone che mi hanno scritto hanno espresso una sensazione di disorientamento e l’intensità emotiva delle loro reazioni mi hanno dato da pensare. Anche se non sono i soli a preferire i resoconti abbelliti del loro passato, gli evangelici si sono aggrappati a queste narrazioni per una precisa ragione evangelizzatrice. Non molto tempo fa, sono stata intervista da un’emittente radiofonica cristiana. Entrambi i conduttori del programma sono stati rispettosi e piacevoli, ma uno dei due era chiaramente molto più diffidente dell’altro. Solo dopo, quando non eravamo più in onda, mi ha rivolto la domanda che lo turbava così tanto. Sapendo che io sono cristiana mi chiese con forza come pensavo che qualcuno avrebbe mai potuto diventare cristiano dopo aver letto il mio libro. La domanda non mi sorprese. Quando avevo iniziato a occuparmi di quel progetto, avevo soppesato simili preoccupazioni. Ma la storia non è una campagna di marketing attraverso cui convertire le persone. E, cosa ancor più importante, proprio la mia ricerca nella storia dell’evangelicismo mi aveva mostrato chiaramente quali fossero i rischi derivanti dal coprire le verità sgradevoli per proteggere il “marchio” – o, per usare le parole degli stessi evangelici, “il ruolo di testimonianza della chiesa”. Nella parte finale del mio libro, cito le parole dell’avvocato e attivista Rachael Denhollander, una donna che è stata vittima di abusi. In una potente testimonianza presentata al processo a Larry Nassar (l’ex medico della squadra americana di ginnastica che è stato condannato per aver commesso numerosi crimini sessuali ai danni di aspiranti atlete), Rachael Denhollander rimprovera all’imputato di cercare il perdono senza essersi pentito. La Denhollander, che è un’evangelica conservatrice, ha portato l’attenzione anche sugli abusi all’interno dell’evangelicismo, scontrandosi con quelli che cercavano di coprirli per proteggere il ruolo di testimonianza della chiesa. «Il vangelo di Gesù Cristo non ha bisogno della vostra protezione», ha detto la Denhollander in un’intervista; Gesù ha chiesto soltanto obbedienza, e questo significa dire la verità e perseguire la giustizia. Quasi tutte le lettere che ricevo dai lettori evangelici contengono parole di gratitudine per le dolorose verità che sono giunti a vedere soltanto ora. Molti riconoscono anche la loro complicità con le storie che racconto. E comprendono che solo facendo i conti con il loro passato possono riallineare il loro ruolo di testimonianza con il perseguimento della verità e della giustizia che la loro fede prescrive.

2021 The New York Times Company and Kristin Kobes Du Mez. Distributed by The New York Times Licensing Group

Kristin Kobes Du Mez è nata a Sioux Center, in Iowa, e insegna storia alla Calvin University di Grand Rapids, in Michigan. È autrice del libro “Jesus and John Wayne: How White Evangelicals Corrupted a Faith and Fractured a Nation” (2020).

Questo articolo di Kristin Kobes Du Mez è stato pubblicato sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola a Milano e a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.

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Messico, l’avanzata inarrestabile delle chiese evangeliche. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 26 febbraio 2021. Una rivoluzione religiosa di dimensioni epocali sta riscrivendo volto e anima dell’America Latina, il fu continente cattolicissimo dove la Chiesa cattolica è una realtà sul viale del tramonto, una stella cadente il cui corpo sta venendo rapidamente ridotto in cenere dall’interrelazione di due fenomeni corrosivi: secolarizzazione e protestantizzazione. Da Cuba all’Argentina, passando per Brasile, Cile e Venezuela, non c’è terra dell’Ispanoamerica che si sia rivelata immune e/o impermeabile all’avanzata irrefrenabile del protestantesimo in salsa (e di origine) nordamericana, ovverosia delle chiese evangeliche e neopentecostali. Neanche il Messico, terra della Madonna di Guadalupe, della guerra cristera e di Padre Hidalgo, è esente dal fenomeno.

I numeri del censimento. Nel 2020 ha avuto luogo il censimento della popolazione in Messico, a distanza di dieci anni dall’ultimo, e i numeri sono stati resi pubblici nel mese di febbraio. Nell’ultimo decennio i cattolici sono diminuiti dall’82,7% al 77,7%, mentre i protestanti di stampo evangelico sono aumentati dal 7,5% all’11,2%. Il declino cattolico è meno accentuato che altrove, ma urge tenere in considerazione il contesto completo e il ritmo del cambio di paradigma. Come è stato osservato da Christianity Today, “ci sono voluti cinquant’anni – dal 1950 al 2000 – affinché la proporzione dei cattolici in Messico diminuisse dal 98% all’88%. Oggi, soltanto due decenni più tardi, quella percentuale si è ridotta di altri dieci punti”. Spiegato altrimenti, l’andamento della de-cattolicizzazione ha registrato una significativa accelerazione dal 2000 ad oggi. La Chiesa cattolica del Messico ha piena cognizione della questione, e ritiene che i numeri della rivoluzione evangelica siano in larga parte dovuti ad un effetto valanga generato dalla protestantizzazione del vicinato mesoamericano e alle attività di evangelizzazione dei missionari nelle comunità indigene, che sono le più toccate dal fenomeno.

Il ruolo delle carovane. Secondo Rosa Duarte de Markham, operatrice della Commissione Missionaria del Messico (Comimex), non sarebbe da trascurare la rilevanza del fattore migrazioni nel processo di spiegazione della progressiva protestantizzazione del Paese. Il Messico, come è noto, è una tappa obbligatoria per tutti quegli immigrati irregolari che dall’America centrale e meridionale tentano di raggiungere via terra gli Stati Uniti, dando vita alle tristemente celebri “carovane”. La de Markham è dell’idea che una parte consistente degli immigrati che traversano il Messico, specialmente guatemaltechi e venezuelani, sia di fede evangelica e che approfitti della permanenza per predicare ad altri migranti o agli autoctoni. L’evangelicalismo, invero, presenta una propensione innata al proselitismo: ogni situazione può e deve essere sfruttata per apportare fedeli alla propria denominazione.

Gli altri fattori. Il protestantesimo evangelico starebbe guadagnando terreno nel panorama religioso messicano anche per altre ragioni, tra le quali la guerra della droga e la debole territorializzazione della Chiesa cattolica. Per quanto riguarda il primo punto, la de Markham è dell’idea che l’epidemia di violenza abbia incoraggiato la gente a riavvicinarsi alla fede perché il messaggio cristiano “può dare conforto, e valorizza pace e giustizia”. Gli evangelici, e non i cattolici, sarebbero stati i principali beneficiari di questa ricerca di fede – e i numeri del censimento lo confermano – per via delle loro strutture decentralizzate e del loro maggiore focus sull’importanza della vita comunitaria. In una nazione come il Messico, afflitta dal problema degli omicidi e delle sparizioni, creare delle piccole comunità, vivaci ed energiche, sarebbe d’aiuto per una moltitudine di persone. Coloro che si definiscono protestanti, in effetti, vivono l’esperienza comunitaria più intensamente rispetto ai cattolici: il 63% dei primi si dichiara un praticante attivo, contro il 41% dei secondi. La domanda sorge spontaneamente: perché la Chiesa cattolica non ha saputo cogliere il momento? Le risposte, questa volta, vengono fornite dai sociologi. Secondo Roberto Blancarte, eminente professore del Colegio de México, la Chiesa avrebbe perduto terreno a causa della scarsa copertura territoriale – un prete ogni seimila abitanti – e dell’incapacità di capire gli indigeni – il motore della protestantizzazione.

Secondo quanto ricostruito da Blancarte, i missionari evangelici provenienti dagli Stati Uniti, a partire dal secondo dopoguerra, si sono recati negli stati federati con le più alte percentuali di indigeni – specialmente Chiapas e Tabasco – armati di denaro e di Bibbie nelle lingue native. La strategia li avrebbe premiati nel lungo periodo: oggi, un terzo degli abitanti di Chiapas e Tabasco appartiene ad una confessione evangelica.

Da forza religiosa a potere politico. Come già accaduto nel resto dell’Ispanoamerica, gli evangelici manifestano la tendenza a formare blocchi elettorali una volta raggiunta la massa critica. In Messico, rappresentando ormai più del 10% della popolazione totale, gli evangelici sono in grado di influire sui processi decisionali e il loro potere di condizionamento varia a seconda dello stato. Cirilo Cruz, presidente della Compagnia Evangelica Nazionale del Messico (CONEMEX), ha ammesso che “il governo sta iniziando a guardare a noi per vedere come la pensiamo su determinati argomenti”. L’esempio più lampante dell’interesse del potere politico nei confronti dell’ascendente forza evangelica è rappresentato indubbiamente dalla Luce del mondo (Luz del Mundo), la chiesa protestante più potente del Messico. Il peso politico della Luce del mondo, da alcuni osservatori ritenuta una setta perniciosa, è comprensibile dando uno sguardo ai numeri: ha stabilito legami con i cinque principali partiti politici del Paese, è riuscita ad eleggere diversi parlamentari nel Congresso, alla sua festività principale – Santa Convocacion – hanno partecipato figure di spicco come Margarita Zavala, moglie dell’ex presidente Felipe Calderon, e ha colonizzato interi stati federali, in particolare quello di Jalisco, la cui classe politica partecipa regolarmente alle iniziative e alle attività della chiesa. La trasformazione del Messico nel “Brasile dell’America centrale” è ancora lontana, quindi evitabile, ma tutto dipenderà da come la questione verrà affrontata dalla Chiesa cattolica: se imparando dal passato, quindi trovando dei rimedi alla secolarizzazione e ai limiti della parrocchializzazione, o se ricommettendo gli errori che le hanno gradualmente fatto perdere l’egemonia nel resto del subcontinente.

·        I Mormoni.

150 figli e 27 mogli: la famiglia da record di Winston Blackmore. Le Iene News il 29 gennaio 2021. A raccontare su TikTok com’è vivere in una famiglia del genere è Merlin, uno dei figli che oggi ha 19 anni e non vive più nella setta mormone. 150 figli e 27 mogli. Una famiglia da record quella di Winston Blackmore, 64enne che vive nella gigantesca setta mormone a Bountiful, in Canada. A raccontare com’è crescere in un contesto del genere è stato uno dei tanti figli, Merlin, 19 anni, sul suo account TikTok. Delle 27 mamme, “solo” 22 avrebbero avuto figli con Winston, mentre in 16 sono rimaste sposate con lui, racconta Merlin. Il ragazzo ha sette fratelli nati dagli stessi genitori, mentre con gli altri 142 ha in comune il padre. La comunità è talmente grande che i ragazzi hanno la loro scuola. Come si chiamano le varie mamme? Merlin racconta che viene chiamata “mum” la propria madre biologica, mentre per le altre su usa “mother” seguito dal nome. Il papà, nel 2017, è stato condannato a 6 mesi per poligamia. Merlin oggi non ha più rapporti con lui, vive negli Stati Uniti e ha deciso di raccontare online la sua storia: “Sono anni che volevo parlarne, ora sono nella posizione di poterlo fare. Il mondo lo saprà”.

A.Gu. per “Il Messaggero” il 29 gennaio 2021. Fino a 16 anni Merlin Blackmore ha vissuto senza rendersi conto di quanto la sua condizione familiare fosse fuori dal comune. Nato e cresciuto in una setta mormone fondamentalista in Canada, Merlin ha avuto un padre, 27 mamme e 149 fratelli e sorelle. Solo quando è stato iscritto alla scuola pubblica, per l'ultimo anno di liceo, ha capito di essere un caso: «Stavo studiando le leggi del nostro Paese, e ho trovato la legge contro la poligamia, e un intero capitolo era dedicato alla mia famiglia, la famiglia Blackmore!». Da allora Merlin si è trasferito negli Stati Uniti, ha abbandonato la setta, e adesso che ha 19 anni ha cominciato a raccontare sui social, TikTok specialmente, cosa sia significato essere uno di 150 figli. Presto altri due fratelli, Murray e Warren si sono uniti a lui, l'uno 19enne e l'altro 21enne. I tre giovani non esprimono risentimento verso il padre, il 64enne Winston Blackmore, che nel 2017 è stato condannato a 6 mesi di arresti dopo un lungo processo. Invece raccontano la vita quotidiana nelle varie case famiglia della comunità, in ciascuna delle quali vivono su due piani diversi due mamme con i loro figli. Merlin ha sette fratelli carnali, nati cioè dallo stesso padre e da una stessa mamma, e 142 fratelli consanguinei, cioè che hanno in comune con lui solo il padre. Merlin e tutti gli altri giovani della comunità chiamano Mum la propria madre, mentre le altre mogli del padre vengono chiamate Mother. La comunità ha una sua scuola, e capita, racconta il giovane, «di trovarsi in classe con fratellastri e sorellastre, cugini e nipoti». Non c'è quasi giorno dell'anno che non si festeggi qualche compleanno e spesso in un solo giorno ne cadono due o tre. Tutti i bambini nati nello stesso anno condividono la prima lettera del nome, che nell'anno di Merlin e Murray è stata la M. Da notare che Merlin e Warren sono fratellastri, ma anche cugini, poiché le loro mamme sono sorelle. La figliolanza di Winston Blackburn copre quattro decenni, con i più anziani che hanno superato i 40 anni mentre l'ultimo nato non ha ancora un anno. Nelle grandi occasioni come la Festa del Ringraziamento, l'intera famiglia, cioè i 150 fratelli, il padre e le sue 27 mogli, si riunivano in un'unica grande sala e Winston suonava la chitarra e cantava. Comunque non tutte le 27 mogli di Winston hanno avuto bambini, solo 22, e di quelle solo 16 gli sono rimaste legate e attive nella comunità. Tutti i fratelli Blackmore sono cresciuti aiutando negli orti e collaborando nella gestione della famiglia. Quando il padre fu incriminato per poligamia, prima volta in oltre un secolo che il Canada apriva gli occhi su una setta poligama, molte delle mogli e dei figli lanciarono un appello su YouTube per chiedere clemenza. I membri della setta canadese, secessionista dal 2001, tentava di differenziarsi il più possibile dalla setta madre, il cui capo era finito in prigione a vita per aver tentato di uccidere una giovane che si rifiutava di sposarlo, e per pedofilia, per aver preso in moglie due giovinette dodicenni. Nelle loro testimonianze al tribunale, i figli oramai adulti di Winston Blackburn, anche loro con famiglia, spiegarono che era il padre a dare loro lavoro e garantire la loro sopravvivenza nelle industrie di cui era proprietario nel settore del legname e dei trasporti. Le mogli dal canto loro sottolinearono la vita pacifica della comunità e i figli più grandicelli testimoniarono dell'amore che ricevevano. Un coro positivo che sembra sia servito a garantire a Winston Blackmore una condanna lieve, anche se non ha più il permesso di celebrare matrimoni. Contro quel quadro idillico, Merlin, Murray e Warren non sembrano ribellarsi nei loro TikTok e YouTube: «C'è un tentativo di essere sempre più una famiglia e sempre meno una setta», dice ad esempio Warren.

·        Le Sette.

Da agi.it il 24 novembre 2021. Le ragazze nigeriane reclutate e introdotte in Italia venivano vessate, sottomesse e poste in uno stato di vulnerabilità psicologica, determinato anche dalla celebrazione di macabri riti "voodoo" a garanzia del debito contratto per arrivare nel nostro Paese. E' quanto accertato dalla Guardia di Finanza, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e dalla procura di Cagliari su una associazione a delinquere di matrice nigeriana finalizzata al riciclaggio internazionale di capitali illeciti dedita anche al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. L'inchiesta ha portato a 40 arresti. Sono complessivamente 122 le persone coinvolte nel procedimento che ha riguardato il gruppo criminale dell'Eiye "Supreme Confraternity of Air Lords". Un primo filone investigativo è originato dall'acquisizione di informazioni - spiega una nota della Guardia di Finanza - successivamente corroborate con l'acquisizione di una denuncia di una donna introdotta clandestinamente in Italia, concernenti l'esistenza di un'estesa rete di persone, operanti tra la Nigeria e l'Italia" che ha costretto "giovani donne nigeriane, a fronte delle promesse di opportunità lavorative nel nostro Paese, ad assumersi ciascuna debiti, anche di 25, 50 mila euro, compreso le spese del viaggio verso l'Italia". Debiti che le vittime avrebbero dovuto saldare per ottenere "in cambio la libertà ed evitare conseguenze lesive per loro stesse e i propri familiari in Nigeria". Il provvedimento dell'Autorità giudiziaria di Cagliari, che ha consentito di liberare le giovani vittime dal vincolo di coazione fisico-psicologico cui erano costrette.

Dove operavano i gruppi criminali

Le indagini hanno portato alla luce "una struttura reticolare suddivisa su tre gruppi criminali radicati, rispettivamente, in Sardegna (nel cagliaritano), in Piemonte (nel torinese), in Emilia Romagna (nel ravennate), ma con operatività estesa in altre aree italiane e transnazionale (in Nigeria, Libia e Germania), dediti alla commissione dei reati innanzi indicati, ma anche di identificare le vittime, 50 donne nigeriane, reclutate e condotte da propri connazionali dalla Nigeria". In totale sono state 41 le ragazze destinate alla prostituzione, mentre 9 quelle costrette all'accattonaggio in aree cittadine ove gli indagati avevano ubicato "postazioni di lavoro" sottoposte alla loro influenza e gestite da soggetti ("madame" o "sister/brother") dediti allo sfruttamento delle connazionali e/o addetti al controllo sul regolare svolgimento delle attività da parte delle vittime e alla riscossione del pagamento coattivo di un canone mensile di 150 euro per l'affitto di dette "postazioni". Il denaro, secondo quanto spiega la Gdf, veniva riciclato prevalentemente con investimenti immobiliari da realizzare in Nigeria mediante l'utilizzo di corrieri "portavaligie", l'effettuazione di ricariche su carte prepagate, attraverso canali di money-transfer.

Undici squadre di corrieri

Gli indagati operavano tramite 11 squadre "di corrieri, costituite da un'estesissima rete di collaboratori scelti per affidabilità ed efficienza, in Sardegna, Piemonte, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Nove indagati operavano dall'estero (Libia, Nigeria e Germania) e avevano il compito di trasferire i fondi illeciti diversificando sia le modalità di occultamento del denaro, sia i corrieri incaricati, sia ancora gli scali di partenza onde eludere i controlli e diminuire i rischi di sequestri e sanzioni". Sono stati individuati 7 centri hawala e ricostruiti trasferimenti di valuta per oltre 11 milioni di euro effettuati dal territorio nazionale alla Nigeria attraverso ricariche su carte PostePay e Vaglia On Line. L'attivazione del dispositivo di contrasto valutario dei Reparti del Corpo ha, altresì, permesso di controllare 44 corrieri partenti da scali aeroportuali italiani in 86 diverse occasioni, e di monitorare il "passaggio" di 1.852.698,83 euro, con conseguente sequestro di somme per 712.099,32 euro e applicazione di sanzioni amministrative per 510.244,32 euro. 

Erika Pontini per lanazione.it il 7 ottobre 2021. L’accusa di riduzione in schiavitù ha retto al vaglio della Corte d’appello di Firenze, dopo il rinvio della Cassazione. E per l’ex prete Mauro Cioni che aveva creato una setta a Montecchio di Cortona, legando le anime degli adepti con lo spettro della dannazione eterna, i giudici hanno inasprito la pena. La Corte, presidente Alessandro Nencini, ha condannato l’ex sacerdote a 14 anni, 8 mesi e 12 giorni di reclusione - contro gli otto anni iniziali solo per violenza sessuale - ritenendo che Cioni avesse realmente ridotto schiavi nove aderenti alla congrega sia sessualmente che economicamente. Dopo il verdetto di appello che aveva dimezzato la condanna a 15 anni in primo grado, e il ricorso in Cassazione, la Terza sezione aveva confermato la condanna a otto anni per violenza ma annullato la parte del dispositivo che aveva derubricato la riduzione in schiavitù in maltrattamenti (reato peraltro prescritto) mandando di nuovo in Corte per un nuovo giudizio di appello che si è celebrato ieri. La vicenda prese avvio nel convento di Montecchio dove Cioni aveva dato vita a una comunità religiosa che aveva diretto per circa due decenni prima come sacerdote poi, una volta uscito dalla chiesa, come una sorta di ‘santone’. Secondo l’accusa Cioni, difeso dagli avvocati Luca Bisori e Valeria Valignani, avrebbe guidato la comunità utilizzando metodi violenti ma, soprattutto approfittando della fragilità dei suoi seguaci. In particolare, secondo la ricostruzione accusatoria, Cioni avrebbe esercitato sugli adepti "quale guida spirituale potere tali da porli in condizioni di totale sudditanza psicologica facendo falsamente credere – è ricostruito nel capo di imputazione – che per consentire la salvezza eterna e liberarli dalle presenze maligne dovevano assecondarlo in ogni sua decisione minacciandoli che, in caso contrario, avrebbero sofferto per tutta la vita". Con lo spettro della dannazione eterna l’ex sacerdote sarebbe riuscito a ottenere il distacco totale dei seguaci dalle rispettive famiglie, dalla vita sociale e lavorativa e avrebbe così ottenuto prestazioni sessuali e dazioni di denaro. Una spaccatura interna alla setta e il gesto estremo di un giovane innescarono le indagini della squadra mobile che raccolse testimonianze impressionanti. Dal 2016 la prima condanna, ieri l’ultima prima del verdetto finale in Cassazione dove l’avvocato Luca Bisori ha intenzione di ricorrere, appena lette le motivazioni. "Impugneremo la sentenza – spiega il legale – perché riteniamo che la Cassazione avesse solo dato indicazioni delle modalità corrette della fattispecie, senza un obbligo di condanna nei confronti di Cioni", spiega Bisori. Intanto l’ex prete divenuto santone è a casa, non è mai stato arrestato perché il verdetto non è ancora passato in giudicato. "Soffre di una sindrome di immobilizzazione ormai da dieci anni", spiega ancora il difensore.

Ufo, la domanda che nessuno si pone: chi vuole farci credere agli alieni, e perché? Il libro di Gianluca Marletta spiega molto. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 09 settembre 2021 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il binomio Ufo – Alieni circola ormai ovunque, al cinema, nelle pubblicità, sui giornali, sulle scatole di cereali, sponsorizzato dall’Onu pro-gender-aborto-eutanasia e da personaggi venerati dal mainstream come Obama, Nobel per la Pace che, lo ricordiamo, di oggetti volanti – ben identificati - ne ha sganciati 26.171 sulle teste degli afghani. Ci sarà dunque qualcosa sotto? Pare proprio di sì, come spiega l’interessantissimo “Ufo e alieni” (ed. Irfan) dello storico Gianluca Marletta. Ne parleremo con l’autore oggi, alle 18.00, ospiti di “Ritorno a Itaca” di Aurelio Porfiri. Un titolo, quello del libro, che farebbe pensare all’ennesima pubblicazione sui lucertoloni nascosti fra noi, e invece indaga in modo scorrevole e colto le radici culturali e le manipolazioni, da parte di ben noti poteri, di questi strani fenomeni. Sì, perché, di fatto, in 74 anni di avvistamenti, (dal 1947, guarda caso, inizio dell’era spaziale) con decine di migliaia di persone che hanno osservato e ripreso luci, dischi, “sigari” volanti e altri fenomeni aerei che, per una percentuale fra il 5 e il 10% restano oggettivamente inspiegabili, nessuno è mai riuscito a trovare una latta d’olio “Made in Neptune”, un bullone di Ufo o una mutanda di alieno. Il caso Roswell (1947) è notissimo, ma tra smentite, rottami di palloni-sonda, pupazzi, falsi video di autopsie, finora nulla è stato dimostrato. Colpa dei militari arcigni che ramazzano via ogni cosa, in perfetta pulizia, che nemmeno Mastro Lindo? Forse. Resta il fatto che, per ora, si tratta di fenomeni immateriali, proprio come i fenomeni medianici di cui molti raccontano, tanti dicono di averli visti, fotografati e ripresi, ma - sebbene immateriali per definizione – nessuno è mai riuscito a catturare dei fantasmi. Non stupisce allora, che il mito degli extraterrestri nasca proprio sulle ceneri dell’ormai spento spiritismo; non a caso, di “alieni transdimensionali” parlava il satanista-mago Alesteir Crowley detto “La Bestia 666”; così il teosofo spiritista Camille Flammarion che teorizzò i marziani e il medico bolscevico Aleksandr Bogdanov, fissato con le trasfusioni, che nei suoi romanzi scriveva di marziani-vampiri resi immortali dalla condivisione del sangue. Nel secondo dopoguerra, le sperimentazioni americane sugli arditissimi ultimi velivoli nazisti hanno fatto il resto, implementate dai filmoni anni ’70 della Hollywood  gnostica di Spielberg e Kubrik (“E.T.” e “2001 Odissea nello spazio”). Si nota, dunque che il mito extraterrestre è sempre stato cavalcato da tutti i poteri non-cristiani o anticristiani del passato e del presente. Oggi, con un darwinismo ridotto ormai sui gomiti, l’ipotesi che l’uomo sia stato creato - non da Dio - ma da alieni venuti a inseminare delle scimmie terrestri (contenti loro) si offre come radicale e perfetta alternativa alla cultura creazionista dell’Occidente cristiano. L’alieno è il perfetto Grande Architetto dell’Universo massonico-mondialista, anche perché in pochi riescono a domandarsi: “Sì, ma chi ha creato gli alieni?”. I parallelismi dell’ufologismo con un culto religioso vero e proprio sono tanti: i profeti, i “posseduti”, (ovvero i “contattisti” rapiti dagli alieni), l’attesa messianica di un paradiso promesso dall’illuminazione di questi esseri superiori, insieme all’altra paccottiglia New Age: pacifismo, ecologismo, reincarnazionismo, sincretismo etc. Ma, come in ogni cosa, anche Dio si prende la sua parte. Ci sono, infatti, altre due ipotesi su questi inspiegabili fenomeni: quella parafisica e quella metafisica. Entrambe considerano queste apparizioni nel cielo come fenomeni ingannevoli da parte di entità sottili, provenienti da un’altra dimensione. Esseri transdimensionali, o entità spirituali maligne, vorrebbero farci credere, con uno spettacolo di suoni e luci, proprio alla realtà fisica degli extraterrestri, per i motivi di cui sopra. Un inganno anticristico in cui pare ci si stia cadendo con tutti e due i piedi, tanto che, guarda caso, le pseudoreligioni ufologiche sono tutte, immancabilmente, anticristiane. Perfino la Chiesa, ormai metastatizzata dal modernismo, sta aprendo all’ipotesi extraterrestre dimenticando quanto insegna l’Apocalisse sui “segni dal cielo”. Follie misticheggianti, dirà qualcuno. Allora rettiliani e “grigi” che governano il mondo insieme a Soros sarebbero un’ipotesi di solido buon senso?

Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” il 10 settembre 2021. Se il celibato non va al sacerdote, può essere il sacerdote che va (o torna) al celibato: pochi in Spagna sembravano sorpresi dalla decisione del vescovo di Solsona, nei Pirenei, di gettare la tonaca alle ortiche. Molti sono apparsi invece sollevati. Xavier Novell, 41enne al tempo della sua nomina nel 2010 per volontà di Benedetto XVI, è stato il più giovane vescovo del Paese e uno dei più intemperanti per le sue posizioni molto personali su questioni come l'aborto, l'omosessualità, la castità sacerdotale, l'indipendenza della Catalogna. Che riuscivano nell'impresa di irritare sia i suoi superiori sia l'opinione pubblica laica, per esempio quando giudicava l'omosessualità «curabile» e risultato di un padre assente, o quando predicava l'astinenza contro la diffusione dell'Aids in Africa. Così, quando verso la fine di agosto si è dimesso per «ragioni personali», tutte le ipotesi potevano essere valide: da insanabili contrasti ideologici con i vertici della Chiesa a un'altrettanto insanabile passione per una parrocchiana. Fuochino. La pista del «cherchez la femme» non ha portato stavolta a una devota e tormentata frequentatrice di messe e vespri, ma a una brillante psicologa, divorziata e titolare di un riconosciuto talento per la narrativa erotica. Così la notizia ha superato i soliti schemi e anche i confini nazionali e sta proseguendo il suo tour intercontinentale nel solco collaudato dell'accostamento tra il diavolo e l'acqua santa. La questione è certamente più complessa: Xavier Novell Gomá, finalmente libero, non è un santo ma nemmeno un libertino. Le sue opinioni sul voto di castità imposto ai religiosi erano note da tempo: Gesù non ha mai parlato di celibato, nè la Chiesa ha espresso sentenze definitive al riguardo, però tradizionalmente si identifica «il sacerdote con Cristo: povero, casto e obbediente - argomentava in una lunga intervista a El Pais nel 2011 -. È vero che qualcuno può non sentirsi votato alla rinuncia all'affettività sessuale e, pur non avendo moglie e figli, proprio perché non si sente votato e la vive in tensione, non vive nè casto, nè povero, nè obbedientemente». Fu interpretato come un riferimento agli scandali di pedofilia, ed era esatto in quel contesto; ma era anche un messaggio alle alte gerarchie vaticane. A domanda diretta, ammise che, certo, sarebbe potuta capitare anche a lui una sbandata sentimentale: «Se un giorno incontro una donna che mi attrae per il suo modo di essere o di pensare o di fare, e suscita in me un sentimento di affetto coniugale, di innamoramento, credo che quello che devo fare e farei sarebbe di non vederla più» concluse a sorpresa. Non è noto come la sua strada abbia incrociato quella della donna che gli ha fatto cambiare idea. Qualche indizio è stato fornito da alcuni ingredienti dei romanzi di Silvia Caballol, 38 anni, sesso e satanismo, associato - quest' ultimo - all'impegno dell'ex vescovo come esorcista. Galeotta fu una consulenza letteraria? O forse si sono conosciuti a corsi di «demonologia»? Per una parte del clero, in ogni caso, c'è lo zampino di Lucifero. Il portale Religion digital ha raccolto aspre critiche degli altri prelati di Solsona. Racconta Eduard Ribera i Jovell, sacerdote di 85 anni: «Novell aveva tre ossessioni: il diavolo, l'omosessualità e il denaro». Tuttavia, lasciati la veste da pastore, sembra deciso a indossare quella poco esoterica di agronomo.

Davide Falcioni per fanpage.it il 9 settembre 2021. Al cuore non si comanda, come è noto. Per questo monsignor Xavier Novell Gomà, fino a pochi giorni fa vescovo 52enne di Solsona, in Catalogna, ha deciso di rassegnare le dimissioni dopo essersi innamorato di una donna. La notizia, di per sé, potrebbe non fare particolare scalpore visto che non è la prima volta che accade che un religioso decida di spogliarsi dell'abito talare per amore: a incuriosire stavolta è però il fatto che il monsignore ha deciso di fidanzarsi con una scrittrice di romanzi erotici a sfondo anche satanico, tal Silvia Caballol, psicologa 38enne divorziata, autrice di libri come "L'inferno della lussuria di Gabriel". La donna avrebbe fatto perdere la testa al vescovo che, particolare che rende la vicenda ancor più interessante, era noto per le sue posizioni piuttosto conservatrici. Xavier Novell era ritenuto una delle figure di maggiore spicco del mondo ecclesiastico spagnolo: fu Papa Benedetto XVI nel 2010 a nominarlo vescovo a soli 41 anni, rendendolo il più giovane della Spagna. Negli anni hanno inoltre fatto notizia le sue pratiche esorcistiche, le prese di posizione contro gli omosessuali corredate persino da proposte di "rieducazione" dei fedeli gay. Novell ha più volte espresso posizioni molto conservatrici contro l'aborto e si era schierato apertamente per l'indipendenza della Catalogna. Novell ha inviato a Papa Francesco la richiesta di dimissioni, che è stata accolta il 23 agosto, spiegandola sua scelta per “motivi strettamente personali”. Lunedì, tuttavia, il sito di notizie Religion Digital, e subito dopo altri giornali spagnoli come El País, hanno rivelato la vera ragione: il religioso si sarebbe innamorato della scrittrice spagnola Silvia Caballol. La diocesi di Solsona ha rifiutato di fornire dettagli — posizione espressa anche oggi attraverso un comunicato stampa — mentre la stampa iberica ha iniziato ad approfondire la storia pubblicando diversi dati su quella che sarebbe la nuova vita dell'ex vescovo 52enne con l'autrice 38enne di romanzi noti in Spagna per le loro trame erotiche e i temi forti. 

Xavier Novell, il vescovo sconvolge Papa Francesco: racconti erotici e satanismo? "La amo", si dimette per... lei. Libero Quotidiano il 09 settembre 2021. Una storia sconcertante sconvolge la Spagna e il Vaticano tutto. Xavier Novell, vescovo di Solsona in Catalogna, si è dimesso "per motivi personali". Il 52enne, nominato nel 2010 a soli 41 anni (il più giovane vescovo di tutta la Spagna) non ha però potuto evitare, dietro la formula molto riservata, che emergessero le vere ragioni di questa radicale scelta di vita: si è innamorato di una bella scrittrice erotica, più giovane di lui e per giunta dalle pulsioni artistiche vagamente "sataniste". Un cortocircuito in grado di imbarazzare anche chi, come Papa Francesco, in questi anni ha dovuto sopportare altri e ben più gravi scandali. Qui siamo dalle parti del pettegolezzo pecoreccio, ma la rivelazione del sito Religion Digital è effettivamente dinamitarda: la donna sarebbe Silvia Caballol, 38 anni, divorziata, psicologa e autrice appunto di chiacchieratissimi romanzi erotici. Per amore della signora, Novell starebbe ora cercando lavoro come agronomo. Mancano al momento dichiarazioni ufficiali dei due presunti amanti, anche se secondo il sito ci sarebbe un virgolettato "privato" dell'ex vescovo, che alle persone a lui più vicine avrebbe assicurato: "Mi sono innamorato e voglio fare le cose nel modo giusto". Più volte in passato Novell ha incontrato Bergoglio, anche se alcune sue posizioni ultra-liberal andavano ben oltre il messaggio pur "progressista" del Pontefice. Ad esempio, il vescovo di Solsona inquadrava l'omosessualità non come un peccato ma come "correlata a una figura paterna assente e lontana". Di certo, nel suo dossier ora spiccheranno anche i titoli dei romanzi della Caballol, tra cui l'allusivo L'inferno della lussuria di Gabriel. Tra i temi preferiti dalla bella Silvia, sadismo, follia, lussuria e perfino l'Anticristo.

Sette sataniche, sincretismo e stragi: ecco i santoni neri di Hollywood. Matteo Carnieletto e Andrea Indini il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. C'è un (lungo) filo esoterico che collega la fondazione di Hollywood e la sede del cinema internazionale. California, 1886. Il sole si infrange sulla terra, rendendola incandescente, mentre un uomo di origini cinesi spinge un carro pieno di legna. Suda e impreca per il gran caldo. All'improvviso incontra un imprenditore, Hobart Johnstone Whitley, il quale gli chiede cosa sta facendo: "I hooly-wood", risponde il carrettiere, intendendo "I'm hauling wood" (sto trasportando del legname). L'imprenditore ha un'epifania, un'irruzione del sacro nella quotidianità, che saranno una costante in questa fetta di mondo. Capisce male, o forse lo fa apposta, e decide di chiamare questo luogo tra le colline della California "Hollywood", il bosco di agrifoglio. È l'inizio di una storia nuova, in cui la luce del sole si mescola alle tenebre del satanismo e dell'occultismo. A partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, migliaia di persone si riversano verso la West Coast. Cercano l'oro. Inseguono un sogno. Vengono dalle parti più disparate del mondo e credono in fedi diverse. Ci sono protestanti e cattolici. Bianchi, indiani e neri. Litigano, a volte si ammazzano anche, ma alla fine si amalgano. Anche spiritualmente. Scrive Jesùs Palacios, autore di Satana a Hollywood (Edizioni NPE), che la California diventa "il luogo ideale per mescolanze e sincretismi, il luogo ideale perché a poco a poco la vecchia fede di indebolisse e si evolvesse in nuove credenze e superstizioni... Affinché proliferassero altresì imbroglioni, santoni, predicatori e falsi profeti". Sembra quasi che tutti si siano dati appuntamento lì. Negli anni Venti del XX secolo arriva Jiddu Krishamurti. Sopracciglia folte, occhi profondi e lineamenti da statua. Riesce ad ammaliare tutti, ma soprattutto le donne. Ottiene una rendita di cinquecento sterline l'anno. Un'enormità per l'epoca. Viene invitato a tutte le feste e incontra i personaggi più importanti dell'epoca, tra cui l'astrofisico Edwin Hubble e Greta Garbo, che rimane folgorata da lui. Più passa il tempo e più Krishamurti ottiene consensi: "Sempre radicato a Ojai e nelle vicinanze di Hollywood, avrebbe trovato di nuovo il sostegno della comunità cinematografica grazie a Mary Zimbalist, vedova del profuttore Sam Zimbalist, deceduto nel 1958 durante le riprese di Ben-Hur. Sarebbe diventata lei, a partire dal 1964, la sua principale fonte di finanziamento; gli costruì una casa nuova a Ojai, lo invitava spesso nella sua villa di Malibù e contribuiva di tanto in tanto alla sua stbailità economica, tenendo conto che il maestro fu imbranato fino alla fine dei suoi giorni in ambito finanziario". Il 17 febbraio del 1986 Krishamurti muore a Pine Cottage. Non vuole alcuna celebrazione. Sparisce per sempre. Nel vuoto. Con il passare del tempo, però, accanto all'esoterismo comincia a muoversi il culto per il demonio. Howard Stanton Lavey ne è il fondatore. Nato, l'11 aprile del 1930 a Chicago, a soli 36 anni rivela che è giunta l'Era di Satana e, in poco tempo, si circonda di un numero sempre più cospicuo di fedeli e conquista le bionde più belle di Hollywood. Dopo la seconda guerra mondiale frequenta per un breve tempo Marylin Monroe, consumata per lo più "sotto l'ombra di uno degli edifici più magici e spettacolari dell'architetto e occultista Frank Lloyd Wright a San Francisco, ispirato dall'achitettura maya e azteca del Messico dell'era precolombiana". Ma è con Jayne Mansfield che LaVey crea il legame più profondo: inizialmente l'attrice non lo considera più di tanto ma, non appena lo vede in abiti sacerdotali neri, impazzisce per lui e se ne innamora. Si dice addirittura che LaVey le abbia chiesto la mano e che l'avesse introdotta in alcuni circoli sacerdotali occulti. Accanto al satanista girano avvocati, artisti, anche agenti dei servizi segreti. Sono tutti alla sua corte e partecipano a riti terribili, fatti con candele nere e teschi umani. Nel 1968 apre la prima chiesa dedicata al culto luciferino e, qualche anno più tardi, scrive La Bibbia satanica: "L'opera - scrive Palacios - parla di invertire la morale tradizionale e fornisce una guida teorica e pratica (il libro contiene preghiere, incantesimi e cerimonie magiche) per l'uomo nuovo che dominerà il mondo del futuro, incentrata su un egoismo attivo un tantino darwinista, sul sesso libero, l'amoralità e una sorta di realismo religioso tipicamente ateo e umanista". Strane morti accompagnano la vita di Lavey e che tinteggiano, in una lunga scia di sangue, le colline della California. Ma come si è potuti arrivare a tutto questo? Secondo Michel Houellebecq, che ne Le particelle elementari, che quest'estate La Nave di Teseo ha riportato in liberia, si è dedicato a questo tema. La strada è lunga ed è indissolubilmente legata ai cambiamenti che, dopo il secondo dopo guerra, attraversarono il Vecchio continente: "Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo - si legge nell'incipit - di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia rapporti saltuari con altri uomini. Visse in un'epoca infelice e travagliata". Nel volume, lo scrittore francese analizza il legame sotteso tra la liberazione sessuale, di cui il Sessantotto si fa portatore sconvolgendo definitivamente i consumi dell'Occidente, e gli omicidi compiuti dai satanisti. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1998, è il racconto (crudo e disilluso) di due vite agli antipodi: Michel Djerzinski, biologo molecolare che spende tutta la sua vita per dare alla vita stessa un significato che sembra non esserci, e il fratellastro Bruno che, invece, cerca quel medesimo significato in un'onnivora attività sessuale devastata e devastante. Sono entrambi i prodotti di una rivoluzione culturale che ha lasciato nudo l'uomo, spogliato di una tradizione millenaria e in balìa di un voyeristico egoismo. Houellebecq accompagna il lettore per mano in un tour virtuale dentro e fuori le comunità hippy, i raduni new age, i campeggi per nudisti e i club per scambisti, che nella seconda metà del secolo scorso sono sorti in Francia. Quello che emerge è un vuoto cosmico che lascia le anime solo dinnanzi alla propria vacuità. Ma, se nel Sessantotto questa spinta emotiva, che ha portato alla disgregazione della famiglia e dei legami famigliari, viene ammantata da un'aurea di novità, sul finire degli anni Ottanta scema in una compulsiva reiterazione di canoni fallimentari che, però, sono ormai tanto permeati all'interno della nostra società da essere dati per scontati e, quindi, passivamente accettati. Finita l'euforia, che ha drogato gli anni Settanta (poi sfociati nella violenza ideologica del terrorismo), quello che rimane degli ex sessantottini è una triste "congrega" di ex ribelli (non più giovani) in cerca di emozioni ormai sciupate. E così il sesso si fa sempre più estremo e le droghe sempre più pesanti. È proprio tra gli "scarti" del Sessantotto (pochi soggetti a dire la verità) che Houellebecq intravede l'insinuarsi del germe del satanismo. Ne Le particelle elementari viene dato spazio, anche se per poche pagine, a un personaggio che sin dall'inizio appare oscuro e turpe: David Di Meola, figlio della cultura hippy che, dopo aver fallito come musicista rock, si butta prima sul sesso estremo e poi sul mercato degli snuff movie ammantandolo dei tetri simboli satanici. Il passaggio da violenza sessuale a omicidio è brevissimo. Ma sufficiente a macchiare di sangue un'intera generazione. Nel saggio Il disagio della civiltà (Feltrinelli), Sigmund Freud indaga, tra le altre cose, sul rapporto tra sessualità e morte, due concetti che la nostra mente fatica a tenere insieme. Eppure certi disvalori si sono fatti portatori di una sessualità forzata che in alcune sacche della società è accettata e condivisa (si pensi al masochismo e al sadismo), mentre in situazioni al limite sfocia negli stupri e negli omicidi rituali. Per Houellebecq questa deriva è la diretta conseguenza del materialismo più puro. Un altro figlio di questa degenerazione è sicuramente Charles Manson (venticinque anni più tardi scimmiottato dal cantante pseudo-satanista Marilyn Manson) la cui ombra sembra calare anche su alcuni capitoli de Le particelle elementari. Rileggendo la storia di Hollywood non deve affatto stupire se nel 1967, dopo aver girovagato per mezza America (dall'Oregon all'Ariziona, dallo stato di Washington al New Mexico), decide di insediare la sua Family (così venivano chiamati i suoi adepti) nella periferia di Los Angeles. Tra loro c'erano anche molte ragazze (tutte giovani, tutte molto belle). Nel romanzo Le ragazze (Einaudi) Emma Cline le descrive così: "Parevano appena ripescate da un lago [...] Stavano giocando con una soglia pericolosa, bellezza e bruttezza allo stesso tempo, e attraversavano il parco lasciandosi alle spalle una scia di improvvisa allerta. Le madri si guardavano intorno cercando i figli piccoli, spinte da una sensazione a cui non avrebbero saputo dare un nome. Le altre giovani prendevano per mano i fidanzati". Ancora una volta: eros e violenza, vita e morte. Che rimangono impregnate nella terra. "C'è gente che dice che questo posto è impregnato di una forza malefica", racconta una segretaria a John Waters mentre è in visita al ranch di Manson. Il male lì sembra non essersene mai andato. Alberga in quella terra e non se ne vuole più andare via. Del resto Charles lo accoglie, anzi lo invoca, per lungo tempo. Raduna attorno a sé un gruppo di hippy ai quali propone una nuova vita spirituale. Scrive Palacios che la "famiglia Manson" frequenta "riunioni notturne degli Angeli dell'Inferno, sette e comunità religiose piuttosto singolari come la crowleyana Loggia Solare dell'Ordine del Tempio d'Oriente (Oto) o l'orientalista Fonte del mondo, ispirata dagli insegnamenti pacidisti di Krishna Venta, che annoverava tra i suoi membri Shorty Shea, impiegato nel ranch, e una delle vittime della Famiglia, il cuio corpo, teoricamente smembrato e cosparso nel desrto, non fu mai ritrovato". Charles li fomenta. Promette loro il sangue e, infine, glielo concede. Accade tutto in una notte, quella tra l'8 e il 9 agosto del 1969: quattro suoi "figli spirituali" entrano nella casa di Sharon Tate e regista Roman Polanski. L'ordine è uno solo: "Uccidere tutti i presenti, nella maniera più macabra possibile". Così sarà. Alcuni degli ospiti verranno uccisi a colpi di coltello, altri furono freddati con armi da fuoco. La Tate chiede pietà per il figlio che ha in grembo, ma non c'è nulla da fare. È l'helter skelter - questo il nome del massacro, preso in prestito da una canzone dei Beatles - e non possono esserci sopravvissuti. Il sangue deve essere ovunque, perfino sui muri della casa. Immaginare un altro finale è difficile, ma non impossibile. Ci ha provato il re dello splatter Quentin Tarantino. C'era una volta a... Hollywood riscrive quella mattanza dandogli un altro finale. E prova a liberare Hollywood dai suoi mali. Ma è solo fiction. E Hollywood rimane quella che è.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue occidentale e Cristiani nel mirino. Con Fausto Biloslavo ho invece scritto Verità infoibate. Nel dicembre del 2016, subito dopo la liberazione di Aleppo, ho intervistato il presidente siriano Bashar al Assad. Nel 2019 ho vinto il premio Prokhorenko-Paolicchi per i miei scritti sulla Siria.  

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile.

Ritrovata la bambina rapita da un gruppo di QAnon per conto della madre. Ma chi sono gli adepti di questa setta? Le iene News il 19 aprile 2021. È stata trovata in Svizzera assieme alla madre la piccola Mia, di 8 anni. La bambina era stata fatta rapire qualche giorno fa dalla madre, vicina alle teorie del complotto di estrema destra. La donna non aveva più la custodia della figlia da gennaio scorso. Mia, la bambina francese di 8 anni rapita per conto della madre da un gruppo di estremisti di destra sostenitori della teoria del complotto di QAnon, è stata ritrovata assieme alla madre in Svizzera domenica mattina. Tre persone accusate del rapimento e due complici sono stati arrestati qualche giorno fa, dopo aver consegnato la bambina alla madre. Fino a ieri le autorità non avevano ancora trovato la mamma, Lola Montemaggi, 28 anni, e la figlia Mia. Dopo la separazione con  il marito, come riporta il Corriere della Sera, la donna si sarebbe data alla causa dei gilet gialli. L’opposizione al “sistema” sarebbe diventata per lei una ragione di vita. Ci sarebbero stati inoltre episodi di violenza nei confronti dell’ex marito, in seguito ai quali, in gennaio le era stata tolta la custodia della piccola, affidata alla nonna. Da quel momento la donna si sarebbe avvicinata sempre di più a gruppi estremisti e complottisti. Tra questi anche la setta QAnon, di cui vi abbiamo parlato nel servizio di Roberta Rei che potete vedere qui sopra. Fino a quando, martedì scorso, la donna avrebbe progettato il rapimento della figlia facendosi aiutare da uomini sostenitori delle teorie del complotto di QAnon, una allucinazione collettiva che si sta diffondendo negli Stati Uniti e ora anche in Francia. Tre uomini, esibendo documenti falsi del ministero della Giustizia, avrebbero convinto la nonna a dargli la bambina. “La bambina sta bene”, ha reso noto la procura di Nancy, e “verrà affidata alla nonna”. Mentre la madre “è in stato di arresto”. Ma chi sono gli adepti di QAnon? Come vi abbiamo raccontato con Roberta Rei, QAnon è una setta i cui sostenitori credono, tra le altre cose, che i “poteri forti” siano collusi con reti satinaste e di pedofili. Chi crede alla teoria del complotto di QAnon pensa che ci sia una guerra invisibile che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Come è iniziato tutto? Con lo scandalo delle email di Hillary Clinton pubblicate alla vigilia della campagna presidenziale del 2016. Secondo le folli teorie di alcuni siti dell’estrema destra, in quelle conversazioni ci sarebbero dei messaggi segreti legati al mondo della pedofilia e del satanismo: Hillary Clinton e il suo staff avrebbero abusato, violentato e divorato bambini in una nota pizzeria di Washington che in realtà sarebbe un ritrovo di satinasti. Seguaci di QAnon avevano avuto un ruolo anche nell’assalto a Capitol Hill. 

Alberto Fraja per “Libero Quotidiano” il 22 marzo 2021. Gilbert Keith Chesterton diceva che «chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto». È forse questa la ragione per cui nel vasto mondo proliferano religioni soi-disant, culti i più bizzarri, devozioni le più improbabili (con tutto il rispetto per chi ci crede)? A voi l'ardua sentenza. A noi l'obbligo di segnalarvi un fenomeno davvero unico nel suo genere e di cui Graziano Graziani, uno dei conduttori di Fahrenheit (programma di Radio 3), critico e autore teatrale, dà conto in un interessantissimo Catalogo delle religioni nuovissime (Quodlibet, 408 pagine, 17 euro). Di codeste credenze à la carte, l'autore ne ha censite 42 ma pare ne circolino sulle terre emerse molte, ma molte di più. A volerne cernere qualcuna non c'è che il classico imbarazzo della scelta.

PASTAFARIANESIMO. Ossia il Prodigioso Spaghetto Volante. Potremmo cominciare, per esempio, con i pastafariani, i seguaci cioè del Pastafarianesimo, una "religione" fondata nel 2005 che crede che la vita e l'universo siano stati creati da un groviglio di spaghetti che somiglia a un cervello, con due occhi e due polpette incastonate nel «corpo». Questi signori, al termine delle loro preghiere dicono «Ramen» al posto di «Amen» e adorano un essere superiore che risponde al nome di Prodigioso Spaghetto Volante (o, in inglese, Flying Spaghetti Monster). Un unico dubbio: non è dato sapere se per essere degno di venerazione il sullodato spaghetto volante vada cotto al dente o al chiodo.

I SUBGENII. C'è poi la cosiddetta Chiesa del SubGenio, movimento religioso nato negli Stati Uniti, a Dallas, nel 1953. «La Chiesa del SubGenio distingue l'umanità in due progenie, quella dei SubGenii, che possiedono lo "slack", e quella dei normali, i cosiddetti "pink", che sono semplici umani, afflitti dal cosiddetto Fattore Ovino (che tende a fare degli umani un docile gregge)», scrive Germani. I SubGenii, invece, appartengono a una razza postumana: nella fattispecie sono gli eredi dell'estinta razza degli yeti, o almeno hanno un po' di sangue in comune con loro. Ma, soprattutto, sono coloro che non si lasciano incantare dalla Grande Cospirazione. Siamo insomma al cospetto di una religione una volta tanto non destinata a un popolo di eletti ma a persone dichiaratamente anormali. Da non trascurare, e proseguiamo, la comunità dei credenti nell'Invisibile Unicorno Rosa. Questa confessione è nata il 23 aprile del 2011, domenica di Pasqua. Al posto di Gesù Cristo, tuttavia, ai suoi adepti sarebbe apparso un Unicorno. Di qui il nome della setta. C'è una pietra d'inciampo, tuttavia, che desta non poche perplessità. Come avverte Germani «l'Unicorno Rosa è per definizione anche Invisibile». Ciò vuol dire che siamo al cospetto di una evidente epifania incorporea. Un ossimoro inquietante e difficilmente spiegabile se non riconducendolo ai postumi di una complessa digestione post prandiale (da pranzo pasquale appunto) complicata da una esagerata assunzione di sostanze alcoliche. Andiamo avanti. Osserva l'autore del libro: «Praticamente tutte le religioni si basano sul principio dell'armonia. Molte hanno come fine ultimo l'estinzione del turbinìo confusionario che la vita terrena rappresenta, attraverso il ricongiungimento al Nirvana oppure venendo ammessi a godere della Gloria del Signore, che per Tommaso d'Aquino coincideva con il "motore immobile" aristotelico».

DISCORDIANESIMO. Bene. C'è una sola eccezione a tale, sempiterna aspirazione escatologica: il Discordianesimo (dalla Dea Discordia), dottrina che come principio primo della creazione pone il Caos. Fondata tra il 1958 e il 1959 da Gregory Hill, un giovane californiano allora appena diciottenne, la religione discordiana parte dall'idea che il Caos sia tutto ciò che esiste, e che tanto l'ordine quanto il disordine siano semplici invenzioni umane, delle «illusioni» che nascondono il vero principio che anima l'intero Universo. A seconda che ci si riferisca al disordine o all'ordine, si parla di «illusioni eristiche» o di «illusioni aneristiche» - termine che fa riferimento a Eris, la dea greca della discordia, appunto. A questo proposito sarebbe il caso di ricordare a mister Hill e ai suoi accoliti che anche un certo Platone (ricordate il Mito della Caverna?) già diverse dozzine di secoli fa, si era accorto che le idee e le illusioni governano il mondo degli uomini. Vabbè. Repetita juvant.

MOVIMENTO ESTINZIONE VOLONTARIA. Finiamo con il Movimento per l'Estinzione Volontaria (Vhemt in inglese, acronimo che sta per Voluntary Human Extinction Movement). «Il suo credo è presto detto - scrive Germani -: visti i continui disastri ambientali causati dall'attività degli uomini, la migliore difesa del pianeta è l'estinzione volontaria del genere umano. Questo non vuol dire che chi aderisce al Movimento, il quale peraltro ha dimensione internazionale, auspichi un suicidio di massa (troppo buoni, ndr). Tutt'altro. Il Movimento semplicemente ritiene che in questo momento storico sia meglio smettere di fare figli, poiché la Terra non è in grado di sostenere il numero eccessivo di uomini e le loro attività, che impattano sul pianeta in un modo che mai prima d'ora era stato così compromettente per l'equilibrio della biosfera». Traduzione. Cari uomini, volete che il nostro pianeta torni a essere un Eden non intossicato dall'anidride carbonica, dove tutti i suoi abitatori si vogliono bene e nei fiumi scorre latte e idromele? Dite alle vostre mogli di smetterla una volta per tutte di scodellare marmocchi. Greta Thunberg non avrebbe partorito idea migliore.

Le sette dell’Occidente e quei legami con Trump, Biden e la geopolitica. Cristiano Puglisi il 5 marzo 2021 su Il Giornale. Quali sono le sette religiose dell’Occidente? E quale è la loro influenza a livello geopolitico? Di questo argomento tratta l’ultimo numero, il 62esimo, di Eurasia – Rivista di studi geopolitici, recentemente pubblicato e che per titolo proprio “Le sette dell’Occidente”. D’altro canto esasperati ed esasperanti e per certi aspetti proprio settari sono apparsi i toni utilizzati ultimamente da alcune figure di primo piano sia del mondo politico che religioso occidentale. Un esempio è quello delle lettere inviate, nel giugno e poi nell’ottobre del 2020, da monsignor Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico della Santa sede negli USA, all’allora presidente americano Donald Trump. Lettere in cui si parlava, in relazione al ben noto, per chi segue questo blog, disegno di un “Grande Reset”, di uno scontro tra i “figli della Luce” e “figli delle Tenebre“, questi ultimi identificati con la fazione globalista sostenitrice di una svolta digitale ed ecologica sulla scia della pandemia da Covid-19. Toni apocalittici, così come apocalittica, spesso, è apparsa la comunicazione di parte dei sostenitori dell’imprenditore di New York, riuniti attorno a sigle quali “Qanon“. “La propaganda trumpista – spiega il direttore di Eurasia, il professor Claudio Mutti – non ha fatto altro che rinverdire e rilanciare il motivo dello scontro fra i figli della Luce e i figli delle Tenebre, che è un leit motiv ben radicato nella mitologia politica statunitense. ‘The Children of Light and the Children of Darkness’, infatti, è il titolo di un pamphlet scritto nel 1944 da un teologo riformato per rappresentare il duello esistenziale fra gli Stati Uniti e l’Europa. Il tema era d’origine biblica, ma aveva già avuto ampia circolazione grazie alla Theosophical Society (fondata nel 1875 a New York) ed alla produzione letteraria del celebre mago Aleister Crowley, che si era stabilito a New York alla vigilia della prima guerra mondiale. Anche la formula del ‘grande risveglio’, presentata dai trumpisti americani e da ambienti filotrumpisti europei come l’idea-forza alternativa al progetto globalista del “grande ripristino”, ha avuto origine nell’ambiente settario nordamericano. Già nel XVIII secolo il pastore Jonathan Edwards, richiamando la ‘nuova Israele’ americana al patto stipulato con Jahvè, con le sue prediche infuocate aveva scatenato in tutta la Nuova Inghilterra un’ondata di fanatismo millenarista: il movimento del Great Awakening (cui seguirono un secondo, un terzo ed un quarto ‘Grande Risveglio’)”. Nel nuovo numero di Eurasia il focus, in particolare, è sugli Stati Uniti d’America. In effetti proprio fin dalle sue origini, su quella che è considerata “la più grande democrazia del mondo” e la patria della tecnica, le sette sembrano sorgere senza posa. Naturale, quindi, ipotizzare un qualche legame con il protestantesimo. “Principio fondamentale del luteranesimo – osserva Mutti – è il libero esame delle Scritture, unica fonte e unica norma della fede. È inevitabile che la facoltà attribuita al singolo credente di interpretare le Scritture ed il rifiuto di un magistero religioso imposto dall’esterno diano origine ad una pluralità di dottrine divergenti tra loro. Ma più che in Europa, questa concezione individualistica, antiautoritaria ed antigerarchica trovò l’ambiente ad essa conforme in quella ‘dimora della libertà’ (l’America) che Thomas Jefferson contrapponeva alla ‘dimora del dispotismo’ (l’Europa, per l’appunto). In un ambiente privo di storia e di tradizioni, dove le popolazioni autoctone potevano essere tranquillamente sterminate, il protestantesimo poté liberamente sviluppare la sua congenita tendenza al frazionismo e produrre quella moltitudine di ‘denominazioni’ confessionali che caratterizza il panorama religioso statunitense”.

Sette di natura confessionale, dunque, che, come anticipato, hanno una rilevanza geopolitica. “È stato osservato – prosegue il direttore di Eurasia –  che i più diffusi ‘nuovi movimenti religiosi’ – come vengono pudicamente chiamate molte sètte, dai Mormoni a Scientology – sono nati per lo più negli Stati Uniti, mentre altri gruppi settari, sorti in Europa o in Asia, accrescono la loro influenza dopo l’approdo americano dei loro ‘maestri’. È questo il caso dell’Associazione Internazionale per la Coscienza di Krishna, della setta del Reverendo Moon, degli ‘arancioni’ di Rajneesh o di qualche branca degenere dell’esoterismo islamico. La rilevanza del fenomeno settario sotto il profilo geopolitico risulta evidente quando si consideri che l’influenza esercitata dagli USA ha spesso come suo tramite le sètte sorte negli Stati Uniti o coltivate da ambienti politici statunitensi. In seguito alla vittoria elettorale di Bolsonaro (che si è fatto battezzare nelle acque del Giordano secondo una cerimonia evangelicale ed ha assunto il nome di "Messias") "Eurasia" ha pubblicato uno studio sull’influenza predominante esercitata in Brasile dalla setta evangelicale, nata dal "Grande Risveglio" (Great Awakening) nordamericano. Ma un’influenza analoga della medesima setta è riscontrabile negli Stati Uniti stessi, dove a suo tempo Trump fu benedetto da pastori evangelicali e venne presentato come un messia, o come un "nuovo Ciro" che avrebbe liberato il popolo d’Israele, ossia i ‘veri cristiani’ americani, dalla cattività babilonese”. L’attuale presidente Joe Biden si definisce cattolico. Eppure anche nel suo caso non mancano relazioni con il mondo settario. “Nel 2014 – conclude Mutti – partecipando in qualità di vicepresidente degli USA all’accensione della Menorah Nazionale ed esaltando ‘l’eredità ebraica, la cultura ebraica, i valori ebraici’ come parte essenziale dell’identità statunitense, Joe Biden si richiamò esplicitamente all’insegnamento del rabbino Menachem Mendel Schneerson, capo della setta Chabad Lubavitch, alla quale augurò: ‘May you all go from strength to strength’. D’altronde la setta dei Lubavitcher annovera diversi seguaci negli ambienti politici statunitensi. Nel 1983 il Congresso e il Presidente degli Stati Uniti insignirono il rabbino Schneerson della Decorazione Nazionale d’Onore e decretarono che il giorno della sua nascita venisse proclamato ‘Education and Sharing Day’. Nel 1994, nel giorno anniversario della Dichiarazione Balfour (2 novembre), le due camere degli Stati Uniti approvarono all’unanimità l’assegnazione postuma a Rebbe Schneerson della Medaglia d’Oro del Congresso degli Stati Uniti d’America, riconoscendo i suoi ‘straordinari contributi all’educazione mondiale, alla moralità e le sue importanti azioni di carità’. Alla cerimonia della Medaglia il Presidente Bill Clinton dichiarò: ‘L’eminenza dello scomparso Rebbe quale guida morale della nostra nazione è stata riconosciuta da tutti i Presidenti a partire da Richard Nixon’. Sulla scia dei suoi predecessori, l’attuale presidente americano può vantare una familiarità di vecchia data coi Lubavitcher. Già nel 2008 David Margules, presidente del Chabad Lubavitch del Delaware, espresse in questi termini l’entusiasmo della setta per le posizioni filosioniste di Biden: ‘He has developed the reputation for being a strong supporter of Israel'”.

·        Scientology.

«Paga e ti risolvo i problemi»: ecco come Scientology cerca nuovi adepti. Luca Scarcella su L'Espresso il 22 settembre 2021. Attirati da un finto evento al Celebrity Centre di Los Angeles: test della personalità e grandi promesse per unirsi alla religione di Tom Cruise. Una testimonianza in prima persona. «Il test dice che sei depresso, instabile e poco concentrato: così non riuscirai a raggiungere i tuoi obiettivi. Quanti soldi hai con te? Per 75 dollari il nostro corso ti aiuterà a superare i problemi». Queste le parole ascoltate, pronunciate da un giovane funzionario di Scientology, in una serata particolare. Scientology è il movimento religioso fondato nel 1954 da Lafayette Ron Hubbard, ma a Los Angeles è qualcosa in più. Rappresenta una via sfavillante per centinaia di giovani attrici e attori, sbarcati a Hollywood da tutto il mondo, incantati dalla promessa di realizzare i propri sogni, abbandonando finalmente i turni nei ristoranti per arrivare a fine mese. Nella città californiana stavamo conducendo un’indagine sulla creatività, intervistando artisti di ogni tipo. Così, ci imbattemmo nell’annuncio Facebook di un evento: un workshop tenuto da un importante regista al Manor Hotel, su Franklin Avenue, a circa 1 chilometro dalla celebre Walk of Fame di Hollywood. Arrivammo a destinazione con un po’ di anticipo, accolti ai cancelli da una giovane donna che ci scortò nella hall. Lì iniziò la serata che non ci aspettavamo. Capimmo subito di trovarci in un centro Scientology: oltre alle insegne tutt’altro che sobrie (questo è il Celebrity Centre!), scaffali pieni di libri - in vendita - a firma del fondatore della Chiesa amata da Tom Cruise  e schermi alle pareti che pubblicizzavano le attività del movimento. Un ragazzo, sulla trentina, ci portò in una stanza, spoglia di qualsiasi arredamento al di fuori di due scrivanie, con sveglie, fogli e penne. Ci disse che prima dell’evento avremmo dovuto compilare un questionario, un test della personalità, in un tempo prestabilito. Avviò le sveglie e lasciò la stanza. «Scientology avvicina i potenziali nuovi membri attraverso la somministrazione gratuita del "test della personalità" (Oxford Capacity Analysis, ndr) finalizzato a descrivere lo "stato vitale" del rispondente e a identificare i punti di forza e debolezza della sua personalità» - spiega Nicola Pannofino, ricercatore e professore di sociologia all’Università della Valle d’Aosta, che con il professor Mario Cardano ha trattato Scientology nel libro “Piccole apostasie. Il congedo dai nuovi movimenti religiosi”, edito Il Mulino. Il test - disponibile anche sul sito di Scientology dopo registrazione gratuita - è composto da 200 domande, che vanno dall’innocua "Canti spesso o fischietti?", alla stranamente specifica "Ti capita di avere spasmi muscolari occasionali senza motivo apparente?". Finito il questionario, veniamo informati sul workshop: cancellato, il regista ha avuto un contrattempo. Ci divisero e portarono in altre stanze per analizzare le risposte al test, processate da una macchina che come risultato propone un grafico. «Come può notare anche lei, ci sono molti picchi verso l’alto, e altrettanti verso il basso: questo significa che non ha una vita stabile, e soffre spesso di depressione - spiegò con pacatezza il giovane adepto del movimento -. Ha dei contanti con sé? Il nostro corso sulla personalità costa solo 75 dollari, e grazie a esso non avrà più problemi di questo tipo, centrando finalmente i suoi obiettivi e realizzando ogni suo sogno». Il corso di cui parla si chiama Dianetics, soluzione a tutti i deficit e carenze riscontrati col test sulla personalità: «In questo modo, Scientology mostra la sua duplice natura, terapeutica e religiosa: da un lato si presenta infatti come organizzazione che offre servizi e metodi pratici per lo sviluppo del potenziale umano, con la vendita di corsi che il neofita può acquistare in base alle proprie esigenze per migliorare, per esempio, le abilità comunicative, le relazioni interpersonali, le performance di studio e di lavoro - spiega il professor Pannofino -. Dall'altro lato, man mano che il praticante avanza nel percorso previsto dalla Chiesa, detto "Ponte verso la libertà totale", impara a conoscere gli aspetti strettamente spirituali di Scientology, accedendo agli insegnamenti di tipo esoterico, ai miti e ai rituali su cui è tenuto a mantenere il segreto».  Dopo circa due ore, tra test e tentata vendita di corsi e libri, ecco una nuova sala con una signora, sui sessant’anni, che si è presentata come assistente del regista che avrebbe dovuto tenere il workshop. Qui la conversazione si è fatta più amicale, discutendo di lavoro e vita privata, e di come Scientology poteva aprire ogni porta, dalla carriera alle relazioni sentimentali. «Sono stati molto abili nell’affiancarci e dedicarci moltissimo tempo, facendoci sentire importanti e ascoltati - racconta Matteo di Pascale, co-fondatore della casa editrice indipendente Sefirot, che era con noi in Scientology -. Con questo approccio è normale che in una città come Los Angeles abbiano enorme successo». Dopo tre ore, e i nostri ripetuti “no, grazie”, finalmente uscimmo dall’hotel.

Carlo Nordio per “Il Messaggero” il 20 marzo 2021. Centodieci anni fa, il 13 marzo 1911, nasceva a Tilden, nel Nebraska, Lafayette Ronald Hubbard, meglio noto come Ron Hubbard, il fondatore di Scientology: una dottrina che, nella progressiva scristianizzazione della civiltà occidentale, ha introdotto un surrogato di religione accattivante e tentacolare.

LA CONVERSIONE. Ha convertito centinaia di migliaia di adepti (tra cui molte star del calibro di Tom Cruise e John Travolta), ne ha ricevuto somme immense con versamenti più o meno spontanei, e si è scontrata con la Giustizia di mezzo pianeta. Le accuse si fondavano sempre su un concetto: la subordinazione della mente del neofita alla volontà del precettore. Da qui le varie imputazioni di truffa, circonvenzione d'incapace, violenza privata, esercizio abusivo della professione, pubblicità ingannevole ecc ecc. Tra assoluzioni e condanne son fiorite le polemiche sul carattere religioso del movimento, soprattutto a fini fiscali, perché in molti Stati le proprietà delle Chiese godono di agevolazioni tributarie. Nel frattempo Scientology non ha conquistato la terra, come auspicava il fondatore, ma non è nemmeno sparita. In Italia si calcola che abbia alcune migliaia di affiliati. Difficile individuare, e soprattutto riassumere, i caratteri di questa filosofia. In sintesi, essa si propone di attuare un clearing, cioè una pulizia dell'anima, attraverso un'educazione progressiva sotto la regia di un maestro. Peccato che queste sedute siano costosissime, e spesso orientate a ottenere dall'adepto la cessione parziale o totale dei propri beni. È stato questo depauperamento a orientare molti parenti a rivolgersi ai tribunali per bloccare l'allarmante emorragia.

LE FAMIGLIE. Ma nemmeno l'aspetto psicologico va sottovalutato. Le famiglie hanno lamentato il cambiamento, spesso convertitosi in ostilità, del congiunto assorbito da questa nuova pratica mentale, e parecchi matrimoni sono naufragati. A queste accuse Hubbard e compagni hanno risposto, e uno scettico potrebbe concordare, che questo è l'effetto di tutte le nuove fedi, più o meno ardite, più o meno escatologiche. Il Cristianesimo lacerò migliaia di famiglie, e secondo Gibbon contribuì in modo determinante alla caduta dell'Impero romano. Il marxismo, nella sua visione apocalittica, fece la stessa cosa. Quanto ai tribunali, anch'essi si sono comportati, nei secoli, in modo difforme. Plinio il Giovane, sia pur con la riluttanza ispiratagli dalla sua mitezza e con la cautela suggeritagli da Traiano, spediva gli irriducibili cristiani al patibolo per il solo rifiuto di sacrificare all'Imperatore, e l'Inquisizione mandava gli eretici al rogo anche senza addebiti specifici. La tolleranza religiosa è figlia dell'Illuminismo, ma nipote dell'incredulità. Quanto a Scientology, negli Stati Uniti, il giudice Breckenridge, al termine di un lungo processo, definì l'organizzazione «decisamente schizofrenica e paranoica, una bizzarra combinazione che sembra essere un riflesso del suo autore, un bugiardo patologico». In Italia, forse per la minore diffusione della setta, le sentenze sono state più blande, salvo i casi conclamati di abusi o raggiri. Hubbard morì il 24 gennaio 1986, in circostanze mai del tutto chiarite. I suoi affiliati proclamarono che «aveva deliberatamente lasciato il suo corpo per svolgere ricerche spirituali al più alto livello». Ma le denunce continuarono.

IL GIUDIZIO. A parte l'aspetto giuridico, il giudizio su Scientology riflette, come sempre, i pregiudizi di chi lo esprime. Chi si vede sottrarre l'affetto di un parente o un'allettante aspettativa ereditaria, lamenterà il plagio o magari la violenza di una intrusione da parte di spregiudicati accaparratori. Il convertito, oltre a invocare la libertà di scelta, vanterà il seducente privilegio di una riconquistata elevazione spirituale. L'incredulo, a sua volta, citerà le fantasie di un'immaginazione vagabonda, e trarrà dal suo bagaglio erudito gli esempi più significativi: Seneca credeva nella divinazione, Plinio il Vecchio derideva i miracoli degli dei ma raccomandava il coito contro la raucedine, la lombaggine, e la vista debole, aggiungendo che in Lusitania le cavalle sono fecondate dal vento dell'Ovest, e che sotto il consolato di Acilio piovvero latte e sangue. Una persona di buon senso non cadrà in nessuno di questi tranelli. Conoscendo i ristretti limiti della nostra ragione, e le sterminate distese della nostra emotività, tenderà piuttosto a spiegare la nascita di queste singolari teorie. In realtà ci sono sempre state. La concezione di un'anima preesistente, la cui purezza sia stata degradata dalla sua carcerazione corporea, e possa esser riconquistata con un procedimento di decantazione catartica è vecchia di millenni. Noi la conosciamo attraverso Platone, nella purezza della prosa attica, ma in realtà nasce nella torbida misteriosofia persiana e forse caldea. Essa contaminò anche il cristianesimo: nel secondo secolo il movimento gnostico fu un precursore, anche nel nome, della Scientology che letteralmente significa, come la gnosi, scienza della conoscenza. I padri della Chiesa ne intuirono il pericolo, e reagirono con Ireneo, Clemente e Tertulliano alle stravaganze di Carpocrate, di Valentino e di Marcione, che predicavano teorie non molto diverse da quelle di Ron Hubbard. Qualcuno di questi eretici esagerò, e sconfinò nella licenza sessuale: anticipando Oscar Wilde, Isidoro, figlio di Basilide, sosteneva che se non riesci a pregare perché sei distratto dagli impulsi carnali devi darvi immediata soddisfazione, «per poterti poi accostare a Dio con animo lieto». Molti santoni oggi predicano le stesse cose: non c'è nulla di nuovo sotto il sole.

L'ORDINE. A quel tempo, uno dei meriti della Chiesa fu proprio quello di metter ordine in quelle sfrenate fantasie. Il culto dei santi non fu affatto, come sostennero gli illuministi, un alimento alla superstizione, ma piuttosto una forma di controllo al caotico sincretismo di mitologie grezze e di suggestioni enfatiche. Poiché, come tutti sappiamo, ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne conosca la nostra filosofia, ognuno di noi, soprattutto nel momento del bisogno o della disperazione è tentato di affidarsi a forze superiori. In modo efficace, Churchill disse che in certi momenti anche gli atei pregano. E in effetti, durante l'invasione nazista, le chiese moscovite si riempirono anche di militanti leninisti. Sfruttando queste fragilità, Scientology ha spesso superato l'incerto confine tra la soccorrevole comprensione delle nostre debolezze e il loro sfruttamento ingannevole. Dimostrando il detto attribuito a Chesterton che chi smette di credere in Dio, finisce per credere a tutto.

·        Confucio.

Anniversario della nascita. Intervista a Amina Crisma: Confucio e la fratellanza, una lezione di garantismo. Giulio Laroni su su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Il 28 settembre si festeggia tradizionalmente la nascita di Confucio (551 a. C. – 479 a. C.). Nel corso di 2500 anni di storia il suo pensiero ha dato forma a molteplici interpretazioni e riformulazioni. La vulgata lo identifica spesso con una concezione del mondo reazionaria, antidialettica, fortemente gerarchizzata. Ma ad un esame più attento esso rivela un’inaspettata tensione umanistica, avversa al totalitarismo e alla reificazione. Ne parliamo con la sinologa Amina Crisma, docente di Filosofie dell’Asia Orientale presso l’Università di Bologna, che di Confucio è una delle più importanti e apprezzate studiose italiane. Il pensiero confuciano, e il mondo cinese in generale, sono considerati nell’immaginario comune come l’espressione dell’alterità per antonomasia. I suoi studi ci restituiscono tuttavia uno scenario diverso: dai gesuiti di Matteo Ricci, a Voltaire, a Brecht, il confucianesimo compie da secoli un fecondo dialogo interculturale con il pensiero occidentale. È vero, in genere si enfatizza eccessivamente l’alterità della Cina, come se si trattasse dell’esotica estraneità di un pianeta alieno – e paradossalmente questa percezione sembra accentuarsi, invece di ridursi, quanto più la Cina ci si avvicina in questo sistema-m ondo globalizzato. Questa tendenza rientra in una più generale propensione a rappresentare le culture come entità monolitiche e reciprocamente estranee, e non invece come costruzioni mutevoli e reciprocamente interagenti. Non si tratta di misconoscere l’indubbia originalità di quella che Jacques Gernet chiama l’intelligence de la Chine; ma va tenuta al contempo ben presente, accanto alla pluralità irriducibile, la sostanziale unità della famiglia umana: un’unità che gli stessi Dialoghi di Confucio provvedono a rammentarci: “Tutti entro i Quattro Mari sono fratelli”. Confucio è oggi esibito come icona identitaria dagli oltre 500 Istituti che propagano ufficialmente nel mondo la lingua e la cultura cinese; e tuttavia il suo nome stesso è frutto di un incontro interculturale: è una latinizzazione operata nel XVII secolo dai gesuiti, ai quali si deve la prima mondializzazione del “confucianesimo” secondo categorie destinate a orientare in seguito non solamente la cultura europea, a partire da Voltaire, ma le stesse reinterpretazioni moderne e riformiste che ne saranno attuate in Cina. “Se tu governi – afferma Confucio nei Dialoghi – a che serve uccidere? Desidera il bene e il popolo sarà buono.” Questa visione negativa della pena di morte e della violenza è, specie nei tempi arcaici in cui viene formulata, assolutamente rivoluzionaria. È opportuno sottolineare la radicalità di questo enunciato, in cui risuona intensamente un’istanza di mansuetudine, di rifiuto della violenza: c’è qui il sogno di un governo mite, capace di governare tramite la propria pura esemplarità, c’è l’ideale di una comunità umana che sia legata da vincoli di affettuosa sollecitudine, e non dalla costrizione e dal timore. In questo, il magistero confuciano si distanzia nettamente dalla scuola legista (fajia) sua rivale, che è invece fautrice di un ordine fondato su una spietata disciplina; ma con essa finirà poi per venire a patti quando si tratterà di costruire concretamente le ferree istituzioni dell’impero centralizzato. Dall’età imperiale in poi, il confucianesimo diviene campo di tensioni fra una tendenza autoritaria e l’esigenza di sottoporre la condotta del potere a vigile critica, in nome del senso dell’umanità e della giustizia (renyi). Quest’esigenza si esprime nell’esercizio della rimostranza, che è stato praticato con coraggio nel corso dei secoli da innumerevoli letterati/funzionari, e che oggi non appare per nulla inattuale. Ad esempio, mi sembra pienamente nel solco di questa tradizione squisitamente cinese, oltre che in quello delle tradizioni liberaldemocratiche occidentali, la recente protesta di studiosi di tutto il mondo in nome della libertà di ricerca contro le sanzioni irrogate dal governo della Rpc nei confronti di ricercatori, istituti di ricerca e parlamentari della Ue: se ne è parlato su Inchiestaonline.it.

Il concetto confuciano di “ren”, il senso di umanità, si potrebbe mettere in relazione con quello che per i cristiani è il comandamento dell’amore. Che cos’è esattamente il “ren” e che implicazioni ha per il pensiero confuciano?

Ren, il “senso dell’umanità” è “amare gli esseri umani”, un atteggiamento che tutti include, e che prescrive l’adesione alla regola aurea: “non fare agli altri ciò che non vorresti per te”. Si fonda su un profondo sentimento di solidarietà e di empatia con l’umana ecumene, e ci parla, per dirla con Simone Weil, dei nostri doveri e delle nostre responsabilità verso le creature umane. Quest’universalità peraltro non si definisce in rapporto a un astratto “prossimo”, ma si declina nella concretezza di ruoli specifici, familiari e sociali: riveste dunque una duplice dimensione, globale, e insieme circostanziale e determinata, e potrebbe quindi costituire un buon modello di “universale concreto” su cui riflettere nell’odierna ricerca di un consenso etico fra culture. In Occidente siamo oggi abituati a contrapporre esteriorità e interiorità, forma e sostanza: il rito viene visto spesso come una pratica artificiosa, puramente meccanica. Allo stesso modo l’etica borghese identifica tipicamente la cortesia con la finzione e la brutalità con la sincerità. Che cosa avviene invece nel pensiero confuciano? Il ritualismo confuciano non è estrinseco formalismo: è l’espressione coerente di ren sul piano dei comportamenti, è la piena manifestazione di un profondo sentimento di rispetto e di benevolenza per i propri simili, la cui sincerità è molto più importante “dello splendore della giada e del luccichio della seta”. Tramite i riti, le emozioni conseguono misura e armonia, si traducono in bellezza, si rendono comunicabili e condivisibili in un irrinunciabile spazio simbolico collettivo (e di quanto sia doloroso privarcene, ci hanno resi purtroppo edotti questi mesi di pandemia). È interessante il modo in cui il confucianesimo tematizza il rapporto tra fratellanza e legge. Un giorno qualcuno disse a Confucio: “Da noi c’era uno detto Gong l’Onesto. Suo padre aveva rubato una pecora ed egli testimoniò contro di lui”. “Da noi – gli rispose il filosofo – l’onestà è un’altra cosa.” La dimensione umanistica del confucianesimo, almeno secondo una certa linea interpretativa, è forse anche qui: la fratellanza può essere al di sopra della legge. Ciò naturalmente non nel senso di un’omertà criminale, mafiosa, ma nel senso di quella celebre scena di American Gigolò: “Perché l’hai fatto?” “Non avevo scelta. Io ti amo”. Condivido questa riflessione, che mi sembra cogliere molto bene il senso di questo primato confuciano della filialità (e va da sé che gli esponenti della scuola legista sopra ricordata erano, ovviamente, di tutt’altro parere). Mi pare che giovi opportunamente a ricordarci che senso di umanità e senso di giustizia (renyi) non dovrebbero percorrere strade separate. Giulio Laroni

·        Buddha.

