Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

LE RELIGIONI

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

 

LE RELIGIONI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Dei.

Il Nome di Dio.

Dio è morto.

L’ultima Religione.

Chi odia Gesù.

I Miracoli.  

Miracoli ed affari.

Comunione e Liberazione.

I Vizi Capitali.

Il Diavolo e l’Esorcismo.

L’inquisizione.

La Blasfemia.

Il Sacramento della Confessione.

Chi ha paura dei simboli cristiani?

La Mattanza dei Cristiani.

Il Vaticano ed il Covid.

Il Papa Santo.

Il Papa Emerito.

Il Papa Comunista.

I Cristiani ed i Comunisti.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

La Democrazia Vaticana: I Conclavi.

I Preti.

I Cardinali.

Gli Scismi Minacciati.

Il Vaticano e l’Italia.

I Giornalisti di Dio.

Il Vaticano non evade l’Imu.

Vaticano e Bilanci.

Gli Scandali Vaticani.

Il Vaticano e la Giustizia.

Il Vaticano e la Mafia.

Vaticano e Massoneria.

Il Papa e l’Immigrazione.

Vaticano e Gay.

Vaticano e Gender.

Vaticano e donne.

La Chiesa ed il Matrimonio.

Le Suore.

Vaticano ed Ecologia.

Il Concilio tra i cristiani.

Il Sovrano Militare Ordine di Malta.

La Chiesa Ortodossa.

Le chiese evangeliche.

I Mormoni.

Le Sette.

Scientology.

Confucio.

Buddha.

Il Vaticano e gli Ebrei.

Il Vaticano e la Cina.

Il Papa e l’Islam.

L’Islam e le donne.

L’Islam ed il Terrore.

L’Islam e la Musica.

 

 

  

 

 

 

LE RELIGIONI

PRIMA PARTE

 

·        Gli Dei.

L'uomo non sogna più la potenza di Prometeo. Giuseppe Conte il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Divinità ed eroi sono raffigurazioni delle passioni e dei flussi di energia che percorrono l'anima umana. Da sempre è insita nell'anima umana una pulsione a modificare la natura a proprio uso e consumo, a occuparne gli spazi, a creare strumenti per farlo più agevolmente e radicalmente, a edificare dove erano soltanto praterie e foreste. Questo è un movimento umano antichissimo, preistorico, che ha aiutato i nostri antenati primitivi a muovere i primi passi verso la civiltà. Tutto comincia da quando il fuoco celeste fu rubato e portato sulla terra, a cuocere i cibi, a scaldare la caverna e a rendere incandescenti i metalli per forgiarli. Allora nasce il rapporto controverso tra anima e natura. L'anima è natura, ma qualcosa di potente e contraddittorio la spinge a domare la natura in sé e fuori di sé, a costruire baluardi, templi, castelli, strade e poi palazzi, piazze, officine, metropoli con i loro grattacieli sempre più alti. Si riduce lo spazio del selvatico, dell'erotico, del meraviglioso a favore del civilizzato, del pratico, dell'utile. È un processo che ha raggiunto il massimo di potenza nella civiltà industriale occidentale: è grazie ad esso, sostanzialmente alla tecnica, che i bianchi hanno dominato il mondo. Il dio che presiede a tutto questo è Prometeo, il Titano, il ribelle che ruba a Zeus il fuoco celeste per farne dono agli uomini, candidandosi così a diventare, come scrisse Marx, il primo santo di un calendario comunista (neppure il materialismo scientifico fu immune da riferimenti al mito!): prometeica è l'industria pesante con il suo paesaggio di ciminiere fumanti, prometeiche le grandi infrastrutture, le trivelle per estrarre petrolio dal fondo del mare, le gigantesche navi portacontainer, i gazometri, i metanodotti. Ma nel XXI secolo, con la natura avvelenata e ferita, le foreste che bruciano, i mari che si impestano di plastica, l'aria che si ammorba di polveri sottili, il clima che cambia rovinosamente, le specie animali che sopravvivono a stento e la nostra specie sempre più insidiata da nuove, sconosciute pandemie, il rapporto dell'anima con la sua forza prometeica è cambiato. L'anima riprende a scorrere, ad essere soffio vitale, dimentica o mette sotto accusa Prometeo. Vuole che il fuoco torni sacro, vede lì la sua salvezza, e che tornino sacre le onde, le foreste, le nuvole. Quello che dei grandi costruttori mitici agisce oggi nell'anima non è tanto il senso del potere, della sfida alla natura, ma quello della condivisione e della salvezza. Il figlio di Prometeo, Deucalione, costruisce l'arca per salvarsi dal diluvio, in uno strano parallelo con il Noè della Bibbia, e far rinascere il genere umano. E altri grandi costruttori sono Dedalo, che a Creta è al servizio della lussuria di Pasifae, della potenza di Minosse, ma che soprattutto è il costruttore delle ali per sé e per il figlio Icaro in vista della fuga dall'isola; ma anche Pigmalione, cipriota, che costruisce una statua d'avorio, la coltiva e ama come fosse umana. L'anima vuole donare sé stessa, volare, creare, costruire vita anche dove sembra impossibile.

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Prometeo è un eroe che il XIX secolo, per la sua aspirazione al progresso, per la sua inquietudine romantica, per il suo spirito filantropico, visse come una specie di ossessione. Ne scrissero i maggiori poeti dell'Occidente, Goethe gli prestò la voce in un canto di rivendicazione e di rivolta contro la miseria e l'apatia degli dei: «Qui sto io, plasmo uomini/ a mia immagine,/ una stirpe che mi somigli/ nel soffrire, nel piangere/ che goda e si rallegri». Shelley ne fece il protagonista di un intero poema drammatico, Prometeo liberato, in cui l'eroe della sfida al Potere, diventato vittima del Potere più cupo, si riconnette con la parte orientale, femminile di sé, con la natura, la magia, la contemplazione. Nel XXI secolo si è capito che la forza superiore a cui Prometeo si è ribellato è la natura: lui ed Eracle con le sue fatiche sono i protagonisti iniziatori di quel processo che prima doma, poi imbriglia, poi usa, poi distrugge la natura e tutto ciò che è natura. Il fuoco celeste rubato e dato all'uomo è diventato ormai quello che ha martoriato Hiroshima, che ha fatto inabissare uccelli in mare, volare pesci sugli alberi, mutare la materia e le sue regole interne per provocare distruzione totale e morte. Prometeo oggi costruirebbe sempre più aeroporti, autostrade, acciaierie, grattacieli. È un nobile eroe, ma del passato. La natura e il pianeta Terra hanno bisogno oggi di dei ed eroi che nell'anima umana suscitino nuovi desideri, verso nuovi assetti della società e nuove forme di convivenza tra gli uomini e con il cosmo. Prometeo è un Titano, figlio dell'Oceanina Climene e di Giapeto, nome così simile allo Jafet biblico, figlio di Noè. Ha per fratelli Atlante e Menezio, ma soprattutto quell'Epimeteo che sin dal nome sembra il suo doppio sciocco, controfigura comica dell'eroe. Prometeo vuol dire «che vede prima», Epimeteo «che vede dopo». Il primo è previdente, accorto, coraggioso, quando occorre astuto. Il secondo è un pasticcione, un confusionario, un buono a nulla che arriva sempre in ritardo sulle cose. Quando i Titani alleati di Crono si ribellano a Zeus e insidiano l'ordine olimpico, Atlante e Menezio si mettono dalla loro parte, e pagano cara la sconfitta: il primo è condannato a reggere il cielo sulle spalle, il secondo è folgorato da Zeus. Prometeo, e con lui Epimeteo, la cui indole è scimmiottarlo, si schiera invece dalla parte di Zeus. Lui, che viene dal mondo primordiale e brutale dei Titani, sceglie il luminoso ordine del nuovo potere olimpico e dei suoi dei. È il più intelligente dei Titani, e stringe un legame forte con Atena, la più intelligente tra le nuove divinità. Ma non tarderà a entrare in contrasto con Zeus, è il suo fato, quel fato a cui né dei né Titani possono opporsi. Prometeo, si dice, ha creato i primi uomini. Li ha impastati modellando terra mescolata ad acqua, che poi ha solidificato con il calore del fuoco, e ha chiesto ad Atena di soffiare in queste creature di argilla l'alito di vento dell'anima, della vita. Data da allora la sua benevolenza verso il genere umano. Lo vede così fragile, così in balia delle forze soverchianti della natura che desidera con sincera, disinteressata passione, aiutarlo a sopravvivere. È lui che mostra come accendere il fuoco, è lui che impara da Atena l'architettura, l'astronomia, l'arte di lavorare i metalli, l'arte di navigare, e poi trasferisce agli uomini tutto questo bagaglio di conoscenze perché possano farne buon uso. A Prometeo, il potere di Zeus sugli umani deve sembrare troppo oppressivo ed esigente. Quando si tratta di decidere quali parti di un toro sacrificato deve andare agli dei e quale agli uomini, Prometeo, che per la sua prontezza e intelligenza è chiamato a fare da giudice, elabora uno stratagemma a danno di Zeus. Del toro sacrificato, prende lo stomaco, la parte meno appetibile, e ne fa una sacca che riempie di tagli di carne succulenta e di appetitose frattaglie, poi prende le ossa e le rifascia con un bello strato di grasso bianco e sugoso. Prometeo invita Zeus a scegliere, e il signore degli dei si lascia ingannare dalle apparenze, abbagliare da quel biancore così morbido. Quando si accorge che contiene soltanto ossa, ha un violento moto d'ira, e decide di punire Prometeo attraverso i suoi protetti, gli uomini. Toglie loro il fuoco: che non possano più illuminare la notte, riscaldare i rifugi, e che si mangino cruda tutta quella carne prelibata che Prometeo ha destinato loro, ogni volta che sacrificano agli dei. La privazione del fuoco mette in ginocchio gli uomini, che regrediscono a quello stato selvaggio da cui Prometeo li ha tratti con tutti i suoi insegnamenti. Giuseppe Conte 

Così Euripide assolse Elena, la seduttrice più innocente. Giuseppe Conte il 15 Luglio 2021 su Il Giornale. La nuova traduzione della tragedia ci mette di fronte all'incarnazione della passione amorosa. Elena figlia di Leda e del Cigno nelle cui 9forme si nascondeva Zeus, fu la donna più bella al mondo, suscitatrice dei più infuocati desideri: per lei, dopo che Paride la portò via al marito Menelao, scoppiò la guerra di Troia e trovarono la morte tanti eroi. Pari a lei, per fama e per incidenza sull'immaginario dei posteri, c'è soltanto Ulisse. Che quando a Sparta furono convocati tutti i principi pretendenti alla mano di Elena, era tra loro. Ma ancora una volta fu il più scaltro, e si ritirò senza portare alcun dono appena seppe che a chiederla in sposa per il fratello sarebbe stato il più potente e ricco degli Achei, Agamennone. La bellezza, di cui Elena è emblema supremo, si accoppia con la potenza. Ma sacrifica a Eros. Elena non è statica nella gloria delle sue forme perfette, è in continuo divenire, contraddittoria, dolcissima e feroce. È vittima ma è anche carnefice, è colpevole ma anche innocente, è splendore ma anche rovina. Nella sua ottima introduzione alla Elena di Euripide (Mondadori, pagg. 383, euro 50) Barbara Castiglioni, che ne è anche traduttrice, mostra in quante opere Elena di Troia sia stata protagonista e su quanti autori abbia esercitato in diversi modi il suo fascino. In un raggio che copre tutta la letteratura e la civiltà occidentale. Elena è intanto un personaggio omerico, e nelle vicende dell'Iliade mostra, lei traditrice e ormai principessa troiana, tratti di sconcertante ambiguità filogreca. E se in Omero resta una colpevole, ci pensa Gorgia il sofista, fedele ai suoi metodi, a tesserne un Encomio e a mostrarne con un esercizio di alta retorica la sostanziale innocenza. Personalmente, sono affascinato da una celebre poesia lirica di Saffo dove Elena ricorre in quanto esempio: c'è chi sostiene che la cosa più bella al mondo sia una torma di cavalieri, chi di fanti, chi una flotta di navi. Saffo invece sostiene che la cosa più bella al mondo è «ciò che si ama». Capovolge l'ordine dei valori: in cima non ci sono guerra e potere. C'è l'amore. E per mostrare la potenza di Eros, ecco che «la donna più bella del mondo,/ Elena, abbandonò/ il marito (era un prode) e fuggì /verso Troia, per mare./ E non ebbe un pensiero per sua figlia,/ per i cari parenti: la travolse/ Cipride nella brama». Elena è qui il modello di ogni trasgressione amorosa, di ogni passione terribile, inevitabile: gioia e disastro nello stesso tempo. Troveremo Elena negli autori latini, con la versione mondana che ne dà Ovidio nelle Heroides, negli autori medievali devoti all'amore cortese, come Benoit de Sainte Maure col suo Roman de Troie, in Dante, nei drammaturghi elisabettiani, in Goethe, dove diventa , nell'immenso affresco simbolico del Faust, «l'incarnazione vera e propria dell'eterno Elemento femminile». E, più vicino a noi, c'è la Elena di William Butler Yeats reincarnata nella rivoluzionaria irlandese Maud Gonne, di cui il poeta fu sempre e vanamente innamorato. In Maia, il suo vero capolavoro, D'Annunzio preferì dipingerci una Elena mendicante, superstite nella vecchiezza e nella vergogna: i secoli le hanno incanutito i capelli, sfatto la bocca vorace, smunto il seno infecondo, curvato il dorso di belva, e le hanno lasciato un solo occhio socchiuso e senza ciglia. È una epifania potente e misteriosa. «Aedo hai dato la dramma/ a Elena, figlia del Cigno/ che fatta è serva millenne/ d'una meretrice di Pirgo». Più tardi, anche a Ghiannis Ritsos, superbo poeta erotico neogreco, Elena apparve in un simile degrado e sfacelo. Scrive Barbara Castiglioni che «tra tutti gli oltraggi mitologici compiuti da Euripide, il più clamoroso è senza dubbio il rovesciamento del mito di Elena». Ed è vero. Euripide fa sua la versione di una Elena del tutto innocente e vittima. E sposta l'azione lontano sia da Sparta sia da Troia, nell'Egitto che per i Greci ha la voce straordinaria di Erodoto. Che cosa è accaduto perché il mito potesse così capovolgersi? Per capirlo, bisogna introdurre il tema del doppio e del fantasma. Già ricorre nelle vicende di Era e di Zeus. Quando Issione, figlio del re dei Lapiti, invitato al banchetto degli Dei osò mettere gli occhi su Era e tentare di sedurla, Zeus, prima di punirlo, lo beffò , costruì con la sostanza eterea delle nubi un doppio della moglie, gli diede le sue fattezze del volto e le sue forme, e Issione ingannato possedette quello. Da quel coito, nacque la stirpe dei Centauri. Per sottrarre Elena al tradimento e alla vergogna, gli dei ne mandarono a Sparta un fantasma: costruito anch'esso di aria e di nuvole, ma talmente somigliante da indurre Paride a crederla la vera Elena: così fece innamorare e portò con sé a Troia un'ombra. E la Elena in carne ed ossa, con tutta la sua irresistibile bellezza, fu portata in Egitto presso la corte del più casto dei Re, Proteo, l'unico che poteva vedersela vicino senza cominciare a smaniare di desiderio. Quando il dramma di Euripide inizia, il re è morto ed è succeduto a lui Teoclimeno, che invece comincia a desiderare follemente e a insidiare Elena. E Menelao, reduce da Troia, arriverà naufrago proprio su quelle sponde. La tragedia prende toni più da commedia, che il lieto fine potenzia: e si legge bene in questa nuova freschissima traduzione tra dialoghi serrati e alati spunti lirici. Elena ne esce completamente redenta: donna eccellente, virtuosa, dal nobile animo. Perché, come sentenzia il coro: «Molte sono le forme del divino, / e incomprensibili le decisioni degli Dei». Giuseppe Conte

·        Il Nome di Dio.

 Il nome Geova in letteratura: da Carducci a Verdi, da Montanelli alla Morante. Roberto Guidotti il 24/6/2021 su La Notizia.net. Dopo il nostro articolo sul Tetragramma composto dalle quattro consonanti YHWH del nome di Dio, reso sia Yahweh che Geova in alcune versioni della Bibbia, alcuni nostri lettori ci hanno chiesto riferimenti più precisi sul nome Geova nelle opere letterarie italiane citate.  La grafia “Geova” è diffusa da diversi secoli nella cultura europea e italiana. Già utilizzata in opere letterarie e musicali celebri come quelle ideate da Giosuè Carducci, Nicolò Tommasseo, Giuseppe Verdi, l’espressione compare anche in numerose riviste, saggi e libri di vario genere, solitamente per identificare il Dio degli Ebrei o della Bibbia. Alcune curiosità storiche: il nome Geova compare in alcune citazioni della Civiltà Cattolica, la storica rivista dei Gesuiti, negli atti documentari dell’ottavo Congresso Cattolico tenuto a Lodi nel 1890 e addirittura negli Atti parlamentari del Senato del Regno nel 1872.

Ma che dire dei riferimenti più vicini a noi a livello temporale, al quale facevano riferimento alcuni lettori?

Indro Montanelli e Roberto Gervaso utilizzano la forma Jeovah nell’Italia della Controriforma, uno dei 22 volumi della monumentale Storia d’Italia, opera che traccia la storia del Belpaese dal crollo dell’Impero Romano d’Occidente al 1997. Il volume è del 1968 ma è andato in ristampa decine e decine di volte, visto il successo dell’intera opera.

Altra citazione letteraria quella della scrittrice Elsa Morante nel romanzo La storia del 1974. Il romanzo è una delle opere più conosciute e più discusse della scrittrice, oltre che di grande successo commerciale. Uno dei personaggi elenca Allah, Budda e Geova.

Umberto Eco cita Geova nel celeberrimo Il nome della Rosa del 1980 all’interno del dialogo tra il frate Jeorge e Guglielmo da Baskerville. Lo stesso Eco avrebbe usato qualche anno dopo (1988) la grafia Iehova nella citazione di un Salmo da parte di uno dei protagonisti del Pendolo di Foucault, altro successo letterario del semiologo e linguista di Alessandria.

Negli ultimi anni altri scrittori, storici, critici letterari e italianisti come Giuseppe Pittano, Francesco Tateo, Giovanni Macchia, Mario Ghildelli, Eugenio Bucciol, Francesco Totaro, Adriano Pessina, hanno adoperato la forma Geova in contesti intellettuali eterogenei, confermando la notorietà del nome Geova nella lingua italiana, specialmente in ambito storico/culturale. Roberto Guidotti La-Notizia.net

Da “Popotus - Avvenire” il 16 marzo 2021. Per i musulmani Allah è il nome di Dio, ma il nome di Allah può essere usato anche dai fedeli di altre religioni? La questione chiama in causa le convinzioni più profonde dell'islam, per le quali l'uomo non può mai conoscere fino in fondo la natura divina. Nel Corano si elencano novantanove nomi di Dio, ma il centesimo, il più misterioso di tutti, è rivelato solo a pochi eletti. Gli altri sono invitati a pregare secondo le formule consuete, tra le quali figura un rosario che, non per niente, ha novantanove grani più uno. Sì, un rosario, proprio come quello che i cattolici adoperano per invocare l'intercessione della Madonna. Questa è una delle tante analogie tra le due fedi (un'altra è appunto la devozione riservata a Maria). Il problema è soprattutto linguistico: per i cristiani che parlano il malese, l'unico modo per dire Dio è... Allah. In Malaysia, però, una legge del 1986 proibisce espressamente l'utilizzo di questo nome da parte dei non musulmani. Adesso, dopo numerosi casi che hanno sollevato le proteste dei cristiani, l'Alta Corte di quel Paese (nel quale l' islam è religione di Stato, ma la libertà degli altri credenti è comunque garantita) ha dichiarato che la norma è ingiusta e che va superata e che anche i cristiani possono usare la parola Allah per definire il proprio Dio in testi e pubblicazioni di tipo educativo. Non tutti sono d' accordo, ma si tratta comunque di un passo molto importante.

·        Dio è morto.