“Il maestro” di Mariano Lamberti. Nichiren come Cristo, iconoclasta del buddhismo. Filippo La Porta su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Chi non si è imbattuto almeno una volta nella pratica buddhista del nam-yoho-renge-kyo – il titolo in giapponese del Sutra del Loto – , o non ne ha fatto diretta esperienza, sia pure passeggera? Il movimento – in Italia raggiunge quasi 100.000 adepti (in Giappone 8 milioni) – può contare tra l’altro su vari testimonial d’eccezione, da Baggio a Sabina Guzzanti, e negli Stati Uniti rockstar, jazzisti, attori….(lo so, è desolante parlare ogni volta dei cosiddetti Vip, ma solo per dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno). Tale pratica è fondata sull’insegnamento di Nichiren Daishonin, un monaco vissuto in Giappone nel XIII secolo – il periodo in cui da noi nasceva la lirica cortese, san Tommaso insegnava teologia a Parigi, e san Francesco parlava con gli animali – , e capace di rileggere la dottrina tradizionale buddhista in chiave iper-laica, per quei tempi “sovversiva”. Qualcuno parla anche di un buddhismo eretico, perché – paradossalmente – sembra rovesciare l’assunto della dottrina: non liberarsi dai desideri, dalla loro dipendenza, ma far leva sui desideri, nostro principale combustibile, per trasformarli alchemicamente. Il contrario dello zen! A proposito di questo approccio – a tratti spaesante – le opinioni sono svariate e in conflitto tra loro. Ora, senza fingere una competenza che assolutamente non ho, vorrei però suggerire la lettura de Il maestro (Giulio Perrone Editore) di Mariano Lamberti – biografia in forma di romanzo di Nichiren – come onesta, documentata introduzione a quell’approccio. Lamberti riprende il personaggio – reale – di un giovanissimo discepolo di Nichiren, che conobbe il suo maestro quando aveva appena 13 anni – Hokibo, poi Nikko Shonin – e ne racconta in prima persona le vicende, con accuratezza e amore devoto. Subito si notano alcune analogie con la vita di Gesù. Attitudine all’ascolto e piglio estremista. Nichiren attacca in modo radicale la tradizione e la rilegge in modo innovativo, per estrarne il nucleo secondo lui più genuino. Critica le varie correnti di buddhismo, penetrate in Giappone dalla Cina 700 anni prima, per la loro astrattezza formalistica. Colpisce il suo afflato democratico, inclusivo. Mentre spesso il buddhismo tradizionale si risolve in un culto selettivo e per pochi lui s rivolge a tutti, vuole convertire sia i samurai che la gente più umile. Come Cristo viene considerato un iconoclasta – elimina le statue di Buddha dai luoghi della preghiera e della liturgia – , un pericoloso sovversivo, un esaltato e un folle. Perciò è perseguitato, calunniato, screditato e infine condannato a morte, per decapitazione. Ma, al contrario di Cristo, qui il miracolo avviene prima dell’esecuzione (una luce improvvisa dal cielo) e non dopo la morte (la resurrezione). Nichiren, pur disdegnando il potere e qualsiasi ruolo istituzionale, aveva una sensibilità “politica”, nell’accezione più ricca del termine (interesse per il bene comune), e in varie occasioni diventò “consigliere del Principe” dando consigli preziosi alla classe dirigente del suo paese (visse in un periodo turbolento, con due invasioni di mongoli, poi respinte). La principale differenze con il cristianesimo consiste in ciò: Cristo ti dice che puoi salvarti se credi in lui, Nichiren invece si appella alla buddhità, alla parte divina, racchiusa in ciascuno, che occorre risvegliare attraverso l’abitudine sistematica alla cosiddetta “pratica” (la recitazione del Sutra del Loto, come un mantra). Nella storia cristiana potrebbe essere accostato all’eretico Pelagio, convinto che l’essere umano si salva da solo, senza l’aiuto della grazia. Di fronte alla morte Nichiren ha una duplice reazione: prima ne è angosciato (ama la vita, le feste, andare in barca, la convivialità) poi però sente di morire per il mondo intero (Cristo?) e si convince che la propria morte serve a risvegliare una moltitudine di bodhisattva. Il libro di Lamberti è un atto di amore e una accurata ricostruzione. La lingua è quella semplice, disadorna di un monaco medievale, che solo a tratti si trova ad adoperare immagini poetiche: “la mia angoscia svanì come i petali di un fiore presi nelle spire de vento, e mi sciolsi in un mare di lacrime”. L’unica obiezione che si potrebbe fare al libro, ma ovviamente va oltre il libro stesso, riguarda la enorme difficoltà di tradurre testi religiosi o sapienziali appartenenti a culture distanti, senza perdere l’incanto dell’originale. I versi qui riprodotti di Nichiren, le sue frasi celebri, somigliano a un catechismo senza vita, ridotto a formule cerimoniali. Insomma: se devo leggere il resoconto di una esperienza mistica – come qui la “vetta della perfetta illuminazione”, quando tutto diventa la “Terra della Luce Tranquilla”) – allora pretendo il XXXIII canto del Paradiso, o anche il meraviglioso “Cantico delle creature” di san Francesco. Lì trovo una forma adeguata al contenuto, e cioè l’equivalente verbale – capace di emozionarmi – di una esperienza interiore unica e vertiginosa. Mentre nei versi tradotti di Nichiren (oltretutto dall’inglese) – e lo dico con tutto il rispetto possibile – non sento alcuna vibrazione. Ma, ripeto, Lamberti non è responsabile di una delicatissima questione di mediazione culturale. Resta un libro appassionato, simpatetico con la sua materia, scritto con una prosa anch’essa “devota”, giustamente priva di ammiccamenti e preziosismi – che almeno per il periodo della lettura ci trasferisce in un universo lontanissimo, per noi lievemente onirico, quasi intangibile, facendocene percepire i sapori terrestri, gli umori, la sensibilità spirituale, le visioni. C’è invece una pagina che conserva miracolosamente intatta la qualità poetica dell’insegnamento di Nichiren: il “maestro” spiega che le piante manifestano la loro natura illuminata quando ci danno riparo con l’ombra nei periodi di sole. Qui l’immagine fiabesca trascende qualsiasi mediazione linguistica. Potremo dire allora che il libro di Lamberti estende la sua ombra a “riparare” il lettore attuale, distratto dai troppi messaggi di una contemporaneità invasiva, ed impegnato a immergersi nella verità di un messaggio consegnato molti secoli fa da un monaco ribelle. Filippo La Porta

·        Il Vaticano e gli Ebrei.

"Quella conclusione va ripudiata". Le frasi del Papa sulla Torah diventano un caso. Francesco Boezi il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. Alcuni rabbini israeliani hanno chiesto spiegazioni al Papa per alcune frasi sulla Torah. Perché la vicenda è così delicata. La questione è delicata, se non altro perché può arrivare a sfiorare i rapporti tra la confessione cristiano-cattolica e quella ebraica: la lettera che alcuni rabbini israeliani hanno inoltrato al cardinale Kurt Koch, svizzero e conservatore, è di sicuro arrivata pure sui principali tavoli della Santa Sede, dunque su quello del Papa. Si tratta di una missiva in cui alcuni vertici religiosi ebraici domandano qualche perché e magari qualche aggiustamento di rotta. L'oggetto dell'attenzione dei rabbini è costituito da alcune frasi pronunciate da papa Francesco. Dichiarazioni - quelle del Santo Padre - che riguardano la Torah, che non è un argomento di secondo piano. Può essere presentata una premessa: Jorge Mario Bergoglio è il pontefice del dialogo interreligioso. Sin da quando è stato eletto sul soglio di Pietro, l'ex arcivescovo di Buenos Aires si è distinto per la continua ricerca di una dialettica con gli ortodossi, con i protestanti, con i musulmani, con gli ebrei e così via. Tanto dialogante, il Papa, da essere etichettato dai tradizionalisti come fautore di una "religione universale". Insomma, il gesuita non passerà alla storia come un teorico dei confini ostruzionistici tra credi. E di grosse polemiche derivanti da rapporti tra autorità religiose e tematiche interconfessionali, sino a questo punto del pontificato, non ce ne sono state. Sono stati i cattolici cosiddetti tradizionalisti, semmai, a criticare Francesco per le sue aperture da quando è succeduto a Joseph Ratzinger o quasi. E sempre i cattolici tradizionalisti, di tanto in tanto, hanno rimarcato con perplessità alcuni aspetti relativi al rapporto dottrinale tra il pensiero di Bergoglio e la Legge. Questa vicenda della lettera firmata pure dal Rabbino Rasson Arousi, che non è un interlocutore di poco peso, però, è diversa: non è una vera e propria critica. Cercando una definzione corretta, si direbbe che da Israele è giunto una sorta di atto formale tramite cui si domanda a Bergoglio di chiarire alcuni punti relativi al valore ascritto alla Torah di recente. Le frasi su cui i rabbini hanno posto degli accenti sono state riportate da Repubblica. Tra queste, anche il passaggio in cui il Papa afferma che "La Legge non è alla base dell'Alleanza perché è giunta successivamente, era necessaria e giusta ma prima cera la promessa, l'Alleanza". Poi ne vengono citate altre di affermazioni, tra cui quella in cui Bergoglio dice che "la Legge però non dà la vita, non offre il compimento della promessa, perché non è nella condizione di poterla realizzare. La Legge è un cammino che ti porta avanti verso l'incontro". Tra le interpretazioni di quella catechesi del Papa (era la prima metà di agosto), può essercene una che può vertere sul ridimensionamento della Torah in chiave storico-simbolica e non solo. E i rabbini dal canto loro, nella lettera, annotano come il Papa, per mezzo delle considerazioni esposte, asserisca che la Torah "non" dia "più vita" e che questo comporti "che la pratica religiosa ebraica nell'era attuale" sia "obsoleta". In estrema sintesi, chi ha sottoscritto la missiva indirizzata al cardinal Koch pensa che un filone di questa tipologia catechetica - quella che sarebbe stata assecondata dalle pronunce di Francesco - possa rappresentare - come riporta sempre la fonte sopracitata - un "insegnamento sprezzante verso gli ebrei e verso l'ebraismo cose che pensavamo fossero state completamente ripudiate dalla Chiesa". I firmatari hanno sottolineato la necessità di fare presente l'esistenza di una "angoscia" provata da loro al Santo Padre. Con ogni probabilità, il Vaticano procederà a sua volta mediante la forma scritta. Qualcosa di altrettanto formale che possa porre fine ad ogni possibile polemica. I rabbini hanno chiesto pure di "assicurare che ogni conclusione dispregiativa sia chiaramente ripudiata".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna.

Fabio Marchese Ragona per “il Giornale” il 27 agosto 2021. Una lettera con una richiesta di chiarimenti, un atto formale, e la preghiera di manifestare al Papa «la nostra angoscia» per alcune recenti frasi del Pontefice sulla Torah, i primi cinque libri della Bibbia ebraica. Un nuovo caso, questa volta riguardante i rapporti tra cattolici ed ebrei, sta creando in queste ore non poche tensioni all'interno delle stanze d'Oltretevere. Per due motivi: perché non ci sono mai stati precedenti del genere in questo pontificato, molto attento al dialogo fraterno e interreligioso, e perché sono coinvolte in prima persona le massime autorità religiose ebraiche, tra queste il Rabbino Rasson Arousi, presidente della Commissione del Gran Rabbinato d'Israele per il Dialogo con la Santa Sede. Il «rav» ha scritto al suo «omologo» vaticano, il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani e della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo. Una missiva finita già sulla scrivania di Papa Francesco che ha chiesto al porporato e ai suoi collaboratori di rispondere alle richieste dei «fratelli ebrei» e chiarire ogni cosa. Al centro della questione alcune parole pronunciate da Papa Bergoglio all'udienza generale di mercoledì 11 agosto, quando Francesco ha tenuto una catechesi sulla lettera di San Paolo ai Galati. Secondo i rabbini, il Pontefice avrebbe utilizzato termini che potrebbero far supporre che la legge ebraica sia superata. Le frasi «contestate» sono: «La Legge non è alla base dell'Alleanza perché è giunta successivamente, era necessaria e giusta ma prima c'era la promessa, l'Alleanza». E ancora: «Un'argomentazione come questa mette fuori gioco quanti sostengono che la Legge mosaica sia parte costitutiva dell'Alleanza. No, l'Alleanza è prima, è la chiamata ad Abramo. La Torah, la Legge in effetti, non è inclusa nella promessa fatta ad Abramo». «La Legge però non dà la vita, non offre il compimento della promessa, perché non è nella condizione di poterla realizzare. La Legge è un cammino che ti porta avanti verso l'incontro». Mentre «chi cerca la vita ha bisogno di guardare alla promessa e alla sua realizzazione in Cristo». Secondo i vertici religiosi, Francesco avrebbe, con queste parole, presentato la fede cristiana come un superamento della Torah, la quale nell'era attuale risulterebbe dunque «obsoleta». Affermazioni che a dire di Arousi sarebbero «parte integrante di un insegnamento sprezzante verso gli ebrei e verso l'ebraismo, cose che pensavamo fossero state completamente ripudiate dalla Chiesa». In effetti le relazioni tra le due religioni trovarono un punto di svolta da metà anni 60 con il ripudio da parte del Concilio Vaticano II, con il decreto «Nostra Aetate», del concetto di colpa ebraica per la morte di Gesù, dando il via ad un dialogo culminato nel 1986 con la storica visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Con Benedetto XVI, nel 2009, si era però creata una frattura per la remissione della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista Williamson. Tensioni subito spente dalle parole dello stesso Joseph Ratzinger che aveva definito «inaccettabile e intollerabile» la posizione di chi tra gli uomini di Chiesa nega o minimizza la Shoah. Nella lettera inviata al cardinale Koch, il rabbino ha chiesto di «trasmettere la nostra angoscia a Papa Francesco» e avere certezza «che ogni conclusione dispregiativa sia chiaramente ripudiata». «Stiamo lavorando a una risposta ma è chiaro che cerchiamo un dialogo costruttivo», spiega a Il Giornale un alto responsabile della Commissione vaticana per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, «quello che ha detto il Papa è teologia paolina allo stato puro e questo lo faremo presente. Per il resto non c'è alcuna intenzione di ferire la comunità ebraica o di riesumare quell'insegnamento del disprezzo contro il popolo ebraico che ha fatto tanto male».

Duemila anni spazzati via in un chilometro: lo storico incontro tra Wojtyla e Toaff. Alberto Melloni su La Repubblica il 12 aprile 2021. Quella visita era il frutto di una audace assunzione di colpa da parte del vescovo di Roma e di una audace apertura da parte del rabbino capo. All’indomani dell’assalto palestinese alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, papa Giovanni Paolo II espresse all’Angelus «viva deplorazione» per un atto che inseriva fra gli «episodi criminosi di odio antisemita» e ricordava «con cuore profondamente addolorato» un anonimo «bambino ebreo che ieri ha perso la vita qui a Roma». Quella condanna sincera, ma così platealmente stereotipata, rivelava in modo drammatico una strozzatura del pensiero cattolico e non solo (ci vollero 43 anni e Sergio Mattarella per ricordare per nome quel “bambino”, Stefano Gaj Taché, con la dovuta solennità). Nonostante il concilio, nonostante un Papa che aveva vissuto da amico accanto al mondo ashkenazita, l’uccisione dell’ebreo rientrava nel novero degli “episodi” in una contabilità in cui limitarsi a piangere gli “innocenti”. Non era una gaffe: era la prova dell’esigenza indifferibile di un cambio di passo che sarebbe avvenuto il 13 aprile 1986, quando rav Elio Toaff accolse in sinagoga Giovanni Paolo II, rovesciando i riti della sottomissione imposti dal regime pontificio agli ebrei del Ghetto dopo ogni conclave. Quella visita era il frutto di una audace assunzione di colpa da parte del vescovo di Roma e di una audace apertura da parte del rabbino capo. Un primo contatto fra Wojtyla e l’ebraismo italiano c’era stato nel 1981 a San Carlo ai Catinari nel 1981, ma era stato travolto dalla vicenda di monsignor Hilarion Capucci, dall’accoglienza in Segreteria di Stato del cofondatore di Fatah Faruq Qaddumi, dall’udienza ad Arafat poco prima dall’attentato alla sinagoga. Il filo di un dialogo si riannoderà solo col 1985 e col convegno dedicato al ventennale di Nostra Aetate, durante il quale Arrigo Levi si chiede: «ma è possibile che questo Papa che ha girato tutto il mondo \[...\] non abbia fatto quel piccolo passo attraverso il Tevere?». Era una speranza fondata sui contatti ripresi fra Rav Toaff, il cardinale Etchegaray e il teologo argentino monsignor Jorge Mejía, che conoscono un’accelerazione quando a gennaio 1986 Wojtyla domanda a Mejía se gli consiglia una visita alla sinagoga di Los Angeles: «dissi che se il vescovo di Roma doveva visitare una sinagoga forse era meglio iniziare con quella della sua città. Giovanni Paolo II approvò subito l’idea e mi chiese se era realizzabile. Per un attimo mi morsi la lingua, ma poi risposi che dovevo chiedere al rabbino capo Toaff. Il Papa mi chiese di farlo». E Toaff apre la porta, forte del consenso della comunità e dei rabbini d’Europa e fissa la visita del Papa in sinagoga al 13 aprile. In quel giorno il Papa pronuncia un discorso rimasto celebre, redatto proprio da Mejía. Il pontefice menziona in modo credibile l’eredità roncalliana, l’Alleanza, il Vaticano II. Ma soprattutto assume la responsabilità storica di una colpa (attutita nel testo finale, dove i «fatti che puntano il loro dito accusatore contro di noi» diventano «fatti deplorevoli»); e la ripetizione solenne della condanna dell’antisemitismo «di chiunque e di qualunque tempo». Una citazione di Nostra Aetate decisiva, perché con quel “chiunque” il papato accetta responsabilmente il peso di una storia dove stavano pensieri, parole ed omissioni: le discriminazioni, il Ghetto, il rogo del Talmud, i battesimi forzati, il caso Mortara, le leggi razziali, la razzia del 16 ottobre, la incapacità di rileggere la Shoah senza capziose autoassoluzioni. È quella assunzione di responsabilità che rende accettabile che il Papa citi male il salmo 135 (saltando le parole «lo dica la casa di Aronne») e definisca degli ebrei come «fratelli maggiori». Dato che nella tradizione biblica, dove i minori scalzano i maggiori, quella espressione poteva apparire come l’adesione al “sostituzionismo” con cui la chiesa cerca di sostituirsi a Israele e che è l’enzima di ogni antisemitismo. Ma in quell’aprile essa appare come il ribaltamento della dottrina medievale che trattava l’ebreo come un minorenne senza diritti: e rav Toaff la farà sua, senza paura. Il viaggio lungo un chilometro e durato duemila anni significava anche questo: accettare l’assunzione di colpa e ripagarla con la fiducia.

·        Il Vaticano e la Cina.

Quel sospetto sulla Cina: “Non rispetta gli accordi con il Vaticano”. Francesco Boezi su Inside Over il 30 aprile 2021. É il fiore all’occhiello della strategia diplomatica di papa Francesco e del segretario di Stato e cardinale Pietro Parolin, ma ora rischia di essere messo in discussione da avvenimenti concreti. Le buone intenzioni, insomma, potrebbero non corrispondere alla sostanza. L’accordo tra Vaticano e Cina, che doveva essere biennale e che è stato rinnovato in maniera più o meno tacita (com’era pronosticabile) per un altro biennio, ha contraddistinto questo pontificato. Se non altro perché quel patto si basa su una stretta indicazione del pontefice argentino: dialogare con la Repubblica Popolare cinese, che potrà non essere una delle “periferie economico-esistenziali”, ma che è di sicuro periferica per il cattolicesimo e per le sue istituzioni. L’accordo, che è stato contestato sin dal principio dal fronte conservatore, prevedeva che il Vaticano potesse finalmente nominare vescovi riconosciuti da ambo le parti ed istituire nuove diocesi. In cambio, per così dire, il Papa sarebbe dovuto passare dall’equivalente della Conferenza episcopale cinese, che secondo i tradizionalisti è un organo controllato dal Partito comunista cinese. Il trattato però non è mai stato pubblicato: dunque si può solo ipotizzare quale sia il suo contenuto. Il Papa, inoltre, sarebbe stato riconosciuto in qualità di legittima guida spirituale dei cristiano-cattolici cinesi. Un patto complesso, che pareva in grado di risolvere anni di ragionamenti attorno al da farsi con la “questione cinese”. Bergoglio, prima dell’avvento della pandemia, aveva anche dichiarato di avere in programma un viaggio a Pechino o comunque di desiderare quella visita apostolica. E non si esclude che il pontefice venuto “dalla fine del mondo” possa essere davvero il primo a mettere il piede sul suolo cinese in qualità di vescovo di Roma e di supremo vertice della Chiesa cattolica. Un piccolo momento di frizione si è verificato quando Jorge Mario Bergoglio ha tuonato contro la persecuzione subita dagli uiguri. Durante il novembre del 2020, si è parlato apertamente di “strappo”. L’ex segretario di Stato Mike Pompeo ha elogiato il pontefice in quella circostanza, rimescolando le carte della partita geopolitica. Ma l’oggetto della riflessione oggi è divenuto soprattutto un altro, ossia il reale rispetto dell’accordo da parte della Repubblica popolare cinese e delle sue istituzioni. La “destra ecclesiastica” segnala da tempo come i cinesi non abbiano creato un clima di pacificazione attorno ai fedeli cristiano-cattolici che risiedono in Cina. E chi ritiene che esista una “Chiesa sotterranea” rivendica il ruolo svolto da chi continua a professare la fede in barba alle presunte restrizioni che Pechino avrebbe imposto. Comprendere quale sia la realtà delle cose non è un esercizio facile. Secondo quanto ripercorso da Il Corriere della Sera, già oggi sarebbe possibile fotografare “arresti, minacce e divieti”. La comunità cattolica cinese continuerebbe insomma a subire quel processo di “sicinizzazione”, cioè l’assorbimento della dottrina cristiana nell’ideologia comunista, dopo aver subito un processo culturale di revisione dei canoni, dello stile e delle regole contenute. Gli episodi, anche di negazione della libertà di culto, sarebbero quotidiani, e dunque ci si interrogherebbe sulla reale concordanza tra quanto previsto nel trattato stipulato e quello che avviene davvero ai cattolici all’interno dei confini della Repubblica popolare cinese. Cosa potrebbe comportare un mancato rispetto del patto? Dipendesse dal fronte conservatore, l’accordo biennale, che biennale non è più, non sarebbe mai stato stipulato. Perché la via scelta, per esempio dal cardinale Joseph Zen, sarebbe quella di attendere un’involuzione del comunismo, meglio una sua caduta, per partecipare in quanto cattolici alla ricostruzione. La visione Bergoglio-Parolin è ed è stata un’altra. Di mettere mano o di revisionare l’accordo biennale non se ne parla: è molto difficile che il Vaticano rinunci al cammino dialettico intrapreso o faccia un passo indietro. Anzi, se c’è un attore che è stato sospettato di ragionare sulla bontà e sull’opportunità del trattato, quell’attore risiede a Pechino e dintorni. La sensazione è che Jorge Mario Bergoglio non abbia rinunciato alle sue “velleità cinesi”: il viaggio desiderato non è in programma, ma potrebbe essere tra i primi ad essere calendarizzati nel caso in cui le condizioni pandemiche lo consentissero. Per la “destra ecclesiastica” la situazione è stigmatizzabile: i vertici della Santa Sede osserverebbero inermi, mentre il governo di Pechino continuerebbe a perseguire una strategia precisa che minerebbe alla base le fondamenta stesso della confessione religiosa cristiano-cattolica. L’ultimo episodio – come ha raccontato Asia News – riguarda una multa comminata ad un fedele che avrebbe avuto l’ardire di ospitare un vescovo nella sua cappella privata. L’accordo bilaterale, insomma, sembra assumere le fattezze di una speranza unilaterale del Vaticano.

·        Il Papa e l’Islam.

Egitto, dove cristiani e musulmani fanno a gara a chi digiuna di più. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 27 luglio 2021. Duecentodieci giorni di digiuno all'anno. E limitazioni agli alimenti così rigide da far sembrare una passeggiata quelle dell'Islam. Per noi occidentali, abituati a compatire e a guardare un po' dall'alto in basso il digiuno dei musulmani, scoprire che i cristiani che vivono in un paese musulmano seguono un ramadan molto più rigido di quello islamico è davvero una sorpresa. Ma conoscere il mondo arabo non smette di stupire. E le scoperte aiutano spesso a conoscere meglio anche il “nostro” mondo. La scoperta del “digiuno copto” arriva per caso, proprio nel giorno in cui Marino Niola inizia per la Repubblica una serie estiva di articoli su cibo e religione. Succede guardando i video e leggendo i resoconti del “Festival di letteratura araba di ogni dove” Bila Hudood (tutti gli incontri si sono tenuti online e sono disponibili su YouTube). A parlarne è un giovane giornalista di Mada Masr e Ma3azef, Charles Akl, architetto egiziano specializzato in muaic W cultura pop. Tra i suoi post, uno fa conoscere una video-factory saudita davvero interessante, che ha firmato un rap, “Kafil”, che su un ritmo coinvolgente e immagini di grande impatto denuncia lo sfruttamento dei muratori pakistani nelle scintillanti costruzioni del regno. Un suo articolo è uscito in italiano nell'antologia sulle primavere arabe curata da Elisa Pierandrei “Urban Cairo. La Primavera Araba nei graffiti” (Informant). Ma prima che architetto, dj ed esperto di cultura pop, Akl è un cristiano copto, e qualche tempo fa ha dedicato un intero libro all'alimentazione del gruppo religioso più antico d'Egitto e a come questo ha influenzato la vita sua e della sua famiglia, e il rapporto con la maggioranza egiziana di religione musulmana. Pubblicato in arabo nel 2017 dalle edizioni Al Kotob Khan e uscito in tradizione inglese, “Rhidha' alkubti” (“Il cibo dei Copti") «sembra un libro di ricette», ha spiegato ridendo l'autore durante il festival. «Abbiamo deciso così con l'editore, e nella quarta di copertina si legge addirittura che contiene 120 ricette copte. Ma è uno scherzo. In realtà è uno spunto per parlare di argomenti diversi: di società, di politica»: in breve, un ritratto della vita dell'Egitto da un punto di vista diverso dal solito. Il libro è pieno di umorismo a partire dall'autoritratto dell'autore, che si definisce «un alessandrino che odia scrivere meno di quanto non odi altre professioni». La sua occupazione preferita? «Star seduto». Per chi ha studiato il cristianesimo, l'illustrazione di copertina è una “madelaine”: è un pesce stilizzato formato da due semicerchi incrociati che ha la forma dell'“Ikhtus”, parola che in greco vuol dire appunto pesce ma che è formata dalle iniziali di “Gesù Cristo figlio di Dio salvatore”. Per questo quel disegno è diventato un simbolo segreto dei primi cristiani, il più antico ritrovato nelle catacombe romane. Le regole dell'alimentazione copta sono dettagliatissime, e variano tra le varie comunità, in Egitto e nel resto del mondo. Per alcuni il digiuno è come quello islamico - niente cibo né bevande dall'alba al tramonto - ma Akl assicura invece che «un copto che digiuna, ogni tanto mangia», anche se solo gli alimenti permessi. Durante i digiuni sono vietati uova, latte e latticini, e solo in alcuni giorni è concesso il pesce. Il risultato è un vegetarianesimo che per la maggioranza dell'anno diventa veganesimo: e questo, come spiega la food-blogger Marie Henein presentando una  serie di ricette, fa della cucina copta una fonte di ispirazione per i vegani di tutto il mondo, e dell'intero Egitto un paradiso per chi cerca ricette che non contengano alcun alimento di origine animale. Anche perché mettendo insieme Quaresima, Avvento e i preparativi per le altre feste copte (per fare un esempio l'Assunzione, il 15 agosto, prevede un digiuno dal 7 al 21 del mese), si arriva a sette mesi di digiuno all'anno. In pratica i giorni di “alimentazione libera” sono una rarità. A questo si aggiunge che, come spiega Akl, durante il ramadan sono i musulmani a influenzare il cibo copto. In quelle settimane i negozi si riempiono di frutta secca, dolci e altri alimenti energetici da mangiare nelle ore buie per resistere al digiuno di giorno. «Le famiglie cristiane cambiano dieta durante il Ramadan, perché si riempiono degli stessi cibi che sono proposti in offerta speciale alle famiglie musulmane. Dopo tutto, saldi e sconti non hanno religione». Queste scorpacciate, aggiunge Akl, hanno sui copti due effetti collaterali: il senso di colpa «tipicamente cristiano» per aver mangiato troppi dolci e una fastidiosa sensazione di inferiorità: «Perché anche se sono molto meno numerosi, i copti continuano a fare confronti tra la considerevole influenza della dieta islamica sulla loro alimentazione e quella che la loro alimentazione ha sulle famiglie musulmane, che però sono a stento toccate dalle indicazioni dietetiche copte». Akl dedica un capitolo intero al panino che i bambini copti portano a scuola, che varia dal lusso dei pochi giorni normali alla tristezza di quelli di digiuno. La conseguenza, almeno per donne appassionate di cucina come la madre dell’autore, è la corsa a inventare ricette appetitose per illuminare i giorni di digiuno: che significa pane del forno migliore della città imbottito con felafel fatti in casa, guarniti con verdure fresche e olive d'importazione, fino a raggiungere le vette del «panino con carciofi fritti e mayonnaise siyami», una sorta di insalata russa: una delizia che richiede ore e ore di preparazione.  Ogni strategia culinaria cede però, a poco a poco, davanti al digiuno dei compagni musulmani. In quei giorni, i bambini copti preferiscono non mangiare davanti agli altri per non provocarli con il profumo dei propri panini. Evitare i bambini musulmani e ritirarsi a mangiare in un angolo significherebbe «compiere un atto strano o estremo che potrebbe distruggere la trama della vita della nazione». Akl racconta tutto con grande ironia, ma sa bene che sta parlando di un argomento che è alla radice dello scontro tra religioni che ogni anno in Egitto provoca decine di morti in attentati terroristici. Risultato? Presto o tardi anche gli studenti copti iniziano a seguire il ramadan, malgrado la disapprovazione dei genitori: «Anche loro fanno la stessa cosa, sul posto di lavoro», spiega Akl. «Ma speravano che i loro figli avrebbe alzato la rivoluzionaria bandiera cristiana, che loro non hanno avuto il coraggio di sbandierare». E così per i cristiani d'Egitto, ai 210 giorni di digiuno copto se ne aggiungono 28 di ramadan. A tutto vantaggio del  quieto vivere, e della linea.

“Ho abbandonato l’islam per il cristianesimo e in Irak rischio la vita”. Fausto Biloslavo su Inside Over il 3 aprile 2021. (Baghdad) “Ho deciso di abbandonare la religione musulmana per diventare cristiano. Dopo aver visto quello che è successo, non solo in Iraq, penso che sia una fede migliore, la mia fede”, spiega convinto Ahmed, nome di fantasia, di un giovane musulmano convertito, in segreto, a Baghdad. Nei giorni della storica visita di papa Francesco lo abbiamo incontrato, con tutte le precauzioni del caso, perché convertirsi al cristianesimo può ancora significare una condanna a morte degli estremisti islamici. Ahmed parla un italiano comprensibile, che ha imparato “in rete da autodidatta”. Per la sua incolumità nell’intervista porta non solo la mascherina, ma pure un cappellino che serve a non farsi riconoscere da chi potrebbe vendicarsi, come è capitato a un suo amico, convertito come lui. “Fin da ragazzo avevo fatto amicizia con una famiglia di cristiani, dei vicini di casa. Così ho cominciato a conoscere la loro fede. Poi mi sono messo a leggere di nascosto il nuovo e vecchio Testamento” racconta l’auto convertito. “Mi sono avvicinato al cristianesimo prima della nascita dello Stato islamico. E ho visto, non solo con l’Isis, come in nome della fede sia stata compiuta una terribile violenza. Le milizie sciite estremiste continuano ad essere dappertutto, in giro per le strade” spiega Ahmed, che da tempo ci aveva contattato per parlare della sua conversione. “Vorrei farmi battezzare, ma non ho mai osato entrare in una chiesa perché sarebbe un rischio. Sono un musulmano che ha abbracciato il cristianesimo. Un pericolo per me e per loro. La legge in Iraq punisce scelte come la mia anche con la pena di morte” teme il giovane di Baghdad. Gran parte dei convertiti nelle aree a stragrande maggioranza musulmana mantengono segreta la loro scelta per evitare ritorsioni o peggio non solo da parte degli estremisti islamici, ma pure dai propri familiari. “La famiglia non sa nulla della conversione. Mia madre lo ha capito, ma tutti gli altri sono all’oscuro. Ho tre zii, che mi ammazzerebbero se venissero a saperlo. La mamma, invece, mi ha detto di fare quello che sento, ma di stare molto attento” racconta Ahmed. Anche se non ha mai seguito il catechismo e non è stato ancora battezzato il giovane iracheno è certo: “Nell’animo mi sono già convertito. E per la mia scelta cristiana, rischio la vita ogni giorno”. Un altro convertito come lui la vita l’ha persa per la sua nuova fede. “Avevo un amico, più giovane di me, che si chiamava Mustafa. Si era convertito, ma postava su Facebook i simboli cristiani, l’immagine di Gesù, le parole del Vangelo e attaccava l’estremismo” spiega Ahmed. “Gli avevo detto di fermarsi, che finirà male, che doveva stare attento. Era un ragazzino e non ascoltava i miei consigli – racconta il convertito in segreto – Circa un anno fa è stato rapito e 48 ore dopo i familiari hanno trovato il corpo abbandonato in strada, poco distante da casa. Gli avevano sparato un proiettile in testa. E sul petto aveva un cartello con scritto: “Questa è la fine degli infedeli”. Per Ahmed è sempre più complicato nascondere la sua auto conversione: “Mi sono reso conto che è difficile rispettare il Ramadan (il mese di digiuno islamico nda) e andare in moschea a pregare. E adesso che mi sento cristiano non posso neanche sposarmi con una donna musulmana”. Ahmed ha fin dall’inizio un obiettivo, che si è rafforzato con la visita del Papa. “Il mio sogno sarebbe visitare il Vaticano. Ho provato a chiedere il visto all’ambasciata italiana, due volte, ma via posta elettronica mi hanno risposto sempre di no, che non è possibile” spiega il convertito. Alcuni amici, che hanno scelto di abbandonare l’Iraq cercavano di convincerlo a seguire la via clandestina. “Mi dicono fai come noi, che andiamo in Europa passando per la Turchia – rivela Ahmed – ma non voglio usare le rotte dei migranti, dei trafficanti di uomini”. Il giovane convertito si è schierato, come molti suoi coetanei, al fianco delle proteste di piazza dello scorso anno nella capitale contro la corruzione e le milizie, poi represse a fucilate. Nella speranza di un futuro migliore ha una sola certezza: “Credo in Dio, Gesù e Maria. Mi sento cristiano al 100%. Magari mi manca il battesimo, ma talvolta per tutte le difficoltà che sto vivendo forse sono più cristiano di altri”.

Il Papa di ritorno dall'Iraq: "Il mondo non ha ancora preso coscienza che migrare è un diritto umano". Paolo Rodari su La Repubblica l'8 marzo 2021. Sull'aereo da Bagdad a Roma, Francesco parla della visita storica in Iraq. "Alan Kurdi, simbolo di una civiltà di morte". Sull'8 marzo: "Non c'è una festa degli uomini perché noi siamo sempre in festa". L'annuncio di un viaggio in Libano. "In questi mesi senza viaggi mi sono sentito in prigione". Dice che “dopo questi mesi di prigione” nei quali si sentiva “un po’ imprigionato”, tornare a viaggiare “è per me rivivere”. Il Papa spiega che nonostante i rischi legati alla pandemia ha deciso di andare in Iraq dopo aver chiesto che sia Dio a occuparsi della gente. A Mosul, spiega, dopo aver visto la distruzioni perpetrata dall’Isis, si è posto una domanda: “Chi vende le armi a questi distruttori? Chi è il responsabile?”. E davanti alle chiese distrutte ha detto: “Da non credere, da non credere…”. Racconta ancora l’incontro avuto con al-Sistani, per il quale alcuni nella Chiesa l’hanno accusato di andare oltre la dottrina: “Queste decisioni si prendono sempre in preghiera, in dialogo, chiedendo consiglio, nella riflessione”. E, comunque, l’incontro “a me ha fatto bene all’anima”, dice. Confessa, infine, che in questo viaggio si è stancato “molto di più che negli altri: gli 84 anni non vengono soli, è una conseguenza, ma vedremo”, anche se presto dovrà andare “in Ungheria alla Messa finale del Congresso (Eucaristico internazionale)”. E poi c’è “l’ipotesi, e anche la promessa, del Libano”. E chiude con una riflessione sulla migrazione, “un diritto doppio: diritto a non migrare, diritto a migrare”. “Questa gente – racconta pensando ai tanti profughi iracheni –, “non ha nessuno dei due, perché non possono non migrare e non possono migrare perché il mondo ancora non ha preso coscienza che la migrazione è un diritto umano”. Sono trascorsi pochi minuti dopo il decollo del volo Alitalia che riporta Francesco da Bagdad a Roma, al termine del suo viaggio di tre giorni in Iraq. Il Papa ripercorre coi giornalisti le tappe del viaggio, l’incontro con “l’uomo saggio e uomo di Dio” al-Sistani, l’emozione di fronte alle chiese distrutte di Mosul, la commozione per le parole della mamma che ha perso il figlio e perdonato gli uccisori, la promessa di un viaggio in Libano e infine l’incontro con il papà di Alan Kurdi ieri sera a Erbil: “Questo bambino è un simbolo – dice –. È un simbolo che va oltre un bambino morto nella migrazione. È il simbolo di una civiltà di morte”. All’inizio della conferenza stampa Francesco ricorda che oggi è la festa della donna: “Complimenti alle donne”! Racconta: “Nell’incontro con la moglie del Presidente dell’Iraq si parlava del perché non ci sia la festa degli uomini. Io ho detto: ma perché noi uomini siamo sempre in festa! La moglie del Presidente mi ha parlato delle donne, ha detto cose belle, quella fortezza che hanno le donne nel portare avanti la vita, la storia, la famiglia, tante cose”.

Santità, due anni fa ad Abu Dhabi c’è stato l’incontro con l’Imam al-Tayyeb di Al Azhar e la firma sulla Dichiarazione sulla fratellanza. Tre giorni fa lei si è incontrato con al-Sistani: si può pensare a qualcosa di simile anche con il versante sciita dell’Islam? E poi una seconda domanda sul Libano: Giovanni Paolo II diceva che più che un Paese è un messaggio. Oggi purtroppo da libanese le dico che questo messaggio ormai sta scomparendo. È imminente una sua visita in Libano?

“Il documento di Abu Dhabi del 4 febbraio è stato preparato con il grande Imam in segreto, durante sei mesi, pregando, riflettendo e correggendo il testo. È stato - è dirlo un po’ presuntuoso, prendetela come una presunzione - un primo passo di ciò che lei mi domanda. Possiamo dire che questo sarebbe il secondo e ce ne saranno altri. È importante il cammino della fratellanza. Il documento di Abu Dhabi ha lasciato in me l’inquietudine della fratellanza, e poi è uscita “Fratelli tutti”. Ambedue i documenti si devono studiare perché vanno nella stessa direzione, sulla via della fratellanza. L’Ayatollah Al Sistani ha una frase che cerco di ricordare bene: gli uomini sono o fratelli per religione o uguali per creazione. Nella fratellanza è l’uguaglianza, ma sotto l’uguaglianza non possiamo andare. Credo che sia una strada anche culturale. Pensiamo a noi cristiani, alla guerra dei Trent’anni, alla notte di san Bartolomeo, per fare un esempio. Come fra noi cambia la mentalità: perché la nostra fede ci fa scoprire che è questo, la rivelazione di Gesù è l’amore e la carità e ci porta a questo: ma quanti secoli per attuarli! Questo è importante, la fratellanza umana, che come uomini tutti fratelli, e dobbiamo andare avanti con le altre religioni. Il Concilio Vaticano II ha fatto un passo grosso in questo, e anche le istituzioni dopo, il Consiglio per l’unità cristiani e il Consiglio per il dialogo interreligioso. Il cardinale Ayuso ci accompagna oggi. Tu sei umano, sei figlio di Dio e sei mio fratello, punto! Questa sarebbe l’indicazione più grande, e tante volte si deve rischiare per fare questo passo. Lei sa che ci sono alcune critiche: che il Papa non è coraggioso, è un incosciente che sta facendo dei passi contro la dottrina cattolica, che è a un passo dall’eresia, ci sono dei rischi. Ma queste decisioni si prendono sempre in preghiera, in dialogo, chiedendo consiglio, in riflessione. Non sono un capriccio e anche sono la linea che il Concilio ha insegnato. Vengo alla seconda domanda: il Libano è un messaggio, il Libano soffre, il Libano è più di un equilibrio, ha la debolezza delle diversità, alcune ancora non riconciliate, ma ha la fortezza del grande popolo riconciliato, come la fortezza dei cedri. Il patriarca Rai mi ha chiesto per favore durante questo viaggio di fare una sosta a Beirut, ma mi è sembrato un po’ poco... Una briciola davanti a un problema, a un Paese che soffre come il Libano. Gli ho scritto una lettera, ho fatto la promessa di fare un viaggio. Ma il Libano in questo momento è in crisi, ma in crisi - non voglio offendere - in crisi di vita. Il Libano è tanto generoso nell’accoglienza dei profughi".

In che misura l’incontro con al-Sistani è un messaggio anche verso i capi religiosi dell’Iran?

“Io credo che è stato un messaggio universale, sentivo il dovere di questo pellegrinaggio di fede e di penitenza, di andare a trovare un grande, un saggio, un uomo di Dio. Soltanto ascoltandolo si percepisce questo… E parlando di messaggi io dirò è un messaggio per tutti. È una persona che ha saggezza e anche prudenza. Mi diceva: "Io da 10 anni non ricevo gente che viene, sì, a visitarmi ma con altri scopi politici o culturali non tanto religiosi". È stato molto rispettoso nell’incontro. Mi sono sentito onorato perché anche se mai si alza, per salutarmi si è alzato due volte. È un uomo umile e saggio, a me ha fatto bene all’anima questo incontro. È una luce. Questi saggi sono dappertutto perché la saggezza di Dio è stata sparsa in tutto il mondo. Succede lo stesso con i santi di tutti i giorni, quelli che io chiamo della porta accanto. Santi uomini e donne che vivono la loro fede, qualsiasi essa sia, con coerenza, che vivono i valori umani con coerenza, la fratellanza con coerenza. Credo che dovremmo scoprire questa gente, evidenziarla. Perché ci sono tanti esempi. Ci sono anche scandali nella Chiesa, tanti… e questo non aiuta, ma facciamo vedere alla gente che cerca la strada della fratellanza i santi della porta accanto. Troveremo gente della nostra famiglia sicuramente”.

Il suo viaggio ha avuto una enorme ripercussione in tutto il mondo, crede che potrebbe essere “il viaggio” del pontificato. Anche si è detto che era il più rischioso. Ha avuto paura in qualche momento del suo viaggio? Sta per compiere l’ottavo anno del suo pontificato, continua a pensare che sarà corto? Infine, la grande domanda: ritornerà una volta in Argentina?

“Il mio amico giornalista Nelson Castro mi ha fatto una domanda: se lei si dimette - se muoio o mi dimetto - tornerà in Argentina o rimarrà qui? Io ho detto non tornerò in Argentina, ma rimarrò qui nella mia diocesi. Ma quella ipotesi va unita alla domanda quando vado in Argentina o perché non ci vado… io rispondo sempre un po’ ironicamente: sono stato 76 anni in Argentina, è sufficiente no?. È stato programmato un viaggio in Argentina a novembre del 2017. Si cominciava a lavorare, si faceva Cile, Argentina e Uruguay. Era fine novembre… Poi in quel tempo il Cile era in campagna elettorale, in quei giorni a dicembre è stato eletto il successore di Michelle Bachelet, e io dovevo andare prima che cambiasse il governo. Non potevo andare… Così pensai di andare a gennaio in Cile e poi in Argentina e Uruguay… Ma non era possibile, perché gennaio era come essere qui a luglio e agosto. Mi è stato fatto allora il suggerimento di andare in Perù. E da lì è nato il viaggio nel gennaio 2018 in Cile e Perù. Questo voglio dirlo perché non si facciano fantasie di ‘patriafobia’: quando ci sarà l’opportunità si potrà andare in Argentina, c’è l’ipotesi Argentina, Uruguay e sud del Brasile. Poi sui viaggi. Io per prendere una decisione sui viaggi ascolto, ascolto il consiglio dei consiglieri. Talvolta qualcuno dice: cosa ne pensa di andare in quel posto? Mi fa bene ascoltare, mi aiuta a prendere le decisioni. Ascolto i consigli e alla fine prego, prego, rifletto tanto, su alcuni viaggi ho riflettuto tanto. Poi la decisione viene da dentro, si affaccia quasi spontanea come frutto maturo. È un percorso lungo, alcuni sono più difficili, altri più facili. La decisione su questo viaggio viene dall’ambasciatrice, il medico pediatra che è ambasciatrice dell’Iraq. Brava, ha insistito. Poi è venuta l’ambasciatrice in Italia, una donna di lotta. Poi è venuto il nuovo ambasciatore in Vaticano, prima era venuto il presidente. Tutte queste cose sono rimaste dentro. Una di voi mi ha regalato l’ultima edizione spagnola de “L’ultima ragazza” di Nadia Mourad. L’ho letto. È la storia degli yazidi. Nadia Mourad racconta quella cosa terrificante, terrificante. Vi consiglio di leggerla. Questa lettura è il motivo di fondo della mia decisione. Quel libro lavorava dentro. Ho anche ho ascoltato Nadia che è venuta a raccontarmi cose terribili… Queste cose hanno portato alla decisione. L’ottavo anno di pontificato. Devo fare così? (incrocia le dita)… Non so se i viaggi si realizzeranno o no, solo vi confesso che in questo viaggio mi sono stancato molto di più che negli altri. Gli 84 anni non vengono soli, è una conseguenza ma vedremo. Adesso dovrò andare in Ungheria alla Messa finale del Congresso (Eucaristico internazionale), non una visita al Paese, ma solo alla Messa. Budapest è due ore di macchina da Bratislava, perché non fare una visita in Slovacchia? È così che nascono le cose".

Questo viaggio ha avuto ovviamente un significato straordinario per la gente che ha incontrato, ma sono stati eventi che hanno portato a situazioni per cui è possibile che ci sia il contagio del virus. In particolare, le persone non vaccinate che cantavano insieme. È preoccupato che la gente che è venuta a vederla potrebbe ammalarsi e quindi morire?

“Come ho detto precedentemente, i viaggi si cucinano nel tempo nella mia coscienza e questa è una delle cose che più mi fa forza. Ho pensato tanto, ho pregato tanto, e alla fine ho preso la decisione. Liberamente, ma che veniva da dentro. E io dissi che Quello che mi dà di decidere così, si occupi Lui della gente. E così ho preso la decisione, ma dopo la preghiera e dopo la consapevolezza dei rischi. Dopo tutto”.

Abbiamo visto il coraggio, il dinamismo dei cristiani iracheni, abbiamo visto anche le sfide che devono affrontare, la minaccia della violenza islamista, l’esodo e la testimonianza della fede nel loro ambiente. Queste sono le sfide dei cristiani in tutta la regione. Abbiamo parlato del Libano, ma anche la Siria, la Terra Santa. Dieci anni fa si è svolto un Sinodo per il Medio Oriente ma il suo sviluppo è stato interrotto dall’attacco alla cattedrale di Baghdad. Pensa di realizzare qualcosa per l’intero Medio Oriente, un sinodo regionale o qualsiasi altra iniziativa?

“Non sto pensando a un Sinodo. E' stato buttato il primo seme, vediamo cosa succede. La vita dei cristiani in Iraq è una vita travagliata, ma non solo cristiani, abbiamo parlato dei yazidi, delle altre religioni che non si sottomettevano al potere del Daesh. E questo, non so perché, ma ha dato una forza molto grande… ma c’è il problema della migrazione. Ieri mentre tornavamo in macchina da Qaraqosh, a Erbil, vedevo tanta gente giovane, il livello di età è basso. E la domanda che qualcuno mi ha fatto: per questi giovani qual è il futuro? Dove andranno? In tanti dovranno lasciare il Paese. Prima di partire per Bagdad, venerdì, sono venuti a salutarmi dodici iracheni profughi: uno aveva una protesi alla gamba perché era scappato sotto ai camion e ha avuto un incidente. La migrazione è un diritto doppio: diritto a non migrare, diritto a migrare. Questa gente non ha nessuno dei due, perché non possono non migrare e non possono migrare perché il mondo ancora non ha preso coscienza che la migrazione è un diritto umano. Mi diceva un sociologo italiano parlando dell’inverno demografico in Italia: entro 40 anni dovremo importare stranieri perché lavorino e paghino le tasse delle nostre pensioni. Voi francesi siete stati più furbi perché avete guadagnato dieci anni con la legge di sostegno alla famiglia, il vostro livello di crescita è molto grande. Ma la migrazione la si vive come una invasione. Ieri ho voluto ricevere, perché lui l’ha chiesto, dopo la Messa il papà di Alan Kurdi. Questo bambino è un simbolo, Alan Kurdi è un simbolo per questo ho regalato la sua scultura alla Fao. È un simbolo che va oltre un bambino morto nella migrazione. È il simbolo di una civiltà di morte, bambini che muoiono e non possono sopravvivere, un simbolo di umanità. Ci vuole un’urgente misura perché la gente abbia lavoro e non abbia bisogno di migrare e anche misure per custodire il diritto di migrazione. È vero che ogni Paese deve studiare bene la capacità di ricevere, perché non è soltanto ricevere e lasciarli sulla spiaggia ma anche accompagnare, farli progredire e integrare. L’integrazione del migrante è chiara. Due aneddoti: pensiamo al Belgio, i terroristi erano belgi, nati in Belgio ma da migranti islamici ghettizzati, non integrati. L’altro esempio: quando sono andato in Svezia a congedarmi dal Paese c’era un ministro a salutarmi, aveva una fisionomia speciale, non tipica svedese. Era figlia di un migrante e di una svedese, così integrata che è diventata ministro. Pensiamo a queste due cose, ci faranno pensare tanto. Vorrei ringraziare i Paesi generosi, i Paesi che ricevono i migranti: il Libano è stato generoso con i migranti. Poi la Giordania… Purtroppo non voleremo sopra la Giordania. Il re Abdullah è così gentile che voleva farci un omaggio con gli aerei. Lo ringrazio adesso. La Giordania è stata generosissima, più di un milione e mezzo di migranti. E tanti altri Paesi, ne menziono due soltanto. Grazie a questi Paesi generosi, grazie tante”.

In tre giorni in questo Paese chiave del Medio Oriente ha fatto quello che i potenti della terra discutono da trent’anni. Lei ha già spiegato qual è la genesi interessante dei suoi viaggi, come nascono le scelte dei suoi viaggi, ma adesso in questa contingenza, guardando al Medio Oriente, può mettere in conto un viaggio in Siria? Quali possono essere gli obiettivi da qui un anno di altri luoghi in cui è richiesta la sua presenza?

“In Medio Oriente soltanto l’ipotesi e anche la promessa è il Libano. Non ho pensato a un viaggio in Siria, perché non mi è venuta l’ispirazione. Ma sono tanto vicino alla martoriata e amata Siria, come io la chiamo. Ricordo all’inizio del pontificato quel pomeriggio di preghiera in piazza San Pietro, c’era il rosario, l’adorazione del Santissimo. Quanti musulmani pregavano con noi per la pace in Siria, per fermare i bombardamenti in quel momento che si diceva che sarebbe stato un bombardamento feroce. La porto nel cuore la Siria, ma pensare a un viaggio non mi è venuto”.

In questi giorni, mesi, la sua attività è stata molto limitata. Ieri ha avuto il primo contatto diretto molto vicino con la gente a Qaraqosh. Cosa ha provato? Secondo lei, adesso con tutto il regime sanitario, si possono ricominciare le udienze generali con la gente, con fedeli, come erano prima?

“Mi sento diverso quando sono lontano dalla gente nelle udienze. Io vorrei ricominciare le udienze generali al più presto. Speriamo che ci siano le condizioni, in questo io seguo le norme delle autorità. Loro sono i responsabili e hanno la grazia di Dio per aiutarci in questo, ma sono i responsabili nel dare le norme. Ci piacciano o non ci piacciano, i responsabili sono loro e devono fare così. Adesso ho cominciato in piazza l’Angelus, con le distanze si può fare. C’è la proposta di piccole udienze generali, ma non ho deciso finché si svela chiaro lo sviluppo della situazione. Ma dopo questi mesi di prigione, che davvero mi sentivo un po’ imprigionato, questo è per me rivivere. Rivivere perché è toccare la Chiesa, toccare il santo popolo di Dio, toccare tutti i popoli. Ma un prete si fa prete per servire, al servizio del popolo di Dio, non per carrierismo, non per i soldi. Questa mattina nella Messa c’era la guarigione di Naaman il siro, e diceva che questo Naaman voleva fare dei doni, dei doni, dopo la guarigione. Ma il profeta Eliseo rifiutò. La Bibbia continua: l’assistente del profeta Eliseo sistemò bene il profeta e di corsa seguì Naaman e gli chiese dei doni. E Dio disse: la lebbra che aveva Naaman sarà a te. Io ho paura che noi, uomini e donne di Chiesa, soprattutto che noi sacerdoti, non abbiamo questa vicinanza gratuita al popolo di Dio che è quello che ci salva. E fare come il servo di Naaman, aiutare ma poi andare indietro. Di quella lebbra ho paura. E l’unico che ci salva dalla lebbra della cupidigia, della superbia è il santo popolo di Dio. È quello che Dio disse a Davide: io ti ho tolto dal gregge, non dimenticarti del gregge. Quello che Paolo disse a Timoteo: ricordati di tua mamma e di tua nonna che ti hanno allattato alla fede, cioè non perdere l’appartenenza al popolo di Dio per diventare una casta privilegiata di consacrati. Il contatto col popolo ci salva, ci aiuta, noi diamo l’eucarestia, la predicazione, la nostra funzione, ma loro ci danno l’appartenenza. Non dimentichiamo questa appartenenza al popolo di Dio. Cosa ho incontrato in Iraq, a Qaraqosh? Io non mi immaginavo le rovine di Mosul, non mi immaginavo. Davvero… Sì, avrò visto le cose, ho letto il libro, ma questo tocca, è toccante. Quello che più ha toccato è la testimonianza di una mamma a Qaraqosh. Hanno dato una testimonianza un prete che veramente conosce la povertà, il servizio, la penitenza e una donna che nei primi bombardamenti dell’Isis ha perso il figlio. Lei ha detto una parola: perdono. Sono rimasto commosso. Una mamma: io perdono, chiedo perdono per loro. Mi è venuto alla memoria il viaggio in Colombia, quell’incontro a Villavicencio dove tante persone, donne soprattutto, madri e spose dicevano la loro esperienza dell’assassinio dei figli e del marito e dicevano 'io perdono, io perdono'. Questa parola l’abbiamo persa, sappiamo insultare alla grande, sappiamo condannare alla grande, io per primo. Ma perdonare… perdonare i nemici, questo è Vangelo puro. È questo che più mi ha colpito a Qaraqosh”.

Volevo sapere che cosa ha provato dall’elicottero vedendo la città distrutta di Mosul e poi pregando nelle rovine di una chiesa. Se posso, visto che è la giornata sulle donne, volevo fare una piccola domanda anche sulle donne: lei ha sostenuto le donne a Qaraqosh con parole molto belle, ma cosa pensa del fatto che una donna musulmana innamorata non può sposarsi un cristiano senza essere scartata dalla famiglia o peggio ancora?

“Di Mosul ho detto un po’ ‘en passant’ quello che ho sentito. Mi sono fermato davanti alla chiesa distrutta, non avevo parole. Da non credere, da non credere… Non solo la Chiesa ma anche le altre chiese, anche una moschea distrutta. Da non credere la crudeltà umana. Con queste chiese distrutte si crea l’inimicizia, la guerra e anche ricomincia ad agire il cosiddetto Stato Islamico. Questa è una cosa brutta, molto brutta. Una domanda che mi è venuta in mente in chiesa a Qaraqosh era questa: ma chi vende le armi a questi distruttori? Perché le armi non la fanno loro a casa, sì qualche ordigno lo faranno… Ma chi vende le armi? Chi è il responsabile? Almeno chiederei a questi che vendono le armi la sincerità di dire: noi vendiamo le armi. Non lo dicono. È brutto. Le donne. Le donne sono più coraggiose degli uomini, ma quello è sempre stato così. Ma la donna anche oggi è umiliata, andiamo a quell’estremo: una di voi mi ha fatto vedere la lista dei prezzi delle donne. Io non potevo credere che se la donna è così, tal età costa tanto… Le donne si vendono, le donne si schiavizzano. Anche nel centro di Roma il lavoro contro la tratta è un lavoro di ogni giorno. Nel Giubileo sono stato a visitare una delle tante case dell’Opera di don Benzi. Ragazze riscattate, una con l’orecchio tagliato perché non aveva portato i soldi quel giorno, l’altra portata da Bratislava nel bagaglio della macchina, schiava, rapita. Questo succede fra noi, eh! La tratta della gente. In questi Paesi, soprattutto nell’Africa, c’è la mutilazione come un rito che si deve fare. Ma le donne sono schiave ancora e dobbiamo lottare, lottare, per la dignità delle donne. Sono coloro che portano avanti la storia, questa non è una esagerazione, le donne portano avanti la storia e non è un complimento oggi nel giorno delle donne. Anche la schiavitù è così, il rifiuto alla donna… Pensare che in un posto è stata fatta una discussione se il rifiuto alla moglie deve essere per scritto o soltanto orale. Neppure il diritto di avere l’atto di ripudio. Ma questo succede oggi, ma per non allontanarci pensiamo al centro di Roma, alle ragazze che sono rapite e sono sfruttate. Credo di aver detto tutto su questo”.

Dagonota il 6 marzo 2021. Padre Spadaro, il gesuita direttore di Civiltà Cattolica, sta inondando la rete di foto del Papa, sempre ripreso di spalle perché il pontefice, appena lo vede, gira la testa da un'altra parte. Lo raccontano, molto imbarazzati, i giornalisti al seguito di Francesco. Tra i due è calato il gelo dopo che Spadaro ha fatto inoltrare al papa una "petizione popolare" che lo voleva arcivescovo di Napoli. E a Bergoglio, l'iniziativa non è piaciuta proprio per niente..."

Da rainews.it il 6 marzo 2021. "Oggi preghiamo per quanti hanno subito tali sofferenze, per quanti sono ancora dispersi e sequestrati, perché tornino presto alle loro case. E preghiamo perché ovunque siano rispettate e riconosciute la libertà di coscienza e la libertà religiosa: sono diritti fondamentali, perché rendono l'uomo libero di contemplare il Cielo per il quale è stato creato". Lo ha detto il Papa nel corso dell'evento interreligioso nella Piana di Ur, a Nassiriya. Chi ha fede "rinuncia ad avere nemici" ha detto il Papa. "Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l'inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guardale stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione". "Odiare il fratello è profanazione blasfema di Dio" "Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l'offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti". Così Papa Francesco nel corso dell'incontro interreligioso. "Non permettiamo che la luce del Cielo sia coperta dalle nuvole dell'odio!", ha detto Bergoglio parlando in italiano, tradotto in simultanea in arabo. "Sopra questo Paese si sono addensate le nubi oscure del terrorismo, della guerra e della violenza. Ne hanno sofferto tutte le comunità etniche e religiose. Vorrei ricordare in particolare quella yazida, che ha pianto la morte di molti uomini e ha visto migliaia di donne, ragazze e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze fisiche e a conversioni forzate. Oggi preghiamo per quanti hanno subito tali sofferenze, per quanti sono ancora dispersi e sequestrati, perché tornino presto alle loro case. E preghiamo perché ovunque siano rispettate e riconosciute la libertà di coscienza e la libertà religiosa: sono diritti fondamentali, perché rendono l'uomo libero di contemplare il Cielo per il quale è stato creato". "Basta riarmo, cibo per tutti" "Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti", ha detto il pontefice nel corso della preghiera interreligiosa.  "Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità", ha sottolineato. "Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l'agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa". L'incontro storico con l'ayatollah Al-Sistani Il Papa ha incontrato a Najaf il Grande Ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani. Durante la visita, durata circa quarantacinque minuti, il Papa ha sottolineato "l'importanza della collaborazione e dell'amicizia fra le comunità religiose perché, coltivando il rispetto reciproco e il dialogo, si possa contribuire al bene dell'Iraq, della regione e dell'intera umanità". Lo riferisce il direttore della sala stampa vaticana Matteo Bruni aggiungendo che "l'incontro è stata l'occasione per il Papa di ringraziare il Grande Ayatollah Al-Sistani perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà degli anni scorsi, ha levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati, affermando la sacralità della vita umana e l'importanza dell'unità del popolo iracheno". Nel congedarsi dal Grande Ayatollah, il Papa "ha ribadito la sua preghiera a Dio, Creatore di tutti, per un futuro di pace edi fraternità per l'amata terra irachena, per il Medio Oriente e per il mondo intero", conclude Bruni. Al-Sistani: "I cristiani in Iraq devono vivere in pace e in sicurezza". Dopo aver incontrato il Papa, Grande Ayatollah Ali al-Sistani, principale esponente religioso sciita iracheno, ha affermato che i cristiani dovrebbero vivere in pace e godere dei diritti come tutti gli altri iracheni.  Al-Sistani ha parlato ''della soppressione  delle libertà fondamentali e dell'assenza di giustizia sociale, in  particolare delle guerre, degli atti di violenza, degli embarghi  economici e dello sfollamento di molti popoli nella nostra regione che soffrono, in particolare il popolo palestinese nei Territori  occupati''. I leader religiosi e spirituali agiscano per mettere fine alle grandi ''tragedie'' dell'umanità, ovvero  ''ingiustizia, oppressione, povertà, persecuzione religiosa e  ideologica e soppressione delle libertà fondamentali e assenza di  giustizia sociale" ha dichiarato, come si legge in una nota  diffusa dal suo ufficio. Infine ''ha  augurato bene e felicità al Pontefice e ai seguaci della Chiesa  cattolica e all'umanità in generale'' ringraziando ''il sommo Pontefice per essersi recato a  Najaf per condurre questa visita''. L'incontro, di carattere privato, si è tenuto nella casa del leader religioso. Si tratta di uno dei principali appuntamenti del viaggio di Papa Francesco in Iraq. Francesco, giunto a Najaf con un seguito minimale, si è recato in auto alla residenza privata di Al-Sistani. Come ha ricostruito l'Associated press, il grande ayatollah, 91 anni, riceve molto raramente degli ospiti, ha accettato di aprire straordinariamente le porte della sua abitazione al vescovo di Roma, 84 anni, che è stato accolto sulla porta dal figlio di Al-Sistani. Colombe bianche sono state fatte volare  all'arrivo di Papa Francesco nello stretto vicolo davanti alla residenza del Grande Ayatollah, secondo l'emittente curda Rudaw. L'immagine della colomba, simbolo di pace, è stato anche utilizzato  per accompagnare le foto del Pontefice e del leader degli sciiti che  campeggiano in Iraq. Il Grande Aayatollah, da parte sua, in segno di reverenza ha atteso il Papa in piedi nella sua sala di ricevimento: il colloquio tra i due poi alla sola presenza degli interpreti per circa un'ora sorseggiando the, Francesco seduto su un divano blu. Al termine dell''incontro, il Papa ha lasciato l'abitazione del religioso 91enne e si è diretto in auto all'aeroporto per partire alla volta di Nassiriya, e verso la piana di Ur, per l'incontro inter-religioso. Nel pomeriggio il rientro a Baghdad e la Messa - la prima officiata in Iraq da Papa Francesco - nella cattedrale caldea di San Giuseppe. Padre Spadaro: "A Nassiriya, indimenticabile strage del 2003" "A Nassiriya. Indimenticabile qui la strage del 12 novembre 2003 che provocò 28 morti di cui 19 nostri italiani". Così in un tweet padre Antonio Spadaro,  direttore della rivista La Civiltà Cattolica, che sta accompagnando Papa Francesco nello storico viaggio in Iraq.

Papa Francesco in Iraq: incontro con l'ayatollah Al-Sistani nel segno della collaborazione fra religioni. Paolo Rodari su La Repubblica il 6 marzo 2021. Incontro privato di Bergoglio con la massima autorità religiosa degli sciiti: è uno dei momenti più importanti del suo viaggio. Il cardinale Parolin, segretario di Stato: "Questo viaggio è importante per il dialogo interreligioso". Aprire un dialogo col mondo sciita e nello stesso tempo porsi come ponte fra sciiti e sunniti. Papa Francesco ha  incontratoquesta mattina nella città santa di Najaf il grande ayatollah Ali al-Sistani, uno dei religiosi più anziani dell’Islam sciita, per consegnare un messaggio di coesistenza pacifica, esortando gli stessi musulmani a farsi prossimi delle minoranze irachene a lungo assediate e vessate: "Il  Santo  Padre  - ha detto il portavoce vaticano Matteo Bruni - ha sottolineato l’importanza della collaborazione e dell’amicizia  fra le comunità religiose perché, coltivando il rispetto reciproco e il dialogo, si possa contribuire al bene dell’Iraq, della regione e dell’intera umanità". E ancora: "L’incontro è stata l’occasione per il Papa di ringraziare Al-Sistani perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza e alle grandi difficoltà degli anni scorsi, ha levato la  sua  voce  in  difesa  dei  più  deboli  e  perseguitati,  affermando  la  sacralità  della  vita  umana  e l’importanza dell’unità del popolo iracheno. Nel congedarsi dal Grande Ayatollah, il Santo Padre ha ribadito la sua preghiera a Dio, Creatore di tutti, per un futuro di pace e di fraternità per l’amata terra irachena, per il Medio Oriente e per il mondo intero". “L’incontro fra i due è un primo passo di un processo”, ha detto ieri Paul Richard Gallagher, “ministro degli esteri” vaticano. I due hanno parlato privatamente per circa cinquanta minuti, un passo storico dopo i ripetuti incontri avvenuti in passato fra Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar. Dice invece il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato: "Questo viaggio è importante per il dialogo interreligioso. L’incontro con al-Sistani di questa mattina è la prima parte di questo appuntamento - l’incontro del Papa alla piana di Ur con i leader religiosi – per ricordare che siamo tutti fratelli". Sono mesi che Santa Sede e l’entourage di al-Sistani lavorano a questo incontro. Dettagli ed eventuali passi sono stati discussi insieme, con la mediazione di Louis Raphaël I Sako, cardinale e patriarca cattolico iracheno, patriarca di Babilonia dei Caldei, che ha fatto più volte la spola fra Roma e Bagdad. L'incontro ha toccato tutte le questioni che affliggono le minoranze irachene, non solo quella cristiana. Francesco auspica che sia lui a guidare la difesa delle minoranze e il loro reintegro nella vita civile del Paese. Il Papa è arrivato presto a Najaf ed è entrato nella abitazione del Grande Imam all’interno del Santuario sormontato da una cupola verde. Secondo la tradizione sciita, al suo interno sono seppelliti Adamo, Eva e Noé. Al-Sistani è autorità religiosa guardata con rispetto anche da sunniti e curdi grazie anche alla sua interpretazione della rivelazione islamica quietista che predica l’astensione delle autorità religiose dall’attività politica diretta. Nel 2004 sostenne le libere elezioni in Iraq dando un contributo alla pacificazione del Paese. Nel 2014 invitò gli iracheni a ribellarsi all’Isis. Nel 2019, quando la popolazione scese in piazza in segno di malcontento contro il carovita e l’instabilità politica nazionale chiese ai manifestanti di rifuggire dalla violenza. Chiese poi le dimissioni del governo e la riforma elettorale.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 5 marzo 2021. “Non soffrire l’afflizione del tuo prossimo. Non soffrire la paralisi del tuo vicino. Ma stendi la mano. Allunga la mano”. “Radio Baghdad” - una delle liriche più famose di Patti Smith (un’artista spesso presente in Vaticano in questi anni), scritta alla fine della seconda guerra del Golfo, dopo la caduta di Saddam Hussein - canta anche per Papa Francesco che parte per l’Iraq. Mai un Papa c’era stato. Il Papa andrà a stendere la sua mano, a farsi vicino, a portare conforto, speranza. Un viaggio fortemente voluto già da Giovanni Paolo II proprio all’inizio del Giubileo del Millennio, nell’anno 2000, e che Francesco aveva programmato l’anno scorso, se non fosse stato per lo scoppio della pandemia. Nel frattempo sono passati vent’anni. Vent’anni di guerre, di distruzione, terrore. Non solo per l’Iraq, ma per tutto il mondo. Il “pellegrinaggio penitente” di Francesco giunge nella terra di Abramo (così si è espresso il Papa nel videomessaggio di oggi all’Iraq). Abramo, il patriarca delle tre religioni monoteiste (Ebrei, cristiani e musulmani). L’arrivo di un Papa nella città originaria di Abramo a Ur dei Caldei, è per questo anche un viaggio di ritorno nella “culla” dell’umanità. Una culla dove simbolicamente e geograficamente si collocava il giardino dell’Eden descritto dal primo libro della Bibbia, la Genesi, il giardino felice della Creazione del mondo. Ma anche quello della cacciata, dopo la disobbedienza di Adamo, il giardino della distruzione, del primo omicidio. Come oggi, quel paese è distrutto, fatto a pezzi, dalla violenza di cui prima vittima sono stati i cristiani, martoriati e in fuga. Parte Francesco alla volta della culla della nostra civiltà che è assiro babilonese, la patria degli inventori, della matematica e del numero zero (quanto è importante il numero zero per il progredire della conoscenza!) e dell’esplorazione del cielo (proprio mentre qualche giorno fa siamo arrivati su Marte). Del resto, è nel giardino dell’Eden che fu posto da Dio l’albero della conoscenza. Francesco ha invitato gli iracheni a guardare “alle stelle”, cioè alla speranza di Abramo di poter avere una discendenza infinita, come appunto le stelle del cielo. E si sa che Abramo sperò contro ogni umana speranza. Per questo, quello di Francesco vuol essere il viaggio per un nuovo inizio, cominciando a sanare le ferite dell’Iraq e non solo l’Iraq, ma anche del Medioriente. Al tempo stesso questo viaggio riguarda tutti noi, esseri umani, “fratelli tutti”, come sostiene papa Francesco. Perché il Tigri e l’Eufrate (che delimitano l’Iraq) non sono fiumi qualsiasi, ma quelli citati nella Genesi. “Nelle vene stanche che si formano dal Tigri e dall’Eufrate. Nel regno della pace tutto il mondo girava intorno a un cerchio perfetto, città di Baghdad, città degli studiosi. Empirico umile centro del mondo. Città in cenere Città di Baghdad”, canta Patti Smith in Radio Baghdad. Nel 2017, il cardinale Giovanni Battista Re (che oggi è il Decano del Sacro Collegio) spiegò con chiarezza sull’Osservatore Romano come mai Giovanni Paolo II non poté andare in Iraq. Gli Usa erano totalmente contrari alla visita papale e fecero di tutto per bloccarla perché avrebbe "rafforzato Saddam e reso più difficile un intervento militare contro l’Iraq”. “In realtà, la visita di Giovanni Paolo II in terra irachena - scrisse Re - avrebbe probabilmente orientato a trovare una soluzione pacifica, tanto più che in realtà né il sospettato programma nucleare segreto né le armi chimiche esistevano, come poi risultò». Giovanni Paolo II fu un buon profeta quando mise in guardia dalla devastazione di quella guerra, perché si è dimostrata la matrigna di tutte le guerre più recenti. Ancora il cardinale Re: “Un punto sembra certo: se tale infelice guerra non avesse avuto luogo, non avrebbero probabilmente avuto luogo le cosiddette primavere arabe con le conseguenze da esse portate, né l’attuale guerra in Siria che dura ormai da sei anni, né il sedicente Stato islamico, almeno per quanto riguarda le basi che esso riuscì ad avere in Iraq e in Siria. E di conseguenza neppure vi sarebbero oggi i numerosissimi profughi che fuggono dalla guerra verso l’Europa per sottrarsi alla morte. Né i migranti che, spinti dalla fame, cercano una prospettiva di futuro, mentre non pochi di essi, purtroppo, periscono tragicamente in mare, rendendo ancora più grave una emergenza che non sembra avere fine. È una pagina di storia che fa pensare". La guerra in Iraq è stata la matrigna di tutte le ultime guerre, perché ha quasi distrutto la “culla” dell’umanità. Ecco perché Papa Francesco non ha potuto deludere il popolo iracheno per la seconda volta, dopo Giovanni Paolo II, come ha annunciato lui stesso mercoledì scorso, durante l’Udienza generale. Ma insieme agli iracheni, a ben guardare non poteva deludere neanche noi.

Una terra martoriata dalle guerre e dalle lacrime di Nassiriya. Fausto Biloslavo su Inside Over il 7 marzo 2021. UR (Iraq) – Il bisonte grigio dei cieli con le insegne delle forze aeree irachene ha una missione anomala per un paese decimato da anni di guerre e terrorismo. Non imbarca soldati per qualche fronte nel deserto, ma i giornalisti per portarli alla scenografica tappa di Papa Francesco ad Ur, la città di Abramo. Il secondo giorno della storica visita in Iraq, Bergoglio ha incontrato il Marja, il “Papa” della maggioranza sciita, il grande ayatollah Alì al Sistani. E di fronte lo Ziggurat, l’antico tempio sumero con la scalinata di settemila anni fa, ha voluto al suo fianco i rappresentanti di tutte le religioni della culla della civiltà. Il novantenne Sistani, barbone grigio, turbante e tonaca nera dei leader spirituali sciiti si è visto a quattr’occhi per 45 minuti con il Papa di 84 anni vestito di bianco, in una stanza spoglia con due divanetti, un tavolino d’angolo ed una confezione di fazzoletti di carta. Bergoglio ha ringraziato Al Sistani per avere “levato la sua voce in difesa dei più deboli e perseguitati”. Leggi cristiani vessati dai tagliagole jihadisti. Adesso sono proprio le milizie sciite vicine all’Iran a voler scalzare i cristiani che tornano nella loro case nella piana di Ninive, dopo l’uragano dello Stato islamico. Sistani, venerato dal suo popolo, è considerato il contraltare degli ayatollah iraniani troppo influenti in Iraq. Un suo sermone fa cadere i governi, come è capitato negli ultimi tempi. Quando i carri armati americani avanzavano a cannonate verso Baghdad nel 2003, l’abitazione spartana di Sistani nella città santa di Najaf, dove ha incontrato il Papa, era diventata subito il centro del mondo sciita in Iraq. Il figlio Mohammed Reza rilasciava interviste parlando solo con i giornalisti uomini, che dovevano ripetere le domande delle colleghe donne per ottenere risposte. Oggi è il potente interprete della volontà del padre e probabile regista dello storico incontro con Bergoglio paragonato a quello fra San Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto del 1219, durante la quinta Crociata. In attesa del Papa ad Ur, davanti alla casa di Abramo, è affascinante e possente lo Ziggurat che si erge nel deserto. Alla base della grande scalinata eravamo arrivati nel 2006 scortati dai carabinieri della missione Antica Babilonia. Il maresciallo capo Franco Lattanzio, poco tempo dopo veniva bruciato vivo da una carica cava dei ribelli sciiti filo iraniani assieme ad altri soldati italiani. Sui ponti di Nassiriya, che si intravede sullo sfondo, nel 2003 il 3° marines aveva affrontato i primi attacchi suicidi. Pochi anni dopo il reggimento San Marco ed i bersaglieri hanno combattuto aspre battaglie. I giovani ribelli sciiti della prima ora contro Saddam mi hanno regalato il modellino dello Ziggurat con la sabbia del deserto di Ur. “A Nassiriya indimenticabile la strage del 12 novembre 2003 che provocò 28 morti di cui 19 nostri italiani” ha twittato padre Antonio Spadaro, direttore della rivista La Civiltà Cattolica, che sta accompagnando Papa Francesco. Da giornalista arrivato subito dopo non posso cancellare l’odore di morte di Animal hosue, la palazzina dei carabinieri fatta a pezzi dai kamikaze jihadisti, le bare allineate dei caduti benedette da fratello Mariano, il cappellano militare dei Dimonios della brigata Sassari ed i feriti imbarcati sui C-130. Papa Francesco arriva ad Ur affaticato con il vento che scompiglia l’abito bianco. Sul palco siedono attorno il mullah sciita, il muezzin sunnita e anche un rappresentante religioso yazida, che i tagliagole delle bandiere nere bollavano come “adoratori del diavolo”. I resti che avevamo trovato nelle fosse comuni a cielo aperto di Sinjar, la “capitale” yazida, di bambini che indossavano la maglietta dell’inter e padri finiti con un colpo di pistola alla nuca stanno ancora venendo alla luce. Bergoglio ricorda il genocidio yazida e lancia un segnale forte: “Noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione”. Non solo cita “la martoriata Siria”, ma si appella a tutte le religioni a favore della fratellanza e della pace. Poche ore dopo, a Baghdad, il Papa officia la prima messa in Iraq nella cattedrale caldea di San Giuseppe. “L’amore è la nostra forza, la forza di tanti fratelli e sorelle che anche qui hanno subito pregiudizi e offese, maltrattamenti e persecuzioni per il nome di Gesù” ha detto Francesco nell’omelia. E proprio i cristiani perseguitati sono i veri beati, secondo il Papa. “Di fronte alle avversità ci sono sempre due tentazioni. La prima è la fuga: scappare, voltare le spalle, non volerne più sapere. La seconda è reagire da arrabbiati, con la forza” ha spiegato Bergoglio rigettando la violenza. E denunciando “quanti martiri nell’ultimo secolo.

Papa Francesco a Mosul. Nell'ex roccaforte dell'Isis, prega per le vittime della guerra. Paolo Rodari su La Repubblica il 7 marzo 2021. Nella tappa più simbolica del viaggio in Iraq, il Pontefice ricorda gli antichi luoghi di culto distrutti e le migliaia di persone sfollate con la forza o uccise: "Riaffermiamo che la fraternità è più forte del fratricidio, la speranza è più forte della morte, la pace è più forte della guerra”. Ai cristiani chiede che abbiano  "la forza di perdonare". Arriva a Hosh al-Bieaa, la piazza delle Quattro Chiese a Mosul, dove l’Isis proclamò il califfato. È uno dei momenti più carichi di simbolismo della visita apostolica del Papa in Iraq. Qui dove l’Isis aveva la sua roccaforte, Francesco cammina come pellegrino di pace e prega per tutte le vittime della guerra. Se ci sono istantanee che fanno la storia, questa è una di quelle. Francesco ringrazia i presenti e le parole di padre Raid, sacerdote a Mosul, che precedono le sue. “Lei ci ha raccontato dello sfollamento forzato di molte famiglie cristiane dalle loro case”, dice. “Il tragico ridursi dei discepoli di Cristo, qui e in tutto il Medio Oriente, è un danno  incalcolabile non solo per le persone e le comunità interessate, ma per la stessa società che si lasciano alle spalle”. Il vescovo di Roma non è arrivato fino a qui per piantare una sua bandiera, ma per pregare e implorare la pace: “Un tessuto culturale e religioso così ricco di diversità è indebolito dalla perdita di uno qualsiasi dei suoi membri, per quanto piccolo”, dice. E ancora: “Come in uno dei vostri tappeti artistici, un piccolo filo strappato può danneggiare l’insieme”. Le sue parole sono accolte da una piazza che rimane in silenzio. Il tono del Papa è penitenziale. Francesco ricorda anche “l’esperienza fraterna” che padre Raid “vive con i musulmani, dopo essere ritornato a Mosul”. “Lei – dice – ha trovato accoglienza, rispetto, collaborazione. Grazie, Padre, per aver condiviso questi segni che lo Spirito fa fiorire nel deserto e per averci indicato che è possibile sperare nella riconciliazione e in una nuova vita”. Il Papa fa suo l’invito alla comunità cristiana del signor Aagha, un altro testimone che ha raccontato la sua esperienza, “a tornare a Mosul e ad assumere il ruolo vitale che le è proprio nel processo di risanamento e di rinnovamento”. Dice ancora: “Oggi eleviamo le nostre voci in preghiera a Dio Onnipotente per tutte le vittime della guerra e dei conflitti armati. Qui a Mosul le tragiche conseguenze della guerra e delle ostilità sono fin troppo evidenti”. E ricorda le sofferenze di tutti: “Com’è crudele che questo Paese, culla di civiltà, sia stato colpito da una tempesta così disumana, con antichi luoghi di culto distrutti e migliaia e migliaia di persone – musulmani, cristiani, yazidi e altri – sfollati con la forza o uccisi! Oggi, malgrado tutto, riaffermiamo la nostra convinzione che la fraternità è più forte del fratricidio, che la speranza è più forte della morte, che la pace è più forte della guerra. Questa convinzione parla con voce più eloquente di quella dell’odio e della violenza; e mai potrà essere soffocata nel sangue versato da coloro che pervertono il nome di Dio percorrendo strade di distruzione”. Quindi Francesco si alza e prima di rivolgere una preghiera di suffragio per le vittime della guerra offre ai presenti ancora qualche riflessione: “Se Dio è il Dio della vita – e lo è –, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome”, dice. “Se Dio è il Dio della pace – e lo è –, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome.  Se Dio è il Dio dell’amore – e lo è –, a noi non è lecito odiare i fratelli. Ora preghiamo insieme per tutte le vittime della guerra, perché Dio Onnipotente conceda loro vita eterna e pace senza fine, e le accolga nel suo amorevole abbraccio. E preghiamo anche per tutti noi, perché, al di là delle appartenenze religiose, possiamo vivere in armonia e in pace, consapevoli che agli occhi di Dio siamo tutti fratelli e sorelle”. Quindi ecco la sua lunga preghiera: “Altissimo Dio, Signore del tempo e della storia, Tu per amore hai creato il mondo e non smetti mai di riversare sulle tue creature le tue benedizioni. Tu, al di là dell’oceano della sofferenza e della morte, al di là delle tentazioni della violenza, dell’ingiustizia e dell’iniquo guadagno, accompagni i tuoi figli e le tue figlie con tenero amore di Padre. Ma noi uomini, ingrati per i tuoi doni e distolti dalle nostre preoccupazioni e dalle nostre ambizioni troppo terrene, spesso abbiamo dimenticato i tuoi disegni di pace e di armonia. Ci siamo chiusi in noi stessi e nei nostri interessi di parte e, indifferenti a Te e agli altri, abbiamo sbarrato le porte alla pace. Si è così ripetuto quanto il profeta Giona udì dire di Ninive: la malvagità degli uomini è salita fino al cielo (cfr Gn 1,2). Non abbiamo alzato al Cielo mani pure (cfr 1 Tm 2,8), ma dalla terra è salito ancora una volta il grido del sangue innocente (cfr Gen 4,10). Gli abitanti di Ninive, nel racconto di Giona, ascoltarono la voce del tuo profeta e trovarono salvezza nella conversione. Anche noi, Signore, mentre ti affidiamo le tante vittime dell’odio dell’uomo contro l’uomo, invochiamo il tuo perdono e supplichiamo la grazia della conversione:  Kyrie eleison! Kyrie eleison! Kyrie eleison!”. E ancora: “Signore Dio nostro, in questa città due simboli testimoniano il perenne desiderio dell’umanità di avvicinarsi a Te: la moschea Al-Nouri con il suo minareto Al Hadba e la chiesa di Nostra Signora dell’orologio. È un orologio che da più di cent’anni ricorda ai passanti che la vita è breve e il tempo prezioso. Insegnaci a comprendere che Tu hai affidato a noi il tuo disegno di amore, di pace e di riconciliazione, perché lo attuassimo nel tempo, nel breve volgere della nostra vita terrena. Facci comprendere che solo mettendolo in pratica senza indugi si potranno ricostruire questa città e questo Paese, e si potranno risanare i cuori straziati dal dolore. Aiutaci a non trascorrere il tempo al servizio dei nostri interessi egoistici, personali o di gruppo, ma al servizio del tuo disegno d’amore. E quando andiamo fuori strada, fa’ che possiamo dare ascolto alla voce dei veri uomini di Dio e ravvederci per tempo, per non rovinarci ancora con distruzione e morte. Ti affidiamo coloro, la cui vita terrena è stata accorciata dalla mano violenta dei loro fratelli, e ti imploriamo anche per quanti hanno fatto del male ai loro fratelli e alle loro sorelle: si ravvedano, toccati dalla potenza della tua misericordia. Requiem æternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Requiescant in pace. Amen”.