Francia, l’agonia del cristianesimo. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 16 agosto 2021. Il recente assassinio nella Vandea di un anziano prete, Olivier Maire, da parte di un cittadino ruandese già noto alle cronache e agli inquirenti per atti cristofobici – il rogo della cattedrale di Nantes – ha riacceso i riflettori sulla situazione drammatica che sta attraversando il Cristianesimo in Francia. Perché qui, nella fu figlia prediletta della Chiesa, era dai tempi della Rivoluzione che i cristiani non si sentivano così insicuri e minacciati, che non erano così bistrattati e aggrediti psicologicamente e fisicamente. Numeri alla mano, invero, la Francia è la prima nazione d’Europa per quantità di crimini d’odio di stampo cristofobico – essendo la sede di un terzo di tutti gli attacchi di questo genere che hanno annualmente luogo nel continente. Crimini, quelli che stanno accelerando e accompagnando la scristianizzazione della Francia, che vengono consumati da una variegata anonima dell’odio – composta principalmente da islamisti, anarchici, femministe, satanisti e neonazisti – i cui membri sono impegnati in una quotidiana battaglia contro la Croce a base di profanazioni, aggressioni, incendi e, talvolta, omicidi.

Maire e gli altri. Vandea, storico fortino del Cattolicesimo francese, 9 agosto 2021: la gendarmeria trova il corpo senza vita di Olivier Maire, un provinciale superiore appartenente alla Congregazione della Casa dei Frati Missionari Monfortani. Il religioso, sessant’anni, è stato ucciso. Parte la caccia all’uomo: gli investigatori desiderano risolvere il caso in tempi rapidi, perché la piccola comunità di Saint-Laurent-sur-Sèvre è sotto choc ed un pericolo assassino è a piede libero. La caccia, per la fortuna degli inquirenti, dura molto meno del previsto: un uomo si costituisce, si addossa la responsabilità dell’uccisione. Quell’uomo è Emmanuel Abayisenga, un rifugiato ruandese accolto nella comunità monfortana proprio da padre Maire e che negli ambienti investigativi d’Oltralpe è conosciuto in qualità di unico imputato per il rogo della cattedrale dei santi Pietro e Paolo di Nantes. Nonostante il presunto ruolo nell’incendio della cattedrale di Nantes, e la minaccia posta alla sicurezza pubblica – era stato costretto a seguire un trattamento psichiatrico –, Abayisenga era a piede libero. Aveva terminato le cure lo scorso mese, cioè a luglio, e avrebbe dovuto essere sorvegliato in conformità con un ordine di controllo giudiziario. Uscito dall’istituto, però, il rifugiato si era allontanato dalla lente degli investigatori e aveva trovato riparo presso la Casa dei Frati Missionari Monfortani, dove era entrato grazie all’aiuto di padre Maire. L’assassinio dell’anziano provinciale superiore, che ha riacceso i riflettori sulla situazione drammatica in cui versa il Cristianesimo in Francia, non è un caso isolato. Maire, invero, è soltanto l’ultima vittima di quell’anonima dell’odio che combatte quotidianamente contro tutto ciò che rappresenta e simboleggia il messaggio di Cristo, dal clero ai luoghi di culto e dai cimiteri alle croci. Perché prima di lui, lo scorso ottobre, un terrorista islamista uccise due fedeli e un sagrestano nella basilica di Nostra Signora di Nizza. E prima ancora di quel mini-attentato, il 26 luglio 2016, due soldati dello Stato Islamico sgozzarono padre Jacques Hamel nella piccola chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray.

L’assalto alla Cristianità. I numeri della guerra alla Cristianità mossa dall’anonima dell’odio – che, di nuovo, è estremamente variegata e multiforme, perché composta da attori molto diversi tra loro, come i satanisti e gli islamisti – sono magniloquenti, espressivi ed autoesplicativi. Sono numeri che parlano di una mattanza silenziosa, che avviene nell’indifferenza delle autorità e della stessa società – oramai ampiamente secolarizzata – e che, se dovesse proseguire al ritmo attuale, nel prossimo futuro potrebbe portare ad un significativo ridimensionamento del patrimonio cristiano di Francia. Numeri che hanno portato taluni a parlare di “cattolicesimo in fase terminale” e che sono i seguenti:

Fra il 2008 e il 2019 gli attacchi di stampo cristofobico sono quadruplicati, aumentando costantemente e regolarmente su base annua.

Nel 2019 hanno avuto luogo 1.052 attacchi cristofobici (1.063 secondo altre stime) – in entrambi i casi si tratta di una media di quasi 3 al giorno –, in aumento rispetto agli 877 dell’anno precedente.

I numeri di cui sopra rendono la Francia la culla della cristofobia d’Europa, essendo la sede di un terzo di tutti gli attacchi di questo tipo che sono stati consumati nel continente nel 2019: 1.052 su circa 3.000.

Il 40% delle profanazioni dei luoghi sacri del Cristianesimo, secondo un’indagine di Libération, sarebbe attribuibile a musulmani radicalizzati e/o terroristi islamisti.

Il restante 60% delle profanazioni, invece, sarebbe opera di militanti di estrema sinistra (anarchici, femministe, attivisti omosessuali), neonazisti, satanisti e, in minor parte, persone con disturbi psichici.

Ogni anno, secondo l’Osservatorio per il patrimonio religioso, almeno “una ventina” di chiese viene danneggiata o distrutta dalle fiamme dei roghi dolosi. Alcuni anni, però, quella media viene superata: nel 2018, ad esempio, le autorità hanno registrato 32 episodi di carbonizzazione intenzionale.

Due terzi degli incendi che compromettono o causano il crollo delle chiese cattoliche sono di origine dolosa, ovvero appiccati da piromani, ma nella stragrande maggioranza dei casi restano impuniti, senza colpevole.

Soltanto 15mila chiese su oltre 45mila godono di qualche forma di tutela e/o protezione statale – sorveglianza inclusa –, il che significa che due luoghi di culto cristiani su tre sono esposti ai rischi delle profanazioni, dei vandalismi e dei roghi.

Una mattanza silenziosa. Roghi di interi edifici, danneggiamenti di arredi, altari e pitture, profanazioni sacrileghe di luoghi come i cimiteri e, a volte, persino omicidi di chierici e fedeli; tanto lunga è la lista dei crimini in odium fidei compiuti dall’anonima anticristiana operante in Francia. Crimini che, il più delle volte, rimangono irrisolti. Crimini diffusi, molecolari e capillari, che non danno tregua né agli inquirenti né ai fedeli e che, non di rado, obbligano uomini di Stato e di Fede a prendere atto dell’antieconomicità di una manutenzione perenne e a convivere con la scelta più dolorosa: quella di lasciare croci, statue, monumenti, chiese e cimiteri al loro tragico destino, che, molto spesso, corrisponde ad una probabile distruzione o ad una certa dissacrazione. Un caso recente di istituzioni che hanno sventolato bandiera bianca, arrendendosi in maniera incondizionata all’anonima anticristiana, è costituito dalla questione delle croci di vette nei Pirenei orientali. Al termine di uno sciame inarrestabile di attacchi durato quattro anni – dal 2014 al 2019 – e manifestatosi nelle forme di furti, danneggiamenti e/o abbattimenti, il Consiglio Dipartimentale dei Pirenei orientali, nel settembre di due anni or sono, si arrese ai distruttori delle croci di vette, comunicando a residenti e alpinisti che avrebbe smesso sia di installarne di nuove sia di riparare quelle danneggiate. E in Francia, come nei Pirenei orientali, il Cristianesimo sembra essere giunto oramai al capolinea, prossimo a quell’estinzione violenta che sognavano e intravedevano i padrini del giacobinismo radicale all’epoca della Rivoluzione e dell’instaurazione del culto dell’Essere Supremo. Abbandonato a se stesso tanto dalla politica quanto dalla società, e testimone del concomitante declino delle chiese sorelle nel resto d’Europa, il Cattolicesimo francese va addentrandosi nell’oscurità di quella lunga notte alla quale, sembra, non farà seguito alcuna nuova alba.

La lunga marcia della Polonia verso la secolarizzazione. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 25 giugno 2021. Il 2020 verrà ricordato dai posteri come l’anno in cui la Polonia ha scoperto di non essere (più) lo Scutum saldissimum et antemurale Christianitatis del Vecchio Continente. Perché l’insorgenza intermittente che ha caratterizzato e accompagnato quasi ogni singolo mese dell’anno passato, fra tumulti di piazza legati alla questione aborto, mobilitazioni da parte della comunità arcobaleno e attacchi cristianofobici, sembra suggerire che la Polonia sia prossima a cedere lo scettro di colonna portante del conservatorismo europeo e ad entrare a far parte del club delle nazioni secolarizzate e postcristiane.

I numeri della crisi. Il 2020 è stato un anno da dimenticare (o da ricordare?) per la Chiesa cattolica di Polonia, il potere celeste fatto istituzione che ha protetto i figli e i confini della nazione nel corso dei secoli e che ha guidato e reso possibile la Rivoluzione del 1989, sorreggendo Solidarność e producendo martiri coraggiosi come Jerzy Popiełuszko. A trentuno anni dalla vittoria della Croce nella lotta contro la Falce e il martello, la Chiesa cattolica di Polonia sta sperimentando un’emorragia di consensi senza precedenti storici, la cui andatura va di pari passo con l’implementazione dell’agenda conservatrice di PiS. I numeri della crisi del cattolicesimo polacco sono indicativi della celerità, della profondità e della drammaticità del cambio di paradigma socio-religioso in corso. Perché, in quello che pare essere un caso unico al mondo, la società polacca sta curiosamente transitando dalla religiosità all’irreligiosità senza aver attraversato un previo processo di secolarizzazione durevole e tangibile. Le cifre descrivono un momento di grande tribolazione per la Chiesa polacca, intriso di violenze, sfiducia e acredine, e possono esplicare ciò che alle parole non riesce:

I crimini d’odio anticattolico sono quadruplicati dal 2019 al 2020, passando da 72 a 280;

Quasi un polacco su due (il 46%) ha un’opinione negativa della Chiesa e meno di uno su due (il 43%) ne approva l’operato attuale (marzo 2021);

La fascia anagrafica 18–29 mostra e manifesta gli indici più elevati di avversione e disaffezione verso la Chiesa, vista negativamente dal 47%, in maniera neutra dal 44% e positivamente da un risibile 9% (novembre 2020);

Il tasso di frequenza dell’ora di religione è diminuito di un quinto fra il 2010 e il 2019, scendendo dal 93% al 70%, ma il fenomeno varia notevolmente da città a città e fra aree urbane e aree urbali – nelle scuole superiori di Cracovia e Łódź, ad esempio, soltanto uno studente su due frequentava l’ora di religione nel 2019; una percentuale che scendeva al 40% a Varsavia e Poznan;

I diplomandi dichiaratamente cattolici si sono ridotti di quasi un quinto fra il 2010 e il 2019, passando dall’81% al 63% dell’intera popolazione scolastica;

Il neonato portale Apostazja (let. “apostasia”) ha conteggiato 5.135 dichiarazioni di sbattezzo ufficiali fra novembre 2020 e giugno 2021, alle quali andrebbero affiancati gli oltre trentamila moduli di sbattezzo che gli internauti hanno scaricato dal sito nello stesso periodo.

Un futuro già segnato?

Personaggi pubblici come il politico Robert Biedron, fondatore del partito liberal-progressista Primavera (Wiosna), l’attivista transgenere Margot e il cantante Nergal, voce della controversa banda black metal dei Behemoth, sono stati gli insoliti capifila dei moti anticattolici e antigovernativi che hanno scosso la Polonia nella seconda parte del 2020. A trarre vantaggio dai disordini, però, non è stato il nuovo-ma-già-vecchio Primavera, ma Polonia 2050: un partito liberale (e anticlericale) nato all’acme dei tumulti pro-aborto e che, in brevissimo tempo, stando ai sondaggi, avrebbe superato Piattaforma Civica, divenendo la seconda forza politica del Paese. L’evolvere della situazione risulterà rivelatorio al fine della comprensione del reale significato del 2020: annus horribilis anomalo e a sé stante o preludio alla scristianizzazione (inevitabile?) della Polonia. Noi, ad ogni modo, avevamo scritto in tempi non sospetti – ossia dapprima che iniziassero i disordini e che si instaurasse un clima apertamente ostile nei confronti del cattolicesimo – che “nonostante i grandi numeri [su partecipazione alla messa domenicale e nuove ordinazioni sacerdotali], la secolarizzazione è arrivata anche in Polonia” e che “un fenomeno che sta prendendo piede in maniera preoccupante è quello degli attacchi anticattolici, che si sono intensificati in concomitanza con l’entrata ufficiale della Chiesa nella guerra del governo all’ideologia di genere”.

I fatti successivi ci hanno dato ragione, perché l’episodico è divenuto routinario, ma questo non significa che il destino della millenaria Chiesa polacca sia segnato. Perché questa istituzione, per quanto sia oggi attraversata da una grave crisi di legittimità, contrariamente alle omologhe europee, ha una storia di incredibile resistenza ai tentativi di annichilimento ed emarginazione dalla vita pubblica. Spiegato in altri termini, il destino del cattolicesimo polacco potrebbe essere differente da quello delle controparti morenti di Portogallo, Germania o Francia: a fedeli e chierici l’onere di fermare i processi di secolarizzazione e scristianizzazione.

Michele Magno per startmag.it l'8 maggio 2021. “La parola Dio per me non è altro che l’espressione e il prodotto della debolezza umana, e la Bibbia una collezione di venerabili ma nonostante tutto piuttosto primitive leggende. Nessuna interpretazione, di nessun genere, può cambiare questo (per me)”. E ancora: “Per me la religione ebraica è, come tutte le altre religioni, l’incarnazione di una superstizione primitiva. E il popolo ebraico, al quale sono fiero di appartenere e con il quale ho un’affinità profonda, non ha una forma di dignità diversa rispetto ad altri popoli”. Sono due passi centrali della “Lettera su Dio” che Albert Einstein scrisse il 3 gennaio 1954 (morirà l’anno seguente) su carta intestata dell’Università di Princeton. Era indirizzata a Eric Gutkind, il filosofo ebreo tedesco autore del libro Scegli la Vita: la chiamata biblica alla rivolta. Nel 2018 la lettera è stata venduta all’asta da Christie’s a New York per quasi tre milioni di dollari, tasse comprese. Ma già nel 1940, in un articolo pubblicato sulla rivista Nature, il grande fisico aveva illustrato la sua celebre affermazione “Non credo in un Dio personale”. In esso spiegava di non ignorare “l’impronta sublime e l’ordine mirabile che si rivelano nella natura e nel mondo del pensiero”. Aggiungeva che non rinunciava neppure all’idea di dio (con la d minuscola), che tuttavia non è, e non può essere quello della Bibbia. Quella di Einstein, quindi, è una religiosità scomoda, razionale, “cosmica”. Una religiosità che “non conosce dogmi né dèi concepiti a immagine dell’uomo. Non vi può essere alcuna Chiesa che fondi su di essa la propria dottrina. È perciò tra gli eretici di tutti i tempi che noi troviamo uomini penetrati di questa superiore religiosità”. Queste affermazioni provocarono una pioggia di reazioni sdegnate, citate nel saggio del 1999 di Max Jammer Einstein and Religion. Physics and Theology (in italiano se ne può trovare un’ampia sintesi nel volume di Francesco Agnoli Filosofia, religione e politica in Albert Einstein, Edizioni Studio Domenicano 2015). Un avvocato cattolico statunitense, che lavorava per un’associazione ecumenica, scrisse allo scienziato: “Siamo profondamente rammaricati che abbia fatto una dichiarazione […] in cui ridicolizza l’idea di un Dio personale. Nulla di quanto si è detto negli ultimi dieci anni era mai riuscito a insinuare l’idea che Hitler avesse qualche ragione di espellere gli ebrei dalla Germania. Pur riconoscendole il diritto di parlare liberamente, le assicuro che quanto ha affermato fa di lei una delle maggiori fonti di discordia in America”. Non meno violenta è una lettera che gli indirizzò il fondatore della “Calvary Tabernacle Association dell’Oklahoma”: “Professor Einstein, penso che tutti i cristiani d’America le risponderanno: Noi non rinunceremo alla nostra fede in Dio e nel suo figliolo Gesù Cristo, ma se lei non crede nel Dio del popolo di questa nazione, la invitiamo a tornare nel suo paese. Ho cercato in tutti i modi di essere una benedizione per Israele, ed ecco che arriva lei e con una sola frase della sua lingua blasfema nuoce alla causa del suo popolo proprio nel momento in cui i cristiani che amano Israele si sforzano di eliminare l’antisemitismo da questa terra. Professor Einstein, tutti i cristiani d’America sono pronti a dirle: Prenda la sua folle e falsa teoria dell’evoluzione e torni in Germania, da dove è venuto, oppure la pianti di cercare di spezzare la fede di un popolo che l’ha accolta quando è stato costretto a fuggire dalla sua terra natale». Dal canto suo, un professore della “Catholic University of America”, il reverendo Fulton J. Sheen, lo attaccò chiedendosi sarcasticamente chi mai sarebbe stato disposto a sacrificare la vita per la Via Lattea, per concludere: “La sua religione cosmica ha un unico difetto: una "s" in più”. Insomma, cos’era Einstein? Un ateo, un agnostico, un deista o un panteista? L’ateo è colui che e nega in modo assoluto l’esistenza di qualsiasi entità trascendente. L’agnostico non si esprime, dice di non sapere e di non poter arrivare alla conoscenza, poiché la divinità è qualcosa di intangibile e non percepibile dall’uomo. Il teista crede in un’intelligenza soprannaturale che, oltre ad avere creato l’universo, continua a sorvegliare e influenzare le vicende della propria creazione. In molti sistemi teistici, la divinità è strettamente coinvolta nelle questioni umane: ascolta le preghiere, perdona o punisce i peccati, interviene nel mondo compiendo miracoli, si preoccupa delle azioni buone o cattive e sa quando vengono compiute (o anche solo pensate). Anche il deista crede in un’intelligenza soprannaturale, il cui compito però è limitato a stabilire le leggi che governano l’universo. Il Dio deista non interviene mai e certo non si interessa alle vicende umane. I panteisti non credono in un Dio soprannaturale, ma usano il termine Dio come sinonimo non soprannaturale di Natura o di universo o di leggi che governano l’universo. Diversamente da quello dei teisti, il Dio dei deisti non ascolta o esaudisce preghiere, non si cura di peccati o confessioni di peccati, non legge nel pensiero e non compie miracoli secondo il suo capriccio. Quanto alla differenza tra deisti e panteisti, il Dio deista è una sorta di intelligenza cosmica, anziché il sinonimo poetico o metaforico con cui il panteista designa le leggi dell’universo. Il panteismo è “un ateismo ornato”, il deismo è un “teismo annacquato” (Richard Dawkins, L’illusione di Dio, Mondadori, 2017). Poiché Einstein dichiarò “Credo nel Dio di Spinoza, che si rivela nell’ordine armonioso della natura, non in un Dio che si cura dei destini e delle azioni umane”, ci sono buone ragioni per sostenere che i suoi famosi aforismi, come “Dio è sottile, ma non malizioso”, “Dio non gioca a dadi” o “Dio aveva scelta quando creò l’universo?”,  siano panteistici. Se è così, “Dio non gioca a dadi” andrebbe tradotto con “la casualità non è l’essenza di tutte le cose”; “Dio aveva scelta quando creò l’universo?” significa “L’universo sarebbe potuto cominciare in un altro modo?”. Einstein, cioè, usava il termine Dio in un’accezione puramente poetica e metaforica. Non può pertanto essere confuso con il Dio delle Sacre Scritture. Chi provasse a farlo, commetterebbe un reato di tradimento intellettuale.

DAGOTRADUZIONE DA axios.com l'8 aprile 2021. Alcuni nuovi sondaggi mostrano che l'aderenza a comunità religiose da parte degli americani è declinata rapidamente negli ultimi anni, con meno del 50% della popolazione che appartiene a una chiesa, sinagoga o moschea.

Perché è importante. La tendenza di un’America sempre più laica rappresenta un cambiamento fondamentale a livello di identità nazionale, che potrebbe avere importanti ramificazioni per la politica e persino per la coesione sociale.

I numeri. Un sondaggio Gallup pubblicato la scorsa settimana ha rivelato che soltanto il 47% degli americani ha ammesso di appartenere a un luogo di culto, rispetto al 50% del 2018 e addirittura il 70% nel 1999. L’allontanamento dalla religione organizzata è un fenomeno del 21esimo secolo. L’appartenenza religiosa degli Stati Uniti era del 73% quando Gallup la misurò per la prima volta nel 1937 ed è sempre rimasta sopra al 70% nei successivi sei decenni.

Il contesto. Il calo dei culti religiosi è principalmente guidato da un forte incremento dei “non” – ovvero coloro che non esprimono preferenze religiose. La percentuale di americani che non si identificano con alcuna religione è passata dall’8% nel periodo tra il 1998 e il 2000, al 21% negli ultimi tre anni.

Il quadro generale. La storia di un’America più laica è principalmente, anche se non del tutto, una storia di cambio generazionale. L’appartenenza a luoghi di culto è correlata all’età: è molto più probabile che un americano più anziano sia membro di una chiesa piuttosto che un giovane. Mentre l’appartenenza a istituzioni religiose è inferiore tra le generazioni più giovani, il calo è particolarmente netto tra i millenial e la generazione Z: vi sono infatti circa 30 punti percentuali di differenza rispetto agli americani nati prima del 1946, in contrasto agli 8 punti e 16 punti rispettivamente per i baby boomer e la generazione X. I bambini che crescono senza un credo religioso hanno meno probabilità di entrare a far parte di una religione quando diventeranno adulti, quindi è logico pensare che la tendenza alla secolarizzazione si aumenterà in futuro, salvo importanti cambiamenti demografici o culturali. Anche gli americani più anziani hanno visto un leggero aumento della percentuale di laici, mentre il 20% della generazione X non dichiara alcuna affiliazione religiosa, rispetto all'11% del 1999.

Dettagli. Qualunque siano le loro pratiche religiose, gli americani rifiutano sempre più molti dei precetti morali che si trovano nella maggior parte delle principali religioni. Un sondaggio Gallup del 2017 ha rilevato che una maggioranza significativa degli americani crede che pratiche come l’uso di contraccettivi, il divorzio, il sesso extraconiugale e le relazioni gay e lesbiche siano tutte moralmente accettabili. In un articolo dello scorso anno per Foreign Affairs, il politologo Ronald F. Inglehart ha sostenuto che quando i tassi di natalità sono diminuiti a causa dell’uso di contraccettivi e alla diminuzione della mortalità infantile, le società moderne sono diventate meno attente “perché non hanno più bisogno di sostenere i tipi di norme sessuali e di genere che le principali religioni del mondo hanno instillato per secoli.”

Il problema. Solo perché la pratica religiosa convenzionale è in declino non significa che gli americani non avranno bisogno di riempire quello che il giornalista Murtaza Hussain chiama il "buco a forma di Dio" del paese. Mentre le prime fasi del movimento per i diritti civili sono state costruite sulla forza della chiesa nera, oggi molti giovani si stanno riversando in campagne come Black Lives Matter, che anche se non sono di natura religiosa, spesso adottano il linguaggio della religione, della spiritualità e della giustizia. "I dibattiti politici su ciò che l'America dovrebbe significare hanno assunto le caratteristiche dei dibattiti sulla teologia", ha scritto in un recente saggio sull'Atlantico Shadi Hamid, un membro anziano della Brookings Institution. "Questo è l'aspetto della religione senza religione."

Progetti per il futuro. Man mano che la religione diventa sempre meno praticata dagli americani, potrebbe invece diventare un'altra forma di identità nelle guerre culturali che attualmente sono in corso. La tendenza potrebbe anche scuotere l'elettorato. Il giornalista Matt Yglesias ha osservato che quando una persona bianca passa dall'essere cristiano a non affiliato, è più probabile che diventi un democratico, "Ma quando una persona nera fa lo stesso passaggio, la correlazione va nella direzione opposta". Ciò potrebbe aiutare a spiegare il parziale successo di Donald Trump, abbastanza secolare, nell'aumentare la quota del partito repubblicano nel voto dei non bianchi nel 2020 .

In conclusione. Gli Stati Uniti rimangono un paese insolitamente religioso, con più di sette americani su 10 ancora affiliati a qualche religione organizzata, secondo il sondaggio Gallup. Ma il potere della religione convenzionale è in declino, e potrebbe volerci un miracolo per cambiare.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 30 marzo 2021. Dilaga in tutta Europa la protesta strisciante contro il Vaticano per il divieto di benedire le coppie gay, anche se il problema maggiore (e plateale), relativo a un dissenso crescente resta circoscritto alla Germania. Lì, nella patria di Lutero, lo scontento sta producendo smottamenti significativi. Sia da parte di alcuni vescovi ormai apertamente disobbedienti, sia da parte dei fedeli. Un sondaggio ha mostrato una massiccia perdita di credibilità della Chiesa cattolica: un cattolico su quattro sta pensando di lasciare la Chiesa. A questo si aggiungono 7 persone su 10 che ritengono il celibato obbligatorio "fuori moda". Sono numeri molto alti che hanno spaventato i vescovi tedeschi alle prese da due anni con un percorso di riforme radicali, condotto in autonomia rispetto a Roma. Le ragioni citate per l'abbandono sono state la «gestione non trasparente sugli abusi» pari al 39 per cento, «certe idee della chiesa sulla moralità e la società, compreso la benedizione per i gay» (38 per cento), lo «spreco delle risorse» (30 per cento). Un vescovo tedesco, Helmut Dieser ha definito il "no" di Roma alla benedizione delle unioni omosessuali un atto che gli causa «fastidio e irritazione». Mai nessun vescovo si era spinto pubblicamente a tanto. La vicepresidente della Federazione delle donne cattoliche tedesche (KDFB) Birgit Mock è andata oltre: ha definito la dichiarazione di Roma incompatibile con «l'immagine di uomo e di Dio» e ha chiesto - come ha già fatto il vescovo Georg Bätzing (presidente della conferenza episcopale) – il bisogno di una presa di posizione chiara e netta dai precedenti insegnamenti della Chiesa. Insomma, la disobbedienza da Roma. Nel frattempo la raccolta di firme di religiosi, parroci, monaci, suore dissenzienti ha già raggiunto le 2.600 firme. Naturalmente tutti a favore di una benedizione delle unioni omosessuali. La lista delle firme è stata presentata nei giorni scorsi sotto le bandiere del movimento LGBT da due sacerdoti impegnati nel movimento: Padre Burkhard Hose e padre Bend Mönkebüscher. A questo si sono aggiunte le spinte di alcuni vescovi, tra cui quello di Mainz, Kohlgraf, disposti a chiedere a Roma di cambiare il Catechismo della Chiesa cattolica nella parte che riguarda gli omosessuali poiché per la dottrina l'inclinazione omosessuale prevede che sia vissuta in modo casto, mentre a loro parere la Chiesa dovrebbe modificare la dottrina e permettere anche ai gay di vivere in modo pieno la propria sessualità. La Congregazione per la Dottrina della Fede aveva già dichiarato nel 2003: «Secondo l'insegnamento della Chiesa, il rispetto delle persone omosessuali non può in alcun modo portare all'approvazione di comportamenti omosessuali o al riconoscimento legale di unioni omosessuali». Anche in Italia un parroco ligure si è ribellato: «ha provocato tanto dolore tra le persone Lgbt della comunità cattolica e anche in me". A Bonassola,  al termine della celebrazione delle Palme, ha raccontato ai fedeli di essersi commosso davanti a tante famiglie gay cheda tempo vivono assieme. "Mi è sembrato giusto schierarmi accanto alle persone omosessuali. Per abbracciare la loro sofferenza che è anche la mia. Per Gesù vengono prima le persone ma quando ho sentito quelle parole così dure ho pensato si dovesse fare qualcosa». Il gesto di don Giulio vuole essere anche un monito alla Chiesa: «Lo ho fatto per amore alla Chiesa perché non sono le persone omosessuali a rimetterci perché loro sono benedette da Dio. Chi ci rimette è la Chiesa. Come non accorgersene».

Un uomo provò a "sfidare" Dio: ecco cosa sappiamo su Babele. Quello della torre di Babele e del sovrano della città punita da Dio, Nimrod, è un mito senza tempo. Che grazie alla casa editrice "L'Ippocampo" rivive in forma di graphic novel. Andrea Muratore - Dom, 21/03/2021 - su Il Giornale. Un sovrano, la sua città, un monumento all’ambizione umana, una punizione divina. Il topos che unisce questi elementi è comune a molti miti e leggende dell’antichità, che hanno nella storia biblica della Torre di Babele il loro esempio classico. Babele, che nella Bibbia non è altro che la mitica Babilonia, è al centro di un racconto narrato nell’undicesimo libro della Genesi: “Tutta la terra”, narrano le Scritture, aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Contravvenendo così all’imperativo ordine di Dio, che cacciando Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre aveva imposto a loro e ai successori di disperdersi per il mondo. Nella città, Babele, gli uomini tentarono di ergersi al livello di Dio, con un vero e proprio “assalto al Cielo” la cui materializzazione fu l’edificazione della mitica Torre di Babele, che provocò la risposta diretta del creatore: “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città”. Dio divise i popoli, le lingue, le culture per punire la hybris, la tracotanza di una stirpe che aveva osato sfidare i suoi imperativi. La Genesi non fa riferimenti diretti al nome dell’uomo che guidò l’impresa, ma nel Talmud babilonese, il nome di uno dei figli di Cam, e dunque membro della stirpe di Noè, chiamato Nimrod è così commentato: "Perché, allora, fu chiamato Nimrod? Perché istigò il mondo intero a ribellarsi (himrid) alla Sua sovranità [di Dio]". La Genesi, nel capitolo 10, cita Babele tra le città interne al regno di Nimrod. E per questo la tradizione ha associato la sua figura a quella della mitica città che osò sfidare Dio. Un racconto vivo nella memoria collettiva della civiltà plasmata dalla cultura ebraica e cristiana che, recentemente, è stato riproposto anche in forma grafica: Re e Regine di Babele è il titolo di un recente album illustrato realizzato da François Place per la casa editrice “L’Ippocampo” che si apre proprio col riferimento alla figura di Nimrod. Nimrod, scrive Place, nella storia a tavole guida i suoi seguaci in un bosco all’inseguimento di un cervo bianco e, giunto su una scogliera a picco sul mare, la usa come bastione attorno a cui edificare una torre e, incardinata sulle sue rocce, una città. Quella torre e quella città altro non sono che la mitica Babele, e il racconto prosegue con le nozze di Nimrod con una principessa, Zelia, e la nascita di una dinastia di sovrani che avrebbero governato a lungo la città. Immersi in un’atmosfera fuori dal tempo, con guerrieri, stendardi e cinte murarie che richiamano la foggia medievale sulla scia del racconto di stampo biblico. Profonda fascinazione del mitico “C’era una volta” che proietta fuori dal tempo e dallo spazio le storie, creando il mito. Un mito che, quando si parla di Babele, inevitabilmente attrae. Forse perché nato alle sorgenti della civiltà, da cui sono iniziati a scorrere fiumi giunti, carsicamente, fino ai giorni nostri, attraverso la creazione di una comune costellazione di riferimenti culturali, valoriali, religiosi, un’accumulazione di archetipi e punti di riferimento. Forse perché prova a dare una risposta al mistero profondo della diversità tra popoli e stirpi. Forse perché la civiltà a cui fa riferimento non è solo quella degli antichi israeliti in seno alla quale videro la luce le scritture ma anche la lunga progenie della stirpe mesopotamica. E non è un caso che i riferimenti archeologici identifichino la Torre di Babele con Etemenanki, la grande ziggurat di Babilonia dedicata al Dio Marduk che la tradizione ritiene edificata dal sovrano Hammurabi nel II millennio a.C, rasa al suolo dal feroce conquistatore assiro Sennacherib nel 689 a.C., ricostruita dal figlio Esarhaddon e portata alla sua forma definitiva da Nabucodonosor II, il biblico Nabucco che a Babilonia deportò gli israeliti dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. La grande ziggurat, di cui anche Erodoto parlò nelle Store, era dedicata a Marduk, re degli Dei nella cosmologia babilonese. Una figura a sua volta carica di mito e mistero, inserita in una mitologia complessa che si evolse sulla scia degli sconvolgimenti militari e politici della Mesopotamia: Marduk, figlio di Ea (Enki in sumero) e Damkina, raccolse non solo metaforicamente il “testimone” dall’antico dio primordiale, Anu, sulla scia dello slittamento del centro politico della regione da Uruk a Babilonia. A lui è associato il ruolo di ordinatore dell’universo contro la forza del caos, la dea Tiamat, da lui combattuta in un duello cosmico in cui gli studiosi della storia e della religione mesopotamica (notevoli gli studi del nostro connazionale Luigi Cagni) hanno letto una dialettica destinata a diventare comune alle grandi religioni del mondo antico. La stirpe di Nimrod, dunque, persa al confine tra storia e mitologia, è punto d’incontro tra civiltà, lingue, tradizioni religiose. Place nella sua opera ne immagina le traiettorie, le discendenze, la continuità, ridando vita a una terra che per la sua natura di crocevia di popoli e lingue ben si predisponeva a essere carica di riferimenti culturali e mitologici. Babele in fin dei conti rappresenta la volontà umana di ricondurre a unità il complesso, un tentativo spesso frustrato da stimoli e interventi esterni, di cui l’azione di Dio nella Genesi è il più classico degli esempi. Rappresenta anche la tracotanza uniformatrice di chi, nelle sue intenzioni, mira a sostituirsi a Dio (o agli dei) nell’ordinare e indirizzare le attività umane. Entrambe queste pulsioni sono state più volte fatte proprie dalla reale “stirpe di Nimrod”, la lunga serie di sovrani alternatisi tra Babilonia e le altre città della Mesopotamia perennemente attratti dall’ambizione di dominare la culla della civiltà umana. Ordine contro caos, Dio contro gli uomini, Marduk contro Tiamat: la filigrana comune è il vero trait d’union tra la realtà e il mito.

Portogallo, il cattolicesimo è arrivato al capolinea. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 14 febbraio 2021. Lo studio delle società secolarizzate è utile per una serie di ragioni, prima fra tutte la confutazione dei falsi miti. Le chiese cristiane, da quella cattolica a quella ortodossa, per lungo tempo hanno misurato la religiosità dei fedeli, veri o presunti tali, sulla base di indicatori imperfetti quali battesimo e matrimonio, ignorando e/o trascurando l’importanza di rilevatori–rivelatori quali l’osservanza dei precetti, l’adesione ai dogmi e la partecipazione alla vita di comunità e alle funzioni. Questo modus cogitandi et agendi fallace ha impedito alle chiese del Vecchio Continente, in particolare dell’Europa occidentale, di cogliere la vastità e la storicità dei processi di secolarizzazione e, quindi, di agire tempestivamente per fermarli e/o frenarli. Conseguenza naturale e ineluttabile di una simile miopia è stata la graduale trasformazione dell’anima, dell’identità e del volto dell’Europa, da culla della cristianità a continente ateo. Spesso, ma non sempre, le chiese si accorgono della secolarizzazione in occasione di consultazioni referendarie riguardanti temi etici e legati al diritto della famiglia, ovverosia su temi come interruzione volontaria di gravidanza, eutanasia, divorzio e matrimoni arcobaleno, mentre altre volte vengono coartate ad accettare la realtà dei fatti da eventi traumatici, come gli sciami di violenza irreligiosa, o aggressioni culturali, come la scristianizzazione dei vocabolari. L’Italia, ad esempio, si è scoperta secolarizzata in occasione del referendum abrogativo sul divorzio del 1974; la Francia a causa dei livelli di partecipazione alle messe che rasentano lo zero e degli attacchi cristianofobi in aumento su base annua; e la Polonia, molto più recentemente, a seguito degli accadimenti che hanno scosso l’ultimo quarto del 2020. Similmente ai casi soprascritti, la Chiesa cattolica del Portogallo, patria dei Reis Fidelissimos e storico esportatore del Vangelo, si è accorta di aver perduto prestigio, presa e influenza, tanto nella società quanto nella politica, fallendo nel rallentare l’avanzata dell’ideologia liberal nella sfera culturale e nell’impedire la legalizzazione di aborto, matrimoni (e adozioni) omosessuali ed eutanasia.

Un Paese a maggioranza cattolica? La grande sorpresa delle ultime presidenziali portoghese, stravinte da Marcelo Rebelo de Sousa (il favorito in ogni pronostico), è stato il neonato partito di destra conservatrice Chega di André Ventura. Ventura ha terminato la corsa alla presidenza in terza posizione (11,9% delle preferenze, ovvero 497.746 voti), piaggiando a brevissima distanza da Ana Gomes del Partito Socialista (13%, ossia 540.823), un risultato più che ragguardevole in considerazione delle origini recenti, della carenza di appoggi nella politica tradizionale e dell’antagonismo della grande stampa. La prestazione di Chega, unica forza politica apertamente conservatrice e mirante alla difesa della famiglia naturale e al recupero dei valori sociali e culturali di ispirazione cristiana, è stata letta come l’evidenza che la Chiesa cattolica e il cattolicesimo non sono (ancora) morti nella patria di Vasco da Gama e Pedro Alvares Cabral. Nel dopo-elezioni, però, la legalizzazione dell’eutanasia ha riaperto il dibattito su cosa permanga dell’idea cattolica in Portogallo. La grande stampa ha descritto gli accadimenti che stanno avendo luogo nel Paese iberico, dall’ascesa di Chega all’eutanasia, in termini di realtà a maggioranza cattolica che sta scontrandosi con la secolarizzazione e con la modernità. Si tratta di letture che, tuttavia, non reggono alla prova dei fatti e che, soprattutto, palesano una profonda ignoranza sul Portogallo. Come avevamo scritto sulle nostre colonne nell’ante-presidenziali, Chega avrebbe avuto soltanto un modo per ampliare la propria base elettorale e migliorare le proprie prestazioni, sino ad allora oscillanti fra l’1% e il 5%: diluire la retorica conservatrice con elementi tipici delle forze antisistema, ovverosia la lotta agli sprechi, alla corruzione e alla gerontocrazia. La terza–quasi–seconda posizione è stata conquistata più per merito del cambio di strategia, qui illustrato ed effettivamente avvenuto, che per il programma simil-estadonovista propugnato da Ventura. Del resto, se il cattolicesimo fosse realmente la forza motrice descritta dai censimenti (religione dell’81% della popolazione, dati 2011), partiti che strizzano l’occhio ai valori evangelici, come Chega, non alternerebbero prestazioni fra l’1 e il 5% – aumentabili solo a condizione di eterogeneizzare e laicizzare i loro obiettivi programmatici –, e la politica tradizionale non sarebbe egemonizzata da alcune delle forze progressiste più avanguardistiche d’Occidente.

Una nazione scristianizzata. Sebbene la maggioranza della popolazione continui a dichiararsi cattolica – l’81%, secondo il censimento del 2011 –, i numeri descrivono una realtà postcristiana: il consenso popolare verso il matrimonio omosessuale è al 74% (Eurobarometer, 2019) e verso l’eutanasia è al 50,5% (Istituto Universitario Egaz Moniz, 2020), mentre la legalizzazione dell’aborto è avvenuta a mezzo referendum nel 2007 con il 59,3% delle preferenze. In nessuno dei casi soprascritti, dai matrimoni omosessuali all’eutanasia, la Chiesa cattolica è mai riuscita a concretizzare un’opposizione tanto largheggiante da condizionare ed oscurare i propositi della dirigenza politica. Come accaduto anni or sono per la questione aborto, nei mesi scorsi l’esigua minoranza cattolica aveva chiesto all’esecutivo di sottoporre il fascicolo eutanasia al volere popolare: i risultati di un eventuale referendum, però, avrebbero potuto essere deludenti, anche alla luce dei sondaggi. Se non bastassero i risultati referendari e le magre prestazioni del conservatorismo a decostruire la falsa immagine sul Portogallo che la stampa continua a veicolare e perpetuare, altri dati potrebbero essere utilizzati per corroborare e validare definitivamente la tesi della scristianizzazione. Ad esempio, di quell’81% della popolazione teoricamente cattolico – 83%, secondo il Pew Research Center –, soltanto il 35% frequenterebbe in maniera regolare la messa, ovvero uno su tre. Inoltre, i numeri su affiliazione e osservanza decrescono in maniera inversamente proporzionale all’età, sulla falsariga di una tendenza comune al resto del continente: secondo un recente studio (2018) dell’università Saint Mary di Twickenham, la gioventù lusitana (16–29 anni) sarebbe sostanzialmente divisa tra non credenti (il 42%) e non praticanti (tra coloro che si dichiarano cattolici, il 27% frequenta regolarmente la messa domenicale e il 17% non vi partecipa mai). Dati e fatti alla mano, si può concludere che il Portogallo è una nazione estesamente scristianizzata, dove la religione viene vissuta più per cultura che per fede – il fenomeno dell’appartenenza senza credenza – e, invero, ha cessato di incidere in maniera rilevante nella politica e nella società da oltre una decade. In conclusione, e in assenza di studi approfonditi sull’argomento, su origini e ragioni della decattolicizzazione repentina e multilivello si possono soltanto elaborare congetture basate su ragionamenti intuitivi e deduttivi. Un’ipotesi è che la scristianizzazione sia stata, e sia, la risposta fisiologica di una società che ha sperimentato un quarantennio di conservatorismo imposto coercitivamente dall’alto durante l’Estado Novo (1933–1974) e che, con la fine di un’epoca, ha voluto sposare in toto ogni riforma implementata nel nome del liberalismo e del progressismo per troncare con un passato scomodo e gettato nella damnatio memoriae.