"Cristiani, abbiate la forza di perdonare". Il Papa chiede ai cristiani della Piana di Ninive, che hanno sofferto la persecuzione dell'Isis, di avere la forza di perdonare. "Perdono: questa è una parola-chiave. Il perdono è necessario - ha sottolineato il Papa - per rimanere nell'amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra. Noi confidiamo in Lui e, insieme a tutte le persone di buona volontà, diciamo 'no' al terrorismo e alla strumentalizzazione della religione".

"Le donne vanno rispettate". Il Papa chiede rispetto per le donne che nei conflitti in Iraq hanno subito le ferite più profonde. Da Qaraqosh, nell'incontro con la comunità cristiana che ha subito la barbarie dell'Isis, Papa Francesco ricorda che "le madri consolano, confortano, danno vita. E vorrei dire grazie di cuore a tutte le madri e le donne di questo Paese, donne coraggiose che continuano a donare vita nonostante i soprusi e le ferite. Che le donne siano rispettate e tutelate! Che vengano loro date attenzione e opportunità!"

Messa allo stadio di Erbil: "La Chiesa qui è viva". "Il Signore ci promette che, con la potenza della sua Risurrezione, può far risorgere noi e le nostre comunità dalle macerie causate dall'ingiustizia, dalla divisione e dall'odio. E la promessa che celebriamo in questa Eucaristia". Lo sottolinea il Papa nella messa celebrata nello stadio di Erbil. Bergoglio ribadisce il suo no si proselitismi: "Con la potenza dello Spirito Santo ci invia, non a fare proselitismo, ma come suoi discepoli missionari, uomini e donne chiamati a testimoniare che il Vangelo ha il potere di cambiare la vita. Il Risorto ci rende strumenti della pace di Dio e della sua misericordia, artigiani pazienti e coraggiosi di un nuovo ordine sociale". Bergoglio sferza i cristiani: "La Chiesa in Iraq, con la grazia di Dio, ha fatto e sta facendo molto per proclamare questa meravigliosa sapienza della croce diffondendo la misericordia e il perdono di Cristo, specialmente verso i più bisognosi. Anche in mezzo a grande povertà e difficoltà, molti di voi hanno generosamente offerto aiuto concreto e solidarietà ai poveri e ai sofferenti. Questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a venire in pellegrinaggio tra di voi a ringraziarvi e confermarvi nella fede e nella testimonianza. Oggi, posso vedere e toccare con mano che la Chiesa in Iraq è viva, che Cristo vive e opera in questo suo popolo santo e fedele".

Papa Francesco a Erbil: "Qui la Chiesa è viva". Il Santo Padre in Iraq celebra la Messa accanto alla statua della Madonna decapitata dai tagliagole dell'Isis: "Qui ferite della guerra". Fausto Biloslavo - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. (Erbil) Papa Francesco entra nello stadio di Erbil sulla papamobile. I cristiani d'Iraq, oltre diecimila, lo attendono da ore. Tutti lo vogliono vedere e, per questo motivo, il Santo Padre compie il giro di tutto lo stadio, accompagnato da una grande ovazione. Tutti provano a fare una foto con lui, ma solo pochi ce la fanno. Ad attendere Francesco sull'altare, c'è la statua della Madonna decapitata dai tagliagole dell'Isis ai tempi dello Stato islamico. Ora l'immagine sacra è stata ristrutturata, ma porta ancora i segni della barbarie jihadista. "La stiamo restaurando, ma vogliamo mantenere i segni del crimine", ci aveva detto qualche giorno fa Malik Kadifa, mentre la ristrutturava. È stato di parola. Il Santo padre la cosparge d'incenso subito dopo esser arrivato sull'altare. Nella tribuna d'onore ci sono le autorità curde, a cominciare da Massoud Barzani, quelle diplomatiche come il console italiano Serena Muroni, e quelle militari, come alcuni soldati, non italiani, della missione Nato comandata dal generale Francesco Principe. "Qui in Iraq, quanti dei vostri fratelli e sorelle, amici e concittadini portano le ferite della guerra e della violenza, ferite visibili e invisibili! La tentazione è di rispondere a questi e ad altri fatti dolorosi con una forza umana, con una sapienza umana. Invece Gesù ci mostra la via di Dio, quella che Lui ha percorso e sulla quale ci chiama a seguirlo", ha detto il Papa durante l'omelia. E poi: "La Chiesa in Iraq, con la grazia di Dio, ha fatto e sta facendo molto per proclamare questa meravigliosa sapienza della croce diffondendo la misericordia e il perdono di Cristo, specialmente verso i più bisognosi. Anche in mezzo a grande povertà e difficoltà, molti di voi hanno generosamente offerto aiuto concreto e solidarietà ai poveri e ai sofferenti. Questo è uno dei motivi che mi hanno spinto a venire in pellegrinaggio tra di voi a ringraziarvi e confermarvi nella fede e nella testimonianza. Oggi, posso vedere e toccare con mano che la Chiesa in Iraq è viva, che Cristo vive e opera in questo suo popolo santo e fedele".

Andrea Monda per “L’Osservatore Romano” il 7 marzo 2021. «Quando ho saputo del viaggio del Papa in Iraq sono rimasto colpito nel profondo, visto che ho passato gli ultimi tre anni in quella zona del mondo per girare Notturno. È un gesto coraggioso e un atto d’amore nei confronti di una terra violentata e poi abbandonata, solo così me lo spiego: un atto d’amore». Gianfranco Rosi è felice di spiegare a «L’Osservatore Romano» come è nato il suo ultimo documentario che lo ha visto impegnato negli stessi luoghi che da domani saranno visitati da Papa Francesco. E per farlo deve partire da lontano: «Notturno nasce a Lampedusa dove avevo girato Fuocoammare. Lampedusa: la porta d’Europa dove arrivano persone che scappano dalla guerra e dalla fame, un primo punto di arrivo e di passaggio. Anche per questo a Lampedusa non sono riuscito ad avere un incontro, a instaurare un rapporto. Questo mi mancava, l’incontro, ed è ciò che sono andato a cercare in Iraq e nelle terre in cui ho girato Notturno. Perché per me è fondamentale l’incontro: si possono sviluppare delle storie solo grazie al rapporto che si crea con le persone che incontro». Lampedusa è stata anche la meta del primo viaggio, in qualche modo “programmatico”, di Francesco: un viaggio nelle periferie, proprio come Notturno e prima ancora Sacro Gra, girato sul Grande raccordo anulare. «Il Papa parla di periferie, io posso dire che mi sono sentito spinto di andare in luoghi dove non ero mai stato. E mi ha fatto piacere sentire alcuni che mi hanno detto che dopo aver visto Sacro Gra, avevano “scoperto” Roma, la vedevano ora e la capivano in maniera diversa, avendola vista da questo anello che la circonda tutt’intorno. Per me è importante fare l’esperienza di luoghi, situazioni, condizioni, che prima ignoravo, questo forse permette una più profonda conoscenza». Le periferie, l’incontro, la memoria, questi i poli della ricerca creativa del regista romano: «Notturno è affidato all’incontro e alle lunghe relazioni scaturite nei tre anni in cui ho percorso questi confini tra la vita e la morte segnati dalla presenza dell’Isis e anche dallo sgretolamento di quella presenza (anche se ora mi dicono che dopo quest’anno di pandemia l’Isis sta riprendendo piede). Quell’incontro che era mancato a Lampedusa l’ho trovato qui: nella madre che piange il figlio torturato e ucciso, nel senso di disperazione per la mancanza di un futuro che lega tutti i personaggi, nel racconto che tiene viva la memoria. Ad esempio la prima scena, il dolore di una madre che perde un figlio è un dolore universale, che non ha più confini. Sono stato per tre anni lungo i confini della Siria, del Libano, dell’Iraq e del Kurdistan e il film segna come una parabola lungo quello che io chiamo il “tradimento della storia” raccontando la tragedia dei destini di quei popoli, dell’identità cancellata. “Dov’è il nostro Dio?” si chiedono i personaggi del film e poi: “Siamo passati dalla colonizzazione alla liberazione dagli americani ma il risultato è sempre quello, un tradimento”. Un racconto che quindi è memoria viva». Sin dal primo minuto emerge infatti la memoria di un’identità cancellata, dell’alterazione, della violenza fatta a una terra e ai popoli che l’abitano: il film non a caso inizia con una didascalia che sottolinea la falsità dei confini costruiti nel 1913 in maniera totalmente arbitraria, a tavolino, dagli occidentali. «Tutto parte da lì — precisa Rosi —. Per questo ho scelto di annullare il riferimento geopolitico; di ogni scena che si vede non è indicato in quale delle quattro nazioni ci troviamo. Ho voluto abbattere i confini, per rendere il film uno spazio mentale, una struttura accogliente nella quale anche lo spettatore poteva ritrovarsi: queste storie riguardano tutti. Lo spettatore così ha potuto, spero, rivivere la mia esperienza. Sono arrivato e rimasto in questi luoghi per tre anni, e in questo lungo tempo ho incontrato tante persone, che si vedono nel film, con le quali ho creato un rapporto, cercando di entrare in intimità in modo da restituire una “sintesi” della vita da loro vissuta». Una vita segnata dal dolore. E dalla guerra che è lì, sullo sfondo, con la sua “colonna sonora” incessante, ineluttabile. «La guerra è sempre presente in ogni scena del mio film, perché poi la guerra non è mai solo dove accade ma anche a chilometri di distanza nella vita concreta delle persone e nel procedere della quotidianità. A volte il dolore era talmente grande da diventare indicibile, penso ad esempio alla scena della madre che ascolta i messaggi della figlia prigioniera dell’Isis. Io non ho raccontato tutto, ho anzi tolto, procedendo per sottrazione: la storia di queste donne, madre e figlie, prigioniere dell’Isis è al di là di ogni possibile parola, rappresentazione. Davanti al suo racconto ero paralizzato, era impossibile realizzare una ripresa. Poi la madre stessa mi ha chiesto di ascoltare dal telefonino i messaggi della figlia. La scena è girata quasi al buio, si vede solo la luce del telefonino, la lacrima sul volto della donna, la voce della figlia... tutto ridotto all’essenza nel rispetto del linguaggio rigoroso del cinema, più eloquente di ogni possibile discorso. Grazie a questo linguaggio lo spettatore riesce veramente ad entrare nelle storie, per questo ho cercato di sparire, di togliermi di mezzo in modo che la storia diventi la storia di chi guarda». Colpisce infatti l’approccio umile dello stile registico, un procedimento “a levare”, a suggerire senza mai imporre, a mostrare senza dire. «Esattamente; il senso che ho incontrato in quei luoghi e che ho cercato di trasmettere è il senso dell’attesa e della sospensione: racconto un mondo sospeso che tende verso un futuro sospeso. Per farlo ho quasi dovuto scegliere la via stilistica della sottrazione. Un po’ devo dire che ho sempre fatto così. Nel mio lavoro io non scrivo mai, il testo scritto è quasi infinitesimale. Mi sono lasciato ispirare da un’idea del mio maestro, Charles Bowden che diceva che la prima scrittura di un film deve entrare nello spazio di una scatola di fiammiferi. Se c’è quell’idea centrale tutto fila, ma se tu non hai quella cosa dentro, allora le altre cose non le vedi. Devi avere un nucleo, un fuoco. Questo non impedisce mai l’apertura anche alla sorpresa, all’imprevisto, anzi la favorisce: un film nasce da un momento preciso, da uno sguardo. Come diceva Calvino, la verità è qualcosa che ti passa accanto non c’è più perché è già andata, però quel momento lì è avvenuto e ti fa girare la testa per seguirlo, proprio come un innamoramento. È un attimo ma quel momento lì io l’ho vissuto in tutte le scene del film, con i soldati sul fronte, nel teatro con quella compagnia...». Questa “via umile” suona come una voce fuori dal coro, come un segno di contraddi- zione rispetto al cinema più diffuso oggi. «Ci sono storie che vengono raccontate con molte informazioni e tante spiegazioni, quasi a giustificare il lamento, il risentimento. Io ho scelto un’altra via, perché mi sembra che il mondo sia già talmente pieno di informazioni. La sfida era quindi quella di dare il minimo delle informazioni possibile per creare un territorio accogliente, dare vita a un percorso più emotivo, aperto più alla sorpresa che tendente alla difesa. Riuscire a parlare anche con l’assenza, con il silenzio nello spazio tra le parole. È un film fatto di inizi, per cui ogni scena è un nuovo avvio e tutto tende verso lo sguardo del giovane Alì nel finale: tutto il film è caricato su quello sguardo di trenta secondi che è appunto essenza di un futuro sospeso, che non si conosce. Cosa sarà di Alì? Diventerà un cacciatore, un combattente, una vittima? Se il cinema non apre mondi, prospettive, non mi interessa».

Cosa significa la visita di papa Francesco a Qaraqosh, la città irachena dei martiri che non potrà mai rinascere. Distrutta dall’Isis, ospitava la più grande comunità cristiana del paese. Ma la ricostruzione è solo il primo passo. E la visita del Pontefice nella chiesa di al-Tahira è un inno alla speranza perché ritornino profughi ed emigrati. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 5 marzo 2021. Sulla strada che porta a Qaraqosh, da Erbil, le bandiere vaticane sono legate assieme a quelle curde e a quelle irachene. Ai check point grandi cartelli raffigurano papa Francesco. Benvenuto a Bagheda, l’altro nome di Qaraqosh con cui i cristiani preferiscono chiamare la città, 30 chilometri a est di Mosul, che un tempo era la più grande città cristiana in Iraq. Nella chiesa di al-Tahira, l’Immacolata Concezione, la più grande chiesa siro-cattolica del Medio Oriente, un gruppo di giovani in ginocchio, a terra, lucida il pavimento. I volontari più anziani sistemano le sedie, di legno e velluto rosso, fila dopo fila. Sono le nove di mattina dell’ultimo lunedì di febbraio a Qaraqosh, quando il convoglio delle forze militari della piana di Ninive si ferma di fronte alla chiesa di al-Tahira. Il capo delle forze militari, il comandante Ismail Shihab al Mahlawi, cammina verso padre Ammar Yako, che supervisiona i lavori: «Andrà tutto bene, padre, stia tranquillo». Parlano dei danni della guerra, sorridono a favore di telecamere – poche per la verità – si siedono qualche minuto nella cripta insieme. I soldati monitorano l’area esterna alla chiesa, il tetto, l’altare che aspetta la visita di papa Francesco. I fedeli raggiungono la chiesa, uno dopo l’altro, vogliono tutti partecipare alla preparazione. Si guarda intorno in un misto di emozione e raccoglimento: «Non l’avremmo mai immaginato possibile», dice, indicando un giovane che dipinge un cartello di benvenuto. C’è scritto: «Vogliamo la pace». È da qui che la notte del 6 agosto 2014, quando l’Isis stava per occupare il villaggio, padre Ammar faceva spola per accompagnare la sua gente al check point di Erbil, e aiutarli a scappare. Nel raccontare quelle ore ha la minuzia di chi ha trattenuto i ricordi ogni giorno per tre anni. Gli anni in cui la vita era una vita da sfollato, nel kurdistan iracheno. «Abbiamo detto messa al mattino. Eravano solo venticinque. La gente aveva già paura di uscire di casa. Sapevamo che l’Isis stava arrivando, io ero angosciato e pensavo solo a come aiutare la mia comunità, ma molti facevano resistenza, speravano che sarebbe stato come due mesi prima, a giugno, quando l’Isis aveva attaccato la piana di Ninive. Avevamo tutti lasciato casa per tre giorni, e poi siamo tornati». Invece nell’agosto del 2014 stava cambiando tutto. Padre Ammar la chiama «l’inizio della trasfigurazione». Le famiglie arrivavano in chiesa con le buste e le valigie, e lui chiamava tutti i fedeli con automobili e camion per portare gli sfollati in Kurdistan. Per raccontare il momento in cui ha capito che tutto stava precipitando pensa a una famiglia nel cuore della notte, che cammina lungo la strada adiacente alla chiesa, madre, padre e due figli piccoli. I bambini piangono, i genitori trascinano due valigie. Non avevano un mezzo di trasporto, volevano raggiungere il Kurdistan a piedi: «Ci porti lei Padre, per favore». E così ha fatto, per tutta la notte, convincendo anche i più determinati a restare che la fuga fosse l’unica possibilità di sopravvivere. Una notte di staffetta tra Qaraqosh e Erbil: «C’erano migliaia, migliaia di persone ammassate e in fuga», fino all’ultimo viaggio. Quello dell’alba. «Erano le sette del mattino, ho guardato la strada che conduce al villaggio e ho pensato che non l’avrei rivisto». Quella notte dalla piana di Ninive sono fuggiti 120 mila cristiani. Padre Ammar è rimasto in Kurdistan per due anni. È tornato con le truppe il giorno della liberazione. Era ottobre del 2016. Della chiesa di al-Tahira e della sua storia rimanevano solo rovine. Per più di due anni gli jihadisti dell’Isis avevano cercato di cancellare qualsiasi prova del cristianesimo da Qaraqosh: chiese abbattute, icone e statue distrutte, campanili gettati a terra, croci date alle fiamme. Duemila case civili erano andate distrutte. Non c’era più acqua né elettricità. Padre Ammar è nato qui, ci tiene a dirlo, e non solo Qaraqosh è la sua terra ma «la chiesa è una madre per me e tutta la mia gente». Gli abitanti della città hanno cominciato a costruirla nel 1932, ognuno ha contribuito come poteva, lavorando o finanziando, fino al 1946, quando la chiesa è stata inaugurata. «Ognuno qui ha una storia da raccontare legata alla chiesa di al-Tahira. Ecco perché la visita di papa Francesco è importante, perché ricorda che gli sforzi non svaniscono, che dalle ceneri si può ricostruire». Prima dell’Isis a Qaraqosh vivevano 50 mila persone. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal Nineveh Reconstruction Committee (Nrc) solo la metà delle 11.111 famiglie cristiane fuggite è tornata a Qaraqosh. Una comunità zoppa. Fuggiti all’estero nei primi mesi dell’occupazione dell’Isis o rimasti in Kurdistan perché è vero che la città è stata liberata ma è vero anche che per i giovani non c’è lavoro. Lo sottolinea padre Ammar: «Qui per i lavori di ricostruzione il governo di Baghdad non ha dato un soldo, la chiesa è tornata a vivere grazie a donazioni private e così le case dei cristiani. Chi è tornato lo ha fatto ricostruendo a proprie spese. Il governo ha asfaltato le strade. Si è ricordato di noi ora, per la visita del Papa». La maggior parte dei cristiani di Ninive sono discendenti degli Assiri, il cui impero si diffuse in tutto l’Iraq più di 3000 anni fa. Un tempo il paese ospitava quattro milioni di cristiani. È difficile oggi conoscere il numero esatto di cristiani che ancora vivono in Iraq, perché non esiste un censimento completo dal 1987. L’organizzazione per i diritti umani di Baghdad Hammurabi, che fa campagne a favore delle minoranze, ritiene che al momento dell’invasione statunitense del 2003 ci fossero ancora in Iraq un milione e mezzo di cristiani, in un paese di 25 milioni di persone, ovvero circa il 6 per cento della popolazione. Però, mentre la popolazione irachena cresceva rapidamente, la percentuale delle minoranze si riduceva. Oggi gli iracheni sono 40 milioni e i cristiani solo 400 mila, secondo William Warda, co-fondatore di Hammurabi. La gestione del potere post invasione ha aperto la strada ai partiti sciiti e alle milizie a essi legati che negli anni hanno monopolizzato il potere sia nei ministeri che nelle forze di sicurezza. Ai cristiani, che oggi rappresentano meno dell’un per cento della popolazione, spettano cinque parlamentari su 329 seggi. Troppo pochi e troppo deboli. La visita del Papa serve anche a questo, a dire ai cristiani d’Oriente: non siete soli. A dire alle comunità dimezzate di non sparire. È questo il più grave danno dell’occupazione jihadista, ben più dei saccheggi delle case, delle infrastrutture carbonizzate, è la gente che è andata via. Le città e i villaggi svuotati: «Non possiamo far tornare chi ha deciso di andare via ma possiamo cercare di costruire le condizioni affinché i giovani che sono qui non se ne vadano», dice padre Ammar. Per questo ha riaperto la biblioteca della Casa di San Paolo. I giovani cantano. Provano i cori per la visita di papa Francesco. Leggono libri tornati in Iraq dopo la liberazione perché l’intera biblioteca era stata data alle fiamme. Studiano. Ma la libertà di tornare a casa non ferma la fuga. La precaria economia del paese, aggravata dall’anno dell’epidemia e dalla conseguente recessione, ha aggravato ancora la situazione. Il crollo del prezzo del petrolio ha ridotto le entrate statali della vendita del greggio e i dipendenti pubblici per mesi hanno lamentato di ricevere solo una piccola percentuale di stipendio. Chi riesce, mette da parte i soldi necessari per partire e parte per non tornare. Tra coloro che se ne sono andati, mezzo milione si è reinsediato negli Stati Uniti. Altri sono finiti dispersi in Canada, Australia e in Europa. Si sentono abbandonati dal governo centrale, hanno paura di restare, intimoriti dalle milizie, spaventati dai cambiamenti demografici di alcune aree tradizionalmente cristiane, temono le cellule dormienti dell’Isis che continuano ad effettuare attacchi in alcune zone dell’Iraq, sono preoccupati per il futuro dei ragazzi che, nella divisione corrotta e settaria del potere, sentono di non avere possibilità. Oppure non hanno retto alle loro case saccheggiate, all’immagine del villaggio distrutto, presagio di un futuro troppo faticoso, e sono andati via. Burhan Abada è un volontario di cui padre Ammar si fida molto. È lui che chiama per raccontare cosa significhi vivere in una comunità dimezzata. Ha le mani rugose e segnate dal lavoro. Aveva una fattoria prima del 2014. Distrutta. Aveva una casa. Distrutta. Aveva una famiglia, numerosa. Se ne sono andati via quasi tutti. Il suo corpo non ha retto. Per un anno e mezzo ha lottato contro un cancro. Oggi trascina travi di legno, il suono del suo martello sui manifesti per papa Francesco spezza l’aria. Quando è stanco si ferma e prega. «Siamo tornati, certo, ma la liberazione del villaggio non significa che sia rinato del tutto. Puoi riparare casa tua, mettere di nuovo il tetto e verniciare le pareti. Ma qualcosa si è rotto e non tornerà come prima».

Il colloquio a Najaf. Chi è al-Sistani, l’Ayatollah incontrato da Papa Francesco in Iraq per un vertice "storico". Redazione su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Un incontro già definito storico quello avvenuto questa mattina tra Papa Francesco e il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, leader spirituale dell’Islam sciita. Il vertice avvenuto questa mattina nella città santa di Najaf, nel secondo giorno del viaggio del Pontefice nel Paese, segna uno spartiacque nella storia del dialogo tra cattolicesimo e islam. L’incontro nell’umile casa di al-Sistani è stato progettato per mesi, con ogni dettaglio scrupolosamente discusso e negoziato tra l’ufficio dell’ayatollah e il Vaticano. La riunione a porte chiuse ha toccato le questioni che affliggono la minoranza cristiana irachena. Al-Sistani è una figura profondamente venerata nell’Iraq a maggioranza sciita e le sue opinioni su questioni religiose sono ritenute fondamentali dagli sciiti di tutto il mondo. Secondo quanto fatto filtrare dal Vaticano, Papa Francesco ha ringraziato il massimo esponente religioso sciita iracheno per aver “alzato la voce in difesa dei più deboli”. Una nota diffusa dall’ufficio della massima autorità religiosa sciita irachena ha sottolineato inoltre che l’Ayatollah e il Pontefice argentino hanno parlato anche “della soppressione delle libertà fondamentali e dell’assenza di giustizia sociale, in particolare delle guerre, degli atti di violenza, degli embarghi economici e dello sfollamento di molti popoli nella nostra regione che soffrono, in particolare il popolo palestinese nei Territori occupati”. “Durante la visita di cortesia, durata circa quarantacinque minuti, – spiega in una nota il portavoce del Vaticano Matteo Bruni- il Santo Padre ha sottolineato l’importanza della collaborazione e dell’amicizia fra le comunità religiose perché, coltivando il rispetto reciproco e il dialogo, si possa contribuire al bene dell’Iraq, della regione e dell’intera umanità”. Una volta terminato l’incontro il Pontefice si è diretto verso Nassiriya per visitare Ur dei Caldei, una delle più antiche e importanti città sumeriche, per un incontro interreligioso: qui terrà il suo secondo discorso nel viaggio in Iraq.

CHI E’ AL SISTANI – L’Ayatollah sciita, 90 anni, ha un ruolo fondamentale non solo in ambito religioso. Al-Sistani è di fatto anche un leader intervenuto in maniera decisiva in diverse delle questioni più ‘calde’ nella storia recente dell’Iraq. Nel 2014, quando il potere dell’Isis nel Paese stava distruggendo la già fragile ‘democrazia’, emanò una fatwa con cui chiedeva di combattere lo Stato Islamico.

Ma l’impegno politico è riconosciuto ad al-Sistani anche in altre occasioni: nel 2005 si spese infatti per invitare gli iracheni a partecipare alle elezioni, le prime dopo l’invasione americana del Paese per deporre il regime sunnita di Saddam Hussein. Nel 2019 quindi, mentre il Paese era sconvolto da fortissime proteste antigovernative, intervenne spingendo alle dimissioni il primo ministro Adil Abdul Mahdi.

L’IMPORTANZA DELL’INCONTRO – L’incontro tra Papa Francesco e al-Sistani è considerato ‘storico’ in particolare per due ragioni: il vertice contiene infatti un implicito messaggio di pace in un Paese ancora oggi dilaniato da violenze interne, dovute alla presenza dell’Isis, e da una gravissima instabilità politica. L’importanza dell’incontro riguarda inoltre l’intera regione e in particolare l’ingombrante vicino, l’Iran, anch’esso a maggioranza sciita, che con la sua influenza vuole ‘manovrare’ gli affari interni iracheni. Al-Sistani notoriamente non è ‘amico’ dell’Iran e per questo l’incontro con Papa Francesco viene visto come il riconoscimento dell’Ayatollah come interlocutore del Vaticano con l’islam sciita, “sorpassando” Ali Khamenei, Guida suprema iraniana, ovvero la massima autorità politica e religiosa del suo Paese.

·        L’Islam e le donne.

Karima Moual per "La Stampa" il 9 dicembre 2021. «I diritti sessuali fanno parte dei diritti umani. Non sono diritti accessori, piccoli extra di cui potremmo tranquillamente fare a meno», scriveva nel suo libro Leila Slimani. Ed è proprio così che in Marocco continua a crescere il dibattito sul divieto di sesso extraconiugale che l'articolo 490 del codice penale punisce con una pena fino a un anno di reclusione. Complice anche la pandemia che ha messo in difficoltà il turismo estero, a ingrossare le fila di questa battaglia si aggiungono anche alcuni albergatori che chiedono la legalizzazione delle relazioni extraconiugali. «Ricevo più chiamate da coppie non sposate che vogliono restare rispetto a chiunque altro. Potrei riempire il mio hôtel se solo cambiassero la legge», ha dichiarato al quotidiano marocchino l'Economiste, Meryem Zniber, direttore d'hotel. Perché la legge sia rispettata, non è raro infatti vedere la polizia negli hotel per controllare i registri. Gli addetti alla reception sono tenuti a richiedere i certificati di matrimonio alle coppie prima di consegnare le chiavi. Othman Alami, proprietario di una grande catena di alberghi, ha le idee chiare: «Questo dibattito è molto importante, tanto più in un periodo dove il settore turistico è fortemente penalizzato, con azioni anti Covid-19 dove i turisti stranieri sono ormai rari per le varie chiusure. Migliaia di coppie giovani e anziane si assumono la responsabilità della loro vita sessuale, che è privata. Molti condividendo la stessa casa, senza essere sposati, o viaggiando all'estero. Ma questo non vale per le coppie che non hanno i soldi per viaggiare o per pagare due singole anziché una doppia. Questa situazione dovrebbe essere cambiata». Nel Paese, insomma, finché non hai la sfortuna di venire trovato con le mani nella marmellata, tutto fila liscio. C'è la consapevolezza che ci sia chi trasgredisce alcune leggi (soprattutto quelle che toccano la morale e riguardano la vita privata e intima), eppure si preferisce chiudere un occhio, senza affrontare di petto la questione. Ora, la sensazione è che con un nuovo governo di stampo liberale e gli islamisti del Pjd mandati a casa con le ultime elezioni - ma che per 11 anni al governo non hanno esitato a soffocare ogni iniziativa ritenuta haram o contraria alla legge islamica - si spera di aprire il dibattito su alcune leggi, considerate retrograde e fuori dal tempo. Tanto più che il Premier Aziz Akhannouch aveva annunciato una revisione importante del codice penale. Diverse campagne sono state condotte per chiedere la rimozione di questo articolo dal codice penale. Il più recente è stato lanciato sui social con l'hashtag «Vote4Love», dopo «Love is not a crime» e «Stop490». Basterà? Sicuramente no, perché il Paese rimane diviso e i conservatori hanno la loro forza, ma è comunque interessante vedere nascere più voci trasversali nel dibattito, anche quelle che con la chiave stessa dell'Islam, spiegano come questa legge sia ingiusta e sbagliata. Lo affronta molto bene l'intellettuale marocchina Asmae Lamrabet che ha diretto per sette anni il Centro di studi sulla donna nell'Islam, annesso alla Rabita Mohammadia degli Ulema (lega di teologi marocchini): «Interferire con la vita privata delle persone e la loro intimità è contrario all'Islam - ha scritto in un post su Facebook - che condiziona qualsiasi accusa del genere rendendone impossibile la prova. L'obiettivo è proteggere le persone. Il Profeta dell'Islam rispose a colui che veniva a denunciare i rapporti sessuali illeciti di un'altra persona: «Ma avresti dovuto coprirlo con i tuoi vestiti, sarebbe stato meglio per te!». «L'articolo 490 del codice penale marocchino che oggi criminalizza i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio è in contraddizione con l'etica musulmana e con l'etica stessa. È inaccettabile nel Marocco di oggi», ha concluso Asmae Lamrabet. Ora, la palla passa ai politici. Il Marocco ha saputo fare passi da gigante, ma è necessario aggiungerne un altro, perché rimane sempre un laboratorio e un esempio per tanti Paesi islamici. 

Perugia, l'islamico maltratta la moglie per il velo? Assolto dal giudice: la vergogna. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 20 novembre 2021. Cosa succede quando una coppia di origine marocchina, da anni residente in Italia, litiga, anche in maniera particolarmente violenta, costringendo la moglie a denunciare il marito alla polizia? Nulla. I comportamenti, «non condivisibili in ottica occidentale», rientrano comunque «nel quadro culturale dei soggetti interessati». Tradotto in altri termini, sei musulmana, tuo marito pure, sapevi bene a cosa saresti andata incontro sposandolo. Sta facendo molto discutere la richiesta di archiviazione da parte del pm di Perugia Franco Bettini della denuncia per maltrattamenti in famiglia presentata da una donna marocchina, stufa di subire violenze e minacce da parte del marito. La donna, nata in uno sperduto paesino del deserto del Marocco, si era sposata a dicembre del 2014, su consiglio della famiglia come da tradizione locale, con un uomo del suo villaggio. Lei aveva allora 26 anni, lui 32. Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce in Italia, a Tuoro in provincia di Perugia. Hanno tre figli. Il primo figlio nasce ad ottobre del 2015. Il secondo l'anno successivo ed il terzo dopo due. Il rapporto è «turbolento», come racconta la donna alla polizia. «Quando eravamo in Marocco mi faceva portare il velo integrale, anche con i guanti alle mani», afferma la donna, che aggiunge: «Non mi chiudeva in casa perchè abitavamo in campagna». Arrivati in Italia, però, si cambia decisamente regime: «Quando usciva mi chiudeva in casa e si portava via le chiavi». Questa situazione prosegue ininterrottamente dal 2015 al 2019. La donna può uscire di casa solo per andare dal medico o in ospedale a partorire. E, una volta nati i figli, per accompagnarli a scuola. La vita infernale della donna marocchina è ben descritta in questa scena: «Dopo aver partorito il primo figlio sono rientrata da sola a casa alle 4 e 30 del mattino. Mio marito allora ha preteso che gli preparassi la colazione. Io ero ancora dolorante. Lui mi diede uno schiaffo iniziando a dire che era buona a nulla». L'educazione dei tre figli è rigidissima, sotto gli stretti precetti del Corano. «Se qualcuno gli regalava un giocattolo mio marito diceva che era peccato», ricorda la donna. Essendo stata tenuta prigioniera in casa per tutti questi anni, la donna non ha imparato mezza parola d'italiano. Per presentare denuncia il mese scorso c'è stato bisogno dell'interprete. «Io non conosco la lingua e quando i nostri figli imparavano qualche parolina d'italiano mio marito glielo proibiva». L'uomo decide di separarsi. In Marocco. Durante il viaggio si porta via i documenti sanitari dei tre figli, mettendo in difficoltà la moglie rimasta in Italia. L'unica fonte di sostentamento per la donna è il bonus per madri senza lavoro erogato dall'Inps e pari a circa 2mila euro. L'aver preso questo bonus, purtroppo, è stato controproducente agli occhi del pm di Perugia. «Non ha segnalato la sua situazione ai servizi sociali, a cui si era rivolta per il ottenere il bonus, pur avendone la possibilità». Non sussiste, conclude il pm scrivendo il provvedimento di archiviazione, nel comportamento dell'uomo una tale offensività delle azioni da ingenerare i sentimenti tipici di paura ed ansia. Costringere ad indossare il velo integrale o obbligare la moglie a rimanere a casa per fare i figli rientra, dunque, nei comportamenti che una brava musulmana deve tenere con il marito. Influenze religiose a cui la donna non riesce a sottrarsi. Il difensore della donna, l'avvocato napoletano Gennaro De Falco, presenterà opposizione alla richiesta di archiviazione del pm «il prossimo 25 novembre, giornata della violenza sulle donne». 

Cantone si dissocia: «Lecito imporre il velo integrale? Non per la procura». Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone prende le distanze dalle parole del sostituto Franco Bettini, che ha chiesto l'archiviazione del caso di Salsabia Mouhib, la donna marocchina che ha denunciato il marito. «Premesso che non ero a conoscenza della vicenda, ritengo che non sia assolutamente condivisibile la posizione per la quale imporre il velo integrale sia un’idea culturalmente accettabile. Cioè questa non può essere considerata la voce della procura». Così il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, prende le distanze dalle parole del sostituto Franco Bettini, che lo scorso 15 ottobre ha chiesto al gip l’archiviazione del caso di Salsabia Mouhib, cittadina marocchina residente in Italia, che ha presentato una denuncia per maltrattamenti contro il marito, il connazionale Abdeleliah El Ghourafi. La donna ha raccontato che per anni il marito gli ha impedito di uscire dal suo appartamento se non per casi eccezionali e comunque rigorosamente velata dal niqab, e che non poteva disporre delle chiavi di casa e dei propri documenti di identità. Ma per il pm di Perugia, la condotta dell’uomo «di costringerla a tenere il velo integrale rientra, pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati», e ha quindi chiesto l’archiviazione del fascicolo, sostenendo che «dalle dichiarazioni rese, la donna non sarebbe mai stata minacciata di morte, né avrebbe subìto aggressioni fisiche tali da costringerla alle cure sanitarie». «Queste richieste non vengono sottoposte al visto del procuratore. Io ho saputo della cosa solo ieri sera. Ho chiesto subito lumi in modo informale al pm, riservandomi di verificare la situazione lunedì (domani, ndr) al rientro in ufficio», spiega Cantone al Corriere della Sera dopo che la notizia ha sollevato un polverone mediatico. Mentre l’avvocato Gennaro De Falco, difensore della donna, contesta le motivazioni contenute nella richiesta di archiviazione – «Le tradizioni loro vanno considerate? In Italia c’è la parità di diritti!» – e fa sapere che presenterà opposizione «il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne».

Mauro Zanon per “Libero Quotidiano” il 7 settembre 2021. È il 27 ottobre del 2019 quando una pattuglia del commissariato di Creil (città a nord di Parigi) scopre un corpo carbonizzato all'interno di una baracca abbandonata nella cité di Plateau-Rouher, banlieue multietnica dove la legge viene fatta dai boss della droga e si vive secondo i precetti dell’islam. Il corpo ritrovato dagli agenti è quello di Shaina, 15 anni, iscritta al liceo Cassini di Clermont, comune limitrofo, scomparsa pochi giorni prima in circostanze misteriose. I risultati dell'autopsia indicano che la giovane ragazza, prima di essere bruciata viva, è stata accoltellata più volte, ma soprattutto che era incinta da una decina di giorni. All'epoca, il barbaro assassinio dell'adolescente non suscitò reazioni mediatiche e politiche a livello nazionale, nonostante i genitori avessero tentato di sollecitare i media. Eppure, come rivelato dal quotidiano Le Monde in una lunga inchiesta pubblicata domenica, la tragedia di Shaina ha gli stessi contorni della morte della diciassettenne Sohane Benziane, bruciata viva dal suo ex ragazzo a Vitry-sur-Seine, nel 2002, perché si comportava "da occidentale". «La storia di Shaina è la storia di una vittima al cubo. È stata stuprata a 13 anni, picchiata due anni dopo perché ha sporto denuncia contro i suoi stupratori ed è stata bruciata viva in una baracca perché incinta. Non è un fatto di cronaca, ma di società, che dice molte cose sulla condizione delle donne nelle cités (i quartieri popolari ad alto tasso di immigrazione, ndr)», ha dichiarato al Monde Negar Haeri, avvocato della famiglia Hansye. Shaina amava la Francia e le sue libertà: voleva vivere all'occidentale. I genitori, originari delle Isole Mauritius e musulmani moderati, non le avevano imposto nulla: l'avevano cresciuta alla francese. «Non sono velata, fumo, ma sono anche musulmana. Non mi capacito del fatto che in Francia una donna possa morire perché donna, come accade in Afghanistan», ha detto al Monde la madre di Shaina, prima di aggiungere: «È stata punita dai ragazzi del quartiere. Voleva essere libera e l'hanno uccisa per questo motivo». La traiettoria di Shaina «si è spezzata per la prima volta nel 2017. Ha appena compiuto 13 anni quando viene stuprata dal suo ragazzzo Djibril B. e da due complici. Nel 2019, Shaina si invaghisce di Omar, un ragazzo musulmano di 17 anni. Hanno rapporti sessuali altalenanti, perché lui si vergogna di essere con la "pute" del quartiere, come viene soprannominata. A ottobre, Shaina scopre di essere incinta e lo comunica a Omar. La sera del 25 ottobre, in una capanna abbandonata, Omar la denuda, la accoltella, la cosparge di benzina e le dà fuoco. Incarcerato nel centro penitenziario di Liancourt, ha confessato tutto a un altro detenuto: «Mi ha risposto sorridendo, che era lì perché aveva ucciso la sua ragazza, una puttana che aveva messo incinta, e non voleva che sua madre lo sapesse perché era musulmano».

Raimondo Bultrini per "la Repubblica" il 9 agosto 2021. Ci sono voluti decenni per mettere la parola fine, anche se non ancora formalmente, al "test di verginità", una delle pratiche più umilianti alle quali sono sottoposte le donne indonesiane che vogliono entrare nell'esercito o nelle forze di polizia dell'arcipelago a maggioranza islamica. Con un messaggio a tutti gli ufficiali il capo dell'esercito generale Andika Perkasa ha annunciato che il controllo medico previsto per il reclutamento dovrà essere simile a quello degli uomini, ovvero una semplice valutazione della capacità dei candidati a poter prendere parte al pesante addestramento. La svolta riguarderà un'altra norma ancor più surreale, l'obbligo di illibatezza per le stesse fidanzate che vogliono sposare un ufficiale. Numerose organizzazioni dei diritti umani come la Commissione nazionale sulla violenza contro le donne si erano battute per abolire l'obbligo dell'umiliante test fisico, irrilevante e «privo di validità scientifica» come ha stabilito l'Oms nel 2014. Nel maggio 2015 anche la Commissione europea bollò il test vaginale come «discriminatorio e degradante». La decisione dell'esercito non è stata facile per le reticenze e la fortissima resistenza di influenti ambienti militari, politici e religiosi ortodossi. Il rappresentante indonesiano di Human Rights Watch Andreas Harsono ha accolto con soddisfazione le dichiarazioni del generale Perkasa, ma attende ora di vedere il provvedimento scritto nero su bianco. Harsono ricorda che il test, formalmente ancora in vigore, prevede «l'inserimento di due dita nella vagina per valutare se l'imene della donna sia intatto». A questa dolorosa umiliazione hanno detto di essere state sottoposte molte poliziotte, soldatesse e mogli di ufficiali intervistate da Hrw, che ha anche raccolto testimonianze di medici civili e militari costretti ad eseguire controvoglia un ordine a loro giudizio irragionevole. «Molte delle donne che abbiamo ascoltato - ha detto Harsono - hanno subito la pratica dagli Anni '70 (in piena dittatura del generale Suharto ndr ) fino al 2012 e 2013. Ma una poliziotta in pensione era stata "ispezionata" con lo stesso brutale metodo già nel 1965», ovvero durante il governo democratico di Sukarno, mentre nel Paese avvenivano quotidiani massacri di anti-comunisti e anti-cinesi. Hrw ha anche ottenuto copie dei controlli sanitari richiesti ai medici militari con una sezione "Ob-gyn" dove andava indicato il risultato del test sull'imene e due caselle da barrare con scritto "Intatto/ non intatto". A difendere la legittimità del test, rimasto in vigore sotto l'attuale presidente Joko Widodo, sono stati diversi ufficiali e mufti islamici secondo i quali misura «la personalità e la mentalità della persona» chiamata a «proteggere la nazione». Che una certa mentalità sia dura a morire lo ha ribadito ancora Harsono, per il quale le forze armate indonesiane dovrebbero non solo far seguire subito alle parole un provvedimento scritto, ma anche riconoscere che attraverso i test di verginità si è verificata una violenza di genere. Solo una trasformazione culturale verso il mondo femminile può creare «un modello per le generazioni future».

Neha Paswan, uccisa a bastonate dai nonni e appesa a un ponte a 17 anni: l'orrore per un paio di jeans. Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Sognava di diventare una poliziotta e aveva soltanto 17 anni. Neha Paswan ora non c'è più. Il motivo? Il modo in cui la ragazza si vestiva e che non è mai stato accettato dai propri parenti. Jeans e maglietta, invece del sari o del completo femminile tipicamente indiano con la lunga blusa e i pantaloni larghi, atti a celare ogni tipo di forma. Le tradizioni occidentali sono arrivate anche in India, dove ora sempre più ragazze decidono di esprimere la propria personalità anche attraverso un paio di jeans e una maglietta griffata. Neha non viveva però in una metropoli, bensì a Savreji Kharg, un villaggio nel distretto di Deoria, una delle regioni più arretrate dell'Uttar Pradesh. Spesso Neha veniva rimproverata dai nonni paterni per il suo abbigliamento "succinto", con il quale spesso prendeva parte anche ai riti religiosi e alle preghiere della famiglia. Mai però, la ragazza si sarebbe aspettata che un giorno sarebbe morta, per mano dei propri famigliari, solo per il modo in cui era vestita. Qualche giorno fa la ragazza è stata ritrovata priva di vita. È stata la madre, Shakuntala Devi Paswan, a far scattare le ricerche, dopo aver denunciata alla polizia locale che il nonno paterno e alcuni zii avevano malmenato la 17enne fino a tramortirla, per poi aver promesso di condurla in ospedale. Ma in ospedale, Neha non ci è mai arrivata. Il suo corpo è stato rinvenuto appeso a un ponte a pochi chilometri da casa. Secondo quanto emerso dall'autopsia, il cranio della ragazza è stato letteralmente spaccato a bastonate. Secondo quanto invece riportato dalla Bbc, dopo la denuncia della madre di Neha, la polizia ha posto in arresto quattro persone, il nonno paterno, due zii e l'autista che ha portato via la ragazza. Inoltre, sono state incriminate altre sei persone, sospettate di avere avuto un ruolo attivo nell'omicidio della povera Neha. 

Olimpiadi: chi è Kimia, l’atleta che ha sfidato gli ayatollah. Michael Sfaradi il 28 Luglio 2021 su NicolaPorro.it. Come la storia ci insegna e ci ha insegnato, nell’antichità le Olimpiadi rappresentavano cinque giorni di pace assoluta fra le genti, cinque giorni durante i quali gli atleti, che poi erano gli stessi soldati che fuori da quella bolla temporale si scannavano senza pietà, gareggiavano fra loro per dimostrare chi era il più forte, preparato o abile nella corsa o nell’uso delle armi, senza però inutili spargimenti di sangue. Pierre de Frédy, barone di Coubertin, chiamato solitamente Pierre de Coubertin, il papà delle olimpiadi moderne che visse a cavallo fra il 1800 e il 1900, periodo durante il quale guerre piccole e grandi, rivoluzioni, rivolte e pogrom erano all’ordine del giorno, aveva probabilmente in cuor suo il desiderio di riesumare quella famosa bolla temporale di pace, o meglio, di cessate il fuoco fra i popoli della Terra. Se da una parte è vero che nel tempo la sua idea, cioè le Olimpiadi, è diventata un grande spettacolo sportivo che riunisce atleti provenienti da ogni angolo di mondo, dall’altra, e questo è sotto gli occhi di tutti, la ricerca di dialogo e pace fra le genti e comportamenti integri nello spirito olimpico è stata un vero fallimento.

Politica (e terrorismo) alle Olimpiadi. La politica è entrata nello sport e l’ha strumentalizzato al punto che certi episodi sono passati nella storia, come ad esempio le Olimpiadi di Berlino del 1936 che furono organizzate come una grande celebrazione del regime nazista, con Hitler che si rifiutò di premiare Jesse Owens, atleta afroamericano originario dell’Alabama, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto, la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100. Quest’ultima era una gara a cui Owens, per assurdo, non era nemmeno iscritto. Furono i dirigenti della delegazione USA che decisero di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Con tanti saluti allo spirito olimpico e alla pace fra le genti. Per non parlare poi del massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco 72, ricordati con un minuto di raccoglimento solo dopo quarantanove anni e solo dopo un altro minuto di silenzio per le vittime del COVID. Praticamente due minuti di silenzio nella stessa occasione, dove il raccoglimento per le vittime della pandemia è stato sottolineato con grande enfasi da tutti i media del mondo, mentre il minuto di silenzio per le vittime di Monaco è passato, scusate il gioco di parole, sotto silenzio.

La storia di Kimia. La storia che voglio raccontare in quest’articolo, è però quella di Kimia Alizadeh, la prima donna iraniana che in assoluto è riuscita a vincere una medaglia olimpica alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016. Kimia Alizadeh che è una taekwondoka di altissimo livello internazionale, tornata a Teheran si è vista scippare la sua medaglia dal regime degli Ayatollah che l’ha costretta a dedicarla ai “martiri del tempio”, ovvero a quei combattenti che per ordine del regime andarono in Siria a difendere Assad e dove trovarono la morte. Questa entrata a gamba tesa del regime nella vita dell’atleta, che pure aveva festeggiato il suo successo a Rio abbracciando la bandiera iraniana, ci sono diverse fotografie a testimoniarlo, ha probabilmente creato un moto di reazione in lei al punto che si è fatta riprendere in alcune fotografie insieme al marito e senza velo. Questa protesta le è costata la squalifica da qualsiasi competizione e l’ha costretta a scappare e chiedere asilo politico in Germania. Negli ultimi quattro anni il regime ha fatto tutto ciò che poteva per distruggere la sua immagine, anche passare la notizia che la donna era rimasta vittima di un infortunio non curabile. Bugie queste che si sono rivelate in tutta la loro falsità nel momento in cui Kimia, che sta partecipando alle olimpiadi a Tokio nella squadra dei rifugiati, una squadra che raccoglie tutti gli atleti che per motivi politici non possono far parte delle delegazioni delle loro nazioni di nascita e che per questo gareggiano sotto la bandiera del Comitato Olimpico Internazionale, ha affrontato e sconfitto la sua ex compagna di squadra Nahid Kiani e lo ha fatto senza indossare il velo sotto il caschetto di sicurezza. Quel velo che per molti radical chic occidentali è diventato un vezzo della moda o il simbolo del rispetto per le tradizioni altrui, le stesse radical chic che non possono o non vogliono rendersi conto che invece si tratta di un simbolo di sottomissione che in troppe parti del mondo viene indossato non per scelta ma per obbligo. Alla fine del torneo Kimia Alizadeh non ha raggiunto il podio, ma affrontando e sconfiggendo la sua ex compagna ha dimostrato fino a che punto possono arrivare le bugie di regime e quanto ancora c’è da lavorare per mettere la politica al di fuori dello sport. Kimia Alizadeh che per vivere con i suoi capelli al vento è costretta all’esilio è, per chi ancora crede nella libertà, il vero simbolo di queste Olimpiadi. Michael Sfaradi, 28 luglio 2021 

"Sul lavoro il divieto di velo islamico è legittimo". La decisione della Corte Ue. Gerry Freda il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. La Corte si era espressa già nel 2017 sul tema del velo islamico nei luoghi di lavoro, giungendo allora a conclusioni analoghe a quelle di oggi. La Corte di Giustizia dell'Unione europea si è espressa ieri sul tema del diritto a indossare il velo islamico nei luoghi di lavoro, con una sentenza che ha riconosciuto il diritto di licenziare o sospendere una dipendente che indossa l'hijab; tale diritto andrebbe esecritato dai datori di lavoro, ha però precisato la Corte, soltanto in presenza di determinate condizioni. Il verdetto che ha legittimato il divieto di velo islamico sul posto di lavoro è stato emesso in questi giorni dal supremo tribunale Ue su impulso di un ricorso che era stato presentato da due cittadine musulmane residenti in Germania. Nella loro istanza, le ricorrenti sostenevano di avere subito discriminazioni sul lavoro proprio per via della loro fede islamica. La prima delle due promotrici della causa era un'educatrice specializzata presso l'ente tedesco di assistenza ai minori Wabe eV, mentre l'altra era consulente di vendita e cassiera della compagnia Mh Muller Handels GmbH. Entrambe avevano denunciato ai giudici Ue di essere state sottoposte a misure disciplinari, a pressioni affinché cambiassero abbigliamento e, alla fine, alla sospensione dal lavoro; tutto a causa della loro scelta di indossare l'hijab in servizio. Le due hanno di conseguenza lamentato una palese violazione della libertà religiosa tutelata dal diritto europeo. Il ricorso delle due donne musulmane non ha però avuto esito favorevole, con la Corte di Giustizia che, sollecitata a intervenire sulla questione su impulso dei tribunali tedeschi adìti dalle cittadine in questione, ha infatti riconosciuto ai datori di lavoro la facoltà di interdire ai propri dipendenti l'uso di capi d'abbigliamento o di monili che rimandino a messaggi di natura religiosa o politica. Tuttavia, tali limiti alla libertà dei dipendenti possono essere imposti, ha evidenziato la sentenza emessa dal tribunale Ue, solamente in presenza di specifiche circostanze, tra cui l'esigenza, avvertita dai datori di lavoro, di offire al pubblico un'immagine "neutrale" delle rispettive aziende: "Il divieto di indossare qualsiasi forma visibile di espressione di convinzioni politiche, filosofiche o religiose sul posto di lavoro può essere giustificato dalla necessità del datore di lavoro di presentare un'immagine neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali". La semplice volontà dell'azienda di presentarsi come "neutrale" non è però di per sé sufficiente, ha chiarito la Corte, a giustificare in modo oggettivo una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, dato che il carattere oggettivo di una siffatta giustificazione può ravvisarsi solo a fronte di un’esigenza "reale" del datore di lavoro, ossia capace di prevalere eccezionalmente sui diritti religiosi degli impiegati. Saranno così, ha stabilito inoltre il medesimo verdetto, i tribunali dei 27 Stati membri a valutare, caso per caso, se il divieto di hijab nei luoghi di lavoro sia davvero dettato da "reali esigenze" avvertite dai titolari delle aziende o dai responsabili del personale. La Corte europea era già intervenuta nel 2017 sul tema del velo islamico indossato nelle ore di servizio, riconoscendo anche allora il principio per cui le aziende possono, a determinate condizioni, vietare al loro personale di indossare l'hijab o altri simboli religiosi vistosi.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Lecce, «impediscono alla figlia di vivere all’occidentale». I Servizi sociali seguiranno fino ai 18 anni una ragazzina cingalese. Si era già ribellata al matrimonio combinato dal padre. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Giugno 2021. Costretta dai genitori a stare lontana da ogni possibile «contaminazione della cultura occidentale». Causando nella giovane una grave e irrimediabile chiusura verso gli altri, impedendole di fatto di proseguire serenamente il suo percorso di crescita all’interno del contesto sociale. Vivendo, di fatto, un’altra realtà rispetto ai suoi coetanei italiani. È per questo che il Tribunale per i minorenni di Lecce ha deciso di proseguire fino alla maggiore età il monitoraggio da parte dei servizi sociali di una 16enne originaria dello Sri Lanka, nata e cresciuta nel capoluogo salentino. Una vicenda che ricorda, con esiti meno tragici, la storia di Saman, giovane pakistana scomparsa nel nord Italia dopo un conflitto famigliare sullo stile di vita. L’autorità giudiziaria e le istituzioni continueranno dunque a vigilare, finché possibile, sulle sorti di questa ragazza. Almeno fino a quando, compiuti i 18 anni, sarà lei stessa a scegliere il suo futuro. La storia di Leyla (la chiameremo così) è già nota. Il primo intervento del Tribunale dei minorenni risale a quando ha appena 14enne: il padre, che aveva scoperto un’amicizia affettuosa con un compagno di scuola, le toglie il cellulare. E come se non bastasse decide di prometterla in sposa ad un coetaneo della giovane, anche lui cingalese. Un matrimonio combinato, come si faceva nei tempi arcaici. Atti autolesionistici e propositi di suicidio fanno emergere uno spaccato familiare fatto di vessazioni, imposizioni e violenze fisiche. Tant’è che la ragazza, in un primo momento insieme alla madre, viene trasferita in una comunità. I genitori promettono ai giudici che il fidanzamento con il ragazzino connazionale non si sarebbe più celebrato, e viste le continue richieste della minore di voler tornare dalla famiglia il Tribunale lo scorso anno decide di farla tornare a casa, prescrivendo però la frequentazione di un centro diurno e ordinando ai genitori di avviare un percorso di maggiore integrazione con la comunità italiana. Ma sembra che tutto questo non sia avvenuto. Leyla non ha frequentazioni extrascolastiche con i suoi compagni, mentre i genitori non hanno collaborato con i servizi nel percorso di integrazione, anche alla luce di «rilevanti limiti culturali». «Appare necessario - si legge nel provvedimento - assicurare sino alla maggiore età una costante azione di monitoraggio della condizione della minore e, nei limiti in cui sarà possibile, di sostegno da parte dei servizi territoriali già officiati, in considerazione dei perduranti limiti nello svolgimento delle funzioni genitoriali e della carenza di integrazione e di abilità sociali della minore, tuttora ermeticamente chiusa al dialogo più profondo e alla manifestazione dei propri stati emotivi e costretta dai genitori ad uno stile di vita non corrispondente a quello dei suoi coetanei occidentali, poiché i genitori continuano ad essere arroccati rigidamente alla propria cultura d’origine fino al punto da sacrificare ogni libera espressione della figlia minore e da compromettere le possibilità di integrazione sociale». Il padre della giovane (difeso dall’avvocato Paolo Spalluto) è a processo con l’accusa di maltrattamenti in famiglia: la prossima udienza è fissata l’11 novembre davanti al giudice Stefano Sernia.

IL COMMENTO DI LAURA RAVETTO - «Una minorenne di origine cingalese è sotto la protezione dei servizi sociali, a Lecce, dopo essersi ribellata al matrimonio combinato dal padre. Non è accettabile che in Italia la libertà della donna sia messa in discussione». Lo dichiara la deputata della Lega, Laura Ravetto, capo del dipartimento Pari opportunità del partito. Ravetto si riferisce alla storia di una 16enne per la quale il Tribunale era già intervenuto quando aveva 14 anni: il padre, dopo aver scoperto un’amicizia con un compagno di scuola, le tolse il cellulare e la promise in sposa ad un coetaneo cingalese. La ragazza si ribellò ed emerse una storia familiare fatta di sottomissione e violenze fisiche. Oggi la ragazza ha 16 anni e il Tribunale per i minorenni di Lecce ha deciso di far proseguire fino alla maggiore età il monitoraggio da parte dei servizi sociali. «In Francia, dove siamo alla terza generazione di immigrati - prosegue Ravetto - ben 200mila giovani donne musulmane sono state costrette ad accettare negli ultimi 20 anni unioni non volute. È ora di interrogarsi non soltanto sui percorsi di integrazione, ma anche sull'opportunità di allontanare chi non rispetta le donne nel nostro Paese». «Un primo passo - conclude - è stato fatto grazie al Codice Rosso, ora dobbiamo vigilare su chi cerca di impedire alle giovani di vivere all’occidentale. Mai più casi Saman».

Quella libertà negata: quando l'islam radicale uccide. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 30 Giugno 2021 su Il Giornale. Hina, Sanaa, Sana e infine Saman. Nomi di ragazze che hanno incontrato la furia dei propri familiari e sono state uccise. La loro colpa? Andare contro l'Islam radicale. L'esperta: "Si tratta di omicidi familiari in difesa dell'onore". Hina Saleem, Sana Cheema, Sanaa Dafani. E infine Saman Abbas. Sono solo alcune delle ragazze musulmane, giunte in Italia, che hanno pagato con la vita il diritto alla libertà di vivere secondo gli usi e costumi occidentali. Storie di giovani donne che si sono opposte all'imposizione del velo e ai matrimoni combinati vendendo cara la pelle. Uccise per mano dei genitori, vittime di famiglie che si sono rivelate clan sanguinari, seppellite nel fiore dei loro anni, senza pietà e senza rimorso. "Queste vicende sono accomunata da un tragico destino. Si tratta di giovani punite con la morte per mano dei propri familiari perché non volevano sottostare agli usi tradizionali della cultura d'origine. Questo tipo di omicidio afferisce alla categoria dei reati culturalmente motivati, ovvero un delitto tipico in cui si manifesta la matrice culturale, come prodotto dello scontro tra 2 culture", spiega al IlGiornale.it la criminologa, psicologa e psicoterapeuta Francesca Capozza.

I delitti "culturalmente motivati". La vicenda di Saman Abbas, 18enne pakistana scomparsa da Novellara, nel Reggiano, nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, sulla quale la procura di Reggio Emilia indaga per omicidio premeditato e occultamento di cadavere, ha riacceso i riflettori su quelli che vengono definiti "delitti culturalmente motivati". "Si tratta di un delitto di matrice culturale che presenta tre elementi costitutivi – spiega la criminologa Capozza – Il primo è il motivo culturale: la causa psichica soggettiva della condotta è riconducibile al bagaglio culturale, ovvero usi e costumi, di cui il reo è portatore. Il secondo riguarda la coincidenza di reazione: convergenza tra la motivazione individuale e una regola culturalmente diffusa e osservata nel gruppo etnico di appartenenza. Il terzo, invece, è il divario tra culture: consente che uno stesso comportamento sia socialmente e moralmente accettato in una cultura e non nell’altra". Esecuzioni efferate, delitti orditi per vendicare "l'onorabilità lesa" lavando l'onta con il sangue. In cosa differiscono dai femminicidi? "Rispetto al femminicidio notiamo molte assonanze, in quanto, ricordandoci che anche in Italia fino a 40 anni fa era presente il delitto d'onore - continua l'esperta - si tratta di una concezione culturale dell'uomo padrone che stabilisce il destino della propria donna, moglie o figlia che sia, e ripudia la possibilità che la stessa possa essere libera di pensare, comportarsi, scegliere e quindi vivere".

Hina Saleem. Si tratta del primo "delitto d'onore", avvenuto nell'agosto del 2006, di cui fu vittima una giovane ragazza pakistana in Italia. Hina Saleem nasce a Gujrat, in Pakistan, da genitori musulmani. All'età di 14 anni raggiunge la famiglia a Sarrezzo, una tranquilla cittadina del Bresciano dove i suoi si erano trasferiti qualche anno prima nel tentativo di fare fortuna. Adolescente entusiasta e vivace, Hina si integra agevolmente nella comunità locale maturando, nonostante la giovane età, la convinzione che i rigidi dettami familiari e le pratiche ancestrali della sua cultura d'origine fossero di ostacolo alla sua libertà. All'età di 17 anni, dopo l'ennesima fuga da casa, Hina denuncia per la prima volta i maltrattamenti subiti in famiglia. "Si accaniscono su di me - mette a verbale presso la caserma dei carabinieri di Villa Carcina – mi accusano di assumere atteggiamenti da cristiana e non da musulmana. Mi impediscono di andare a scuola e di vivere come qualsiasi ragazza occidentale". Allontanandosi dai genitori, Hina non solo fugge dal presente ma anche dal futuro. "Io sono promessa sposa a un mio cugino - continua -figlio della sorella di mia madre, che neanche conosco e che vive in Pakistan". Alla prima denuncia, smentita poi a denti stretti, ne seguono altre due contro il "padre-padrone". Ritirerà pure quelle segnando la sua condanna a morte definitiva. All'età di 19 anni, la giovane non vive già più sotto il tetto familiare: ha trovato lavoro in una pizzeria di Brescia ed è fidanzata con un 30enne italiano, un muratore non musulmano. I due convivono felicemente fino a quando, l'11 agosto del 2006, il loro sogno d'amore s'interrompe tragicamente: Hina finisce ammazzata dalla sua famiglia. Il delitto si svolge nella casa paterna, dove la ragazza viene attirata con un pretesto mendace. Ad attenderla, ci sono il padre ed alcuni parenti uomini. La madre, Bushra Begun, di 46 anni, e i fratelli sono in vacanza in Pakistan. La 19enne si è rifiutata di seguirli temendo, una volta approdata a Gujrat, di non potersi sottrarre al matrimonio combinato col cugino: una decisione che le costerà la vita. Sulla dinamica omicidiaria e sui ruoli delle persone coinvolte vi sono tutt'oggi versioni discordanti. Certo è che Hina fu uccisa con 20 coltellate: sgozzata. Il suo cadavere venne seppellito nell'orto di casa, con la testa rivolta verso La Mecca. A ritrovarlo, subito dopo la truce esecuzione, fu il fidanzato della giovane che denunciò immediatamente i fatti ai carabinieri. Le persone coinvolte nell'omicidio furono quattro: il padre Mohammed Saleem, lo zio Muhammad Tariq (sposato con la sorella della madre di Hina) e i due cognati di Hina, Zahid Mahmood e Khalid Mahmood. Il processo, svoltosi con la formula del rito abbreviato, si concluse con la condanna del padre e dei due cognati a trent'anni di carcere per "omicidio volontario (aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti) e distruzione di cadavere", mentre lo zio, che ammise di aver partecipato alla sepoltura ma non al delitto, incassò una condanna a due anni e otto mesi di carcere. Cinque anni dopo aver ucciso sua figlia, Mohammed Saleem, rinchiuso nel carcere di Ivrea, rilasciò la sua prima intervista ai giornalisti Giommaria Monti e Marco Ventura, autori del libro "Hina. Questa è la mia vita". "In Pakistan sarei stato condannato ma non a trent'anni – dichiarò il padre della giovane – A trenta non è giusto. Ho ucciso mia figlia, ma è 'mia' figlia". Nessun rimorso, nessun pentimento.

Sana Cheema. Era il 18 aprile del 2018. Sana Cheema, una 25enne di origini pakistane, si trovava nel suo Paese di origine da qualche mese. Il giorno dopo sarebbe dovuta rientrare a Brescia, dove viveva da sempre, ma non salì mai sull'aereo che avrebbe dovuto riportarla in Italia. Morì prima di poterlo fare, uccisa, secondo l’accusa, dagli uomini della sua famiglia. Sana voleva sposare il suo compagno italiano e quel viaggio in Pakistan sarebbe stato fatto anche per ribadire il suo rifiuto al matrimonio combinato col cugino. L'autopsia sul corpo della ragazza, che venne riesumato, rivelò che Sana era stata strangolata e le erano state rotte alcune vertebre cervicali: una "asfissia meccanica violenta mediante strangolamento", come si legge dalle carte dell’inchiesta italiana. Il 24 aprile 2018 la procura generale di Kunjah, in Pakistan, fermò il padre, il fratello e lo zio di Sana, accusati di omicidio e di sepoltura senza autorizzazione. L’ipotesi era che la 25enne fosse stata uccisa in quello che venne definito "delitto d’onore". "Siamo dinanzi a un omicidio familiare in difesa dell’onore - ha spiegato la criminologa, psicologa e psicoterapeuta Francesca Capozza, parlando di casi simili - Centrale è la difesa dell’onore familiare da parte dell’omicida nei confronti dell’intera comunità etnica di appartenenza". Solitamente, in casi come questo, "è il capofamiglia a uccidere un membro del gruppo familiare a causa della sua violazione del codice etico e delle regole culturali osservati dalla comunità". Sana non voleva rispettare il matrimonio combinato, una scelta che, in situazioni come questa, potrebbe rendere "intollerabile la sopravvivenza di colui che non ha osservato regole e principi della famiglia. Costui - spiega la criminologa - 'deve' essere ucciso per ripristinare l’ordine violato e l’onore leso. L’onore è inteso quindi come bene giuridico superiore a quello della vita". Per la morte di Sana Cheema vennero indagati anche altri parenti della ragazza, tra cui il cugino e promesso sposo. Ma nel febbraio del 2019 una Corte distrettuale del Pakistan ha assolto per mancanza di prove e testimoni tutti gli imputati per l’omicidio della ragazza, nonostante le dichiarazioni iniziali del padre. "Le ho messo le mani al collo, l’ho strangolata e uccisa, avrebbe detto nel maggio 2018 il padre di Sana, come riportato al tempo da LaPresse, salvo poi cambiare versione: "Non è vero che abbiamo confessato", aveva ritrattato l’uomo in un’intervista a Repubblica. "Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto - aveva dichiarato il padre, sostenendo che la figlia fosse morta per un malore - è perché deve aver battuto contro il bordo del letto o del divano". E aveva poi aggiunto: "È stato solo per un disegno di Allah". Ora il padre e il fratello di Sana sono in attesa del processo in Italia, che dovrebbe tenersi a ottobre, dopo due rinvii per irreperibilità degli imputati.

Sanaa Dafani. "Forse lei ha sbagliato". Così la madre di Sanaa Dafani giustificava l’omicidio della figlia da parte del marito, dicendosi "disposta a perdonare" il padre dei suoi figli. L'errore di Sanaa è quello che la accomuna a Saman, Sana e Hina: voler vivere in modo diverso rispetto a quello imposto loro dalle famiglie. Sanaa aveva solo 18 anni quando, una sera di metà settembre del 2009, venne uccisa a coltellate dal padre, mentre era insieme al fidanzato italiano di 31 anni. È successo a Grizzo, una piccola frazione di Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone. La ragazza marocchina era stata raggiunta dal padre mentre si stava recando in auto nel ristorante dove lavorava come cameriera. Sanaa, che era in compagnia del fidanzato 31enne, socio del locale, era stata intercettata dal padre, che li aveva aggrediti non appena scesi dalla macchina. A nulla era servita la fuga della ragazza verso un vicino boschetto, nel tentativo di evitare la furia del padre: l’uomo l’aveva raggiunta e colpita alla gola con un coltello. Ferito ripetutamente anche il fidanzato, che però era riuscito a salvarsi. Il padre di Sanaa, accusato di omicidio aggravato dal vincolo di parentela e di lesioni, era stato condannato in primo grado all’ergastolo con rito abbreviato, ma la Corte d’Assise d’Appello di Trieste aveva ridotto la pena a 30 anni di carcere. Successivamente, nell’aprile del 2012, la Cassazione confermò la condanna ai 30 anni di reclusione. Sanaa è un’altra figlia uccisa dal padre. Ma cosa può spingere un padre a fare tutto questo? "Si tratta - commenta la criminologa Capozza - di padri migranti che non consentono ai figli una totale integrazione. Non hanno accolto pienamente i principi e i costumi della cultura occidentale e non accettano che costoro possano esprimere libere scelte non sancite dal pater familias". Per questo, in casi come quello di Sanaa, Hina, Sana e Saman, "sono accettate e spesso incoraggiate forme di giustizia privata, a cui partecipa tutto il nucleo familiare (anche una madre che non si oppone), caratterizzate da efferatezza ed esaltazione della condotta da parte degli altri componenti". Sono scelte che appaiono "praticabili o 'doverose' - continua l’esperta - per riabilitare l’onore leso da una giovane vita che desiderava semplicemente di poter essere se stessa e decidere come e chi amare".

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.

Rapite, violentate, uccise: l’incubo delle donne kirghize costrette a sposarsi con la forza. La scomparsa di Saman Abbas ha rivelato la presenza in Italia dei matrimoni forzati. Nel Paese asiatico, il sequestro della sposa, l’Ala Kachuu, è ufficialmente vietato. Ma sono almeno 12mila l’anno le mogli contro la loro volontà. Mauro Mondello da Bishkek, Kirghizistan, su L'Espresso/La Repubblica il 30 giugno 2021. Nurijian Malekabova, 19 anni, dietro la porta di casa nel villaggio di Karool Dobo. È una delle ragazze che rifiutano di essere rapite e sposate. Aisuluu tornava a casa dopo aver trascorso il pomeriggio con la zia nel villaggio di At-Bashy, 10mila abitanti a 150 chilometri dal valico di Torugart, uno dei due posti di confine che collegano per via terrestre il Kirghizistan alla Cina. «Mi ricordo che erano le cinque del pomeriggio di sabato, avevo fra le braccia un sacchetto di carta pieno di samsa, un fagottino di pasta ripiena con carne d’agnello, prezzemolo e cipolla: mia zia li faceva sempre nel fine settimana», racconta oggi Aisuluu. «Vedo una macchina con quattro uomini dentro che viene in direzione contraria alla mia. All’improvviso si butta dentro una via laterale, fa inversione e, nel giro di pochi secondi, mi affianca. Uno dei ragazzi seduti dietro scende, mi strattona e mi spinge dentro. Io lascio cadere tutti i samsa lì, sul marciapiede, urlo, mi dimeno, piango, ma non c’è niente da fare». L’uomo che la spinge a forza dentro l’automobile diventerà di lì a breve suo marito. Non era lei la donna che cercavano, scoprirà Aisuluu soltanto a matrimonio celebrato, ma nell’urgenza di dover tornare a casa con una sposa e dopo aver cercato a vuoto per tutto il pomeriggio, l’uomo decide di rapire la prima ragazza carina che incontra. Era il 1996, Aisuluu allora era un’adolescente e oggi, quattro figli e venticinque anni dopo, è ancora insieme a colui che l’ha sequestrata. «Un matrimonio felice inizia piangendo», dice un vecchio proverbio kirghizo. E lacrime, di rabbia e terrore, scendono dagli occhi delle spose in Kirghizistan, vittime inermi di rapimenti e violenze. È una pratica antica, quella del cosiddetto Ala Kachuu («prendi e scappa»), il sequestro della sposa che risale al dodicesimo secolo e affonda le radici nelle battaglie fra tribù di predoni nomadi, che si rubavano donne e cavalli in lotte e saccheggi. L’Ala Kachuu viene praticato in tutti i paesi dell’Asia Centrale, ma è soprattutto sui duri territori montuosi del Kirghizistan, fra i villaggi rurali dell’ultima e più dimenticata fra le periferie post-sovietiche, che è particolarmente frequente: i dati raccolti dal Women Support Center, un’organizzazione che si batte per la parità di genere nel Paese, parlano di almeno 12mila matrimoni celebrati ogni anno contro la volontà della sposa. Gli uomini rapiscono le donne, dicono, per dimostrare la loro virilità, evitare il corteggiamento (considerato una noiosa perdita di tempo) e risparmiare il pagamento del “kalym”, una delle più antiche tradizioni sociali di queste latitudini, secondo cui lo sposo deve corrispondere ai genitori della futura moglie una sorta di risarcimento, di solito una combinazione di contanti, fino a 3mila euro, e animali da cortile, soprattutto mucche e cavalli, ma anche pecore, capre e maiali, dai costi più abbordabili. Dopo il rapimento, che può anche essere preparato e consensuale, fra una coppia che si frequenta ma vuole accelerare i tempi e onorare la tradizione, si viene portate nella casa del futuro sposo. I suoceri accolgono la donna forzandola a indossare il “jooluk”, lo scialle bianco che certifica la sottomissione alla nuova famiglia: di lì a qualche giorno il matrimonio viene celebrato. Ci si può ribellare, certo, ma gran parte delle ragazze rapite, intorno all’80 per cento, decide di accettare il proprio destino, spesso anche su consiglio dei propri genitori. Rifiutare il matrimonio, dopo aver passato la notte in casa di un uomo sconosciuto, equivale a uno stigma sociale difficile da cancellare, una vergogna con cui la ragazza e tutta la sua famiglia dovrebbero convivere per sempre. Troppo spesso, inoltre, il futuro sposo violenta la ragazza poco dopo averla rapita (sono oltre duemila l’anno gli stupri che precedono il matrimonio) condannandola per sempre: a quel punto rientrare in famiglia diventa semplicemente impossibile. E poi, soprattutto, la ribellione può costare la vita. Sono centinaia i casi di donne rapite e ritrovate uccise a distanza di poco tempo. L’ultima vittima, Aizada Kanatbekova, 26 anni, l’hanno abbandonata in un campo, strangolata, all’inizio dell’aprile scorso, due giorni dopo essere stata caricata a forza su un’auto con l’aiuto di due passanti, nel centro della capitale Bishkek. Un segnale chiaro di come questa pratica non sia limitata alle aree più arretrate del Paese. «El emne deit», si dice in kirghizo: «Che cosa dirà la gente?». È una frase ricorrente, fondamentale nelle dinamiche di accettazione del rapimento da parte delle donne kirghize. Aigul, cinque figli, 55 anni trentacinque dei quali passati al fianco dell’uomo che la rapì nel 1986, ricorda sua madre ripetergliela costantemente. «Da bambina mi diceva sempre che essere rapite era una buona cosa, di non fare la schizzinosa perché rischiavo di rimanere zitella. Ha insegnato a me e alle mie sorelle a non tornare a casa qualora fossimo state rapite, perché sarebbe stata una vergogna. E così abbiamo fatto, tutte e cinque. Mia sorella più piccola, Asel, ci ha provato a scappare, ma i miei l’hanno rimandata indietro, dall’uomo che l’aveva violentata, e due giorni dopo si sono sposati: ormai sono insieme da dieci anni». Aigul non era vergine quando venne rapita e racconta che la prima notte di nozze il marito, per evitare la vergogna, si tagliò un dito e sporcò di sangue le lenzuola, un trofeo da esibire alla famiglia e agli amici che aspettavano fuori dalla stanza. L’Ala Kachuu è vietato in Kirghizistan da decenni, ma l’esistenza stessa della legge, che nel 2013 è stata inasprita con pene fino a dieci anni di reclusione per chi rapisce una donna con l’intenzione di forzarla al matrimonio (prima era prevista una multa da duemila soms, 25 dollari), è praticamente ignorata da gran parte della popolazione, in un contesto che vede le donne sottoposte a un regime quotidiano di violenze domestiche e abusi, senza alcuna protezione da parte delle autorità. Per Altyn Kapalova, ricercatrice all’università centroasiatica di Bishkek, scrittrice, artista e attivista, «una stazione di polizia non è un luogo sicuro per una donna alla ricerca di aiuto. Non esiste una storia, una soltanto, di una ragazza salvata dall’intervento delle forze dell’ordine. Se una donna va in una centrale a denunciare un rapimento le ridono in faccia, le dicono che non sono fatti loro, di tornare a casa e risolversela con la sua famiglia». Nel 2018 fece il giro del mondo il caso di Burulai Turdaaly Kyzy, una studentessa di medicina di 20 anni che venne uccisa in una stazione di polizia dall’uomo che l’aveva rapita, mente gli agenti li avevano lasciati da soli in una stanza in attesa di trascrivere la denuncia. «Il problema è di cultura, di educazione, e non di leggi», continua Kapalova, che dal 2019 riceve minacce costanti dopo aver organizzato la prima mostra femminista nella storia del Kirghizistan, la “Feminnale”, nel Museo delle Belle Arti di Bishkek. «Per gran parte delle donne kirghize il matrimonio avviene durante l’adolescenza e questo è un elemento fondamentale dell’Ala Kachuu e della violenza domestica. Le ragazze restano per sempre in un contesto educativo basso, il loro mondo è quello in cui l’uomo può tutto e la violenza diventa parte quotidiana della loro vita, qualcosa da accettare senza proteste e ubbidendo in silenzio», conclude la ricercatrice, che sottolinea come tuttora il Kirghizistan sia pieno di ragazze chiamate Zhanyl o Burul, che in kirghizo significano rispettivamente “ho fatto un errore”, “ho peccato”. «Sono centinaia i nomi dettati dalla superstizione che i genitori decidono di mettere alle povere creature, la cui unica colpa è nascere femmine invece che maschi. Si tratta di una consuetudine molto frequente nel nostro Paese». Secondo i dati dell’ufficio Unicef operativo a Bishkek, la percentuale di ragazze tra i 15 e i 19 anni che rimane incinta in Kirghizistan è fra le più alte al mondo, mentre il 13 per cento dei matrimoni avviene prima dei 18 anni (addirittura l’8 per cento entro i 15 anni), nonostante sia proibito dalle normative vigenti. Non esistono piani specifici del governo kirghizo per combattere la violenza contro le donne e il fenomeno dell’Ala Kachuu. Il nuovo presidente nazionalista Japarov ha anzi ribadito più volte, dopo il suo insediamento, di voler includere nella costituzione del Paese un nuovo passaggio che richiami ai valori della morale e della tradizione. Le uniche voci di resistenza si alzano così dalle isolate iniziative di attivismo, come quella di Tatyana Zelenskaya, un’artista che, in collaborazione con l’Ong Open Line Foundation, ha realizzato i disegni e la parte grafica di “Primavera a Bishkek”, un gioco per smartphone che ha come obiettivo quello di convincere le ragazze che il rapimento non è una tradizione, ma un crimine. In poco più di sei mesi la app ha già registrato oltre 130mila download, un successo straordinario se si pensa che gli sviluppatori avevano fissato come obiettivo quota 25mila. Nel gioco l’utente assiste al rapimento della sua migliore amica e deve liberarla, mentre sullo schermo compaiono messaggi con suggerimenti preparati da psicologi, giornalisti e attivisti, oltre che numeri di telefono reali cui è possibile rivolgersi in caso di emergenza. «L’idea alla base del gioco è far capire alle ragazze che sono padrone del proprio destino», spiega Zelenskaya. «Per questo le trasformiamo in eroine capaci di ribellarsi e cambiare il corso delle cose. Sembra poco, ma per una generazione di donne cresciute con l’idea che nulla sia possibile senza l’approvazione di un uomo, scardinare questo concetto è difficile», conclude l’artista. «Anche un gioco, all’apparenza stupido, può fare la differenza. Le ragazze kirghize meritano di meglio che un matrimonio forzato con un ragazzo che le tratterà male a prescindere. E che talvolta non hanno mai visto. Noi stiamo solo cercando di spiegarlo».

Quando il matrimonio è reato: "Così negano alle donne di scegliere". Francesca Bernasconi il 29 Giugno 2021 su Il Giornale. La legge italiana punisce il matrimonio forzato, a cui si è ribellata anche Saman Abbas, la 18enne pachistana scomparsa oltre un mese fa. L'avvocato ed esperto di Diritto musulmano: "Non viene disciplinato nemmeno dal Corano". Da quasi due mesi non si hanno notizie di Saman Abbas. Prima di scomparire, la 18enne pachistana si era ribellata alle nozze combinate e forzate dai genitori. Una pratica che in Italia è illegale, ma che non viene contemplata nemmeno dal Diritto musulmano. "Anche lì la legge specifica esplicitamente che nessun matrimonio valido può essere contratto senza il consenso dei coniugi, ma la pratica effettiva è diversa", spiega a ilGiornale.it Paolo Iafrate, avvocato, professore aggiunto di Regolamentazione Nazionale ed Europea in materia di immigrazione dell'Università degli Studi di Roma Tor Vergata' ed esperto di Diritto musulmano e Paesi islamici.

Che cos'è il matrimonio forzato?

"Il matrimonio forzato è quello che viene concluso senza il libero consenso degli interessati. La costrizione al consenso rappresenta l'elemento di differenza dalle altre forme, cioè il matrimonio combinato e il matrimonio precoce, e costituisce una grave violazione dei diritti umani. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo stabilisce, infatti, che 'il matrimonio può essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi'. I matrimoni forzati costituiscono una violazione inammissibile dei diritti fondamentali e dei principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, e infatti l'Ue combatte questo fenomeno nei limiti delle competenze che le sono conferite dai trattati".

In Italia quando si verifica il reato di costrizione al matrimonio?

"In Italia il reato è regolato dall'articolo 558-bis del Codice Penale, che punisce 'chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona contrarre matrimonio o unione civile'. Per violenza si intende l’energia fisica sulle persone, esercitata direttamente o mediante uno strumento. Viene denominata minaccia invece la prospettazione di un male ingiusto e notevole, eventualmente proveniente dal soggetto minacciante. Le modalità coattive non comprendono solo la violenza o la minaccia in senso stretto, ma anche forme di abusi psicologici. Questo articolo ha il fine di tutelare l’unione matrimoniale come libero consenso delle parti, contro un matrimonio forzato o indotto mediante pressioni che possono essere sia fisiche sia psicologiche".

Qual è la pena prevista per il reato? E ci sono delle aggravanti?

"Il Codice Penale precisa che chi compie il reato di costrizione al matrimonio viene 'punito con la reclusione da uno a cinque anni'. Inoltre 'la stessa pena si applica a chiunque, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile'. Le aggravanti sono legate all'età, infatti la pena è aumentata quando si tratta di un minore di 18 anni e di un minore di 14 anni: in quest'ultimo caso sono previsti dai due ai sette anni di carcere. Il fenomeno assume carattere internazionale, infatti la norma trova fondamento anche quando il fatto viene commesso all’estero da cittadino italiano, in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. Tutti gli ordinamenti europei che hanno introdotto il reato di matrimonio forzato hanno sanzionato autonomamente anche l’ipotesi del trasferimento all’estero con tale finalità".

È una pratica frequente in Italia?

"Il dato sulla diffusione dei matrimoni forzati in Italia e in Europa è esiguo. Dal Rapporto Un anno di Codice Rosso a cura del Dipartimento Affari di giustizia, con il contributo della Direzione generale statistica e analisi organizzativa del Dipartimento organizzazione giudiziaria personale e servizi e delle dottoresse Rizzato e Cardona Albini, addette al Gabinetto del Ministro, risultava che per il reato di costrizione o induzione al matrimonio, al 31 luglio 2020, non vi erano procedimenti penali conclusi con sentenza di fronte alla sezione gip/gup. Nel medesimo periodo erano stati definiti dinanzi al Tribunale, in sede dibattimentale, due procedimenti penali per costrizione o induzione al matrimonio".

C'è differenza tra matrimonio forzato e combinato?

"Sì, il matrimonio forzato si distingue dai matrimoni combinati, nei quali, nonostante le famiglie assumano un ruolo decisivo nell’organizzazione e anche nella scelta del partner, la decisione finale spetta comunque ai due sposi, che restano liberi di esprimere o meno il proprio consenso. Il confine tra le due forme però può risultare labile dal momento che le possibili modalità di coercizione a un matrimonio forzato si concretizzano in una vasta gamma di minacce e violenze, non soltanto fisiche, ma spesso psicologiche. Tra queste ci sono, per esempio, il peso dell'autorità genitoriale, le richieste economiche o affettive e la colpevolizzazione della vittima per accettare il matrimonio".

Nel Diritto musulmano classico, la costrizione al matrimonio è un reato?

"Il matrimonio forzato non è disciplinato dal Corano e non sussiste il diritto del padre di obbligare il figlio a contrarre matrimonio in assenza della sua volontà, così come non sono previste pene nei confronti dei figli che non obbediscono al padre in queste situazioni. Sussiste però la wilayah, cioè una potestà che pone i figli in una situazione di subordinazione e permette al padre il diritto a esercitare la coazione matrimoniale. Le responsabilità decisionali inerenti ai figli fanno capo al solo padre, rappresentante legale del minore. Secondo la maggior parte dei giuristi classici, la donna, anche se perfettamente matura, deve comunque essere rappresentata, non potendo concludere personalmente il contratto di matrimonio. Solo i giuristi di scuola hanafita ammettono la validità del matrimonio concluso dalla donna, ma nemmeno loro impongono che sia la donna a esprimere il consenso. Per quanto riguarda il Diritto dei singoli Paesi, è bene ricordare che il Marocco ha abrogato nel 1993 l'ultimo riferimento alla legalità, in particolari circostanze, di un matrimonio forzato, e sempre più spesso i codici affrontano esplicitamente la questione del consenso, proibiscono la coercizione e prevedono rimedi nel caso in cui la moglie sia costretta a sposarsi. L'emendamento del 1978 dell'Iraq alla sua legge del 1959 è uno dei più chiari e dettagliati a questo riguardo, specificando in tre clausole separate il divieto di costringere una persona a sposarsi e le sanzioni penali a cui sono soggetti coloro che lo fanno. Anche la legge algerina del 1984 vieta esplicitamente al wali (tutore) di costringere il suo protetto a sposarsi o di sposarlo senza il consenso di quest'ultimo. Nel 2005 il Mufti dell'Arabia Saudita, dove non esiste una codificazione nazionale, ha dichiarato che è illegale per i padri costringere le proprie figlie a un matrimonio indesiderato. Infine anche in Pakistan una serie di leggi affronta la questione dei matrimoni forzati".

“Stiamo morendo”. L’sms-trappola della madre di Saman

Saman, la ragazza scomparsa lo scorso mese, si era rifiutata di accettare un matrimonio combinato. Questo comportamento, nel Diritto musulmano, può essere fonte di punizione?

"Nel matrimonio organizzato, non vi è l’obbligo della figlia a contrarre a matrimonio. Tuttavia, se il padre la costringe e quest'ultima non accetta, è difficile provare il mancato consenso della donna. Come già enunciato in precedenza, nel Diritto musulmano classico non vi è il diritto del padre all'obbligare le figlie al matrimonio e non vi sono sanzioni nei confronti di quest'ultime che si ribellano al padre. In Pakistan però ci sono stati casi di matrimoni forzati, stante la forte presenza del patriarcato e di una wilayah del padre sui figli più forte e decisa, legata soprattutto al contesto sociale. Quindi, anche se la legge specifica esplicitamente che nessun matrimonio valido può essere contratto senza il consenso dei coniugi, la pratica effettiva è diversa: il consenso della donna non viene preso in considerazione o è una mera formalità a causa dei vincoli sociali, in particolare nei casi in cui sarebbe impensabile o inaccettabile per lei rifiutare il matrimonio. Al riguardo, si è espresso anche l’Ucoi (Unione Comunità Islamiche d’Italia) che nella 'fatwa' contro i matrimoni forzati nell’Islam del 3 giugno 2021 ha ribadito che nessun tipo di imposizione può essere usata in fatto di matrimonio e che i contratti di matrimonio forzati non hanno alcuna validità. Questo è anche il parere del Consiglio Europeo della Fatwa e della Ricerca, riportato nella decisione n.14/4. Ciò non toglie il diritto dei genitori di esprimere pareri e consigli non vincolanti nelle decisioni di matrimonio dei loro figli e figlie, al fine di rendere le relazioni delle famiglie più stabili e durature. È raccomandabile attenersi agli insegnamenti religiosi e non confonderli con le usanze e tradizioni tribali e locali di certe popolazioni".

È possibile prevenire il fenomeno?

"Ai fini di un’adeguata prevenzione è opportuno pensare a interventi di sensibilizzazione e di formazione, che permettano di intercettare subito situazioni a rischio e costruire una rete di protezione che coinvolga sia le associazioni a tutela delle vittime presenti sul territorio nazionale, che quelle dei Paesi di origine, i servizi sociali e assistenziali, gli istituti scolastici, i centri antiviolenza e/o case-rifugio, le autorità di polizia e l’autorità giudiziaria".

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi. 

L'islam e i "doveri" della donna: l'integrazione impossibile. Rosa Scognamiglio il 28 Giugno 2021 su Il Giornale. Saman Abbas sarebbe stata uccisa perché si sarebbe opposta al matrimonio forzato con il cugino ma "il Corano non lo prevede", dice l'esperto a ilGiornale.it. Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane scomparsa da Novellara tra il 29 e il 30 aprile scorso, potrebbe essere stata strangolata e poi seppellita nelle campagne del Reggiano, stando al racconto del fratello. Probabilmente, è stata vittima di una congiura familiare ordita dai suoi genitori in concorso "morale e materiale" - scrive la procura - con lo zio e due cugini. Omicidio premeditato e occultamento di cadavere sono i reati contestati ai cinque indagati. Il movente sottendente il presunto delitto fa capo al rifiuto delle nozze combinate tra Saman e il cugino, a quanto pare anch'egli originario del Pakistan. "Il matrimonio forzato non è contemplato nel Corano", spiega alla nostra redazione il professor Claudio Lo Jacono, islamologo ed esperto arabista.

Professor Lo Jacono, cosa ne pensa della vicenda di Saman Abbas?

"Un triste caso di cronaca, quasi certamente nera, che vari media hanno cavalcato per dimostrare la ferocia dell’Islam, non solo in Pakistan".

Qual è la differenza tra matrimonio forzato e combinato?

"La differenza sta da un canto nella decisione, assunta concordemente dai padri dei nubendi - non di rado in età prepuberale - che giovani coinvolti subiscono, per la forza quasi insuperabile di una tradizione plurisecolare tipica delle società patriarcali, e dall’altro canto nella decisione imposta dal padre, o dal tutore matrimoniale in sua mancanza, alla vittima (per lo più la donna, ma anche l’uomo, evidentemente)".

Il matrimonio forzato è contemplato nel Corano?

"Il Corano non prevede il matrimonio forzato".

Tutti i complici del caso Saman

E allora perché una donna è "costretta" a sposarsi?

"Le società islamiche in cui è presente il fenomeno del matrimonio concordato fanno prevalere la tradizione plurisecolare che trova 'disonorevole' non seguire quanto deciso dalla potestà paterna, esercitata legittimamente sulle figlie vergini e sui figli minorenni (la maggiore età è data dalla maturità sessuale). Per gli sposi maggiorenni è però essenziale il consenso degli interessati. Il matrimonio forzato è invece perseguibile da tempo dalla legge statale dei Paesi islamici".

Cosa accade in caso di rifiuto?

"In base alla legge islamica la donna era vincolata dall’accordo matrimoniale sottoscritto per lei dal padre (o dal tutore matrimoniale). In caso di forte contrasto il marito non poteva comunque infliggere alla moglie riottosa pene corporali pesanti, tali da lasciarle cioè segni visibili. In questo caso interveniva il giudice a decretare lo scioglimento coatto del matrimonio ex officio iudicis. La moglie aveva pur sempre la possibilità tuttavia di comportarsi in modo tale da creare imbarazzi nel marito, logicamente".

Vale anche per l'obbligo del velo?

"Sul velo si discute molto in ambito islamico. Una parte dei musulmani, da una lettura testuale dei riferimenti coranici, considera il velo non obbligatorio, mentre un’altra parte lo considera doveroso".

Fuga in aeroporto: il video che incastra i genitori di Saman

Cosa rappresenta la donna nella cultura islamica?

"La donna è l’anello debole della società. Onoratissima nella veste di madre e di moglie fedele, e amatissima nella veste di figlia. Ma socialmente pressoché esclusa dalle dinamiche culturali e del vertice politico ed economico della società, pur con alcune eccezioni".

Conferma che nel Corano c'è un verso in cui si fa riferimento ai "doveri "della donna nei confronti dell'uomo?

"Certamente. La donna ha il dovere di ubbidienza nei confronti del padre in primo luogo e, poi, del marito, che ha il diritto di imporre sanzioni corporali addirittura (ta‘zìr). Ma in questo non c’è alcuna differenza rispetto all’Ebraismo e al Cristianesimo classico. Cosa non più riscontrabile nei fatti nelle società urbane dell’età contemporanea".

Cos'è la Sharia e quando si applica?

"La sharì‘a è costituita dall’insieme della normativa coranica (che ha precedenza su tutto come fonte del diritto) e della Sunna del profeta Muhammad (il nostro Maometto). La Sunna (lett. Costume) è l’insieme dei detti e dei silenzi, delle azioni o delle non-azioni del profeta ultimo dell’Islam, che interviene nell’apparente assenza di un idoneo precetto coranico".

Perché le famiglie islamiche non riescono a integrarsi nel tessuto sociale occidentale?

"Difficile rispondere in modo generalizzato. In genere c’è una forte prevenzione nei Paesi di accoglienza nei confronti di una cultura religiosa, linguistica e alimentare troppo distante, e dall’abbigliamento che appare troppo distante dal nostro contesto. Ma c’è anche un certo autoisolamento di molte comunità islamiche, o induiste, o buddiste, provocate dalla consapevolezza di essere considerate un corpo estraneo sotto troppi aspetti, a torto viste come pericolose. Lo stesso fenomeno fu tipico a lungo delle comunità israelitiche in contesto cristiano (o islamico, prima della nascita d’Israele)".

Vicende come quella di Saman si ripeteranno ancora?

"Non sono ottimista nei tempi brevi. Solo l’innalzamento economico e culturale delle comunità emigrate (certo non ricche né particolarmente colte) potrà portare a una certa quale integrazione. Ovviamente non religiosa".

La campagna choc dell'Ue: "Il velo islamico è libertà". Alberto Giannoni il 4 novembre 2021 su Il Giornale. Il velo presentato come emblema di libertà, in una campagna di comunicazione europea, lanciata e poi ritirata in un turbinio di proteste e imbarazzi. La soggezione occidentale all'islam politico tocca vette sempre più paradossali, e genera contraddizioni ormai esplosive. Nel ventre molle dell'Europa è appena scoppiato l'ultimo caso: un'iniziativa che celebra il copricapo islamico. «La bellezza è nella diversità come la libertà è nell'hijab» si legge nella campagna promozionale concepita dal Consiglio d'Europa, che si presenta come la principale organizzazione di difesa dei diritti umani del Continente, e riunisce 47 Paesi. Le immagini vedono protagoniste ragazze velate e felici, contornate da slogan di questo tenore: «Come sarebbe noioso il mondo se fossimo tutti uguali? Celebrare la diversità & rispettare l'hijab». Il Consiglio d'Europa non è organo dell'Ue, ma l'Ue compare come sponsor del progetto. Lo finanzia generosamente e acriticamente, senza considerare che, per molte donne, quello o altri veli sono invece simbolo d'oppressione. La campagna ha sollevato reazioni veementi, soprattutto in Francia, tanto che il Consiglio d'Europa ha dovuto ritirare il progetto: un imbarazzato portavoce ha assicurato che «questi tweet sono stati cancellati e penseremo a una presentazione migliore per il progetto». Chiamata in causa anche l'Ue, un portavoce della Commissione europea, Christian Wigand, ha spiegato che l'iniziativa si inserisce in una immancabile campagna contro i messaggi d'odio on line. Wigand ha spiegato anche che i tweet rimossi facevano parte di un progetto co-finanziato dall'Ue con 340mila euro nel 2019, ma ha anche chiarito che palazzo Berlaymont non ha valutato né approvato il contenuto promozionale. In realtà niente è casuale in questo genere di «gaffe», che sono il frutto avvelenato di rapporti sempre più stretti che le istituzioni europee hanno con la galassia dell'islam politico legata ai Fratelli musulmani, l'internazionale dell'integralismo che usa «l'islamofobia» come un paravento per tacitare ogni critica. Queste relazioni incresciose sono ormai consolidate. Molto ha colpito, per esempio, un rapporto sull'islamofobia prodotto da una fondazione turca «col sostegno finanziario dell'Ue». E in rete si trova traccia di uno studio organizzato già 10 anni fa dal Consiglio d'Europa con la collaborazione di Femyso, sigla che oggi compare come partner di un altro progetto anti-odio, «Meet», che è stato presentato anche nel Comune di Milano e a settembre ha dato vita a un evento con eurodeputati e dirigenti islamici. Si dà il caso che Femyso sia il ramo giovanile di Fioe, organizzazione indicata come struttura paneuropea della Fratellanza. E queste sigle fanno capolino anche nella odierna iniziativa pro-velo. La campagna - si legge su «Marianne» - è stata ideata nel corso di un seminario il 27-28 settembre. «Come annuncia molto apertamente il sito web del Consiglio d'Europa - si legge in un articolo che il giornale francese, e di sinistra, dedica alla vicenda - il workshop in questione è stato organizzato in collaborazione con Femyso». Marianne riporta anche il parere di uno studioso italiano, il massimo esperto di radicalismo islamico, Lorenzo Vidino. «Possiamo organizzare una campagna sul tema del razzismo antimusulmano, non sono contrario - dice - ma dobbiamo ancora scegliere bene i nostri partner».

"La donna non ha valore": tutte le pratiche illegali legate all'islamismo. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 27 Giugno 2021 su Il Giornale. Non solo Saman Abbas: le donne sottoposte a pratiche illegali. L'antropologo della violenza: "Una cultura convinta che la donna non abbia valore". Saman Abbas, Sana Cheema, Hina Saleem. Tutte donne, di origini pakistane, che vivevano in famiglie dove i valori culturali erano ben radicati, ma che avevano deciso di dire no ad alcune imposizioni. Saman è scomparsa e probabilmente uccisa lo scorso 30 aprile da Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Sana è stata strangolata nel 2018 e Hina uccisa dal padre e alcuni parenti nel 2006. Tutte e tre rifiutavano le nozze combinate dalla famiglia. Non solo. Adnkronos ricorda che nel 2017 a Bologna la madre di una 14enne originaria del Bangladesh le aveva rasato la testa perché non voleva portare il velo, mentre qualche anno prima, un pakistano aveva massacrato la moglie con una pietra, perché la donna aveva difeso la figlia, che non voleva sposare l'uomo scelto per lei dal padre. Dal matrimonio combinato e l'obbligo di portare il velo, fino all'infibulazione e lo sfregio con l'acido. Sono i crimini legati all'Islam, che in alcune culture vengono riservati alle donne: "Questa tipologia di condotte violente e illegali spesso non hanno una matrice religiosa bensì culturale - spiega IlGiornale.it Simone Borile, antropologo della violenza, criminologo e direttore del Campus Ciels di Padova, Brescia e Roma - Sono processi culturali che si sono adattati nel tempo, consolidati e spesso evoluti in modo distorto".

L'obbligo del velo. "Giù le mani dal mio velo", recita il recente slogan di protesta lanciato dalle donne musulmane contro una proposta del senato francese che impone il divieto di indossare l'hijab (uno dei tradizionali copricapi islamici) per le ragazze di età inferiore ai 18 anni, nei luoghi pubblici. Promotrice della contestazione, trasformatasi in una sorta di crociata social, è stata la modella somalo-norvegese Rawdah Mohamed, che su Instagram ha detto di voler combattere "stereotipi profondamente radicati contro le donne musulmane". Una causa indubbiamente lodevole ma che, per certo, non riflette la totalità della condizione vessatoria a cui sono costrette centinaia di donne tra Afaghistan, Iran e Pakistan. E per avere piena contezza del fenomeno, non occorre fare un balzo indietro nei secoli. Lo scorso marzo il primo ministro pakistano Imran Khan ha dichiarato che l'incremento dei casi di abusi sessuali è il risultato di una "crescente oscenità" condannando la svolta "libertina" delle donne. Intervenuto in diretta in una trasmissione sulla rete nazionale pakistana - riferisce un articolo della Bbc - Khan ha suggerito alle proprie connazionali di indossare il velo. "Se la nostra religione impone di indossare il velo, c'è un motivo. E il motivo è salvaguardare la famiglia e proteggere la società. Non tutti hanno forza di volontà per non cedere alle tentazioni", ha affermato il leader di Movimento per la Giustizia del Pakistan. "Molte culture prevedono che il ruolo sociale della donna sia subordinato al potere e al dominio dell'uomo su di essa - spiega l'antropologo Simone Borile - Trattandosi quindi di una proprietà esclusiva all’interno di contesti culturali fortemente patriarcalizzati in cui socialmente, culturalmente e giuridicamente la posizione della donna è fortemente compromessa, l’obbligo del velo sancisce l’esclusiva proprietà del marito su quel corpo e soprattutto la obbliga a una condizione oscurantista e invisibile all’interno della società". Da simbolo di ossequio e devozione nei confronti del profeta Maometto a contrassegno della condizione di subalternità della donna nei confronti dell'uomo. "Il velo rappresenta un ossequio al profeta Maometto - continua l'esperto – la donna che lo indossa è portatrice di valori di rispetto e dedizione nei confronti della tradizione islamica. Un sacrificio che ricompenserà in futuro. Non portarlo significa violare codici culturali e comportamentali. In tal caso l'uomo potrà essere legittimato a esercitare forme correttive e violente sulla donna che decida di non indossarlo". "Un sacrificio che ricompenserà in futuro": posto che ve ne sia uno. L'11 agosto del 2006 Hina Saleem, una ragazza di origini pakistane residente a Zanano di Sarezzo nel Bresciano, è stata uccisa dai suoi parenti "perché rifiutava di indossare il velo". Lo stesso drammatico destino che potrebbe aver travolto Saman Abbas, colpevole senza peccato di aver inseguito la libertà.

Il matrimonio combinato. "Chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile è punito con la reclusione da 1 a 5 anni". Recita così la legge introdotta in Italia nel 2019 e denominata Codice Rosso, che specifica l'illegalità dei matrimoni forzati. L'intervento legislativo, spiega il Ministero dell'Interno in un recente rapporto, si è reso necessario per "scongiurare pratiche che, sebbene apparentemente anacronistiche, hanno invece dimostrato di avere una certa diffusione. Per questo il legislatore ha voluto creare una tutela particolarmente rafforzata in favore dei soggetti vulnerabili coinvolti". In Italia, i dati del Ministero dell'Interno, indicano 32 procedimenti aperti per il reato di costrizione o induzione al matrimonio tra il 1° agosto 2010 e il 31 luglio 2020. Tra questi solamente in 3 casi è stata esercitata l'azione penale. Ma la costrizione alle nozze è un fenomeno diffuso in tutto il mondo e riguarda spesso anche spose bambine. Secondo il rapporto stilato nel 2020 dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), sarebbero 33mila i matrimoni precoci celebrati ogni giorno nel mondo e sono 650 milioni le donne e le ragazze obbligate a sposarsi da bambine. "Di tutte le pratiche dannose che Unfpa si impegna a far cessare - si legge nel rapporto -il matrimonio precoce è la più diffusa, ogni anno mette a rischio i diritti e il futuro di 12 milioni di bambine e ragazze". "Purtroppo è un retaggio di una cultura patriarcale fortemente diffusa - ha spiegato Simone Borile - È impensabile che una donna possa sottrarsi al volere delle famiglia poiché, in queste culture, essa non gode né di diritti né di autonomia decisionale". Le ragazze quindi non possono scegliere in autonomia chi sposare, ma devono sottostare alle decisioni della famiglia. Non solo: "Combinare un matrimonio in giovane età produce conseguenze psico–sociali e fisiche drammatiche sulla bambina: abbandono dagli affetti famigliari, interruzione del percorso scolastico, gravidanze plurime e precoci, percosse e violenze intrafamiliari. La giovane donna non può sottrarsi né al volere del padre né a quello di suo marito". Negli ultimi anni sono diverse le storie di ragazze che hanno rifiutato di sposare gli uomini scelti per loro dalla famiglia. Le conseguenze in questi casi, spiega l'esperto, "sarebbero drammatiche". Le ragazze possono venire lapidate. La lapidazione è infatti una delle punizioni per chi va contro i valori imposti dalla famiglia: "Nel nostro Corano c’è scritto che se una smette di essere musulmano, deve essere sepolta viva con la testa fuori dalla terra e poi uccisa con lancio di sassi contro la testa", ha rivelato il fratello di Saman Abbas. Ma non ci sono solo nozze forzate e obbligo di portare il velo tra le imposizioni di alcune famiglie: "Matrimoni combinati in giovane età e infibulazioni sono di sicuro le pratiche più frequenti e in Italia sono considerate condotte penalmente rilevabili", ha specificato Borile.

L'infibulazione. "Nel solo 2020 sono ancora 4,1 milioni le donne e le bambine che rischiano" di subire le mutilazioni genitali (MGF). A rivelarlo è il rapporto di Unfpa, che affronta le pratiche dannose che "rappresentano una violazione dei diritti umani" e che sono diffuse in tutto il mondo. I dati del report rivelano che sono "circa 200 milioni" le donne e le ragazze che sono state sottoposte a forme di mutilazione genitale. Tra queste c'è l'infibulazione. "È una pratica ritualistica che prevede l'asportazione totale o parziale dell'organo genitale femminile", prosegue Simone Borile. Ma perché si ricorre a questa pratica? "Per alcune culture - aggiunge l'esperto - diventa un obbligo per le giovani bambine sottoporsi a tali sofferenze poiché è diffusa la credenza che il corpo della donna sia imperfetto e che l'infibulazione rappresenti un passaggio obbligatorio per abbellire, perfezionare il corpo femminile. Una modificazione corporea necessaria per favorire poi una integrazione all'interno della comunità contraendo matrimonio e onorando il nucleo familiare". L'idea di base di alcune culture, spiega l'esperto, è che "donna non si nasce, ma si diventa attraverso l'infibulazione". Borile, inoltre, spiega che secondo alcune credenze locali che supportano la pratica di asportazione del clitoride, "se un bambino dovesse nascere toccando il clitoride con la testa, sarà destinato a una morte veloce per decapitazione", mentre altre "ritengono che se il pene maschile dovesse entrare in contatto con il clitoride della donna, questo potrebbe provocare all’infertilità". Alcune culture inoltre, specifica ancora l'antropologo, "conservano e attuano le proprie pratiche attestando in tal modo l'onore e l'appartenenza alla cultura di origine. Rappresenta un rituale irrinunciabile e obbligato". Le mutazioni genitali femminili possono portare a danni fisici e psicologici importanti. Tra queste, spiega il rapporto Unfpa, ci sono "rapporti sessuali dolorosi, infezioni, cisti e sterilità", oltre al maggiore rischio di contrarre Hiv e di avere complicazioni durante il parto. "Inoltre - si legge nel testo - possono portare a depressione, incubi ricorrenti, attacchi di panico e stress post-traumatico". L'infibulazione, così come altre pratiche, è "illegale, quindi realizzata clandestinamente". Per questo motivo, continua Borile, "vi è un numero oscuro elevatissimo e determinarne le statistiche è assai complesso". In molti casi, spiega l'esperto, queste pratiche "sono di natura violenta (la memoria del dolore è fondamentale nei riti di passaggio e di inclusione) e prevedono una modificazione corporea". Si tratta, anche in questo caso, di atti illegali: "Il nostro codice penale sanziona chiaramente chiunque arrechi danno fisico e leda l'integrità fisica ad altro soggetto".

Lo sfregio con l'acido. Mutilate, abusate, vessate: sfregiate con l'acido. Sono migliaia, e forse anche di più, le donne islamiche che ogni giorno sono vittime di quello che viene definito "vitriolage" (letteralmente "trattamento con vetriolo"). Una pratica ancestrale, ampiamente diffusa nelle regioni islamiche del Medio Oriente, che attenta non solo al corpo femminile, deturpando in modo irreversibile il volto e gli arti, ma che strazia l'anima nel profondo. Secondo una statistica diffusa dall'associazione Acid Sourvivor Foundation (Asf), tra il 2007 e il 2018 in Pakistan ben 1485 donne sono state aggredite con sostanze corrosive. Nel 2020, anno dell'ultima rilevazione, sono stati registrati 80 casi di attacchi con l'acido, circa il 50% in più rispetto a quello precedente. La pena per questo genere di reato, introdotta soltanto nel 2011, prevede dai 14 ai 30 anni reclusione oltre a una multa di 1 milione di rupie. Ciononostante questo scempio aberrante continua a perpetuarsi. "Bisogna centrare il punto - spiega l'antropologo - Chi e cosa rappresenta la donna in queste culture? Arrivare a compromettere irrimediabilmente l'immagine e il corpo di una donna, provocandone indicibili sofferenze perpetue, è segno di una cultura convinta che la donna non abbia valore e qualsiasi sofferenze le venga inflitta sia giustificata e legittimata. Pensiamo alla pratica del 'breast ironing' molto diffusa nelle regioni centrali e occidentali dell’Africa. Giovani adolescenti vengono sottoposte alla tradizione dell’appiattimento al seno attraverso bracieri ardenti, lame incandescenti e pietre roventi nella convinzione che questa pratica rallenti la crescita del seno, conservando in tal modo l'immagine della donna come figura prepuberale, lontana da attenzioni e facili adescamenti, che potrebbero condurre a matrimoni precoci, gravidanze indesiderate, interruzione degli studi e disonore alla famiglia". A marzo del 2012 Fakhra Younas, una danzatrice pakistana residente a Roma, si è tolta la vita dopo che il marito l'aveva sfregiata con l'acido nel 2002. "Sfregiare una donna con l’acido sottintende una precisa volontà distruttiva e diffamatoria - conclude l'esperto - Significa segnare un marchio visibile e indelebile di vergogna sul volto e comprometterne la sua futura esistenza sociale per sempre".

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

“Ti sgozzo e poi ti stupro”. Le minacce choc per il video contro l’Islam. Alessandra Benignetti su Inside Over il 16 giugno 2021. Si è aperto all’inizio di giugno nelle aule del tribunale penale di Parigi il processo per il linciaggio di Mila, la ragazza che un anno fa è finita nel mirino degli estremisti per aver offeso la religione islamica sulla sua pagina Instagram. Tutto è iniziato da un tentativo di approccio via social da parte di un ragazzo musulmano. Lei non ci sta e così partono gli insulti. “Lesbica”, “francese di m…”, scrivono il giovane e i suoi amici. Mila, che è gay, per tutta risposta pubblica un video sul social network in cui si sfoga, denunciando l’affronto e affermando di detestare la religione musulmana. Dice che l’Islam e il Corano propagandano l’odio. Usa termini forti e offensivi. Da quel momento inizia una vera e propria guerra. Non è più un gruppetto di ragazzi a mobilitarsi contro di lei, ma migliaia di fedeli che via internet la minacciano, anche di morte. Sono oltre 100mila i messaggi di odio ricevuti dalla ragazza dall’inizio del 2020, dice il suo avvocato, Richard Malka, in un’intervista a Franceinfo. Messaggi dal contenuto agghiacciante. “Qualcuno la troverà e la ucciderà, ed è tutto ciò che merita”, “meriti di essere sgozzata, grassa putt…”, “qualcuno dovrebbe spaccarle il cranio”, “dimmi dove vivi e ti faccio fare la fine di Samuel Paty”. E ancora c’è chi le augura di “mangiare” le sue stesse “viscere”, di “strillare come una scrofa”, chi vorrebbe stuprarla dopo averle “tagliato la gola” o seppellirla viva. Spesso le minacce, spiega ancora il suo avvocato, sono condite da immagini di teste decapitate, o da fotomontaggi, con la testa della ragazza al posto di quella del professore sgozzato da un islamista. Per questo Mila da oltre un anno non frequenta più la scuola e vive sotto scorta h24. È la prima volta nella storia francese che una ragazza così giovane viene messa in isolamento e sotto protezione. Eppure, nella Francia in guerra con il “separatismo islamico” può succedere anche questo. Mila, che oggi ha 17 anni, ha deciso di raccontare il suo calvario in un libro dal titolo eloquente: “Sono il prezzo della vostra libertà”. Il volume, edito da Grasset, sarà disponibile da mercoledì in tutte le librerie francesi e si apre proprio con la trascrizione di alcuni dei messaggi di odio ricevuti in questi mesi. “Forse sarò morta tra cinque anni”, ha detto lunedì in un’intervista ai microfoni di Sept à Huit, trasmissione di TF1. “Ha ragione chi ha scritto che mi ha fatto prigioniera nel mio Paese”, dice ancora alla giornalista. Racconta di sentirsi “in prigione” anche nei rari momenti in cui esce di casa, affiancata dagli uomini della scorta, con i capelli coperti dal cappello o da una parrucca per non essere riconoscibile. “Sono stata abbandonata da una nazione fragile e codarda”, denuncia ancora nel libro. “La maggioranza silenziosa – commenta nell’intervista – mi sostiene, ma ha paura e non farà mai niente”. Lei, invece, assicura che non smetterà mai di “parlare” e di difendere la libertà di espressione, neppure “con il coltello puntato alla gola”. Anche se confessa di “piangere” quando pensa al suo futuro, e a come si vede da qui a cinque o dieci anni. “Probabilmente sarò morta”, ripete. È consapevole che quelle fatwa lanciate sul web possono diventare realtà da un momento all’altro, proprio come è successo con Samuel Paty. Alla sbarra sono finite 13 persone, accusate di aver minacciato e molestato in rete la giovane, sedicenne all’epoca dei fatti. Ad esprimere solidarietà alla ragazza di Villefontaine, a margine della prima udienza del processo era stato il ministro dell’Istruzione, Jean-Michel Blanquer, che aveva detto di essere al fianco di Mila e della “libertà di espressione”. Anche il presidente francese, Emmanuel Macron, nel giorno dell’apertura del processo aveva affrontato il tema della violenza online chiedendo di essere “vigili” sulla diffusione del fenomeno soprattutto tra i giovani.

Dagotraduzione dal The Guardian il 25 giugno 2021. Il primo ministro pakistano, Imran Khan, è in mezzo a una bufera dopo aver accusato le vittime di stupro di indossare «pochissimi vestiti». Intervistato dal giornalista Jonathan Swan di Axios sui numerosi stupri in corso in Pakistan, Khan ha risposto così: «Una donna che indossa pochissimi vestiti ha un impatto sull’uomo, a meno che non sia un robot. Si tratta di buon senso». Il presidente non è andato oltre. Non ha spiegato, per esempio, cosa intendesse per «pochissimi vestiti» in un paese in cui la maggioranza delle donne indossa abiti nazionali conservatori. La reazione è stata immediata: una dozzina di associazioni per i diritti delle donne, compresa la Commissione per i diritti umani del Pakistan, hanno chiesto al presidente di scusarsi. «Queste dichiarazioni rafforzano la percezione pubblica che le donne siano vittime “coscienti” e gli uomini aggressori “indifesi”» hanno detto in Commissione. Secondo Maryam Nawaz, vicepresidente della Lega musulmana pakista-Nawaz e figlia dell’ex primo ministro, l’attuale presidente è un «apologista dello stupro». Kanwal Ahmed, attivista per le donne, ha twittato: «Mi fa rabbrividire il pensiero di quanti stupratori si sentano convalidati oggi che il primo ministro che sostiene il loro crimine». Proteste sono state organizzate nel fine settimana a Karachi e Lahore. All’inizio di quest’anno il primo ministro è stato accusato di una «sconcertante ignoranza» dalle associazioni per aver consigliato alle donne di coprirsi per prevenire gli stupri. Il suo portavoce ha poi smentito la dichiarazione, attribuendo il passo falso a un errore di traduzione dalla lingua urdu. Interrogato da Swan, Khan ha spiegato che lui intendeva riferirsi al «concetto di purdah» dell’Islam, cioè «evitare la tentazione» coprendosi. In Pakistan le vittime di abusi sessuali sono spesso guardate con sospetto ed è raro che la polizia dia seguito alle poche denunce. Gran parte del paese vive rispondendo a una specie di codice d’onore che punisce le donne dalla “vergogna” con violenze e omicidi. Il paese è tra i peggiori al mondo per l’uguaglianza di genere. Proteste a livello nazionale sono scoppiate l’anno scorso quando il capo della polizia ha ammonito la vittima di uno stupro per aver guidato di notte sola, senza un compagno. La donna, franco-pakistana, è stata aggredita sul ciglio di un’autostrada davanti ai suoi figli dopo essersi fermata per un guasto all’auto.

"Saman come Astrazeneca...": la frase choc dell'ambasciatore in tv. Ignazio Riccio l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Lo scivolone del diplomatico pakistano Saleem arriva nel bel mezzo della discussione sul caso della diciottenne a Porta a Porta. E Vespa reagisce...“C’è una ragazza, ne stavate parlando prima, che sarebbe stata uccisa da un’iniezione di AstraZeneca. Possiamo mai dire che il vaccino è un assassino? Dobbiamo stare attenti agli stereotipi”. Lo scivolone dell’ambasciatore pakistano Jouhar Saleem arriva nel bel mezzo della discussione sul caso di Saman Abbas, nel corso della puntata dell'altra sera della trasmissione di Rai 1 Porta a Porta. Il paragone dell’ambasciatore ha creato un attimo di gelo nello studio, dove c’era in collegamento anche il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati Francesco Lollobrigida. A rompere gli indugi ci ha pensato il conduttore Bruno Vespa. “Ambasciatore, la prego – ha detto il giornalista – questa l’è proprio scappata. Non confonda quello che è successo in tanti Paesi con il vaccino AstraZeneca con l’assassinio di una ragazza”. La gaffe del diplomatico pakistano è arrivata dopo che il deputato di Fdi lo ha incalzato sulla vicenda della ragazza 18enne di Novellara, nel basso Reggiano. “In Italia vige la Costituzione italiana – ha spiegato Lollobrigida – e vigono le leggi italiane, non la legge Coranica. I 131mila pakistani presenti sul territorio devono seguire le leggi del nostro Stato che prevedono il rispetto delle donne e l’impossibilità di considerarle subordinate all’uomo. Chiediamo rassicurazioni su questo e vorremo sapere, qualora la magistratura italiana dovesse chiedere l’estradizione del padre di Saman, se il Pakistan è pronto a collaborare e a concederla”. L’ambasciatore ha mostrato tutto il suo imbarazzo nel farfugliare lo strano paragone tra il caso di Saman e il vaccino AstraZeneca, anche se ha affermato che i pakistani che vivono in Italia rispettano le leggi e che si tratterebbe di un crimine non legato alla religione e alle tradizioni. Sulla possibile estradizione il diplomatico del Pakistan è stato incalzato da Vespa, il quale ha chiesto una risposta precisa. “Noi abbiamo un trattato di estradizione tra Pakistan e Italia – ha concluso l’ambasciatore –e in passato ci sono state già richieste di estradizione. Tutte le volte che le abbiamo avute c’è stato un esito positivo”, facendo intendere che qualora lo Stato italiano lo volesse, il padre di Saman verrebbe processato in Italia.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (test…

Saman, parla l'ambasciatore Jauhar Saleem. Andrea Indini il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ambasciatore Jauhar Saleem: "Le mie parole? Fraintese". L'intervista su islam, matrimoni forzati e comunità pakistana in Italia.

Sua eccellenza, ambasciatore Jauhar Saleem, le Sue parole sul caso Saman hanno creato parecchio scalpore. Cosa intendeva dire realmente?

Mi spiace che una delle mie dichiarazioni fatte durante la trasmissione televisiva Porta a Porta sia stata fraintesa e decontestualizzata. Ricorderete che avevo espresso profondo dolore e angoscia per il tragico caso di Saman Abbas per il quale l’indagine in corso lascia presupporre un crimine terribile. Dato che pochi minuti prima si era discusso della morte di una ragazza per la somministrazione del vaccino anti-Covid, ho fatto riferimento a quell’episodio come esempio per dire che, anche se si è trattato di uno spiacevole e raro incidente, esso non dovrebbe portare alla generalizzazione secondo la quale quel particolare vaccino uccide le persone. Allo stesso modo, non dovremmo dare una connotazione negativa ad un'intera comunità per un crimine commesso da uno o due individui. Era chiaro che non stavo paragonando le due morti.

In Pakistan, come in Italia, i matrimoni forzati sono fuori legge. Rimangono però quelli combinati e non è sempre facile comprendere dove finiscano i primi e dove inizino i secondi. Come si comporta lo Stato pakistano di fronte a questi tipi di unioni?

I matrimoni forzati sono illegali in Pakistan come in Italia. Per quanto riguarda invece i matrimoni combinati, in cui le famiglie possono suggerire un possibile coniuge al figlio o alla figlia, è la donna ad avere l’ultima parola senza alcun elemento di coercizione. Nella stessa cerimonia di matrimonio, al cospetto di centinaia di persone, alla sposa viene chiesto, per ben tre volte, se intende sposarsi. In Pakistan, le leggi così come le norme sociali e culturali, proibiscono severamente i matrimoni forzati. Se, nonostante tutto, una cosa del genere avviene, si tratta di un crimine e come tale viene trattato.

Secondo i dati raccolti nel 2020 da Terre des hommes, sono state oltre mille le vittime causate dai cosiddetti delitti d'onore (reati che il suo paese punisce per leggere). Questi numeri, però, sono ancora molto alti, seppur in calo rispetto al passato. Cosa deve cambiare nella società pakistana affinché siano prossimi allo zero?

Le cifre citate sono decisamente esagerate. I numeri reali sono molto più bassi, meno della metà su un paese di 220 milioni di persone, e mostrano che il trend sta chiaramente decrescendo. Per esempio, dal 2013 i numeri sono quasi dimezzati. Sfortunatamente, i cosiddetti delitti d’onore avvengono ancora oggi in diverse società in un modo o nell’altro. È possibile osservare una diminuzione dei casi laddove i paesi progrediscono economicamente ed accrescono il proprio tasso di alfabetizzazione. L’Italia e molti altri Paesi Europei ne sono un chiaro esempio. In Pakistan abbiamo adottato una strategia su più fronti per contrastare questo fenomeno. Promuovere la scolarizzazione, la consapevolezza e rafforzare il sistema legale contro questi crimini- come ha fatto anche l’Italia- e i numeri stanno calando. È perciò una sfida comune a tutti i Paesi.

Molto probabilmente, i genitori di Saman sono fuggiti in Pakistan. Il Suo Stato sarebbe pronto ad estradarli? L’Italia si può aspettare una collaborazione da parte del Pakistan?

Senza dubbio il Pakistan coopererà con le autorità italiane per le indagini su questo caso. Vogliamo che la verità venga fuori e ci auguriamo che sia fatta giustizia. Se la giovane Saman è stata vittima di una folle trama, come gli eventi suggeriscono, gli autori del crimine devono essere consegnati alla giustizia. Non appena ci arriverà una richiesta ufficiale delle Autorità Italiane competenti, agiremo immediatamente. Se sarà necessaria un'estradizione e il Governo Italiano ne farà richiesta, daremo certamente una risposta rapida e positiva.

C'è chi sostiene che dietro la fine di Saman ci siano fattori culturali. Altri ritengono che ci siano motivazioni religiose. Per altri invece si tratta solamente della follia umana. Lei cosa crede?

Non si possono spiegare o giustificare efferati crimini contro le donne attraverso fattori culturali. Sfortunatamente in tutte le società e in tutti i paesi possiamo trovare autori di crimini contro le donne, incluso il femminicidio. In realtà definirei tutti i crimini che riguardano la violenza contro le donne come la peggiore delle follie, uno svilimento dell'umanità.

A un certo punto, è comparso persino il video di un presunto funerale senza salma per Saman. In realtà si trattava di una celebrazione per commemorare la morte dell'imam Ali. Com'è stato possibile un errore simile?

Non ritengo che alcun video come quello postato abbia rilevanza su questo caso. Purtroppo, la triste realtà è che ci sono tentativi di screditare intere comunità o culture. Per molto tempo, il singolo atto di terrorismo da parte di qualsiasi musulmano veniva deliberatamente descritto come il riflesso di una civiltà non integrata nella contemporaneità, mentre atti simili da parte di non musulmani venivano semplicemente definiti come "un atto individuale di una mente disturbata", anche quando persino decine di persone erano state uccise da quella persona. Oppure veniva definito come uno scatto d’ira o una violenza con armi da fuoco. Solo gradualmente si è iniziato ad accettare che tali crimini, compiuti da qualunque comunità, rappresentano un atto terroristico.

Lei è in Italia da più di un anno. Come ha trovato la comunità pakistana nel nostro Paese? Crede si stia integrando bene o che ci siano ancora dei passi in avanti da fare?

Questo è un punto molto rilevante. Penso che quella pakistana in Italia sia una comunità di lavoratori, rispettosi della legge e che stia contribuendo attivamente all'economia di quella che è diventata la loro nuova casa. Credo che i miei concittadini pakistani si stiano integrando bene nel complesso, anche se ovviamente non è un percorso privo di sfide. Non ho dubbi che la nostra comunità riuscirà ad integrarsi in questa società con lo stesso successo con cui gli italiani si integrarono negli Usa a fine Ottocento, ma durante il percorso potrebbero esserci delle sfide. Possiamo facilitare molto l'integrazione facendo dei passi per promuovere l’intesa e l’armonia reciproca piuttosto che creare una percezione sbagliata generalizzando e creando stereotipi. L'istruzione, la conciliazione e avere una mente aperta sono la chiave per promuovere l'armonia e l'integrazione.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile.

PER I SINISTRI LA COLPA E’ DELL’ITALIA!

Saman Abbas, da cittadina italiana si sarebbe potuta salvare. Rita Rapisardi su L'Espresso il 10 giugno 2021. La denuncia di associazioni e Casa delle donne: cittadinanza e permesso di soggiorno sono l’ennesimo ricatto di genere per le straniere. Alloggio, vincolo del reddito e legame familiare diventano un ostacolo anche per chi vuole uscire da situazioni di violenza. «È ora di cambiare la legge». La vita di Saman Abbas è stata spezzata da un gruppo di uomini che ha scelto per lei. Strozzata nella sua libertà, perché nessuna decisione presa poteva discostarsi dal volere dei patriarchi. Per le donne straniere le catene fanno il doppio giro, meno indipendenti, più soggette al ricatto dei capi famiglia. E l’oggetto del potere è racchiuso anche nei fogli di carta, quelli del permesso di soggiorno o della cittadinanza. Saman era in pericolo, lo sapeva, «Ho sentito “uccidiamola”, se non mi senti per 48 ore rivolgiti alle forze dell’ordine», aveva detto al fidanzato la sera del 30 aprile. Scompare quella sera. Saman aveva cercato aiuto, ha 17 anni quando a ottobre denuncia i genitori: vogliono costringerla a sposare un cugino in Pakistan e impedire di andare a scuola. Secondo lo zio, accusato di essere l’autore dell’omicidio, di non essere “una buona mussulmana”. Una disposizione d’urgenza dei servizi sociali e del Tribunale dei Minori fa in modo che sia ospitata lontano dalla casa familiare. Ma la giovane a dicembre diventa maggiorenne, non è più possibile trattenerla, la chiave per la libertà sta nei propri documenti. Li custodisce il padre Shabbar. Tornata a casa il 15 aprile, li pretende, ma non li ottiene, per questo Saman si rivolge alle forze dell’ordine, che arrivano però solo il 5 maggio, quando ormai è tardi. «La cittadinanza è una questione di genere», denuncia la Casa delle donne Lucha y Siesta, impegnata nel fornire spazi fisici e di dialogo a Roma. «Tante ragazze e tante donne vengono private, ancora oggi, della possibilità di acquisire la cittadinanza dai propri padri o mariti», si legge nel dossier “La cittadinanza a 18 anni”, a cura di Black Lives Matter Roma e Rete G2 - Seconde Generazioni, presentato il 2 giugno scorso, incentrato proprio sull’art. 4 della legge n. 91 del 1992 (che fornisce la possibilità a tanti giovani di essere riconosciuti de iure cittadini italiani solo al compimento del diciottesimo anno). Rinnovo dei permessi e acquisizione della cittadinanza sono legati al reddito che spesso si trova nelle mani del maschio di famiglia, intestatario di busta paga, requisito necessario per presentare la domanda. Ma anche all’intestazione dell’alloggio di residenza. «L’origine del processo dell’esperienza migratoria è spesso economica e l’uomo condiziona tutti i passaggi successivi. Dovrebbe essere un diritto soggettivo e non più un interesse legittimo. Se la cittadinanza è un diritto andrebbe tutelato almeno nelle procedure burocratiche», commenta Mohamed Taimoun, di Rete G2. I permessi di soggiorno di padri e mariti, vincolano di fatto, quelli di figlie e mogli. Quegli stessi padri e mariti che spesso impongono violenza e prevaricazione, come nel caso di Saman. E talvolta l’unico modo per sfuggire del padre è passare sotto il controllo di un marito. «Il mancato accesso alla cittadinanza è di impedimento nei percorsi di autonomia delle donne. Per quanto riguarda l’accesso al permesso di soggiorno per motivi familiari, rende il percorso molto più difficile, spesso le donne lavorano informalmente e non possono dimostrare il loro guadagno. I permessi sono negati fino ai 18 anni, anche per chi è nato in Italia. E sono oltre un milione di ragazzi e ragazze si trova in questa situazione», spiega Enrica Rigo, Clinica del diritto dell’Immigrazione e della cittadinanza dell’Università Roma Tre. «Quando le donne scelgono di fuoriuscire da situazioni di violenza e di emanciparsi, i criteri per la cittadinanza decadono e il procedimento si interrompe: le donne inoltre vivono una marginalizzazione nel mondo del lavoro, hanno una situazione reddituale minore degli uomini. Spesso lavorano in nero o in grigio, non arrivando ai criteri di accesso alla cittadinanza», racconta Simona Ammarata, operatrice di Lucha y Siesta e spiega che nel caso di donne straniere lo sviluppo dei documenti si ferma anche con procedimenti penali aperti e in caso di separazione dal marito. «Il lavoro di cura all'interno delle mura domestiche non è riconosciuto. Per questo abbiamo aiutato le donne a cercare lavoro, ma i tempi delle procedure rimangono comunque troppo lunghi». Con i decreti Salvini la situazione è persino peggiorata, di fatto i tempi si sono allungati e in questi casi a pagare le spese più alte sono sempre le donne: «Quando una donna entra in un percorso antiviolenza, il permesso di soggiorno è una problematica in più. E una volta acquisiti i requisiti per la cittadinanza, passano dai due ai quattro anni - aggiunge Rigo - Sono tempi lunghissimi in confronto ad altri paesi: vuol dire estromettere gran parte della popolazione dalla vita civile e politica». Anche la riforma della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese non ha ripristinato la situazione precedente, ma ha trovato un compromesso al ribasso. Come molte associazioni di italiani di seconda generazione hanno denunciato, è necessaria una riforma della legge sulla cittadinanza, vecchia di trent'anni e inapplicata in molte sue parti. E che non prevedere i cosiddetti ius soli, per nascita, e lo ius culturae, nel caso in cui si sia arrivati in Italia da piccoli.  Una riforma che riguarderebbe oltre 1 milione e 316 mila minori, di cui oltre 990 mila nati in Italia, l’11% della popolazione 0-18 anni. «Chiediamoci cosa sarebbe successo se Saman avesse avuto la cittadinanza, o l’opportunità di acquisirla lontano da casa, riuscendo così a slegarsi da quel subordine familiare nella quale viveva», dichiara Marwa Mohmoud, consigliera comunale Pd di Reggio-Emilia. «Bisogna capire cosa non ha funzionato a capire a livello di tutela della vittima. E valutare un iter normativo specifico rivolto alle vittime di violenza o di matrimoni forzati, come avviene in altri ordinamenti europei. Si deve superare questo legame patriarcale tra vittime e carnefici. Invece di convivere con una pressione mentale identitaria, in cui di fatto sei cittadina del Pakistan e lo Stato in cui vivi ti riconosce come figlia illegittima».

Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” l'11 giugno 2021. I sorrisi di circostanza da immortalare in una foto ricordo di un giorno che non si vorrebbe ricordare. Altro che il più bello della vita... I sorrisi di circostanza dettati da una tradizione che fa indossare vestiti a festa e lascia il cuore a lutto. Di autentico in quegli sguardi obbligati a guardare al futuro non c' è nulla se non l' apparenza. Gli "amori" sono combinati. E di "non amore" si può anche morire. Come è successo a Saman Abbas, la 18enne pakistana che, a meno di clamorose sorprese, sarebbe stata uccisa dallo zio per il suo no a darsi in sposa ad un parente lontano e per quella dannata colpa di voler vivere all' occidentale. Che, detta così, sembra chissà che cosa e invece è solo la naturalezza di sentirsi liberi di scegliere cosa fare, con chi addormentarsi la sera, con chi svegliarsi al mattino. E invece in certe culture il "problema" di innamorarsi, magari troppo, seguire un istinto che raramente tradisce, dare retta al cuore, proprio non esiste. Gli altri, i grandi, genitori, zii o fratelli, lo eliminano alla radice. Come ha fatto pure Mohammad Ibrahim, il lavapiatti che nella notte tra martedì e mercoledì è stato decapitato nell' appartamento che in Corso Francia 95, a Torino, divideva con un connazionale, anche lui lavapiatti. Aveva 25 anni, una moglie in Bangladesh e un figlio in arrivo. Mohammad Ibrahim lavava sì i piatti, ma "combinava" pure matrimoni, stando alle prime tiepide testimonianze che esponenti della comunità bengalese hanno reso agli uomini della squadra mobile guidata da Luigi Mitola, e che man mano si sono fatte realtà. Ieri, infatti, la svolta è arrivata con il fermo di un connazionale, Mostafa Mohamed, 24 anni. Sarebbe stato lui ad uccidere e poi decapitare il 25enne. Motivo? Un prestito tra i 1200 euro e i 4mila euro che la vittima aveva intascato per organizzare e pagare le spese di un matrimonio combinato con una sua parente. Soltanto che le nozze sono saltate (la mamma della sposa alla fine ha detto no) e lui non ha restituito la somma. Anzi, quei soldi la vittima li ha spesi per altro senza più restituirli al pro messo sposo. Che, a quel punto, ha strangolato l' intermediario con un cordino di nylon e poi gli ha tagliato la testa. Problema risolto. In un certo senso, si può dire che anche lui sia stato vittima di una tradizione indigesta che, almeno in Italia e all' interno di queste comunità si fa fatica ad intercettare e a reprimere. E se succede è perché qualcuno da dentro si ribella. Come ha provato a fare Saman, come aveva provato a fare, nel 2006, Hina Saleem, pakistana uccisa da padre e zii e sepolta nell' orto di casa perché fidanzata con un italiano di fede non musulmana e per aver rifiutato il marito designato dalla famiglia. E chissà di quante Saman e Hina non ci sono notizie mentre una bella notizia, tre anni fa, l' aveva data la mamma di una bambina di dieci anni strappando il passaporto suo e di sua figlia che il marito violento da una moderna Milano aveva promesso in sposa ad un 32enne in Bangladesh. La teneva segregata, la piccolina, la faceva crescere a pane e Corano. Si è salvata grazie al coraggio della mamma. Pratiche crudeli, selvagge, che includono spose bambine e infibulazione, matrimoni forzati e combinati (che solo i parenti possono disdire), usanze che arrivano a noi come una eco da Paesi come Bangladesh, Pakistan, India, ma che all' improvviso ritroviamo dentro i palazzi che abitiamo e ogni volta sconvolgono e ogni volta riaccendono il dibattito che si placa e si dimentica nel giro di pochi tramonti. Ahmad Ejaz, pakistano in Italia da 30 anni, e che da 30 anni si batte per l' integrazione, a Libero ha detto che «molte le persone che le praticano non sanno nemmeno che è un reato in Italia», che «le comunità spesso si chiudono in se stesse, si auto -ghettizzano e fanno subentrare la cultura del Paese di origine». E organizzano matrimoni, tra giovani che già sono sul territorio, o tra persone che vivono lontane. Racconta sempre Ejaz che i pakistani, ma anche bengalesi e indiani, una volta arrivati in Italia chiamano la mamma per trovare moglie. Ritornano in patria, si sposano, ritornano in Italia, mandano i soldi. E le donne non sono donne, ma solo «mogli, mamme, figlie», il cui destino è deciso dagli altri. E guai a con tradirli.

Simona Lorenzetti per corriere.it l'8 maggio 2021. Era «un’infedele» perché vestiva all’occidentale, perché studiava all’università e aveva delle amiche. E per questo andava punita, redarguita. Per anni Meriam (nome di fantasia), 26 anni, è stata picchiata e insultata da un connazionale con il quale aveva una relazione. Un uomo violento che ha continuato a perseguitare la ragazza con minacce e telefonate anche quando lei lo ha cacciato di casa. Fino a quando, un giorno, ha deciso di dire basta. Lo ha denunciato, ma soprattutto gli ha gridato in faccia di non voler essere la donna sottomessa in cui lui voleva trasformarla: «Non ho passato vent’anni della mia vita a studiare per rimanere una marocchina ignorante come sei tu. Preferisco stare insieme a un italiano che mangia prosciutto e non prega Allah, piuttosto che stare con uno come te che parla dalla mattina alla sera di Dio, ma non sa cosa vuole dire il rispetto per gli altri». La vicenda è stata raccontata nei giorni scorsi in un’aula del Tribunale di Torino: l’uomo, un marocchino di 37 anni, è stato condannato (con rito abbreviato) a 3 anni e due mesi di reclusione. Era accusato di maltrattamenti, stalking, violenza sessuale ed estorsione. I giudici hanno anche stabilito che la ragazza, assistita dall’avvocato Gianluigi Marino, ha diritto a una provvisionale di 20 mila euro. I due si conoscono nel 2017. Meriam non sa che l’uomo che la corteggia ha dei precedenti per droga e un processo in corso per stalking nei confronti dell’ex fidanzata, dalla quale aveva avuto anche un figlio. Come spesso accade, la relazione all’inizio ha contorni romantici. Ma quando vanno a vivere insieme, lui si trasforma: diventa aggressivo e violento. Per due anni la picchia, rimproverandola di essere una donna di facili costumi perché indossava la gonna corta, si vestiva «troppo all’occidentale» e non rispettava la «tradizione islamica». «Se facessi quello che ti dico di fare non ti picchierei», le diceva minacciando di raccontare ai suoi genitori, osservanti della religione islamica, che non rispettava i dettami della fede. Lei sopporta in silenzio e quando prova a lasciarlo, lui la minaccia di inviare ai genitori alcuni video intimi. Non solo, la ricatta e la costringe ad avere rapporti sessuali. Solo nel 2019 Meriam trova la forza e il coraggio di cacciarlo di casa. Ma l’incubo non finisce. Lui inizia a perseguitarla: la tempesta di telefonate, anche 20 al giorno, si apposta sotto casa e la segue per strada. «Ti taglio a pezzi e mando il corpo ai tuoi genitori», «mando una ragazza a picchiarti così nessuna saprà mai che sono stato io», sono le frasi che le ripete al telefono. E ancora: «Ti ammazzo, prima che tu possa denunciami». Poi un giorno lui le rinfaccia di essersi fidanzata con un italiano: «un infedele» e «un ebreo». È a quel punto, di fronte all’ennesimo gesto di violenza, che Meriam rivendica se stessa. Rivendica di essere una donna adulta ed emancipata e di essere libera di vivere la propria vita: «In Italia c’è la possibilità di fidanzarsi con un italiano, un cinese, un giapponese, nero, giallo, bianco... con chiunque... Io non ho passato 20 anni della mia vita a studiare per rimanere una marocchina ignorante come sei tu... preferisco stare con un italiano che mangia il prosciutto e non prega Allah, che stare con uno come te che parla dalla mattina alla sera di Dio e non sa nemmeno cosa vuole dire il rispetto per gli altri». L’epilogo in Tribunale, nei giorni scorsi, con la condanna dell’uomo.

Cosa insegna alla sinistra la tragedia di Saman Abbas. Sofia Ventura su La Repubblica il 15 giugno 2021. Il relativismo culturale ha finito per indebolire la difesa dei principi universali. E questa terribile vicenda potrebbe essere l’occasione per riscoprirla. La società nella quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali, scriveva Karl Popper, (è chiamata) società aperta». La giovane Saman Abbas, probabilmente uccisa nel contesto familiare, una famiglia immigrata pakistana, voleva essere libera di assumere proprio quelle decisioni personali. Voleva uscire dalla «società chiusa» di provenienza per vivere con le libertà offerte dalle società aperte occidentali, non sottostare a un matrimonio combinato, essere una «Italian girl», come aveva scritto su Facebook. La tragica vicenda di Saman, scomparsa, e probabilmente uccisa, alla fine di aprile, sta diventando un caso. Anche perché, a fronte delle scarse reazioni iniziali, donne di sinistra, come Ritanna Armeni e Giuliana Sgrena, si sono fatte sentire, denunciando la difficoltà della loro parte a trattare quel tipo di eventi; difficoltà che rischia di assumere la forma di un più o meno velato razzismo. Da destra, come già in analoghi casi, sono invece subito provenute accuse di colpevole silenzio. Quelle accuse sono fondate, anche se troppo spesso viziate non solo dal desiderio di stigmatizzare gli immigrati e la loro religione, l’Islam, ma da un errore non troppo diverso da quello che si compie sovente a sinistra: ipostatizzare la diversità. A sinistra, proprio il timore che illuminare le violenze che originano nei contesti di immigrazione, soprattutto islamici, dia spazio al razzismo, è proposto come giustificazione della «prudenza». Questa assomiglia però a un alibi, più o meno consapevole, che cela una ragione più profonda: un relativismo culturale che nel momento in cui porta a valorizzare tradizioni altre, spesso perché viste come vittime di un Occidente imperialista, conduce a tollerare comportamenti che non sono invece tollerati nella società in generale. Come se gli immigrati avessero meno diritti. Vi è una via di uscita? Sì, anche se nulla è facile. La via di uscita è nelle potenzialità della società aperta, in quei valori universali sui quali poggia. E che non possono essere distrutti dalla pluralità delle visioni. I cittadini (e i residenti) condividono doveri e diritti. Il dovere di rispettare la legge e il diritto di essere tutelato dalle autorità pubbliche. Non vi possono essere recinti entro i quali immaginare altri diritti e doveri. Non sono dunque necessarie misure diverse, più o meno tolleranti, verso chicchessia. E non sono tollerabili arretramenti verso la tutela dei diritti di chiunque. Nei fatti questo, certo, porta a conseguenze diverse quando si affrontano casi collocati in contesti diversi: laddove l’individuo è inserito in ambiti più chiusi, la lacerazione necessaria, così come lo sforzo di educazione e socializzazione, sono inevitabilmente maggiori. Per intenderci: il diritto di una giovane a non essere forzata a un matrimonio o a uno stile di vita va tutelato in nome di principi universali e in prima battuta con gli strumenti che si adottano per ogni cittadino; la realtà dell’immigrazione va affrontata con uno sforzo di socializzazione ed educazione (che sino ad oggi non appare soddisfacente) che prenda in considerazione lo iato tra culture. Questo comporterebbe una politica che per integrare in parte «assimila»? Sì, ed è inevitabile che una integrazione non conflittuale e che estenda agli immigrati i diritti liberali richieda un certo grado di assimilazione, quella ai valori e comportamenti fondamentali della società aperta occidentale. La sempre più illiberale destra italiana sfrutta tragedie come quelle di Saman per stigmatizzare (e far apparire come immodificabile) la diversità altrui, ma ha gioco facile nel denunciare le contraddizioni di una sinistra che si perde nei particolarismi. L’una e l’altra hanno perso di vista la dimensione universale alla base del nostro vivere civile. La tragica vicenda di Saman Abbas potrebbe essere l’occasione per riscoprirla.

Se credi che il femminismo islamico non esista fai un salto virtuale a Glasgow. Attiviste e scrittrici. Per dieci giorni di dibattiti sui diritti delle donne musulmane. Che non sono affatto zitte e sottomesse come crede l’Occidente. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso/La Repubblica il 15 giugno 2021. Si parla molto di femminismo islamico in questi giorni in Italia: è un effetto delle discussioni – accese e non sempre condivisibili ma comunque positive – che hanno accompagnato la scoperta del tragico destino di Saman Abbas, la diciottenne italo- pachistana di Novellara fatta uccidere dai genitori perché non accettava che fossero loro a decidere chi farle sposare. O meglio, si ripete sempre lo stesso concetto: il femminismo islamico non esiste, sono due termini che non possono stare nella stessa frase. È innegabile che la via dell'emancipazione femminile sia particolarmente difficile nei Paesi islamici, e anche nelle comunità islamiche sparse nel resto del mondo. Ma non è un buon motivo per negare gli sforzi delle donne – attiviste, avvocate, mediche, scrittrici – che lavorano in questo senso, nei paesi arabi e nel resto del mondo. Per rendersi conto di quanto lavoro è stato fatto non bisogna andare lontano. Basta aprire “Femminismo interrotto” dell'afrodiscendente inglese Lola Olufemi (Giulio Perrone Editore). Un saggio che fa il punto sulle lotte per i diritti delle donne, che in un capitolo particolarmente denso chiarisce punto per punto le difficoltà che le femministe di origine araba incontrano perché combattono su due fronti: il patriarcato islamico e il paternalismo “bianco”, che le vede sempre bisognose di un salvatore europeo capace di liberarle da pregiudizi più forti di loro. Arriva dalla Gran Bretagna un'altra occasione per rendersi conto di quanto sia effervescente il campo di quel femminismo islamico che tanti e tante occidentali considerano morto in culla. Inizia venerdì 18, e andrà avanti per dieci giorni, la nuova edizione del Dardishi Festival, evento annuale di una no-profit di Glasgow dedicata alla produzione culturale di donne arabe e nordafricane. Quest'anno il festival sarà su zoom, quindi a disposizione di una platea virtualmente infinita. In programma, incontri e conferenze centrati su ogni aspetto dei diritti delle donne e delle minoranze di genere e tenuti da persone arabe o nordafricane. Molti sono centrati sulla letteratura: “Nawal El Saadawi: Fierce, Fearless, Feminist!” è un omaggio alla scrittrice, psichiatra e attivista egiziana scomparsa nel marzo scorso. Lo terrà Ebtihal Mahadeen, che cura anche un focus su “Leggere voci femministe dal Medio Oriente e dal Nordafrica”, dedicato ad autrici e testi impegnati su temi di sessualità, identità di genere e vita quotidiana nei Paesi della zona. Politica, guerra e vita quotidiana si mescolano anche in “Palestine is a Feminist Issue” con Jennifer Mogannam e Nesreen Hassan, mentre “Mainstream Subaltern Writing” incrocia le esperienze di quattro scrittrici provenienti da Gran Beratgna, Canada, Egitto e Sudan per tracciare una via di espressione per donne che vivono in un contesto di profonda inferiorità sociale. Film e documentari racconteranno gli sforzi delle comunità che combattono «sorveglianza e censura» nei paesi arabi e nella diaspora. “Jasad and the Queen of Contradictions” racconta le controversie nate intorno alla rivista “Jasad” (il corpo) fondata dalla scrittrice e giornalista libanese Joumama Haddad, conosciuta in Italia per saggi come “Ho ucciso Shahrazad. Confessioni di una donna araba arrabbiata” e Superman è arabo. Su Dio, il matrimonio, il machismo e altre invenzioni disastrose". L'organizzazione segnala gli incontri che non sono consigliati a un pubblico di minorenni, e propone al pubblico abbonamenti a prezzi diversi, da zero a 10 sterline, da decidere in base ai propri interessi e alle possibilità economiche: «Non ci sarà nessun controllo, ma vi chiediamo solo di essere onesti perché tutti possano godere di questi eventi». In programma, anche appuntamenti più leggeri. Come un documentario sulla rappresentazione dell'harem nei film di Hollywood, lezioni di yoga e di “terapia somatica”. Per finire, una passeggiata in podcast, una colonna sonora da ascoltare mentre si cammina in qualsiasi posto sentendosi immersi in un paesaggio ancestrale. L'accompagnamento è fatto da suggestioni auditive scelte da Layla Feghali, libanese cresciuta in California che studia culture e medicina ancestrale della zona d'origine della sua famiglia e delle comunità nativo-americane dell'ambiente in cui è cresciuta: un mix di cultura araba e degli indiani d'America che può dare risultati sorprendenti.

Quelle Saman uccise in nome della sharia. Serenella Bettin il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Quante Saman ancora? In Italia e in Europa l'elenco delle donne vittime della Sharia o dell'immigrazione incontrollata è lungo. Quante Saman ancora ci dovranno essere prima che una certa parte politica arrivi a chiamare le cose con il loro nome senza ricorrere a espedienti ridicoli, ingannevoli, persuasivi, che non tengono conto della realtà. Saman Abbas è sparita, o è stata fatta fuori, non perché vittima di femminicidio come ha esordito qualcuno dopo giorni di imbarazzante silenzio, ma è sparita perché Saman Abbas negli occhi aveva la voglia di vivere, voleva vivere all’occidentale, ma era stata promessa in sposa. E si è ribellata. Saman Abbas non è l’unica. Sono vittime di mariti padroni, schiave di estremisti islamici. Figlie di padri padroni, mogli di uomini con altrettante mogli. Sono madri di quelle figlie che a loro volta diventeranno vittime. Dietro l’universo femminile concepito dall’Islam violento c’è tutto un palcoscenico dell’orrore. Ci sono donne in Afghanistan costrette a vivere dentro a sacchi di stoffa, dove il niqab, che molti in Italia hanno sbandierato come simbolo dell’integrazione e del rispetto verso le altre culture, lascia scoperti soltanto gli occhi. Ci sono donne anche in Italia che preferiscono farla finita anziché finire condannate a spose di chi è stato loro destinato. E ci sono donne in Italia morte ammazzate seviziate e stuprate da mani e occhi che le vedevano troppo occidentalizzate. O prese e ammazzate da riti tribali ancestrali, messi in pratica da chi ha abusato di loro e poi le ha lasciate lì agonizzanti a morire. Le ha tagliate a pezzi. Le ha fatte fuori. Ha squarciato loro il ventre come si squarciano gli animali. Pamela Mastropiero è stata ammazzata da un nigeriano il 30 gennaio 2018, il suo corpo venne ritrovato mutilato in due valigie. Desirée Mariottini, 16 anni, drogata, stuprata, violentata a turno. Si erano messi in fila per dilaniarle il corpo. Poi quando hanno visto che non dava più cenni di vita l’hanno lasciata lì agonizzante a morire. Due ragazze vittime della stessa mano: l'immigrazione incontrollata. Rachida Radi invece, 35 anni, egiziana, rientra nei delitti d’onore. Voleva integrarsi, avvicinarsi al Cristianesimo ma è stata uccisa a martellate dal marito nel 2011 perché viveva all’occidentale. Lui le ha sfondato il cranio. Hina Saleem, classe 1985, pachistana, è stata ammazzata dai parenti a coltellate l’11 agosto 2006 perché non voleva adeguarsi agli usi tradizionali della cultura d'origine. Venne sgozzata e sepolta nell'orto di casa a Brescia. Quando la trovarono aveva la testa rivolta verso la Mecca e il corpo avvolto in un sudario. Sanaa Dafani, di origini marocchine, a Pordenone è stata ammazzata dal padre a coltellate in un bosco, mentre era in compagnia del fidanzato italiano. La tradizione non consente di vivere con un uomo senza sposarsi. Souad Alloumi invece è scomparsa nel 2018. E ce ne sono tante altre. Sono ragazze belle, solari, radiose, con quegli occhi luminosi e raggianti. Le loro colpe: rifiutarsi di indossare il velo islamico, vestire all'occidentale, fumare qualche sigaretta, farsi qualche selfie, indossare jeans, frequentare amici cristiani, avere amici non musulmani, studiare o leggere libri “impuri”, ascoltare musica o suonare, voler divorziare, essere troppo indipendenti emancipate. Portare disonore alla famiglia. Accade in Italia e anche nel resto d’Europa. Sohane Benziane è stata torturata e bruciata viva il 4 ottobre del 2002 in Francia. Le hanno dato fuoco con un accendino. La gente in diretta assisteva alla sua morte. Aveva 17 anni. In Svezia Fadime Sahindal è stata uccisa a colpi di pistola perché si era avvicinata alla cultura occidentale. È stata uccisa dal padre dopo essersi segretamente incontrata con la madre e le due sorelle più piccole, alle quali era stato vietato di vederla. Morì tra le braccia della madre. Era stata espulsa dalla famiglia quattro anni prima per una sua relazione con un giovane svedese-iraniano. Ci hanno fatto un libro. Il The Guardian riporta come Sahindal, 26 anni, abbia “pagato il prezzo più alto per essersi innamorata dell'uomo sbagliato e aver sfidato i valori patriarcali della sua cultura. Suo padre era un contadino curdo analfabeta che si trasferì in Svezia nel 1980. La sua famiglia arrivò quattro anni dopo, quando Fadime aveva sette anni. I suoi genitori la scoraggiarono dal parlare ai bambini svedesi a scuola. Invece, le è stato detto che l'importante era tornare in Turchia e sposarsi. È cresciuta sotto il controllo di suo padre e del fratello minore”. Anche a Heshu Yones, curda irachena, molto bella, hanno tagliato la gola perché aveva un fidanzato cristiano. Aveva 16 anni. La figlia secondo il padre era diventata troppo “occidentalizzata” e aveva intrattenuto una relazione contro i suoi ordini. Rukhsana Naz a Londra, addirittura ancora nel lontano 1998, è stata uccisa perché aveva rifiutato un matrimonio combinato. Aveva 19 anni. Per non parlare dei padri padroni che tengono segregate in casa le mogli, le picchiano, le violentano, non accettano che le figlie possano diplomarsi. Questo fenomeno che per i sordi viene derubricato come violenza domestica, si chiama Sharia. Quello che la sinistra si ostina a chiamare femminicidio. Serenella Bettin

"Una "cultura" che punisce le donne", Samira sparì come Saman. Rosa Scognamiglio il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. La procura di Ivrea ha archiviato il caso di scomparsa di Samira Sbiaa. Il marito della 32enne era stato indagato per omicidio 17 anni dopo. Nessuna verità per Samira Sbiaa, la 32enne di origini marocchine residente a Settimo Torinese di cui si sono perse le tracce dal 7 aprile del 2002. Lo scorso 8 giugno la Procura della Repubblica di Ivrea ha deciso di archiviare il fascicolo per le indagini di scomparsa dopo che, appena tre anni fa, il caso sembrava fosse giunto a una svolta decisiva. Nel 2017 il marito della donna, Salvatore Caruso, ex guardia giurata convertita all'Islam con il doppio degli anni di Samira, era finito nel registro degli indagati con l'ipotesi di reato per omicidio volontario. Ma la pista delittuosa, nel contesto della relazione coniugale, è scemata a fronte di un carico probatorio inconsistente. "Le indagini sono state tardive e Caruso non è stato correttamente interrogato sui fatti", spiega alla nostra redazione la criminologa Ursula Franco, esperta in Statement Analyst, una tecnica di analisi del linguaggio che permette di ricostruire i fatti relativi a un caso giudiziario attraverso lo studio di ogni parola presente nelle dichiarazioni di sospettati, indagati e testimoni. Resta il dubbio e il "giallo" di una scomparsa misteriosa. Dov'è finita Samira? "Dato che Samira è scomparsa improvvisamente senza lasciare traccia, l’accusa dovrà dimostrare che sia stato il marito a essere l'autore di un presunto reato. E non sarà facile poiché non abbiamo una vittima, né una scena del crimine. In questi anni non vi è stata alcuna traccia della sua esistenza: un bancomat, una carta di credito, nulla. Scomparsa", spiega a ilGiornale.it il professor Simone Borile, antropologo della violenza, criminologo e docente di antropologia della violenza presso il corso di studio triennale in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale del Campus Ciels di Padova Brescia e Roma.

La scomparsa. Samira Sbiaa è scomparsa da Settimo Torinese il 7 aprile del 2002. Era approdata in Italia a seguito del matrimonio con Salvatore Caruso, una ex guardia giurata col doppio dei suoi anni, convertito all'Islam. Lui e Samira si erano conosciuti in Marocco tramite un parente della donna e, dopo le nozze in Africa, si erano stabiliti nell'hinterland torinese. Lei, appena 32enne, usciva pochissimo di casa e mai da sola. Era stato Caruso, nel 2002, pochi giorni dopo la sua scomparsa, a segnalare l'allontanamento denunciando la moglie per appropriazione indebita di denaro. A suo dire, Samira avrebbe abbandonato volontariamente il tetto coniugale portando via con sé via poco più di un milione di vecchie lire. Poi però, qualche mese dopo, aveva ritirato la denuncia e chiesto il divorzio. "Io sono stato bidonato. Sono io la vittima", rispondeva Caruso ai cronisti che lo incalzavano con le domande quando, tre anni fa, finì sotto la lente d'ingrandimento degli investigatori. Ma la sua versione dei fatti, spesso contraddittoria, non ha mai convinto fino in fondo nessuno.

Le indagini 17 anni dopo. Dopo 17 anni di silenzi, il giallo della scomparsa di Samira sembrava fosse giunto a un punto di svolta. La procura di Ivrea aveva deciso di aprire un fascicolo per omicidio volontario in cui risultava indagato Salvatore Caruso. Era stato il padre della 32enne a chiedere di indagare sull'ex guardia giurata tramite un'amica della figlia. "Samira raccontava alla sorella di essere stata segregata, di mangiare cibi scaduti – spiegò al tempo, Touria Bouksibi, dell'associazione 'Donne e bambini in difficoltà' – Per questo la famiglia si era rivolta a me. Vogliono sapere che fine abbia fatto la figlia". Così nella primavera del 2017 i carabinieri avevano eseguito un primo sopralluogo nell'appartamento coniugale, sequestrando 4 pistole, una carabina e diversi proiettili, tutti detenuti regolarmente. Agli inizi di marzo, i militari dell'arma, guidati dal capitano Luca Giacolla, assieme alla polizia locale, erano tornati nella palazzina a due piani al civico 12 di via Petrarca, a Settimo Torinese, nella speranza di trovare qualche traccia della donna. Dapprima avevano svuotato la fossa settica poi, avevano perlustrato il garage della proprietà: il sospetto era che Samira fosse stata uccisa e sepolta in casa. Alcuni vicini, anni prima, avevano raccontato di aver sentito dei rumori provenire dalle mura di una delle rimesse. E Caruso, accumulatore seriale, da tempo non le utilizzava più lasciando il suo Doblò sempre in cortile. Raggiungere i box, strapieni di oggetti accatastati l'uno sopra l'altro, non era stato facile. All'interno erano accatastate finestre rotte, secchi sporchi, televisori inutilizzabili, persino stracci e vecchi vestiti. Per non parlare dei sacchi della spazzatura maleodoranti, comodo rifugio per topi e altri animali.

Le ricerche coi cani molecolari. Il 21 marzo del 2017 la verità sembrava fosse a un passo. In casa di Caruso intervennero nuovamente i carabinieri, stavolta in compagnia dei cani molecolari del nucleo cinofilo dell'Arma di Bologna e degli esperti Sis (Sezione investigazioni scientifiche). Dopo circa 8 ore di attività, Aska e Simba, due pastori tedeschi in grado di segnalare la presenza di cadaveri in stato di decomposizione nel sottosuolo, fiutarono tracce sospette nel giardino e al piano terra dell'abitazione. A quel punto gli investigatori decisero di rivangare la superficie circostante la palazzina di via Petrarca nella speranza di ritrovare il corpo di Samira. Sul luogo arrivò anche una squadra di operai, muniti di picconi e martelli, un escavatore e un camion per lo spurgo delle acque nere. Dal cortile furono recuperate una scarpa da donna e una serie di "ossa piatte", verosimilmente uno sterno e una testa d'omero. I reperti furono analizzati dalla genetista Monica Omodei del laboratorio di analisi di Orbassano che accertò trattarsi di frammenti ossei di animali. Da quel momento le indagini subirono una battuta di arresto. Lo scorso 8 giugno il procuratore di Ivrea Giuseppe Ferrando, a capo dell'inchiesta, ha annunciato l'archiviazione del caso. "Ad oggi non abbiamo elementi per sostenere in giudizio che Samira sia stata uccisa dall'ex marito", ha riferito alla stampa. Eppure troppe cose ancora non tornano.

Le dichiarazioni di Caruso. Durante gli scavi nell'appartamento di via Petrarca, Caruso spiava i lavori degli uomini con le tute bianche da dietro le imposte chiuse. Quando gli dissero che era indagato per omicidio, si sfogò coi cronisti dicendo che erano "soltanto balle" che "Samira era fuggita" e lo aveva pure derubato. "Scappata dove, signor Caruso?" gli domandarono. E lui spiegò che era tornata in Marocco: "L'ho accompagnata io stesso a Torino a prendere il bus per tonare giù. Voleva raggiungere la famiglia per il Ramadan". "Guardate che sono io la vittima di questa storia", si difendeva. Poi, raccontò di averla cercata dopo qualche mese che era partita. Di aver chiamato i parenti e gli amici. Disse di averla denunciata per i "beni spariti" – a suo dire, circa 1 milione di vecchie lire - e per "abbandono del tetto coniugale". Le sue dichiarazioni furono spesso contraddittorie, a tratti confuse e approssimative. Mentiva? "Caruso non ha mai negato in modo credibile di aver ucciso sua moglie Samira e ha preso le distanze da lei - spiega la criminologa Ursula Franco - Si è riferito a lei con 'questa persona', gender neutral, un modo per prenderne le distanze. È poi inaspettato che il Caruso abbia detto 'Dovevo impiccarmi pure io. Dovevo impiccarmi?' e 'non si è fatta più viva' e 'non s’è fatta viva', viene da chiedersi a cosa stesse pensando. Servirebbe un interrogatorio ben condotto sui suoi movimenti del giorno della scomparsa di Samira".

Analogie con la vicenda di Saman Abbas. La storia di Samira Sbiaa suggerisce delle analogie - seppur marginali - con la scomparsa di Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane residente a Novellara di cui non si hanno più notizie dallo scorso 30 aprile. La procura di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo per omicidio premeditato e occultamento di cadavere in cui sono indagati il padre, la madre, lo zio e due cugini della giovane. "Ciò che è avvenuto a Saman è definito reato culturalmente orientato. Donne che vengono punite, e uccise poiché infrangono codici e riferimenti della cultura di origine - spiega il professor Simone Borile - Una vergogna cui solo la stessa famiglia, per evitare il propagarsi dell’onta ricevuta, può porvi rimedio. Sono reati commessi con chiara predeterminazione, in modalità collegiale, posti in essere dagli stessi membri della famiglia, obbligati culturalmente a ripristinare un disonore derivante da una condotta ritenuta immorale e inadeguata. Questi episodi di maltrattamenti e di violenze intradomestiche sono, ahimè, frequentissimi e provengono da un conflitto culturale scatenato tra aderenza ai valori della cultura di origine e apertura e verso patrimoni culturali nuovi, in cui non sempre però i processi di inclusione e di incorporazione valoriale hanno dato esiti positivi". Resta il mistero e il dramma di due giovani donne che potrebbero aver pagato a caro prezzo il sogno della libertà negata. "Scomparse".

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini.