La defenestrazione di Dio da Praga. Emanuel Pietrobon su su Inside Over il 10 gennaio 2021. La Repubblica Ceca è il luogo in cui ha avuto inizio uno dei capitoli più importanti e sanguinosi della storia europea, che ha cambiato per sempre il volto e l’identità del Vecchio Continente. Il 23 maggio 1618, al culmine di una stagione di tensioni fra cattolici e protestanti, il conte Thurn diede ordine di lanciare da una finestra del Castello di Hradcany tre rappresentanti del Sacro Romano Impero, un evento passato alla storia come la “defenestrazione di Praga”. Quel giorno, senza saperlo, il conte Thurn avrebbe messo in moto una catena di eventi dall’epilogo tragico: la guerra dei trent’anni. Nel 1648, dopo tre decenni di battaglie e fra i sette e gli undici milioni di morti, le potenze europee si riunirono nella Vestfalia per scrivere l’immagine della nuova Europa, gettando le basi della modernità: gli stati-nazione. A Praga, culla della tremenda guerra di religione, accadde un fenomeno curioso ma prevedibile – l’interiorizzazione in perpetuum del trauma – che, con lo scorrere del tempo, ha condotto alla defenestrazione del sentimento religioso dalla memoria e dall’identità del popolo ceco.

Cechi, i più atei del mondo. Sondaggi di opinione e dati sull’osservanza religiosa concordano: il popolo ceco troneggia nella classifica dell’ateismo in Europa – anche se il primato sta venendo minacciato dalla crescita straordinaria dell’irreligiosità in Svezia, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi e Belgio – ma, tenendo in considerazione i numeri sulla rivoluzione cristiana che sta travolgendo la Cina, potrebbe essere detentore della prima posizione anche a livello planetario. I numeri sono eloquenti: il 72% dei cechi non si identifica in alcun gruppo religioso, il 66% non crede nell’esistenza di Dio, il 68% non prega mai e il 55% non partecipa mai ad una funzione religiosa (Pew Research Center, 2017). Inoltre, un terzo (29%) di coloro che vengono cresciuti con un’educazione religiosa, in primis il cattolicesimo, si allontana dall’istituzione-chiesa in età adulta rientrando nella categoria dei “non affiliati”, l’apripista per la perdita totale della fede. Come osserva il Pew Research Center, i numeri sulla religione si riflettono e trovano riscontro nella vasta e generalizzata adesione a valori, convinzioni e idee di stampo liberale; cosa che rende la Repubblica Ceca un caso-studio sui generis nel panorama dell’Europa centro-orientale. Nel Paese, infatti, si registrano i più alti livelli di accettazione dell’aborto (84%) e del matrimonio omosessuale (65%) dell’intero ex patto di Varsavia. I numeri sulla Cechia risaltano ulteriormente in comparazione alla Slovacchia, alla luce di un matrimonio durato settantaquattro anni: il 69% degli slovacchi crede in Dio ed il 63% si identifica nel cattolicesimo. I cechi che si autodefiniscono cattolici, invece, sono dimezzati dal 1991 al 2017, passando dal 44% al 21% della popolazione totale. Quel 21%, nel prossimo futuro, potrebbe scendere ulteriormente e condurre il cattolicesimo all’estinzione letterale. Secondo un sondaggio del 2018 sulla religiosità dei giovani europei, i cechi fra i 16 e i 29 anni sono più atei dei genitori: il 91% dichiara di non riconoscersi in nessuna religione.

Il ritorno alla superstizione. Il connubio scristianizzazione-ateizzazione non ha comportato l’avvento di una società scientista, votata anima e corpo al razionalismo, perché i sociologi concordano sul fatto che “l’apparente mancanza di interesse nelle forme tradizionali di cristianità è accompagnata dalla popolarità di massa di religioni invisibili ed alternative, che potrebbero essere meglio descritte come credenza nella magia”. Come si può leggere nell’articolo di commento sul sondaggio riguardante la fede dei giovani cechi, “potrebbero anche non essere degli entusiasti frequentatori di chiese, ma molti di loro accettano facilmente l’idea che i chiromanti possano predire il futuro, che gli amuleti possano portare buona fortuna o che le stelle possano influenzare le loro vite”.

Le ragioni dell’ateizzazione di massa. Gli storici cechi concordano nel ricondurre le origini della defenestrazione di Dio alla guerra dei trent’anni. L’interiorizzazione del trauma ha giocato un ruolo determinante, spianando la strada ad un rigetto silenzioso e quasi automatico del religioso dapprima nel campo delle idee e dopo nella dimensione reale, ma è stato l’avvento del comunismo, trapiantato in Cecoslovacchia nel 1948, a cristallizzare ed istituzionalizzare la tendenza. Il comunismo ha potuto trovare terreno fertile in Cecoslovacchia, quantomeno dal punto di vista del progetto di ateizzazione della società, perché ha attecchito su una realtà che si era incamminata verso il rifiuto del divino da almeno tre secoli. Da non trascurare, inoltre, il ruolo del nazionalismo romantico ceco ottocentesco, autore di una rielaborazione ex novo dell’identità nazionale marcatamente ostile al cattolicesimo, ritenuto un’importazione culturale dell’Austria asburgica. La Repubblica Ceca di oggi è figlia degli eventi storici di un passato che, per quanto lontano, è quanto mai vivo e presente. Il trauma bellico è stato interiorizzato in perpetuum e continua a plasmare l’immaginario collettivo, anche se invisibilmente e impercettibilmente, ed è altamente probabile che esaurirà la propria funzione storica e ragion d’essere soltanto a scristianizzazione completata.

Stefano Lorenzetto per il "Corriere della Sera" il 31 dicembre 2020. Nell'ultimo quarto di secolo l'Italia si è allontanata da Dio. Solo 75 cittadini su 100 credono nell' esistenza di un «Essere superiore», prima erano 82; solo 65 pensano che la religione aiuti a trovare il senso profondo della vita, prima erano 80; solo 22 non mancano mai alla messa domenicale, prima erano 30. E poi 38 sono dubbiosi, prima erano 30; 23 ritengono che la fede riguardi le persone più ingenue e sprovvedute, prima erano 5; 76 si dichiarano cattolici, prima erano 88; 30 si ritengono attivi nell' apostolato, prima erano 41. Il sociologo Franco Garelli ha l'hobby della fotografia. Ama immortalare i volti. «Se andassi allo stadio, guarderei più i tifosi che i gol», dice. Il ritratto uscito dalla sua indagine Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell'Italia incerta di Dio (Il Mulino) è talmente dettagliato che la Cei ha deciso di contribuirvi con 100.000 euro, un parziale rimborso ai ricercatori coinvolti. Anche se molte immagini restano nel cassetto. Per esempio, durante la messa nella chiesa della Gran Madre di Dio, a Torino, Garelli si è accorto che uno dei presenti registrava l' omelia di don Paolo Fini, parroco di frontiera applaudito anche per gli strali lanciati contro il sindaco Chiara Appendino. «Alla fine una signora s' è avvicinata al fedele e gli ha chiesto: "Scusi, ma perché usa il magnetofono?". L'altro ha risposto: "Così poi a casa riascolto e medito". E l'anziana: "Ah, non lo fa per cambiare vita!"».

Una condizione che riguarda il Paese.

«Negli ultimi 25 anni i non credenti sono cresciuti del 30%, mentre le altre fedi sono passate dal 2 all' 8%. È un cattolicesimo stanco. Già nel 1998 il cardinale Carlo Maria Martini distingueva i cristiani in quattro gruppi: della linfa, del tronco, della corteccia, del muschio. I primi, convinti e attivi, rappresentano il 22%; i secondi, non sempre attivi, il 30%; i terzi, attaccati all' albero per tradizione e cultura, sono la maggioranza, il 44%. Infine vi è un 4% di critici che si riconoscono soltanto in alcune idee del cattolicesimo».

Comunque c'è l'avanzata degli atei.

«Ma non come in altri Paesi, dove ormai costituiscono la metà della popolazione. Da noi prevale una religiosità fai da te e si ricorre alla Chiesa nei momenti clou dell' esistenza. Fatto curioso, perché non viviamo più in un mondo di destino bensì in un mondo di scelte».

Che cos' è accaduto negli ultimi cinque lustri per giustificare questa situazione?

«È diminuita la pratica religiosa. I riti sono ritenuti facoltativi. La preghiera assidua, che un tempo coinvolgeva il 60% della popolazione, oggi riguarda il 40%».

Lei è cattolico, giusto?

«Da bambino servivo messa. Fui ricevuto in udienza a Castel Gandolfo da Giovanni Paolo II nel 1996. Trascinava i piedi con una tenacia incredibile. E quei due occhi... Folgoranti. Il sacro fragile».

Lo chiedo al cattolico: si può essere credenti senza messa e senza preghiera?

«Come nutri la fede? C'è un cammino di ricerca o non c'è nulla? Oggi il bisogno religioso è più un'intenzione che un' esperienza, questo ci dice l'indagine».

Però non mi ha risposto.

«Un cristiano va a messa e prega, certo. Ma le persone danno molta più rilevanza alla condizione soggettiva».

Per loro la messa è un rito ripetitivo.

«È il limite della religione di maggioranza. Basterebbe cercare la temperatura alta nelle parrocchie di elezione, nei luoghi di riflessione, carità, volontariato».

Avete interpellato più di 3.200 persone tra i 18 e gli 80 anni. Gli italiani in questa fascia di età sono 42 milioni. Un campione dello 0,0076% è rappresentativo?

«Dal punto di vista statistico è un valore elevatissimo. Potevamo sceglierne appena 500, come fanno altri. Con l'Ipsos ho deciso di tenere i numeri molto alti per identificare meglio i sottogruppi».

Tanto poi, come mi raccontò Antonio Golini, docente di demografia, «serve sempre "una manaccia" che combini i dati e dia loro robustezza», così sosteneva il suo maestro, Giuseppe Pompilj, che insegnava calcolo delle probabilità.

«Il compianto cardinale Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino, veniva alle mie conferenze. Ero fortunato a non annoiarlo: altrove a metà relazione si metteva a sfogliare un giornale. Alla fine si complimentava con me: "Bravo! Solo che per voi sociologi è tutto facile. Quando un dato non vi piace, lo correggete". C'è chi sostiene che la Chiesa non teme le statistiche, ma fa di tutto per cambiarle».

Quanto è durata l'indagine?

«Un anno e mezzo, lavorandoci in tre».

Non desta sospetto che a finanziarla sia stata la Conferenza episcopale?

«Capisco l'obiezione, ma l' aiuto di enti o fondazioni è prassi comune. Il vescovo Nunzio Galantino, all'epoca segretario della Cei, l'ha vista come una sfida. Alla fine non era affatto meravigliato dai dati. I preti stessi mi descrivono una situazione persino peggiore di quella emersa».

Tre quarti degli italiani credono. Allora perché quel titolo, «Gente di poca fede», che riecheggia un'ammonizione di Gesù nel Vangelo di Luca?

«Non è uno stigma. Segnala semplicemente che nelle religioni oggi prevale più un'attenzione culturale che spirituale. C'è un dato significativo: il 69% ritiene che non sia anacronistico credere in Dio. Non esiste un muro a separarci dalla fede. La chiamerei accettazione della biodiversità religiosa. Difficile scorgere in giro non credenti granitici».

È ciò che mi disse 15 anni fa monsignor Gianfranco Ravasi: «Mancano gli atei autentici, per i quali non credere, alla Nietzsche, o anche seguire la via del male, alla Sartre, era pur sempre una scelta lacerante, sofferta».

«Chi crede sa che è faticoso credere. Chi non crede sa che è faticoso non credere. Un riconoscimento reciproco».

Fin dalla seconda riga del suo saggio lei pone l'accento sulla crescita dell' ateismo e dell' agnosticismo tra i giovani.

«Fra i 18 e i 34 anni si riscontra la quota più alta, dal 35 al 40%, di coloro che si dichiarano senza Dio, senza preghiera, senza culto, senza vita spirituale».

Non credono in Dio, però fra di loro le bestemmie sono diventate interiezioni.

«Un modo per far colpo, accentuare le differenze, dichiararsi al di sopra delle regole. Sono esasperazioni della generazione "senza", in larga parte anche senza lavoro e senza prospettive di futuro».

Questo, secondo lei, «getta una luce sinistra sulle sorti del cristianesimo».

«Si guardi attorno: è una Chiesa stanca, composta più da corpi lenti che da corpi freschi e tatuati, più da teste bianche o calve che da teste folte o rasate. Le liturgie del clero anziano sono in sintonia con gli adagi della vita anziché con gli allegri. Ma se i preti inventano proposte vivaci, i giovani impegnati arrivano».

I matrimoni con rito religioso a partire dal 2018 risultano meno di quelli celebrati in Comune. Sono circa il 50%, mentre negli anni Novanta erano l' 80%.

«È la crisi del matrimonio tout court, aggravata dal prurito verso qualsivoglia impegno pubblico. Si pensa che sia sufficiente suggellare il vincolo in privato».

Il 46% degli intervistati è contrario all'8 per mille alla Chiesa cattolica.

«Un dato inedito, acuito dalla crisi del welfare. Si accusa la Chiesa di essere ricca e si vorrebbe che lo Stato destinasse questo miliardo di gettito ad altri bisogni. In compenso 50 su 100 sono favorevoli all' ora di religione a scuola e 70 su 100 al crocifisso negli uffici pubblici».

E 40 su 100 sono «cattolici culturali».

«Il gruppo cresciuto di più negli ultimi 20 anni. Anziché tagliare il cordone ombelicale, si mettono in stand by. Ma se individuano una figura significativa, si attivano. Sono stato preside nella facoltà che fu di Norberto Bobbio e fra i doveri di rappresentanza vi erano i funerali, ai quali talvolta arrivavo in ritardo. Finivo così tra il popolo delle colonne, in fondo alla chiesa. E lì trovavo facce non proprio da sacrestia che all' omelia mi stupivano: "Zitto, fammi ascoltare"».

Solo il 20% degli italiani nega la liceità morale dell' aborto in qualsiasi caso.

«L' 83% lo accetta se vi sono gravi rischi per la salute della madre, il 78% se sussistono probabilità di malformazioni, il 70% se la gravidanza è conseguenza di uno stupro. Il diritto all' obiezione di coscienza del personale medico, riconosciuto dal 59% dieci anni fa, ora è ammesso solo dal 36%».

Il 63% è favorevole all' eutanasia.

«Una percentuale raddoppiata e assai vistosa, considerato che 76 su 100 si dichiarano cattolici. Un segno dei tempi. Significa che la questione interpella nell' intimo le persone, le famiglie. Prevale invece la cautela su altre frontiere della bioetica, come l' utero in affitto, accettato solo dal 20% del campione».

L' eclissi del sacro non sarà uno dei tanti malesseri provocati dal benessere?

«Senz'altro. Eppure, come 25 anni fa, 60 su 100 sentono che Dio li protegge».

La secolarizzazione deriva da 75 anni di pace? Il vescovo castrense Angelo Bartolomasi pronunciò nel 1915 una frase oggi attribuita per errore a Marcello Marchesi: «In trincea non ci sono atei».

«Siamo in guerra contro la pandemia. Ho svolto un' altra indagine a fine marzo: il 20% ha dichiarato che prega di più».

La sua fede non ha mai vacillato?

«Peter Berger avrebbe detto che è ricca di dubbi. Però mi apre vasti orizzonti».

All' Università di Torino era rispettato?

«Sono allievo di un grande laico, Luciano Gallino, che dopo la tesi di laurea su giovani e religione m' invitò a rimanere al suo fianco. Gli obiettai: ma qui si studia la lotta di classe. E lui mi rispose: "Vedrà che fra qualche anno i suoi temi diventeranno di stretta attualità"».

Dove si sente d' essere più vicino a Dio?

«In montagna, a Mandriou, sopra Champoluc. Lì il tempo è scandito da una meridiana del Settecento che reca questa scritta: "Je decline vers l' éternité"».

·        L’ultima Religione.

Se l’ambientalismo diventa ideologia la citta va fuorispista. Antonio Ruzzo il 20 giugno 2021 su Il Giornale.  C’è un filo sottile che separa l’ambientalismo dall’ideologia, dalla convinzione che le sorti del Pianeta possano essere interamente nelle mani dell’uomo. Così non è, ovviamente, ed è un attimo che quel filo si spezzi. Sembra un po’ quello che sta accadendo in città, dove la «crociata» ambientalista del sindaco Sala e di alcuni suoi assessori rischia di portare Palazzo Marino su posizioni lontanissime dalla realtà milanese, in una città «parallela» che ignora proteste, disagi, difficoltà economiche esigenze che il post pandemia impone per una ripartenza economica che dire incerta è essere ottimisti. E quando l’ambientalismo diventa ideologia cancella soprattutto il buonsenso. Le piste ciclabili di per sè non sono un problema. É sacrosanto che una città organizzi la sua mobilità al meglio possibile e le bici sono un’ottima alternativa. Un’ottima alternativa, appunto. Non l’unica soluzione possibile. A parte che non tutti possono o sono in grado di pedalare, una città come Milano per muoversi, lavorare, trasportare ha bisogno di un piano di mobilità concreto e non ideologico che metta mano, ad esempio, all’organizzazione del trasporto pubblico che durante l’emergenza ha mostrato qualche limite e che riveda, altro esempio, gli orari di consegna delle merci, che ipotizzi un carico-scarico notturno magari utilizzando anche le metropolitane, che immagini la possibilità di creare hub di smistamento fuori dalle circonvallazioni per camion e furgoni con navette elettriche che poi entrano in città per consegnare porta a porta. Cose concrete, ma non se ne parla. La deriva ideologica di Palazzo Marino è di andare avanti sommando chilometri e chilometri di ciclabili senza dubbi e senza sentir ragioni investendo un sacco di danè che magari sarebbero più utili per rimodernare una rete elettrica «antica» che in questi giorni di caldo e di condizionatori accesi non tiene botta. Una deriva che ha portato a una politica fatta di annunci che sogna una città libera e felice dove l’urbanistica è solo «tattica», dove le periferie sono «green e friendly», dove non ci sono auto nè parcheggi (perchè se non ci sono le auto non servono) e dove in strada non si può più neppure fumare una sigaretta. Dalla viabilità all’ambiente alla sicurezza è un furbo «zigzagare» alla ricerca del consenso inseguito con la scorciatoia degli slogan che alla lunga però finisce per scavare un solco profondo con le esigenze di chi si ritrova a fine mese con un negozio che non incassa, con gli stipendi da pagare, con le bollette sulla scrivania. E in questi casi per far tornare i conti l’ideologia serve a poco. Sarebbe meglio, molto meglio, un buon amministratore di condominio…