Cosa è cambiato per le donne in Afghanistan dopo vent’anni di presenza militare della Nato e dell’Italia. La guerra, almeno nelle dichiarazioni, è stata combattuta anche in nome dei diritti femminili. Ma oggi resta il Paese più maschilista del mondo. E con il ritiro degli occidentali torna la paura, non solo dei talebani. Giulia Ferri su L'Espresso il 15 giugno 2021. Vent’anni dopo, la missione in Afghanistan è finita. Ma ora c’è da capire cosa resterà davvero di questa guerra. Il ritiro dei contingenti Nato sarà completato entro luglio 2021 e lo scorso 8 giugno anche la bandiera italiana è stata ammainata. Se in questi anni i militari italiani hanno contribuito alla costruzione di strade, ospedali e scuole, restano non pochi interrogativi sul raggiungimento degli obiettivi della missione, quelli più volte ripetuti da tutte le forze politiche in campo: portare stabilità, garantire i diritti umani e liberare le donne dalla condizione di sottomissione in cui versavano sotto il regime talebano. Sì perché, almeno a parole, la ventennale guerra d’Afghanistan è stata combattuta anche per le donne. «Sono intervenuti per cacciare i talebani e difendere i diritti delle donne. Dopo vent’anni vanno via con un accordo con i talebani e certamente le donne saranno abbandonate al loro destino». L’amaro bilancio lo traccia la principessa Soraya d’Afghanistan, nipote di re Amanullah e della regina Soraya, di cui orgogliosamente porta il nome, sovrani di Afghanistan dal 1919 al 1929, prima di dover lasciare il Paese e venire in esilio in Italia. «I miei nonni furono i primi a tentare di modernizzare il Paese e garantire i diritti delle donne», racconta, «emanando la prima Costituzione afghana, e di tutta l’Asia, puntando sull’istruzione e sull’associazionismo femminile». La regina Soraya è stata considerata una delle prime femministe, tanto influente che il Time Magazine le dedicò la sua copertina nel 1927. Ma quel progresso fu bloccato allora, come nei decenni a seguire. Perché la storia si ripete sempre, spiega la principessa Soraya, e questo vale ancor di più per le donne afghane, che più volte hanno acquisito e poi visto svanire le loro libertà nel corso del tempo. Oggi la nipote della regina porta avanti quel processo, sostenendo l’artigianato femminile afgano e le cooperative come “Azezana”, dove lavorano oltre 400 donne per produrre foulard di seta o “Kandahar Treasure”, che produce i pregiati ricami di Kandahar, e promuovendoli in Italia e in Europa. Ci tiene però a sottolineare che quei pochi diritti conquistati finora dalle donne in Afghanistan, si devono agli sforzi delle associazioni femminili locali. Proprio con operatrici afghane lavora Pangea, una delle associazioni italiane presenti sul territorio da più tempo. A Kabul dal 2003, porta avanti il programma “Jamila”, implementato grazie a più di trenta ragazze e donne afghane, che oggi lavorano in una decina di distretti per l’empowerment femminile. Nella capitale Pangea ha anche aperto la prima scuola per bambini e bambine sordi del Paese, che accoglie circa 600 ragazzi, con classi miste e una squadra di calcio femminile. Le ragazze che si diplomeranno quest’anno saranno le prime donne sorde afghane a poter accedere all’università. «La chiave è l’economia, fare in modo che le donne possano essere indipendenti e autonome, per questo i nostri interventi sono di microcredito e cerchiamo di fare in modo che tutte abbiano un conto corrente in banca» spiega Luca Lo Presti, presidente e fondatore dell’associazione. Il processo di auto emancipazione per migliaia di donne che Pangea ha assistito, è passato anche da una serie di altri servizi, come l’educazione ai diritti umani, igienico sanitaria, sessuale, o il supporto ginecologico. Ma passa anche dall’istruzione maschile. «Le ragazze che sono state nostre beneficiarie, quando sono diventate mamme, non hanno forzato le figlie al matrimonio, questo perché abbiamo iniziato con le donne ma abbiamo lavorato poi anche con i mariti e i figli maschi, altrimenti si sarebbe creato un percorso di consapevolezza sbilanciato e ulteriore conflitto tra i generi», sottolinea Lo Presti. «In questi anni abbiamo visto un cambiamento ma solo nelle città, e neanche in tutti i distretti: al centro di Kabul si vedono donne truccate o sedute al ristorante. Quello però non è lo specchio dell’Afghanistan: già nelle cittadine ai margini della capitale non c’è una donna senza velo», spiega ancora il presidente di Pangea. Che racconta poi come le donne afghane oggi siano più forti, ma anche che tra le operatrici a Kabul, ci sono diverse paure per il futuro. Il più comune è che con il ritiro degli occidentali scoppi una guerra civile e che il ritorno dei talebani possa cancellare i diritti acquisiti. Perché quei diritti sulla carta ci sono. Dal 2004 l’Afghanistan ha una Costituzione avanzata anche sul fronte dei diritti: sancisce l’uguaglianza tra i sessi, la parità di trattamento davanti alla legge, stabilisce una quota minima di deputate. Nel 2008 è stata approvata una legge nazionale contro la violenza e nel 2018 è stato rinnovato il codice penale con un’intera sezione dedicata alla protezione delle donne. È vietato il matrimonio tra minori di 16 anni, proibito quello forzato o compensatorio e i delitti d’onore, in cui gli uomini uccidono mogli, donne o sorelle, devono essere puniti come qualsiasi altro omicidio. Tutto cambia però se si sposta lo sguardo dalla forma alla sostanza. Lo dicono i dati e i rapporti internazionali. Il Gender Inequality Index 2020 del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, posiziona l’Afghanistan al 157esimo posto su 162 Paesi, con solo il 13,2% delle donne che ha accesso a un’educazione secondaria e solo il 21,6% che lavora o cerca lavoro. Ultimo addirittura su 156 Stati secondo le stime del Global Gender Gap Report 2021. E critico sull’effettiva applicazione della legge è anche il report di dicembre 2020 dell’Unama, la Missione Onu in Afghanistan, che ha segnalato come i delitti d’onore continuino, così come gli stupri, e che molte donne ricorrono all'auto-immolazione o al suicidio per fuggire alla violenza, ritenendo che il sistema giudiziario non offra loro reali garanzie. Ma lo conferma anche la cronaca quotidiana. Il video diffuso lo scorso aprile di una donna condannata da un tribunale talebano a 40 frustate in una zona rurale alle porte di Herat, così come l’uccisione di almeno 55 giovani ragazze lo scorso 8 maggio all’uscita di una scuola nella capitale, sono solo l’ultima parte di un racconto di violenza estrema nei confronti delle donne che purtroppo resta la norma. «L’Afghanistan è il Paese più maschilista del mondo». Ne è convinta la principessa Soraya, che spiega come il problema non siano solo i talebani, ma una cultura spesso ancora basata su codici tribali, fondati sul possesso e la difesa delle tre zeta: zan, zard e zamin, rispettivamente donna, oro e terra. C’è molta violenza, di cui le donne pagano il prezzo più alto, anche in termini di vite perse: tra il 2010 e il 2020 secondo l’Unama, sono state uccise 3.219 donne, 390 solo nel 2020. Secondo Soraya l’obiettivo è alimentare questa violenza negando l’accesso alla cultura: «Per questo si continua a far esplodere le scuole, a non volere l’istruzione femminile e molti uomini continuano ad avere maggior interesse a vendere o far sposare le proprie figlie piuttosto che mandarle a scuola». Al tempo stesso però è convinta che un miglioramento ci sia stato: «Qualcosa è cambiato se oggi oltre 3 milioni di bambine possono andare a scuola, se le donne possono essere giornaliste, speaker radiofoniche o televisive, parlamentari. Non credo invece che i talebani siano cambiati», conclude. Una delle cose che preoccupa maggiormente le donne afgane è proprio l’avanzata dei talebani, le cui dichiarazioni sulla volontà di continuare a garantire i diritti delle donne, ma “sulla base della sharia”, hanno suscitato più di qualche timore. Non è però l’unica preoccupazione, come spiega Emanuele Giordana, presidente dell’associazione “Afgana”, giornalista e scrittore che in Afganistan ha vissuto a lungo e che ha approfondito le dinamiche del Paese anche nel suo ultimo libro, “La grande illusione”. «C’è la possibilità che i talebani decidano di dare una spallata perché non riconoscono il governo di Kabul» spiega, «ma preoccupa anche la debolezza del governo, per di più delegittimato con l’esclusione dai colloqui di Doha, condotti tra americani e talebani. Così come la presenza di gruppi regionali guidati da vecchi signori della guerra, che stanno organizzando la “seconda resistenza” per contrastare i talebani, ma in realtà per occupare il vuoto di potere. E infine le schegge di Daesh, ciò che resta dell’ex stato islamico». Per la società civile e le donne afghane sono state spese troppe parole e pochi soldi. «Dopo 20 anni l’Italia ha speso in cooperazione civile circa 320 milioni di euro e in operazioni militari 8 miliardi e mezzo: l’impegno nei confronti della società è stato pari a meno del 5% di quello militare. Cosa può restare di quel misero 5%?» si domanda Giordana. Secondo l’esperto sarebbe stato meglio investire sull’economia reale del Paese, mentre i soldi sono stati usati prevalentemente per le armi e proprio la presenza di troppe armi oggi è uno dei problemi principali di un Paese in guerra da 40 anni. Sul futuro dell’Afghanistan c’è incertezza, e la direttiva dell’ambasciata italiana, che consiglia anche ai civili di lasciare il Paese, non è certo un segnale positivo. «Ciò che servirebbe è un progetto politico internazionale. Ma per ora non ci sono notizie su questo fronte», afferma ancora Giordana. Per questo con l’Atlante delle guerre sta organizzando per l’autunno una conferenza a Trento, con associazioni, esperti e diplomatici, per discutere su cosa si può e si vuole fare, se non altro a livello italiano: «Siamo un Paese piccolo ma che può giocare un ruolo importante», e conclude: «I movimenti femminili in Afghanistan oggi sono molto forti, si tratta di vedere se continueremo a sostenerli oppure no».

Per Erdogan un matrimonio funziona se picchi la moglie: Turchia, altro colpo alla laicità. Libero Quotidiano il 22 marzo 2021. Erdogan assesta un nuovo colpetto allo Stato laico trascinando la Turchia fuori della Convenzione europea contro la violenza sulle donne. E dire che il documento in questione era stato sottoscritto dai Paesi appartenenti al Consiglio d'Europa proprio a Istanbul nel 2011. La mossa del Sultano è, come detto, l'ennesima di una lunga serie; soltanto il giorno prima la magistratura turca aveva iniziato a vagliare la richiesta governativa di bandire il partito curdo (moderato) Hdp. L'uscita dalla Convenzione di Istanbul è un favore agli amici di lunga data del presidente e leader islamista, cioè i religiosi sunniti, che Recep Tayyip sta cercando con successo di tenere alleati alla destra nazionalista.  Insomma: un colpo al curdo e uno alla laicità. Dei 47 Paesi del Consiglio d'Europa (organismo non Ue che vigila sul rispetto dei diritti dell'uomo) 34 avevano firmato e ratificato il documento. Ora restano 33 con la Turchia che raggiunge la Russia fra quelli totalmente contrari. Gli altri (tra cui Armenia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Moldavia, Slovacchia, Cechia, Regno Unito, Ucraina) hanno firmato ma poi i rispettivi parlamenti non hanno ratificato. Gli ambienti religiosi turchi non hanno mai digerito in particolare l'articolo 37 e il 42, il primo contro il matrimonio forzato, il secondo sul delitto d'onore, entrambi diffusi nelle aree arrretrate dell'Anatolia. Ma tutti i numeri sulla violenza contro le donne in Turchia sono drammatici. Secondo i dati della piattaforma contro i femminicidi (Kadin Cinayetlerini durduracagiz platformu), nel 2021 sono già state uccise 74 donne per mano di uomini, dopo che nel 2020 erano stati contati almeno 300 casi e 171 fra morti e suicidi sospetti. Nel 2019 e nel 2018 in Turchia erano stati contati rispettivamente 474 e 440 femminicidi. Tra i casi ritenuti sospetti non ci sono solo le morti avvenute in circostanze ancora da chiarire ma anche i suicidi, a cui molte donne si trovano costrette dal clima familiare di ripudio e odio che può scattare per una relazione che la famiglia non approva, o per aver rifiutato matrimoni combinati. La magistratura, ancora in parte laica, ha cercato di porre un freno, con 5.748 condanne a pene detentive inflitte lo scorso anno. Un numero minimo, se si considera che, in base ai dati forniti dal ministero degli Interni, nel 2020 ben 271.927 uomini sono stati soggetti a restrizioni imposte da autorità giudiziaria, 6.050 uomini sono stati condannati per violenza domestica, 99 donne sono state costrette a cambiare identità e residenza e 409 hanno dovuto abbandonare il luogo di lavoro. Migliaia di donne sono scese in piazza ieri a Istanbul per protestare contro la decisione del governo. Con loro anche attivisti gay e lesbiche. Il motivo della presenza di questi ultimi è che la Convenzione non si occupa delle donne in senso biologico ma in base alla "teoria del genere". Nell'art.3 (Definizioni), al comma c, si specifica che l'identità sessuale è «socialmente costruita». La formulazione è tuttora contestata anche da altri Paesi, in particolare dalla Polonia. Discussi sono anche gli articoli 60 e 61 che impegnano i firmatari a concedere permessi di soggiorno alle donne migranti vittime di abusi.

Francesco Olivo per “La Stampa” l'8 marzo 2021. Con il volto coperto dalle mascherine gli svizzeri hanno deciso che non si può andar in giro con la faccia occultata. Il referendum di ieri non aveva nulla a che fare con le misure anti Covid, l'obiettivo era piuttosto il cosiddetto «estremismo islamico». Da oggi niente passamontagna o la bandana, ma nemmeno il velo integrale. Un modo per contrastare la criminalità, secondo le associazioni che hanno proposto il quesito, ma anche e soprattutto un modo per scatenare un dibattito identitario. Il referendum proposto da partiti e organizzazioni conservatrici è stato letto (e raccontato) come un attacco «all'Islam radicale». Il quesito ufficiale, «sei favorevole al divieto delle coperture totali del viso?», non menzionava esplicitamente burqa o niqab. Ma in campagna elettorale si è capito dove andava a parare il dibattito. Da una parte i difensori del multiculturalismo, a sostegno del No, dall'altra i proponenti che invitavano a votare Sì, in nome non solo della sicurezza, ma soprattutto a difesa «dell'uguaglianza e delle libertà delle donne sottomesse dall'estremismo», tanto che la legge proposta è stata ribattezzata «anti burqa» e anche alcune associazioni femministe si sono aggiunte ai comitati per il Sì. Se i termini della questione non fossero stati abbastanza espliciti ci hanno pensato i manifesti elettorale a chiarirli: una donna coperte integralmente con accanto lo slogan: «Fermare l'estremismo», islamico, va da sé. Il governo federale si era schierato per il No, anche perché si tratta di situazioni marginali. È rarissimo, infatti, in Svizzera incontrare donne che coprono integralmente il volto e spaccare il Paese in un dibattito identitario per poche centinaia di persone è sembrato a molti una mossa propagandistica della destra, visto che, sempre ieri, si votava per le elezioni amministrative. Alcuni cantoni, come il Ticino, già dal 2016 aveva adottato una misura simile e in cinque anni le forze dell'ordine sono dovute intervenire assai di rado, in meno di 30 casi, secondo i media locali. Ma il dibattito è andato al di là dei casi concreti e ha investito il modello multiculturale, con argomenti, pro e contro, già ascoltati in altri Paesi, anche confinanti, come l'Austria e la Francia, dove in questi mesi il presidente Emmanuel Macron ha lanciato la sua battaglia contro quello che ha definito il «separatismo islamico». Misure simili sono in vigore anche in Belgio e Bulgaria. Il divieto prevede che nessuno possa coprirsi il viso completamente in pubblico, sia nei negozi che all'aperto. Sono previste eccezioni per i luoghi di culto e ovviamente nell'ambito privato. Il bando prevede anche un'eccezione anche per «il carnevale». Visti i tempi, il legislatore ha dovuto subito chiarire che le mascherine anti virus non sono incluse nel divieto.

Asia centrale, gli imam-influencer contro l’islam radicale. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 3 febbraio 2021. L’Asia centrale postsovietica non è immune al terrorismo islamista e ai processi di radicalizzazione religiosa, in particolare tra i giovani, due fenomeni contro i quali sta combattendo tenacemente sin dagli anni ’90. La risposta degli –stan è stata ovunque basata su costruzione di macro-strutture di sorveglianza, implementazione di legislazioni antiterrorismo draconiane e imposizione di gravi restrizioni alla libertà di culto; un modus operandi che sta venendo progressivamente superato. Negli anni recenti, infatti, le classi dirigenti hanno allentato la morsa sull’islam, anche in ragione della re-islamizzazione dal basso delle società governate, optando per una rimodulazione della strategia: eterodirezione in luogo della mera repressione. Eterodirezione implica controllo di moschee, scuole coraniche, associazioni ed enti nongovernativi, ma anche addestramento dei predicatori e ruolo-guida nella formulazione dei valori da inoculare nei fedeli.

Gli imam-influencer. Se l’islam radicale è stato in grado di attecchire nella regione, in alcuni –stan più che in altri, ciò è stato possibile anche perché le campagne di tolleranza zero hanno commesso il fatale errore di non distinguere tra islam-religione e islam-ideologia, perseguitando tanto i fedeli quanto gli estremisti; fatto, questo, che ha aiutato indirettamente la causa degli ultimi. Oggi, contrariamente al passato, l’islam ha cessato di essere malvisto negli –stan in quanto è tornato al centro della vita pubblica e del discorso politico, ragion per cui le dirigenze, dopo aver digerito e accettato tale realtà, hanno trovato il modo di approfittare del mutato scenario. L’islam, lungi dall’essere considerato quell’insidia mortifera all’unità e alla sicurezza nazionale, è stato trasformato nel collante fondamentale a garanzia della concordia civium, ovvero della pace sociale, in un motivo conduttore della politica estera e in un instrumentum regni. Negli anni recenti, infatti, la morsa sull’islam è stata significativamente allentata, specialmente in Kazakistan e in Uzbekistan, perché alla repressione tout court sta venendo preferita l’eterodirezione dall’alto. Eterodirezione non significa soltanto controllo di moschee, scuole coraniche, associazioni ed enti nongovernativi, ma anche addestramento dei predicatori e ruolo-guida nella formulazione dei valori da inoculare nei fedeli. In quest’ultimo ambito si inquadra un’iniziativa dell’Institute for War and Peace Reporting (IWPR) lanciata nel 2019 che, a distanza di due anni, si è dimostrata un successo. L’IWPR, un’organizzazione nongovernativa con sede a Londra, ha raccolto l’appello delle autorità di Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan ed iniziato a formare “una nuova generazione di influenzatori sui media sociali per diffondere la tolleranza e contrastare l’estremismo violento”. Negli ultimi due anni la ong ha formato più di quattrocento imam-influencer nei tre Paesi, ovvero predicatori introdotti all’utilizzo delle nuove piattaforme di comunicazione, come i social network. Gli ideologi del terrorismo islamista hanno compreso il potenziale di internet prima di chiunque altro, in anticipo su grandi corporazioni, stampa e politici, trasferendo le attività di reclutamento e proselitismo in rete sin dalla fine degli anni ’90. L’islam-istituzione, al contrario, ha continuato a scommettere sul potere della realtà fisica. Nel nuovo secolo, però, le dirette hanno sostituito i comizi e i blog hanno preso il posto delle piazze; perciò gli imam che desiderano adattarsi alla nuova epoca, in luogo di esserne travolti, devono possedere competenze e conoscenze in materia di influenzamento a mezzo di piattaforme sociale. Un caso esemplare di imam-influenzatore formato con successo dall’IWPR è Yusufhon Zakaria, un predicatore operante in uno dei teatri più caldi dell’Asia centrale: la valle di Fergana; uno dei più noti bacini di reclutamento eurasiatici dell’internazionale jihadista. Con il supporto degli esperti della ong, Zakaria è riuscito a diventare uno degli imam più popolari e social del Kirghizistan, aprendo dei canali su Instagram e YouTube che prima gli hanno permesso di avvicinare i giovani e poi di vincere la diffidenza di anziani e conservatori. I numeri di Zakaria sono la conferma che il programma dell’IWPR funziona: un seguito di 80mila persone su Instagram, video su Youtube che raggiungono e superano facilmente il milione di visualizzazioni, contenuti che superano i confini della valle di Fergana e dello stesso Kirghizistan, registrando un crescente riscontro di pubblico in Uzbekistan, e comunità di fedeli che mostra una crescente propensione ad accettare, ad esempio, un ruolo maggiore per le donne nella società.

Come avviene la formazione? Agli aspiranti imam-influenzatori viene insegnato come capitalizzare i profili pubblici su Facebook e Instagram e i canali su Youtube e Telegram, ovvero come realizzare dei contenuti scritti e video in grado di catturare l’attenzione del pubblico, quali strategie comunicative adottare a seconda della fascia desiderata e come riconoscere e combattere la disinformazione. L’ultimo punto è particolarmente importante: le organizzazioni terroristiche si nutrono della circolazione di bufale per promuovere le proprie agende e attrarre seguaci; perciò è tassativo che gli imam-influenzatori smascherino le notizie false capaci di sviare e radicalizzare le masse. Il successo del programma, palesato dal caso Zakaria, ha giocato un ruolo determinante nel convincere le autorità pubbliche uzbeke a richiedere formalmente i servizi dell’IWPR, che, prossimamente, potrebbe iniziare a formare imam-influenzatori anche a Tashkent.

Ilaria Ravarino per "il Messaggero" il 28 gennaio 2021. A novembre, dopo aver registrato un episodio di Tu non sai chi sono io il programma di Fremantle dedicato ai millennials, su Rai Play con sei nuove puntate Tasnim Ali sognava una carriera nella moda, e la sua preoccupazione più grande era che il padre l' Imam egiziano Sami Salem, a Roma dal 1994 le perdonasse la mancanza di impegno nella facoltà di scienze politiche. Oggi, tre mesi dopo l' esordio in tv, la sua vita è cambiata. A 21 anni è la prima musulmana col velo inviata del programma Ogni Mattina su Tv8, i suoi follower su Tik Tok sono 260.000, e i grandi marchi fanno a gara per accaparrarsela. Dai vestiti ai trucchi, dai gelati alle piattaforme (Amazon), tutti vogliono un tag sui social dell' influencer che spiega l' islam posando come una modella, intonando il velo ai filtri di Instagram e abbattendo con accento romano e piglio ironico ogni stereotipo sulla sua religione.

LE AMBIZIONI. «Mi piacerebbe ancora avere una carriera nella moda, perché per noi donne velate è un settore importante: le maggiori critiche le riceviamo per come ci vestiamo. Ora che sono in tv tutti vedranno che non dobbiamo per forza coprirci di nero. Si può essere modeste e stilose. Vestirmi per la trasmissione è un atto politico. E sinceramente di giornaliste col velo, nel nostro paese, non ne vedo molte». Essere influencer e voler sfondare nella moda, se si è di religione musulmana, in Italia è particolarmente complicato. Perché, oltre a dover lottare contro stereotipi e preconcetti duri a morire, a mancare sono proprio gli ingredienti principali della professione: i vestiti. «In Italia c' è un solo negozio per donne musulmane, a Bologna. O uso i veli di mia madre, o li compro su siti specifici, perché su Amazon non ci sono. Il vestiario si adatta: camice a maniche lunghe d' estate, d' inverno felpe come fanno tutte. Mi arrangio». La sua quotidianità è fatta di studio (poco) e certosino lavoro di comunicazione sui social: Instagram, che bazzica da quando aveva 12 anni, e Tik Tok, aperto alla fine dello scorso febbraio, nella noia del lockdown: «Ho avuto subito fortuna: non pensavo che postando video sulla religione si interessasse qualcuno». Nei suoi video (mai più di due al giorno) Tasnim racconta la sua vita quotidiana, balla, ride, sfida i suoi follower a colpi di challenge come qualsiasi millennial. In più, però, lei spiega, smonta, argomenta con pazienza: perché indossi il velo («Dicono che vestite col velo sembriamo coperte da una tenda»), quali siano i preconcetti più diffusi («Dire attentato islamico per attentato terroristico. L' Islam non è il terrorismo»), persino cosa significhi essere figlia di un Imam. «Una volta hanno offeso mio padre, dicendo che un Imam guadagna senza lavorare. Ho fatto rispondere a lui: è stato il suo primo video su Tik Tok e ora, quando posta, rimorchia più di me». Una strategia che sembrerebbe dare i suoi frutti: «Un po' funziona. Per esempio i pubblicitari, anche in Italia, cominciano a chiedere donne musulmane. L' altro giorno mi è arrivato a casa, in regalo, un velo griffato di Tommy Hilfiger. Sono piccoli segnali. Ma se vai in giro, nei negozi, le commesse velate semplicemente non esistono. Mi batterò perché anche in Italia ci siano lavoratrici con il velo».

LE SORELLE. Le sue sorelle, due maggiorenni e una minorenne, lavorano nell' agenzia di viaggi del padre (specializzata nei pellegrinaggi alla Mecca) oppure studiano. E tutte hanno mantenuto un rapporto speciale con l' Egitto, terra da cui provengono i loro genitori: «Mamma e papà sono di Mansura, io sono nata ad Arezzo. Ma mi ritengo metà egiziana e metà romana. Ogni estate andiamo a Porto Said. Ci tengo alle mie radici». Con i suoi follower è libera di parlare di tutto: «Papà non dice nulla, e con il suo silenzio è come se mi stesse indicando che posso fare quello che voglio, purché io prenda una laurea». Solo un argomento, ancora, resta tabù: «Giulio Regeni? Nessuno dei miei follower mi ha mai chiesto un parere. Le uniche domande che mi fanno riguardano la religione. Di politica non si è mai parlato».

Tutti i complici del caso Saman. Andrea Indini il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Sinistra, buonisti e femministe in silenzio. Perché non denunciano i crimini dell'integralismo islamico? Se non lo fanno, non riusciremo mai a fermarli e loro ne saranno complici. Che fine ha fatto la sinistra progressista? E i radical chic buonisti dove sono andati a finire? E che dire delle femministe e delle paladine del #metoo? Tutti muti. Nemmeno davanti alle trascrizioni degli audio, in cui Saman Abbas svela al fidanzato di aver sentito la madre, Nazia Shaheen, parlare di omicidio come "unica soluzione" per punirla e purificarla, hanno rotto quel silenzio assordante. Nemmeno davanti ai frame del video delle telecamere di sicurezza che immortalano lo zio e i cugini mentre lo scorso 29 aprile camminano verso i campi con in mano le pale con cui hanno scavato la buca per sotterrare il cadavere della 18enne, hanno rotto quel silenzio colpevole. Nemmeno davanti alla drammatica testimonianza del fratello minore che ha raccontato come lo zio Danish Hasnain l'ha barbaramente ammazzata e, una volta tornato dai genitori della giovane, li abbia rassicurati spiegando che era "tutto sistemato", hanno rotto quel silenzio complice. Da giorni gli inquirenti non mollano il caso per un secondo. La speranza di ritrovare viva la ragazza pachistana, che sognava un futuro libero con il suo fidanzato, si è sgretolata quasi subito. Le prove hanno presto portato a credere che la famiglia Abbas abbia tolto di mezzo con la violenza quella giovane ribelle. Il cadavere, però, non è stato ancora trovato. E così, dopo oltre un mese, si va avanti a cercarlo senza sosta. A Novellara, nella Bassa Reggiana, i carabinieri scandagliano metro per metro la zona di campagna che si perde attorno al casolare dove abitava la giovane. Poco lontano c'è l'azienda agricola dove lavorava il padre. Nelle prossime ore dovranno passare alla tecnologia dell'elettromagnetometro per ottenere una scansione più approfondita del sottosuolo. Nel frattempo la Procura di Reggio Emilia cerca di stringere sulla famiglia Abbas che avrebbe giustiziato Saman a sangue freddo. La sua "colpa"? Essersi opposta al matrimonio che i genitori le avevano combinato in Pakistan. Perché su questa drammatica vicenda, sin dall'inizio, è calato un disarmante velo di omertà da parte della sinistra? Solo i leader di centrodestra sono scesi in campo non solo per chiedere agli inquirenti di far luce sul triste destino di Saman ma anche per accendere un faro sul radicalismo islamico che, nell'indifferenza generale, continua a prolificare all'interno delle comunità musulmane in Italia. La settimana scorsa, in una coraggiosa intervista alla Nazione, Luca Ricolfi spiegava che le ragioni di questo silenzio (colpevole) vanno ricercate nell'"occhio di riguardo" che i progressisti continuano a riservare all'islam. "La sinistra teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". Prima ancora che le indagini della Procura di Reggio Emilia svelassero tutti i contorni del presunto omicidio, il sociologo preconizzava che, "anche se vi fosse la certezza che è stata uccisa dai familiari, un velo pietoso verrebbe steso sulla vicenda" in nome di un politicamente corretto meschino che spinge la sinistra a garantire "una protezione speciale" a minoranze come i musulmani. Oggi abbiamo avuto la prova di quanto siano vere queste parole. Dal quartier generale del Partito democratico si sono alzate pochissime dichiarazioni di condanna. E soltanto Emanuele Fiano ha avuto il "coraggio" di parlare di islam. Tutti gli altri se ne sono tenuti alla larga. E se questa è già una colpa grave, ancora più grave è quella commessa da chi in questi giorni continua a voltare il proprio sguardo da un'altra parte per non vedere il male che c'è in alcune comunità. Non bisogna nascondersi dietro alle parole. Né bisogna averne paura. I matrimoni combinati e le violenze sulle donne sono alcuni tra i tanti frutti marci dell'integralismo islamico. È importante denunciarlo per fare in modo che non prolifichi. Chi per biechi calcoli politici se ne chiama fuori è complice e colpevole.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore). Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Elisa Calessi per “Libero Quotidiano” il 9 giugno 2021. «La donna, in Pakistan, esiste solo in quanto madre, moglie, figlia. Non esiste in quanto donna». Non ha diritti, né può scegliere il proprio destino lavorativo o affettivo. Così come «non c'è la cultura dell'individuo». Sostituita da quella del «gruppo, della famiglia, dell'onore». Ahmad Ejaz, giornalista e mediatore interculturale, nato in Pakistan, vive in Italia da trent'anni. E da trent'anni si batte per l'integrazione. Eppure non fa sconti su quanto accaduto a Saman Abbas, la ragazza pakistana probabilmente uccisa dallo zio perché non voleva sposare il cugino che le era stato assegnato. Un caso che, per Ahmad, non è nuovo. «In questi anni mi sono occupato di centinaia di vicende simili. Tante sono morte».

Cosa pensa del matrimonio combinato?

«Se è forzato, è una pratica che non rispetta i diritti umani e nemmeno la Costituzione italiana. E va combattuta. È un gravissimo errore non fare nulla, pensare che sia una diversità culturale da rispettare». 

Molti italiani sono timidi nel condannarla perché temono di passare per razzisti.

«Io ho fondato una associazione che si chiama "Le nuove diversità". Le differenze fanno arricchire. Anche la lingua italiana sarebbe incompleta senza l'apporto dell'arabo. Ma dobbiamo sempre condannare, noi immigrati per primi, le pratiche che non rispettano i diritti umani e la Costituzione: la poligamia, l'infibulazione, i matrimoni combinati forzati. Pratiche crudeli e sbagliate. Molte volte le persone che le praticano non sanno nemmeno che è un reato in Italia». 

Come non lo sanno? Ma per avere un permesso di soggiorno non si è obbligati a conoscere almeno le leggi italiane?

«Quando ottieni il permesso di soggiorno, ti viene data una carta in cui sono scritte le leggi, i diritti che valgono in Italia, ma spesso un immigrato non sa nemmeno l'italiano... È vero che quando uno fa la carta di soggiorno deve fare un esame di lingua italiana, ma non basta. Le comunità spesso si chiudono in se stesse, si auto-ghettizzano e fanno subentrare la cultura del Paese di origine».

Le seconde generazioni, però, si ribellano. Perché?

«Perché vanno nelle scuole italiane e quindi si costruiscono una identità culturale individuale che i loro genitori non hanno». 

Perché dice "individuale"?

«L'identità culturale pakistana è centrata sul gruppo, non sull'individuo. Quando un bengalese viene in Italia e apre un negozio, poi chiama la mamma e le chiede di trovargli una moglie. Torna in patria, si sposa e ritorna in Italia. Anche quello che guadagna lo manda in Bangladesh e la mamma lo divide tra i dieci fratelli. È un'identità di gruppo. Si pensa e si vive in gruppo per tutta la vita. Questo è il fulcro del matrimonio combinato».

Quindi non è un comando del Corano?

«No, non è legato alla religione. È una tradizione del Pakistan». 

Però ai figli non sta bene.

«Perché la seconda generazione impara l'importanza dell'individuo. Non accetta che il gruppo scelga al suo posto». 

La vicenda di Saman è un caso isolato o diffuso?

«Sono tantissimi i casi come questo. E diventeranno ancora di più, perché ogni anno i pakistani fanno 7mila figli, se poi aggiungi indiani e bengalesi siamo a mezzo milione. Tante ragazze ci chiedono aiuto».

Cercano aiuto, ma non sempre lo trovano. Saman si era rivolta ai servizi sociali. Cosa non ha funzionato?

«È molto difficile per una ragazza lasciare la famiglia perché, una volta entrate nei centri antiviolenza, sentono la nostalgia di casa. Io credo vada messa in discussione la formazione degli assistenti sociali, degli psicologi, che devono saper aiutare queste ragazze, una volta che si rivolgono a loro». 

A volte c'è timidezza a intervenire, in nome del relativismo culturale.

«Se una cultura non rispetta i diritti umani, bisogna intervenire. Saman e tantissime ragazze morte come lei sognavano di diventare italiane. Il fidanzato, peraltro, non era italiano, ma pakistano. Eppure non bastava alla famiglia. Perché doveva sposarsi un cugino».

Nella cultura pakistana che idea c'è della donna?

«In Pakistan la donna ha tre ruoli: moglie, figlia, madre. Non esiste in quanto donna. Piano piano le ragazze stanno cercando di acquisire i diritti che esistono qui, ma c'è un lungo cammino da fare». 

Una donna può decidere di se stessa?

«Il concetto di autodeterminazione è visto malissimo. Il padre lavora, la madre guarda i figli, la sorella più grande deve fare le veci della madre, e il fratello più grande quelle del padre. La famiglia è molto gerarchica». 

La donna in Pakistan è libera?

«No, non c'è la libertà della donna. Anche nelle eredità, maschi e femmine non sono uguali. Se il padre muore, il fratello prende il 75% dell'eredità. Il resto va alle sorelle, non importa quante sono».

Come si può aiutarle?

«Ci vogliono progetti mirati. Quando si parla di immigrato, si pensa subito a un maschio, giovane. Invece il 52% sono donne». 

Di fronte al rifiuto di Saman, lo zio l'ha uccisa. E i genitori non si sono ribellati. C'è anche un problema culturale di violenza?

«È il frutto della cultura del villaggio, che non è la cultura del Pakistan o dell'Islam. Queste persone hanno ucciso Saman perché per loro l'onore della famiglia veniva prima. Non la considerano violenza, ma rispetto dell'onore. A uccidere le nostre ragazze sono sempre padri, fratelli e cognati, mentre nei femminicidi italiani sono mariti, ex mariti e amanti». 

Perché?

«Perché per voi è più importante la coppia, quindi interviene la gelosia. Mentre nel nostro caso conta la famiglia, l'onore».

Cosa si può fare?

«Ci vuole un grande lavoro. Le moschee devono diventare moschee vere e non associazioni culturali. E poi fare integrazione vera. Oggi la società italiana è multiculturale, ma non è interculturale». 

Sono gli italiani a ghettizzare gli immigrati o sono gli immigrati che si autoghettizzano?

«Entrambe le cose. La società italiana punta a ghettizzare e le comunità non si fidano degli italiani». 

Cosa ne pensa del silenzio di tante femministe italiane su Saman?

«Il femminismo deve portare con sé anche le donne immigrate: sono tre milioni. Vengono da culture diverse, hanno subìto il patriarcato, ma sono nuove cittadine. E vanno integrate».

Dritto e Rovescio, l'Islam e le donne in Italia: "Bisogna picchiarle con bastoni come questo". Libero Quotidiano il 04 giugno 2021. A Dritto e Rovescio programma condotto da Paolo Del Debbio e in onda su Rete 4 si parla di Islam. In particolare, in relazione alla scomparsa della ragazza 18enne Saman Abbas, sparita a Reggio Emilia dopo essersi opposta a un matrimonio combinato deciso dai genitori. Durante la trasmissione, viene mandato in onda un servizio che riporta le testimonianze di alcuni musulmani. "La donna deve essere picchiata con un bastoncino come questo" si sente dire un uomo subito all'inizio del servizio, mostrando al contempo un piccolo bacco alle telecamere. Segue un altro musulmano che spiega che la donna possa essere picchiata solo con determinati bastoni. "Secondo me non la dovresti picchiare e basta", interviene l'inviato. "La donna fa tanti sbagli con il marito, quando ti arriva un pugno è come se fosse un cartellino giallo, così capisce di essere arrivata al limite" afferma un altro uomo ancora. "Se i genitori dicono che devi sposare un uomo, tu devi sposare quello?" chiede la reporter a un commesso musulmano di un negozio di alimentari. "Sì. I genitori vanno sempre rispettati" risponde lui senza fronzoli. "E quindi la donna è sottomessa all'uomo?" chiede l'inviata. "Sì, giusto" replica il commesso, aggiungendo che la "donna deve essere più piccola. Se è più piccola ti rispetta sempre". La giornalista spiega poi la triste vicenda di Saman Abbas a un altro intervistato, raccontando di come Saman abbia denunciato i propri genitori, per evitare di sposare l'uomo che loro avevano per lei designato come marito. "Questo è un peccato" risponde l'interlocutore "Questo non va bene".  Le affermazioni dell'ultimo uomo intervistato fanno venire i brividi: "La donna deve stare in casa e pregare con il bambino. Quando ha bisogno di uscire, deve farlo con il marito. Non deve mai uscire sola. Libertà sì, però senza uscire" afferma l'uomo dal volto oscurato. "Lei ha il coraggio di dire che l'Islam non c'entra niente?" prende subito la parola Giuseppe Cruciani una volta terminato il servizio. "Noi naturalmente dobbiamo combattere l'ignoranza" risponde in leggera difficoltà Sami Salem, Imam della Moschea della Magliana a Roma. "C'è una differenza se noi siamo contro i casi individuali, oppure se siamo contro l'Islam" dice Salem. "L'Islam è un metodo, un messaggio di dio. Come il Corano è il libro dei musulmani" conclude l'Imam di Roma. 

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2021. Saman ha lasciato un fidanzato che ha condiviso con lei via chat gli ultimi momenti di terrore. Ma quante sono le altre Saman, vittime di violenza perché non volevano abbassare la testa? La polizia ne ha contate 22 negli ultimi tre anni, di nazionalità diverse, ma con storie drammaticamente simili. E sono solo la punta di un iceberg.

Zayn (i nomi sono di fantasia), 22 anni, il 27 agosto del 2019 non ce la fa più e alla squadra mobile di Brescia racconta violenze subite, assieme alle sorelle di 19, 14 e 13 anni dal padre, dalla madre e dal fratello maggiore, che la volevano costringere a sposare un pachistano a lei sconosciuto. Denunciati per induzione al matrimonio, ai genitori è stata sospesa la responsabilità genitoriale e vietato di avvicinarle. Le ragazze sono state portate in una località protetta. Incubo finito.

Il 15 settembre 2020 è una madre, Awais, 36 anni nata in Pakistan, a ribellarsi al marito per le violenze nei confronti suoi e delle figlie di 15 e 8 anni. A lei vietava di lavorare, a loro di andare a scuola e frequentare amici. Le violenze erano scattate quando per la più grande aveva individuato un marito in Pakistan. Lei l' aveva difesa. E giù botte e abusi sessuali anche in presenza delle ragazze. L' uomo è stato denunciato per maltrattamenti, violenza sessuale, lesioni personali, minaccia e costrizione o induzione al matrimonio.

Cornelia viveva in un campo nomadi a Roma, il 27 gennaio ha denunciato il padre. Era stata portata in Romania più volte, per essere offerta in sposa a un connazionale. Lei insisteva a dire no. Erano percosse e insulti da parte anche di altri familiari. Aleksandrina e Branislava, sorelle di 20 e 17 anni, a Brescia il 5 aprile 2021 si sono rivolte alla Mobile contro i genitori croati che volevano costringerle con la forza alle nozze.

Shaila stava per essere rapita. L' 1 giugno 2021 una pattuglia di polizia di Reggio Emilia l' ha salvata con un blitz, intervenendo a casa di una donna indiana dove, di lì a poco, sarebbe dovuto arrivare il fratello che l'avrebbe portata via contro la sua volontà. Era già stato deciso tutto con un accordo tra due famiglie. In India l' aspettava il futuro sposo, che aveva anche deciso la data del matrimonio. Ora vive in una struttura protetta. Non fossero intervenuti gli agenti sarebbe stata portata via come un pacco.

Sono solo alcune delle agghiaccianti storie emerse dalle acque melmose di complicità che coprono le violenze familiari - anche con le mutilazioni dei genitali - subite dalle bambine che, nate o cresciute qui, hanno la sola colpa di volersi sentire, come Saman, «italian girls».

Secondo il rapporto sul Codice rosso, tra il 2019 e il 2020 sono stati 11 i casi di denuncia per costrizione o induzione al matrimonio. Reati che si accompagnano spesso allo sfregio del volto subito da chi si ribella: 65 casi. E purtroppo anche alla sfida delle prescrizioni fissate dalla legge a tutela delle donne. Sono state 1.741 le violazioni dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla persona offesa. Reati che fanno scattare campanelli di allarme perché spesso precedono la decisione definitiva: uccidere chi non si piega.

C'è chi è più fortunata e sfugge a un copione di sangue. Zenab Muhammad, 29 anni, nata a Napoli da padre pachistano e madre italiana, ha rifiutato il suo matrimonio combinato. E all' Adnkronos ha spiegato che «in Pakistan per le famiglie, povere o benestanti, combinare i matrimoni è normale. Quello che non è normale è uccidere una figlia perché lo rifiuta, non siamo in una fattoria dove occorre arrivare all' accoppiamento». Sua cugina ha detto sì a un veterinario che l'aveva chiesta in sposa. Lui la picchiava. Le hanno concesso di separarsi. Lei stessa ha avuto proposte: «Per fortuna mio padre ha detto no, deve decidere lei». Secondo il dossier 2020 di Terre des Hommes «Indifesa» la pratica dei matrimoni forzati produce ogni anno nel mondo milioni di spose bambine, nel 2018 ne sono state calcolate 70,9 milioni. E il Covid ha aggravato la situazione. La chiusura delle scuole in India e lo stop ai pasti scolastici per 320 milioni di famiglie ha significato la necessità di sfamare le figlie. Cercare loro un marito continuerà a sembrare a tanti l'opzione migliore.

Giordano Stabile per "la Stampa" il 9 giugno 2021. Con il piercing al labbro inferiore, i capelli schiariti e gli occhi color malva non è un esempio di donna tradizionale yemenita. Per lo meno di come la vorrebbero i conservatori islamici nella nazione più povera del Medio Oriente, da sei anni massacrata da una guerra civile che ha fatto centomila morti. Intisar Al-Hammadi, padre yemenita, madre etiope, vent' anni e il sogno di diventare una modella internazionale, è finita da quattro mesi in una macchina infernale. Per i ribelli sciiti Houthi che dal 2015 governano la capitale Sanaa e il Nord del Paese, Al-Hammadi «ha violato il codice di abbigliamento tradizionale» e dev' essere punita. Lo scorso 20 febbraio è stata arrestata, prelevata da un gruppo di militanti per strada. «Senza un mandato e senza un'accusa precisa», come ha denunciato il suo avvocato, Khaled Mohammed al-Kamal. Intisar ha cominciato uno sciopero della fame, una campagna sui social ha cercato di attirare l'attenzione internazionale. Finora senza risultati. Irritati dall' intensa copertura mediatica, gli Houthi hanno licenziato il pubblico ministero che aveva ordinato il rilascio di Al-Hammadi dopo i primi interrogatori. Poi hanno messo la modella in isolamento. Ieri a Sanaa è cominciato il processo. Senza l'avvocato Al-Kamal, sospeso dal suo impiego al Segretariato generale della capitale. Un modo per fare pressione e costringerlo a lasciare il caso. Il legale continua a seguire la sua assistita ma senza fare nuove dichiarazioni, per evitare guai peggiori. Secondo l'attivista per i diritti umani Abdul Wahab Qatran il tribunale si è rifiutato di fornire ai difensori i documenti del caso. Mentre i media affiliati ai ribelli sciiti hanno cominciato una campagna di disinformazione e alluso a un «coinvolgimento in un giro di droga e prostituzione». Quando è stata arrestata Al-Hammadi si trovava nella centrale Hadda Street assieme a due attrici locali. Dovevano girare una scena per una serie televisiva. Si era esposta troppo. Le sue foto su Instagram, senza velo e senza l'abito tradizionale. Poi un'intervista in tv dove denunciava la regola del controllo maschile sulle donne e annunciava la sua volontà di «viaggiare all' estero da sola» per cominciare una carriera di indossatrice e influencer. «Voglio avere le mie opportunità, lontano da qui», aveva annunciato. Ma dopo sei anni di guerra e di blocco imposto dalla coalizione sunnita guidata da Riad, il movimento Houthi è diventato sempre più oppressivo. Il consenso che godeva all'inizio, quando si era opposto al potere del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi e alla discriminazione della componente sciita della popolazione, si è eroso. Gli Houthi cominciano a mostrare il loro volto peggiore. Arresti arbitrari di critici e oppositori, e adesso anche di donne accusate di non rispettare le regole islamiche. L' Associazione delle madri dei sequestrati, vicina ai sauditi, ha denunciato le persecuzioni sempre più frequenti subite da «modelle e attrici». Molte finiscono «nelle prigioni segrete» dei militanti e «spariscono per mesi e mesi». Lo Yemen affonda nella carestia, la fame e le malattie infettive fanno strage di bambini. Una guerra che non ha più senso, se mai le guerre hanno senso, e che assieme ai sogni di Al-Hammadi ha distrutto quelli di trenta milioni di innocenti.

Costanza Cavalli per “Libero quotidiano” il 9 giugno 2021. Cosa che fino a qualche anno fa probabilmente non avrebbe fatto, Natalia Aspesi ha ammesso che l'Islam con lo schifoso destino di Saman Abbas c'entra. È una straordinaria giornalista e a novant'anni è più scatenata che in passato, come succede a certi vecchi intelligentissimi che a un certo punto mandano tutti al diavolo e dicono quel che vogliono. Ieri su Repubblica Aspesi ha messo nero su bianco l'oscurantismo in Pakistan, l'irriducibilità della tradizione patriarcale musulmana. È vero che non ha potuto resistere a postillare che pure in Italia fino a cent' anni fa il padre era padrone e che anche da noi in passato qualcuno ha ammazzato la figlia disobbediente. Ma le femministe, soprattutto quelle odierne, si guardano i piedi, e così non si sono accorte che l'unica lucetta di speranza in questa storia terrificante l'ha accesa un uomo di sedici anni. Il fratello di Saman, che pure aveva assistito a molto, era protetto dai parenti, i quali pensavano che lui non li avrebbe mai traditi, piccolo maschio musulmano fra grandi maschi musulmani, tanto che quando è stato fermato era alla frontiera italo -francese con lo zio. Il ragazzo invece era inorridito, disperato per la sorte della sorella e ha vuotato il sacco, ha inchiodato il parentado, e poi ha anche detto che avrebbe voluto uccidere lo zio ma uccidere non si può. Da questa parte del mondo forse ci è sfuggito perché ci è sembrato normale, ma è lì che si è aperta la crepa da dove passa la luce. I giovani sono meglio dei vecchi, e spesso sanno capire da soli il giusto e l'ingiusto. Nessuna legge ha mai fermato i violenti, neppure la pena di morte. Alla micidiale commistione fra culto e tradizione, Aspesi ha girato attorno morbidamente, facendo domande di cui conosce bene la risposta: perché queste «famiglie che arrivano in Europa non si rendono conto che qui il mondo è altro?». E ha chiesto ai nostri amministratori: «Forse imporre una diversità di regole, se no via». Ma queste domande sono un artificio, perché al tempo di alcune conquiste sociali lei c'era, il divorzio, l'aborto. Per cui sa che le leggi che funzionano vengono promulgate quando la società è pronta, non il contrario, nessuna norma fa crescere una comunità non matura. Tante giovani musulmane andranno a scuola, frequenteranno altri giovani, e dato che quasi tutti i genitori non ammazzano i figli, in questa generazione qualcosa di nuovo passerà, qualcosa le entusiasmerà, qualche insegnante le sveglierà al mondo, discutere con i coetanei le renderà critiche. Forse molte non parleranno finché non saranno uscite di casa, ma incontreranno altri ragazzi, musulmani e no, e questi giovani si ameranno, e ai loro figli insegneranno cose diverse da queste. Allora vinceranno anche le leggi.

"Potevo finire come Saman ma sono fuggita in tempo". Manila Alfano il 9 Giugno 2021 su Il Giornale. La giovane del Bangladesh ha denunciato i suoi. "Ribellatevi, la rivoluzione spetta a noi ragazze". Masum ha 21 anni e poteva fare la fine di Saman. Poi, il coraggio di denunciare le ha concesso un destino diverso. «Potevo esserci io al suo posto». Masum è viva ma i compromessi ci sono stati: in fuga dai suoi genitori da oltre dieci anni, accolta e amata da una famiglia affidataria. Una scommessa finita bene. «Mio padre e i miei fratelli mi picchiavano per niente. Mio fratello picchiava mia mamma di continuo. Bastava che qualcosa non andasse per il verso giusto, e partivano le mani. Nella mia famiglia si sopravviveva con la paura addosso ogni giorno. Poi ho preso coraggio, mi sono fatta forza e ho chiamato i carabinieri. Ci avevo provato già quattro volte ma non ci riuscivo. È stata dura». Li ha denunciati quando aveva solo 11 anni, eppure la senti parlare e non riesci a immaginartela bambina perchè è come se fosse sempre stata grande e il suo racconto è lucido anche quando parla del peggio. La fortuna per lei è stata anche di incontrare le persone giuste, l'assistente sociale capace, il presidente del Tribunale dei minori, gli avvocati. Una rete insomma che ha funzionato e l'ha portata in salvo, lontana dai suoi parenti. Due anni in una comunità protetta poi una famiglia affidataria che le ha voluto bene. Sembra facile, dovrebbe funzionare sempre così eppure spesso non succede. Per una che ce la fa chissà quante rimangono schiacciate. E non in Bangladesh o in Pakistan ma qui, in Italia, tra l'indifferenza e il razzismo di un Occidente che le abbraccia e poi le abbandona. La storia si ripete uguale a se stessa sempre. C'è una famiglia che è un clan in cui i maschi possono tutto mentre le donne niente; al massimo sono complici dei mariti o dei figli maschi. Anche a casa di Masum lo schema funzionava allo stesso modo. Il padre era arrivato in Italia e con grande fatica ha messo in piedi due bazar. Quando decide di portarsi la famiglia, Masum, la più piccola di quattro fratelli, ha solo sei anni «In Bangladesh stavamo bene, mio padre era lontano e non c'erano litigi e non c'era violenza». Arrivati qui le cose cambiano presto e a peggiorare la situazione ci sono anche le difficoltà economiche. «In casa non avevo nessun alleato, solo mia sorella ma poi, quando hanno scoperto che aveva un ragazzo italiano le hanno vietato di uscire, e l'hanno costretta a sposarsi con un nostro connazionale, un ragazzo del Bangladesh. Lei non voleva ma non ha avuto scelta. Opporsi non era neppure pensabile. Non l'ho più vista e lei ha smesso di cercarmi. Se fossi rimasta con loro sarebbe toccato anche a me». Sembra una vita fa. Oggi Masum è serena, «sto bene, sono amata e lavoro nell'azienda della mia mamma adottiva, ho una vita fatta di cose belle anche se non mi sento mai completamente al sicuro, e i miei parenti non sanno dove abito per motivi di sicurezza». Il suo ultimo incontro con la famiglia risale al 2012 in comunità, «incontri protetti, non vedevo l'ora che finissero, mia mamma sapeva solo dirmi: perchè non chiedi mai di tuo fratello?». Non ci sono carezze o abbracci e i sentimenti sono schiacciati dai ruoli, regole a cui obbedire. È difficile scegliere di raccontare la propria storia, lo è ancora di più se rischi di essere rintracciata dai tuoi che te l'hanno giurata. «Ma io parlo perchè le ragazze come me si ribellino a questo sistema. Non abbiate vergogna. La rivoluzione la dobbiamo fare noi. Trovate il coraggio di denunciare, non siete sole». E viene da crederle.

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 4 giugno 2021. Ragazze apparentemente come tante, che, improvvisamente costrette a matrimoni combinati, si ribellano e, spesso, scompaiono nel nulla. Il caso di Saman Abbas, diciottenne pachistana sparita ormai da un mese da Novellara e secondo gli investigatori uccisa per aver rifiutato le nozze forzate, accende dolorosamente i riflettori sul fenomeno dei matrimoni combinati, che tocca pure l'Italia. Fortunatamente, alcune storie hanno un lieto fine. «Avevo sedici anni, frequentavo il primo anno di scuola superiore e avevo un fidanzatino, Andrea - racconta Amani El Nasif, 31 anni, nata in Siria ma residente a Bassano del Grappa dall'età di tre anni, cittadina italiana dal 2016 - un giorno mia madre ha detto che dovevamo tornare in Siria per un errore nel passaporto: il mio cognome era scritto male Al Nasif invece di El Nasif. Per una lettera, tutta la mia vita è cambiata». Amani è partita felice. «Per me la Siria era quella delle storie da Mille e una notte. All'inizio ero affascinata dai paesaggi. Appena arrivata nel villaggio rurale di mio padre, mi hanno dato più vestiti da indossare uno sopra all'altro. Li ho messi. Anche il velo. Pensavo fosse giusto rispettare una cultura diversa dalla mia. Poi le cose sono cambiate». Un giorno, ha sentito gli zii parlare di un matrimonio: il suo con il cugino. «Non ci credevo. Mia madre era rassegnata. Era stata lei a portarmi lì, pensando di garantirmi una vita più sicura della sua, abbandonata con sei figli, dal marito, in terra straniera. Ho chiamato Andrea, piangendo. Poi ho sentito uno schiaffo. Mio zio mi aveva scoperta. È stata la prima volta che sono stata picchiata». Non l'ultima. Amani è rimasta 399 giorni in Siria. «Per le percosse, sono finita in ospedale, ma solo quando era questione di vita o di morte. Mio cugino non accettava che non lo volessi sposare. Ogni volta che mi trovava da sola, mi picchiava. A casa di mia cugina, mi ha calpestata, letteralmente. Sono arrivata a tentare il suicidio. La mamma del mio fidanzato ha mandato anche dei soldi a mio padre, che ha promesso di rimandarmi in Italia, ma poi non lo ha fatto. Alla fine mi ha aiutato un cugino paterno. Ha convinto mio padre a trasferirsi in Italia, lui aveva bisogno di mia madre per il ricongiungimento familiare e lei ha imposto che partissi anche io». Compiuti 18 anni, Amani si è lasciata la famiglia alle spalle ed è andata a vivere con il fidanzato. Dopo due anni, la storia è finita. Qualche anno fa, si è raccontata in un libro, con Cristina Obber, Siria mon amour (Piemme). Oggi, è mamma di Vittoria, 8 anni. «La relazione è finita perché Andrea temeva sempre che mi potessero portare via. Era una situazione insostenibile. Ciò che mi è accaduto ci ha cambiato entrambi. Ancora oggi sento di non aver metabolizzato ciò che è successo. Mi sembra avvenuto ieri. A volte, la notte sogno di essere portata via». Amani El Nasif non è l'unica ad essersi salvata. Manema, 35 anni, fuggita dall'Africa nel 2016 per evitare un matrimonio combinato, tramite Oxfam Italia ha trovato rifugio ad Arezzo. Latifa, marocchina classe 1981, è stata promessa sposa a otto anni a un amico del fratello, è giunta in Italia a 24 e qui ha incontrato per la prima volta il marito. Dopo dieci anni di violenze, ha trovato la forza per ribellarsi e crearsi una nuova vita a Noli. A Palermo, Le Onde onlus, al matrimonio combinato in Italia ha dedicato il report Matrifor, raccogliendo anche storie e punti di vista. Sopna, del Bangladesh, a proposito delle nozze forzate, commenta: «È una nostra cultura. Quando io dico di no allora mia madre dice: per me è stato così, per mia madre è stato così e sarà così pure per te. Se una dice di no o si rifiuta tutta la vita è rovinata. Però alcune volte viene bene e altre viene male». Nandhini, nata nel 2003 a Kalavai, in India, grazie all'intervento di Terres des Hommes, ha evitato un matrimonio combinato, ad appena 14 anni. Nel 2019, ha raccontato la sua storia in Italia. Dopo la morte della madre, è stata accolta con le sorelle dalla zia. «Mia zia decide di darmi in sposa a un uomo che ha il doppio dei miei anni, io 14, lui 28, supplico, piango, niente. La zia risponde che non riesce più a mantenermi, le amiche mi dicono che non abbiamo scelta». Nandhini, però, il giorno prima delle nozze, trova il coraggio di alzare il telefono e chiamare Childline 1098, numero verde per denunciare abusi sui minori attivato da Terre des Hommes in Tamil Nadu. Le rispondono che andranno a salvarla. Così è stato.

Flavia Amabile per "la Stampa" il 3 giugno 2021. «Pratiche tribali» è la definizione scelta da Yassine Lafram, presidente dell' Ucoii, l' Unione delle comunità islamiche italiane, per riferirsi ai matrimoni combinati. E su queste pratiche tribali che l' Unione in concerto con l' Associazione islamica degli imam e delle Guide religiose ha deciso di lanciare una fatwa, una condanna religiosa per prendere la distanze da tragedie come quella che si sospetta sia accaduta a Saman Abbas, 18 anni, scomparsa un mese fa da Novellara, un paese in provincia di Reggio Emilia. Da giorni le forze dell' ordine seguono l' ipotesi dell' omicidio deciso dai genitori per il rifiuto della ragazza di accettare un matrimonio combinato e setacciano serre e canali delle terre agricole con i cani molecolari per cercare il suo cadavere. I matrimoni combinati «non possono trovare alcuna giustificazione religiosa, quindi sono da condannare, e ancor di più da prevenire», sostiene Yassine Lafram. Nella fatwa si preciserà che «la donna è uguale all' uomo nella scelta del partner e che il suo consenso della donna è essenziale», aggiunge il presidente dell' Ucooi. «Fortunatamente - spiega - sono episodi che non hanno, per quanto a nostra conoscenza, un' estensione e una frequenza importanti ma sappiamo che all' interno di alcune comunità etniche persistono ancora situazioni e comportamenti lesivi dei diritti delle persone che l' Ucoii respinge con forza». E annuncia una fatwa al massimo entro oggi contro i matrimoni combinati, una seconda fatwa nei prossimi giorni contro l' infibulazione e progetti per la tutela dei diritti delle donne. La fatwa non ha alcuna conseguenza pratica ma «ha delle conseguenze teologiche. Sapere che un comportamento viene considerato illecito aiuta gli eventuali scettici a ritrovarsi nell' usanza in linea con la tradizione», sostiene Yassine Lafram. Secondo Souad Sbai, ex parlamentare del Pd, invece, si tratta di un «precedente pericoloso», si corre il rischio di «portare in Occidente le regole di un modello di vita che non ci appartiene. Nel frattempo proseguono le indagini. Secondo l'ultima ipotesi Saman Abbas potrebbe essere stata uccisa da uno zio. La ragazza, infatti, a novembre 2020, aveva chiesto aiuto agli assistenti sociali ed era stata allontanata dalla famiglia. Era rimasta fino all' 11 aprile in una comunità educativa. In base alle prime ricostruzioni, la situazione familiare si sarebbe aggravata tra la fine di aprile e l'inizio di maggio quando, dopo un litigio, la 18enne avrebbe seguito i familiari in un campo, luogo nel quale si ipotizza sia stata uccisa. A rivelare come sarebbero andate le cose, un fratello minorenne di Saman. Attualmente le persone iscritte nel registro degli indagati sarebbero cinque: i due genitori, uno zio e due cugini, uno dei quali è stato fermato a Nimes, in Francia, perché ritenuto responsabile, in concorso, dell'omicidio della ragazza e dell' occultamento del suo cadavere.

La fatwa su mutilazioni e matrimoni combinati fa litigare l'islam italiano. Alberto Giannoni il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. La scelta di Ucoii dopo il caso Saman. Ma i moderati: basta la legge. Sbai: "Scioccante". Una «fatwa» contro i matrimoni combinati e le mutilazioni genitali femminili. L'Unione delle Comunità islamiche d'Italia reagisce così al drammatico caso di Novellara (Reggio Emilia), dove da quasi un mese non si hanno notizie della giovanissima pakistana Saman Abbas, sulla cui sorte ormai ci sono purtroppo poche ben speranze. La diciottenne è scomparsa dalla casa di famiglia dopo aver rifiutato - anche con una denuncia ai servizi sociali - le nozze che il suo «clan» aveva combinato per lei con un cugino in Pakistan. Le ricerche della ragazza continuano incessanti e mentre la Procura ha aperto un'inchiesta per omicidio e occultamento di cadavere, gli indagati - tutti parenti - sarebbero già sei. Il caso della povera Saman non è il primo del genere nel nostro Paese. I precedenti più noti sono quelli di altre due giovani di origini pakistane che vivevano nel Bresciano: Hina Salem, uccisa dai familiari per il rifiuto delle imposizioni patriarcali e Sana Cheema, punita con la morte per la sua intenzione di vivere «all'occidentale», libera dai condizionamenti pseudo-religiosi del «clan» che la voleva sposata a un parente. Ma altre vicende simili sono state denunciate o scoperte, e tutte facevano riferimento a contesti familiari con logiche ferree di tipo etnico o pseudoreligioso, di matrice islamica. Così, per dare un segnale (a musulmani e non) e per prendere pubblicamente le distanze da certe pratiche tribali innestate su una subcultura integralista molto diffusa anche in Europa - e come si è visto anche in Italia - l'Ucoii ha diffuso questo comunicato stampa, annunciando l'intenzione di emettere una sorta di verdetto giuridico-religioso, di concerto con l'Associazione islamica degli Imam e delle Guide religiose. «Fortunatamente - dice l'Ucoii - sono episodi che non hanno, per quanto a nostra conoscenza, un'estensione e una frequenza importanti ma sappiamo che all'interno di alcune comunità etniche persistono ancora situazioni e comportamenti lesivi dei diritti delle persone». L'Ucoii afferma di «respingere con forza questo tipo di concezione della condizione femminile e in generale della vita delle persone: sono comportamenti che non possono trovare alcuna giustificazione religiosa, quindi assolutamente da condannare, e ancor di più da prevenire». Quindi «per rafforzare la sensibilizzazione e aumentare la prevenzione» annuncia che emetterà «una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l'altrettanto tribale usanza dell'infibulazione femminile» e al tempo stesso rigetta «qualsiasi speculazione politica di questa triste vicenda che mira ad infangare l'intera comunità islamica italiana». Apparentemente, la decisione dell'Ucoii è un passo che va nella direzione giusta, ma lo strumento prescelto è controverso. Una «fatwa», infatti, sembra aprire le porte a una sorta di ordinamento speciale che vige per i fedeli musulmani, confondendo il piano civile e il piano religioso, nel quale oltretutto non esiste un'unica autorità: l'Ucoii è solo una delle sigle esistenti, e non pare neanche maggioritaria, per quanto sia molto visibile. «In Italia i musulmani devono seguire l'ordinamento giuridico - commenta Yahya Pallavicini, leader della Coreis e imam della piccola moschea di via Meda a Milano - non sfruttare fatti di cronaca e tribalismo per costruirne uno parallelo». «La notizia dell'emissione di una fatwa da parte dell'Ucoii è a dir poco scioccante - commenta anche Souad Sbai, già parlamentare Pdl e presidente del Centro studi Averroè - Nel 2021, in Italia, culla della civiltà e del diritto, un atto del genere è inammissibile».

Saman Abbas, perché la tragica vicenda della ragazza "scomparsa" dimostra che la nostra cultura è più evoluta. Giuseppe Valditara su Libero Quotidiano il 7 giugno 2021. Il caso di Saman Abbas ha riproposto nel dibattito una questione più generale: il confronto fra civiltà. Prendo come esempio le parole di Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 6 giugno: «Questa storia è dunque l'occasione per guardarci in faccia. Senza assurde pretese di superiorità in un Paese che per tre secoli ha bruciato le streghe». Torna l'idea che non esistano differenze fra culture, che in fondo tutte le civiltà hanno del buono e del cattivo. E che l'unica cosa buona alla fine è la nostra costituzione. Non a caso nel pezzo viene citato l'articolo 3 sull'uguaglianza di tutti gli esseri umani. Ritengo invece sbagliata questa prospettiva, perché non favorisce il radicarsi di una piena consapevolezza proprio del significato dei nostri valori costituzionali che non nascono per caso. Nel nostro passato ci sono le streghe bruciate, ma ci sono anche la tratta degli schiavi, le teorie razziste di vari antropologi, il colonialismo, l'olocausto, e - perché no? - il comunismo. In verità sono fenomeni che si ritrovano in ogni civiltà. Rituali di morte verso persone "negative" e persino sacrifici umani esistono nelle culture africane, amerinde, asiatiche. La tratta degli schiavi è stata praticata innanzitutto dagli arabi; trafficanti e complici erano pure i notabili dei vari regni africani che offrivano la "merce". Non vi è poi civiltà antica che non abbia conosciuto la schiavitù, non foss' altro perché era necessaria nell'economia del tempo. Il razzismo scientifico si ritrova in Occidente solo perché in Occidente si è affermata la scienza moderna e l'evoluzionismo, teoria credibile, ma che nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento è stata strumentalizzata portandola a conseguenze moralmente inaccettabili. L'odio o il timore verso lo straniero cosi come la volontà di dominazione e di conquista sono sempre esistiti presso ogni popolo. L'espansionismo turco o giapponese, ola conquista islamica non sono per molti tratti paragonabili al colonialismo europeo? Infine il nazismo rivendicava il rifiuto del cristianesimo, del diritto romano, dell'illuminismo, in nome del ritorno al paganesimo e alle usanze dei popoli germanici. I genocidi sono purtroppo assai frequenti nella storia dell'umanità, di qualche decennio precedente a quello degli ebrei ci fu quello degli armeni attuato dagli Ottomani. Quanto al comunismo, odio di classe e violenza si ritrovano presso ogni passaggio della storia umana. Se dunque la civiltà Occidentale non ha nel suo passato colpe "che solo essa ha", è tuttavia l'unica civiltà che quel passato ha messo sotto accusa in un processo collettivo che dura ormai da decenni e che ha portato a carte dei diritti e a costituzioni che mirano apre venire quelle tragedie. Ciò non è avvenuto a caso. A differenza di molte altre culture e civiltà, vi sono alcuni momenti chiave nella nostra storia che mancano altrove e di cui occorre invece esserne ben consapevoli. Il concetto di persona, della sua sacralità e della sua centralità giuridica nasce a Roma, riceve un contributo fondamentale nel suo evolversi dal pensiero stoico di origine greca, viene esaltato dal cristianesimo. Il concetto di humanitas è uno dei frutti più importanti del pensiero filosofico romano, prende le mosse nel circolo degli Scipioni, ispirata dalle dottrine di Panezio, trova nelle pagine di Cicerone passaggi fondamentali. La buona fede era per i Romani non solo un comportamento diffuso, ma il tratto stesso dell'intero ordinamento giuridico. E la fides veniva considerata un tratto identitario di Roma persino dal popolo ebraico. La libertà è concetto greco e romano pressoché sconosciuto nel resto del mondo antico. Nei Vangeli viene predicato l'amore fra tutti gli uomini come pilastro di una nuova società, e il perdono anche del nemico è lo strumento per affermare quell'amore assoluto. Di fronte alla dimenticanza di questi principi dovuta alla naturale presenza del male nella natura umana, il liberalismo anglosassone e l'illuminismo hanno ribadito la centralità dei valori della vita e della libertà, l'importanza della ragione contro le superstizioni, i presupposti dello stato di diritto contro l'arbitrio e la sopraffazione, la laicità delle istituzioni. Il socialismo ha ripreso tendenze umanitarie, solidaristiche, ha sviluppato ideali pacifisti. Tutto questo ha formato la cultura che si definisce, pur in vario modo, come "occidentale" perché è nata e si è sviluppata in quella parte dell'emisfero considerata Occidente. C'è un equivoco, tuttavia. Togliamoci dalla mente l'idea falsa, che un certo becero rivendicazionismo terzomondista afferma, della identificazione della civiltà occidentale con la "razza" bianca. Non è una civiltà "bianca" e tantomeno è una civiltà europea. È una civiltà universale. Cristo nasce in una famiglia semita, e gli evangelisti sono culturalmente ben radicati nel mondo giudaico, santi e pensatori "occidentali" sono stati africani e asiatici. Penso a sant' Agostino, solo per citarne uno. Se tuttavia non avessimo la consapevolezza di queste fondamenta culturali, della loro unicità e importanza, se pensassimo che possiamo dimenticarle in nome di un banale politicamente corretto che vuole eguali tutte le culture, e che può pretendere di cancellare lo studio dei classici e della tradizione cristiana dalle nostre scuole, rischieremmo di buttare a mare millenni di sforzi che pur con tutte le contraddizioni e gli errori hanno prodotto la consapevolezza della sacralità della persona umana e della intangibilità dei suoi diritti fondamentali.

Dritto e rovescio, Giuseppe Cruciani contro l'imam: "Saman Abbas? Questo è un vostro problema, è l'Islam". Libero Quotidiano il 04 giugno 2021. Il caso Saman Abbas tiene banco anche a Dritto e rovescio su Rete 4. Paolo Del Debbio mostra il video choc del presunto "funerale senza salma" condiviso dal padre della ragazza di origine pachistana scomparsa da Novellara, Reggio Emilia, e che secondo gli inquirenti potrebbe essere stata uccisa dai parenti per aver rifiutato un matrimonio combinato con il cugino.  "La vicenda drammatica sottolinea Giuseppe Cruciani, in studio - è stata vissuta nel silenzio totale delle esponenti del femminismo italiano, non è il caso di Karima Moual (la giornalista italo-marocchina anche lei ospite di Del Debbio, ndr), dalle persone che tendono sempre a difendere i diritti delle donne non mi sembra che si siano sentite grandi cose". Poi rivolgendosi a un imam seduto di fronte a lui, il conduttore de La Zanzara su Radio 24 va dritto al punto.  "La seconda cosa: io credo assolutamente alla maniera in cui lei vive l'Islam, ma non bisogna negare una cosa. Quello che è avvenuto è roba vostra, è accaduto dentro le vostre comunità, riguarda l'Islam e la religione islamica. Lei lo sa benissimo: non bisogna negarla, non avverrà nella sua comunità e nella sua famiglia, ma è roba che viene dalla vostra religione. Oggi il problema in Italia non riguarda altre religioni, ma l'Islam, e non lo dico perché sono islamofobo. Non si possono fare paragoni con il patriarcato o la religione cattolica". "Questi crimini avvengono dentro la società - prova a ribattere Sami Salem, imam della Moschea della Magliana di Roma -, anche con cattolici, ebrei...". "No - replica secco Cruciani -, questi crimini si riferiscono alla religione islamica, il problema della sottomissione della donna è un problema dell'Islam". "Sono problemi delle usanze, non dell'Islam", è il distinguo di Sami Salem. "Ma come si fa a negare che riguardi l'Islam?", domanda un Cruciani sconcertato.

Il pentimento di Vauro: finalmente bacchetta la sinistra. Daniele Dell'Orco l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il vignettista attacca la sua fazione politica per la superficialità con cui cavalca i drammi come quello di Saman Abbas ma senza proporre soluzioni concrete. Ne ha per tutti Vauro Senesi, a cominciare dalla "sua" sinistra, che sulla tragica vicenda di Saman Abbas, la 18enne pakistana uccisa dai familiari nei campi di Novellara, altro non riesce a fare che indignarsi in modo sterile. "La cosiddetta sinistra è insufficiente in tutto - dice all'AdnKronos -. Ma non guardo con simpatia alle gare di indignazione, indecenti, pelose ed ipocrite. Credo più nelle soluzioni strutturali, nelle denunce e nella organizzazione sociale. Questa ragazza ha chiesto soccorso. E probabilmente con maggiore efficienza ed attenzione poteva essere salvata". Invece, solo una volta che i drammi sono compiuti, spesso accostati gli uni agli altri, comincia la solita escalation di indignazione e di discorsi triti che per la sinistra si concludono tutti con la necessità di più integrazione, più tolleranza, più educazione civica. Senza soluzioni reali. "Visto questo macabro gioco a mettere cadaveri sulle bilance - prosegue Vauro - di educazione civica ne avrebbero bisogno non solo alcuni immigrati pachistani ma anche diversi opinionisti e politici italiani. È la politica che deve creare la consapevolezza, i luoghi, le occasioni, le strutture. La gara all'indignazione è quella alle code di paglia e parlo di tutti". Insomma, la politica in generale, e la sinistra in particolare, staziona lontanissima dai temi di cui prova a parlare quando qualcuno finisce sulle pagine di cronaca nera. Ma, oltre a dover avere la maturità giusta per non mettere nel calderone storie diversissime tra loro quando non a strumentalizzarle del tutto per i propri scopi (come accaduto per Seid Visin), la politica dovrebbe analizzare il retroterra culturale e sociale che produce certi drammi e proporre programmi che possano cambiare le cose. "Occorre un impegno sociale e politico, nella direzione di un'educazione civica finalizzata ad integrare, non a ghettizzare o a consentire l'auto-ghettizzazione. Non credo che il dramma di tante Saman si risolva a chi manifesta meglio la propria indignazione. Ma intervenendo. Chi d'altronde non disapproverebbe una tragedia simile?". Lo ha capito persino Vauro.

Luca Ricolfi sul caso di Saman Abbas: "Se ne parla poco? La sinistra ha sempre un occhio di riguardo per l'islam. Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Non sembra sollecitare troppo interesse la triste storia di Saman Abbas, la ragazza sparita a Novellara, a una ventina di chilometri da Reggio Emilia. Il silenzio della sinistra e delle associazioni che si occupano dei diritti delle donne si fa sempre più assordante, ma qual è il motivo di questo silenzio? C'è "una ragione buona e una cattiva" suppone il sociologo Luca Ricolfi, intervistato da Il Giorno. "La ragione buona è che, al momento, non si sa come siano andate effettivamente le cose, e neppure se la ragazza pachistana sia viva o morta. La ragione cattiva è che la sinistra ha un occhio di riguardo per l'Islam, e teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". "Temo che anche se vi fosse la certezza che Saman è stata uccisa dai familiari, un velo pietoso verrebbe steso sulla vicenda, meno interessante di quella di qualche aspirante attrice molestata da registi o produttori". Il sociologo spiega poi il ruolo del "politicamente corretto" all'interno della questione: "È paradossale, ma il politicamente corretto - nato per combattere le discriminazioni - sta diventando, oggi, uno dei meccanismi attraverso cui passano nuove e meno visibili forme di discriminazione". "Concedendo una protezione speciale a una serie di presunte minoranze (l'Islam è solo una di esse)" spiega l'accademico "si finisce per attenuare le garanzie e indebolire le tutele nei confronti di quanti hanno la sola colpa di non far parte di alcuna categoria protetta". "Non solo" sottolinea Ricolfi "ma si viene a instaurare una sorta di presunzione di innocenza, o di responsabilità attenuata, per chiunque commetta reati ma abbia il vantaggio di far parte di una categoria protetta. Con tanti saluti al principio per cui dovremmo essere giudicati per quel che facciamo, non per quello che siamo". L'integrazione dovrebbe contemplare l'obbligo di rispettare i diritti umani. "Altrimenti non è integrazione, ma mera concessione (agli stranieri) di spazi di impunità cui nessuna comunità nazionale può aspirare (salvo forse alcune sette religiose semi-clandestine). Bisogna ammettere però, che da oltre mezzo secolo (più o meno dall'era delle decolonizzazioni), questo è un nodo irrisolto della cultura occidentale, e di quella europea in particolare" sostiene Ricolfi. "Se da bravo antropologo, aperto e non eurocentrico, dici che ogni cultura va giudicata con i suoi metri e non con quelli di un'altra, se continui a proclamare che 'loro' non sono primitivi ma solo diversi da noi, e che ogni usanza, rito o costume ha la sua dignità e la sua ragion d'essere, esercizio in cui la civiltà occidentale si è prodigata per decenni e decenni, se fai tutto questo, beh, allora è un po' difficilino pretendere che loro rispettino i diritti umani, che in fondo non sono verità rivelate, ma un costrutto contingente e "storicamente determinato" (così avrebbe detto Marx) della nostra civiltà occidentale" spiega il sociologo. E per quanto riguarda alcune tradizioni islamiche, come l'infibulazione delle ragazze e l'obbligo di sposare giovani scelti dalle famiglie? "Il problema è che noi non abbiamo il coraggio di dirgli la verità, ovvero quel che davvero la maggior parte di noi pensa: e cioè che, per noi, certi loro costumi sono barbari. E che se vogliono vivere con noi possono mangiare quel che vogliono, pregare il Dio che gli pare, vestirsi come gli aggrada, ma non può esserci alcun comportamento che sia proibito a un italiano e permesso a loro" conclude Luca Ricolfi. 

"La sinistra tace sull'Islam...". Ora nel Pd è tutti contro tutti. Alessandro Imperiali il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Finalmente il silenzio della sinistra sulla scomparsa di Saman Abbas si interrompe. Parla Marwa Mahmoud, consigliere Pd a Reggio Emilia, e conferma la teoria del sociologo Luca Ricolfi. La sinistra resta colpevolmente in silenzio di fronte alla scomparsa di Saman Abbas. Un'interrogazione in commissione esteri al ministro Luigi Di Maio riguardo "quali urgenti iniziative politiche intende assumere" e nulla più. O quasi. L'unica ad uscire pubblicamente sulla questione e squarciare il silenzio nelle fila dem è Marwa Mahmoud, donna musulmana, nata ad Alessandria d'Egitto e trasferitasi da molto piccola prima a Modena e poi a Reggio Emilia. Dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana, è stata eletta come consigliere comunale tra le fila del Partito Democratico a Reggio Emilia, la provincia dove, tra l'altro, da più di un mese è ricercata Saman, la giovane pachistana. È proprio Marwa a parlare di quest'ultima questione, su La Nazione. Quando le viene chiesto il perché la sinistra tacesse sui diritti negati alle donne islamiche, risponde: "Da parte nostra c'è timore a intervenire su questi temi. Negli ultimi vent'anni c'è stata sottovalutazione. Parliamone. Mettiamoci la faccia. Io, da musulmana e da consigliera Pd, per prima". Sostanzialmente conferma la teoria del sociologo Luca Ricolfi il quale sostiene: "La sinistra teme che i lati più imbarazzanti di quella cultura, e in particolare il suo modo di trattare la donna, compromettano il progetto politico di diventare i rappresentanti elettorali di quel mondo, grazie all'allargamento del diritto di voto agli immigrati". Così facendo, sempre secondo Ricolfi, in nome del politicamente corretto "si viene a instaurare una sorta di presunzione di innocenza, o di responsabilità attenuata, per chiunque commetta reati ma abbia il vantaggio di far parte di una categoria "protetta"". Un "occhio di riguardo" sulla questione che imbarazza e non poco proprio Marwa: "Sono temi delicati e complessi se non si hanno basi antropologiche solide. C'è paura di essere strumentalizzati e additati come razzisti. Si è tergiversato troppo preferendo agire con paternalismo, assistenzialismo e accoglienza. Che, sia chiaro, va bene. Ma non basta. Tutto il resto è diventato tabù, come la mutilazione ai genitali femminili per esempio". Marwa è molto critica anche sui matrimoni forzati che fanno parte di "un mondo sommerso che va scardinato". L'unico modo per poterlo fare è appellarsi "ai diritti umani". Dal suo punto di vista: "In Italia il tema non è mai stato trattato in modo sistemico, ma solo a livello politico ideologico come nel caso di Hina Saleem. Non è sufficiente aver inserito il reato nel codice penale". E aggiunge: "Occorre una risposta integrata che passa dall'educazione ai servizi territoriali, alle forze dell'ordine. Non si risolve tutto allontanando la vittima in una comunità protetta. E il caso Saman insegna: è tornata a casa. I figli cercano sempre di recuperare i rapporti con la famiglia". È necessario, dunque, "andare nelle comunità e nei luoghi di culto, spiegando che nessuno può essere costretto a sposarsi e che non deve essere visto come un disonore ricevere un "no"". L'unica soluzione possibile, quindi, secondo lei, è "muoversi entro la cornice dei diritti umani e della Costituzione".

Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti. Ho tre credo nella vita: Dio, l’Italia e la… 

Crociata contro il femminicidio? No, razzismo. La vicenda di Saman ha scatenato l’ira contro l’Islam, ma noi siamo meno violenti? Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 17 Giugno 2021. I “cattivi” stanno “sicuramente” tutti dalla parte dell’Islam. È l’ultima parola nel dibattito che infiamma il web, i giornali, i social: la ragazza pachistana uccisa dai suoi parenti perché ha rifiutato un matrimonio combinato è l’ultimo esempio di violenza in nome della religione da parte dei crudeli musulmani. Già, ma siamo davvero sicuri che la violenza religiosa stia tutta e sempre da una parte sola? Siamo sicuri che la nostra Italia dove i femminicidi imperversano e gli incidenti sul lavoro ogni giorno riportano casi allucinanti, sia indenne da matrimoni combinati o forzati o da stigmatizzazioni in base alle preferenze sessuali, religiose, culturali? C’è da andarci più piano con i giudizi: il fondamentalismo religioso non è mai sconfitto una volta per tutte e risorge con motivazioni economiche, politiche, sociali, o peggio ancora per strumentalizzazioni partigiane. Intanto guardiamo storicamente la “cosa”. Ogni religione è una galassia tutt’altro che monolitica. L’Islam ad esempio è sciita o sunnita – e già sono due. Ma consideriamo che la fascia del Nord Africa, lo stesso Medio Oriente, o il Bangladesh, il Pakistan, diverse zone della Cina, dell’India, tutta l’Indonesia, sono portatici di forme diverse e di pratiche diverse nei rapporti tra società e religione con lo Stato. A guardare meglio esplodono differenze teologiche ed ermeneutiche notevoli. I “coranisti” ad esempio negano l’importanza della “Sunna”, la raccolta di detti e precetti che indicano come vivere da buon musulmano e formano, dopo il Corano, il secondo “pilastro” della religione. Per i “coranisti” vale solo il Libro Sacro e hanno come principale esponente il principe ereditario dell’Arabia Saudita: in un’intervista televisiva il 27 aprile ha richiamato il Corano come fonte suprema di governo, la Costituzione del paese. Sarebbe una rivoluzione perché significherebbe lasciarsi alle spalle tutti i testi normativi elaborati nei secoli e attenersi al solo Libro, lasciando uno spazio molto più ampio di adeguamento della fede alla realtà in costante trasformazione. In qualche misura – con le dovute cautele, ovviamente – i “coranisti” assomigliano al protestantesimo del Lutero in versione “sola Scriptura” che voleva fare piazza pulita delle interpretazioni successive e dare alle persone la possibilità e la libertà di leggere la Bibbia senza passare per la casta del clero. Nel mondo cattolico – per limitarci solo a questo – siamo sicuri di essere immuni dall’estremismo nel nome della religione? Può rispondere di sì solo chi faccia finta di non vedere le varie forme di “alleanza cattolica” o le sigle che inneggiano a “Lepanto” e alla sua attualità – grande battaglia che ha rigettato in mare la progettata invasione islamica – o a chi non si imbatta in rete e nei social in quei gruppi di “chiesa militante” che nel nome di un’interpretazione rigida della “legge naturale” condannano qualsiasi “differenza” politica, religiosa, culturale o – eresia! – la differenza di “genere”. E nel nome dell’ortodossia più compatta danno dell’eretico al Papa e fermano l’orologio della storia al Concilio di Trento, tollerando il Vaticano I. Il Vaticano II semplicemente non esiste. Lavorano in maniera sotterranea, ed emergono nei casi in cui serve, tipo quando a Roma il terzo Municipio vorrebbe ristrutturare Piazza Sempione e spostare un po’ la statua della Madonna. Mal gliene incolse all’improvvido presidente di Municipio, che ha dovuto fare marcia indietro rispetto alle manifestazioni di protesta. Un po’ vere manifestazioni, un bel po’ strumentalizzate. Perché dietro il simbolismo religioso si cela un forte senso di appartenenza culturale. Poi nella pratica i dettami della religione non si seguono affatto e a messa ogni domenica non ci si va. Però l’appartenenza religiosa è sentita come identitaria. Ed è avallata da un clero e da una gerarchia cui piacciono le folle, poco importa il resto. Basta che si veda gente attorno tipo processione, altrimenti si soffre della paura di estinguersi. Esiste naturalmente un potente antidoto, anzi più di uno. A patto di saperli usare e dosare. Ad esempio il cristianesimo (ambito più grande del cattolicesimo) sarebbe (dovrebbe essere) pluralista e non monolitico per definizione e per caratteristiche fondative. La Trinità è garanzia di pluralismo, nella dialettica tra Spirito – “carisma”, ispirazione, passione – e la razionalità del Padre che è Creatore di tutti e del Figlio che ci rende partecipi e consapevoli della presenza di Dio nella storia. Oltre alla teologia ci sono i Vangeli: ci sarà un motivo se per i cristiani ce ne sono 4 ufficiali più gli Atti degli Apostoli e le Lettere (soprattutto San Paolo), mentre altre religioni hanno un unico testo sacro. Anche così la pluralità dei testi non ha messo al riparo i cristiani dal macchiarsi di tante atrocità storiche, dai genocidi allo sterminio dei dissidenti. Dimenticando la vicenda della pagliuzza nell’occhio dell’altro per non guardare la trave nel mio, o quel fulminante “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Come la psicologia della religione sa bene, dietro l’appartenenza religiosa si giocano complessi e sofisticati meccanismi identitari e debolezze di personalità, che possono venire sfruttate da agitatori senza scrupoli, in cambio delle promesse del paradiso a portata di mano. Se l’istinto “gregario” può dominare chi appartiene a una religione – farsi dire dal prete di turno cosa è giusto o sbagliato – esiste per fortuna una generazione nuova che vuole coniugare appartenenza religiosa a capacità di giudizio e trova nella fede uno stimolo per la libertà. Come la giovane pachistana che voleva riaffermare un modo di credere, senza per questo dover per forza obbedire a decisioni prese da altri, sia pure i genitori, e sempre nel nome della fede. Come spesso ripete Papa Francesco, la religione è libertà interiore per ascoltare la voce di Dio nella vita; la religione è misericordia e dialogo; meno precetti rigidi e più attenzione al prossimo. Già, ma non a tutti piace, soprattutto quando si toccano interessi finanziari ed economici o quando “ne va” della reputazione di una famiglia o della libertà di una figlia o di un figlio. Lì scatta la religione intesa in senso repressivo, con esiti drammatici. O forse si dovrebbero chiamare le “cose” con il loro vero nome: chi uccide, umilia, delinque mettendosi addosso un manto religioso, non è un fanatico. È un criminale, un furbo che cerca alibi e giustificazioni per far sembrare meno grave il suo delinquere. E i leaders religiosi – tutti insieme, papi, rabbini, parroci, imam – dovrebbero prenderlo e consegnarlo alle autorità. Forse così finirebbe il terrore nel nome di qualche Dio.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

"Troppo silenzio sul caso. Razzismo delle femministe". Manila Alfano l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il "mea culpa" della giornalista: "Fosse stata una ragazza italiana ne avremmo parlato molto di più". Ha puntato il dito perché attorno alla storia di Saman ha sentito troppo silenzio. Ma prima lo ha puntato contro se stessa. «Niente giustifica noi femministe» ha scritto in un lungo post su Facebook. Delusa e scandalizzata, così si è sentita Ritanna Armeni, classe 1947, giornalista e scrittrice, che di battaglie femministe ne ha fatte tante e che continua a interrogarsi sul movimento di liberazione della donna, lo ha fatto anche con il suo ultimo libro, Per strada è la felicità (Ponte alle Grazie).

Cosa le ha dato fastidio nella storia di Saman?

«Il non trovare il dramma. Che la storia di una ragazza di diciotto anni scomparsa, probabilmente uccisa dalla sua stessa famiglia, sia passata così, senza clamore, come una notizia normale. Ma incolpo anche me stessa, e lo dico con grande umiltà. Sento ancora il rimorso per non aver detto nulla».

Perché questo silenzio?

«Razzismo. Un sottile razzismo è scattato in me come in molte di noi».

Non mi dica che lei è razzista...

«Credo che inconsciamente lo siamo un po' tutti. Certo, se me lo domandassero risponderei di no, ovvio che non sono razzista. Eppure esistono dei condizionamenti sociali che entrano in gioco quando meno ce lo aspettiamo. Quando ho letto della sua storia, dentro di me non è scattato nulla. Come se non mi riguardasse. Come se fosse altro dalla mia vita. Come se avesse a che fare solo e soltanto con il modo di vivere di questa famiglia di immigrati».

Se fosse stata italiana non sarebbe successo?

«Credo proprio di no. Anzi, avremmo parlato di femminicidio. Con lei no. Come se per lei la parola non dovesse essere scomodata. Terribile».

Eppure non che il femminicidio non sia una piaga nel nostro Paese...

«Eppure qualcosa sta cambiando. Culturalmente intendo. Le donne continuano a essere uccise ma nessuno osa più dire che lui l'ha fatto per amore. Le parole cambiano la cultura, cambiano l'essere umano. E noi femministe serviamo anche a questo. A squarciare il velo. A far riflettere su cose che ci sembrano normali, ma che di normale non hanno niente».

Perché una femminista si dovrebbe sentire più in colpa?

«Questa ragazza voleva quella libertà che il nostro mondo occidentale le aveva mostrato e offerto. Poi l'abbiamo lasciata sola. Eppure in Italia abbiamo dovuto attendere fino al 1981 per buttare nel cestino il delitto d'onore. Se le femministe, e le donne in generale, non riescono a vedere uno stretto collegamento tra la battaglia per i loro diritti e la morte di una ragazza che voleva difendere la sua libertà, allora abbiamo perso qualcosa di fondamentale per strada».

Cosa è successo alle femministe?

«Purtroppo credo che la battaglia delle donne si sia ristretta alle proprie ragioni».

Le femministe di oggi sono più egoiste di ieri?

«Rinchiuse nella difesa delle nostre libertà abbiamo perso di vista il resto. Noi lottiamo per temi sacrosanti e terribilmente seri: le molestie, la parità di genere, il divario salariale. Ma in questo dibattito occorre trovare uno spazio anche per storie così drammatiche come quelle di Saman. Perché invece nessuna ne ha parlato? Perché si racconta il fatto senza scavare come se fosse un quadretto da lasciare così, senza scavare a fondo?».

Abbiamo forse perso la speranza di integrazione?

«Ci sono stati altri casi purtroppo in Italia. La storia di Hina Saleem ad esempio, uccisa nel 2006 dal padre che non la accettava perché voleva vivere da occidentale, ma allora c'era stata una attenzione diversa. Noi dobbiamo tornare a farci domande».

"Saman? A sinistra femministe a giorni alterni", "E per la destra son tutti cattivi". Francesco Curridori il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Per la rubrica Il bianco e il nero, sul caso di Saman Abbas, abbiamo intervistato la deputata dem Lia Quartapelle e la forzista Gabriella Giammanco. Fa ancora discutere caso di Saman Abbas, la 18enne d'origine pachistana scomparsa da un mese dopo essersi rifiutata di accettare un matrimonio combinato. Per la rubrica Il bianco e il nero, su questo tema, abbiamo intervistato la deputata dem Lia Quartapelle e la forzista Gabriella Giammanco.

Cosa pensa del caso Saman?

Giammanco: "Una tragedia, una storia terribile ma più comune di quanto si immagini. Sono tante le giovani donne vittime di violenza di matrice islamica, costrette a sposarsi dalla famiglia che sceglie per loro il futuro marito. Se si ribellano a un matrimonio combinato vengono rapite o, addirittura, uccise. Ricordo il caso di Hina, a cui il padre tolse brutalmente la vita perché voleva vivere da occidentale, o la terribile fine di Sanaa, uccisa perché voleva sposare un italiano. C’è da chiedersi quante siano in realtà le storie di costrizioni e soprusi sommerse...L’Italia dovrebbe aprire una seria indagine su questo fenomeno, per capirne la portata e mettere a punto misure efficaci per contrastarlo".

Quartapelle: "Continuo a sperare, anche contro l’accumularsi di notizie, che Saman sia ancora viva. È un crimine orrendo, contro natura, quello che porta dei genitori a uccidere la figlia per tutelare il proprio onore. Spero che la storia di Saman finisca in modo diverso dalla storia di Hina Saleem, la ragazza di origine pachistana uccisa in provincia di Brescia nel 2006 dai parenti per essersi sottratta a un matrimonio combinato, o di Sana Cheema, la ragazza italo-pachistana uccisa nel 2018 in Pakistan dopo aver rifiutato un matrimonio combinato".

Perché le femministe si stracciano le vesti sul sessismo, sulla Rai e altro, ma tacciono su questo tema?

Giammanco: "Evidentemente sono femministe a giorni alterni. C’è molta ipocrisia, si glissa su eventi così gravi ma si grida allo scandalo per questioni insignificanti. Il testo di una canzone o un complimento suscitano indignazione ma sarebbe bene guardare alla sostanza più che alla forma. La difesa dei diritti non dovrebbe avere colore politico né etichette. Femministe o meno, dovremmo difendere le donne oppresse dall’estremismo islamico. In nome di questa religione si diventa ciechi. Si commettono attacchi terroristici, si uccidono persone innocenti, si considerano le donne schiave degli uomini e se ne calpesta la volontà. Alcune donne, ho notato con sconforto, sono arrivate a fare apologia del burqa perché lo considerano espressione di libertà quando, al contrario, è simbolo dell’oppressione per eccellenza. Oriana Fallaci ha raccontato bene cosa fosse questo indumento nel suo primo reportage sull’Islam: 'Vi sono donne nel mondo che ancora oggi vivono dietro la nebbia fitta di un velo come attraverso le sbarre di una prigione'”.

Quartapelle: "Perché i giornali non danno spazio a quanto femministe e persone di buona volontà stanno dicendo e facendo sul caso Saman? C’è stata una grandissima mobilitazione civile e politica sul caso. Venerdì 28 maggio nel comune di Novellara, il comune di Saman, è stata organizzata dalla sindaca una fiaccolata di solidarietà. Ci sono state dichiarazioni di tante e tanti, tra cui il collega Andrea Rossi, a sostegno di Saman. Non ne ho visto traccia né sul vostro giornale, né su tanti altri mezzi di informazione. Non è abbastanza tragica la vicenda in sé? Che senso ha strumentalizzare politicamente la scomparsa di una giovane donna?".

Perché una parte della sinistra sembra sempre voler proteggere l'islam a prescindere? 

Giammanco: "È una difesa meramente ideologica. Si difende il multiculturalismo a prescindere, dimenticando che una società multiculturale funziona se tutti ne accettano i valori e i principi fondanti altrimenti si rischia il caos. Una certa sinistra ha nei confronti del tema 'donne e Islam' lo stesso approccio che ha con gli omosessuali: in Italia spinge per dare loro, giustamente, maggiori tutele ma poi fa finta di non vedere che in alcuni Paesi islamici vengono perseguitati e lapidati. Dobbiamo smetterla di avere paura di rivendicare la nostra cultura occidentale, la nostra identità, il nostro stile di vita. Mi viene in mente il paradosso della tolleranza di Popper, non possiamo tollerare gli intolleranti perché corriamo un grande rischio: una collettività caratterizzata da tolleranza indiscriminata è destinata ad essere dominata dalle frange più intolleranti presenti al suo interno".

Quaratapelle: "La lotta contro il terrorismo di matrice islamista, contro i matrimoni forzati, i delitti d’onore, contro ogni forma di oscurantismo, estremismo religioso e fanatismo, devono vedere unita la politica. In questi anni ho partecipato a varie manifestazioni di ragazze musulmane che si ribellavano a imam che avevano proibito l’uso della bicicletta alle musulmane, a iniziative di associazioni di donne musulmane contro la violenza sulle donne. Non ho mai visto esponenti della destra. Come mai? Forse perché per una certa destra è più semplice dire che tutti i musulmani sono cattivi, e così si occultano e dimenticano le giuste battaglie di donne musulmane che lottano per essere libere?".

Può esistere un islam moderato?

Giammanco: "Sono molto scettica su questo...".

Quartapelle: "Esistono gli imam che ieri in Italia emesso una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l'altrettanto tribale usanza dell'infibulazione femminile. Più che le etichette mi interessano i fatti, e questi sono fatti importanti".

Come si possono prevenire altre situazioni di questo tipo?

Giammanco: "L’Italia con il PNRR sta affrontando seriamente la questione di genere, c’è grande attenzione alla parità salariale, al gender gap, alle quote rosa, alle misure a sostegno della natalità, alla conciliazione dei tempi di vita familiare coi tempi del lavoro. Le istituzioni possono fare molto così come la scuola. Nel 2021 ci sono donne che nel nome di un credo religioso vengono ancora sottoposte a coercizione fisica e morale. Ecco, credo che la politica dovrebbe iniziare ad accendere un faro su di loro, lasciando da parte ogni ideologia per mettere in campo ogni strumento possibile per prevenire certi abusi".

Quartapelle: "Quello che colpisce del delitto di Hina, e quello che colpisce della storia di Saman, è che in entrambi i casi le ragazze, dopo un periodo di lontananza, sono tornate a casa. Ed è in quel frangente che Hina è stata uccisa e Saman è scomparso. Sono ragazze che si sono rese conto del pericolo, che hanno cercato aiuto, e che poi però hanno risposto alla chiamata della famiglia. È su questo che si deve lavorare. Sulla prevenzione, sulle misure di sostegno, e sul non lasciare mai sole queste ragazze, che vivono un dramma esistenziale che fatichiamo a capire. Queste ragazze sono ragazze che vivono divise tra la propria voglia di libertà e l’affetto che provano per la propria famiglia, per quanto questa possa essere soffocante e pericolosa. Vanno aiutate, sostenute, liberate. È a loro che dobbiamo pensare, non a fare una polemica politica basata sul nulla che non serve davvero a evitare altre morti".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”.

"Usciamo la sera e abbiamo amici italiani, così la nostra famiglia pachistana è cambiata". Karima Moual su La Repubblica il 17 giugno 2021. La famiglia Afzal a Brescia. Al centro i genitori, Muhammad e Zakia. Alla loro sinistra i figli maggiori, Hira e Noman. Alla destra le due altre figlie, Saba e Aneeqa. La storia dei fratelli Afzal, che da Brescia raccontano: "Uccidere Saman è stato un crimine. Ma è giusto scegliere un partner in accordo con i genitori. Dialogo e compromessi tra generazioni, questa è la strada per l'integrazione". La famiglia Afzal è una casa che si costruisce un giorno dopo l'altro, con cura, delicatezza, rispetto e amore. "Ma solo grazie a una dialettica, che abbiamo sempre messo al centro. Con molta pazienza, io e mia sorella, siamo riusciti a conquistarci i nostri spazi, un po' alla volta". A parlare è Noman Afzal, 21 anni, in Italia da quando ne aveva sei. Oggi va all'università ed è il primogenito. Dopo di lui tre sorelle: Hira 17 anni, Saba 16, Aneeqa 9. Una famiglia numerosa quella degli Afzal, come le tante famiglie pachistane che vivono in Italia e che si trovano di fronte a sfide e scelte importanti che la contaminazione interculturale e l'integrazione in un Paese nuovo e diverso evidentemente le porta a mettersi in gioco. Ad osservarli da vicino, ascoltandoli con attenzione, c'è tutta la forza di un processo sociologico e storico in atto dove alcuni valori si scontrano con altri, si modellano. Ma, a volte, purtroppo, si rischia di perderli di vista. Succede quando accadono fatti di cronaca come quello di Saman Abbas i cui familiari sono accusati di averla uccisa. E allora eccoci: a viaggiare al nostro fianco c'è anche un mondo in evoluzione e trasformazione come quello dentro un piccolo appartamento di una via poco distante dal centro di Brescia, dove le parole in urdu e italiano, con marcato accento bresciano, si mischiano, si accavallano entrano ed escono per spiegare, tradurre e farsi capire. "Quanto è successo a Saman è un crimine, orrore puro", spiega il papà di Noman, Muhammad, in Italia da 21 anni, oggi con la moglie Zakia grazie al ricongiungimento famigliare. "Purtroppo alcune persone provenienti da zone rurali del Pakistan, per cultura e ignoranza si comportano in questo modo, ma rischiano di travolgere tutti noi che abbiamo fatto tanti sacrifici per vivere qui, lavorare e far crescere i nostri figli. Abbiamo viaggiato, siamo qui per migliorarci e non per farci retrocedere nell'ignoranza. Tutti i nostri sforzi sono inidirizzati a far studiare i figli". Gli Afzal in Pakistan non ci vanno spesso perché ormai la loro vita è qui, a Brescia e in Italia. Ma più in là, una volta in pensione, hanno forse in mente di tornare a vivere in Pakistan? Muhammad e Zakia sono categorici: "Assolutamente no. La nostra vita è vicino ai nostri figli e loro stanno crescendo e formandosi in Italia". Spiega Noman: "Il rispetto per i genitori per la cultura pachistana è un pilastro fondante, e tutto ruota intorno alla famiglia e il suo equilibrio". "L'obiettivo - aggiunge la sorella Hira - è lavorare al meglio affinché la famiglia, con tutte le sue dinamiche, possa comunque muoversi unita nelle scelte e nelle aspettative del futuro, ma nulla può trasformarsi nella violenza verso i figli. Questa unità della famiglia che abbiamo noi pachistani viene poco capita qui, ma è importante comprenderla. Noi veniamo educati fin da piccoli all'importanza della famiglia e ne siamo molto consapevoli". È davvero incredibile come questi due fratelli, i figli più grandi degli Afsal, riescano comunque a trovare un compromesso viaggiando su due fronti. Noman spiega: "È vero che come comunità siamo chiusi, ma perché di fondo c'è un sentimento di paura verso quello che è un sistema di valori occidentali più individualista rispetto al nostro, più comunitario. Con i miei genitori, per esempio, qualche anno fa ho dovuto discutere, e non poco, per poter uscire con amici italiani e fare qualche volta tardi. La loro diventa una paura fisica che sentiamo addosso anche noi. E allora cerchiamo di attenuarla, rassicurandoli". E Hira rincara: "Mia madre è molto protettiva verso di me perché sono donna. Ha paura delle cattive compagnie, ma anche del contesto di criminalità e droga. È ossessionata dalle droghe". Noman parla proprio di questo, dell'aspetto comunitario: "È quello che misura la tua reputazione e che, di conseguenza, svolge un ruolo di controllo non indifferente". Insomma, una piccola comunità, quella pachistana, dentro una più grande, che definisce traiettorie piccole e grandi. Quella dei matrimoni combinati è una di queste. "Ci si sposa dentro la comunità etnica e religiosa, il cosiddetto matrimonio combinato fa parte della nostra cultura - spiega molto serenamente Noman -. E non ha nulla a che vedere con quello forzato. Un'iniziativa come quella delle nozze non è mai individuale, bensì condivisa con la propria famiglia". Il padre annuisce soddisfatto della spiegazione che il figlio ha dato. "La scelta del futuro marito può essere anche indicata da noi - sottolinea Hira - Poi lo si presenta ai genitori che dovranno dare il consenso". Noman puntualizza: "Quando arriverà quel momento, penso che ci consulteremo perché la mia futura moglie non vivrà solo con me, ma anche con i miei genitori. Nella nostra cultura, infatti, i genitori stanno sempre con il figlio maschio. Per questo è importante che in questa scelta ci sia accordo e unione". Ma se qualcuno dovesse innamorarsi di un partner non pachistano, cosa succederebbe? Sembra che nessuno nella famiglia Afzal ci abbia mai pensato. Hira lancia prima uno sguardo ai genitori, poi dice con onestà: "È una questione che ancora non abbiamo toccato. So però che è molto difficile e avremo bisogno di grande accortezza". Noman bolla l'argomento come bordeline per loro. Quando saranno toccati da questa evenienza sicuramente la affronteranno sempre come famiglia. Ma, per fare una scelta del genere, il primogenito degli Afzal ammette: "Dovrei essere un uomo molto indipendente, sicuro e forte perché i miei genitori mi diano fiducia in una scelta così importante". Mohammad e Zakia ascoltano e sospirano in silenzio. Sono più che consapevoli che sono ancora molte le sfide e i compromessi che li attendono. Soprattutto quando guardano le ultime due figlie minorenni, Saba e Aneeqa, nate in Italia e non in Pakistan.

Sono anch'io Pakistano!

Il Caso di Saman Abbas e la criminalizzazione di un popolo.

Saman Abbas come Sarah Scazzi. I media ignoranti ed in malafede influenzano il popolino.

Nel caso di Saman o di Sarah non si sta dalla parte della vittima, ma da odiatori e razzisti seriali si sta contro un popolo. Milioni di pakistani equiparati a singoli personaggi ignoranti e retrogradi, che nulla hanno a che fare con la religione o la civiltà del loro paese. Un nucleo familiare non è un popolo. Ogni individuo è diverso da un altro, così ogni famiglia è diversa dall’altra. La differenza la fa l’ignoranza.

I Pakistani come gli avetranesi. Per i media si è tutti assassini e ignoranti…a prescindere.

Antonio Giangrande, avetranese doc

LA TRAGEDIA DI NOVELLARA. Il caso di Saman. Saman, il caso sulla stampa pakistana, boom di post: «Noi non siamo così». La notizia della sparizione della ragazza sul Dawn. I lettori commentano in massa. Silvia Maria Dubois su Il Corriere della Sera/di Bologna l'8 giugno 2021. «Si teme sia morta una ragazza pakistana, in Italia, dopo il rifiuto delle nozze combinate con il cugino». Titolava già così il 29 maggio il Dawn, uno dei giornali più popolari del Pakistan, dove è tornata la famiglia di Saman Abbas, dopo la sua “sparizione”. «La polizia sta cercando il corpo della diciottenne” prosegue l’articolo, che elenca, passo dopo passo, quello che sta succedendo a Novellara City: la fiaccolata per Saman, le ricerche nei canali, le novità del comando. Non solo: la stampa pakistana sembra non censurare nulla, parlando anche del rientro affrettato della famiglia in patria. A questo articolo, uno fra i più lunghi sul caso, seguono i commenti dei lettori pakistani.

«Questa non è la nostra cultura». «Purtroppo un’altra regolare storia di donna pakistana” scrive un utente. “Un’altra giovane donna vittima di tutto questo: ma gli assassini saranno puniti qui in Pakistan?”. C’è chi mette in chiaro: “Che un caso isolato di tragico delitto non rifletta la cultura di un intero Paese».. «Stessa storia di pakistane, in qualsiasi posto siano». «Lei era italo-pakistana» gli fa eco un altro lettore. «Probabilmente voleva sposare un ragazzo bianco italiano del posto - è la cinica osservazione di un lettore del Dawn -. Visto e residenza accettabili ma non matrimonio». Frasi che vanno in rotta di collisione: «Ascoltiamo i tuoi pensieri illuminanti!» è la risposta piccata. «Questo concetto dell’età della pietra dell’onore al di sopra della vita dovrebbe essere bandito - è la risposta - e tutti coloro che credono in questa ideologia malata devono essere cacciati dalla nostra società». La discussione si fa sempre più accesa, fra rabbia e orgoglio: «Perchè permettono ai pakistani di entrare in Europa?».

«Devono pagare». L’immagine di un Pakistan che non va bene ai giovani lettori del quotidiano torna a farsi sentire, in decine di post: «Matrimonio forzato per una ragazza di 18 anni in terra straniera e fuga dalla criminalità?!! Queste persone danneggiano l’orgoglio di tutta la nazione. Devono essere punite». Il botta e risposta prosegue sulla «cultura da rifiutare», «una mentalità vergognosa» e sulla speranza che gli «Abbas vengano rispediti in Italia per pagare». «Io chiedo ai genitori dove trovano negli insegnamenti islamici (ammesso che siano cosiddetti musulmani) per costringere una ragazza a sposarsi contro la sua volontà. L’Islam non consente e un Imam non può eseguire Nikah (ordine religioso) senza ottenere il consenso di entrambi». E i post in queste ore salgono ancora di numero. «Preghiamo per lei».

L’omicidio di Saman sulla stampa pakistana, i commenti contro la famiglia della ragazza: «Questo non è l’Islam, sono ignoranti… l’Italia li punisca». Redazione l'8 giugno 2021 su open.online. «Assolutamente nauseante». Pioggia di commenti sul quotidiano «Dawn» dopo la pubblicazione della notizia del presunto omicidio della 18enne. Il quotidiano online Dawn, il giornale più diffuso e antico del Paese, fondato da Muhammad Ali Jinnah, padre fondatore del Pakistan, ha pubblicato il 29 maggio la notizia del caso della 18enne di Novellara, Saman Abbas, scomparsa nelle scorse settimane, e su cui la Procura sta indagando i due cugini e lo zio. Le pagine del giornale hanno riportato anche l’episodio dello scorso anno, quando Saman Abbas si ribellò alla famiglia che voleva farla sposare attraverso un matrimonio combinato. I commenti sotto l’articolo chiedono di non credere che la cultura e la tradizione del Paese sia uniforme: «Spero che un singolo caso di delitto d’onore non sia proiettato come riflesso della cultura di un paese», scrive un utente. «Matrimonio forzato per una ragazza di 18 anni in terra straniera e fuga dalla criminalità? Queste persone danneggiano l’orgoglio di tutta la nazione. Deve essere punito».

«Spero e prego che venga ritrovata illesa. Non molliamo. Ma se è stata vittima di un delitto d’onore – scrive un altro lettore – allora il governo italiano dovrebbe fare di tutto per portare davanti alla giustizia tutti coloro che erano coinvolti. Vorrei anche chiedere ai genitori dove trovano negli insegnamenti islamici (ammesso che siano veri musulmani) indicazioni per costringere una ragazza a sposarsi contro la sua volontà». Dopo aver saputo che i genitori si sono rifugiati in Pakistan alcuni chiedono che venga «negato loro l’ingresso nel Paese e che vengano rimandati in Italia fino al completamento delle indagini. Assolutamente nauseante». 

E sui genitori, e sul presunto omicidio, alcuni scrivono: «È uno strano mistero come possano avere il coraggio di uccidere le proprie figlie e poi scappare per proteggere il loro onore già morto con le loro figlie?». Sulla cultura pakistana e quella occidentale un utente osserva che: «L’assimilazione non significa rinunciare alla tua religione e cultura. Molti Paesi occidentali si stanno sviluppando come società multiculturali. Questo omicidio, tuttavia, è probabilmente basato su pratiche ignoranti che spingono le persone a imporre la loro volontà ai figli e vedono le donne come proprietà».

“I matrimoni forzati sono crimini, in Italia come in Pakistan”. Chiara Tassi e Jessica Bianchi l'11 Giugno 2021 su temponews.it. Un aiuto, quello offerto a Saman Abbas dalle istituzioni, evidentemente non del tutto adeguato: “credo - spiega Hasnain Harif, componente della Consulta per l’Integrazione di Carpi - che in casi delicati come questi occorra l’intervento di un mediatore culturale. Di qualcuno che conosca bene il contesto famigliare e nazionale, che sapendo quali sono le usanze del paese d’origine sia immediatamente in grado di intercettare segnali preoccupanti. Forse l’aiuto di un rappresentante pachistano avrebbe evitato la tragedia poiché consapevole di certe dinamiche”. “Il matrimonio forzato è considerato un crimine non solo in Italia ma anche in Pakistan e in quanto tale viene perseguito a livello governativo mentre a livello religioso non è ritenuto valido. Le unioni forzate rappresentano ormai delle eccezioni e resistono solo per motivi di interesse famigliare anche se questa non è certo una giustificazione, in considerazione della loro gravità. Cultura e religione comunque non c’entrano nulla”. A parlare è Hasnain Harif, pachistano arrivato nel nostro Paese nel 1999 a soli sei anni nonché componente della Consulta per l’Integrazione di Carpi.

Ma qual è il limite tra matrimoni combinati e forzati? Quando questo confine sottile viene superato, rischiando poi di sfociare in tragedia qualora la promessa sposa si opponga alle nozze?

“Quella dei matrimoni combinati – spiega Hasnain Harif – è una pratica rarissima in Italia poiché sempre più rifiutata dalle seconde generazioni e sta scomparendo anche in Pakistan. Nei casi in cui vengono celebrati c’è il consenso di entrambi gli sposi: i coniugi decidono cioè di avallare la scelta che i genitori hanno fatto per loro ma ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, sono i giovani sposi a scegliersi in autonomia”.

Ma allora a cosa sono imputabili tragedie come quella del 2010 a Novi di Modena, quando la pachistana Nosheen Butt, venne picchiata a sangue dal fratello perché si era rifiutata di sposare l’uomo scelto per lei, mentre la madre Shahnaz Begum fu assassinata dal marito e dal figlio per averla difesa? Di quale cultura arcaica e patriarcale è figlio l’omicidio e l’occultamento del corpo della giovane Saman Abbas, a Novellara?

Per Hasnain Harif tali fatti di sangue non sono riconducibili a “una matrice culturale o religiosa. Non è un fatto di nazionalità. Sono crimini e basta. Come il femminicidio, lo stupro… Frutto di deformazioni mentali. In alcuni sopravvive un presunto concetto di onore secondo cui è necessario far vivere la propria figlia in un determinato contesto, una percezione distorta che può portare a scelte terribili e ad atti criminosi come nel caso di Nosheen e Saman”.

Come Consulta per l’integrazione, spiega Hasnain Harif, “dove è presente una grande rappresentanza di donne straniere di tutte le nazioni e confessioni religiose, stiamo facendo diversi sforzi per promuovere il ruolo attivo delle donne nella vita quotidiana e aiutare chi si trova in situazioni difficili”. 

Un aiuto, quello offerto a Saman dalle istituzioni, evidentemente non del tutto adeguato: “credo – sottolinea Harif – che in casi delicati come questi occorra l’intervento di un mediatore culturale. Di qualcuno che conosca bene il contesto famigliare e nazionale, che sapendo quali sono le usanze del paese d’origine sia immediatamente in grado di intercettare segnali preoccupanti.  Forse l’aiuto di un rappresentante pachistano avrebbe evitato la tragedia poiché consapevole di certe dinamiche, lo abbiamo fatto presente all’Amministrazione di Novellara”.

Il processo di integrazione è ancora in corso, “io mi sento 100 percento italiano e così i miei bambini. Le seconde generazioni stanno crescendo e raggiungendo la maturità, si sentono italiane ma fanno ancora i conti con le tradizioni e la cultura del paese d’origine dei propri genitori. Le cose cambiano, seppur lentamente, e in tanti altri paesi europei questi problemi sono stati superati da anni e non si registrano più casi di violenza in famiglia. E’ un processo di cambiamento che va assistito e aiutato e che necessita di tempo per completarsi del tutto”. 

Chiara Tassi e Jessica Bianchi 

Il caso di Saman Abbas non c’entra con l’islam. La scomparsa della 18enne di origini pakistane sta venendo strumentalizzata dalla destra. Ma farla passare per una questione di religione vuol dire ignorare un problema ben più presente nella nostra società: quello della cultura patriarcale, della violenza sulle donne, dei femminicidi. Viola Serena Stefanello su rollingstone.it il 9 giugno 2021. Aveva 18 anni, viveva da anni a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, e di lei da fine aprile non c’è traccia. Quello di Saman Abbas, giovane di origini pachistane che a dicembre aveva denunciato i familiari che la volevano dare in sposa in un matrimonio combinato, è ancora un caso aperto, ma tutti gli indizi per ora sembrano puntare verso una conclusione atroce: un femminicidio a sangue freddo, avvenuto con il beneplacito della famiglia della ragazza. Un delitto d’onore, come quelli che anche in Italia accettavamo con pene meno severe fino all’inizio degli anni Ottanta. Secondo le ricostruzioni, basate pesantemente sui racconti del fratello 16enne e del fidanzato di Saman, su alcune telefonate e messaggi ottenuti dagli inquirenti e su delle immagini di videosorveglianza, la ragazza sarebbe tornata nella casa di famiglia a Novellara, forse per cercare di riavere i propri documenti, lasciando la struttura gestita dai servizi sociali nel bolognese dove era ospitata dopo essere sfuggita al matrimonio combinato con un cugino. Saman è nella sua cameretta e messaggia con il fidanzato dal cellulare rubato alla madre. Gli scrive che da lì riesce a sentire la sua famiglia che parla di ucciderla: “l’ho sentito con le mie orecchie, giuro che stavano parlando di me”, gli scrive. “Se non mi senti per 48 ore avverti le forze dell’ordine”. Poi scompare. Ad occuparsi materialmente di uccidere Saman sarebbe stato lo zio Danish, che probabilmente la strangola prima di nasconderne il corpo. Il fratello gli domanda dov’è seppellita, perché vorrebbe abbracciarla un’ultima volta, ma lo zio si rifiuta di dirglielo. I genitori partono per il Pakistan poco dopo. Il fratello prova a scappare in Francia, spaventato dalle intimidazioni dello zio, che gli dice che avrebbe ammazzato anche lui se avesse detto qualcosa alle forze dell’ordine. Ma viene fermato in un controllo vicino ad Imperia, e cede. “Mio zio Danish ha ucciso Saman. Ho paura di lui, perché mi ha detto che se io avessi rivelato ai carabinieri quanto successo, mi avrebbe ammazzato”, avrebbe raccontato agli inquirenti secondo una ricostruzione del Corriere della Sera. “Ho pensato anche di ucciderlo mentre dormiva, visto ciò che ha fatto. Ma poi ho pensato che sarei finito in prigione. Ed era meglio che intervenissero i carabinieri”. Mentre le indagini si chiudono sui campi vicini alla casa degli Abbas, dove potrebbe essere stata sepolta Saman, il giudice per le indagini preliminari Luca Ramponi afferma che la ragazza sarebbe stata uccisa “per punirla dall’allontanamento dai precetti dell’islam e per la ribellione alla volontà familiare, nonché per le continue fughe di casa”. Sul caso sono balzati presto diversi esponenti politici e testate di destra, secondo cui la morte di Saman andrebbe letta in luce del fondamentalismo islamico e dell’incapacità degli immigrati di rispettare le leggi italiane. Ignorando utilmente non soltanto che anche in Pakistan sono illegali gli omicidi d’onore e i matrimoni forzati – sebbene il governo faccia fatica a far rispettare la legge nelle comunità più patriarcali, dove sistemi giuridici paralleli ed illegali hanno spesso l’ultima parola – ma anche la decisione inedita, da parte del presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, di emettere una fatwa contro i matrimoni combinati. Una decisione volta a sottolineare una “cultura del rispetto, della tutela e della sacralità della vita delle persone” da parte della schiacciante maggioranza della comunità musulmana in Italia, che conta 1,7 milioni di credenti. “Dovremmo affrontare la vicenda e discuterne principalmente come violenza sulle donne, come una terribile violazione dei diritti umani”, ha risposto Marwa Mahmoud, attivista femminista musulmana e Consigliera comunale del Comune di Reggio Emilia.  “Parlare di questo crimine associandolo unicamente all’origine, alla nazionalità e alla fede della famiglia sarebbe un gravissimo errore. Una semplificazione che finirebbe per etnicizzare un reato che è quello dei matrimoni forzati”.

L'integrazione che non c'è: "I casi come Saman in aumento". Rosa Scognamiglio e Francesca Bernasconi il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dal caso di Saman Abbas alle altre ragazze straniere vittime di maltrattamenti familiari: "I matrimoni forzati sono in crescita, bisogna applicare la legge". Come denunciare e fare prevenzione. Nella notte tra il 30 aprile e il 1°maggio 2020 Saman Abbas, una 18enne pakistana, scompare da Novellara, una tranquilla cittadina in provincia di Reggio Emilia. In procura viene aperto un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere. Secondo gli investigatori, la ragazza sarebbe stata vittima di una congiura familiare dopo essersi opposta al matrimonio forzato col cugino in Pakistan: uccisa, "fatta a pezzi" e sepolta. Alla luce delle evidenze raccolte, i genitori di Saman con anche lo zio e due cugini sono stati iscritti nel registro degli indagati. Il caso del presunto delitto d'onore ai danni della neodiciottenne ha squarciato il velo di omertà sulla pratica dei matrimoni forzati dell'Islam radicale. Una consuetudine che sta rischiando di mietere vittime silenziose, perlopiù minorenni straniere, anche in Italia. "Negli ultimi mesi stiamo accogliendo giovani ragazze straniere, anche adolescenti, che hanno vissuto delle dinamiche familiari molto simili a quelle di Saman. È un sommerso che sta venendo alla luce solo da qualche settimana ed è un grande dramma", rivela in forma anonima alla nostra redazione la responsabile di una casa rifugio del Milanese.

Il punto sulle ricerche di Saman Abbas

Il cadavere di Saman Abbas - posto che sia confermata l'ipotesi delittuosa ventilata dagli inquirenti - non è stato ancora ritrovato. Dopo cinque mesi di ricerche tra le campagne di Novellara, con l'impiego unità cinofile specializzate e scanner georadar, si brancola nel buio. Sul fronte delle indagini però ci sono delle novità. Il prossimo 24 novembre, si deciderà in Corte d'Appello a Parigi sulla estradizione dello zio Danish Hasnain, considerato dagli inquirenti "l'esecutore materiale del delitto". Nessun aggiornamento invece circa la richiesta di estradizione dal Pakistan di Shabbar Abbas e Nazia Shasheen, i genitori di Saman. Le autorità pakistane hanno assicurato all'Italia "il massimo impegno" per accelerare i tempi. Infine resta in carcere Ikram Ijaz, uno dei due cugini indagati per il presunto omicidio mentre sull'altro sospettato, Nomahulaq Nomahulaq, spicca un mandato di arresto internazionale.

L'Articolo 18bis

"Saman si doveva e si poteva salvare". A dirlo è Ebla Ahmed presidente dell’associazione nazionale Senza Veli Sulla Lingua, che si occupa di contrastare la violenza di genere in tutte le sue forme e manifestazioni. "Colpisce il fatto che nella vicenda Saman Abbas quasi nessuno abbia utilizzato il termine femminicidio, pur solitamente legato a ogni fatto simile. Come mai? - dice Ebla Ahmed alla nostra redazione - Che differenza c’è tra la mano di un padre di uno zio e quella del marito? Che sia la mano di un marito, convivente, fidanzato o di un ex non cambia nulla. Questo delitto va classificato come femminicidio, non si può sottovalutare la situazione e ridimensionarla. Non accetto che vengano deviate le vere responsabilità sulla morte di questa ragazza. La giovane aveva avuto il coraggio di denunciare ma non ha ricevuto protezione. La si doveva isolare dalla famiglia perché è in quel contesto che è andata incontro alla morte". Saman aveva denunciato per maltrattamenti i suoi genitori già alla fine del 2019, quando era ancora minorenne. Un grido d'aiuto coraggioso, e al contempo disperato, che sembrerebbe non averla preservata dal piano diabolico ordito alle sue spalle. "Saman aveva cominciato a denunciare la sua situazione di vittima di violenza domestica ben sette mesi fa - continua Ebla Ahmed - Aveva dichiarato espressamente che veniva tenuta segregata in casa dal padre, che non le veniva data la possibilità di studiare, che non aveva la libertà di frequentare amici, che le veniva impedito di vestirsi a suo piacimento, e per di più riceveva percosse in famiglia. Vessazioni incredibili a cui si è aggiunta poi anche la volontà paterna di imporre alla giovane un matrimonio forzato dopo una lunga serie di atti persecutori perpetrate ai danni della giovane". L'articolo 18bis del Testo Unico per l'Immigrazione prevede la proroga di 6 mesi del permesso di soggiorno per le donne straniere che necessitano di protezione, laddove ne fosse a rischio l'incolumità. "L’articolo 18 bis ha dato attuazione all’articolo 59 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica e introduce il rilascio dello specifico permesso di soggiorno alle vittime degli atti di violenza perseguiti dalla Convenzione – precisa la presidente dell'associazione Senza Veli Sulla Lingua – Saman poteva essere salvata se solo si fosse applicato l’articolo 18 bis del testo unico di immigrazione, che tutela le donne immigrate dalla violenza e che si applica quando siano state accertate situazioni di violenza o abuso nei confronti di una straniera".

L'allarme dei matrimoni forzati

Ogni giorno decine di ragazze straniere sono vittime di maltrattamenti domestici. Una violenza che trova terreno fertile nei contesti familiari regolati da rigidi dettami comportamentali e pratiche ancestrali, come l'induzione alle nozze. In Italia il fenomeno del matrimonio forzato è in repentino aumento, nel mondo si contano ben 700milioni di casi. "Il fenomeno dei cosiddetti matrimoni forzati in Italia è in forte aumento per la presenza nel nostro paese di culture multietniche ma ancora è un fenomeno sommerso - spiega alla nostra redazione l'avvocato Adalgisa Ranucci - Infatti non abbiamo dati statistici precisi. Sono le Nazioni Unite a dirci che nel mondo sono oltre 700 milioni di donne che sono costrette a contrarre matrimonio contro la propria volontà". Non solo donne costrette al matrimonio, ma spose bambine. "In Italia solo nel 2019, con la legge 'Codice rosso' è stata prevista una disciplina specifica per contrastare questo fenomeno. Infatti è stato introdotto l'articolo 568 bis nel codice penale che prevede che chiunque costringa con violenza o con minaccia un soggetto a contrarre matrimonio venga punito con la reclusione da 1 a 5 anni. La pena aumenta da 2 a 7 anni nel caso in cui i fatti commessi siano ai danni di minore di 14 anni". La portata innovativa del Codice rosso è stata soprattutto quella "di essersi adattato alla normativa sovranazionale e agli altri ordinamenti europei – conclude l'avvocato Ranucci - un segnale di ribellione nei confronti di quella violazione dei diritti fondamentali che colpiscono le fasce più deboli, quali i minori, dando luogo a quel terribile fenomeno delle spose bambine".

Formazione e istruzione: così si può prevenire la violenza

Saman Abbas, Hina Saleem, Sana Cheema. Nomi tristemente noti, a cui se ne potrebbero aggiungere tanti altri, vittime di una violenza cieca, che non accetta un rifiuto. È la violenza che subiscono le donne uccise perché si sono opposte a un matrimonio forzato, ma anche quella che ha lasciato senza vita le compagne, le mogli o le fidanzate di uomini abituati a mantenere il controllo su tutto. Una spirale di violenze da cui non è facile uscire. "Le donne che si rivolgono a noi sono molto spaventate e attraversano un momento della loro vita difficile e ambivalente - spiega a IlGiornale.it Annalisa Cantù, counselor dell'associazione Senza Veli sulla Lingua - nel senso che da una parte c’è la violenza e dall'altra c’è una ricerca del coraggio di denunciare. Una donna che arriva da noi è una donna che è riuscita a fare questo percorso e a dire a se stessa: ‘Mi devo salvare’". Anche Saman era riuscita a fare questo percorso: "Era una vittima di violenza - ha sottolineato Ebla Ahmed - non andava a scuola, non poteva vestirsi come voleva e subiva maltrattamenti". Ma c’è un modo per prevenire queste forme di violenza? "Bisogna istruire i ragazzi e le ragazze", dice Ebla che, riferendosi in particolare alla "terribile usanza" del matrimonio forzato, aggiunge: "È un’usanza che va combattuta con l’istruzione nelle scuole dell’obbligo, nei centri di culto delle varie religioni e con la creazione di una rete di protezione che funzioni, per questo gli addetti ai lavori devono essere formati e informati". La violenza, però, non è legata solo al fenomeno del matrimonio combinato. Per questo, è importante fare prevenzione per ogni forma di violenza e non solamente alle persone direttamente interessate: "Noi come associazione lavoriamo anche con progetti che andiamo a proporre nelle scuole, non solo mandando un esperto a parlare, ma proponendo dei laboratori dove i ragazzi possono confrontarsi - racconta Annalisa Cantù - E si fa formazione anche a ragazzi e ragazze che non hanno nello specifico questo tipo di problema, ma devo essere formati culturalmente". Il fenomeno della violenza non è per forza legato a un fattore culturale: "Non sempre la violenza nasce da una mentalità religiosa e integralista - aggiunge Cantù - anche in Italia assistiamo al problema di uomini che hanno la sensazione che gli sfugga il controllo e qualche volta si arriva alla violenza". La formazione nelle scuole rappresentata un punto di partenza importante, "che non è sufficiente", ma può essere fondamentale per avviare il percorso di prevenzione.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera. 

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo

Saman Abbas, la casta, l’onore e la piaga dei matrimoni combinati. “Il vero nemico è il patriarcato e la nostra società che nega diritti e sostegno”. Riccardo Bottazzo su meltingpot.org il 13 giugno 2021. Ha pianto disperatamente, il padre di Saman, quando i familiari carnefici gli hanno annunciato che sua figlia era stata macellata. Quegli stessi carnefici ai quali lui l’aveva consegnata. Ha pianto anche la madre di Saman, ripetendo che “purtroppo non c’era altro da fare”. La rispettabilità della famiglia, i doveri della casta sono stati rispettati. Il “cosa dirà la gente” andava fatto tacere. Non era concepibile agire altrimenti. Non è la prima ragazza pakistana che si era rifiutata di sottostare ad un matrimonio combinato, Saman, ad essere uccisa per l’onore e per la tradizione. Solo un paio d’anni fa, un’altra ragazza ribelle aveva anticipato la sorte di Saman. Sono in pochi oggi a ricordarsi della vicenda di Sana Cheema, di Brescia. Anche in quel caso, la madre piangeva e spiegava, disperata, che suo marito non era cattivo. Che lo aveva dovuto fare. A differenza di Saman, questa giovane era stata portata di forza in Pakistan, e là uccisa. E la giustizia di questo Paese ha assolto i suoi carnefici. Anche per i giudici pakistani si è trattato di un atto spiacevole ma che doveva essere compiuto.

Wajahat, regista ribelle. Sulla storia di Sana intervistai Wajahat Abbas Kazmi, regista ribelle di origini pakistane che mi spiegò come funzionano le caste, l’elemento centrale su cui ruota il sistema patriarcale pakistano, e quanto pesa, soprattutto per le comunità che si costituiscono all’estero, in piccoli paesi della provincia, la rispettabilità delle famiglie: “Per la comunità pakistana questi sono considerati delitti d’onore che rientrano semplicemente nei doveri di un genitore. Non parlo solo del padre ma anche della madre che, non solo lo giustifica, ma è sempre complice. Se non hanno loro il coraggio di uccidere la figlia ribelle, spetta ai cugini o agli zii eseguire. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema, ma a pagare con la vita sono quasi sempre solo le donne. Sin da piccole viene costruita attorno a loro una gabbia dalla quale non riescono ad evadere. Come fa una bambina a pensare che la madre ed il padre a cui vuole tanto bene, da grande possano ucciderla? Tutta la famiglia diventa una trappola mortale che non lascia scampo alla vittima. Quelle che vengono mandate a frequentare le scuole superiori sanno già che dovranno sposarsi con un parente indicato dalla famiglia. Alcune vengono forzate a sposarsi già prima. Il padre dice loro che se vogliono andare a scuola prima si devono sposare. Così non scappano più. Tarpano loro le ali prima di farle uscire dal nido. Sono comportamenti difficili da spiegare agli italiani”. Per le famiglie, il matrimonio combinato è anche una questione economica. Un modo per tenere insieme i beni della famiglia, intesa in senso allargato, e aiutare coloro che sono rimasti in Pakistan che magari hanno contribuito alle spese del viaggio che non sono mai indifferenti. Non è un caso che le coppie forzate vengano quasi sempre formate tra cugini di secondo e anche di primo grado. La religione, diciamolo subito, non c’entra niente. Anzi, a volerla dire tutta, per l’islamismo il sistema della casta è una bestemmia, considerato che Maometto stesso le ha proibite. “In Pakistan non sanno una minchia di cosa sia il Corano! - mi ha spiegato ridendo Wajahat - È scritto in arabo e in arabo siamo obbligati a leggerlo ma nessuno di noi parla l’arabo! Quando studiamo il Corano ripetiamo a memoria delle frasi senza capirle! Dell’Islam sappiamo quello che ci viene raccontato e quello che ci viene raccontato è solo l’aspetto maschilista e patriarcale”. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema ma loro viene concessa sempre una scappatoia. “I maschi possono frequentare gli italiani - mi ha spiegato Wajahat -. Se hanno una storia, nessuno li accusa di nulla. Basta che la tengano fuori dalla comunità. Anzi, viene ammirato come uno che si da da fare con le donne italiane che, si sa, non nutrono una buona reputazione. Alle ragazze tutto questo non viene concesso. E poi mi incazzo quando sento ripetere da certi personaggi italiani che si definiscono di sinistra che bisogna rispettare le culture di tutti, che bisogna evitare di dare giudizi su pratiche come i matrimoni combinato o il burka! Che idiozia! Come si fa a dire che questa è liberà? Come si fa a dire che le donne pakistane o bengalesi sono sottomesse perché amano essere sottomesse per tradizione? Su questo tema, certa sinistra non capisce un tubo proprio come la destra. Accoppare la figlia perché non si vuole sposare con chi decidi, non è cosa che si possa giustificare con la cultura! Ma donne che si ribellano, in Italia come in Pakistan ce ne sono, e sono sempre di più. Aiutiamole!”

Fidanzata con un pakistano. Laura B, studentessa di legge di Bologna, è stata per due anni fidanzata con un ragazzo di origine pakistane. “Lui viveva due vite diverse. Aveva anche due profili completamente distinti nei social. Era nato in Italia e aveva la cittadinanza, così come i suoi genitori che venivano dal nord del Pakistan e vivono in un piccolo comune emiliano. Con me e con il mio gruppo di amici faceva l’italiano e manifestava idee politiche avanzate. Quando tornava in famiglia, cambiava completamente. Non mi ha mai voluta presentare ai suoi e se, fuori da Bologna, incrociavamo pakistani faceva finta di non conoscermi. Parlavamo di sposarci, non appena fossi laureata. Poi un giorno lo hanno portato in Pakistan con la scusa di far visita alla nonna che viveva ancora là. Era tutto pronto a sua insaputa e lo hanno fatto sposare con una sua lontana cugina che neppure conosceva. Quando è tornato a Bologna mi ha cercata per dirmi che ora lui era più libero. Che con sua moglie doveva farci solo dei figli. Che noi potevamo ricominciare come prima. Ovviamente io l’ho mandato a…”

Storia di Nazia. Le caste e i matrimoni combinati, se penalizzano anche i ragazzi, rimangono comunque funzionali al mantenimento di un sistema patriarcale. La storia di Nazia, che abbiamo già raccontato su Melting Pot, è esemplare di quanto accade a tante donne pakistane. Fatta sposare “rispettando la casta e la famiglia”, Nazia è stata spedita in Italia come un pacco postale. Il marito, con cittadinanza italiana, l’ha tenuta segregata in casa come si usa, per dieci anni. Manco la spesa da sola poteva fare e io ricordo ancora la sua felicità e sorpresa quando, per la prima volta, è entrata in un supermercato. Con quell’uomo, Nazia ha avuto due figli, cittadini italiani. Poi, quando si è stufato di lei e si è trovata una nuova compagna (questo agli uomini è concesso), le ha sequestrato tutti i documenti, compresi quelli dei bambini, l’ha riportata dal fratello con la solita scusa della visita alla famiglia e l’ha abbandonata là. Il suo destino sarebbe stato quello venir sposata una seconda volta. Ma una donna che ha già contratto matrimonio è merce scaduta. Sarebbe finita in una casa con un marito anziano con almeno due o tre mogli già a carico, a far da serva. Per i suoi figli, non riconosciuti dal nuovo marito, sarebbe andata ancora peggio perché la nuova famiglia li avrebbe sbolognati il prima possibile e senza dote. E’ questo il fenomeno che sta alla base delle spose bambine. A Nazia è andata bene. Ha trovato il coraggio di ribellarsi e di scappare. Delle attiviste dell’associazione PortoAmico, l’hanno aiutata a recuperare i figli ed a tornare in Italia, grazie all’escamotage che i bimbi, pur senza documenti, erano cittadini italiani. Altrimenti non ci sarebbe stato nulla da fare. Così come è per le tante Nazie che non hanno avuto questa fortuna, donne sposate a forza e poi rispedite in Pakistan con un destino di umiliazioni e vendette trasversali. E c’è da sottolineare che leggi come quelle sulla sicurezza che hanno allungato e complicato l’ottenimento della cittadinanza non hanno fatto altro che il gioco di questo sistema patriarcale, penalizzando le vittime e aiutando i carnefici. Ma questo, chi le ha scritte lo sapeva bene, giusto?

Pakistano e gay. Ho conosciuto T. H. - giovanotto di origini pakistane e nato in Italia - qualche tempo fa ad un concorso di poesia dove si era classificato tra i primi cinque autori premiati. Due anni dopo l’ho ritrovato per puro caso in una città di cui non farò il nome. Era in fuga. “Sono riuscito a scappare da casa solo perché sono un uomo e di casta alta. Mi volevano obbligare a sposare una cugina. Ma io sono gay e ho già un ragazzo. Mi dicevano che non importava, che una volta sposato potevo fare quello che volevo ma che la famiglia mi imponeva di sposare questa mia cugina che era ancora in Pakistan. Io l’ho sentita via Skype - di nascosto perché parlare con la futura moglie è vietatissimo -. Neanche lei voleva sposarmi. Così ho deciso di scappare quando ho visto che mi avevano comperato il biglietto per Islamabad. Siccome sono un uomo, ero io gestire i miei documenti. Per le ragazze invece spetta al padre conservarli e loro non ne possono entrare in possesso. Sono un’arma di ricatto. Poi, essere di casta alta - non che la cosa a me importi, eh? - mi ha aiutato nella fuga perché quelli più in basso non possono permettersi di agire contro di me, perlomeno non immediatamente. Così sono scappato. Adesso vivo qui. La città è grande e, grazie a dio, non c’è una comunità pakistana strutturata. Ho trovato un lavoro e il mio ragazzo mi ha raggiunto. Ma ho ancora paura della vendetta della famiglia, continuo a nascondermi e se posso non uso il mio nome. Ho terrore di sapere cosa possano aver fatto a quella povera ragazza rimasta ad Islamabad. Le vendette in Pakistan sono sempre trasversali”.

Il dramma della seconda generazione. Le ragazze ed i ragazzi di seconda generazione vivono una doppia vita che causa loro grandi sofferenze: italiani in classe e pakistani in famiglia. Sono tante le ragazze che cercano di ribellarsi, che vorrebbero continuare gli studi, lavorare, essere indipendenti e scegliere da loro la loro vita. Drammi ai quali la società è indifferente. “La cosa peggiore è l’indifferenza degli italiani. Il loro non voler capire - mi ha spiegato un giovanotto pakistano di nome Hamed -. Gli basta che lavoriamo e che non nutriamo pretese, comprese quelle sindacali, e va tutto bene”. Il padre non manda più la figlia a scuola? Ho sentito presidi rispondere che spetta al genitore decidere sulla figlia, dopo gli anni dell’obbligo. Il padre ed i fratelli non permettono alla ragazza di frequentare educazione fisica perché il futuro marito potrebbe avere da ridire? Ci sono prof che si considerano progressisti che ti spiegano che bisogna rispettare le loro culture! Poi ci sono i cosiddetti mediatori culturali pakistani. Fanno comodo alle amministrazioni perché tengono sotto controllo le comunità ma a che prezzo avvenga questo controllo non gliene importa niente a nessuno.

Come Saman. Storie come quelle di Saman, sono frequenti in chi lavora all’interno della comunità pakistana. Racconta Grazia Satta, attivista di PortAmico, che ha lavorato tanti come professoressa in una superiore di Portomaggiore, in classi con alta densità di studenti di origine pakistana: “Capita che anche le mediatrici di cui ti fidi e che ritieni in gamba facciano il doppio gioco. Si è rivolta a me una ragazza che, come Saman, non voleva accettare il matrimonio combinato perché era innamorata di un ragazzo pakistano che aveva conosciuto a scuola. Il padre l’aveva chiusa in casa ed io ho chiesto aiuto alla mediatrice pakistana. Ma le cose non si muovevano. Quando sono riuscita a rimettermi in contatto con Sarah, chiamiamola così, questa mi ha detto, impaurita, che la mediatrice faceva il gioco della famiglia! Sarah, si è salvata perché ha rinunciato ai suoi progetti. Quando ho interpellato la mediatrice, questa mi spiega che la ragazzina è viziata e che il padre è un buon padre e che sa lui cosa è meglio per la figlia. O forse pretendevo di conoscere meglio io, che non sono pakistana, la situazione? La notte prima dell’inizio dell’esame di maturità Sarah mi manda un messaggio: ‘se non sarò a scuola mandate i carabinieri a casa, mio padre non vuole che io mi diplomi e mi ha chiuso in casa’. Il padre ha intercettato il messaggio, ma ha avuto paura dei carabinieri e le ha permesso di venire a scuola. Ma poi Sarah ha dovuto cedere e accettare il matrimonio”. “Sarah dopo il matrimonio è tornata in Italia e ci siamo incontrate ad una festa - continua Grazia -. Mi ha abbracciato, mi ha detto che stava bene, che ora la famiglia l’amava e che era contenta. Poi improvvisamente si è tolta la maschera e ha cominciato a piangere a dirotto. Mi ha confessato che era disperata e mi ha confessato che, prima di sposarsi, aveva proposto al suo ragazzo di fuggire assieme. "Ma lui non ha avuto il coraggio. Diceva che ci troveranno e ci ammazzeranno entrambi". Poi Sarah ha smesso di parlare e ha continuato solo a piangere”.

Società infettate dal patriarcato. All’interno della comunità e all’ombra del patriarcato si sviluppano relazioni sociali malate. E’ una costante di tutte le comunità patriarcali. Il maschio che non sa imporre la sua autorità diventa l’oggetto di chiacchiere, risate malevole, fino ad arrivare ad un vero e proprio mobbing. E anche la moglie e i figli ne subiscono le conseguenze perché sono moglie e figli di un uomo che non sa fare l’uomo. La ribellione di una giovane figlia è la cosa peggiore che possa capitare in questi contesti. tutta la famiglia sarà esclusa dalle relazioni sociali e additata con disprezzo e malevolenza. Tutto questo avrà conseguenze anche per i parenti che vivono in Pakistan. In ambienti piccoli dove le comunità ricostruiscono un Little Pakistan, l’effetto è devastante. Lo è molto meno, per fortuna, nelle città dove le relazioni interculturali hanno maggiori occasioni per svilupparsi. Ma non è un uso che gli omicidi capitino in paesi piccoli dove si registra una grande percentuale di migranti.

Dalla parte di chi si ribella. “Su queste situazioni - conclude Grazia Satta - i servizi sociali sono impreparati, il più delle volte non sanno neppure che esistono le caste e i matrimoni combinati, non capiscono queste relazioni mai codificate e sotterranee, non hanno mezzi per intervenire e hanno anche paura di essere attaccati da destra e pure da sinistra, perché, per tanti, questi discorsi non sono politicamente corretti. Una seria riflessione sulle migrazioni nel nostro Paese è difficile da fare perché il dibattito è drogato da paure immotivate e fake news cavalcate dalla destra. Se affermi che in una democrazia come la nostra una ragazza deve poter decidere chi sposare e che il sistema delle caste è semplicemente incompatibile con i valori in cui crediamo, rischi di venir accusata di essere anti islamica e di fare il gioco dei sovranisti. Ma l’Islam non c’entra niente qui. E neppure il Pakistan. Un italianissimo come Pillon plaudirebbe questo sistema. Il vero nemico è il patriarcato. Ragazze che si ribellano ce ne sono e tante. I veri colpevoli siamo noi che non sappiamo, non vogliamo dar loro un appiglio, una leva per spezzare le loro catene”.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 luglio 2021. Il video di un delitto d’onore ha scosso in questi giorni la Siria. Pubblicato dalla famiglia della giovane ragazza per annunciare «la purificazione dalla vergogna», il filmato ha ottenuto l’effetto contrario, scatenando la rabbia dei social e la denuncia delle organizzazioni umanitarie. Eida Al-Hamoudi Al-Saeedo, 18 anni, residente a Al-Hasakah, aveva rifiutato di sposare il cugino perché innamorata di un altro uomo, con il quale aveva tentato una fuga. Riacciuffata dalla famiglia, è stata prima affamata e picchiata per giorni dalla famiglia, poi trasportata dal padre e dal fratello in una casa abbandonata in un villaggio desolato, dove ad aspettarli ci sono altri familiari. Nel video si vede la ragazza urlare e chiedere aiuto, poi si sentono tre spari. Le riprese passano poi sulla ragazza, sdraiata a terra, che lotta per rialzarsi finché uno degli uomini non si avvicina e le spara. L’Osservatorio siraniano per i diritti umani ha denunciato «l’orribile delitto» e ha chiesto che gli autori siano puniti. «La famiglia si è vantata sembrava felice mentre faceva a turno per abusare della ragazza, ognuna delle 11 persone che ha partecipato al crimine ha ricevuto una parte del suo sangue». Le riprese video della sparatoria si sono presto diffuse sui social media e hanno scatenato un'ondata di rabbia. Gli attivisti hanno chiesto che i colpevoli siano perseguiti e che la violenza e l'uccisione delle donne cessino. Lo scrittore Sameh Shukri ha twittato: «Un nuovo crimine d'onore e razzismo contro le donne, uccidendo una ragazza siriana nella città di #Hasakah per averla accusata di amore e adulterio. E l'assassino questa volta non è un ISIS che applica la sharia, ma piuttosto il suo clan e i giovani estremisti che credono di essere diventati con questo crimine i padroni del paradiso, chi incita contro le donne e diffonde il loro odio è responsabile dell'uccisione deglla ragazza di Hasaka». Pochi giorni dopo che il video dell'omicidio di Eida è apparso sui social media, una ragazza di 16 anni è stata uccisa da suo padre in un altro "delitto d'onore". La ragazza, che è stata identificata come Aya Muhammad Khalifo dal Centro di documentazione sulle violazioni nel nord della Siria, è stata strangolata dal padre perché colpevole di essere stata violentata da un parente un anno fa. Centinaia di donne hanno protestato contro i "delitti d'onore" nella città di Hasakeh martedì e hanno marciato per le strade, alcune indossando una maglietta bianca con scritto "No alla violenza" in lettere rosse. "Smettila di uccidere le donne", recitava un cartello. "Non c'è onore nell'omicidio", disse un altro. I manifestanti si sono radunati davanti all'abitazione della ragazza di 16 anni che è l'ultima vittima. «Condanniamo questi crimini in nome della tradizione o della religione», ha affermato la manifestante Evin Bacho, membro del gruppo femminista curdo Kongra Star.

·        L’Islam ed il Terrore.

Che cos’è la rivoluzione iraniana del 1979. Mauro Indelicato su Inside Over il 26 dicembre 2021. La rivoluzione iraniana del 1979 è considerato l’evento che dà vita all’attuale Repubblica Islamica dell’Iran. Nasce dalle proteste sorte l’anno precedente per via delle precarie condizioni economiche del Paese e per un contesto politico contrassegnato dall’autoritarismo dello Scià Reza Pahlavi, sovrano dal 1941. L’epilogo della rivoluzione vede la proclamazione della Repubblica Islamica e l’instaurazione di una particolare teocrazia guidata dal clero sciita.

La situazione in Iran negli anni '70

In Iran vige una monarchia retta dalla famiglia Pahlavi. A seguito dell’abdicazione del padre, nel 1941 a salire sul trono è Reza Pahlavi, il quale da allora controlla saldamente il Paese. La politica dello Scià, questo il nome attribuito ai sovrani della monarchia iraniana, è filo occidentale. A partire dal 1963 Reza Pahlevi promuove la cosiddetta “rivoluzione bianca”. Si tratta di una serie di riforme volte a modernizzare la società e a rendere maggiormente laiche le istituzioni.

In Iran gran parte della popolazione professa l’Islam sciita. Per questo il clero sciita, retto dagli Ayatollah, ha sempre avuto una grande influenza sulla società. Le riforme attuate dallo Scià non piacciono negli ambienti clericali. Ma contro la rivoluzione bianca si pongono anche i nazionalisti, secondo cui più che di modernizzazione è possibile parlare di una forzata “occidentalizzazione” della società.

Le riforme inoltre stentano ad attecchire. Esse appaiono poco popolari al di fuori delle grandi città. Anche perché la rivoluzione bianca comprende una transizione dell’economia verso il capitalismo capace di favorire solo i ceti più ricchi. Negli anni ’70 quindi l’Iran si presenta scosso da diversi tumulti sociali. Da un lato il sovrano alle prese con le riforme, dall’altro una crescente opposizione formata da nazionalisti, clericali e anche marxisti. Nel frattempo l’economia stenta a crescere e alla metà degli anni ’70 la popolazione inizia a manifestare le proprie insofferenze. Lo Scià, per provare a mantenere a bada la situazione, reagisce con il pugno di ferro. Vengono banditi i partiti e le associazioni, viene limitata la libertà di stampa e la monarchia sembra virare verso un certo autoritarismo.

Come nasce la rivoluzione

Quella poi passata alla storia come una rivolta in grado di instaurare una teocrazia, nasce invece come una ribellione che vede protagonisti gruppi nazionalisti e marxisti. I primi a scendere in piazza contro lo Scià sono i cosiddetti “Fedayyin-e khalq”, ossia i volontari del popolo. Si tratta di formazioni di ispirazione marxista formati sia da studenti universitari che da operai. Il malcontento popolare di fine anni ’70 alimenta l’opposizione alla monarchia e ai volontari del popolo si uniscono anche gruppi di ispirazione islamista. Questi ultimi sono sostenuti da un clero sciita in decisa rotta di collisione con Reza Pahlavi.

Le proteste in strada nel 1978

Nella prima metà del 1978 l’Iran inizia ad essere sconvolto dalle proteste di piazza. La situazione è talmente tesa che il governo è costretto a prendere misure drastiche, a partire dal coprifuoco nelle principali città. Le proteste sono aizzate dai volontari del popolo e dal clero sciita. I gruppi di ispirazione marxista decido di accettare la collaborazione islamista. La loro convinzione è quella di riuscire a controllarli e ad evitare un’eccessiva propagazione delle ideologie che parlano di teocrazia e ritorno della Sharia.

Ben presto però la situazione si presenta diversa. Nella popolazione i gruppi sostenuti dal clero hanno maggior presa. Soprattutto nelle province, il loro radicamento territoriale è importante. È dunque grazie agli islamisti che si ha un salto di qualità delle proteste. Nell’economia dell’opposizione, le fazioni appoggiate dal clero sciita acquistano quindi sempre maggior rilievo.

Tra i vari manifestanti emerge poi una figura in grado di conquistare consensi grazie al suo carisma. Si tratta dell’Ayatollah Khomeini. Non è il più dotto tra gli studiosi e i giuristi del clero sciita, ma sotto il profilo mediatico è lui ad attirare all’interno della sua ala migliaia di sostenitori. Da anni, per via dei contrasti con lo Scià, si trova in esilio a Parigi.

Da qui registra costantemente video e discorsi spediti poi in patria. Il commercio illegale di cassette e videocassette favorisce la rivoluzione. In molte case iraniane la voce di Khomeini arriva quotidianamente, in molti lo vedono come possibile guida in un Iran post monarchico. Si arriva dunque a concepire la possibilità di un’alternativa al regno di Reza Palhavi. Per questo le manifestazioni aumentano di intensità. In diverse occasioni si sfidano le norme restrittive di circolazione e si infrange il coprifuoco. La situazione per l’esercito e le autorità di allora diventa poco sostenibile.

L'esilio di Rheza Pahlavi

A causa delle tensioni interne, il sovrano iraniano inizia a perdere anche l’appoggio internazionale. Gli Usa, alleati di Teheran, nel gennaio del 1979 prendono una precisa posizione: durante la conferenza di Guadalupa, il presidente Carter invita lo Scià ad abbandonare l’Iran.

Dal canto suo il sovrano gioca un’ultima carta. Decide di affidare il governo a Shapur Bakhtiar, benvoluto a livello internazionale e considerato come un esponente capace di guidare il Paese verso una transizione democratica. Bakhtiar accetta ma a condizione che lo Scià abbandoni momentaneamente il Paese. Il 16 gennaio 1979 Reza Palhavi, messo oramai con le spalle al muro e constatato il definitivo fallimento della sua rivoluzione bianca, vola in Marocco. Non si tratta di un provvisorio arrivederci. Lo Scià non metterà più piede in patria. I manifestanti infatti, accolta con giubilo la notizia della partenza del sovrano, chiedono un definitivo esilio. A Teheran e nelle principali città si resta quindi in piazza in attesa di assistere al tramonto della monarchia.

Il rientro dall'esilio dell'Ayatollah Khomeini

Incoraggiati dalla partenza di Reza Palhavi, i gruppi islamisti decidono di mettersi alla guida della rivoluzione. Da questo momento in poi la protesta prende connotazioni islamiche. Anche perché il 31 gennaio 1979, due settimane dopo l’addio dello Scià, a Teheran fa il suo ritorno l’Ayatollah Khomeini.

Accolto trionfalmente nella capitale, molti iraniani lo vedono come il nuovo capo della rivolta e nuova guida del Paese. Khomeini si pone così alla testa di un consiglio rivoluzionario, il quale sfida lo stesso premier Bakhtiar. Giorno dopo giorno si moltiplicano gli scontri tra i manifestanti vicini all’Ayatollah e l’esercito.

L’11 febbraio però i militari decidono di non intervenire. È l’epilogo anche per il governo di Bakhtiar, il quale si dimette dal suo incarico. Il potere passa così al consiglio rivoluzionario. Formalmente l’incarico di formare un esecutivo provvisorio viene affidato dal clero sciita all’Ayatollah Sadegh Khalkhali. Ma la vera guida, politica e spirituale, è oramai Khomeini.

30 marzo 1979: il referendum approva la nascita della Repubblica Islamica

Con la rivoluzione oramai in mano al clero sciita, viene sancito dalle autorità provvisorie un referendum. Ai cittadini è chiesto se si intende proseguire con la monarchia oppure varare la nascita di una Repubblica Islamica. Il 30 marzo in tutto il Paese si aprono le urne. Con il 98% dei voti la popolazione sceglie la Repubblica Islamica. Nasce così ufficialmente la nuova forma di governo iraniana. L’Islam è alla base del diritto e della società, a capo delle istituzioni sono posti i membri del clero sciita, si instaura una teocrazia con all’interno però apparati laici.

Le nuove leggi varate dopo il 30 marzo impongono l’uso del velo per la donna, la proibizione del gioco d’azzardo, della prostituzione e delle bevande alcoliche. È introdotta anche la pena di morte per reati cosiddetti morali, come tra tutti l’adulterio. L’ideologia voluta dal nuovo corso iraniano rispecchia i dettami della Sharia e prova a fare dell’Iran un Paese guidato unicamente dai concetti islamici. Per controllare l’applicazione delle nuove norme viene fondato un nuovo corpo armato speciale, si tratta delle Guardie Rivoluzionarie, definite in farsi “pasdaran”.

La crisi degli ostaggi Usa

Una prima prova internazionale per la Repubblica Islamica arriva nel novembre 1979. In quel momento Reza Palhavi si trova negli Usa per delle importanti cure contro il cancro. Il nuovo governo di Teheran sospetta della volontà di Washington di armare lo Scià e farlo tornare al potere. Per questo è formalmente chiesta agli Stati Uniti l’estradizione dell’ex sovrano. Ma il presidente Carter risponde negativamente.

Molti studenti universitari, dopo il diniego statunitense, inscenano a Teheran intense proteste dove viene anche bruciata varie volte la bandiera Usa. Il 4 novembre 1979 avviene l’episodio più grave. Un centinaio di manifestanti fanno irruzione all’interno dell’ambasciata americana. Ben 52 tra diplomatici e funzionari vengono presi come ostaggi.

La crisi va avanti per molti mesi. Il 25 aprile 1980 il governo di Carter approva una pericolosa irruzione militare nell’edificio culminato però con la morte di otto militari Usa. La tensione rimane alta fino al gennaio 1981, quando dopo intense trattative diplomatiche gli ostaggi vengono rilasciati. Da quel momento in poi i rapporti tra Teheran e Washington sono destinati a rimanere molto precari.

La nuova costituzione della Repubblica Islamica

Il nuovo assetto iraniano intanto prova durante il 1979 a inaugurare anche una nuova conformazione istituzionale. Tra l’estate e l’autunno viene scritta una Costituzione basata sul concetto di Velayat-e faqih, ossia letteralmente “tutela del giurisperito”. Si tratta di un sistema istituzionale a doppio binario. Da un lato vi sono gli organi retti dal clero sciita e dalle istituzioni religiose. Dall’altro vi sono invece gli enti laici retti da soggetti eletti a suffragio universale.

A capo dei due filoni istituzionali vi è la Guida Suprema, individuata nell’Ayatollah Khomeini. Tra gli enti laici spicca la presidenza della Repubblica e il parlamento. Quest’ultimo viene chiamato a dare la fiducia ai ministri scelti dal presidente. Nel dicembre 1979 la nuova Costituzione viene messa al giudizio degli elettori tramite un altro referendum. Anche in questo caso la popolazione si esprime in modo plebiscitario a favore della proposta del consiglio rivoluzionario.

Che cos’è il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Mauro Indelicato su Inside Over il 26 dicembre 2021. Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina è uno dei movimenti palestinesi più importanti, in passato anche organico all’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Fondato nel 1967 da George Habash, il gruppo negli anni ha ruoli di primo piano in alcuni degli attacchi di matrice palestinese compiuti soprattutto in occidente e in territorio israeliano. Nonostante una perdita di consensi nei territori, il Fronte è ancora oggi attivo.

La nascita del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina

La fondazione del Fronte è datata 1967. In quell’anno un palestinese cristiano originario di Lidda decide di fondere più movimenti. Si tratta di George Habash, il quale già nel 1953 dà vita al Movimento Nazionalista Arabo, un gruppo che concepisce la causa palestinese nella più ampia questione di rinascita del mondo arabo.

Habash matura questa convinzione durante gli anni di permanenza a Beirut, città in cui compie i suoi studi e dove si laurea in medicina presso l’Università americana nel 1952. Le sue idee hanno un orientamento marxista e laico ed è per questo che nel 1967 decide di organizzarsi assieme al Fronte di Liberazione per la Palestina, agli Eroi del Ritorno e ai Giovani Vendicatori per dare vita al nuovo movimento del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.

La presenza del termine “popolare” nel nome del nuovo gruppo indica espressamente l’adesione agli ideali marxisti e comunisti, diventando così il movimento più a sinistra all’interno dell’universo della resistenza palestinese. Habash viene riconosciuto quale leader e subito il Fronte trova agganci in diverse regioni del medio oriente per mettere in piedi le sue ramificazioni.

A livello internazionale un importante appoggio viene dato, a partire dal 1969, dalla Libia di Muammar Gheddafi. Ma sedi del gruppo vengono fondate anche in Arabia Saudita e in Kuwait, almeno secondo le indicazioni dell’intelligence israeliana di quegli anni.

L’obiettivo è promuovere i propri ideali nell’intero mondo arabo, formando anche milizie paramilitari. Si calcola che entro il 1970 il Fronte è in grado già di addestrare fino a 3.000 combattenti. Non mancano però defezioni già subito dopo la fondazione. Il Fronte di Liberazione esce nel 1968, l’anno successivo da una costola del movimento di Habash fuoriescono esponenti maoisti che danno origine al Fronte Democratico di Liberazione.

Nonostante la perdita di alcune fazioni, il Fronte comincia a diventare uno dei riferimenti tra i vari movimenti palestinesi a partire dai primi anni ’70. In quel periodo, è bene specificare, a dominare la scena politica palestinese è soprattutto Yasser Arafat, numero uno di Al Fatah.

L'ideologia del gruppo

Il primo elemento che risalta nell’ideologia del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina riguarda l’adesione alla causa palestinese. Secondo Habash e i suoi seguaci, la priorità è ridare le terre ai cittadini palestinesi fuoriusciti dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Contestualmente a questo principio, il Fronte nega il diritto all’esistenza dello Stato ebraico. Dunque la Palestina dovrebbe sorgere nell’intero territorio israeliano, negando la possibilità di coesistenza di due nazioni.

L’altro elemento importante dell’ideologia del Fronte è il panarabismo. La difesa della causa palestinese, secondo questa visione, passa anche da uno sguardo a tutto tondo sul mondo arabo. E, di conseguenza, su una rivoluzione da applicare all’interno di esso. Lo stesso Habash spiega questo concetto nel 1973 al giornalista John Coley: “La società scientifica d’Israele contro la nostra arretratezza nel mondo arabo – si legge nelle sue dichiarazioni – Ciò ci chiama alla totale ricostruzione della società araba, trasformandola in una società del XX secolo”. Una trasformazione che deve passare attraverso una secolarizzazione e l’emancipazione delle classi più povere, chiamate a lottare contro gli stessi Stati arabi definiti “reazionari”.

E qui si arriva al terzo punto dell’ideologia del Fronte. Il gruppo si distingue da molti altri dell’universo palestinese per essere di orientamento marxista-leninista. Circostanza che negli anni procura appoggi diretti e indiretti da parte del Kgb di Mosca.

L'adesione all'Olp

Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina aderisce all’Olp nel 1968. Ma i contrasti con l’organizzazione, dominata al suo interno da Arafat e Al Fatah, minano il rapporto tra le parti. Nonostante l’inserimento del Fronte nel Consiglio Esecutivo dell’Olp, già nel 1974 le divergenze sono ben evidenti. In particolare, il movimento fondato da Habash contesta il tentativo di Al Fatah di accettare una soluzione binazionale della crisi palestinese. L’esistenza di uno stato di Palestina al fianco di uno israeliano non viene contemplata dal Fronte.

Per questo motivo il gruppo nel 1974 viene allontanato dal Consiglio Esecutivo dell’Olp, pur rimanendo comunque all’interno dell’organizzazione. Un riavvicinamento si ha soltanto nel 1981, ma anche negli anni successivi non mancano alti e bassi tra i vertici del Fronte e quelli dell’Olp.

I sospetti sulla strage di Bologna

La sigla del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina diventa nota in Italia con riferimento alla strage del 2 agosto 1980, attuata all’interno della stazione di Bologna. Si tratta del più grave attentato terroristico avvenuto nel nostro Paese dal dopoguerra in poi. Una bomba piazzata nella sala d’attesa dello scalo del capoluogo emiliano, uccide 85 persone.

Tra le varie piste investigative, c’è anche quella che riconduce al Fronte. A sostenerla, negli anni successivi alla strage, è anche l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Un’inchiesta in tal senso viene aperta nel 2011, ma il fascicolo è chiuso già nel 2015. L’ex capo dello Stato, in particolare, parla di “incidente della resistenza palestinese”. Secondo questa ricostruzione, l’azione risulterebbe una reazione del Fronte alla violazione, da parte dell’Italia, del cosiddetto “Lodo Moro”. Ossia il tacito accordo stipulato nel 1973 dall’allora ministro degli Esteri, Aldo Moro, con il Fronte, in cui i palestinesi garantiscono di non compiere attentati in Italia in cambio del via libera del nostro Paese al passaggio di uomini e armi.

L’arresto di tre italiani che trasportano due missili terra aria del Fronte avvenuto a Ortona nel 1979, di fatto viene visto come una cessazione dell’accordo. Da qui la ritorsione attuata a Bologna. Tra i sostenitori di questa tesi c’è chi prende come prova l’allarme più volte lanciato da Beirut dal colonnello Stefano Giovannone, tra i vertici dei nostri servizi segreti in medio oriente. Francesco Cossiga inoltre indica nella collaborazione con il terrorista venezuelano Carlos la chiave di volta dell’attacco.

Questo filone di inchiesta non viene tuttavia ritenuto veritiero. La magistratura riconosce quali esecutori materiali alcuni membri dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari, formazione di estrema destra. Ancora oggi i mandanti non hanno un nome, la pista che porta al Fronte non viene comunque caldeggiata.

Ad ogni modo, i sospetti sulla strage di Bologna fanno emergere uno spaccato importante dell’attività del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. È infatti accertata la collaborazione con il terrorista Carlos. Alcune delle azioni portate avanti in Europa, relative soprattutto a dirottamenti aerei e a sparatorie contro obiettivi israeliani sensibili nel Vecchio Continente, sarebbero figlie di questa intesa.

Il fronte dopo gli accordi di Oslo

Negli anni ’90 avvengono due fatti importanti destinati a incidere nella storia del Fronte. Il primo ha a che fare con la politica interna. L’Olp sigla nel 1993 ad Oslo un accordo con Israele. Viene riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato ebraico e si dà vita all’Autorità Nazionale Palestinese. L’altro evento riguarda la fine della guerra fredda e la caduta dell’Unione Sovietica. Entrambi gli avvenimenti spiazzano il Fronte.

L’accordo tra Olp e Israele emargina politicamente il movimento di Habash, da sempre contrario alla politica dei due Stati. Questo costringe il Fronte a guardare a nuove alleanze inedite, come tra tutte quella con Hamas, gruppo islamista ben lontano quindi dagli ideali secolari e marxisti. La fine dell’Urss toglie poi un ombrello a livello internazionale e un riferimento ideologico per gli attivisti.