Se permettete parliamo di calcio: religione vera, profana e senza dei. Augé è stato il primo a individuare il carattere sacrale simile a una fede. Umberto Pagano su Il Quotidiano del Sud il 20 giugno 2021. Marc Augé, il famoso antropologo “padre” dei non-luoghi – categoria abusata che pure ha avuto il merito di stimolare il dibattito sullo sfilacciamento identitario e di radicamento storico sociale degli spazi e delle relazioni nell’epoca post-industiale – in un suo breve saggio proponeva di interpretare il calcio alla stregua di un fenomeno religioso (Augé M., Il Calcio come fenomeno religioso, EDB, 2016). Degli ipotetici etnologi extraterrestri – fantastica Augé – osservando dinamiche e rituali del fenomeno calcistico umano, senz’altro avanzerebbero l’ipotesi che si tratti di una peculiare religione degli umani, una religione senza Dei, ma pur sempre una religione. Ad essere chiamata in causa è la visione durkheimiana della religione come proiezione delle caratteristiche della comunità su un apparato simbolico-rituale condiviso che consente rappresentazioni collettive e celebrazioni che consolidano i legami sociali, i valori e l’armonia del gruppo. È una prospettiva affascinante quella di Augé, ancorché non del tutto convincente. Per Durkheim la religione attiene al sacro e si separa nettamente da ciò che è profano. Il calcio è invece profondamente intrecciato agli aspetti quotidiani e profani. Invece, all’opposto, si potrebbe affermare che il brodo rimedializzato della imagosfera in cui siamo immersi mischiando e “contaminando” ogni cosa, continuamente, erode il concetto stesso di sacro. Scimmiottando la stessa celebre locuzione di Augé, potremmo perfino dire che andiamo sempre più verso un depotenziamento e una diluizione del sacro, verso una società del non-sacro. Ma religioso o non religioso, il fenomeno calcio ha senz’altro una forte dimensione ritualistica, sprigiona una strapotente energia di generazione di un NOI, di un qualcosa di collettivo, di condiviso. Basti pensare alla Nazionale e a come ricchi e poveri, giovani e anziani, borghesi e proletari (per i nostalgici marxisti), guardie e ladri, destra e sinistra, carnivori e vegani, Nord e Sud, fiorentini e juventini… improvvisamente e “magicamente” si fondano in una unità pronta a vibrare all’unisono per un’accelerazione di Chiesa (giusto per rimanere in ambito religioso…) o per un goal di Immobile. Su una cosa Augé ha ragione: il calcio costituisce un fatto sociale totale. Sia perché finisce per riguardare una molteplicità di dimensioni, eventi, istituzioni, dinamiche, soggetti, business etc., sia perché è particolarmente permeabile all’analisi sociologica da diverse e interessanti prospettive. Tanto per cominciare è, in sé stesso, “doppio”: spettacolo di massa e pratica. Come forma spettacolare, inoltre, vede germogliare al suo interno una ulteriore dualità, in quanto gli spettatori e i tifosi sono parte dello spettacolo stesso e contribuiscono a co-generarlo. Come “pratica” dilettantistica, invece, esso è sufficientemente diffuso da essere classificato e analizzato come fenomeno di massa. Se ci pensate, non accade per molti altri fatti sociali. Dal mio punto di vista, l’aspetto più affascinante del calcio è che, a vari livelli e con dinamiche curiosamente sincretistiche (es. i tifosi di squadre fortemente antagoniste che improvvisamente si ritrovano a soffrire e gioire per la Nazionale che li accomuna), esso è fonte di una emotività forte, convergente e plateale. Nell’ambito di una società che progressivamente ha represso le dinamiche di espressività incontrollata, perché fattore di destabilizzazione dell’ordine costituito, il fenomeno calcistico costituisce – per usare le parole di Alessandro Cavalli – “una sorta di enclave in cui è socialmente consentito, a certe condizioni, conservare un comportamento moderatamente eccitato”; insomma un “controllato decontrollo dei controlli”, come sintetizzò magnificamente Norbert Elias. Maurizio De Giovanni è più noto come giallista che come esperto di calcio (è il creatore del Commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone), ma uno dei suoi libri più interessanti è dedicato al calcio, al tifo e, ovviamente, al “suo” Napoli (Il resto della settimana, BUR, 2016). È un meta-testo sulla gestazione di un testo, in cui si narra di un professore universitario appena pensionato che decide di scrivere un saggio divulgativo sul tifo calcistico, a partire dalla raccolta delle “chiacchiere da bar” (bar e pub sono da sempre luoghi chiave di celebrazione dei rituali dialettico-calcistici) e delle narrazioni di tifosi di ogni età e ceto. Vuole finalmente capire il professore, andare a fondo, superare la sua incapacità di comprendere a pieno il senso del tifo, il suo scetticismo agnostico e un po’ snob nei confronti del coinvolgimento viscerale dei tifosi, del loro subbuglio emotivo di fronte a cose in fondo banali, come una vittoria o una sconfitta in una partita di pallone. In una delle sue conversazioni col proprietario del bar che ha scelto per la sua indagine il professore dirà: «Io una cosa continuo a non capire. Molti di questi sono colti, raffinati (i tifosi, N.d.A.). Gente intelligente, che fa lavori impegnativi e di alta responsabilità. Non possono non rendersi conto di quanto non valga la pena di soffrire tanto, nel tessuto di un’esistenza che riserva comunque avversità nella professione, nei rapporti sociali, nelle relazioni familiari. Il passatempo, perché di passatempo si tratta, dovrebbe essere un’isola felice, un luogo dell’anima in cui ci si rifugia proprio per non soffrire. Ma perché offrirsi a qualcosa che ti può far stare male?».

E Peppe, il barista, dopo averci pensato un po’ risponde: «Ma tu, Professo’, proprio tu che hai tanto studiato le persone e quello che provano, non puoi sottovalutare la passione».

«In che senso?».

«Nel senso che secondo me è sbagliata la prospettiva. Tu non devi guardare quello che la gente ha nella vita, quindi i dolori, le avversità, le sofferenze, ma quello che non ha. O che non ha abbastanza».

«Cioè?».

«L’entusiasmo. Lo scoppio di una gioia imprevista e improvvisa. E soprattutto la condivisione: abbracciarsi urlando, saltellare tenendosi per mano, inveire insieme, perfino scoppiare a piangere uno sulla spalla dell’altro. Tu citami quante volte, nella normale vita di un adulto contemporaneo, ti può capitare, se escludi il pallone».

Bill Shankly, il leggendario allenatore del Liverpool degli anni ’60, disse una volta: “Alcune persone credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Sono basito da questa cosa. Posso assicurarvi che il calcio è molto molto di più di questo”.

Covid, Chiesa sottomessa alla nuova religione terapeutica. Diego Fusaro su Affari Italiani il 15/4/2021. Così leggiamo su "La Repubblica", rotocalco turbomondialista, voce del padronato cosmopolitico e ultimamente anche grancassa del nuovo Leviatano terapeutico: "Il prete no-mask di Vanzago trasferito: invitava a non usare la mascherina e criticava le norme anti-Covid" (13.4.2021). È la triste storia di Don Diego Minoni, parroco della chiesa dei Santi Ippolito e Cassiano, colpevole di non essersi piegato al nuovo ordine terapeutico e, di più, di aver esortato i suoi fedeli alla disobbedienza civile e a non barattare la libertà per la sicurezza del bios. Quel che colpisce in questa vicenda è il fatto che ad aver, per così dire, sanzionato il prete è stata direttamente la Chiesa, non il potere mondano: Chiesa la quale, trattando don Diego come un eretico, ha dunque, ancora una volta, preso apertamente posizione a sostegno del nuovo ordine pandemico e della nuova modalità di governo delle cose e delle persone. La vicenda mi pare istruttiva, giacché avvalora la tesi a suo tempo formulata da Ernst Bloch in "Ateismo nel cristianesimo". Secondo Bloch, esisterebbero due correnti diverse e anzi opposte interne al cristianesimo: da un lato, la corrente calda, che nel nome del regno dei cieli si oppone alle storture del regno terreno e arriva perfino a battersi per il rovesciamento del potere; dall'altro, la corrente fredda, che in maniera diametralmente opposta fa da stampella per il potere, scomunicando chiunque osi ad esso contrapporsi. Ebbene, la vicenda di Don Diego mostra in modo adamantino la compresenza, nella medesima istituzione e nel medesimo tempo, di entrambe le correnti. Che quella di Bergoglio e della Chiesa di Roma sia incontrovertibilmente la corrente fredda del Cristianesimo, in specie in relazione al nuovo ordine terapeutico (ma poi anche in connessione con il globalismo del blocco oligarchico neoliberale), lo suffraga il trattamento riservato a don Diego, colpevole di non essersi piegato al potere egemonico che si nasconde oggi dietro il lessico medico-scientifico. Insomma, rivendicare dall'altare la non sacrificabilità delle libertà e dei diritti in nome della salute è assai più grave, a quanto pare, che svuotare dall'interno il cristianesimo in nome dell'ideologia del global-capitalismo e della ovunque imperante dittatura del relativismo. Come più volte ho evidenziato, fin dalla epifania del coronavirus la Chiesa di Bergoglio è divenuta pavida ancella della nuova religione terapeutica: religione che promette la salvezza del corpo e che in nome di essa chiede di sacrificare tutto il resto. Messe via streaming, accettazione dell'ordinaria disumanità del distanziamento sociale, sospensione della estrema unzione per i malati di covid, acquasantiere di gel sanificante all'ingresso delle chiese, aperta tematizzazione da parte del sommo pontefice della obbedienza alle norme del governo. I virologi hanno esautorato i teologi, con la conseguenza che ove ancora si diano preti che credono in Dio più che nella religione terapeutica, subito vengono puniti dai nuovi adepti del culto sanitario. Se Gesù Cristo sanava i lebbrosi e se San Francesco li abbracciava addirittura, la Chiesa di Bergoglio ha scelto di adeguarsi al nuovo noli me tangere della contactless society propria dell'ordine terapeutico del distanziamento sociale, del controllo biopolitico totale e del culto del Sacro Dogma medico-scientifico.

Diego Fusaro (Torino 1983) insegna storia della filosofia presso lo IASSP di Milano (Istituto Alti Studi Strategici e Politici) ed è fondatore dell'associazione Interesse Nazionale (interessenazionale.net). Tra i suoi libri più fortunati, "Bentornato Marx!" (Bompiani 2009), "Il futuro è nostro" (Bompiani 2009), "Pensare altrimenti" (Einaudi 2017).

Jacques Ellul con la Bibbia e contro lo Stato-diavolo. Le Scritture (quelle non edulcorate) condannano sempre la dominazione dell'uomo sull'uomo. La Chiesa invece...Camillo Langone - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. «Il Dio della Bibbia è prima di tutto colui che libera l'uomo da tutte le schiavitù» scrive Jacques Ellul in Anarchia e cristianesimo (Eleuthera) precisando che libera l'uomo perfino dallo Stato. Ma come, era un antistatalista il signore dalla barba bianca che sul Sinai impresse col proprio potentissimo dito le Tavole della Legge? Secondo Ellul, teologo protestante francese morto nel 1994, sì. Chiaro che questo saggio è una boccata d'ossigeno al tempo dell'asfissiante alleanza Governo italiano-Cei, e di un Papa in campagna elettorale permanente a favore dei socialisti di tutto il mondo. A un simile testo il tempo ha giovato: nel 1988, anno della prima pubblicazione, a Roma c'era un Giovanni Paolo II dei totalitarismi nemicissimo, e non poteva apparire indispensabile come appare oggi...Il conflitto tra Gesù e il potere è noto, se non altro perché fu il potere a metterlo in croce. Ma il bello di Anarchia e cristianesimo è l'individuazione di una vena di libertà che scorre senza interruzioni dalla prima all'ultima pagina della Bibbia. Si sa che i nemici della fede sono soliti enfatizzare le differenze fra Antico e Nuovo Testamento, cercando di mettere il Figlio, dipinto come ribelle, contro il Padre, presentato come tiranno amico dei tiranni. Ellul confuta questi maliziosi, o maligni, con citazioni scritturistiche che dimostrano «una straordinaria costanza del sentimento antimonarchico, se non addirittura antistatale». Mosè, Sansone, Debora, Gedeone erano profeti e non re, non capi di Stato. E i profeti non facevano che criticare i sovrani, perfino Davide, perfino Salomone che «inizia bene il suo regno: ma poi il potere lo stordirà proprio come gli altri». Il versetto capace di mandare in visibilio il devoto libertario è Giudici 17,6: «In quel tempo non c'era un re in Israele; ognuno faceva quello che gli pareva meglio». Dev'essere uno dei tanti versetti biblici silenziati, ci voleva Ellul per ridargli voce e farlo cantare a dovere. Il Libro dei Giudici non sono sicuro di averlo letto per intero ma l'Ecclesiaste lo leggo, lo compulso, lo sottolineo da decenni, eppure non ricordavo il versetto 8,9. Perché il testo Cei 1974 (la consumatissima Bibbia in mio possesso) risulta stranamente blando rispetto al testo Cei 2008. Che invece, verifico su internet, dice così: «Un uomo domina sull'altro per rovinarlo». Il teologo francese adotta una versione ancora più icastica: «L'uomo domina sull'altro uomo per renderlo infelice». Ecco svelata l'essenza del potere, grazie alla Parola di Dio che smantella un secolo abbondante di panzane circa l'impegno dei cattolici nelle istituzioni, e smentisce addirittura Papa Paolo VI che, non cristianamente bensì democristianamente, si spinse a definire la politica «la forma più alta di carità» (io ancor prima di leggere Anarchia e cristianesimo mi attenevo alla formula «né eletti né elettori» coniata da don Giacomo Margotti nel lontano, ma solo all'apparenza, 1861). Il passaggio definitivo sulla negatività dello Stato lo troviamo nel Vangelo, quando nel deserto il diavolo promette a Gesù, in cambio della soggezione, tutti i regni del mondo. Pertanto, fa notare Ellul senza possibilità di replica, «coloro che detengono un potere politico l'hanno ricevuto dal demonio e dipendono da lui!». Potrei concludere qui ma sarebbe un peccato tralasciare l'Apocalisse con la visione dei relativi mostri: per l'autore anarco-cristiano la Bestia della terra rappresenta il potere politico e la Bestia del mare la propaganda. Insomma sono il Leviatano di Hobbes con in più la prefigurazione del pensiero unico capillarmente diffuso attraverso internet, e imposto dalla censura dei social. Ma allora come mai «tutte le Chiese hanno scrupolosamente rispettato e spesso sostenuto l'autorità dello Stato, hanno fatto del conformismo una virtù maggiore, hanno trasformato un messaggio libero e liberatorio in una morale»? Tutta colpa di Costantino che fece della religione cristiana un instrumentum regni. Dimentichi della Parola di Dio, Trono e Altare si allearono. O meglio: l'Altare, in cambio di privilegi e quieto vivere, si fece strumentalizzare dal Trono. Nel giro di un solo anno il cristianesimo si ribalta: ancora nel 313 il sinodo di Elvira vieta a tutti coloro che hanno un incarico pubblico, ancorché pacifico, di partecipare alla messa, già nel 314 il concilio di Arles, convocato guarda caso dall'imperatore, scomunica i soldati che disubbidiscono ai superiori. Diciassette secoli dopo i vertici della Chiesa continuano a raccomandare l'ubbidienza allo Stato (perfino allo Stato cinese, vedi accordo Pechino-Vaticano sulla nomina dei vescovi), e un cristiano deve leggere questo libro per ricordarsi che Cristo il potere lo ha «considerato con disprezzo, rifiutandogli ogni autorità».

L’era dell’ultima religione: dall’eugenetica alla pandemia. Cristiano Puglisi il 23 dicembre 2020 su Il Giornale. C’è un filo sottile che collega certo ecologismo ideologico, ben rappresentato dalla più recente icona del progressismo liberal, Greta Thunberg, e una forma di cieca e assoluta fiducia nella tecnologia e nella scienza, che permane anche quando queste ultime non riescono a dare certezze, come è avvenuto, purtroppo, durante la pandemia globale di Coronavirus tutt’ora in corso. Ambientalismo e scientismo acritico sembrano infatti presentarsi, anche e paradossalmente in un’epoca segnata, più che dalla laicità, da un diffuso atteggiamento laicista, come due tra i molteplici aspetti di una nuova forma di pseudo-religiosità, caratterizzata, come le vere religioni, da un approccio assolutamente fideistico. È quella che due autori di grande competenza nei rispettivi campi, come il saggista ed esperto di religioni orientali Gianluca Marletta e il medico e saggista Paolo Gulisano, cultore di Storia della medicina, hanno definito, nel loro ultimo saggio, edito da Giubilei Regnani – Historica Edizioni, “L’ultima religione”. Tale definizione, peraltro, è anche il titolo del saggio. Che va letto partendo da un presupposto: quello che, come spiega Marletta, “l’uomo a-religioso non esiste. Può esistere chi non crede nel ‘trascendente’ ma non chi non crede a nulla. Le ideologie della modernità, in larga misura atee, sono state delle ‘religioni’ a tutti gli effetti. C’è chi non crede in un Principio superiore ma, al contempo, crede fermamente in un Caso onnipotente che può generare la vita, l’intelligenza e l’uomo per pura ‘fortuna’. Ogni atto della vita, in qualche misura, è un ‘atto di fede’. Peraltro, nel mondo attuale, il materialismo ateo modello ottocentesco è ormai passato abbastanza di moda: il ‘mondo nuovo’ che da qualche parte si ha in progetto di creare non sarà assolutamente a-religioso, benché potrà rifiutare le Religioni intese in senso tradizionale. Per questo abbiamo definito Ultima Religione l’ideologia oggi imposta globalmente: una religione coi suoi dogmi, i suoi precetti validi per le masse, i suoi ‘prodigi’ e persino, come vedremo, con una sua apocalittica ed una sua escatologia”. “L’ultima religione – aggiunge Paolo Gulisano – è una forma di idolatria: un mix di buonismo, di ecologismo, di Cristianesimo senza Cristo. Ma non solo: in un mondo che non crede più in Dio, cosa rimane? I dogmi dello scientismo. Non è Dio che salva, ma un farmaco prescelto e annunciato dallo stesso Nuovo Ordine Mondiale. Ciò perchè tra i nuovi idoli c’è la Dea Salute. Una divinità alla quale si è pronti a sacrificare tutto, a partire dalle libertà”. Le origini di questa moderna pseudo-religione vengono individuate dai due autori in una circostanza storica ben definita: quella dell’Impero Britannico del XIX secolo. “L’ideologia dominante del mondo odierno – spiega infatti Marletta- è "malthusiana" ma molti punti di vista: denatalismo, dissoluzione dei legami familiari, controllo della popolazione, sono tutti concetti che derivano da Malthus. Naturalmente, si tratta di un malthusianesimo 2.0, colorato d’arcobaleno, riverniciato a volte della retorica sentimentale dei ‘diritti’ e della ‘difesa dell’ambiente’, purificato dai più indigesti presupposti razzisti e classisti che andavano di moda nell’800 inglese… ma della stessa ideologia stiamo parlando”. “Ormai da più di mezzo secolo – prosegue Gulisano – si sta diffondendo e imponendo nella cultura una mentalità ossessionata dal problema della sovrapopolazione. Dal Club di Roma ai giorni nostri questa ideologia ha sostenuto la necessità di una drastica riduzione delle nascite. Qualcuno pensa che la stessa epidemia e i mezzi utilizzati per affrontarla non siano altro che la soluzione finale a questo ‘problema’. Le virgolette sono d’obbligo, perché in realtà se nel mondo ci sono ampie sacche di miseria, la causa non è certo nel fatto che “siamo in troppi”, ma nel fatto che le risorse non sono distribuite secondo giustizia. Anzichè ridurre i commensali a tavola, occorrerebbe aumentare le portate”. Se, però, la rivoluzione industriale che determinò l’egemonia di quel Regno Unito dell’Ottocento nel cui seno fu partorito il pensiero malthusiano contribuì in maniera determinante all’eclisse del sacro, in futuro “il ‘mondo nuovo’ propugnato dalle elìte – come spiega ancora Marletta –  non sarà necessariamente anti-religioso (non stiamo più nell’800 o nella prima metà del 900): l’importante è che le Religioni tradizionali vengano svuotate di contenuto, ‘purificate’ da intralci dottrinali o etici, dal riferimento al Principio divino – possiamo parlare più di uno psichismo che di uno spiritualismo – rese liquide per essere colate nello stampo anodino e sincretico dell’Ultima Religione. Da questo punto di vista, anche alcune autorità religiose ‘tradizionali’ sembra stiano lavorando alacremente…”. “Nel corso della storia – sostiene inoltre Gulisano – è avvenuto spesso che alcune religioni diventassero Instrumenta Regni, delle organizzazioni poste al servizio della politica, braccia armate del potere. Oggi si vorrebbe che ciò diventasse la norma. Il Cristianesimo fin dalle origini si è posto come radicalmente alternativo al mondo. Oggi purtroppo assistiamo ad un appiattimento della Chiesa Cattolica – la Chiesa 2.0, la New Church, o addirittura Fake Church come viene definita da qualcuno- sul mondo, sulle sue parole d’ordine, sulle sue agende. Gesù Cristo duemila anni fa disse ai suoi discepoli: Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo. Oggi sembra che i vertici ecclesistici se ne siano dimenticati”. Nel libro non mancano diversi riferimenti al Coronavirus. Un evento che certe elité hanno accolto più come un’opportunità che come una drammatica catastrofe… “Come é stato ribadito per decenni da numerosi "uomini di spicco" – commenta Gianluca Marletta – i grandi cambiamenti necessitano di grandi crisi. Da questo punto di vista, è persino secondario chiedersi se il Covid sia stato una "fatalità" naturale o non piuttosto un evento indotto (anche se sul libro ci siamo posti anche questa domanda). L’importante è l’effetto prodotto: un’accelerazione straordinaria verso il Great Reset, un passo decisivo verso il "mondo nuovo"“. “L’arrivo del virus- sulla cui origine ci sono ancora molti misteri irrisolti- ha rappresentato – gli fa eco Gulisano – l’occasione a lungo attesa per iniziare una rivoluzione economica, sociale, politica, e perfino antropologica. Non si vuole solo cambiare le società: si vuole anche cambiare l’uomo. E’ la minaccia inquietante del Transumanesimo. Uno scenario che certamente ricorda le più spaventose distopie letterarie del ‘900. E quel che preoccupa di più è la debolezza dell’antagonismo a questo disegno, che sembra avanzare come in una guerra-lampo trovando scarsa resistenza”. Nel libro gli autori parlano, al riguardo, di “apocalisse atea”. “L’ideologia dominante al giorno d’oggi – spiega al riguardo Marletta – ha una coloritura fortemente apocalittica, pur non avendo un riferimento specifico al Trascendente. Basti vedere quanti continui allarmi globali (anche prima del Covid) caratterizzano gli ultimi anni (allarme clima, catastrofe climatica imminente, ecc.) con tanto di previsioni precise sul punto di non ritorno dell’umanità che sarebbero degne di un veggente… L’Ultima Religione non manca della sua apocalittica, come abbiamo detto. Anzi: ha un’impostazione escatologica piuttosto evidente e prorompente”. “Il nostro libro – conclude Paolo Gulisano – si propone di aprire gli occhi ai lettori sullo scenario inquietante che si sta profilando. In questo momento storico occorre avere una mente libera, occorre avere delle coscienze salde. E bisogna aver chiaro che di fronte alla marea montante di questa rivoluzione occorre salvare il seme, cioè l’essenziale, la verità sull’uomo. Poi, passata la tempesta, bisognerà tornare a seminare…”.

·        Chi odia Gesù.

"La sessualità di Cristo": perché il fallo di Dio è stato ostentato e poi nascosto per secoli. La Repubblica il 4 ottobre 2021. Tra il 1400 e il 1600 centinaia di opere di pietà religiosa esibiscono il fallo di Gesù, ma tutto questo è passato sotto silenzio per cinque secoli. Così la pensava lo storico dell'arte Leo Steinberg quando scrisse il saggio "La sessualità di Cristo" (il Saggiatore, 1986) e analizzò oltre 120 opere per scavare nelle radici mitiche di questa sessualità ostentata. Affondano nell'umanità di Cristo. Perché siamo umani? Perché siamo mortali e ci riproduciamo. Così doveva apparire il figlio di Dio incarnato.

Un racconto umano che ci emoziona. La rivoluzione di Gesù vista dagli occhi dei bambini. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 9 Settembre 2021. La “guardia reale”, gli angeli, i “guerrieri dello spirito”, dall’alto della loro fortezza nei cieli sorvegliano le “cose” umane. Soprattutto obbediscono agli ordini ricevuti e uno di loro si precipita ad annunciare a Maria e Giuseppe una realtà e un futuro sorprendenti. Ma anche sorvegliano, sovrintendono il percorso terreno di Gesù. Storditi un poco, nella misura in cui non capiscono bene che cosa stia accadendo. Quando Gesù è nel deserto, tentato dal diavolo, cercano di intervenire per sottrarlo e proteggerlo ma comprendono che un intervento non è necessario. Angeli: un po’ adulti, un po’ bambini, strapazzati dalle guerre quando erano sulla terra, sofferenti per le ingiustizie del mondo ma comunque ascesi a un nobile compito. Scendono continuamente sulla terra, per ogni bambino che nasce, anche adesso, anche mentre sto scrivendo, anche mentre qualcuno sta leggendo, per non lasciare nessun bambino da solo. E qui ho copiato Affinati, perché la rilettura e riscrittura dei quattro Vangeli da parte di Eraldo Affinati inizia da queste figure silenziose, magiche nel senso positivo del termine, semplici; dentro e dietro le quali ognuno di noi può metterci figure protettive conosciute in qualche momento dell’esistenza. Dentro e dietro le quali ci sono le domande di ognuno. Sarà davvero Gesù? Sarà davvero Dio? Sarà, soprattutto, una storia davvero accaduta? Il Vangelo degli Angeli di Eraldo Affinati (Harper Collins Italia, 2021, 498 pagine, euro 19,50) alle domande non risponde perché il lettore saprà farlo. Imposta la storia in tutt’altro modo, anzi nell’unico modo possibile: come un racconto umano, molto umano, dove campeggiano i sentimenti dei diversi protagonisti. Questo sembra essere un aspetto molto ben riuscito del lavoro: scavare nelle emozioni. Al di là dello scarno dettato evangelico, nella lingua essenziale e grammaticalmente semplice dei testi (a proposito: c’è un libro prezioso e oramai introvabile – mai più ristampato – di Rosa Calzecchi Onesti, Leggo Marco e imparo il greco, per dire quanto ci si può accostare all’altrimenti ostica lingua classica), Affinati innesta un’operazione tutt’altro che semplice. Vuole proiettare e guidare con mano il lettore in un’altra dimensione: l’immedesimazione per comprendere. In proposito c’è una pagina particolarmente felice alla fine del racconto, quando Gesù è morto ed è anche risuscitato, ma gli apostoli ancora non sanno cosa fare della loro vita. Pietro è fotografato a riprendere il lavoro di pescatore sul lago di Tiberiade. «Reti da tirare in barca, esche da preparare, pulizie, controlli. Il solito giro. Era tornato a casa dalla moglie e dai figli che l’avevano accolto come un malato mentale improvvisamente guarito dalle proprie ossessioni. Gli assilli, i tormenti, le angosce che gli erano stati inculcati da quel fantastico rabbi parevano essere oramai acqua passata. Papà, rieccoti finalmente tra noi. Marito sempre amato, ora non andare più via. Non ci lasciare soli. La stagione esaltante appena trascorsa sembrava cancellata. Tutto, incredibilmente, finito. Svanito come un temporale di giugno. E le folle che ci seguivano entusiaste? Eclissate. I nostri compagni? Scomparsi. Anche loro hanno intrapreso il sentiero del ritorno? La lunga strada impolverata degli eserciti sconfitti? Abbiamo gettato le bandiere nei rigagnoli. Ci siamo tolti l’uniforme. Soprattutto ci chiediamo dove sia andato lui. Aveva promesso che non ci avrebbe abbandonati. Ma adesso siamo rimasti da soli, proprio come temevamo». In poche pennellate, Affinati ci prende per mano dentro i dubbi di Pietro, dei suoi amici, di suo fratello. Finché Gesù ricompare di nuovo sulla riva del lago di Tiberiade, come la prima volta dice: gettate le reti; e la pesca diventa un evento grandioso. E la Storia si rimette in moto nella triplice domanda di Gesù a Pietro: mi ami tu? Tre volte Pietro lo aveva rinnegato pochi giorni prima; tre volte ora professa la fede incondizionata che lo porta a muoversi sulle strade della Galilea e dell’Impero Romano, cambiando il mondo. Questo sì, questo è il fatto accertato. Il mondo è cambiato con il cristianesimo. La Storia è cambiata. Gli Angeli descritti da Affinati forse stanno ancora chiedendosi perché e come mai. Intanto il motore della Storia ha fatto una giravolta e ha preso una direzione fino ad arrivare a noi. C’è ancora qualcosa da annotare, per invogliare ad acquistare e leggere il libro tutto di un fiato. Una ritraduzione del testo originale è particolarmente azzeccata quando si descrive l’incontro di Gesù con l’adultera che i sacri custodi della legge vorrebbero lapidare. Quanto tutti i lapidatori scompaiono (in risposta alla semplice osservazione: chi è senza peccato scagli la prima pietra), nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice: «Neanch’io ti condanno; vai e d’ora in poi non peccare più». Affinati esplicita in modo molto efficace, dando un colore ai sentimenti e fa dire a Gesù: «I peccati di questa donna sono molti, ma io la perdono in virtù del suo amore riconoscente». Efficace, intenso. Un altro passaggio da annotare riguarda una sorta di “attualizzazione” con i costumi fuori da quel tempo storico. Non stona l’immagine del diavolo, tentatore di Gesù nel deserto, descritto come un mercante con «barba e baffi ben curati, scialle, cappello e panciotto. Si esprimeva con una certa eleganza. È sempre così, quando arriva il demonio: si presenta travestito da persona di riguardo, un poco altezzosa». C’è un salto nel vestire e un salto temporale: in fondo i “tentatori” di ogni tempo sono sempre ben curati, per apparire diversi e fare presa. C’è un aspetto da non sottovalutare in questa rilettura del Vangelo di Affinati, che lo collega a un filone che andrebbe valorizzato. Lo sforzo, cioè, di presentare i 4 Vangeli secondo il filo conduttore di una lettura unica, integrandoli l’uno con l’altro e con un linguaggio adeguato e comprensibile, con l’attenzione alla sensibilità del lettore e dei protagonisti. Al punto che alla fine della lettura puoi pensare: sì, probabilmente è andata così. I sentimenti degli apostoli, di Giuseppe e Maria, i dubbi, le asperità mentali dei custodi della legge, la vita di Lazzaro dopo la risurrezione (già, che fine avrà fatto?) e Giovanni Battista, sono sicuramente azzeccati. Sarebbe potuta andare così, anzi forse è andata proprio così. Qualche esperimento riuscito lo abbiamo avuto. Mi riferisco al Nuovo Testamento in “lingua corrente”, operazione interconfessionale filologicamente accurata della fine del secolo scorso e poco valorizzata. Oppure alla versione di Silvia Giacomoni (La Nuova Bibbia Salani, del 2004) dell’Antico Testamento, lodata dal cardinale Martini, e seguita poi dal Vangelo di Matteo nel 2007. Opere che avvicinano. Manca invece una riscrittura dei Vangeli da parte dei nostri biblisti ed è un peccato perché ne abbiamo di molti e assai competenti, in Italia e non solo. L’auspicio è che Affinati apra la strada ad una stagione del Vangelo, non confinato negli ambiti degli specialisti. Magari si potrebbe pensare ad una lettura fresca, godibile, filologicamente corretta, capace di scavare dentro il testo per darci, insieme – perché no? – un’idea dei luoghi e di come potevano essere. Un Vangelo in cui si riportino gli aggiornamenti delle scoperte esegetiche più notevoli, spazzando via qualche stereotipo (tipo nascere a Betlemme: i biblisti hanno paura a dirlo?) per farsi leggere tutto d’un fiato come un avvincente opera non solo di fede ma come ricostruzione di una vicenda anche umana e di straordinaria formazione interiore e comunitaria. Chi raccoglierà la sfida?

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Riccardo Galli per "blitzquotidiano.it" l'1 giugno 2021. Che Gesù Cristo, Yehoshua ben Yosef, non fosse con ogni probabilità biondo essendo nato nell’attuale Betlemme è un fatto che, iconografia a parte, sembra essere ormai accettato. Ma c’è un altro errore nella carta d’identità del figlio di Dio, un errore decisamente più grave e gravido di conseguenze: la data di nascita e quella di morte non sono corrette. Il classico segreto di Pulcinella visto che gli studiosi, e anche il Vaticano, sanno benissimo che così è e, al massimo, si discute su quando collocare esattamente nascita e morte del "Re dei Giudei". Non aveva 33 anni quando fu crocifisso, non nacque il 25 dicembre e non venne al mondo 2021 anni fa. Quello che tutti o quasi diamo per scontato, e cioè che Gesù vide la luce nell’anno che consideriamo l’anno 0 e che venne giustiziato 33 anni dopo, non è vero. Colpa di racconti tramandati, calcoli sbagliati e di una matematica ancora approssimativa.

Quando è nato Gesù? La vera data di nascita. Partiamo dalla data di nascita. I quattro Vangeli, le ‘biografie’ di Gesù, non indicano né questa né la data di morte del Cristo. Sappiamo però da fonti storiche certe e provate che Erode, il re di Giudea, avendo saputo della nascita di un bambino che si annunciava come ‘Re dei Giudei’ e che ordinò che tutti i piccoli dai 2 anni in giù fossero per questo giustiziati, morì nell’anno che secondo la datazione corrente corrisponde al 4 avanti Cristo. Quindi Gesù non può essere nato più tardi e anzi la datazione più accreditata per la sua genesi è fissata tra il 6 e il 7 avanti Cristo. Poi la data di morte. Quella considerata più probabile è fissata al 7 aprile dell’anno 30, con un Gesù quindi 36 o 37enne e non 33enne. Errore, quello sulla data di morte, figlio del primo errore, quello sulla nascita.

Il calcolo sulla data di morte di Gesù seguendo il Vangelo secondo Giovanni. Seguendo la cronologia del Vangelo di Giovanni, che appare la più corretta, Gesù e i discepoli si riuniscono per l’Ultima Cena la sera del giovedì, all’inizio del 14 di Nisan, il giorno di preparazione della Pasqua nel rituale ebraico. Il calendario ebraico calcola il ciclo lunare e la data della Pesach non è in un giorno fisso della settimana, come la domenica per la Pasqua cristiana. La Pasqua ebraica quell’anno cadeva di sabato. Considerato che Gesù è morto dopo i trent’anni, le date possibili sono soltanto due, corrispondenti ai due anni intorno al terzo decennio dopo Cristo nei quali Pesach era di sabato: 30 o 33. Quando ancora non ci si era accorti dell’errore nel calcolare la nascita, si è optato per il 33 pensando che il 30 Gesù sarebbe stato troppo giovane. Ma ricalcolando la data di nascita, il 33 risulta invece troppo in là, con Gesù che avrebbe avuto 40 anni o poco meno mentre, più precisa, risulta la datazione che fissa la crocifissione all’anno 30, con un Gesù di 36 o 37 anni.

Di chi è la colpa del calcolo sbagliato dell’età di Gesù? Ma com’è possibile che ci si sia sbagliati sulla nascita? La colpa va con ogni probabilità ascritta ad monaco non a tutti noto ma che condiziona la nostra vita da sempre, a partire dalla data che legiamo sul nostro certificato di nascita. Dionigi il Piccolo, l’uomo che cinque secoli dopo la morte di Gesù propose di calcolare gli anni non dalla fondazione di Roma, ma dalla nascita di Gesù Cristo. Ad incolparlo anche San Giovanni Paolo II che, durante un’udienza generale del mercoledì, il 14 gennaio 1987, riconobbe: “Per quanto riguarda la data precisa della nascita di Gesù, i pareri degli esperti non sono concordi. Si ammette comunemente che il monaco Dionigi il Piccolo sia caduto in errore”.

L’errore di traduzione di Dionigi il Piccolo. Un errore banale, di traduzione dal greco antico, lingua dalle mille sfumature come sanno bene gli studenti di ieri e di oggi, ma che letteralmente fa sentire la sua eco nei millenni. “Nel quindicesimo anno di governo di Tiberio Cesare”, Giovanni comincia a battezzare nel Giordano. Gesù lo raggiunge, viene battezzato e comincia il suo ministero pubblico, si legge nel versetto 23 del Vangelo di Luca, l’indicazione cronologica più precisa dei Vangeli, quando archómenos hosèi etôn triákonta, aveva “circa” (hosèi) trent’anni. Dionigi tradusse come se fossero trent’anni o quasi trent’anni, secondo le interpretazioni, e in base alla cronologia romana di Tiberio calcolò come data di nascita il 25 dicembre del 753 dalla fondazione di Roma, fissando come anno 1 dell’era cristiana il 754. Sbagliava. In greco l’espressione “osei eton triakonta” indica un trentenne, non trent’anni precisi: e infatti, calcolano gli studiosi, Giovanni Battista inizia a battezzare nella regione del Giordano tra la fine dell’anno 27 e l’inizio del 28, e a quel tempo Gesù avrebbe avuto trentatré o trentaquattro anni. Il 25 dicembre poi, com’è noto, altro non è che la cooptazione di un’antica festa pagana, il "il sol invictus", il sole invitto, festività legata al riallungarsi delle giornate, all’aumentare delle ore di luce che inizia proprio in quel periodo dell’anno successivo al solstizio d’inverno. A complicare la faccenda, e a far ballare un altro anno, la mancanza dello 0. Il concetto di 0 arrivò infatti in Europa dopo il lavoro di Dionigi il Piccolo, circa 7 secoli dopo, quando nel 1202 fu introdotto in Occidente dal Liber abbaci del grande matematico pisano Leonardo Fibonacci. Quindi, nel conto, balla un altro anno, perché nel calcolo fatto da Dionigi si passa direttamente dall’1 avanti Cristo all’1 dopo Cristo.

Quando è nato e quando è morto Gesù?/ Date e studi: non è stato crocifisso a 33 anni? Alessandro Nidi il  30.05.2021 su ilsussidiario.net/news. Gesù, quando è nato e quando è morto? Errore di calcolo sulla nascita e sulla crocifissione: ecco le date più probabili secondo gli studiosi. Quando è nato e quando è morto Gesù? Un quesito soltanto in apparenza agevole da risolvere, perché le date e le ricerche degli studiosi dicono altro rispetto a ciò che fino a oggi si sa: Gesù non è stato crocifisso nell’anno 33 e non spirò all’età di 33 anni. In particolare, l’ipotesi più accreditata per la crocifissione coincide con venerdì 7 aprile dell’anno 30. Se così fosse, Gesù quando morì avrebbe avuto 36 anni e non 33 come viene ripetutamente raccontato. No, nessun errore di calcolo: abbiamo detto 36 e non 30 perché anche la nascita di Gesù non coinciderebbe con l’anno 0 e proprio qui risiede il vero problema, visto che, sbagliando i calcoli sulla venuta al mondo, sono stati conseguentemente sbagliati quelli sulla dipartita. Ad approfondire la questione sulle sue colonne è “Il Corriere della Sera”, che spiega come i quattro Vangeli non indichino alcuna data, ma si sa che il re di Giudea, Erode il Grande, morì nel 4 avanti Cristo. Ed è qui che sorge la prima controversia storica: Gesù non può essere venuto alla luce più tardi ed è dunque nato avanti Cristo, o meglio, avanti se stesso. Infatti, nel racconto di Matteo si dice che Erode, venuto a conoscenza della nascita di quel bambino per bocca dei Magi, ordinò lo sterminio di tutti i bambini dai due anni in giù.

GESÙ, QUANDO È NATO E QUANDO È MORTO? Alla luce di tutte queste elucubrazioni, la maggior parte degli studiosi sostiene convintamente che Gesù sia nato attorno agli anni 6-7 avanti Cristo. La Chiesa, per giunta, secondo “Il Corriere della Sera” è consapevole dell’errore, come affermò Papa Giovanni Paolo II nel 1987: “Si ammette comunemente che il monaco Dionigi il Piccolo, quando nell’anno 533 propose di calcolare gli anni non dalla fondazione di Roma, ma dalla nascita di Gesù Cristo, sia caduto in errore. Fino a qualche tempo fa si riteneva che si trattasse di uno sbaglio di circa quattro anni, ma la questione è tutt’altro che risolta”. Se non ci sono certezze sulla nascita, ancor meno ve ne sono sulla morte: essendo stato crocifisso dopo i trent’anni, bisogna scoprire quando Pesach era di sabato e ci sono due opzioni, l’anno 30 e l’anno 33. Inizialmente si propendeva per quest’ultima data, ma, se Cristo è nato tra il 6 e il 7 avanti Cristo, avrebbe avuto quasi quarant’anni. Ecco dunque che la teoria dell’anno 30 sembra essere la migliore e la più credibile.

Daniel Mosseri per ''Libero Quotidiano'' il 29 dicembre 2020. Più il mondo arabo si avvicina a Israele e più l'Europa si lascia abbagliare dalla narrativa antisionista palestinese. È un curioso strabismo politico e culturale. In questi giorni l' Arabia Saudita ha messo in circolazione nuovi libri di testo depurati dagli appelli a uccidere gli ebrei, e il Marocco ha incluso nei propri la storia della comunità ebraica marocchina. Nel frattempo in due trasmissioni radiofoniche la BBC ha affermato che Gesù era palestinese. Lo ha spiegato per primo il conduttore Robert Beckford durante una puntata di "Heart and Soul", programma dedicato alla spiritualità. Beckford ha raccontato come nel corso dei secoli l' iconografia occidentale abbia raffigurato Gesù, uomo o bambinello, come bianco «nonostante sia più realistico ritenere quale ebreo palestinese del primo secolo che Gesù fosse di pelle scura». E per chi non lo avesse capito, più avanti il conduttore ha ribadito che «quale ebreo palestinese del primo secolo era di colore scuro». Bontà sua Beckford si è almeno ricordato che Gesù era ebreo. Per i suoi colleghi di "Sunday Morning", trasmissione di BBC Radio Scotland, il Nazareno era «un palestinese di pelle scura», punto e basta. Dobbiamo credere a un semplice (doppio) lapsus dovuto alla scarsa preparazione dei conduttori della BBC? Camera, acronimo del "Comitato (britannico) per la precisione sulle notizie e le analisi sul Medio Oriente", la pensa diversamente. La BBC, spiega, presenta Beckford come «uno dei più importanti teologi neri del Regno Unito». Una persona che ha certamente studiato i Vangeli e che meglio di altri dovrebbe sapere che il territorio dove Gesù è nato si chiamava Giudea. Il nome Syria Palaestina fu imposto dai Romani alla regione non prima del 135 d.C. In quell' anno il militare Giulio Severo schiacciò nel sangue la rivolta del condottiero ebreo Bar Kokhba mettendo fine alla terza guerra giudaica. L' imperatore Adriano, che aveva vietato agli ebrei di circoncidere i propri figli maschi, de-giudeizzò quella terra a partire dal nome e fece divieto agli ebrei di risiedere a Gerusalemme. Il sospetto che quello di Beckford sia un progetto di revisionismo culturale non è campato per aria. Il teologo non spiega come Gesù fosse uno dei maestri ebrei dell' epoca ma lo descrive come «una figura di spicco nella lotta contro il razzismo e la discriminazione» nonché «un rifugiato la cui famiglia dovette fuggire a causa delle persecuzioni: era uno degli oppressi dai colonizzatori del suo tempo». Le parole di Beckford ricordano le vignette propalestinesi natalizie che raffigurano Gesù, Giuseppe e Maria quali palestinesi umiliati ai posti di blocco israeliani fra Betlemme e Nazareth. La BBC, in altre parole, ha abbracciato la teologia della sostituzione che vuole Gesù non ebreo ma arabo. Nulla di nuovo sotto al sole. Si tratta di una delle tante appropriazioni culturali degli antisionisti per criticare o delegittimare Israele: alcune di queste hanno fatto breccia qua e là in Europa - come nel caso della BBC - altre hanno fatto carriera arrivando anche all' Onu. Fra le più scandalose si ricorda la risoluzione Unesco del 2016 secondo cui il Muro del Pianto di Gerusalemme, il luogo più sacro per l'ebraismo, andrebbe chiamato solo con il suo nome arabo di Haram al-Sharif.