Il Fronte va quindi in difficoltà. Inizia a essere meno radicato nella popolazione palestinese e ad avere meno peso all’estero e in seno all’Olp. Tra le classi più povere, dove tradizionalmente ha più presa, si diffonde maggiormente negli anni ’90 l’ideologia islamista ed è Hamas a diventare con il tempo il principale antagonista di Al Fatah.

Il ritiro dalla scena di George Habash

Spinto forse anche da questi eventi, il fondatore del Fronte decide di ritirarsi. È l’estate del 2000 e George Habash lascia il testimone ad Abu Ali Mustafa. Da questo momento in poi, l’oramai ex leader dell’organizzazione sparisce dai radar politici. Si ritira a vita privata e muore all’età di 81 anni ad Amman, in Giordania, a seguito di un attacco cardiaco. Dopo la notizia della sua morte, il presidente palestinese Abu Mazen ordina le bandiere a mezz’asta e il lutto nazionale di tre giorni.

La partecipazione alla seconda Intifada

Poco dopo il ritiro di Habash, nel settembre del 2000 scoppia la seconda intifada. Il successore Abu Ali Mustafa decide di rendere il Fronte tra gli attori più importanti di questa fase. Il braccio armato del movimento viene accusato dalle autorità israeliane di compiere in pochi mesi almeno dieci attentati con l’ausilio di autobomba.

Il 27 agosto 2001, come risposta, le stesse forze dello Stato ebraico uccidono in un raid Abu Ali Mustafa. Poche ore dopo, per rappresaglia, il Fronte uccide Meir Lixenberg, consigliere per la sicurezza in quattro insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Il timone del Fronte viene quindi preso da Ahmad Al Sadat. Il 21 ottobre il movimento prende di mira un esponente del governo israeliano. Viene infatti ucciso il ministro del turismo, Rehavam Zeevi. Per questo motivo Al Sadat viene arrestato poche settimane dopo e tradotto in carcere, lì dove attualmente si trova.

Fino alla fine della seconda intifada, attestata tra il 2004 e il 2005, il Fronte è protagonista di altri attacchi e altri attentati in territorio israeliano.

Il movimento oggi

Sotto il profilo politico, il Fronte è la terza forza all’interno dell’Olp e delle istituzioni palestinesi. Nelle elezioni del dicembre 2005, le ultime per il parlamento di Ramallah, le liste ottengono il 4.25% dei consensi, dietro Al Fatah e Hamas. I risultati elettorali certificano la perdita di consensi e di una certa ramificazione territoriale sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania.

A livello internazionale, oltre Israele anche Stati Uniti e Unione Europea includono il Fronte nelle liste delle organizzazioni terroristiche.

Le polemiche sulle Ong

Di recente il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina è tornato alla ribalta per una decisione, assunta dal governo israeliano, di inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche alcune Ong ritenute molto vicine al movimento.

Si tratta, in particolare, delle Ong Adameer, Al Haq, Bisan, Difesa dei bambini-Palestina (Dci-P) Unione delle donne (Upwc) e Unione degli Agricoltori (Uawc). Dietro queste sigle, secondo Israele si nasconderebbe il Fronte Popolare. Grazie alle donazioni ricevute dalle Ong, il movimento ha potuto continuare a finanziarsi. La scelta del governo israeliano tuttavia non è stata accolta positivamente dalle Nazioni Unite.

Francesco Semprini per "La Stampa" il 29 novembre 2021. Quando nel 2009 Barack Obama ordinò la chiusura del carcere di Guantanamo, emerse subito che tra i propositi abolizionisti dell'ex presidente americano e la realtà dei fatti si interponesse un muro invalicabile. I cui mattoni poggiavano sul ginepraio legale attorno al quale era stata costruita la prigione quattro mesi dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. «Ci vorranno anni per chiuderla», ci spiegò l'ammiraglio Tom Copeman, comandante della Joint Task Force che gestiva l'intera prigione, appena ci precipitammo sull'isola per quello che doveva essere l'«ultimo reportage». Oggi il carcere è ancora operativo ma la base navale che lo ospita si è trasformata, diventando una sorta di «Little America» immersa nel turchese mare dei tropici. A vent'anni dall'apertura (il prossimo gennaio) della struttura detentiva per terroristi islamici, infatti, Gitmo ha mutato pelle rispetto alle origini quando solo il nome evocava l'immagine di uomini con tute arancioni ritratti attraverso le sbarre delle celle, come in una sorta di cuore di tenebra caraibico. Base navale Usa dal 1903, l'enclave a stelle e strisce sull'isola di Cuba - considerata covo della «blasfemia yankee» dal regime castrista, e «spina nel fianco dell'Avana» dagli strateghi di Washington - è oggi popolata da circa seimila persone tra militari, civili e famiglie al seguito. I quali ne hanno fatto qualcosa di più di una grande prigione. Pur rimanendo un avamposto della Us Navy, spiega il New York Times, presenta le caratteristiche delle piccole città Usa e le comodità di un campus universitario, assumendo le sembianze a metà tra resort di frontiera e comunità autarchica. Nei suoi oltre 116 km quadrati ci sono le scuole gestite dal Pentagono, un porto per la Marina e la Guardia costiera, bar, locali, balere, palestre, parchi, spiagge, spazi per barbecue e barche da noleggiare per escursioni nella baia. Ha un McDonald's con un Drive Thru (per l'hamburger da asporto) abbastanza largo da permettere il passaggio ai veicoli tattici, come gli humvee, e sulla collina svetta il campanile di una chiesa in mattoni bianchi in stile coloniale. A dieci minuti di auto si arriva a Nob Hill, un quartiere residenziale per circa 700 famiglie. In altri dieci minuti si arriva a un campo da golf a nove buche, alle spalle del quale si erge la grande cancellata di ingresso alla zona detentiva, sotto il comando di un generale di brigata dell'esercito che è responsabile degli ultimi 39 prigionieri di guerra del Pentagono e di uno staff di 1.500 persone, per lo più soldati della Guardia Nazionale in servizio per turni di nove mesi. C'è un poligono di tiro mentre un'unità tattica di Marines è responsabile della sicurezza sul lato americano, il versante adiacente al territorio cubano è tutelato da un campo minato. Si parla americano e spagnolo, ma anche tagalog e creolo perché per un terzo i residenti sono filippini e giamaicani assunti da contractor del Pentagono. La base ha anche migliaia di gatti selvatici, discendenti di felini che sono arrivati alla base via terra, o di gatti domestici lasciati dalle famiglie dei militari. Gitmo è comunque una base del Pentagono: i droni sono vietati, i reporter devono sottoporre ogni singola foto che scattano alla censura militare. C'è una politica di tolleranza zero per l'alcol, se si viene sorpresi alla guida dopo aver bevuto ubriaco, può scattare il decreto di espulsione da parte del comandante, il capitano Samuel «Smokey» White. Esiste un servizio «car pooling» volontario chiamato «Safe Ride» in modo da impedire che la gente si metta al volante dopo aver bevuto, ed un'associazione organizza incontri per alcolisti anonimi tre volte a settimana. L'ospedale offre assistenza familiare e annuncia la nascita del primo bambino di ogni nuovo anno sul suo sito web. Le feste comandante, infine, vengono celebrate come da tradizione. Ad Halloween vige il fanciullesco «dolcetto o scherzetto», mentre la sera del 4 luglio i fuochi d'artificio illuminano a giorno la base, non prima però che il comandante abbia mandato opportuna comunicazione ai vicini cubani: «È l'indipendenza, non sparate». 

Mumbai, a 13 anni dagli attacchi le vittime cercano giustizia. Andrea Muratore su Inside Over il 26 novembre 2021. Il 26 novembre 2008 è una data entrata tristemente nella memoria collettiva di tutti i cittadini indiani. Quel giorno un commando di dieci terroristi seminò il panico nella metropoli di Mumbai provocando in contemporanea altrettanti attacchi che causarono la morte di 195 persone, in larga misura indiane. Lashkar-e-Taiba, un gruppo islamista pakistano considerato organizzazione terroristica, effettuò gli attacchi coordinati di sparatorie e bombardamenti che, complice la lunga operazione volta a stanare i terroristi nelle zone dove si erano asserragliati, raggiunsero la durata di quattro giorni in tutta Mumbai terminando il 29 novembre successivo. L’operazione, addirittura più ampia di quella che avrebbe funestato Parigi il 13 novembre 2015, colpì Vile Parle, alla periferia di Mumbai (dove ci fu un’autobomba), il cantiere navale di Mazagon, colpito con esplosioni, la Stazione ferroviaria Chhatrapati Shivaji, il comando della polizia, il Leopold Café, il Teatro Metropolitano (luoghi dove vi furono attacchi con armi da fuoco e granate) e gli hotel Taj Mahal e Oberoi, oggetto di un assalto culminato in una presa di ostaggi e nel blitz delle forze di sicurezza indiane. A tredici anni da quella triste giornata l’India cerca ancora di capire come sia stata possibile un’escalation tanto violenta. Ajmal Kasab, unico dei dieci attentatori sopravvissuto all’attacco, è stato giustiziato il 21 novembre 2012. Nel 2013 negli Usa Daood Gilani, terrorista pakistano-americano che oggi ha il nome di David Coleman Headly, è stato condannato a 35 anni di reclusione per il ruolo organizzativo svolto nell’attacco. Gli agenti dell’Fbi hanno arrestato Gilani a Chicago nell’ottobre 2009, mentre era in procinto di prendere un volo per Philadelphia. Per evitare la pena di morte e l’estradizione in India ha parlato confessando di far parte di LeT dal 2002 e rivelando il suo coinvolgimento nell’operazione e ha collaborato nel processo contro un altro membro di punta del LeT, l’uomo d’affari pakistano-canadese Tahawwur Rana. L’India ha sempre richiesto la sua estradizione, per poterlo giudicare secondo le leggi indiane e ritenuto troppo leggera la condanna per chi aveva scelto e studiato i luoghi in cui si è consumato l’attacco il 26 novembre 2008. In definitiva una capillare definizione delle indagini, soprattutto fuori dall’India, per capire come l’attentato sia stato pensato e in che ambienti si sia deciso di colpire Mumbai non è mai stata effettuata. Zaki-ur Rehman Lakhvi e Hafiz Saeed, i leater di Lashkar, non hanno pagato per l’attentato nonostante le indagini indiane abbiano accertato il loro ruolo. Un tribunale antiterrorismo del Pakistan nel 2020 ha condannato il secondo, fondatore del gruppo responsabile della strage di Mumbai del 2008, a 5 anni e mezzo di carcere con l’accusa di terrorismo per il suo coinvolgimento, ma la pena si diluirà in una sentenza di più lunga durata che Saeed sta attualmente scontando. “Per anni, il Pakistan è stato sottoposto a forti pressioni internazionali per tentare di convincerlo ad agire contro Saeed e il gruppo islamista di Lashkar-e-Taiba. Gli Stati Uniti hanno offerto per la sua consegna un premio di circa 10 milioni di dollari”, ha scritto Sicurezza Internazionale. L’operazione verità su Mumbai, da parte pakistana, deve ancora essere compiuta fino in fondo, e appare preoccupante il fatto che nonostante l’ONU abbia designato l’altro principale indiziato, Lakhvi come terrorista globale, questi abbia potuto a lungo risultare libero di vagare ovunque in Pakistan. A seguito di pressioni internazionali, è stato incarcerato da un tribunale antiterrorismo in Pakistan per accuse di finanziamento del terrorismo, ma l’India ha ritenuto “una farsa” questa mossa. L’India ha ribadito la necessità di una pressione globale sul Pakistan. “Spetta alla comunità internazionale chiedere conto al Pakistan e garantire che intraprenda azioni credibili contro i gruppi terroristici, le infrastrutture terroristiche e i singoliterroristi”, ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri indiano Anurag Srivastava. E mentre nella giornata del 26 novembre 2021 a Mumbai il Governatore del Maharashtra Bhagat Singh Koshyari deponeva dei fiori in onore dei caduti che hanno perso la vita per neutralizzare i terroristi a Mumbai nel 2008 il governo di Narendra Modi aumentava le sue pressioni su Islamabad. Dare giustizia alle vittime di Mumbai passa anche per la chiarezza definitiva sui mandanti dell’operazione, sui problemi legati al controverso retroterra pakistano di LeT e sul coinvolgimento effettivo degli apparati di Islamabad. Chiarire cosa accadde nella preparazione del terribile attentato di 13 anni fa è fondamentale perchè  India e Pakistan possano costruire una relazione onesta e sincera in futuro.

(ANSA il 18 novembre 2021) - Ha detto di essere "cascata nella trappola" e di aver conservato il materiale nel suo cellulare poiché si trovava in una situazione "difficile". E poi di aver scaricato i pdf di pubblicazioni di propaganda dell'Isis e anche un manuale con le istruzioni per confezionare ordigni artigianali "per curiosità" ma di non averli "mai letti". Si è difesa così, dando la sua versione, Bleona Tafallari, la 19enne originaria del Kosovo, arrestata ieri a Milano con l'accusa di terrorismo internazionale e interrogata oggi dal gip Carlo Ottone De Marchi. La giovane ha spiegato di non aver mai "condiviso" le foto e i file trovati nel suo telefono.

(ANSA il 18 novembre 2021) - Ha affermato di non aver mai preso in considerazione di "diventare martire, né di andare a combattere" nelle zone di guerra, Bleona Tafallari, la 19enne originaria del Kosovo, arrestata ieri a Milano con l'accusa di terrorismo internazionale e interrogata oggi dal gip Carlo Ottone De Marchi. La giovane ha negato gli addebiti e fornito la sua versione. All'accusa di aver raccolto fondi per aiutare le mogli dei soldati dello Stato Islamico a fuggire dal campo di prigionia a Raqqa, in particolare 21 mila dollari per una donna, ha replicato di averlo fatto perché era "dispiaciuta" per i bambini e "volevo aiutarla in qualche modo".

Monica Serra per "la Stampa" il 18 Novembre 2021. Aveva solo 7 anni quando dal Kosovo si era trasferita in Italia, dove il papà lavorava già dal 1999. Ha frequentato le scuole elementari e medie a Isernia, poi ha ottenuto la cittadinanza italiana, a differenza dei suoi due fratelli. A 16 anni, però, Bleona Tafallari ha conosciuto sul web lo Stato Islamico. Frequentando siti e chat, soprattutto, ha abbracciato il radicalismo di matrice Jihadista. «Pronta a morire per Allah», ieri è stata arrestata a casa del fratello, in via Padova a Milano, periferia multietnica della città, per associazione con finalità di terrorismo internazionale. Devota sostenitrice dell'Isis, se il suo anasheed (la nenia con cui si diceva pronta al martirio) non si è concretizzato lo si deve all'«operazione esemplare» dell'Antiterrorismo milanese, come l'ha definita il direttore della Direzione centrale della polizia di prevenzione del Viminale, Diego Parente. L'indagine lampo, condotta dal capo dell'Antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dal pm Leonardo Lesti, parte da una segnalazione dell'Intelligence italiana. Alla Digos viene fatto sapere che, con un volo WizzAir da Pristina a Malpensa, il primo agosto Bleona, con la sorella Alberina Tafallari avrebbe raggiunto Milano. La prima doveva rinnovare la carta d'identità scaduta, la seconda il permesso di soggiorno. Ad aspettarle in Italia c'è il fratello Mirivan, estraneo alla sua radicalizzazione, ma anche lui finito indagato in concorso con la sorella per terrorismo internazionale. Della 19enne Bleona si sa che l'11 gennaio 2021 ha sposato con rito islamico Perparim Veliqi, affiliato ai «Leoni dei Balcani», cellula salafita trapiantata nel cuore dell'Europa, tra la Svizzera e la Germania, che a Vienna ha già fatto strage il 2 novembre scorso con il macedone Kujtim Fejzulai: quattro morti e ventitré feriti. Nel giro di tre giorni dall'arrivo in Italia, della sorella Alberina si perdono le tracce. Bleona invece viene ospitata a casa di un amico del fratello, che vive con lui. Il 7 settembre, giorno in cui ha l'appuntamento per il rinnovo del documento, viene organizzato un finto controllo delle Volanti per un cellulare rubato. I poliziotti le chiedono le password e riescono così ad avere accesso al cellulare e ai suoi segreti. Ci sono almeno 7 mila tra audio, video e foto e oltre 2 mila chat che non lasciano dubbi sull'appartenenza allo Stato islamico. Subito scatta la perquisizione della Digos, diretta da Guido D'Onofrio, nella casa in via Padova dove è ospite. Il cellulare viene sequestrato e analizzato da cima a fondo, fino all'arresto di ieri disposto dal giudice Carlo Ottone De Marchi. «Il terrorismo cova sotto la brace - sottolinea il pm Nobili -. Forse stanno aspettando il nuovo Bin Laden o il nuovo Al-Baghdadi ma noi ci siamo. Se in Italia, fino ad oggi, siamo riusciti ad arginare e contenere questi fenomeni lo si deve a questa sinergia tra intelligence, forze di polizia e magistratura».

Monica Serra per "la Stampa" il 18 Novembre 2021. «Dammi una mano e partiamo verso la casa di Allah, questo mondo non è adatto a noi». Nella foto c'è Bleona Tafallari in niqab. Indossa guanto e anello di colore nero e ha il dito puntato verso il cielo. Non è il «vezzo» di una diciannovenne, spiega il capo della Digos, Guido D'Onofrio: «Questi simboli dimostrano la sua chiara appartenenza allo Stato Islamico». Su WhatsApp, la foto ricevuta da una donna kosovara ritrae il figlio neonato che indossa una cuffietta nera riportante i versi della Shahada, e ha una pistola accanto al corpo. La diciannovenne commenta entusiasta: «Vorrei quella cosa che ha toccato», riferendosi all'arma. In un'altra chat ride con «Fatina», connazionale che sogna un matrimonio con un mujaheddin barbuto e feroce, «bagnato con il sangue dei miscredenti», naturalmente prima del martirio. Ancora, commentando l'efferato omicidio del professor Samuel Paty, ucciso a Parigi Abdullakh Anzorov, radicalizzato islamico di nazionalità russa ma di origine cecena, Tafallari ride con approvazione: «Ha fatto bene, se l'è meritato. Che sia una lezione per tutti gli altri insegnanti». È pronta a raccogliere i soldi e organizzare la fuga dal campo di Raqqa della moglie di un combattente. Negli audio la sua voce tradisce la giovanissima età, ma Beona Tafallari è «furba, scaltra e ben preparata», dicono gli investigatori. Conosce la geopolitica, la storia e i principi dello Stato Islamico. Possiede manuali di addestramento per aspiranti jihadisti, come «Black flags from the Islamic State», «How to survive in the West» e «Hijrah to the Islamic State», ed è pronta a condividerli nella sua continua opera di proselitismo. Sul web, adolescente, si avvicina allo Stato Islamico. È lei a organizzare il matrimonio combinato in Kosovo con un combattente dei «Leoni dei Balcani», Perparim Veliqi, ora in Germania, e che non aveva mai visto prima. A sposarli è l'imam Neherudin Skenderi, il «Wali» (maestro), guida spirituale della coppia, arrestato un mese fa in un'importante operazione antiterrorismo in Kosovo, perché componente di una cellula di cinque albanesi radicalizzati e, secondo gli investigatori, pronti a compiere attentati in occasione delle elezioni amministrative del 17 ottobre. Tafallari non ha mai vissuto con il marito anche se si sentono di continuo. Forse vuole raggiungerlo in Germania dopo aver rinnovato i documenti in Italia. Mamma e papà oramai hanno lasciato Isernia, si sono trasferiti e lavorano in Svizzera. Il fratello fa il magazziniere a Milano dove vive con un caro amico italiano nella sua casa in via Padova. Alla Digos, nessuno dei familiari risulta radicalizzato. Ma per il sostegno dato alla diciannovenne anche il fratello finisce indagato per terrorismo internazionale. Una volta qui, la ragazza si «autoreclude» nell'appartamento, non esce mai. Gli investigatori della Digos la vedono soltanto qualche volta affacciarsi alla finestra. Addosso ha sempre il niqab. Dopo la perquisizione degli inizi di settembre ha paura, sa di essere sotto tiro. Il «ruolo» che ha svolto negli ultimi anni è esattamente quello che viene richiesto a una donna appartenente allo Stato Islamico: «Il proselitismo, la divulgazione di materiale propagandistico, l'educazione dei figli al combattimento per l'Islam, il sostegno nella lotta per la Jihad, la facilitazione dei contatti tra membri maschili oggetto di investigazione in corso» si legge nell'ordinanza del gip Carlo Ottone De Marchi. Nel suo cellulare ci sono le foto dell'attentatore che il 26 agosto si è fatto esplodere all'aeroporto di Kabul causando centinaia di morti e del massacro a Parigi nella redazione di Charlie Hebdo. E poi testi di auto-addestramento al compimento di azioni violente nei paesi occidentali, pure in Italia, anche attraverso la realizzazione di ordigni artigianali, e l'audio in cui lei stessa intona un canto islamico che dimostra la militanza e la disponibilità al martirio. Un'unica richiesta al momento dell'arresto: «Voglio parlare con mio marito».

"Un bebè pronto al sacrificio". I video choc della 19enne "leonessa dell'Isis". Luca Sablone il 17 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel cellulare trovate immagini di infedeli decapitati e video in cui si vota al martirio. Spuntano anche le istruzioni per fabbricare ordigni. E quel legame con l'attentatore di Vienna...Blitz antiterrorismo a Milano, dove una 19enne è finita in manette per il presunto reato di associazione con finalità di terrorismo. La polizia di Stato ha eseguito l'ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Bleona Tafallari. La ragazza - cittadina italiana di origine kosovara - risulterebbe essere una "fervente sostenitrice dello Stato Islamico", radicalizzata dall'età di 16 anni. Era in contatto con il capo di una cellula dell'Isis in Kosovo. Stando a quanto scrive il gip nell'ordinanza, la giovane "partecipava all'organizzazione terroristica denominata 'Leoni dei Balcani', facente parte della più ampia associazione terroristica 'Stato islamico' allo scopo di commettere di atti di violenza con finalità di terrorismo, anche internazionale". Il primo commento politico è arrivato da Matteo Salvini, leader della Lega: "Grazie alla polizia di Stato e agli inquirenti per l'ottimo lavoro. In Italia spazio per fanatici ed estremisti islamici non ce n'è".

Autoreclusa in casa

La ragazza in sostanza si era autoreclusa in casa. "In 4 mesi è uscita da casa soltanto due volte. Non aveva vita sociale e anche in casa indossava sempre il hijab", ha spiegato Guido D'Onofrio, a capo della Digos di Milano. E lo aveva fatto soltanto per la seconda dose del vaccino e per rinnovare i documenti. Tafallari "riteneva di non volersi contaminare con gli occidentali".

I contatti con la diaspora kosovara

La 19enne è sposata con un 21enne miliziano di origine kosovare, che sarebbe legato alla cerchia relazionale dell'attentatore di Vienna (Fejzulai Kujtim): l'uomo lo scorso mese di gennaio, in Germania, ha sposato con rito islamico la cittadina italo-kosovara. Le indagini sono scattate da acquisizioni di intelligence relative a suo marito.

Parallelamente sono stati riscontrati analoghi importanti spunti di indagine sulla stessa persona, consentendo così l'immediato inizio delle attività. La ragazza recentemente si sarebbe trasferita dal Kosovo a Milano, in casa del fratello, pur rimanendo in costante contatto con il marito e con la diaspora kosovara di matrice jihadista.

Foto e video nel cellulare

La 19enne nel proprio cellulare "deteneva e condivideva migliaia di file immagine e video" che riportavano non solo oggetti simbolo di un'organizzazione terroristica come la bandiera nera con la scritta della testimonianza di fede, ma anche "scene di combattimenti in teatri militari di guerra, esecuzioni sommarie di infedeli mediante decapitazioni e incendi, scene di attacchi terroristici da parte di mujaheddin appartenenti allo Stato Islamico nelle città europee dei quali vengono esaltate le gesta".

Dagli atti di indagine emerge che la 19enne in alcuni immagini e video "indossava un guanto ed un anello di colore nero riportante la scritta della Sbahada, chiari simboli di appartenenza allo Stato islamico". Inoltre insieme a un'altra giovane radicalizzata è presente in "un video nel quale le due giovani, in un collage fotografico, vengono ritratte mentre indossano il nikab ed in sottofondo una voce canta un anasheed nel quale i guardiani della religione vengono invitati a combattere le forze regolari siriane di Bashar Al Assad".

C'è poi un altro video in cui la ragazza "realizza un anasheed", ovvero un tipico canto religioso "nel quale con la sua voce inneggia al defunto sceicco capo dello Stato islamico Al - Baghdadi ed essa stessa si vota al martirio". È quanto si legge nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip Carlo Ottone De Marchi. "O Abu Bakr Baghdadi! O tormentatore dei nemici! O Abu Bakr Baghdadi! O tormentatore dei nemici! Le vergini del paradiso stanno chiamando. Iscrivimi da martire. Iscrivimi da martire", è il testo del canto recitato dalla giovane.

Bebè pronto al sacrificio

Nei file rinvenuti nel cellulare della 19enne arrestata sono state trovate immagini di un neonato di pochi mesi con una pistola e il copricapo tipico dei jihadisti. "Come a dire che la vita viene dopo, che prima di tutto c'è il sacrifico in nome dell'Isis e che quel bambino era già destinato al jihad".

Le istruzioni per l'ordigno

La ragazza italo-kosovara è accusata di aver effettuato "una continua e incessante attività di propaganda delle ideologie delle organizzazioni terroristiche". Nel suo cellulare è stata trovata pure diversa documentazione (tra cui una in lingua italiana sui 44 modi per sostenere il jihad) "alcune delle quali contenenti istruzioni per il confezionamento di ordigni artigianali". La 19enne avrebbe svolto "una funzione di proselitismo alla causa dell'Islam radicale nei confronti di ragazze kosovare, anche minorenni".

Sotto la lente di ingrandimento è finita anche una chat Telegram del 24 febbraio 2021. "Prometteva ad una interlocutrice 16enne che si faceva chiamare 'fatina' e con cui reciprocamente si appellava come 'Leonessa' che le avrebbe trovato come sposo un 'Leone', vale a dire un appartenente ai Leoni dei Balcani, con il quale morire da martire dopo un matrimonio 'bagnato dal sangue dei miscredenti'", si legge nell'ordinanza.

Gli sms

A testimonianza del grado di radicalizzazione raggiunto dalla 19enne c'è anche una serie di messaggi (con tanto di emoticon sorridenti) scambiati con il marito. "Ehi hai visto cosa è successo a Parigi?...Hanno decapitato il non credente. Lezione per tutti gli altri insegnanti", "Ha fatto bene, se l'è meritato", è ad esempio uno scambio di sms sull'attentato al professor Samuel Paty, avvenuto a Parigi a opera di un giovane radicalizzato islamico.

In un'altra chat, in nome di Allah, aveva consigliato a una sua "sorella" di coprire le sopracciglia con il niqab "perché è vietato lasciarle così, è per il tuo bene è come coprirsi e mettere dei pantaloni. È la stessa cosa mettere il niqab e lasciare la fronte o le sopracciglia scoperte". Altri sms choc sono emersi in vista di un matrimonio: "Bisogna fare una festa con gli AK47. Bisogna festeggiare non lasciamo neppure un miscredente ovviamente Haahahha. Tutti a terra!!!! Si riempie di sangue".

I soldi per la fuga

La giovane si sarebbe adoperata per "finanziare la fuga delle 'sorelle', congiunte e mogli di combattenti dell'Isis ristrette nel campo di detenzione curdo di Raqqa". Pure su questo fronte ci si è focalizzati su una chat Telegram tra il 31 agosto e il 3 settembre 2021, quando a una donna avrebbe offerto "del denaro e chiedeva quanto costasse procurarsi l'evasione".

In un'altra chat del 6 settembre scorso avrebbe contattato una sorella "alla quale domandava di condividere un messaggio in cui si chiedeva un contributo per raggiungere la somma di 21mila dollari necessari per la fuga di una donna e dei suoi due bambini dal campo di Raqqa".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Come si diventa un jihadista? Giovanna Pavesi su Inside Over il 25 luglio 2021. Nel novembre 2018, a Milano, la polizia di Stato arresta un giovane dipendente di un’impresa per la bitumazione stradale: si chiama Issam Elsayed Elsayed Abouelamayem Shalabi ed è nato in Egitto, il 1° luglio del 1996. In Italia è arrivato da solo, per lavorare in un’azienda che aveva in appalto le pulizie di un Mc Donald’s nel centro di Teramo e poi a Cuneo. Gli agenti, però, lo fermano in un’abitazione del capoluogo lombardo, con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo internazionale, perché considerato organico e vicino allo Stato islamico e intenzionato a sacrificarsi per Daesh. Ritenuto profondamente radicalizzato, gli inquirenti trovano sul suo cellulare materiale audio e video di propaganda. Insieme a lui, vengono fermati altri due connazionali, anche loro giovanissimi, di 23 e 21 anni. Shalabi è un miliziano che, secondo gli investigatori, prima dell’arresto ricopriva un ruolo significativo all’interno della complessa macchina di propaganda del Califfato: partecipava alle sue attività, gestiva le piattaforme social e impartiva ordini agli altri.

Tre anni prima, nel gennaio 2015, sempre a Milano, Monsef El Mkhayar e Tarik Abouala lasciavano improvvisamente il loro appartamento di via Iommelli, abbandonando anche la comunità Kayros che li aveva accolti durante gli anni della loro adolescenza, per partire per la Siria, con l’obiettivo di combattere per il gruppo di Abu Bakr Al Baghdadi, califfo dell’autoproclamato Stato islamico. Giovanissimi e soli, con un passato familiare complicato, El Mkhayar e Abouala sono stati i più giovani combattenti Isis partiti dall’Italia. Nei confronti del primo, l’unico rimasto in vita dei due, la Procura della Repubblica di Milano ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per terrorismo. È ancora ritenuto un soggetto molto pericoloso.

Cosa accomuna i radicalizzati

Ciò che accomuna i profili dei “radicalizzati” in Italia (e non solo) sono le storie personali, fatte di emarginazione e disagio sociale, la giovane età, le modalità di avvicinamento allo Stato islamico e l’idea che, in qualche misura, il “sacrificio” jihadista rappresenti una forma di riscatto. Per l’islamologo Paolo Branca, la provenienza non è un elemento così significativo per tracciare la loro identikit. Il fenomeno è, infatti, diffuso un po’ ovunque, dal Marocco alla Tunisia, fino alle periferie del Belgio o della Francia. Colpisce, invece, l’abbassamento dell’età anagrafica: quasi tutti, infatti, hanno meno di 30 anni e sono nati nella seconda metà degli anni Novanta. Secondo gli esperti, questo aspetto è legato a un aumento dell’arrivo di minori non accompagnati, che rappresenta il vero fattore di rischio: i giovani, di frequente, arrivano con un background fortemente compromesso e una scarsa educazione scolastica. La situazione di degrado in cui versano le loro vite ne amplifica il senso di isolamento: imparano a conoscere la criminalità, riescono a maneggiare un’arma e sanno dove procurarsela in caso di necessità. In Europa approdano alla soglia della maggiore età e, magari, finiscono in carcere per crimini minori, come furti, rapine o, più comunemente, per spaccio.

Il carcere e la trasformazione

Uno dei primi avvicinamenti al fondamentalismo avviene proprio nei penitenziari, una zona d’ombra, dove si incrocia la fascinazione del riscatto che il messaggio jihadista sembra suggerire. L’incontro con delinquenti professionisti e il proselitismo rappresentano una combinazione esplosiva, perché l’ideologia crea una sorta di dipendenza. I giovani sedotti dalla propaganda di Daesh hanno processi di trasformazioni molto simili: spesso non sono religiosi praticanti, bevono e talvolta fanno uso di droghe. Dopo l’indottrinamento smettono di consumare alcolici e di drogarsi, sostituendo quelle abitudini all’ideologia che, in un certo senso, li imbroglia ma li appaga. Perché è, di fatto, una forma di redenzione.

La metamorfosi

Rispetto ad alcuni anni fa, il riconoscimento di un affiliato a un gruppo terroristico non risulta più così immediato. In passato, infatti, la barba lunga e la tipica tunica bianca, lunga fino sopra le caviglie (come quella indossata dal Profeta), potevano essere segnali da ricondurre ai gruppi salafiti. Oggi, invece, l’avvisaglia risulta meno evidente, perché il terrorismo muta sempre la sua forma. Tuttavia esistono segnali più sottili e che la maggior parte delle persone comuni non è in grado di riconoscere: i radicalizzati si possono riconoscere perché, all’improvviso, non danno la mano alle donne, cambiano le loro abitudini quotidiane, diventano paranoici, cambiano completamente i loro stili di vita, rifiutano di accarezzare un cane o non frequentano locali dove si consumano alcolici, perché ritenuti peccaminosi.

La radicalizzazione si impara (anche) online

Il luogo ideale dove più facilmente ci si può avvicinare ai contenuti prodotti da Daesh resta però la rete (dove avviene il reclutamento) e non è un caso che gli elementi più interessanti gli inquirenti li trovino nei cellulari degli arrestati. Lì sono contenuti link, immagini, file audio che riconducono a giuramenti di fedeltà e a materiali pericolosi. Sul web ci sono gruppi Facebook, canali YouTube o Vimeo e, soprattutto, Telegram, dove le chat vengono criptate e sono raggiungibili, effettivamente, da chiunque. Internet è poi il terreno ideale per il proselitismo dello Stato Islamico perché è lì che i contenuti propagandistici vengono personalizzati in base alle esigenze dell’individuo: per alcuni c’è la promessa del paradiso per le persone care, magari decedute da poco; per altri c’è una forma di violenza che ha raggiunto livelli inediti anche per Al Qaeda. Anche perché con Daesh è sparita la struttura piramidale tipica del gruppo guidato da Bin Laden. Chiunque può diventare un predicatore e chiunque può agire, da solo: con un coltello, una pistola, una bomba o una macchina lanciata a tutta velocità sulla folla. Rispetto ai combattenti qaedisti, quelli di Daesh si accostano direttamente al jihadismo più violento, perché ciò che interessa loro è la violenza connaturata a questi gruppi, non tanto la dottrina religiosa.

Il messaggio messianico

Il messaggio dello Stato islamico, a differenza di quello di Al Qaeda e di Osama Bin Laden, conquista i giovanissimi per il suo contenuto messianico, da fine del mondo, che è tipico di Daesh: nel messaggio, infatti, si prospetta uno scontro finale in Siria e non è un caso che uno dei loro simboli sia Dabiq, la leggendaria città dove viene raccontato che ci sarà la battaglia definitiva tra il bene e il male. Questa fascinazione ha un peso notevole sulle menti più fragili, anche perché i più giovani cercano, da sempre, l’assoluto.

Soldi, politica e ideologia. L'Ue svela il rischio islam (ma l'Italia resta indietro). Alberto Giannoni il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. Report sui Fratelli musulmani: ricchissimi e radicati. I governi reagiscono, Roma è assente. L'integralismo islamico punta al cuore, al cervello e al portafogli dell'Europa. Ma proprio quando mezzo continente apre gli occhi sul separatismo islamista, l'Italia non c'è. I ministri dei sei Paesi si riuniranno oggi a Vienna per elaborare delle strategie di contrasto alla minaccia estremista. Analizzeranno un report inedito sui Fratelli musulmani, organizzazione composta nel suo nucleo puro da poche centinaia di personaggi che grazie al potere economico, all'abilità politica propria e all'accondiscendenza altrui sono stati capaci accreditarsi come «monopolisti» dell'islam, esercitando una egemonia schiacciante su una massa enorme di fedeli. Mentre gli attacchi jihadisti hanno un andamento intermittente - ma gli ultimi sono di pochi giorni fa - l'approccio degli Stati europei sta cambiando. Superando la logica securitaria, vari governi ora provano ad analizzare l'ombra islamista come un fenomeno politico, come minaccia alla democrazia e all'integrazione. Non è un caso che la legge voluta dal presidente francese Emmanuel Macron sia dedicato al «separatismo religioso», e non è un caso che a Vienna si riuniscano i ministri degli Affari sociali e non degli Interni. La Francia, forse più che dopo la strage del «Bataclan», si è interrogata sotto choc per la tragica fine di Samuel Paty, l'insegnate decapitato da un fanatico per aver mostrato le vignette di Charlie Hebdo. La Francia ha un governo «centrista», l'Austria di centrodestra, la Danimarca di sinistra: l'astro nascente è il ministro dell'Integrazione Mattias Tesfaye, socialista di origine etiope. Il nuovo approccio è trasversale. L'Italia però non sarà della partita ed è un paradosso visto che fra i protagonisti del summit sarà Lorenzo Vidino, milanese, direttore del Programma sull'estremismo della «George Washington university», massimo esperto di radicalismo islamico. A Vidino è stato commissionato il report sulla struttura della Fratellanza. E lo studioso italiano, con Sergio Altuna, ha disegnato una sorta di mappa e di radiografia di questa «confraternita», una nomenclatura nepotista e arabofona (per lo più siriana e giordana) che grazie alle capacità di mobilitazione e alla disponibilità di risorse esercita un'influenza sproporzionata sulle comunità accreditando i propri dirigenti come rappresentanti legittimi dei musulmani. L'islam ideologico vuole conquistare l'egemonia anche simbolicamente, come dimostra il progetto della più grande moschea del Continente, a Strasburgo. I Fratelli lavorano su più livelli, e in quello «presentabile» costruiscono una narrazione vittimistica grazie all'«islamofobia», paravento usato per mettere all'indice i critici. Intanto l'Europa finanzia progetti di sigle vicine, formalmente autonome ma in realtà controllate, come prevede appunto la struttura «binaria», in parte occulta e in parte pubblica (e impegnata a negare anche in tribunale i suoi legami con l'altra). Il report menziona le sigle di questa faccia «presentabile» (Fioe, Femyso, l'Istituto europeo di Scienze umane, il Consiglio europeo per Fatwa e ricerca, Europe trust) e indica il più in vista fra gli esponenti italiani di questo ambiente, l'imam di Segrate Ali Abu Shwaima, ricordando come la disputa sulla ormai ex consigliera Pd di Milano Sumaya Abdel Qader vertesse proprio sulla sua adesione a Fioe e sui legami di questa Federazione. La Fratellanza vive nella legalità, ha scartato strategicamente la violenza e la biasima pubblicamente - salvo quella della branca palestinese Hamas - tratta i terroristi come un tempo i «compagni che sbagliano», rassicurando sulla propria diversità. L'Europa però sta aprendo gli occhi ed è intenzionata a rendere più difficile la vita agli islamisti.

Ora le Sardine vogliono finanziare la moschea. Orlando Sacchelli il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le Sardine pisane hanno organizzato un'iniziativa pubblica per raccogliere fondi per la costruzione della moschea di Pisa. La comunità islamica locale dopo un lungo braccio di ferro con la giunta di centrodestra ha ottenuto, grazie ai giudici, il permesso a costruire. Dopo una battaglia durata anni, con un duro braccio di ferro con il Comune e il ricorso vinto davanti ai giudici, la comunità islamica di Pisa lo scorso 16 giugno ha ottenuto il permesso a costruire la moschea. Solo che ora mancano i soldi, e per trovarli sono scese in campo anche le Sardine pisane. L'idea è presto detta: organizzano un pranzo al sacco ("Un panino per la libertà di culto") per promuovere una raccolta fondi a sostegno della campagna, lanciata da alcuni mesi dalla comunità islamica. L'iniziativa delle Sardine va oltre la difesa del diritto di culto. Intende aiutare concretamente, sia pure in modo simbolico, la costruzione dell'edificio sacro. Da qui l'appello rivolto ai cittadini, tramite il tam tam dei social network: "Siete tutti invitati, domenica 31 ottobre, alle 12, per un imperdibile appuntamento, con pranzo al sacco, sul luogo dove verrà costruita la moschea di Pisa. Sarà una splendida occasione per ritrovarsi, conoscerci e cogliere l'occasione per raccogliere fondi per la costruzione della stessa". Ovvio che difficilmente saranno raccolte cifre ragguardevoli, la cosa di maggior rilievo è il valore simbolico dell'iniziativa. Un "guanto di sfida" lanciato a chi si è opposto al progetto moschea (la Lega) e continua a vedere in malo modo la sua evoluzione. L'idea della moschea pisana era partita nel 2007, con la giunta di centrosinistra che, dopo alcuni anni, aveva individuato un'area in un terreno in via del Brennero, non lontano dalla Torre. Con una variante al regolamento urbanistico nel 2012 si era prevista la costruzione del luogo di culto in una zona fino ad allora destinata a verde pubblico. Il terreno fu poi acquistato dalla comunità islamica tra il 2013 e il 2014. Nel frattempo, però, tra lungaggini burocratiche e cambio di linea politica (nel 2018 ha vinto il sindaco della Lega, Michele Conti), si è bloccato tutto. Ufficialmente per un cambio di destinazione d'uso. In quell'area era stato previsto un parcheggio, da utilizzare, insieme ad altri, ad uso dei frequentatori del vicino stadio di calcio, l'Arena Garibaldi, dove gioca il Pisa Sporting Club. Dopo lo stop arrivato dalla giunta di centrodestra, la comunità aveva dato battaglia presentando un ricorso contro la delibera. Alla fine il Tar ha dato ragione agli islamici. Nella motivazione tra le altre cose si leggeva: "L’associazione ricorrente è portatrice dell’interesse alla realizzazione di un edificio di culto, l’unico, nel Comune di Pisa, destinato a soddisfare le necessità di quanti pratichino la religione islamica. Si tratta di un interesse particolare in quanto espressamente considerato dall’art. 8 della Costituzione, e riguardante la pratica di una delle religioni più diffuse al mondo, negli ultimi decenni ampiamente praticata anche in Italia". E la giunta aveva dato il via libera: "Un atto dovuto che abbiamo assunto ad esito del perfezionamento di alcuni procedimenti amministrativi, trattandosi di un permesso a costruire convenzionato per la realizzazione di opere di interesse pubblico, quali ulteriori stalli di sosta e di un tratto di pista ciclabile". Ma che cosa hanno in mente ora le Sardine? Probabilmente guardano già alle prossime elezioni comunali (a Pisa si voterà nel 2023) e intendono marcare il terreno intestandosi una battaglia simbolica. Come fece la Lega prima delle elezioni del 2018, ovviamente sul fronte opposto della "barricata". Singolare è l'idea di moschea che hanno in mente le Sardine pisane: "Il luogo deve essere, come ha sempre voluto la comunità islamica, un'occasione d'incontro, per conoscere l'altro, un'altra cultura ed altre tradizioni, per un momento di accoglienza reciproca, che giovi alle vite personali di tutti noi e al benessere collettivo". Più che un centro islamico descritto così sembrerebbe un centro sociale-culturale. Ma sarà davvero questo ciò che vogliono gli islamici della zona di Pisa? Intanto, al di là degli ideali e delle polemiche, concentriamoci sui numeri: per realizzare il progetto moschea serviranno 2 milioni e ottocentomila euro. Non sono pochi. Ad oggi la raccolta promossa su Gofundme.com è arrivata a 8.356 euro, con 138 donatori. Siamo lontani anni luce dall'obiettivo dichiarato. Senza qualche sostenitore "forte" sarà difficile posare la prima pietra in tempi ragionevoli.

Che cos’è il Wahhabismo. Mauro Indelicato su Inside Over il 15 settembre 2021. Il Wahhabismo è un movimento di riforma religiosa sviluppatosi nel secolo XVIII in Medio oriente, il quale ha preso piede soprattutto nella Penisola Arabica e nell’area del Golfo Persico. Si basa su una rigida interpretazione del Corano ed ha tra i principi quello di una riscoperta dei vari canoni originari dell’Islam. Ideologo del Wahhabismo è stato Muḥammad ibn ‘Abd al-Wahhāb, appartenente alla tribù araba dei Banu Tamim morto nel 1792. Oggi questo movimento è molto seguito soprattutto in Arabia Saudita e nell’area del Golfo Persico. All’interno del mondo musulmano sunnita, il wahhabismo è considerato uno dei fronti più rigidi e conservatori.

L'origine del wahhabismo

Il wahhabismo, come detto in precedenza, ha tratto origine dalle idee di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhāb, da cui il movimento religioso ha anche preso il nome. Il suo fondatore era un arabo della tribù Banu Tamim, nato in una regione centrale dell’attuale Arabia Saudita nel 1703. Si trattava di una figura carismatica, in grado di attrarre molto seguaci i quali lo hanno seguito in tutti i suoi viaggi in medio oriente in cui ha iniziato a tramandare la sua ideologia e la sua visione sull’islam. Secondo Al Wahhab, i costumi di allora erano corrotti e non erano più in linea con la vera tradizione islamica. Da qui la sua idea di ritornare ad una visione quanto più possibile vicina a quella originaria, la quale doveva passare da un’interpretazione letterale del Corano, così come fatto dai cosiddetti al-salaf al-hālihīn, ossia i “puri antenati”.

Al Wahhab è stato molto influenzato da Ibn Taymiyya e da Ibn Qayyim al-Jawziyya, ossia i due più importanti referenti dei movimenti neo-hanbaliti, i quali a loro volta traevano spunto dallo studioso dell’Islam Ahmad bin Hanbal. Quest’ultimo, assieme ai movimenti di cui è stato ideologo, ha sempre coltivato una visione fondamentalistica dell’Islam. Nel 1744, Al Wahhab ha stretto un patto di reciproca fedeltà con l’emiro Muhammad bin Saud, uno dei capostipiti della famiglia che nei decenni futuri ha dato vita all’Arabia Saudita. Da quel momento in poi, la visione dell’islam wahhabita è diventata riferimento principale in tutta la penisola arabica e nel territorio dell’attuale regno saudita. 

L'ideologia wahhabita

Una visione nettamente più conservatrice e fondamentalista della dottrina islamica è quindi la base su cui regge l’intero ideale wahhabita. Obiettivo cardine dell’ideologo di questo movimento, è sempre stata legato alla purificazione dell’islam ed al ritorno agli ideali originari. Per questo il wahhabismo, anche se non soprattutto dopo la morte del suo fondatore avvenuta nel 1792, ha promosso un’applicazione letterale del Corano. Questo si è tradotto in una forte rigidità soprattutto in campo sociale. Dalla netta separazione e distanza tra maschi e femmine, passando per il divieto assoluto di bere alcolici o fumare, il wahhabismo si è sempre contraddistinto per aver dato vita a società molto conservatrici e lontane da ogni apertura verso diversi stili di vita e verso confronti con altre visioni dell’Islam. Sufi e sciiti, non a caso, non sono considerati credenti dai wahhabiti. Questo ha spesso frenato il dialogo anche con le altre confessioni. Nel diritto, il wahhabismo si richiama ovviamente molto ad una rigida applicazione della sharia, la legge islamica. Per questo nei Paesi dove questa visione è alla base dell’ordinamento, sono molti i divieti e sono previste anche importanti punizioni severe per i trasgressori.

La diffusione del wahhabismo

Il wahhabismo oggi è una corrente minoritaria dell’islam sunnita. La stragrande maggioranza dei sunniti non vede in questa visione ideologica della religione musulmana un riferimento. Tuttavia, il wahhabismo non è secondario a livello politico in quanto applicato ufficialmente in Paesi quali, tra tutti, l’Arabia Saudita. Il regno saudita è possessore dei principali luoghi santi dell’Islam, quali La Mecca e Medina, inoltre la sua importanza strategica per via delle ampie riserve petrolifere ha fatto sì che il wahhabismo divenisse soprattutto nella seconda metà del ‘900 molto famoso in ambito mediatico. La prima vera diffusione del wahhabismo si è avuta negli anni della predicazione del suo fondatore, successivamente questa visione islamica si è radicata soprattutto nella penisola arabica. Non ha invece attecchito nel resto del medio oriente, non è un caso quindi che, come detto in precedenza, questa corrente dell’Islam risulti di gran lunga minoritaria.

Il wahhabismo in Arabia Saudita

La famiglia Saud, che ha stretto rapporti molto soliti con Al Wahhib, nel corso dei decenni si è sempre impegnata per fondare uno Stato wahhabita. Nel 1932 è stata riconosciuta l’indipendenza dell’Arabia Saudita e quest’ultima circostanza ha portato all’obiettivo dei Saud. Tanto è vero che il nuovo Stato ha adottato come unica dottrina religiosa ufficiale quella wahhabita, la quale a sua volta ha influenzato ogni aspetto della vita sociale e politica. Ancora oggi è senza dubbio il regno saudita la principale fonte di diffusione del wahhabismo, anche per l’importanza economica e strategica assunta nei decenni dal Paese. In Arabia Saudita la dottrina wahhabita ancora oggi è applicata in modo ferreo, tanto che il regno si presenta come uno dei più restii ad ogni forma di trasformazione sociale. Soltanto di recente le donne hanno potuto avere il diritto di prendere la patente o di entrare, seppur accompagnati dal marito, negli stadi. Sono vietati gli alcolici, ferree restrizioni sono previste anche per tutti i luoghi di intrattenimento, da quelli cinematografici a quelli musicali. Il wahhabismo è dottrina ufficiale anche in Qatar, seppur Doha negli anni ha supportato maggiormente la Fratellanza Musulmana, organizzazione che soprattutto di recente è entrate in netto contrasto con i sauditi e con la dottrina wahhabita. I fedeli che seguono il wahhabismo costituiscono la maggioranza negli Emirati Arabi Uniti, anche se qui l’incidenza della dottrina è minore rispetto al regno saudita. Sunniti ed in particolare wahhabiti sono una minoranza in Bahrein, la cui famiglia reale però è molto vicina all’Arabia Saudita e risente dell’influenza della dottrina.

Le controversie

L’ideologia wahhabita è dunque tra le più conservatrici all’interno del mondo islamico, professando un’interpretazione letterale del Corano e prevedendo un controllo molto rigido sui comportamenti sociali. Per questo contro di essa sono state rivolte non poche accuse, a partire dalla condizione dei diritti umani nei Paesi dove il wahhabismo è dottrina di Stato. In Arabia Saudita, come detto in precedenza, le donne sottostare ad un regime che riconosce loro pochi diritti, sia in campo privato che sotto il profilo politico. La pena di morte nel Paese dei Saud è molto applicata, diversi sono i prigionieri politici molti dei quali accusati di terrorismo solo perché appartenenti ad altre comunità religiose. Ma al di là del singolo caso saudita, la dottrina wahhabita è finita nel mirino di diverse critiche negli ultimi anni in quanto considerata più volte base delle ideologie che hanno portato all’emersione del terrorismo islamista. Non è un caso che spesso i termini wahhabismo e salafismo vengano usati come sinonimi. Con salafismo si indica una radice ideologica spesso associata allo sviluppo delle dottrine dell’islamismo. Il termine proviene da al-salaf al-hālihīn, ossia “i puri antenati”, con il quale si vuole indicare l’obiettivo di far tornare la religione islamica alla purezza delle origini. Un obiettivo in comune con il wahhabismo ed ottenuto spesso proprio con l’interpretazione letterale del Corano e delle scritture sacre. Dunque, il ruolo del wahhabismo sarebbe stato decisivo ed importante per lo sviluppo dell’ideologia islamista o, in ogni caso, avrebbe dato un contributo non indifferente all’emergere di idee radicali. Anche perché nella dottrina wahhabita gli appartenenti alle altre religioni vengono visti come miscredenti od apostati, titolo spesso affibbiato anche a chi professa altre visioni dell’Islam diverse dal wahhabismo. Lo stesso Osama Bin Laden, fondatore di Al Qaeda e per anni al vertice della piramide del terrorismo islamista, è nato in Arabia Saudita ed ha risentito molto della sua formazione wahhabita. La principale critica a questa dottrina, oltre che alla sua rigidità soprattutto sotto il profilo sociale, risiederebbe quindi nel suo apporto non secondario offerto allo sviluppo delle idee fondamentaliste.

IL CASO MALAYSIA. La parola Allah non è proprietà dell'islam. Camille Eid martedì 15 ottobre 2013 su Avvenire. Allah non è una “invenzione” di Maometto e tanto meno una divinità specifica dei musulmani (come molti occidentali sono indotti a pensare). E questo anche se i musulmani di oggi, quando traducono il Corano nelle lingue europee, rifiutino di tradurre la parola “Allah” con “Dio” (o “Dieu” o “God”). L’uso di mantenere la parola Allah in arabo è diventato quasi un dogma, come se si trattasse del “Dio dei musulmani” o comunque di una parola monopolio dell’islam. La cose non stanno proprio così. La radice trilittera della parola Allah (’-l-h) è contenuta in tutti i termini che indicano la divinità nelle lingue semitiche. La si trova, infatti, nell’Antico Testamento nella forma ebraica “Elohim”, che generalmente si pensa sia derivata da “eloah”, forma estesa di “El/Il”, il dio supremo del panteon canaanita. Semmai, la lingua araba offre la possibilità di distinguere tra “al-ilàh”, il dio con la “d” minuscola, e Allah, letteralmente “Iddio”, in cui – come avviene in italiano – l’articolo si trova accorpato con il sostantivo per indicare il Dio assoluto. È assodato che gli arabi pagani abbiano usato il termine Allah per indicare una divinità particolarmente potente, chiamata talvolta con l’attributo “al-Rahmàn”, il Clemente, presente nella professione di fede islamica. L’islam non avrebbe fatto altro che adottare una parola preesistente per indicare il Dio unico, tant’è vero che lo stesso padre di Maometto – che non era certo musulmano – si chiamava Abdallah, letteralmente il servo di Allah. Sia Allah che al-Rahmàn sono inoltre attestati nella poesia arabo-cristiana precedente all’avvento dell’islam, come pure nella tradizione degli ebrei che vivevano in Arabia. Un’iscrizione risalente al VI secolo presenta al-Rahmàn come attributo di Dio Padre, dato che parla di al-Rahmàn, di suo figlio Christos e dello Spirito Santo. Nessuna meraviglia dunque se la parola Allah sia stata successivamente adottata dai cristiani di lingua siriaca nei primi secoli dell’espansione islamica al posto di “Aloho”, quando le comunità cristiane del Vicino Oriente sono entrate a confronto con la lingua e la cultura araba.

Morto in un incidente stradale il vignettista svedese Lars Vilks: viveva sotto scorta dopo le minacce di al-Qaeda. Il Fatto Quotidiano il 4 ottobre 2021. L'artista era diventato famoso in tutto il mondo dopo la pubblicazione, nel 2007, di una vignetta nella quale il Profeta Maometto era raffigurato con le sembianze di un cane. Nel 2015 era scampato a un attentato in Danimarca. La polizia, che sta indagando, ha comunque escluso che lo scontro della sua auto con un tir, nel quale sono morti anche i due agenti della sua scorta, sia dovuto a un atto doloso. È stato uno scontro tra l’auto sulla quale viaggiava insieme a due agenti della sua scorta e un camion a togliere la vita a Lars Vilks, vignettista svedese diventato famoso in tutto il mondo dopo la taglia da 100mila dollari messa sulla sua testa da al-Qaeda e un fallito attentato nei suoi confronti per la pubblicazione, nel 2007, di un’immagine nel quale veniva raffigurato il Profeta Maometto con le sembianze di un cane. L’uomo, che da quel giorno viveva sotto protezione, nel pomeriggio di ieri viaggiava sul mezzo sull’autostrada E4, nei pressi della cittadina di Markaryd, quando c’è stato lo scontro con il tir proveniente dalla direzione opposta. Dopo la collisione, i due mezzi hanno preso fuoco e per Vilks e i poliziotti incaricati di proteggerlo non c’è stato niente da fare, mentre il camionista è adesso ricoverato in ospedale. La polizia, comunque, ha escluso che si tratti di un atto doloso, anche se le indagini per ricostruire l’accaduto sono ancora in corso. Dal 2007 Vilks ha vissuto sotto protezione quasi ininterrottamente a causa di numerose minacce e attacchi da parte degli islamisti. Il 14 febbraio 2015, un giovane danese di origini palestinesi aprì il fuoco irrompendo in un dibattito sulla libertà di espressione che si teneva a Copenaghen, organizzato dopo la strage di Charlie Hebdo a Parigi. Lars Vilks, che era il protagonista dell’incontro con l’ambasciatore francese, ne uscì illeso, ma un regista danese di 55 anni rimase ucciso. La stessa sera, più tardi, l’aggressore, uccise anche il custode della sinagoga di Copenaghen. La mattina fu a sua volta ucciso dalla polizia danese durante uno scontro a fuoco.

Morto in un incidente d’auto Lars Vilks, il vignettista anti islam.  Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2021. Deceduto insieme agli agenti della scorta. La polizia svedese ha escluso l’atto doloso. Vilks disegnò Maometto con le sembianze di un cane. Scampò ad un attentato nel 2015. E’ morto in un incidente automobilistico assieme ai suoi due uomini di scorta il vignettista svedese Lars Vilks, sotto protezione da anni, da quando diventò oggetto di proteste internazionali ma anche di minacce per aver disegnato il volto di Maometto su un corpo di cane. La polizia svedese ha escluso l’ipotesi di un atto doloso. L’auto a bordo della quale Vilks viaggiava con due agenti è entrata in collisione con un camion vicino Markaryd, nella parte meridionale della Svezia, ha reso noto la polizia. L’autista del mezzo pesante è stato ricoverato. «Si è trattato di un incidente incredibilmente tragico», ha commentato il ministro della Cultura svedese Amanda Lind su Twitter. Vilks, ha aggiunto, aveva dovuto rinunciare alla sua libertà nel 2010 per aver fatto uso della libertà di espressione ed libertà artistica. Dal 2007 Lars Vilks ha vissuto sotto protezione quasi ininterrottamente, a causa di numerose minacce e attacchi da parte degli islamisti. Il 14 febbraio 2015, un giovane danese di origini palestinesi ha aperto il fuoco irrompendo in un dibattito sulla libertà di espressione che si teneva a Copenaghen, organizzato dopo la strage di Charlie Hebdo a Parigi. Lars Vilks, che era il protagonista dell’incontro con l’ambasciatore francese, ne uscì illeso, ma un regista danese di 55 anni rimase ucciso. La stessa sera, più tardi, l’aggressore, uccise anche un custode della sinagoga di Copenaghen. La mattina fu a sua volta ucciso dalla polizia danese durante uno scontro a fuoco.

Da "ilmessaggero.it" il 4 ottobre 2021. Era sopravvissuto a due tentativi di omicidio, ma ha perso la vita in un misterioso incidente in auto. Così è morto Lars Vilks, discusso artista svedese di 75 anni, che era finito nell'occhio del ciclone dopo aver disegnato una vignetta di Maometto con il corpo di un cane nel 2007. L'auto della polizia sulla quale viaggiava - perché era seguito da una scorta - ha svoltato sul lato sbagliato della strada e si è scontrata con un camion. Entrambi i veicoli hanno preso fuoco e l'autista del camion, 45 anni, è stato portato in ospedale con gravi ferite. Anche i due agenti di polizia incaricati di proteggere il signor Vilks sono morti. 

L'incidente

Sull'incidente sta indagando la procura speciale. Lo scontro è avvenuta poco prima delle 15 a Markaryd, nella provincia di Kronoberg, in Svezia. E l'incidente arriva dopo che il signor Vilks ha ricevuto numerose minacce per aver disegnato il profeta Maometto con il corpo di un cane nel 2007: nel 2015 l'uomo armato Omar El-Hussein aveva sparato dei colpi nella parte anteriore del caffè Krudttonden dove Vilks stava partecipando a un dibattito sulla libertà di parola. Ma anche Colleen LaRose, 51 anni, di Pennsberg, in Pennsylvania, si è dichiarata colpevole di aver cospirato per uccidere Vilks nel 2011 ed è stata condannata nel 2014. Il capo della polizia nazionale Anders Thornberg ha dichiarato: «È con sgomento e grande tristezza che ho ricevuto la notizia che i nostri due colleghi e il nostro addetto alla sicurezza sono morti questo pomeriggio. I miei pensieri vanno ai loro parenti, familiari, amici e colleghi di lavoro. Sono anche in contatto con la polizia della regione per assicurarmi che ricevano il sostegno di cui hanno bisogno. Il capo dell'ufficio del procuratore speciale Anders Jakobsson ha dichiarato: «Le informazioni che ho ora indicano che si tratta di un incidente. Ma l'indagine è in una fase molto precoce».

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 5 ottobre 2021. Lars Vilks era sulla stessa lista nera del suo collega francese Charb, ucciso per primo nella redazione di Charlie quel 7 gennaio 2015: sulla sua testa al Qaeda aveva messo una taglia da 100mila dollari, 150mila se sgozzato. Ci avevano provato tante volte ad ammazzarlo, il miscredente svedese, il provocatore che aveva disegnato Maometto sul corpo di un cane, avevano provato a incendiargli la casa, a sparargli durante un convegno, un americano aveva progettato un attentato. Erano quasi quindici anni che viveva sotto scorta. Alla fine a ucciderlo è stato lo scoppio di una gomma della macchina su cui viaggiava sull'autostrada. Il vignettista è morto sul colpo domenica pomeriggio con i due agenti incaricati di proteggerlo dagli estremisti islamici, in uno schianto sulla E4, all'altezza di Markaryd, nel sud della Svezia. Stavano tornando a Stoccolma. «Non abbiamo elementi per dire che si tratti di un attentato o di un atto criminale» ha detto in una conferenza stampa Carina Persson, responsabile della polizia della regione di Malmö. Un'inchiesta è stata comunque aperta per escludere qualsiasi sabotaggio o azione terrorista, anche se, ha sottolineato l'agente, «per ora siamo nell'ambito di una normale inchiesta nel caso di un incidente stradale mortale. Se avessimo avuto altri elementi, l'inchiesta si svolgerebbe in altro modo». 

IL TESTIMONE Un testimone dell'incidente ha visto l'auto con a bordo il vignettista svedese e i suoi due agenti di scorta schizzare improvvisamente sulla carreggiata opposta. «Non c'era assolutamente traffico ha detto l'auto mi ha superato, andava a velocità sostenuta, a un certo punto l'ho vista schizzare sulla corsia opposta, mi pare di aver visto uno pneumatico che scoppiava; in quel momento arrivava un camion, lo scontro è stato terribile, l'auto si è prima schiacciata sull'asfalto, poi è esplosa». Il conducente del camion coinvolto nello schianto è stato ricoverato ed è stato già interrogato dalla polizia. «Che la persona che dovevamo proteggere e due nostri colleghi siano morti in questa tragedia è difficile da accettare e molto triste per tutti noi» ha dichiarato Carina Persson. Artista, illustratore e vignettista, Vilks aveva 78 anni. Era il 2007 quando il suo nome diventa famoso ed entra nelle liste degli uomini da abbattere per gli integralisti islamici. Due anni dopo la pubblicazione delle caricature di Maometto sul quotidiano danese Jyllands-Posten che avevano già incendiato il mondo musulmano, Vilks presenta a una mostra una caricatura del Profeta sul corpo di uno dei cani-da-incrocio ben noti agli svedesi: si tratta di installazioni, quasi sempre in legno e rappresentanti dei cani, che si trovano spesso al centro delle rotatorie in Svezia. Il disegno di Vilks era appena abbozzato, quasi incomprensibile, ma bastò a far pesare su di lui l'accusa di blasfemia. Voci critiche si sono levate negli anni contro Vilks, accusato di provocazione gratuita e anche di fare il gioco del razzismo antimusulmano o di servire la propaganda dell'estrema destra. Lui non aveva mai voluto fare marcia indietro e ha continuato a presenziare, sempre sotto scorta, a convegni in difesa della libertà di espressione. Era stato tra i primi a reagire dopo la strage a Charlie Hebdo («Non dobbiamo rinunciare, ma questo è il segno dei tempi in cui viviamo»).

LE AGGRESSIONI Nell'ottobre 2009 era stato arrestato un americano che voleva ucciderlo, l'anno dopo due fratelli kosovari avevano tentato di appiccare il fuoco a casa sua, poi era stato aggredito durante un dibattito a Göteborg. Nel febbraio 2015 era uscito indenne da un attacco durante un convegno in omaggio a Charlie in cui era morto un regista . «Non sono un fanatico, non ho posizioni politiche aveva detto una volta Sono soltanto un artista che vuole sperimentare i limiti, che vuole trovare cosa è possibile fare e cosa no, su cosa si può discutere, e credo che sia davvero importante, se si vuole parlare di libertà di espressione, di islam e di musulmani, avere una posizione abbastanza trasgressiva e provocatoria da intavolare un dibattito».

È morto Kurt Westergaard, autore delle vignette su Maometto. Unione Sarda il 18 luglio 2021. Aveva 86 anni. Negli ultimi anni ha dovuto vivere sotto la protezione della polizia in una località segreta. L'artista danese Kurt Westergaard, famoso per aver disegnato una caricatura del profeta Maometto che ha scatenato violente rivolte in alcuni Paesi musulmani, è morto all'età di 86 anni, al termine di una lunga malattia. L'illustratore è l'autore del più famoso dei 12 disegni pubblicati il 30 settembre 2005 dal quotidiano conservatore danese "Jyllands-Posten” con il titolo “Il volto di Maometto”, in cui il profeta era rappresentato con un turbante a forma di bomba. Le vignette avevano scatenato le proteste degli ambasciatori dei Paesi musulmani in Danimarca. La rabbia si era poi intensificata con un'ondata di violenze anti-danesi nel mondo musulmano nel febbraio 2006, considerata come la più grave crisi di politica estera per il Paese dopo la Seconda guerra mondiale. La violenza legata alle vignette ha raggiunto il picco nel 2015, con l'attacco con 12 morti al settimanale satirico francese “Charlie Hebdo” a Parigi, che aveva ristampato le vignette nel 2012. Westergaard aveva lavorato per la rivista "Jyllands-Posten” dalla metà degli anni '90 come illustratore, e il disegno in questione era già stato stampato una volta, senza suscitare polemiche. Negli ultimi anni, il disegnatore, come molti altri nomi associati alle vignette, ha dovuto vivere sotto la protezione della polizia in una località segreta. All'inizio del 2010, la polizia danese ha arrestato un uomo di nazionalità somala che era entrato armato di coltello nella sua casa nell'intento di ucciderlo.  

La morte di Wastergaard: le vignette su Charlie Hebdo e la panic room. Un eroe della libertà d’opinione, della libertà dell’ironia e del sarcasmo anche feroce. Pierluigi Battista il 20/07/2021 su huffingtonpost.it. Il primo gennaio del 2010 il vignettista danese Kurt Wastergaard, morto ieri, aveva capito di non aver paranoicamente esagerato in prudenza costruendo nella sua casa una “panic room”, una stanza blindata dove rifugiarsi in caso di attacco. Quel giorno tre fondamentalisti islamici somali avevano fatto irruzione con asce e coltelli nella casa di Wastergaard per far fuori il blasfemo, l’infedele, il “maiale” (così dissero) che aveva osato con le sue vignette prendersi gioco di Maometto e che dunque meritava di morire sgozzato dai vendicatori della fede caplestata a colpi di matita. Wastergaard si salvò quella volta, ma non si salvarono i colleghi vignettisti del settimanale francese “Charlie Hebdo” che aveva avuto la temerarietà di pubblicare le vignette blasfeme: loro non avevano la “panic room” e i terroristi fecero strage di simpatici disegnatori che avevano a cuore la libertà d’espressione, la libertà di satira, l’irriverenza, tutte virtù che nell’integralismo islamista sono altrettanti vizi da sradicare con l’assassinio, la violenza, la persecuzione. Oggi si parla poco di Wastergaard che invece dovremmo considerare un eroe della libertà d’opinione, della libertà dell’ironia e del sarcasmo anche feroce. Contro di lui erano state scatenate le piazze fanatiche e in alcuni casi ci furono addirittura tentativi d’assalto nelle ambasciate danesi nei Paesi islamici. Volevano l’abiura, ma Wastergaard non abiurò e fu ridotto in solitudine, difeso soltanto dalla sua provvidenziale panic room. Ricordarlo, è anche un omaggio al coraggio dei suoi colleghi massacrati di Charlie Hebdo.

Offese e critiche a Maometto, Islam e Corano: da Dante a Rushdie, la fatwa nella storia. Anche l'attentato alla redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo era legata a vignette dissacranti sull'Islam. Fabio Lombardi su Il Giorno il 30 giugno 2021. Rei di aver dileggiato il Corano, l'Islam o il suo profeta Maometto, commettendo il reato di blasfemia. Sono molti i casi nella storia di personaggi pesantemente criticati o condannati, addirittura a morte, tramite fatwa (una "sentenza" emanata da un'autorità religiosa sciita che comporta la condanna a morte per blasfemia).

La studentessa condannata

Il caso della studentessa brianzola di origini marocchine che, rientrata nel Paese africano per andare a trovare la famiglia, è stata condannata a 3 anni e mezzo di carcere per aver fatto ironia, via Facebook, su un versetto del Corano.

I casi nella storia

Tanti i casi di personaggi condannati per le critiche e le opinioni sul Corano, l'Islam e il profeta Maometto: fra i più eclatanti ci sono i casi di Dante Alighieri e Salman Rushdie.

Dante Alighieri

Dante nella Divina Commedia colloca Maometto all'Inferno tra i "Seminatori di discordie" della IX Bolgia dell'VIII, la cui pena consiste nell'essere fatti a pezzi da un diavolo armato di spada. Maometto compare nel Canto XXVIII, nei versetti fra il 22 il 63. Appare tagliato dal mento all'ano, con le interiora e gli organi interni che gli pendono tra le gambe; egli stesso si presenta a Dante e mostra le sue ferite aprendosi il petto, spiegando che lui e i compagni di pena hanno seminato scandalo e scisma nel mondo, per cui ora sono "fessi" (tagliati) in questo modo da un diavolo che li mutila con una spada (le ferite si rimarginano prima che siano tornati davanti a lui, una volta percorsa l'intera Bolgia). Maometto indica tra gli altri dannati Alì, che fu suo cugino e suo quarto successore come califfo, tagliato dal mento alla fronte, quindi chiede a Dante chi sia e perché indugi a unirsi a loro nella pena. Virgilio spiega che Dante è ancora vivo ed è lì per vedere la loro punizione, quindi Maometto si arresta e fa a Dante una profezia riguardante l'eretico fra Dolcino (se non vuole seguirlo presto lì, dice, dovrà rifornirsi di viveri per non essere preso per fame nell'assedio del 1306 nel Biellese). Durante queste ultime parole il dannato tiene il piede sospeso in aria, in una posizione grottesca che accentua il carattere comico-realistico di tutta la sua descrizione. Per questo Alighieri si è attirato durissime critiche da parte dell'Islam nel corso dells storia.

San Petronio

Bologna l’affresco con Maometto in San Petronio

E' sempre una raffigurazione di Maometto, all'interno della chiesa bolognese di San Petronio, ad aver generato parecchie tensioni negli anni successivi all'attacco alle Torri Gemelle di New York, l'11 settembre del 2001. Dopo quella data la basilica di San Petronio è sottoposta a uno stringente regime di sorveglianza, con militari e polizia a controllare ogni ingresso. Il motivo? Una raffigurazione del profeta Maometto all’inferno, opera che si trova all’interno della Cappella dei Re Magi, a sinistra della navata centrale. L’autore degli affreschi è Giovanni da Modena, che intorno al 1410 dipinse gli episodi della vita di San Petronio sulla parete di fondo. Mentre sulle pareti di destra e di sinistra raffigurò, rispettivamente, le storie dei Re Magi e il Giudizio Universale.

Salman Rushdie e i Versetti Satanici

Salman Rushdie

Lo scrittore e saggista Indiano, naturalizzato britannico, è stato condannato a morte da una fatwa dell'Imam iraniano Khomeini. Una condanno dovuta al suo libro "Versetti Satanici". "Nel 1988 scrisse I versi satanici (The Satanic Verses), - si legge sull'enciclopedia online Wikipedia - una storia fantastica ma chiaramente allusiva nei confronti della figura di Maometto, e ritenuta blasfema dai Musulmani.La pubblicazione del libro provocò nel febbraio 1989 una fatwā di Khomeini che decretò la condanna a morte del suo autore, reo di bestemmia. Un privato cittadino offrì una taglia per la morte dello scrittore, tollerata dal regime khomeinista. Lo scrittore riuscì a salvarsi rifugiandosi nel Regno Unito e vivendo sotto protezione.

Il traduttore giapponese del romanzo, Hitoshi Igarashi, fu ucciso da emissari del regime iraniano, mentre il traduttore italiano, Ettore Capriolo fu aggredito da un sicario in casa sua rimanendo, fortunatamente, solo ferito, così come l'editore norvegese in un episodio analogo.La fatwa è stata reiterata ancora il 17 febbraio 2008, in quanto "la condanna a morte dell'Imam Khomeini contro Salman Rushdie ha un significato storico per l'islam e non è semplicemente una condanna a morte".

Attentato a Charlie Hebdo

Il 7 gennaio 2015, attorno alle 11.30, un commando di due uomini armati con fucili d'assalto Kalashnikov fece irruzione nei locali della sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, durante la riunione settimanale di redazione, sparando sui presenti. Furono uccise dodici persone, tra le quali il direttore Stéphane Charbonnier detto Charb, diversi collaboratori storici del periodico (Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Honoré) e due poliziotti; altre quattro persone della redazione rimasero ferite. Pochi istanti prima dell'attacco, il settimanale satirico aveva pubblicato sul proprio profilo Twitter una vignetta su Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico. Dopo l'attentato il commando, che durante l'azione gridò frasi inneggianti ad Allah e alla punizione del periodico Charlie Hebdo, fuggì, uccidendo per strada un altro poliziotto. I due terroristi terminarono la fuga barricandosi in una piccola azienda in periferia di Parigi, morendo poi durante lo scontro a fuoco con le forze dell'ordine, il 9 gennaio.Si trattò del più grave attentato terroristico in Francia dal 1961, fino a quello del 13 novembre 2015. In seguito agli attentati, Charlie Hebdo tornò in edicola il 14 gennaio con il numero 1.178, con una tiratura di 7 milioni di copie e in 16 lingue. In Italia uscì allegato a Il Fatto Quotidiano, esaurendo subito le 268.000 copie. La redazione del settimanale fu ospitata per qualche tempo in quella del giornale Libération, per poi essere ulteriormente trasferita in un luogo segreto, sottoposto a particolari misure di sorveglianza e sicurezza. Dopo l'uscita di questo numero, le pubblicazioni ripresero regolarmente solo a fine febbraio 2015.

Cos'è la Fatwa

La Fatwa è un procedimento giuridico complesso. Semplificando all'estremo si tratta della risposta di un giudice a un quesito. In particolare i tribunali sciaraitici danno responsi in base alla Sharia (in base al Corano e alla Sunna).  La parola ha avuto notorietà in Italia per l'uso restrittivo con cui è stata intesa nel linguaggio dei media che la riferirono alla condanna a morte in contumacia pronunciata nell'anno 1989 dall'Ayatollah Khomeinī contro lo scrittore indiano Salman Rushdie, ritenuto reo di sacrilegio verso la religione musulmana per il suo libro I versi satanici. Sebbene questo sia uno dei possibili significati, non è però uno dei più comuni, e molti musulmani si ritengono irritati da un simile indebito accostamento tra fatwa e "pena capitale" da parte degli occidentali. La fatwa può infatti riguardare pressoché qualunque aspetto della vita individuale, delle norme sociali e religiose, della guerra e della politica del mondo islamico. Nei 1400 anni di storia musulmana, milioni di fatawa sono state emesse su innumerevoli situazioni quotidiane, come il matrimonio, gli affari economici e le questioni private. Tuttavia, un assai limitato numero di esse riguarda argomenti ben più controversi, come il jihād e i dhimmi, e sebbene siano emanate perlopiù da improvvisati e irrituali "dotti" fondamentalisti, tendono a ricevere molta più attenzione da parte dei mezzi di comunicazione non islamici, a causa dei loro importanti riflessi politici.

"I talebani? Hanno ragione". Gli islamici assolvono i terroristi in tv. Marco Leardi il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. L'inviata di Striscia la Notizia chiede agli islamici di Milano di prendere le distanze dai fondamentalisti tornati al potere in Afghanistan. La reazione è sconvolgente: alcuni di loro giustificano i talebani. I talebani? "Secondo me hanno ragione". Anzi, di più. "Sono proprio bravi". L'altra faccia dell’Islam di casa nostra, quella più inquietante e problematica, si è disvelata in tv davanti ad una semplice domanda: "Vuole prendere posizione contro il fondamentalismo?". Lo schiacciante interrogativo, posto dall'inviata di Striscia la Notizia Rajae Bezzaz ad alcuni intervistati di cultura musulmana, ha riservato più di qualche amara sorpresa. In un servizio trasmesso ieri sera, la reporter del programma di Canale5 aveva cercato di capire cosa pensassero gli islamici di Milano dei talebani tornati al potere in Afghanistan. L'esito dell’esperimento è stato però piuttosto sconvolgente. Aggirandosi per le strade del capoluogo lombardo, l'inviata di Striscia aveva chiesto ad alcuni musulmani di scagliare simbolicamente una ciabatta contro il cartonato di un talebano armato. Un gesto quasi goliardico ma allo stesso tempo dal fortissimo significato culturale. Eppure, di fronte alla facile possibilità di prendere le distanze dagli estremisti, la maggior parte degli intervistati si è rifiutata di esprimere il dissenso. Anzi, alla visione della sagoma del talebano, uno degli interpellati ha usato toni assolutori: "È vero, è un terrorista… ma in fondo è sempre un musulmano". Un altro, invece, ha addirittura esclamato: "Secondo me ha ragione". A quel punto, a nulla è valso il tentativo dell’inviata Rajae di spiegare che i talebani avessero sottomesso le donne imponendo loro il velo integrale. "Mi sembra giusto, per il musulmano è sempre giusto il burka!", ha ribattuto un intervistato. E un altro ancora, indicando il cartonato dell’islamista armato, ha osservato: "Lui è bravo". Voci e testimonianze raccolte in pieno giorno per le vie di Milano e non in un sobborgo di Kabul. Fortunatamente, davanti alle telecamere di Striscia sono apparse anche alcune donne che – se pur in netta minoranza – hanno avuto il coraggio di abbattere il simbolico bersaglio. Il loro comportamento ha però scatenato anche reazioni sconsiderate proprio all'interno della comunità islamica. Ad un tratto, infatti, un musulmano ha dapprima inveito contro la coraggiosa Rajae, che non si è lasciata intimidire. Poi sono scattate le minacce nei confronti di una madre che aveva "osato" protestare contro l'oppressione del regime di Kabul verso le donne e le bambine. "Tu sei una gran put…! Hai colpito quell’immagine e non ne conosci il valore", ha esclamato l'individuo riferendosi all'effige del talebano. In tv, l'allarmante istantanea di un'integrazione in alcuni casi lontana, se non addirittura impossibile.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.

Afghanistan e Libia: tutte le armi in mano ai terroristi islamici. Come possono usarle. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera 21 settembre 2021. Afghanistan, Libia e Siria sono le tre crisi che oggi alimentano l’arcipelago dell’estremismo islamico. Tre Paesi fuori controllo dove l’intervento dell’Occidente ha acuito il rischio per la sicurezza globale. A Doha, nei mesi scorsi, gli americani hanno trattato il ritiro dall’Afghanistan con i talebani, la promessa era: noi ce ne andiamo, ma voi non consentirete ad al Qaida, o altri gruppi estremisti, di operare nel Paese. Sappiamo come è andata. E quando i Paesi si disfano, le armi restano. Quali e quante armi, e dove vanno a finire? 

Le armi dell’esercito russo. In Afghanistan ci sono. Ci sono tutte quelle abbandonate dai sovietici dopo la ritirata del 1989: mitragliatrici pesanti NSV e KPV, e le più moderne Kord (russe). I loro colpi penetrano muri e mezzi blindati. Sono in grado di colpire fino a oltre 2000 metri e possono abbattere aerei in volo a bassa quota o in fase di decollo e atterraggio. Di solito sono impiegate in postazioni protette o montate su automezzi (le chiamano «tecniche»), come succede per i razzi multipli da artiglieria Grad. Numerosi i razzi a spalla, come l’RPG 7 ritratto nelle foto di molti mujāhidīn dell’epoca. Nascono come armi anticarro ma sono impiegati anche nelle aree urbane e come armi antiaeree. Diffusi in tutto il Paese i mortai (come l’82 BM 37), utilizzati continuativamente anche in questi 20 anni per attacchi e attentati anche a Kabul, da un quartiere all’altro, soprattutto per attaccare la zona dei palazzi del Governo. Ci sono poi gli SPG9 da 73 mm: armi anticarro leggere usate un po’ per tutte le tipologie di combattimento, sia su treppiede che automontati. Questo arsenale è finito quasi tutto nelle mani dei talebani, e nelle loro mani è rimasto dopo essere stati cacciati dalle forze alleate nel 2001, nascosto e sotterrato nelle cave. 

Le armi americane. Oggi si aggiunge tutto l’equipaggiamento americano in dotazione al disciolto esercito afgano: 75.000 veicoli militari, 600.000 fra fucili d’assalto come l’M16 e l’M4, mitragliatrici pesanti, armi anticarro, artiglieria leggera con cannoni e mortai, 16.000 visori notturni, illuminatori laser. Questo vuol dire che sono in grado di combattere e colpire con precisione anche di notte. I talebani si sono impossessati dei rilevatori biometrici con le impronte digitali e le scansioni oculari degli afghani che hanno collaborato con le forze alleate negli ultimi 20 anni. Più di 200 fra aerei ed elicotteri. Se saranno in grado di pilotarli e manutenerli, dovranno fare i conti con il loro utilizzo perché il controllo dello spazio aereo e la supremazia aerea (vuol dire che gli americani possono ancora effettuare operazioni aeree quasi senza limitazioni) è ancora in mano americana: le basi Usa sono in tutti i Paesi confinanti, ad eccezione dell’Iran. Poi un centinaio di droni. Anche in questo caso occorre saperli pilotare, e poi serve il collegamento radio che gli americani possono bloccare con azioni di disturbo e accecamento elettronico. Il grande problema sono i sistemi di abbattimento aereo e i talebani hanno i missili Stinger forniti dagli Usa durante l’occupazione russa: sono sistemi d’arma composti da un lanciatore da spalla e un missile che impiega il puntamento a infrarosso passivo e che segue autonomamente la traccia di calore del velivolo. Fu questo tipo di arma a determinare la disfatta dell’esercito russo. Non è detto che oggi le batterie siano ancora utilizzabili, ma i talebani hanno anche i Misagh 1 e 2 di produzione iraniana e russa (ne sono spariti qualche migliaio durante la disfatta libica e nessuno sa che fine abbiano fatto). Queste armi hanno un raggio d’azione di 5 km e possono abbattere aerei civili o militari fino a 3500 metri di quota, compromettendo la sicurezza della supremazia aerea Usa in Afghanistan. 