Andrea Cionci per liberoquotidiano.it il 20 aprile 2021. C’era una volta la Chiesa cattolica che si occupava della salute delle anime. Oggi, messi in soffitta Inferno, Paradiso ma soprattutto il PURGATORIO (ne sentite parlare ancora?), la neo-chiesa bergogliana si occupa principalmente della salute del corpo. L’ultima evidenza emerge con la Quinta Conferenza Internazionale Vaticana 2021  prevista per il 6-8 maggio. La prima cosa che lascia perplessi è la scelta della locandina: una parodia della Creazione di Adamo, il capolavoro dei capolavori sacri: accanto alle chiavi di San Pietro insieme al logo arcobaleno (un caso?) della Fondazione Cura campeggiano due mani con guanto di lattice che accostano le dita come nell’affresco della Sistina. (Peraltro un braccio è pure di colore, in ottemperanza ai comandamenti politicamente corretti). A questo punto, perché non mettere la mascherina al Cristo risorto di Piero della Francesca? O una siringa in mano alla Madonna della Seggiola di Raffaello? Chissà cosa ha spinto il card. Ravasi – lo stesso della “Lettera ai cari fratelli massoni” (2016) – oggi  presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, ad approvare una scelta del genere. Ma questo è solo l’inizio: a riepilogare efficacemente gli ospiti del “webinar” internazionale, il mensile (ancora cattolico) Il Timone: “Tra gli oltre 100 relatori indicati nel programma spiccano il guru della New Age Deepak Chopra, «pioniere di fama mondiale nella medicina integrativa e nella trasformazione personale»; Dame Jane Goodall, famosa ambientalista ed esperta di scimpanzé, che sostiene che la popolazione mondiale dovrebbe ridursi a quello che era 500 anni fa; CHELSEA CLINTON, la figlia di Bill e Hillary, che ha conseguito un master in sanità pubblica, ma che è convinta che non sarebbe cristiano vietare l’aborto legalizzato; Joe Perry, chitarrista e cofondatore del gruppo rock degli Aerosmith e fondatore di Rock stars of science. Non poteva mancare quindi il guru americano dell’epidemia da Sars-Cov2 Anthony Fauci e con lui l’esperto italiano Walter Ricciardi. Quindi Stéphane Bancel e Albert Bourla, rispettivamente i Ceo delle Big pharma Moderna e Pfizer, produttori dei vaccini anti COVID-19. Tra gli altri poi David Feinberg che guida Google Health e che sta lavorando sull’intelligenza artificiale (AI) per la salute pubblica; quindi anche un tocco di bellezza femminile con Cindy Crawford. Per il dialogo interreligioso sarà presente l’imam Shaykh Asim Yousuf”. Praticamente una premiata ditta di personaggi simbolo del progressismo globalista-sincretista da Nuovo Ordine Mondiale. Ma le sorprese non sono finite: se cliccando sui contenuti si prova a cercare  la parola “Gesù”, “Cristo”e “Maria”, su 26.000 battute di testo, compaiono ZERO risultati. In compenso si possono trovare “Segreti di vita sana e come essere al top per la salute, la bellezza e il fitness dall'interno verso l'esterno”. E ancora, sempre sulla scia di Men’s Health, consigli per “Vivere in salute fino a 120 anni e oltre: gli scienziati guardano al futuro, analizzando la genetica della longevità […] Guardiamo a come possiamo estendere la durata della vita umana sana e persino invertire il processo di invecchiamento”. Relatore, il dott. Faust? Si prosegue con riferimenti new age sull’empatia, (provate a empatizzare con uno psicotico, vedrete i vantaggi)  o sulla “compassione” di matrice buddista e su altre cose che non hanno praticamente nulla a che vedere con la Cristianità. Su Stilum Curiae, del vaticanista Marco Tosatti, hanno scritto esplicitamente di una conferenza "un po' demoniaca”   forse individuandovi quel FALSO UMANESIMO ANTICRISTICO in salsa gnostico-scientista di cui parlava pochi anni fa il Papa Benedetto XVI. Si tratterebbe dell’apoteosi dell’”uomo che si fa dio”, (magari per dominare il mondo) seguendo un processo del tutto invertito e rovesciato rispetto a coloro che venerano il  “Dio che si è fatto uomo”. Si comprenderebbe perché alcuni sacerdoti si sono fatti scomunicare pur di rimanere in comunione col papa Benedetto XVI e con la sana dottrina cattolica. La Chiesa, in effetti, non è nata per renderci più sani o più belli, per quello c’è Rosanna Lambertucci. Né per farci campare fino a 120 anni, come promette Adriano Panzironi. La Chiesa vera, quella di Gesù Cristo, deve insegnare a morire bene, in modo che l’anima si salvi, evitando il destino più orribile e grave in assoluto: la dannazione eterna. Cosa volete che gliene importi ai cattolici della cellulite o delle rughe per pochi decenni di vita terrena se poi la loro anima deve sopravvivere eternamente? Purtroppo, nonostante la “disinformatja” degli ultimi anni, per la vera fede cattolica non esiste nessun “6 politico” escatologico. Non si va tutti in Paradiso e la misericordia divina non può prevaricare la libertà dell’uomo di rifiutare Dio anche dopo la morte, restando così all’inferno. Se siete credenti, bisogna stare attenti perché non si può tornare indietro: la dannazione si produce quando l’uomo, allontanandosi da Dio, sviluppa un eccesso di attaccamento al mondo materiale, al potere, al successo, alla gloria, al denaro, alla bellezza, al sesso, anche alla salute, insomma a tutto ciò che dopo la morte non sarà altro che cenere. Se in vita ha sviluppato questo eccessivo attaccamento - col conseguente rifiuto di Dio - l’anima dell’individuo rimane IRREVERSIBILMENTE in un luogo e in una condizione dimensionali di enorme sofferenza, chiamato inferno. Questo è, almeno, ciò che dice il Catechismo all’art. 1035: La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, « il fuoco eterno ». La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira. In pratica la neochiesa bergogliana sorvola sulla salute eterna concentrando gli sforzi sulla salute temporanea. Capite bene che è un rovesciamento di prospettiva non da poco. E inquietante.

·        I Miracoli.  

Pentole e aureole. Storie prodigiose di cibo e di santi. Daniela Guaiti su L'Inkiesta l'1 Novembre 2021. Da Ambrogio a Francesco, da Colombano a Domenico sono moltissime le figure venerate dalla Chiesa che hanno compiuto miracoli legati agli alimenti che sono stati poi tramandati attraverso i secoli grazie alla cultura popolare e alla devozione. Sud-ovest di Milano, nel pieno della Pianura Padana, a una decina di chilometri dal Ticino, 32.600 abitanti: è Abbiategrasso. Bella cittadina, nome curioso. Gli storici lo fanno risalire alla toponomastica celtica. Gli studiosi di etimologia propendono per una radice latina. La leggenda dà un’altra spiegazione. Più o meno intorno al 380, Ambrogio, vescovo eletto dal popolo (era un laico, funzionario imperiale) viene chiamato a Roma dal Papa. Pare che il problema fosse una questione di tasse che i milanesi tardavano a versare. Accolto nel palazzo del Pontefice, il vescovo viene invitato ad attendere e fatto accomodare, si fa per dire, in uno stanzino spoglio, privo anche di un semplice attaccapanni dove appendere il mantello, che il sant’uomo, accaldato, vorrebbe togliersi. Così, senza scomporsi, Ambrogio decide di appendere l’indumento a un raggio di sole che filtra dalla finestra e che si mostra perfettamente adatto alla bisogna. A notare la situazione, a dire poco insolita, è il collaboratore del Papa, che corre a chiamare il Pontefice. A quel punto il problema dei balzelli viene risolto rapidamente, anche perché Ambrogio ha premura. In sua assenza – spiega – i milanesi si stanno perdendo il Carnevale: in ansia per il responso sulle tasse, hanno sospeso ogni festeggiamento e rischiano di infilarsi direttamente in Quaresima senza aver goduto di quella breve vigilia di allegria. E il vescovo vuole raggiungerli al più presto. Il Papa si mostra comprensivo e concede ad Ambrogio e ai suoi fedeli una deroga: a Milano il Carnevale non terminerà al giovedì, come nel resto del mondo cristiano, ma proseguirà fino al sabato. Una bella notizia, che il vescovo porta di persona ai milanesi che gli sono venuti incontro sulla strada per Pavia: «Habeatis grassum», dice ai concittadini festanti, che potranno mangiare carne fino al sabato. Così, nella località dell’incontro sorgerà un borgo con quel nome. Leggenda, ovviamente. Ma sta di fatto che ancora oggi il Carnevale Ambrosiano arriva al suo culmine quando il resto della Cristianità è già in Quaresima e, forse per un mantello miracolosamente appeso a un raggio di sole, i milanesi possono festeggiare con carne e dolciumi quando gli altri sono già alle prese con il magro quaresimale. Quello tra i Santi e il cibo è un rapporto stretto, che continua nei secoli: e se il miracolo di Sant’Ambrogio è stata la chiave per garantire carne e festeggiamenti ai milanesi, altri santi hanno operato miracoli direttamente… nel piatto.

Il potere della fede tra colombe e polli

Bisogna spostarsi ancora di poco da Milano, e avere a che fare con un santo, una regina e qualche piccione ben arrostito per spiegare la nascita della colomba come dolce simbolo della Pasqua. E bisogna spostarsi nei giorni precedenti la Pasqua del 612. Proprio allora San Colombano, nel suo lungo peregrinare per strade e città d’Europa, approdò in terra longobarda. L’abate irlandese, accompagnato dai suoi monaci e già circonfuso da un’aura di santità, venne ricevuto con tutti gli onori alla corte della regina Teodolinda che gli offrì un succulento pranzo.

Il menu, come prevedevano le abitudini del tempo, proponeva grande abbondanza di selvaggina arrostita. Si era però in periodo di Quaresima e la faccenda rappresentava un problema non da poco per i religiosi. Così Colombano e i suoi spiegarono alla regina che, pur allettati dalle appetitose portate, non potevano proprio mangiare quelle carni. Il rifiuto non piacque a Teodolinda, che ci rimase decisamente male. Il sant’uomo lo capì e propose una mediazione diplomatica: i monaci – disse – avrebbero mangiato la selvaggina soltanto dopo la sua benedizione. E così fu: Colombano alzò la destra nel segno della Croce e le carni si trasformarono miracolosamente in bianche colombe di pane, candide come le vesti dell’abate e dei suoi confratelli. Un prodigio evidentemente miracoloso che sbalordì la sovrana e le confermò le doti di santità del suo ospite, tanto da spingerla, in segno di devozione, a donare a Colombano il territorio di Bobbio, dove sorse l’abbazia che ancora oggi porta il nome del santo irlandese. Ma non solo. Da quel giorno prese il via la tradizione di festeggiare la Pasqua offrendo colombe di pane, che presto diventarono il dolce simbolo della giornata più importante della fede cristiana. Un effetto simile ebbe la benedizione di San Nicola da Tolentino, che trasformò due quaglie ben cucinate in due svolazzanti e vivissimi uccellini: questo perché il frate non voleva contravvenire la sua strettissima astinenza, nemmeno dietro ordine del suo superiore che, preoccupato per la salute del sant’uomo, desiderava che mangiasse un po’ di carne. Per assistere a un’altra resurrezione di volatile occorre restare in età medievale, spostandosi però fuori dall’Italia, lungo il Camino de Santiago. Molti pellegrini diretti in Galizia facevano tappa nel borgo di Santo Domingo de la Calzada, nella Rioja. La figlia di un oste della piccola cittadina si innamorò di un giovane pellegrino tedesco, Hugonel; non ricambiata, la fanciulla pensò di vendicarsi, nascondendo nel bagaglio di lui un vaso d’argento, per denunciarne il furto alla partenza del ragazzo. Questo, secondo le leggi dell’epoca, venne condannato a morte e impiccato. Giunsero i genitori per vedere la salma di Hugonel, ma quando giunsero sul luogo dell’esecuzione udirono la voce del figlio annunciare loro un miracolo: Santo Domingo aveva salvato la sua vita innocente. I due si recarono allora a casa del governatore della città e gli riferirono l’accaduto, ma la risposta che ottennero fu a dir poco ironica; il “sindaco”, seduto a cenare, riteneva che il loro figlio fosse ancora vivo esattamente quanto il gallo e la gallina che lui aveva nel piatto. Ed ecco, in quello stesso istante, i due polli balzarono fuori del piatto e presero a cantare. Ancora oggi nella cattedrale di Santo Domingo, in ricordo del prodigio, un piccolo pollaio in legno ospita un gallo e una gallina bianchi, vivi, che rompono l’austero silenzio della chiesa con le loro squillanti voci. E la città si presenta al visitatore con il motto Santo Domingo de la Calzada donde cantó la gallina después de asada, dove cantò la gallina già arrostita.

L’impossibile in pentola

La devozione popolare è pervasa di racconti miracolosi riguardanti il cibo. Ne è un esempio su tutti il miracolo delle noci, che Fra Galdino racconta nei “Promessi sposi”: «Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. “Che fate voi a quella povera pianta?” domandò il padre Macario. “Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna”. “Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie”.  Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettassero di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada: “Padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento”. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce». Il racconto del Manzoni dice l’importanza del cibo, anche del più umile, in un mondo in cui non c’era certo abbondanza di prelibatezze da mangiare. E neanche da bere: celebre in questo senso è la storia di Giovanni, primo abate del convento di San Giovanni Evangelista di Parma. Siamo intorno all’anno Mille e il frate, avendo ricevuto in regalo un piccolo orcio di vino, vuole dividerlo con i suoi confratelli: in sedici ne bevvero, ma il fiasco rimase sempre pieno. Cibo e santità si incontrano spesso nella cornice della natura, quasi a sottolineare come solo il rispetto per il creato sia la chiave per un’alimentazione sostenibile: San Biagio restituì a una donna, sano e salvo, il maiale che un lupo le aveva rubato, e quella, riconoscente, gliene offrì delle porzioni ben cucinate; San Francesco ributtò subito in acqua una tinca appena pescata che un pescatore gli aveva regalato: questa per la gioia di non essere stata mangiata, iniziò a seguirlo mentre il frate cantava le lodi del Signore, e se ne andò solo quando Francesco l’ebbe congedata; San vito fu nutrito da un’aquila che gli portava da mangiare durante un viaggio in mare. Infine San Gerardo: il santo monzese, in una gelida sera di gennaio, volle andare in Duomo per raccogliersi in preghiera come sua abitudine. Il sagrestano aveva però già sprangato il portone, e non volle aprire nemmeno dietro le insistenze del sant’uomo: «Sarei disposto ad aprirti di notte», disse, «solo se mi portassi un cesto di ciliegie». Cosa ovviamente impossibile in pieno inverno. Ma non per Gerardo, che il giorno dopo si presentò con abbondanza di dolcissimi frutti rossi per i custodi della cattedrale. Perché i santi sanno portare il profumo della primavera anche quando intorno ci sono solo nebbia e neve.

La Chiesa celebra San Pio: un libro racconta le apparizioni e le tentazioni del diavolo. Il Quotidiano del Sud il 23 settembre 2021. QUELLA di San Pio da Pietrelcina è una delle figure più imponenti del Cristianesimo moderno. La Chiesa oggi, 23 settembre, ne celebra la memoria liturgica, ricordando l’anniversario della morte avvenuta nel 1968. È stato destinatario, ancora in vita, di una venerazione popolare di imponenti proporzioni, anche in seguito alla fama di taumaturgo attribuitagli dai devoti, e l’attenzione che ha sempre suscitato è stata fonte di ispirazione per studi, libri, cinema e televisione. Proprio nei giorni scorsi sono stati resi noti ulteriori particolari sul rapporto che San Pio ebbe col diavolo, fatto di frequenti apparizioni e tentazioni che si manifestarono già in giovane età. Nel libro “L’universo demoniaco. I mistici ci illuminano su una realtà oscura”, scritto da Marcello Stanzione e pubblicato nei giorni scorsi da Sugarco edizioni, sono descritti diversi episodi citando come fonte il diario che tenne il confratello Padre Agostino. Quando nel 1911, a soli 24 anni Padre Pio si trasferì nel convento di Venafro (Isernia), Padre Agostino si accorse della feroce battaglia che il confratello teneva contro il demonio: “Le estasi – scriveva Padre Agostino – erano sempre precedute o seguite da apparizioni diaboliche. Da principio [il demonio] gli apparì sotto forma di un gatto nero e brutto. La seconda volta sotto forma di giovanette ignude che lascivamente ballavano. La terza volta, senza apparirgli, gli sputava in faccia. La quarta volta, anche senza apparirgli, lo straziava con rumori assordanti. La quinta volta gli apparì in forma di carnefice che lo flagellò. La sesta volta in forma di Crocifisso. La settima volta sotto forma di un giovane, amico dei frati, che poco prima era stato a visitarlo. L’ottava volta sotto forma del padre spirituale. La nona volta sotto la figura del padre provinciale. La decima volta sotto la forma di Pio X. Altre volte sotto forma del suo angelo custode, di San Francesco, di Maria Santissima… Finalmente nelle sue vere fattezze, orribili, con un esercito di spiriti infernali”.  Un ulteriore testimonianza, questa, di quando fosse difficile per San Pio la battaglia contro il suo tentatore e di come questo rapporto ebbe a nascere e a svilupparsi fin dalla più tenera età.

Lourdes, il video autenticato di un fenomeno inspiegabile del 1999: la levitazione dell'Ostia. La levitazione dell'Ostia si verificò durante una messa solenne a Lourdes. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Ieri abbiamo scritto QUI del grande interesse che in questo ultimo periodo riscuotono i dischi volanti. C’è un video, però, di un altro “disco volante”, se vogliamo, che non ha avuto la minima risonanza mediatica: un’Ostia consacrata che, a quanto si vede in un video ripreso da varie angolazioni, si solleva e rimane sospesa in aria durante la consacrazione. Il fatto inspiegabile risale al 7 novembre 1999 durante una messa, a Lourdes, per la ricorrenza di San Pio. Il fenomeno si verificò alla presenza di circa 120 Vescovi francesi, riuniti in Conferenza Episcopale con altri vescovi ospiti, oltre a circa 650 giovani sacerdoti e a tutti gli Abati e Priori dei monasteri trappisti del mondo. Fu ripreso dalle telecamere, ma in Italia non ne parlò nessuno, forse anche perché si attendevano gli esami sull’autenticità del video. Dopo 18 anni di indagini quel fatto è stato mostrato, nel 2018, all’allora Prefetto del Culto card. Robert Sarah che ne rimase impressionato. Merito di un frate trappista che in tutti questi anni ha prodotto una documentazione scientifica e teologica solida. La Nuova Bussola Quotidiana lo ha intervistato. Ora, come vedrete nel FILMATO INGRANDITO, durante la consacrazione, l'Ostia si solleva improvvisamente, con un piccolo scatto, e rimane levitante in aria, sospesa sopra la patena. 

Qui la ripresa originale:

Visto che, come si legge nell'intervista sopra linkata, dopo vari studi si sono escluse manipolazioni del video o fenomeni di illusione ottica, i casi possibili, in via puramente teorica, dovrebbero essere non più di tre:

1) i vescovi che celebravano dovrebbero aver elaborato un trucco da prestigiatori per sollevare l'Ostia oppure essere stati complici dell’artefice.