Esplosivo e bomb maker. Le quantità di munizioni d’artiglieria sono enormi: quelle russe perfettamente conservate in scatole sigillate e quelle americane, dalle quali viene recuperato esplosivo da innesco e relative spolette per realizzare attentati o per attentatori suicidi. In questo caso servono soggetti con capacità ingegneristiche, si chiamano «bomb maker» e sono figure molto quotate fra le varie formazioni terroristiche; le forze speciali occidentali avevano missioni di intervento cinetico su questi «elementi» (ovvero colpirli per farli fuori). Analisti e specialisti intelligence hanno dimostrato che l’eliminazione anche di un solo «bomb maker» provoca un rallentamento degli attentati anche in aree piuttosto estese. Purtroppo sono difficili da individuare, in più la presenza di vent’anni di truppe occidentali, con ottime capacità di scoperta e difesa da ordigni esplosivi, ha contribuito ad elevare le capacità tecniche e tecnologiche dei «bomb maker». In sostanza se 20 anni fa i talebani furono cacciati con lo sbarco di 40.000 militari, con lo scenario di oggi i numeri sarebbero ben altri. Tra armi sovietiche e americane stiamo parlando di arsenali sufficienti a sostenere guerriglie per decenni, e il rischio più immediato è che l’Afghanistan ritorni a essere una base di addestramento e rifugio di formazioni terroristiche islamiche. Nei 20 anni di presenza degli eserciti occidentali in Afghanistan, il governo di Kabul non ha mai controllato le periferie del Paese, lì dove si erano ritirati i talebani dopo il 2001 e dove sono cresciuti e hanno prosperato, soprattutto grazie al narcotraffico, i gruppi armati locali. Questa estate hanno riconquistato il Paese in due settimane, e nella capitale sono tornati anche gli altri protagonisti dell’estremismo islamico, anche loro armati fino ai denti: bin Laden era un grande esperto a sfruttare le caverne naturali dell’Afghanistan, dove è stata stipata parte dell’arsenale russo. Oggi i gruppi terroristici sono almeno sei, tutti in competizione fra loro, e la superiorità è valutata in base alle atrocità che commettono. E tutti vogliono entrare a far parte del nuovo governo talebano. Vediamo quali sono e chi li sostiene. 

I gruppi del terrore.

ISIS-Khorasan. Il più estremo e violento di tutti i gruppi militanti jihadisti in Afghanistan, colpevole dell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto che ha ucciso 170 persone. È antagonista dei talebani, che considera apostati. Ha sede nella provincia orientale di Nangarhar. Nasce nel gennaio 2015 al culmine del potere dell’Isis in Iraq e Siria, della cui galassia fa parte. Recluta jihadisti pakistani e afghani, in particolare ex talebani che non considerano la propria organizzazione abbastanza estrema. In questi anni ha preso di mira le forze di sicurezza e i politici afgani, i talebani, le minoranze religiose, le forze statunitensi e Nato e le agenzie internazionali, comprese le organizzazioni umanitarie. Riceve finanziamenti da simpatizzanti stranieri tramite le reti islamiche hawala, attraverso le proprie imprese criminali e tramite sussidi diretti dall’ISIS.

Lashkar-e-Taiba. Nasce in Afghanistan nel 1987 in chiave antisovietica, e negli anni ha goduto del sostegno finanziario di al Qaida. Il suo quartier generale sarebbe a Muridke, vicino Lahore, ma gestisce 16 campi di addestramento nella parte pakistana del Kashmir. Il suo obiettivo è quello di liberare il Kashmir indiano, dove vorrebbe instaurare uno stato islamico, ma è tornato a operare in Afghanistan nel 2020. Riceve finanziamenti da donatori in Medio Oriente, principalmente dall’Arabia Saudita, e attraverso simpatizzanti in Pakistan.

Jaish-e-Mohammed. Gruppo estremista islamico sunnita con sede in Pakistan. Conduce principalmente attacchi terroristici nella regione amministrata dall’India del Jammu e Kashmir con l’obiettivo di porre la regione sotto il controllo del Pakistan. Fondato nel 2000 con il sostegno dei talebani afghani, di Osama bin Laden e di diverse organizzazioni estremiste sunnite in Pakistan. Secondo l’Onu nel maggio 2020 In Afghanistan aveva circa 230 combattenti armati dislocati con le forze talebane. È finanziato da fondazioni di beneficenza islamiche e da legittimi interessi commerciali gestiti dall’Al-Rehmat Trust e dall’Al-Furqan Trust.

Lashkar-e Jhangvi. Gruppo militante sunnita wahhabbita pakistano nato nel 1996. Ha condotto negli anni diversi attacchi anti-sciiti in Pakistan e in alcune aree dell’Afghanistan, dove diversi suoi membri sono fuggiti sotto la protezione dei talebani nel 2001. Ha stretti legami con al Qaida, tanto che alcuni membri sono affiliati a entrambi. Riceve fondi da attività criminali come l’estorsione, da aziende private dell’Arabia Saudita e da ricchi donatori in Pakistan, in particolare da Karachi.

Al Qaida. Da sempre presente in Afghanistan, dove nasce negli anni ‘80 da una rete di reclutamento per la resistenza all’occupazione sovietica e, per questo, ha goduto anche di finanziamenti occidentali. Negli anni ‘90 si trasforma in una rete globale di cellule e gruppi affiliati contro i presunti nemici dell’Islam. Dopo l’uccisione di Osama bin Laden nel 2011, il gruppo è guidato dal medico egiziano Ayman al-Zawahiri, e si ritiene viva nascosto nella regione di confine tra Afghanistan e Pakistan. Riceve fondi da enti di beneficenza e donatori nel Golfo Persico, ma anche dai suoi affiliati, attraverso il rapimento a scopo di riscatto e l’estorsione.

Haqqani Network (talebani). Fa parte della galassia talebana. La sua base è nelle regioni a sud est di Kabul, lungo i 550 km di confine con il Pakistan: una terra di nessuno dove transitano droga, armi e mujāhidīn. È un hub strategico per i jihadisti dell’Asia centrale e del sud-est asiatico. Gode dell’appoggio dei servizi segreti pakistani e riceve fondi dall’import-export legale e illegale dai Paesi del Golfo Persico. È responsabile di alcuni degli attacchi più sanguinosi degli ultimi 20 anni: nel settembre 2009 uccide sette paracadutisti italiani a Kabul e tre mesi dopo sette agenti Cia all’interno della base americana Chapman di Khost. È guidato da Khalil Haqqani, oggi capo della sicurezza a Kabul, e dal nipote Sirajuddin Haqqani, appena nominato ministro dell’interno del nuovo governo. Ricercato dall’FBI con obiettivo KK (vivo o morto). Ed è con lui che dovremmo dialogare.

Libia, le santebarbare depredate. La Libia già ben prima che Gheddafi fosse destituito e ucciso e iniziasse la guerra civile, aveva già dieci volte le armi necessarie al suo esercito. Proprio l’ex dittatore, durante gli anni di tensione politico militare con gli Stati Uniti, aveva predisposto centinaia di scorte di armi e munizioni in tutto il Paese per fronteggiare un’eventuale invasione via terra con la guerriglia della «Milizia popolare». La stessa milizia che dopo il 2011 ha saccheggiato e messo in vendita quelle armi a «chi ne aveva bisogno». Tutte armi di produzione sovietica. Secondo l’analista indipendente dell’Aies, Wolfganf Pusztai, dagli arsenali sono scomparsi tra 600 mila e un milione di pistole, fucili d’assalto Kalashnikov. I depositi, oggi vuoti, contenevano anche mitragliatrici, lanciarazzi anticarro RPG, mortai, proiettili, munizioni, esplosivi (comprese le mine), apparecchiature di segnalazione, artiglieria antiaerea, missili anticarro e sistemi missilistici antiaereo SAM a corto raggio trasportabile a spalla con guida a infrarosso. Scomparsi i missili SA24 assistiti da radar di scoperta, quello in grado di cercare da solo il bersaglio, e un numero imprecisato di missili antiaereo a spalla SA7 Grail e che sono in grado di colpire un aereo a 4 km di distanza. C’erano anche armi occidentali, come il cannone anticarro senza rinculo americano M40, ideale per essere montato su pick-up. Molte delle armi erano ancora nella loro confezione originale e, nel corso della guerra civile, hanno preso la via della Siria attraverso Turchia e Libano, finendo sul mercato nero a prezzi che vanno da 2000 a 150 mila dollari (qui le ultime «quotazioni» di mercato conosciute). Le forze speciali statunitensi ne hanno trovati in Afghanistan. 

I signori del contrabbando libico. Uno dei protagonisti del contrabbando è Mahdi al-Harati, comandante di spicco della Brigata rivoluzionaria di Tripoli, che ha fondato in Siria la brigata salafita Liwāʼ al-Umma. Il traffico di armi è diventato una delle principali attività anche nel sud della Libia dove, in pieno deserto del Sahara, vivono le tribu nomadi Tuareg e Tebu e dove, da sempre, i confini sono estremamente porosi. Le armi prendono la via del Mali, dove i Tuareg hanno stretti rapporti con il gruppo di al Qaida nel Maghreb islamico e altre organizzazioni terroristiche: Mouvement national de libération de l’Azawad (MNLA), Ansar Dine e Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest (MUJAO). I Tebu, invece, controllano il contrabbando verso Ciad e Sudan, dove cooperano con bande locali e delegati di organizzazioni terroristiche come ISIS e Boko Haram. Grandi quantità di armi dalla Libia sono state trafficate illegalmente a Gaza, Sinai e Siria, aumentando la capacità militare dei gruppi armati estremisti. Questo succede quando i paesi si disfano.

Altre vie minori di commercio sono state l’Algeria, l’Egitto (per giungere a Gaza) e la Tunisia, dove i rifugiati libici, dopo la fuga, hanno venduto le armi che avevano portato con loro. In seguito i jihadisti tunisini si sono trasferiti in Libia per l’addestramento prima di unirsi alla guerra in Siria. Sono stati costruiti nel sud e nell’ovest della Tunisia diversi nascondigli di armi, preparandosi per un’eventuale rivolta più ampia. Dopo il cessate il fuoco del 2020, il flusso di armi è diminuito. Continuano invece ad arrivare dalla Turchia forniture di ogni tipo, inclusi i mini-droni, impedendo all’operazione UE IRINI di controllare le sue navi. La Russia sta fornendo i sistemi di difesa aerea, ricambi, e armi per l’aeronautica militare dell’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar che, attraverso società private, riceve anche mine, sempre dalla Russia, e lanciarazzi dalla Serbia. 

La mappa del terrore mondiale. Secondo il Global Terrorism Index 2020, redatto dall’Institute for Economics & Peace (IEP), il principale attore mondiale del terrorismo rimane l’Isis. Sono 20 i Paesi al mondo nei quali l’impatto dei gruppi terroristici è massimo. Il primo è l’Afghanistan: pesa per il 16,7% del suo Pil. Seguono Iraq, Nigeria, Siria, Somalia e Yemen. La Libia è al sedicesimo posto, ma dopo la sconfitta del Califfato dell’Isis di Sirte nel 2106 i suoi miliziani sono fuggiti verso il sud, nel Fezzan, luogo di traffici e rifugio di diverse di organizzazioni estremiste. In quest’area senza controllo i terroristi dell’Isis, 3-4.000 secondo un Rapporto delle Nazioni Unite del 2018, si preparano nei campi di addestramento, hanno depositi di armi, gestiscono le rotte per il contrabbando e tessono rapporti con altri gruppi armati del Sudan, del Ciad e del Mali e, soprattutto, con al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), che rimane ben rappresentata anche in Siria, Yemen, Somalia e Afghanistan, dove la sua alleanza con i talebani e altri gruppi terroristici rimane un punto fermo. Come l’Afghanistan, quindi, la Libia sta diventando sempre di più un hub per i miliziani dei Paesi dell’area e un connettore di gruppi terroristici. Con la differenza che la Libia è più vicina all’Italia.

La Fallaci suona la sveglia all'Occidente. Alessandro Gnocchi il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Dal Vietnam al Kuwait, per raccontare la verità: anche sul «risveglio» islamico nel 1991. «Le scoperte e le prese di coscienza definitive avvengono solo dopo le grandi tragedie: si direbbe che l'uomo, per dare qualcosa di bello, abbia bisogno di piangere». Di lacrime, in Sveglia, Occidente. Dispacci dalle guerre dimenticate (Rizzoli, pagg. 464, euro 19) Oriana Fallaci ne versa molte. L'Oriana va alla guerra, anzi, alle guerre, da quelle dimenticate a quelle che tuttora impegnano il nostro futuro, dal terzo conflitto indo-pachistano alla prima Guerra del Golfo contro Saddam Hussein, invasore del Kuwait. Nel libro c'è anche il Vietnam nel 1969; il Medio oriente l'anno dopo, nascosta con i guerriglieri arabi di Al Fatah nelle loro basi segrete; la Cambogia con interviste ai soldati americani che si ammutinavano in gruppo e sui quali il governo lasciava cadere il silenzio; la Bolivia con i preti «in blue-jeans» della Teologia della liberazione; Haiti, con una intervista al dittatore Jean-Claude Baby Doc; e tanto altro, tra cui una lettera sulla cultura, che vi presentiamo in questa pagina. Di inedito, non c'è nulla. Sono reportage pubblicati dall'Europeo negli anni Sessanta-Settanta, con l'eccezione di quelli dal Golfo, che risalgono al 1991. La parte forse più interessante riguarda proprio il Kuwait. Ai lettori del settimanale, la Fallaci racconta il disastro ambientale causato da Saddam, che incendiò i pozzi. La Fallaci attraversa la Nuvola Nera sprigionata dal petrolio in fiamme e ha un netto presentimento della propria morte: «Da questa guerra torno con una ferita che non si vede. Perché non è una ferita esterna, una ferita che sanguina e lascia una cicatrice sulla pelle. È una ferita nascosta dentro i miei polmoni, una ferita che si rivelerà chissà quando. Tra sei mesi, tra un anno, tra due?». Si dirà sempre convinta che il tumore contro il quale lotterà come un leone sia dovuto alla Nuvola Nera. Non è la sola illuminazione. La società del Kuwait, composta da ricchissimi sceicchi, non ha opposto vera resistenza a Saddam. Gli americani non sono visti di buon occhio, fanno comodo in quel momento, perché evitano all'aristocrazia dell'oro nero di prendersi troppo disturbo. Sul punto, in quel periodo, la Fallaci è molto più esplicita sulle colonne del Corriere della Sera: «Eh, sì: nessuno ne parla perché chi se n'è accorto ritiene che sia meglio non toccar l'argomento, non svegliare la tigre che dorme. Ma c'è una guerra dentro la guerra, quaggiù». Il risorto anti-americanismo schiera i sauditi contro gli occidentali. I soldati della coalizione non sono visti come liberatori e nessuno vuole che si fermino nelle terre sacre dell'islam. Questa «guerra nella guerra», scrive la Fallaci, è guidata dai «mullah dei quartieri periferici e delle moschee meno importanti, cioè i preti estranei all'oligarchia religiosa che assieme ai cinquemila principi della famiglia reale domina il Paese» (l'articolo si può leggere in Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam, Rizzoli). Al Qaeda nasce proprio dalla «guerra nella guerra». Osama era ossessionato dalle basi statunitensi in Arabia Saudita. Per chi voleva capire le motivazioni dell'11 settembre 2001, era tutto già scritto (e non solo dalla Fallaci) nel 1991. Le autorità militari le avevano lasciato vedere poco ma Oriana aveva capito l'essenziale. Di fronte alle sue rimostranze, un militare armato di Rpg grida: «Lei è qui per farci propaganda!». Risposta: «No, signor mio. Sono qui per raccontare la verità». A posteriori, sfogliando l'indice, si può pensare, a ragione, che la Fallaci avesse visto in anticipo il mondo multicentrico di oggi, fondato su più superpotenze, e su potenze regionali talvolta non meno pericolose. Per questo, scontri all'apparenza meno «vistosi» del Vietnam furono trattati dalla Fallaci con grande cura. La questione indo-pachistana, con coinvolgimento del Bangladesh, è potenzialmente pronta a esplodere, letteralmente, a colpi di atomica. Ignorarla non è saggio. La Fallaci esigeva di essere chiamata «scrittore», al maschile, e disprezzava l'idea che alle donne fosse assegnato un ruolo particolare in ragione del sesso. D'altro canto, proprio l'attenzione al ruolo delle donne è una costante della carriera di Oriana, fin dagli esordi del Sesso inutile (Rizzoli, 1961) o Penelope alla guerra (Rizzoli, 1962). Qui ne troviamo testimonianza nell'intervista alla socialdemocratica Sirimavo Bandaranaike, prima donna premier al mondo (a Ceylon, che oggi si chiama Sri Lanka) e subito alle prese con una difficilissima situazione politica. Con i reportage si può fare Storia? Dipende. La Fallaci ci è riuscita. 

Da "la Verità" il 14 settembre 2021. Pubblichiamo un estratto del capitolo «Quell’autostrada verso il mattatoio» contenuto nel libro di Oriana Fallaci Sveglia Occidente. Dispacci dal fronte delle guerre dimenticate (Rizzoli, 464 pagine, 19 euro) in libreria da oggi. Nel volume sono raccolti suoi reportage su vari fronti di guerra, pubblicati originalmente sull’Europeo. Testo di Oriana Fallaci

Kuwait, marzo 1991. La ritirata degli iracheni dal Kuwait ebbe inizio domenica 24 febbraio quando la polizia segreta di Saddam Hussein se la svignò con gli ostaggi. Quella vera e propria però si svolse la sera di lunedì 25 quando sul lungomare della capitale si formò un convoglio lungo circa dieci chilometri, composto di migliaia di veicoli. (Tremila, dicono alcuni testimoni. Cinquemila, dicono altri.) C'era di tutto, in quel convoglio. Autocisterne piene di benzina, carri armati T-72, autoblindo, cannoni da centotrenta e da centocinquanta, camion con rimorchio e senza rimorchio, jeep con le mitragliatrici da 12.7, gipponi coi cannoncini della contraerea, motociclette, automobili rubate, e ciò che era rimasto da saccheggiare agli abitanti della città. C'erano anche parecchi militari. Facendo una media minima di quattro militari a veicolo e accettando la cifra di tremila veicoli, non meno di dodicimila. Facendo una media più realistica cioè di sei militari a veicolo e accettando la stessa cifra, non meno di diciottomila. Accettando la cifra di cinquemila veicoli e basandoci sulle medesime medie, dai ventimila ai trentamila. In ogni caso tanti, da ammazzare in un colpo solo. Tanti...Il convoglio si mise in moto verso mezzanotte e imboccò la Jaharah Road cioè l'unica strada che dal Kuwait porti a Baghdad. Ma non arrivò mai a Baghdad. Non arrivò neanche alla frontiera. Verso l'una del mattino gli americani lo individuarono grazie alla 27th Armoured Division che si trovava a qualche miglio di distanza, chiamarono gli F-15 e gli F-16 e gli F-18 e gli F-111 e gli Apache e i Cobra, e lo fermarono anzi lo distrussero con l'attacco più feroce che un esercito in ritirata abbia subito dai tempi di Napoleone. Più che un'azione di guerra, una strage da Apocalisse. «This is not a battle-field» si nota che abbia commentato con amarezza un ufficiale inglese. «This is a killing-field. Questo non è un campo di battaglia. È un mattatoio.» A destra e a sinistra della Jaharah Road si stende infatti il deserto, e non un deserto piatto nel quale puoi gettarti in cerca di salvezza: un deserto reso impraticabile dagli avvallamenti, dalle dune. Per sfuggire all'orgia di fuoco che pioveva dal cielo gli autisti dei veicoli si buttarono tra quelle dune, in quegli avvallamenti, travolti dal panico presero disperatamente a girarvi formando spirali dentro cui si imbottigliavano per scontrarsi o capovolgersi, e neanche uno si salvò. Neanche uno. Tre giorni dopo, quando spinta dalle voci d'un supposto massacro mi portai sulla Jaharah Road, rimasi così annichilita dall'orrore e dallo stupore che non credevo ai miei occhi. Per chilometri e chilometri non vedevi che quelle spirali di ferro contorto e annerito, carri armati e cannoni rovesciati, autocisterne e autoblindo e automobili bruciate, camion e rimorchi e gipponi accatastati l'uno sull'altro, a volte in piramidi alte cinque o sei metri, a volte in mucchi affogati dentro i crateri, e intorno a questo un caos di oggetti saccheggiati. Coperte di lana, lenzuoli, pezze di seta, paralumi, camicie da uomo, scarpe da donna (molte coi tacchi a spillo), vestiti da bambini, giocattoli, scatole di cipria, televisori, grattugie, posate d'oro e d'argento, smalto rosso da unghie, video, bottiglie di profumo, mazzi di cipolle, bulbi da piantare, banconote, fon per asciugare i capelli, e perfino soprammobili tra cui un falchetto impagliato, roba su cui i kuwaitiani si gettavano come avvoltoi affamati disinvoltamente rubando il rubato. «Era nostra, no?» Di morti, però, solo due. Uno, trafitto da una raffica e nero di mosche, al volante di una Mercedes. E uno, carbonizzato sotto un autoblindo. E gli altri? Dov' erano finiti i trentamila o ventimila o diciottomila o dodicimila militari del convoglio? Possibile che salvo quei due fossero già stati tutti raccolti, sepolti a tempo di record? Possibile. E a sostenere la tesi c'era la presenza di bulldozer che servono a scavare le fosse. C'era anche il racconto d'un fotografo che l'indomani aveva visto i bulldozer al lavoro, e perduto un'istantanea da premio Pulitzer. «Più che fosse, trincee interminabili dentro le quali i cadaveri venivano allineati poi coperti con la sabbia. Questo deserto è ormai un cimitero. Peccato che non possa dimostrarlo: i marines mi hanno requisito il rotolino. E conteneva un'istantanea da premio Pulitzer, sa? Quella d'un caporale che a un certo punto ha ficcato nella sabbia il Kalashnikov d'un iracheno, ci ha appoggiato sopra il suo elmetto, e portando la mano alla fronte s' è messo sull'attenti.» Infine c'era la frase pronunciata da Schwarzkopf sui soldati iracheni morti: «Many, many, many, many, many. Molti, molti, molti, molti, molti. And many have been already buried. E molti sono già stati sepolti». Eppure quando ho voluto accertarmene con gli americani, ho trovato un muro di silenzio. Per una settimana nessuno ha aperto bocca. Nessuno. Né a Kuwait City né a Dhahran, né a Riad. «I cadaveri? Che cadaveri?» «I cadaveri del convoglio.» «Il convoglio? Che convoglio?» «Quello che avete distrutto sulla Jaharah Road.» «Jaharah Road?» Solamente quando mi sono rivolta al generale Richard Neil e gli ho detto: «Signor generale, lei sa bene di che cosa parlo, altrettanto bene sa che è mio diritto chiederle questa informazione, suo dovere darmela, al comando di Riad mi hanno fornito una prova che il massacro era avvenuto». «All'attacco hanno partecipato gli F-15, gli F-16, gli F-18, gli F-111, gli Apache e i Cobra.» «E quanti morti ci sono stati? Dove li avete sepolti?» «Non ne sappiamo nulla, dei morti. Non ci risulta che siano stati sepolti. L'attacco era diretto contro i veicoli, non contro i soldati.» «Non contro i soldati? Ma che cavolo di risposta mi dà?» «La risposta che mi è stato ordinato di darle. Good evening, buona sera.» Non a caso il verbo to kill, uccidere, veniva sempre usato da loro per le cose. Mai per la gente. «Five bridges killed. Cinque ponti uccisi.» «Ten aircrafts killed. Dieci aerei uccisi.» «Fifty tanks killed. Cinquanta carri armati uccisi.» Strani tipi, gli americani di questa guerra. A me non sono piaciuti. Non erano gli americani che ho conosciuto in Vietnam: i ragazzi gioviali e simpatici coi quali potevi ridere e piangere, dividere il rancio e il posto in trincea, parlare in libertà. Non erano i militari aperti e sinceri che dicevano (magari mentendo o esagerando) oggi-ho-ammazzato-cento-vietcong. Erano uomini e donne durissimi, disciplinati fino alla nausea, chiusi in se stessi, superbi e spesso arroganti. In quel senso, a volte, mi ricordavano i tedeschi di Bismarck, e un giorno l'ho detto all'unico ufficiale con cui riuscissi a scambiare qualche battuta o qualche sorriso: una colonnella d'un metro e ottanta, Virginia Prybila, che a Riad lavorava al Joint Information Bureau. «Virginia» le ho detto, «siete diventati proprio antipatici. A volte mi ricordate i tedeschi di Bismarck. Ma che v' è successo, Virginia?» E senza muovere un muscolo del volto ferrigno, prussiano, Virginia ha risposto: «Il Vietnam».[...] So che ad alcuni non è piaciuta la mia corrispondenza sulla liberazione di Kuwait City, il mio sospetto che quello iracheno fosse un esercito di ladri e di volgari saccheggiatori piuttosto che di assassini alla Hitler, il mio bisogno di ridimensionare le esagerazioni di chi per leggerezza o interesse o sensazionalismo moltiplica uno per cento e cento per mille. (Abitudine molto diffusa in quella parte del mondo, come ricordano i trecento morti che nel 1979 l'esercito iraniano fece in una piazza di Teheran e che il giorno dopo erano diventati tremila. Il giorno dopo ancora, trentamila. La settimana seguente, trecentomila. E quando andai in Iran per intervistare Khomeyni, tre milioni.) So che coloro cui piace moltiplicare uno per cento e cento per mille si sono scandalizzati perché ho scritto di non aver trovato le prove di certe atrocità inclusa quella raggelante dei neonati strappati alle incubatrici e buttati via nella spazzatura. So che si sono irritati perché ho avanzato il dubbio che la Resistenza kuwaitiana fosse stata una cosa seria anzi che fosse esistita, o perché mi sono sorpresa a trovare migliaia di kuwaitiani che non parlavano inglese ma in perfetto inglese inneggiavano a Bush con slogan non certo inventati da loro, e perché mi sono arrabbiata a veder sparare in aria le tonnellate di pallottole che la Resistenza non aveva sparato agli iracheni. So che qualche sciocco in malafede mi ha addirittura accusato di negare che vi fossero state torture e assassinii.[...] Dio mi maledica se minimizzo la tragedia di coloro che hanno sofferto. Però mi maledica anche se mi presto al gioco dell'emiro Al Shebah Al Sabah cui certa propaganda serve per impinguare coi danni di guerra le sue cassaforte. Mi maledica anche se dimentico che almeno la metà dei suoi ricchissimi sudditi se ne stavano in dorato esilio a Londra o al Cairo o nel Bahrein o nel Qatar dove bisbocciavano a champagne con le prostitute (e il Corano?) e dove venivano presi santamente a pugni dai militari americani o inglesi o egiziani cui dicevano sghignazzando: «Perché siamo qui anziché nell'esercito kuwaitiano o nella Resistenza kuwaitiana? La guerra è una cosa pericolosa. Per farla paghiamo voi». E concludo: durante il mio secondo viaggio a Kuwait City venni aggredita da un elegantissimo giovanotto in thobi e RPG cui avevo espresso il timore che i morti straziati e mostrati ai fotografi o ai cameramen venissero riciclati dalle morgues degli ospedali. Un paio infatti m' erano sembrati identici. «La prego, dimostri che sbaglio.» «Che sbaglio e non sbaglio! Lei è qui per farci propaganda!» urlò agitando RPG. Lo guardai negli occhi e gli risposi: «No, signor mio. Sono qui per raccontare la verità».

Vaticano, Luigi Bisignani: "La trattativa segreta Bergoglio-talebani, proprio mentre i servizi segreti italiani..." Libero Quotidiano il 22 agosto 2021. L’ingresso dei talebani a Kabul in Afghanistan ha scatenato un’ondata di terrore in tutto il mondo: il pericolo imminente è che la clamorosa rivincita degli “studenti coranici” possa rivitalizzare il fanatismo islamico. Il rischio terrorismo, insomma, è dietro l’angolo e l’intelligence lo sa bene. Difficile dimenticare per esempio che nel 2014, quando i jihadisti proclamarono la nascita del Califfato Islamico in Iraq e in Siria, seguirono diversi attentati, come gli attacchi ai bagnanti in spiaggia o al Museo del Bardo in Tunisia. E l'Europa non venne risparmiata: i terroristi misero in ginocchio soprattutto Francia, Germania e Belgio. Stando a quanto sostiene Luigi Bisignani sul Tempo, però, pare che l’Italia – nel caso in cui il rischio terrorismo fosse reale – potrebbe sfuggire agli attacchi. In che modo? Grazie a Papa Francesco si sarebbe aperto inaspettatamente nelle ultime ore un canale riservato tra Santa Sede e talebani per creare un reale corridoio umanitario, cosa che l'Europa non è ancora riuscita a fare. Bisignani, in particolare, scrive che al momento starebbero lavorando “la Segreteria di Stato e la Congregazione delle Chiese Orientali con una triangolazione che passa dalla Turchia di Erdogan, e che vede nella collaborazione con i talebani un ulteriore passo per il suo sultanato”. Insomma, potrebbe essere Bergoglio – con la sua attività sotto traccia – a salvare l'Italia da eventuali attacchi. “Per Draghi, che ha studiato dai gesuiti – scrive infine Bisignani – potrebbe essere un altro gesuita a corrergli in aiuto. Una mano lava l’altra”.

L’Italia e i rischi della radicalizzazione religiosa in carcere. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 19 luglio 2021. Le organizzazioni appartenenti all’internazionale del terrorismo islamista non reclutano soltanto in rete e in spazi semi-aperti come le moschee, i centri culturali e le scuole coraniche, ma anche in teatri chiusi come le carceri. I catechisti del jihadismo possono essere degli agenti insospettabili, come i cappellani col turbante in regolare servizio presso l’istituto penitenziario, ma, molto più spesso, sono dei detenuti per terrorismo che fanno leva sul loro carisma per manipolare i più psicolabili e convertirli all’islam radicale. La questione della radicalizzazione religiosa nelle carceri è un fenomeno pressoché universale. Seppure maggiormente percepito in Europa occidentale, specialmente in Belgio e Francia, il problema avvolge in maniera simile ogni continente, dalle Americhe – in particolare gli Stati Uniti – all’Oceania. E l’Italia, pur essendo la grande mosca bianca del mondo avanzato in materia di terrorismo jihadista, non è esente dalla diffusione perniciosa dell’islam radicale all’interno del sistema carcerario.

I numeri del fenomeno. L’Italia non ha un problema in termini di integrazione paragonabile a quello degli altri attori multiculturali del Vecchio Continente, ma i numeri provenienti dalle carceri segnalano un fenomeno da non sottovalutare: la tendenza alla sovrarappresentazione statistica dei musulmani. Pur rappresentando soltanto il 5% della popolazione totale del Bel Paese, coloro hanno recitato la Shahada costituirebbero il 20% della collettività carceraria. Perché l’islam, secondo quanto appurato dall’Ispi, sarebbe la fede praticata da “più un detenuto su cinque”. Una tendenza preoccupante quella dell’embrionale radicalizzazione religiosa negli istituti penitenziari italiani, perché negli anni recenti ha dimostrato di poter fabbricare terroristi. È noto, ad esempio, che Anis Amri, l’attentatore di Berlino 2016 (12 morti e 56 feriti), fosse stato introdotto all’islam radicale durante una permanenza nelle carceri siciliane. E i servizi segreti, che da anni monitorano il panorama carcerario in chiave preventiva, nelle loro relazioni annuali confermano: le prigioni italiane sono oramai considerabili, a tutti gli effetti, dei luoghi di radicalizzazione. Una situazione, quella dei penitenziari nostrani, che può essere compresa pienamente soltanto dando uno sguardo ai numeri:

I detenuti per terrorismo islamista costituiscono un terzo di tutti i reclusi per reati afferenti al terrorismo (religioso e politico, internazionale e domestico), ovvero 66 su 94 (dati 2018).

I detenuti sorvegliati perché in odore di radicalizzazione religiosa sono 478, dei quali 233 appartenenti alla fascia di rischio più elevata, 103 alla fascia media e 142 alla fascia bassa (dati 2018).

Poco più della metà dei 478 di cui sopra è originario di Tunisia e Marocco, che, insieme, rappresentano la casa del 53,77% di tutti i radicalizzati.

79 i detenuti stranieri che, ritenuti nocivi per la sicurezza nazionale a causa della loro radicalizzazione, sono stati espulsi a pena espiata nel corso del 2018.

Le cifre sono relative all’anno 2018, ma la cronaca recente è ricca di casi utili a ricostruire il panorama della radicalizzazione religiosa nelle carceri italiane. Quest’anno, ad esempio, risaltano per significatività le operazioni che hanno condotto all’interruzione delle attività di proselitismo di un detenuto nel carcere di Cosenza e di un imam in servizio presso il carcere San Michele di Alessandria.

Come agiscono le autorità? La strategia nostrana è basata sul connubio tra prevenzione morbida e azione dura, ovvero tra impiego di imam forniti dall’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII) – sulla base di un’intesa risalente al 2015 – ed espulsioni dei detenuti condannati per terrorismo islamista e/o rei di radicalizzazione religiosa. L’avere una tradizione di lotta (efficace) al terrorismo – che la dirigenza ha saputo adattare al mutamento dei tempi – e l’esistenza di accordi tra le autorità pubbliche e quelle religiose, in breve, rappresentano gli ingredienti principali di quella ricetta che, da anni, sta difendendo la sicurezza nazionale dell’Italia. Le problematiche, però, non mancano: l’organico degli imam in servizio è cronicamente insufficiente – soltanto 13 autorizzati, per un totale di 231 istituti penitenziari –, i piani di reinserimento sociale scarseggiano – considerando che sette detenuti su dieci tornano a delinquere all’atto della scarcerazione, le autorità dovrebbero chiedersi cosa accade a radicalizzati e terroristi che non vengono né espulsi né recuperati – e, come nel caso delle altre nazioni disaminate nel corso della rubrica, non si dovrebbe commettere l’errore di focalizzare l’attenzione sulle carceri trascurando gli altri luoghi di radicalizzazione, in primis le periferie. Perché le carceri non sono il problema: sono una parte del problema. E il problema, in Italia come in Francia, sono i limiti anelastici delle capacità di accoglienza dei sistemi di integrazione, l’errore generalizzato di trasformare i quartieri multiculturali in ghetti monoetnici e il bistrattamento delle minoranze per scopi elettorali. La vera prevenzione, più che dietro le sbarre, va e andrà esperita proprio lì: in tutte quelle realtà territoriali che, per ragioni etno-demografiche, rischiano di trasformarsi in banlieue in salsa italiana.

Islam, in Austria i Fratelli Musulmani da oggi sono fuorilegge: "Organizzazione criminale". Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. L’Austria è il primo Paese europeo ad aver bandito la Fratellanza Musulmana, una delle più importanti associazioni dell’islam politico a livello internazionale, radicata anche in Italia nell’Ucoii.  L’8 luglio il parlamento di Vienna ha approvato la legge antiterrorismo promossa dalla coalizione di governo fra popolari e verdi, guidata da Sebastian Kurz. Le nuove norme, fra l’altro, inseriscono la Fratellanza nell’elenco delle organizzazioni criminali a base religiosa: chi ne possiede le pubblicazioni è punibile con un mese di reclusione e una multa di 4mila euro. Vienna, sulla base di inchieste della magistratura, accusa la potente organizzazione creata da Hasan al Banna nel 1928 di sostenere finanziariamente gruppi terroristici. I Fratelli sono fuorilegge in Russia e in molti Paesi mediorientali, dall’Egitto all’Arabia Saudita, ma in gran parte d’Europa e negli Stati Uniti di Joe Biden restano un interlocutore importante per i governi.

Gaia Cesare per "il Giornale" l'8 luglio 2021. «Lasciala morire con la bocca aperta»; «Meriti di farti tagliare la gola, sporca puttana»; «Qualcuno dovrebbe schiacciarle il cranio per pietà». È per questo «linciaggio 2.0» - oltre centomila messaggi di odio - per le minacce di stupro e morte, per i fotomontaggi in cui si evocava la fine del professore Samuel Paty sgozzato da un islamista in Francia, che undici giovani tra i 18 e i 29 anni, in gran parte studenti, sia atei che cristiani che musulmani, sono stati condannati dal Tribunale di Parigi per «cyberbullismo» (reato istituito da una legge macroniana del 2018) a pene da 4 a 6 mesi di prigione, con la condizionale, e al versamento di 1500 euro ciascuno alla vittima. Una condanna più lieve dei due anni che rischiavano i 13 imputati, ma pur sempre un verdetto significativo per il primo processo nato dopo la creazione di un polo nazionale specializzato contro i reati di odio sul web in Francia. Protagonista e vittima Mila Orriols, oggi diciottenne, diventata in meno di due anni, da quando era appena sedicenne, simbolo insieme della libertà di espressione e dei diritti omosessuali, paladina contro l'odio online e contro l'integralismo e l'omofobia dell'islam. Con la voce rotta dalla commozione ieri ha ringraziato le poche femministe al suo fianco («le altre non si possono definire tali»): «Abbiamo vinto e vinceremo ancora. Non voglio mai più che si colpevolizzino le vittime». La sentenza è la vittoria amara di una giovane combattiva dopo un «calvario» (così lo ha definito lei stessa) iniziato 18 mesi fa e diventato un caso nazionale denso di questioni scottanti: l'islam radicale, il diritto di critica delle religioni, l'odio in Rete, le libertà minacciate, dai social e dall'integralismo. Un caso talmente eclatante da aver scomodato il capo dello Stato. Tutto comincia nel gennaio 2020. Mila, allora 16 anni e un'attiva vita social, riceve avances insistenti in Rete da un giovane musulmano. Lei spiega di essere omosessuale e a quel punto scatta una valanga di insulti. La giovane replica con un video in cui dichiara di odiare tutte le religioni, in particolare l'Islam. Parole forti anche le sue - «la vostra religione è una m...» - eppure considerate al termine di un'inchiesta «opinioni personali», seppur dal tono «olraggioso», ma non incitamento all'odio. Il filmato nel frattempo diventa virale e Mila finisce sotto scorta, 24 ore su 24. Ma non si ferma. A novembre 2020 posta un secondo video, seguito da una seconda ondata di odio contro di lei ed è su questi messaggi che viene imbastito il processo concluso ieri a Parigi. Il caso della giovane ricorda da vicino la sanguinosa vicenda della redazione di Charlie Hebdo. Nella speranza che le minacce non si trasformino in furia omicida, la Francia si divide tra #JeSuisMila e #SeNeSuisPasMila, tra chi ritiene incendiarie e irrispettose le parole di Mila contro l'islam (la socialista ed ex ministra Ségolène Royal) e chi difende la libertà di criticare anche aspramente una religione senza finire alla sbarra come invece avviene in molti regimi islamici in cui religione e Stato sono un unicum e vige il reato di blasfemia. Emmanuel Macron dice la sua, definitiva: «La legge è chiara: abbiamo il diritto di blasfemia, di criticare, di fare la caricatura delle religioni». Eppure Mila è costretta a vivere sotto il costante controllo della polizia. Mentre accusa la Francia di essere «fragile e codarda», deve cambiare due scuole per le minacce. Ieri è arrivata una parziale risposta dello Stato. Soddisfatta la Procura, per aver fatto valere il principio che «non c'è anonimato su Internet». «I social network sono la strada. Quando passa qualcuno, non lo insulti, minacci, sbeffeggi. Quel che non si fa in strada, non si fa sui social media», spiega il giudice Michel Humbert.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 5 febbraio 2020. Da quando ha criticato l'islam, in un live su Instagram, dicendo che nel Corano «c' è solo odio», Mila, 16 anni, è vittima di minacce di morte e di stupro, vive barricata in casa protetta dalla gendarmeria e non può più andare al liceo perché il pericolo di aggressioni è troppo alto: i suoi compagni musulmani vogliono «linciarla» e «punirla» poiché si è permessa di attaccare la loro «comunità». Non siamo in Arabia Saudita, ma a Villefontaine, nel dipartimento dell'Isère, in Francia, in quel Paese che si vanta dinanzi al mondo della sua laïcité, ma abbandona una ragazza alla violenza inaudita di chi non tollera che la religione maomettana sia oggetto di critiche. «Sporca baldracca» e «sporca lesbica» hanno scritto a Mila sul suo profilo social, dove mostrava con fierezza, prima di essere obbligata a chiudere ogni account pubblico, la bandiera Lgbt. «Nel Corano c' è solo odio. Ho detto quello che penso, non me ne farete pentire», ha detto la ragazza nel live postato su Instagram lo scorso 19 gennaio. Da quel giorno, è iniziato un incubo che non è ancora finito e chissà quando finirà per questa liceale. Hanno minacciato di «sgozzarla», di venirla a cercare per «strapparle tutti gli organi e farglieli mangiare», perché si è permessa di criticare il «nostro dio Allah, l'unico e il solo». Dopo l'esplosione del caso, il liceo di Villefontaine, dove ora non potrà più tornare perché i suoi compagni musulmani vogliono fargliela pagare, è stato costretto a chiamare la polizia per "esfiltrarla" e portarla a casa, dove tutt' ora è trincerata per paura di essere aggredita. «L' obiettivo è riscolarizzarla in maniera pacifica affinché possa tornare ad avere una vita normale», ha dichiarato ieri il ministro dell'Istruzione Jean-Michel Blanquer, l'unico del governo, assieme alla collega alle Pari opportunità, Marlène Schiappa, ad aver manifestato solidarietà nei confronti di Mila. La procura locale, subito dopo il video, aveva addirittura aperto un'inchiesta contro la sedicenne per «incitamento all' odio», prima di archiviarla. Ma il peggio l'hanno dato le femministe, a partire da colei che si erge a portavoce del femminismo francese in politica: Ségolène Royal. L'ex candidata alle presidenziali del Partito socialista, appena rimossa dal ruolo di ambasciatrice per i Poli, ha attaccato Mila dicendo che è «un'adolescente irrispettosa», dandola in pasto all' odio dei propagatori dell'islam politico, che da due settimane continuano a minacciarla. «Chi semina vento, raccoglie tempesta», ha commentato Abdallah Zekri, delegato generale del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), dicendo che in fondo se l'è cercata facendo quel video. Nessun rappresentante del culto islamico in Francia ha difeso Mina dalle minacce di morte ricevute, e accanto a questo silenzio rimbomba quello dei progressisti. Abitualmente rumorosi, quando di mezzo c' è la religione cattolica, sembrano essere spariti dalla Francia. Uno dei pochi che si è fatto sentire, ha chiesto a Mila di «rimuovere la bandiera Lgbt» dalla biografia, perché non ha «la mentalità aperta per far parte di una comunità che sostiene l'amore e l'accettazione». Cronache da un Paese che ha dimenticato Voltaire e si è sottomesso ad Allah.

Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2021. Una separazione consensuale. Nero su bianco. Un impegno scritto da Osama in persona e rivolto ai due fratelli che lo proteggevano. Era l'unica scorta che bin Laden aveva nel suo ultimo rifugio, ad Abbottabad, in Pakistan. La coppia non ne poteva più. Oltre a fare da corrieri prendendo rischi seri, si occupavano delle cose quotidiane, della spesa, di qualsiasi necessità del leader e del numeroso nucleo familiare. I due si lamentano, Osama recepisce le preoccupazioni e il 15 gennaio 2011 scrive una lettera ad uso interno. Mossa curiosa, quasi condominiale. Il capo qaedista chiede un po' di tempo per rimediare un altro nascondiglio e si impegna ad andarsene entro il mese di luglio. Le sue previsioni sono errate, le ricerche non danno frutti e le promesse sono spazzate via da una sorpresa: il 2 maggio i Navy Seals piombano sulla casa e lo uccidono. I particolari di quegli giorni della guida jihadista sono emersi dall'analisi del materiale sequestrato dagli americani durante il blitz. Una miniera: 470 mila files, memorie esterne, cinque computer, dozzine di chiavette e CD. In una recente intervista il responsabile dell'operazione, l'ammiraglio William McRaven, ha ricordato la sua ansia durante le fasi critiche dell'assalto quando il team leader sul terreno ha chiesto più tempo rispetto ai 30 minuti previsti dalla tabella di marcia. Permesso ottenuto, sia pure limitato, per rastrellare il grande archivio trovato al secondo piano. I documenti sono stati studiati dall'intelligence, resi pubblici nel 2017 e analizzati dagli esperti. In particolare da Peter Bergen, autore di un libro appena uscito, «The Rise and fall of Osama bin Laden». Sono spezzoni di politica e vita rilanciati dai media Usa, come Wall Street Journal e New York Times. Ad aiutare nella ricostruzione di quegli ultimi giorni è un diario tenuto da due figlie del terrorista, un verbale minuzioso con riferimenti interessanti all'umore del padre ma soprattutto a quanto avveniva all'esterno dell'alto muro che circondava la residenza pachistana. Notevole la parte riguardante le primavere arabe. Secondo le carte Osama era sorpreso e angustiato dal fatto che il suo movimento fosse stato superato dalle piazze e non venisse considerato. È molto deluso, prova a nasconderlo durante delle riunioni alle quali partecipano le due mogli, Umm Hamza e Siham, insieme al resto della micro-comunità. Lui reagisce in modo freddo quando gli chiedono perché i media non citano la fazione, le consorti provano a spiegare cercando di attenuare il colpo. Bin Laden recrimina, ricorda quanto si sia speso per incitare le masse arabe alla rivolta contro i regimi. I congiunti gli suggeriscono di preparare un discorso che possa catturare l'attenzione, riprendere l'iniziativa. Parole che però sono una disperata rincorsa. È solo l'inizio. Negli anni a seguire il qaedismo sarà scavalcato da una forza più agile, feroce e pratica. Lo Stato Islamico. Scavalcato non vuole dire però scomparso, in quanto l'idea qaedista è ancora solida. Osama, sempre in base al diario, considera di riconoscere gli errori del suo movimento, resosi responsabile della morte di molti musulmani in tanti Paesi, civili coinvolti negli attacchi. In questa fase di ripensamento non esclude neppure di cambiare nome alla fazione. Sono aggiustamenti uniti ai consigli per i mujaheddin delle formazioni in Africa o Medio Oriente. Afferma che il presidente Obama e il generale Petraeus sono obiettivi primari mentre ritiene che il vice Biden non sia adeguato, auspica azioni clamorose uguali a quelle dell'11 settembre. Non si fida per nulla dell'Iran, Stato che ha accolto i familiari riservando loro un trattamento duro. Il leader tenta di svolgere il suo ruolo anche se è difficile viste le condizioni della sua latitanza. È auto recluso mentre il mondo gira veloce. Non lo sa, ma l'epilogo è vicino e arriva prima di un possibile trasloco.

Il pasticcio dell’amministrazione Obama e i soldi ad Al Qaeda. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 30 dicembre 2020. Con l’avvallo dell’amministrazione Obama, l’organizzazione evangelica umanitaria senza scopo di lucro World Vision United States ha negoziato in maniera impropria, nel 2014, con l’Islamic Relief Agency (Isra) inviando fondi governativi a un’organizzazione sanzionata per terrorismo e legata ad al-Qaeda. Come riporta Yahoo News, il presidente della commissione per le finanze del senato, il repubblicano, Chuck Grassley, ha recentemente pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio i risultati di un’indagine iniziata dal suo staff nel febbraio 2019 circa il legame tra World Vision e l’Isra. L’indagine ha rilevato che World Vision non era a conoscenza del fatto che l’Isra fosse stata sanzionata dagli Stati Uniti dal 2004 dopo aver inviato circa 5 milioni di dollari a Maktab al-Khidamat, fondata da Osama Bin Laden.

200mila dollari all’associazione che ha finanziato al-Qaeda. “World Vision lavora per aiutare le persone bisognose in tutto il mondo e quel lavoro è ammirevole”, ha detto Grassley in una dichiarazione. “Anche se potrebbe non essere a conoscenza del fatto che l’Isra fosse sulla lista delle associazioni sotto sanzione o che fosse nell’elenco a causa della sua affiliazione al terrorismo, avrebbe dovuto farlo. L’ignoranza non può bastare come scusa. I cambiamenti di World Vision nelle pratiche di controllo sono un buon primo passo e attendo con impazienza i suoi continui progressi”. L’indagine è partita dopo che Sam Westrop, direttore dell’Islamist Watch del Middle East Forum, ha pubblicato un articolo su The National Review nel quale spiegava come l’amministrazione Obama avesse avvallato una donazione di 200.000 dollari all’Isra.

“Mancanza di controllo”. In buona sostanza, il rapporto del senatore repubblicano accusa l’organizzazione umanitaria – e di conseguenza l’amministrazione Obama, che avrebbe dovuto vigilare attentamente – di non aver prestato sufficiente attenzione nell’assicurarsi che l’Isra non fosse un’organizzazione già sanzionata dagli Usa per finanziamento al terrorismo. Non c’è la volontarietà, insomma, ma è totalmente mancato il controllo. World Vision ha scoperto che l’Isra era stata sanzionata solo dopo che l’organizzazione umanitaria evangelica senza scopo di lucro ha discusso una collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) su un progetto umanitario separato in Sudan. Nell’eseguire un controllo di routine di World Vision e dei suoi partner, l’Iom ha scoperto che l’Isra era sotto sanzioni e ha contattato il team di conformità dell’Office of Foreign Assets Control (Ofac) per comunicare la cosa. Come spiega il rapporto del senatore Chuck Grassley, l’Islamic Relief Agency (Isra) ha sede a Khartoum, in Sudan, e dispone di oltre 40 uffici in tutto il mondo. Il governo degli Stati Uniti ha imposto sanzioni all’Isra nel 2004 dopo che quest’ultima aveva incanalato circa 5 milioni di dollari a Maktab Al-Khidamat, controllata da Osama Bin Laden.

Che cos’è al-Qaeda? Come spiega Alberto Bellotto su InsideOver, al-Qaeda nasce ufficialmente l’11 agosto del 1988. Si tratta di un’organizzazione terroristica di stampo sunnita. Il nome può essere tradotto con “la base”. È nota soprattutto per essere stata la responsabile degli attacchi dell’11 settembre condotti contro gli Stati Uniti che costarono la vita a quasi 3mila persone. Per anni il suo nome è stato legato a quello di Osama Bin Laden che la guidò fino alla sua morte nel 2011. Oggi il network di sigle che la compone è sotto la supervisione di Ayman al-Zawahiri.

Come Bin Laden è diventato Bin Laden. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 23 maggio 2021. Sguardo sorridente come quello di un normale ragazzo di 14 anni, sciarpa verde al collo ed espressione del viso spensierata. È così che appare Osama Bin Laden in una foto che lo ritrae nel 1971 assieme ad altri studenti in Svezia. Nulla lascia presagire che proprio in quel periodo il futuro “principe del terrore” inizia a maturare il suo odio verso la società occidentale. Alcuni anni dopo è proprio lui a lanciare la guerra santa all’Occidente. La scalata criminale che lo porta ad essere il mandante dell’attentato dell’11 settembre 2001, è figlia delle ideologie maturate durante quei viaggi di studio in Europa. Ma in che modo è avvenuta la “trasformazione” di Osama Bin Laden?

Una giovinezza tra gli agi economici. Diciassettesimo tra 52 fratelli, Osama Bin Laden nasce il 10 marzo del 1957 in Arabia Saudita dall’unione di Muhammad bin Awad bin Laden con una delle sue 11 mogli, Alia Ghanem. Una vita la sua che non conosce il senso del sacrificio economico. Suo padre, da facchino del porto di Gedda, negli anni ’50 diventa uno dei costruttori edili più importanti del regno saudita. La sua enorme fortuna economica dipende soprattutto dall’amicizia maturata con Re Abdulaziz, fondatore del nuovo Stato saudita nel 1932. Tra appalti ed affari, il padre di Bin Laden costruisce un impero economico e non fa mancare nulla al figlio, nemmeno quando divorzia con la madre di Osama poco tempo dopo la sua nascita. Bin Laden continua così a vivere con la mamma e il suo nuovo marito, Muhammad al-Attas, ricevendo l’educazione tipica di un giovane saudita benestante. E così il giovane ben presto abbraccia la corrente dell’Islam wahhabita, la corrente di pensiero dominante da sempre nel suo Paese e che predica un ritorno alla radice della religione islamica, escludendo le influenze apportate nel tempo. Come tutti i figli degli uomini d’affari sauditi, frequenta la scuola secondaria al-Thager, la più importante di Gedda dato che tradizionalmente ospita anche i figli della famiglia reale. Nel 1971 vola in Svezia per un viaggio di studi che gli permette di conoscere meglio la cultura occidentale. Una cultura che però al giovane Bin Laden non piace. In alcuni diari trovati anni dopo nel suo ultimo rifugio, in Pakistan, emergono diversi pensieri in cui, proprio a seguito dei suoi viaggi tra Svezia e Inghilterra, parla di quella occidentale come di una cultura decadente. Forse è proprio in questo periodo che Bin Laden si trasforma da giovane studente a potenziale terrorista forgiato da ideologie anti occidentali. In patria continua poi gli studi. Nel 1979 si laurea infatti in ingegneria e in quel periodo, raccontano cronache dell’epoca, il giovane si dedica alla beneficienza, alle poesie e anche al calcio. Una vita normale, dove però il tarlo dell’estremismo inizia a farsi strada. Nel 1981 Bin Laden si laurea anche in un settore inerente la Pubblica Amministrazione, in vista di un suo inserimento nell’azienda del padre. Ma poi nella vita, come si sa, sceglie tutt’altra strada.

L’odio verso l’Occidente. “Era un bravo ragazzo e mi amava così tanto”: è con queste parole che la mamma, Alia Ghanem, descrive anni dopo al Guardian il figlio. Lei all’intervistatore appare come una donna non in grado di capire il cambiamento radicale di Osama, affidandone la responsabilità alle cattive frequentazioni durante l’università: “Era un bambino molto bravo fino a quando non ha incontrato alcune persone che gli hanno fatto il lavaggio del cervello più o meno quando aveva 20 anni” dichiara ancora la donna. Secondo i suoi racconti sarebbe proprio a Gedda, quando studiava economia alla King Abdulaziz University, che Osama sviluppa in modo definitivo le ideologie radicali. In particolare la donna fa riferimento ad Abdullah Azzam, membro dei Fratelli Musulmani, quale figura capace di trasformare il figlio e indirizzarlo verso le ideologie di odio nei confronti del mondo occidentale. La donna il sospetto ce l’ha già da allora. Tanto da avvertire il figlio e dal metterlo in guardia contro le cattive frequentazioni. Il destino di Osama Bin Laden è però ormai segnato: nel 1979, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, si avvicina ai mujaheddin. Un appoggio non solo teorico, ma anche militare. Nel 1981 Bin Laden alla madre racconta di dover andare proprio in Afghanistan per affari. Così non è: nel Paese asiatico il futuro terrorista si reca assieme ad Abdullah Azzam. I due, nella nutrita pattuglia di combattenti islamisti stranieri, si fanno riconoscere. Bin Laden in particolare mette a disposizione la sua immensa fortuna economica, Azzam invece la sua capacità oratoria. Danno così vita al Maktab al-Khidamat (Mak), formazione che nel 1984 è attiva nel reclutamento di giovani musulmani da inviare in Afghanistan. Il giovane saudita diventa, già allora, un riferimento per tanti islamisti.

Dalla guerra in Afghanistan all’11 settembre. In Afghanistan Bin Laden però conosce un medico egiziano di nome Ayman al Zawahiri. Sono loro tre, assieme ai più fidati collaboratori, a teorizzare la nascita di un movimento capace di diventare la base per l’esportazione della guerra santa anche fuori dall’Afghanistan. Si arriva nel 1988 alla fondazione di Al Qaeda, che in arabo vuol dire proprio “La base”. Oltre ad esserne il leader più carismatico, Bin Laden fa di Al Qaeda il mezzo per la sua propaganda anti occidentale. Secondo lui, sono proprio i costumi occidentali a corrompere l’Islam e la sua organizzazione ha quindi il compito di attaccare gli “infedeli” in ogni parte del mondo. Nel 1989 la guerra in Afghanistan finisce. I sovietici sono battuti, i gruppi islamisti esultano. Bin Laden torna a casa e inizia a promuovere pubblicamente la sua immagine di “eroe islamico”. Chiama il suo gruppo “legione araba”, nelle interviste dichiara di essere stato decisivo per la cacciata dell’armata rossa. Ben presto però le cose si complicano. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam Hussein invade il Kuwait e i Saud pensano a Bin Laden come possibile alleato per proteggere il loro confinante territorio. Lui mette a disposizione la sua legione araba, ma a patto di non accettare gli aiuti militari statunitensi. I sovrani sauditi respingono la sua proposta. Da allora lo scenario cambia: Bin Laden lancia proclami contro Riad, denuncia la dipendenza dell’Arabia Saudita dagli “infedeli” americani. I rapporti con il governo si incrinano a tal punto da costringere Bin Laden all’esilio. Lui però non si perde d’animo: è certo di essere un eroe popolare arabo, ha di sé stesso l’immagine di un condottiero, ma soprattutto ha ancora i soldi della famiglia. Sposta così il suo quartier generale in Sudan. Qui viene aiutato da Ali Mohamed, egiziano ex collaboratore della Cia e da molti definito come “primo maestro” militare di Bin Laden in Afghanistan. Intervistato da Robert Firsk sul The Indipendent nel 1993, il fondatore di Al Qaeda dichiara di essere un semplice ingegnere impegnato nella costruzione di autostrade nel Paese africano che lo ospita. Ma già in quel momento cova gli attacchi verso il tanto odiato occidente. Si circonda di molti reduci dell’Afghanistan, molti fedelissimi eseguono i suoi ordini e questo fa crescere in sé la convinzione di essere il vero trascinatore islamico. Ben presto però deve fuggire anche dal Sudan. Il governo di Al Bashir è in difficoltà: gli Usa iniziano a vedere in Bin Laden un potenziale nemico per le sue attività di proselitismo anti americane. Torna così in Afghanistan nel 1996, anno in cui a Kabul il potere viene preso dal gruppo islamista dei Talebani. Nel Paese asiatico la sua Al Qaeda ha modo di organizzarsi. Il territorio afghano ospita basi, scuole e campi per la formazione dei terroristi. Nel 1998 inizia la vera guerra agli Stati Uniti: Al Qaeda rivendica infatti gli attentati contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. La Casa Bianca, all’epoca retta da Bill Clinton, reagisce duramente e scaglia contro i suoi nascondigli tonnellate di bombe nel tentativo di ucciderlo. Lui però scappa, i bombardamenti non lo sfiorano. Anni dopo, intervistato nel 2009, il rais libico Muammar Gheddafi dirà: “Gli è stata data troppa importanza, gli Usa ne hanno fatto un idolo nel mondo islamico”. Bin Laden infatti in quel momento crede di poter guidare l’intero mondo musulmano contro gli Usa. Nel 2000 alcuni suoi seguaci si scagliano contro la Uss Cole ormeggiata in Yemen. Ma il vero grande progetto criminale riguarda un attentato da compiere direttamente sul suolo americano. Circostanza che si avvera l’11 settembre 2001. In quel giorno quattro aerei civili nello spazio aereo Usa vengono dirottati: due si schiantano sulle Torri Gemelle, uno sul Pentagono, un altro cade a Shanksville, nei pressi di Pittsburgh. Da allora in tutto il mondo Bin Laden diviene noto con il soprannome di “sceicco del terrore”.

La morte dopo il blitz Usa del 2011. È il 7 ottobre 2001. Dall’attacco che ha sconvolto il mondo e che a Bin Laden ha donato la massima popolarità sono passate poche settimane. Quella sera Bin Laden si mostra in video. Poche ore prima Washington ha attaccato l’Afghanistan. Nel filmato, trasmesso da Al Jazeeera, è ben presente la sofisticata strategica comunicativa di Bin Laden. Parla con enfasi guardando dritto la telecamera all’interno di una caverna, ha addosso una tuta mimetica, alla sua sinistra c’è anche un kalashnikov. Il suo discorso è un proclama contro l’occidente e contro i Paesi musulmani che aiutano gli Usa. Incita i fedeli alla rivolta e alla guerra santa. La sua latitanza come ricercato per l’11 settembre dura dieci anni, nei quali non sempre vive in rifugi di fortuna. Il suo ultimo nascondiglio, scovato dalla Cia nell’agosto del 2010, è all’interno di un lussuoso compound residenziale di Abottabbad, in Pakistan. Qui Bin Laden viene sorpreso nel sonno il 2 maggio 2011 da un commando di Navy Seals. Lui non oppone resistenza ma, secondo la versione ufficiale americana, nella sua camera da letto va alla ricerca di alcune armi in suo possesso. Non fa in tempo a prenderle: il commando lo uccide e porta il suo corpo sulla Uss Carl Vision. Qui, dopo una breve cerimonia funebre, viene gettato in mare. Nel rifugio c’è la vita di Bin Laden degli ultimi dieci anni: vengono trovati documenti, chiavette usb, ma anche medicine per le sue malattie renali e diverse cassette con dei film porno. Immagini contenenti segnali in codice, diranno poi alcuni esperti dell’anti terrorismo. Ma forse anche una deroga di Bin Laden concessa al tanto odiato costume occidentale. Non si sa. L’unica cosa certa è che in quel 2 maggio 2011 finisce la sua carriera criminale finisce assieme alla sua vita.

Chi era Abu Musab Al Zarqawi, l’uomo delle decapitazioni. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 24 maggio 2021. Nel corso degli anni i video con gli ostaggi dei terroristi vestiti in arancione e poi decapitati hanno rappresentato una triste costante. Il primo a inaugurare questa macabra esecuzione è stato Abu Musab Al Zarqawi. Lui, cresciuto come delinquente comune nella sua Giordania, negli anni della violenza in Iraq è riuscito a diventare braccio destro di Osama bin Laden. La sua parabola criminale è terminata con l’uccisione da parte degli americani.

Una gioventù da delinquente. Nato a Zarqa, il 30 ottobre del 1966, Abu Musab Al Zarqawi vive la prima parte della sua vita in questa povera città della Giordania. Baracche e alloggi di fortuna qui sono una costante, questo territorio è del resto noto per essere la sede del più antico campo profughi palestinese. La gioventù di Al Zarqawi rispecchia la povertà della sua città. A differenza di Osama bin Laden e Auman Al Zawahiri, lui non  può avvalersi di una famiglia di prestigio alle spalle. La sua infanzia trascorre praticamente in strada, per sopravvivere passa da un furto a un altro. Proprio per questo motivo, sin da giovanissimo, Al Zarqawi conosce l’esperienza del carcere. Durante gli anni trascorsi dietro le sbarre per una condanna a cinque anni di reclusione, si radicalizza. Un fenomeno, quello della radicalizzazione durante la galera, comune per molti altri detenuti. Come per Abu Bakr Al Baghdadi, fondatore dell’Isis, anche per Al Zarqawi la prigionia diventa un’occasione per abbracciare una visione radicale dell’islamismo. Tutto questo anche in presenza di due differenti condizioni territoriali. Mentre infatti nell’Iraq di Al Baghdadi sono gli anni caratterizzati dalla guerra, nella Giordania di Al Zarqwawi non è in corso nessun evento bellico.

L’ingresso di Abu Musab Al Zarqawi in Al Qaeda. Finiti gli anni della prigione, Al Zarqawi si trasferisce in Afghanistan. Siamo sul finire degli anni ’80 e qui è ancora in corso il conflitto contro l’invasione sovietica. Una guerra che in un decennio richiama migliaia di combattenti jihadisti. Nel Paese asiatico, dirigendo un campo di addestramento dei Mujaheddin, mette in pratica la sua radicalizzazione e soprattutto inizia a farsi notare negli ambienti islamisti. Ma la guerra, poco dopo il suo arrivo, finisce con la cacciata dei russi. In quel breve lasso di tempo da combattente in terra afghana, Al Zarqawi si fa conoscere da un miliziano islamista che da poco ha messo in piedi centri di reclutamento jihadisti: si tratta di Osama Bin Laden. Il terrorista saudita più volte lo sprona ad entrare in Al Qaeda. Lui però inizialmente non ne vuole sapere. Agisce, dirà anni dopo l’intelligence Usa, come “terrorista indipendente”. Il quadro però cambia nel 2003. In Iraq gli Stati Uniti dopo tre settimane di guerra abbattono il regime di Saddam Hussein, il Paese cade nella spirale del vuoto di potere e delle violenze settarie. Per Bin Laden è l’occasione di portare la guerra santa nel cuore del medio oriente e sfrutta l’insurrezione dei sunniti in chiave anti americana. Solo allora Al Zarqawi cede al corteggiamento del fondatore di Al Qaeda. L’ingresso dentro il movimento islamista da parte del terrorista avviene il 21 ottobre del 2004. Due mesi dopo è lo stesso Bin Laden ad annunciare da una radio del Qatar che Al Zarqawi è il capo di Al Qaeda in Iraq. Questi per lui sono gli anni della vera e propria svolta: da una vita povera e di stenti, Al Zarqawi diviene il braccio destro del fondatore di Al Qaeda. Tutto ciò nonostante in realtà i punti di convergenza tra i due sono minimi: Bin Laden infatti mira a colpire quello che viene considerato il nemico d’oltre confine, ovvero gli Usa, mentre Al Zarqawi intende agire per la rinascita del Califfato. L’eliminazione della neonata classe dirigente irachena è l’unico obiettivo che lega veramente i due.

L’inizio della tragica era delle decapitazioni. La notorietà di Al Zarqawi in quegli anni arriva soprattutto grazie a un video. Uno di quelli che, nell’ambito dell’estremismo islamico, appare purtroppo destinato a fare scuola. È il maggio del 2004, anche se i social ancora non hanno la diffusione attuale, il terrorismo jihadista sa già come farsi notare sul web. Al Zarqawi è forse il primo ad intuire la potenzialità data dal far circolare il terrore sulla rete. Una molla sembra farlo scattare: riguarda la diffusione delle immagini delle torture inflitte da alcuni soldati Usa a persone incarcerate ad Abu Ghraib. Quest’ultima è la struttura penitenziaria situati a pochi passi da Baghdad dove vengono rinchiusi molti esponenti dell’insurrezione irachena. Al Zarqawi a quel punto decide di mettere in atto la vendetta e mandarla in onda su internet. I suoi aguzzini rapiscono Nicholas Berg, giovane imprenditore statunitense di origine ebraica presente in quei mesi in Iraq. L’ostaggio viene messo davanti una telecamera. Ha le mani legate dietro la schiena e indossa una tuta arancione, la stessa che gli americani danno ai detenuti jihadisti. Alle sue spalle è presente un gruppo di cinque persone con il volto coperto e il mitra in mano. Uno di loro inizia a leggere un proclama con invettive contro gli Usa e l’occidente e con riferimento alla necessità di vendicare le torture inflitte ad Abu Ghraib. Posato il foglio e finito il discorso, la persona al centro estrae una grossa lama con la quale decapita il povero Berg davanti alla telecamera. Ad impugnare l’arma, secondo la Cia, sarebbe proprio Al Zarqawi. Le immagini fanno il giro dei primi blog su internet e diventano celebri in tutto il mondo. Da quel momento in poi la decapitazione degli ostaggi, fatti vestire con la tuta arancione, diviene una macabra normalità per i jihadisti. Video del genere in seguito saranno girati in Iraq, in Siria, in Libia e ovunque la propaganda della guerra santa fa breccia nel corso degli anni successivi. Al Zarqawi diventerà una sorta di riferimento da emulare.

La morte per mano americana. La sua indole violenta genera però ribrezzo tra i musulmani moderati. E ovviamente non fa altro che spaventare gli statunitensi. Secondo la Cia, nei primi anni post Saddam Hussein Al Qaeda in Iraq mette in atto 800 azioni violente contro le truppe Usa, su molte di esse c’è la mano diretta di Al Zarqawi. Per questo il terrorista giordano diventa il più ricercato da Washington subito dopo Osama Bin Laden. Lui questo lo sa e, racconteranno poi fonti locali, sembra compiacersene. Ogni violenza perpetuata è una spinta ad alzare il tiro. La caccia ad Al Zarqawi diventa l’obiettivo fondamentale per la Casa Bianca. Nella primavera del 2005 il terrorista probabilmente rimane ferito durante un attacco americano nel nord dell’Iraq. In quel periodo diversi siti islamisti chiedono infatti di pregare per la salute di Al Zarqawi. Fonti di intelligence parlano di ferite molto gravi in grado di costringerlo a un periodo di riabilitazione. L’individuazione dell’ultimo nascondiglio del leader di Al Qaeda in Iraq avviene nei primi giorni di giugno del 2006. In quei frangenti Al Zarqawi si trova all’interno di una casa nella città di Baquba. Nel pomeriggio del 7 giugno è impegnato nel presiedere una riunione con altri terroristi. Le forze Usa non hanno dubbi sulla sua presenza nello stabile e lanciano almeno due bombe intelligenti. Nelle ore successive l’esame del Dna, effettuata su una delle vittime del raid, conferma l’identità del terrorista giordano. La sua spirale di terrore giunte così al termine. Il giorno successivo le parole del padre di Nicholas Berg risultano profetiche: “La morte di un uomo è pur sempre una tragedia – dichiara a una tv americana – e l’uccisione di Al Zarqawi darà vita a nuova violenza”. In effetti, l’organizzazione guidata dal terrorista continuerà i suoi attacchi e negli anni successivi darà vita all’Isis. Ma questa è un’altra storia.

Chi è Ayman Al Zawahiri. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 30 maggio 2021. Nato il 19 giugno del 1951 a Kafr el-Dawar, in Egitto, Ayman Al Zawahiri è un terrorista e, per la precisione, si tratta di uno tra i 22 più ricercati dal governo degli Stati Uniti. Medico chirurgo che ha contribuito alla fondazione della Jihad islamica egiziana, è stato uno tra gli ideatori dell’attentato dell’11 settembre del 2001 alle Torri Gemelle. Noto come braccio destro di Osama bin Laden, Al Zawahiri ne è divenuto ufficialmente il successore l’8 giugno del 2011 con la guida del gruppo terrorista islamico di al Qaeda. Preso il posto del suo predecessore, ucciso il mese prima da un commando dei Navy Seal statunitensi, ha consacrato la propria ascesa nell’islam radicale con un video in cui ha spiegato come avrebbe operato nel corso del suo mandato al comando di al Qaeda.

Gli anni della gioventù. Un’infanzia all’interno di una famiglia agiata e di prestigio quella vissuta da Ayman Al Zawahiri, il quale è stato circondato da parenti impegnati professionalmente nel campo della medicina, della magistratura e della letteratura. Il padre era uno dei più importanti dermatologi dell’Egitto, mentre il nonno materno era tra i letterati di spicco della nazione. Dulcis in fundo, lo zio materno era il primo segretario della Lega Araba. La presenza di una famiglia affermata in ambito lavorativo non poteva che fare di lui un giovane impegnato nello studio per conseguire ambiti obiettivi: “Era uno timidissimo, silenzioso. Pregava e studiava” ha detto la sorella Heba Mohamed Al Zawahiri in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera qualche anno fa. Sin da adolescente Al Zawahiri si è avvicinato ai movimenti islamisti lasciandosi permeare dalle loro ideologie. All’età di 15 anni è stato arrestato quale membro della Fratellanza musulmana, il movimento politico-religioso islamista fondato proprio in Egitto. La formazione era, all’epoca come oggi, illegale. Tuttavia questa circostanza non gli ha impedito di portare avanti la passione per la scrittura, la poesia e gli studi in medicina. Nel 1974 Al Zawahiri ha conseguito la laurea all’Università del Cairo e nel 1978 ha ottenuto anche un master in chirurgia.

Un destino segnato dalle influenze islamiste. Una volta divenuto medico, Al Zawahiri in un primo momento si è dedicato quasi esclusivamente nell’ambito del suo settore professionale. Importante chirurgo oculista, ha aperto una clinica medica al Cairo, aggiornandosi costantemente anche sugli studi di psicologia e farmacologia intrapresi nell’ambito del suo percorso universitario. Poi però, di pari passo, ha iniziato a coltivare anche il suo impegno dentro i gruppi islamisti radicali. Un coinvolgimento che ha raggiunto l’apice soprattutto quando si è avvicinato a Sayyid Qutb, politico egiziano e cultore del Corano. Ed è stato così che nel 1979 il medico si è inserito ufficialmente dentro il contesto radicale islamico della Jihad, l’organizzazione estremista islamista egiziana che trae le sue origini dai Fratelli Musulmani, divenendone uno dei principali punti di riferimento oltre che reclutatore.

L'ascesa criminale: l'attentato a Sadat del 1981. Una parata militare in ricordo dell’inizio della guerra del Kippur, un pubblico esultante e infine un’esplosione succeduta da urla della gente e dalle sparatorie. Era il 6 ottobre 1981: l’allora presidente egiziano Anwar Sadat, sul podio delle autorità, è uno dei primi a rimanere vittime dell’attacco portato avanti nei suoi confronti dalla Jihad. Quel giorno, in quel luogo, era presente anche Ayman Al Zawahiri. Il timido ragazzino ossequioso dei principi religiosi, era divenuto oramai un vero e proprio terrorista. Per il giovane medico la partecipazione all’omicidio del presidente Sadat ha rappresentato un vero e proprio battesimo di sangue. L’organizzazione a cui apparteneva ha rivendicato l’attentato e tra gli esecutori c’era proprio lui, arrestato assieme ad altri componenti del gruppo subito dopo l’attacco. Non c’erano prove sufficienti per incriminarlo e così Al Zawahiri è rimasto poco in carcere. Ma in quei giorni dove l’Egitto dibatteva su quanto accaduto, il medico non si mostrava più così timido. Al contrario, è emersa una personalità carismatica, capace di ergersi come tra i principali protagonisti del gruppo jihadista egiziano. L’ascesa criminale di Al Zawahiri era solo all’inizio.

L'incontro con Bin Laden. Così come accaduto a molti islamisti dell’epoca, anche per Al Zawahiri nei primi anni ’80 il “salto di qualità” criminale è stato rappresentato dalla fuga in Afghanistan. Qui il medico divenuto terrorista, si è unito a migliaia di jihadisti provenienti da tutto il mondo islamico per lottare contro l’invasione sovietica. Ed è proprio qui che Al Zawahiri ha conosciuto un giovane ingegnere saudita, anch’egli noto nell’ambiente per il suo nascente carisma: Osama Bin Laden. Tra le montagne afghane, mentre i sovietici erano sul punto di abbandonare il Paese, Al Zawahiri e Bin Laden hanno dato vita alla loro organizzazione destinata a diventare riferimento per il terrorismo islamista: Al Qaeda. In arabo vuol dire “La Base” e l’obiettivo del nuovo gruppo era proprio quello di diventare culla di un’organizzazione ramificata in molti Paesi in cui esportare la guerra santa. Una delle basi ideologiche di Al Qaeda era stata presa dal takfirismo, ossia la legittimazione per i musulmani di uccidere gli infedeli. Per Al Zawahiri dunque l’omicidio diventava in tal modo anche un mezzo ideologico e politico. Ogni persona non vicina alla causa islamista, secondo la sua impostazione, poteva essere eliminata fisicamente. Da qui la progettazione di numerosi attentati in varie parti del mondo. Nel suo Egitto ha messo la firma sul massacro di 62 turisti a Luxor nel 1997. Con Al Qaeda però il medico non è attivo solo in patria. Nel 1996 ad esempio è stato intercettato ed arrestato nella regione russa nel Daghestan. Al Zawahiri, secondo le autorità di Mosca, era impegnato a reclutare seguaci e terroristi da portare in Cecenia, lì dove la causa islamista in quegli anni stava contribuendo ancora una volta a mettere sotto scacco le forze russe. Pochi mesi dopo però è stato rilasciato. Da allora il medico egiziano, raggiunto nel frattempo da una condanna a morte nel suo Paese per l’attentato di Luxor, ha vissuto sempre in latitanza.

L'11 settembre 2001. Il suo nome sarebbe stato destinato a rimanere per sempre legato all’11 settembre 2001, giorno dell’attentato contro New York e Washington. In quanto persona tra le più vicine a Bin Laden, riconosciuto con la sua Al Qaeda quale mandante dell’attacco, Cia ed Fbi lo hanno incluso nella lista tra i terroristi più pericolosi. Al Zawahiri in quel momento era in Afghanistan, al fianco proprio di Bin Laden. Quando gli Stati Uniti, il 7 ottobre 2001, hanno il Paese, uno degli obiettivi principali era proprio quello di catturare il medico egiziano oramai protagonista indiscusso del terrorismo internazionale.

Leader di Al Qaeda. Proprio il 7 ottobre 2001 Al Zawahiri è comparso in video. Turbante bianco in testa, occhiali spessi sul volto da cui era possibile distinguere uno sguardo serio e concentrato e proiettato verso la telecamera: è così che il terrorista si era presentato al resto del mondo, mentre accanto a sé Osama Bin Laden, vestito con una tuta mimetica, lanciava proclami contro l’occidente. Il video, comparso su Al Jazeera, non è stato l’unico. Negli anni Al Zawahiri era apparso in altre immagini, a volte sempre al fianco di Bin Laden, altre invece da solo. Sempre con l’intento di minacciare l’occidente e di lanciare moniti a chi considerava infedele. Il suo ruolo nell’organizzazione creata da Bin Laden è cresciuto fino a diventare successore di quest’ultimo dopo la sua morte, avvenuta per mezzo di un raid Usa del 2 maggio 2011 all’interno dell’ultimo rifugio del terrorista saudita. Da allora, Al Zawahiri è leader di Al Qaeda. Ricercato numero uno da parte degli Usa, si nasconderebbe attualmente sempre in Afghanistan.

·        L’Islam e la Musica.

Le radici della musica? Sono proprio dove l’Islam più feroce vorrebbe farla sparire. Strumenti, sculture, spettacoli. E un esercizio di calligrafia sul corpo di una danzatrice. In mostra a Roma al Cappella Orsini Lab il viaggio delle note dall’Asia centrale al resto del mondo. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia araba. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 9 novembre 2021. Una famiglia riunita dalla musica. Il padre suona il sitar, la madre canta, i bambini ascoltano felici. È una scena di grande allegria in un contesto che sembra turco: però su un lato del disegno c’è una scritta in ideogrammi. E in effetti l’immagine riprodotta dall’artista cinese, negli anni Quaranta del Novecento, si svolge in un villaggio locale: quel gruppetto felice è una famiglia di uiguri, la minoranza musulmana che oggi in Cina soffre discriminazioni e violenze indicibili. «Nei loro villaggi sembra proprio di stare in Turchia», conferma l’antropologo Roberto Lucifero. «Ci sono stato anni fa, di nascosto, perché le autorità non vogliono che gli stranieri abbiano contatti con loro». Il foglio dipinto è appeso sulla scala che unisce i due piani della chiesetta sconsacrata nel centro di Roma, dietro Campo de’ Fiori, dove ha sede il Cappella Orsini Lab. Qui, fino al 30 marzo 2022, la mostra “I canti di Eurasia”, curata da Lucifero con la collaborazione di Giulia Gualtieri, offre ai visitatori un racconto di religioni e culture unite dalla musica. Un’impresa scientificamente accurata (è realizzata in collaborazione con la cattedra di Etnomusicologia della Sapienza e presentata da Raniero Gnoli, decano degli orientalisti) ma attraente anche per un pubblico affamato di un esotismo difficile da saziare in tempi di pandemia (è aperta tutti i giorni dalle 14.30 alle 19.30, più gli appuntamenti serali). Senza contare che a Roma, dopo l’improvvida chiusura del Museo d’arte orientale di via Merulana, vedere tesori artistici dell’Estremo oriente non è facile. Il visitatore compie un viaggio su un tappeto volante cinese (è disegnato con grande maestria su un piattino della dinastia Ming) dal Mediterraneo al Giappone, e ritorno, per mostrare come la musica unisca il mondo: «Del resto il cervello umano in tutto il pianeta è stato forgiato dai suoni della natura: vento, acqua, foglie», spiega Lucifero. «È nato così un legame animistico con il pianeta a cui noi occidentali abbiamo rinunciato, ma che cerchiamo inconsciamente di recuperare con la passione per l’India e per l'Estremo oriente». A raccontare questo legame, una collezione straordinaria di 250 oggetti che uniscono alla bellezza delle opere d’arte il fascino del legame con musica e spettacolo: una Venere del secondo millennio a.C. che sembra cantare battendo il ritmo con le mani, aggraziate danzatrici cinesi, statue di bronzo di dei indù musicisti che, a dimostrazione del sincretismo religioso, provengono dal Siam buddhista, un fregio con una processione di musicanti buddhisti scolpito in Pakistan nel I secolo d.C. in uno stile ellenistico che rimanda alle conquiste di Alessandro Magno. E poi maschere teatrali balinesi feticci neoguineani, burattini giavanesi, sagome per il teatro delle ombre tailandesi, ornamenti del teatro Khatakali…Gli strumenti prendono vita grazie a una app realizzata dalla società Sharzach, che permette al visitatore di sentir suonare tutti quelli esposti: l’erhu cinese che suona proprio come il canto degli uccelli, il lungo corno tibetano, il tar persiano scolpito nel legno di alberi colpiti da un fulmine, la lira calabrese o il gadulka bulgaro che accompagna la musica overtone, canto profondo simili a quello dei tenores sardi. Il catalogo delle edizioni La Lepore permette di rivivere sulla carta questa scoperta di “espressioni del sentimento sonoro dal Mediterraneo al Mar della Cina meridionale”, tra testi monografici e illustrazioni. Sullo sfondo, un triste paradosso: «La musica è nata proprio in quelle zone, dalla Persia all’Asia centrale, dove oggi l’Islam più rigido vieta canti e balli, dove farsi trovare in strada con uno strumento musicale significa farselo distruggere dalla polizia». A questa censura per motivi religiosi gli organizzatori della mostra, che è finanziata anche dall’Unione Buddhista Italiana, rispondono con un’apertura totale, evidente sia nell’esposizione che nel programma di incontri e spettacoli serali. Dove, tra un concerto di musiche tradizionali persiane e i canti della tradizione ebraica sefardita (con Evelina Meghnagi e Sylvie Genovese) o un viaggio dalla tamurriata al sufismo, il 17 novembre vedrà un calligrafo sufi, Amjed Rifaie, dipingere i suoi arabeschi sul corpo di una danzatrice nuda, l’algerina Nadia Slimani.