2) Le energie psichiche dei presenti hanno realizzato un fenomeno di psicocinesi.

3) Si tratta di un evento realmente miracoloso. 

In tutti e tre, il fatto dovrebbe risultare di un certo interesse, non credete?

Nel primo caso, se si potesse dimostrare l’ipotesi più diffidente, sarebbe gravissimo che degli ecclesiastici di quel rango avessero organizzato o approvato una truffa del genere.

Nel secondo si tratterebbe di una straordinaria testimonianza dei poteri della mente umana.

Nell’ultimo caso sarebbe uno dei più straordinari e documentati miracoli eucaristici del secolo.

Laici o credenti che si sia, il fatto c’è e meriterebbe uno studio, magari anche con il contributo del CICAP.

Voi che ne pensate?

Eva Carducci per ilmessaggero.it il 25 aprile 2021. Don Davide Banzato si racconta a Verissimo. Quarant'anni, ha scritto un libro con una confessione profonda: «Volevo raccontare l'esperienza che ho vissuto con Dio, in modo che potesse essere utile anche a altre persone. In questo tempo presente, una tempesta come l'ha definito il Papa, può essere utile ragionare su chi vogliamo veramente essere».

L'intervista a Verissimo. Missionario dei tempi moderni ha saputo utilizzare il suo linguaggio, semplice e diretto, per arrivare al cuore di tante persone: «Il mio mito era Indiana Jones da bambino, e volevo fare l'egittologo. Siamo quattro fratelli, io ero quello che dava più problemi. L'incontro con Dio è avvenuto quando avevo nove anni. Ero in un campo scout e non avevo mai avuto un'esperienza personale con Dio, anzi, ero anche sbruffone verso alcuni compagni. A fine Messa però ho sentito di fermarmi, e ho sentito pronunciare il mio nome da una presenza femminile. Ero preso dal panico, non c'era nessuno, era una voce interiore, che ha sentito anche il mio compagno di scout Stefano. Ero combattuto se raccontare questo episodio o meno, perché mi ha cambiato tanto. Ho fatto digiuno e sono stato messo in punizione, perché non volevo raccontarne il motivo. Ho rinunciato anche al tiramisù, e io sono goloso ancora oggi. In seminario ho fatto esperienze belle, ma anche altre che mi hanno segnato in negativo. Sicuramente il nonnismo che ho dovuto subire, il distacco dalla famiglia, la privazione dalla libertà e una costrizione che stride con il mio animo libero e ribelle. Sono rimasto con la testa sottacqua e sono esploso. Ho pensato e gridato per anni: Tutto ma mai prete. Le ferite del seminario mi hanno scosso. Non ho potuto partecipare al cinquantesimo anniversario di matrimonio con i miei nonni. Non ho più voluto festeggiare i compleanni. Nessuna violenza fisica però, ma esisto violenze psicologiche e pesanti che uno può subire. Io ho subito episodi forti, alcuni li ho raccontati, altri li porto ancora dentro».

«Ho detto no alla cocaina». Poi è arrivato il cambiamento: «Ho avuto la cocaina davanti a me, nei festini con i miei amici, ma grazie a Dio non l'ho mai toccata. Alcuni amici sono finiti per strada per colpa dell'eroina. Questo dopo essere uscito dal seminario. Avevo tutto, ma dentro ero morto. In due momenti ho anche pensato al suicidio. Poi è arrivata la seconda chiamata della mia vita. Non ho sentito voci, ma è stata una spinta interiore che mi ha detto "fai questo, questa è la strada per te". Quel giorno, in cui sono diventato prete, è morta una parte di me, ma è nata una gioia, che non mi abbandona. Non rimpiango nulla e rifarei tutto, ma non è una vita semplice. Ogni scelta è una vocazione, che devi confermare tutti i giorni, anche diventare padre, o madre, o marito. Bisogna lottare ogni giorno. Anche i miei genitori non hanno accettato subito la mia vocazione, ma alla fine erano commossi, contenti, e mi hanno aiutato sempre. Papà adesso non c'è più, dopo quattro anni difficili, in cui ero in missione, ma ho sempre cercato di essergli vicino il più possibile. Ho tanti rimpianti da questo punto di vista, ma ho avuto l'onore di poterlo confessare per l'ultima volta. Prima di andarsene mi ha detto di non dire cavolate durante il funerale, che avrei celebrato. Era ironico, sempre, anche in situazioni del genere. Ho capito il grande valore dell'uomo che è stato, adesso che l'ho perso. Nel libro mi sono messo a nudo davvero, ho raccontato questo e anche altri momenti difficili della mia vita, come il calvario vissuto a causa delle minacce che ho ricevuto dalla mafia bosniaca. Una volta al mese sono dai Carabinieri per furto d'identità digitale, e potrebbero essere le conseguenze di questa cosa. La paura si nutre di paura, adesso cerco di fregarmene, e fare solo del bene».

Verissimo, la sconvolgente storia di don Davide Banzato: "Nonnismo, la testa sott'acqua, la cocaina e il suicido". Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. A Verissimo arriva la toccante e singolare storia di Don Davide Banzato, che si racconta a Silvia Toffanin, nelle puntata trasmessa su Canale 5 sabato 24 aprile. Quarant'anni, ha infatti scritto un libro in cui ha raccontato la sua strana parabola: "Volevo raccontare l'esperienza che ho vissuto con Dio, in modo che potesse essere utile anche a altre persone. In questo tempo presente, una tempesta come l'ha definito il Papa, può essere utile ragionare su chi vogliamo veramente essere", ha spiegato. Missionario dei tempi moderni, ha aggiunto: "Il mio mito era Indiana Jones da bambino, e volevo fare l'egittologo. Siamo quattro fratelli, io ero quello che dava più problemi. L'incontro con Dio è avvenuto quando avevo nove anni. Ero in un campo scout e non avevo mai avuto un'esperienza personale con Dio, anzi, ero anche sbruffone verso alcuni compagni. A fine Messa però ho sentito di fermarmi, e ho sentito pronunciare il mio nome da una presenza femminile. Ero preso dal panico, non c'era nessuno, era una voce interiore, che ha sentito anche il mio compagno di scout Stefano. Ero combattuto se raccontare questo episodio o meno, perché mi ha cambiato tanto". E ancora, don Davide Banzato spiega il suo tormento: "Ho fatto digiuno e sono stato messo in punizione, perché non volevo raccontarne il motivo. Ho rinunciato anche al tiramisù, e io sono goloso ancora oggi. In seminario ho fatto esperienze belle, ma anche altre che mi hanno segnato in negativo. Sicuramente il nonnismo che ho dovuto subire, il distacco dalla famiglia, la privazione dalla libertà e una costrizione che stride con il mio animo libero e ribelle. Sono rimasto con la testa sottacqua e sono esploso. Ho pensato e gridato per anni: Tutto ma mai prete. Le ferite del seminario mi hanno scosso. Non ho potuto partecipare al cinquantesimo anniversario di matrimonio con i miei nonni. Non ho più voluto festeggiare i compleanni. Nessuna violenza fisica però, ma esisto violenze psicologiche e pesanti che uno può subire. Io ho subito episodi forti, alcuni li ho raccontati, altri li porto ancora dentro". Una parabola sorprendente. Anche perché ha visto la droga da molto vicino: "Ho avuto la cocaina davanti a me, nei festini con i miei amici, ma grazie a Dio non l'ho mai toccata. Alcuni amici sono finiti per strada per colpa dell'eroina. Questo dopo essere uscito dal seminario. Avevo tutto, ma dentro ero morto. In due momenti ho anche pensato al suicidio. Poi è arrivata la seconda chiamata della mia vita. Non ho sentito voci, ma è stata una spinta interiore che mi ha detto "fai questo, questa è la strada per te". Dunque la conversione, il giorno in cui diventa prete: "Lì è morta una parte di me, ma è nata una gioia", conclude don Davide Banzato. Una storia davvero singolare e da cui c'è molto da imparare.

Così la fede di Wojtyla vinse i proiettili di Agca. Matteo Sacchi il 21 Aprile 2021 su Il Giornale. In "Il Papa doveva morire" Antonio Preziosi ricostruisce l'agguato al pontefice nei dettagli. Tredici maggio del 1981, mercoledì pomeriggio. Sono le 17 e 30 circa, una ambulanza con la sirena rotta cerca a fatica di farsi strada nel traffico caotico di Roma. L'autista suona il clacson. Accanto a lui un infermiere si sbraccia a più non posso. Alla fine riesce a farsi largo tra le auto, verso il policlinico Gemelli. Nessuno dall'esterno potrebbe immaginare che sdraiato sulla barella all'interno c'è un uomo vestito di bianco ma macchiato di sangue: è Giovanni Paolo II. Pochi minuti prima, alle 17 e 17, mentre attraversava piazza San Pietro sulla «Papa mobile» è stato bersagliato dai proiettili di Mehmet Ali Agca, che ha aperto il fuoco contro di lui con una Browning Hp calibro 9 Parabellum, arma famosa per affidabilità e letalità. È proprio mentre viaggia su quell'ambulanza che la vita del pontefice appare legata al filo più sottile. Ma, alla fine, gli sforzi umani, o la divina provvidenza per chi è credente, riusciranno ad aver ragione dell'insano progetto di morte che ha condotto Agca sino a Roma. Il Papa polacco, uomo dalla tempra fisica e morale adamantina, si salverà e l'attentato diventerà per lui una ulteriore occasione per dar forza al suo pontificato.

Parte proprio dalla corsa verso il policlinico Gemelli il saggio di Antonio Preziosi che, a quasi quarant'anni di distanza, ricostruisce con grande precisione quegli eventi: Il Papa doveva morire. La storia dell'attentato a Giovanni Paolo II (San Paolo, pagg. 240, euro 22). Preziosi, giornalista radiotelevisivo (è direttore di Rai Parlamento), molto attento alle vicende vaticane, ha il merito in questo testo di inserire la narrazione della cronaca in un contesto molto più ampio. Il saggio, con la prefazione di Monsignor Rino Fisichella, rende ben chiaro al lettore, anche a quello troppo giovane per averne memoria diretta, la dinamica del fatto. Dalla maniacale determinazione di Agca a sparare al pontefice, maturata sin dalla visita di quest'ultimo in Turchia, sino ai dettagli del disperato intervento chirurgico iniziato sfondando la porta bloccata della sala operatoria, passando dall'incredibile coraggio della suora (o delle suore, questo è uno dei misteri della vicenda) che si lanciarono contro l'attentatore bloccandolo. Ma la parte più interessante del lavoro è quella in cui, attraverso moltissime testimonianze, Preziosi ricostruisce il percorso di fede che Wojtyla ha approfondito a partire dal momento stesso in cui è stato colpito. Ancora a bordo dell'ambulanza, e quasi moribondo, il Papa parlando al suo segretario don Stanislao, ma rivolgendosi al suo attentatore di cui non sapeva ancora nulla, disse: «Io ti perdono ed offro tutto questo che mi è capitato per la Chiesa e per il mondo». Su questa vocazione al perdono, legata al culto mariano, si è poi innestata una profonda riflessione sul terzo segreto di Fatima che Wojtyla ha deciso di rendere pubblico nel Duemila. Insomma, Preziosi offre a chi compulsa il volume la lettura specifica che di quell'episodio dette colui che ne fu protagonista e vittima, san Giovanni Paolo II, che «non cessò mai di dare di quell'episodio una lettura mistica e spirituale coerente con il suo pensiero e la sua fede». Il Papa polacco associò immediatamente all'attentato, avvenuto nell'anniversario della prima apparizione a Fatima nel 1917, l'adempimento del terzo segreto rivelato dalla Madonna e attribuì la sua salvezza all'intervento diretto della Vergine, alla quale fin da giovane si era sempre rivolto con l'espressione latina «totus tuus». Il libro ovviamente fornisce anche al lettore tutte le informazioni necessarie a valutare bene anche quello che Wojtyla definì, parlando con Montanelli, il «garbuglio» relativo a come e perché Agca arrivò in piazza San Pietro e se fosse solo. Nel corso degli anni il killer turco ha fornito un numero impressionante di versioni contrastanti. Preziosi da professionista dell'informazione qual è non si mette a fare inutili sensazionalismi, a quelli ci ha pensato già Agca che ha cambiato versione sull'attentato 52 volte. Nei suoi deliri ha accusato come mandante persino Khomeyni (ha anche sostenuto di essere Gesù). Preziosi semplicemente segnala le zone d'ombra e le prove che gli inquirenti hanno trovato su quella che è apparsa come la pista più ragionevole: quella bulgara. Alla fine anche in questo caso Wojtyla si disinteressò rapidamente delle indagini. Pensava fosse in atto una grande lotta mistica tra il bene e il male e in quel contesto il killer da lui perdonato, e poi personalmente incontrato in carcere, fosse solo «un poveretto» bisognoso di grande pietà cristiana. Pietà che dal pontefice Agca ricevette ma non chiese, pare che ad ossessionarlo fosse solo il fatto di non spiegarsi come avesse fallito, lui che si riteneva il killer perfetto. Del resto non fu il solo tentativo di uccidere Wojtyla andato a vuoto, contro il pontefice si ricordano almeno 5 veri e propri attentati e svariate aggressioni di mitomani. In più di un caso si trattava di attacchi pensati con cariche esplosive, come in Bosnia nel 1997. Che sia stata fortuna o divina provvidenza non sta a noi dirlo. Wojtyla aveva però a riguardo un'idea precisa.

La resurrezione? Senza le donne non ci sarebbe mai stata. Quando tutto è (o, comunque, sembra) concluso quando i cuori di donne e uomini si arrendono alla paura, giunge l’alba di un nuovo giorno. Luigi Mariano Guzzo su Il Quotidiano del Sud il 5 aprile 2021. La grande novità dell’annuncio cristiano è la resurrezione. In realtà, nell’antica Grecia, già Platone aveva parlato di immortalità dell’anima. Ma la promessa di Gesù di Nazareth va ben oltre: è una resurrezione del corpo, dei corpi. Il corpo, mortale, è chiamato a risorgere, ad essere immortale. In una forma gloriosa, ovviamente, che trascende le dimensioni spaziali e temporali, uno stato metafisico che le nostre (limitate) facoltà mentali neanche riescono ad immaginare. Un corpo che è carne “glorificata”, libera dagli affanni e dai pesi del dolore, in cui le ferite sono trasformate in feritoie di luce e di speranza. Quanta strada abbiamo percorso dal Mercoledì delle Ceneri, con l’inizio del cammino quaresimale, ad oggi, domenica di Pasqua! Siamo partiti ricordando la condizione di finitudine: cenere siamo e cenere ritorneremo, ci siamo detti nella liturgia. Abbiamo attraversato, prima, il deserto, la solitudine, l’isolamento e, poi, la delusione, il tradimento, la passione, fino ad arrivare alla morte in croce, di un uomo, Gesù, che si era definito “re” – anche se di un regno non di questo mondo – e che alcune delle persone a lui più vicine avevano riconosciuto come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. La morte in croce è un fallimento non soltanto di un’esistenza individuale, ma, ancor di più, di un progetto collettivo. Sogni, prospettive, attese, tutto diventa fumo. O meglio, cenere. Se quell’uomo fosse stato realmente il figlio di Dio avrebbe potuto chiamare degli angeli a liberarlo dal legno della morte. E, invece, quell’uomo, sopra la cui testa era stato scritto “re dei giudei”, a mo’ di beffa, inchiodato sulla croce, lamenta di essere stato abbandonato persino dal Padre. È la fine. Siamo ai titoli di coda di una “piccola” rivoluzione sociale e religiosa che ha coinvolto una Palestina soggiogata all’impero romano. Un moto rivoluzionario, sedato grazie all’intervento delle locali autorità ebraiche che, per pochi denari, riescono a corrompere un “discepolo” di Gesù. E ora, nell’ultima ora, Gesù, tradito da uno dei “suoi”, e lì che esala l’ultimo respiro davanti a Maria, una madre trafitta dal dolore, in preda alla disperazione per la morte dell’unico figlio. I “suoi” compagni, che soleva chiamare fratelli, ormai lo hanno abbandonato, per il timore di fare la stessa fine. C’è chi lo rinnega (e non uno qualunque, ma proprio Pietro, al quale era stata affidata una sorta di “leadership” del gruppo). Ma ecco che, quando tutto è (o, comunque, sembra) concluso, quando i cuori delle donne e degli uomini si arrendono ormai alla paura, alla rassegnazione e all’angoscia, quando cala la notte della sofferenza, giunge l’alba di un nuovo giorno, di un nuovo inizio. Ecco, la resurrezione. No che nulla era concluso, tutto era semmai “compiuto”, biblicamente parlando. La cenere è tornata ad essere corpo, per l’eternità! La morte è un fatto storico, la resurrezione dei corpi è un evento meta-storico, che scardina le consueti leggi naturali, di cui tutti noi facciamo quotidianamente esperienza. La resurrezione, quindi, non può essere compresa in un discorso strettamente razionale, ma soltanto accolta come dono. È per tutti. Anche se non da tutti accolta allo stesso modo. È il salto dalla storia alla fede, di una fede che i cristiani tramandano ormai da due millenni, di generazione in generazione. Se è relativamente semplice capire la croce, è davvero complicato credere nella resurrezione. In effetti, la croce può essere verificata e sperimentata, pur nella paradossale logica dell’amore di un uomo che si sacrifica per l’umanità intera, mentre la resurrezione deve essere creduta, alla luce della fede, di un’esperienza soprannaturale. Non ci può essere, in altre parole, una resurrezione “materiale”, in quanto va al di là della materia. E neanche può concepirsi una resurrezione “laica”. Ci troviamo dinnanzi ad un messaggio che è essenzialmente religioso. Anzi, siamo di fronte al mistero, all’unico messaggio di cui il cristianesimo si fa autenticamente promotore. Eppure, ciò non significa che il discorso sulla resurrezione debba essere per forza circoscritto in un ambito puramente confessionale. Può darsi un significato “laico” dell’evento-resurrezione, un significato alla portata di tutti, credenti e non credenti. Innanzitutto, è resurrezione dei corpi, che esalta e valorizza, insomma, la dimensione della corporeità. Che è il centro delle relazioni, delle espressioni di emozioni e di sentimenti. Il fine della Chiesa è la salvezza delle anime, che diventa salute dei corpi. Non è la carne un accidente da demonizzare. È, al contrario, una possibilità di conoscenza, di esplorazione del mondo, di sensazioni positive, di emozioni, che è parte integrante del progetto di salvezza. Ci salveremo con tutta la nostra carne! La resurrezione è motivo di riscatto, personale e sociale. Non è semplice trovare la forza di schiodarsi dalle proprie difficoltà, di andare oltre al male inflitto, di vincere l’odio. E, invece, la resurrezione ci riporta alla forza di soverchiare la “tomba” della propria esistenza, superando i rancori, le debolezze, le difficoltà che attanagliano la vita di tutti i giorni. Un discorso, questo, diametralmente opposto alle tentazioni della depressione, della stanchezza, della fatica, del lassismo. È più facile rimanere inchiodati sulle nostre croci, piangersela un po’ addosso, morire con il proprio dolore. Mentre, risorgere è questione difficile. Ma necessaria. Lo sanno bene le donne. Parlo di loro perché è alle donne che – come raccontano i Vangeli – è affidato l’annuncio della resurrezione. Sì, le donne che, all’epoca, non potevano neanche testimoniare ai processi e che oggi, nelle liturgie cattoliche o ortodosse, non possono ancora proclamare la parola di Dio e spezzare il pane eucaristico e che, nelle società civili, rimangono vittime di violenza e di emarginazione, sono le depositarie di un messaggio che sconvolge il corso ordinario degli eventi: Gesù è risorto, è davvero risorto! Gli uomini, i discepoli, sono chiusi nel cenacolo, impauriti, mentre le donne, nella tenerezza e nella premura dei piccoli gesti, trovano il sepolcro vuoto, ascoltano la voce del cuore (dell’angelo, ci dicono le Scritture) e comprendono che non può essere cercato tra i morti Colui che è vivo. Corrono subìto ad annunciarlo agli uomini. Inizia da qui, il cristianesimo. Da un passaparola avviato dalle donne. Senza le donne oggi non sapremmo nulla della resurrezione. Ed è dalle donne che il mondo, con le nostre chiese, può finalmente risorgere.

Manuel De Nicolò. Il Giornale di Putignano Mercoledì 18 Novembre 2009.  Alcune settimane fa, Joshua, un bambino di 33 mesi dopo tante cure e di chemio presso l’oncologico pediatrico di San Giovanni Rotondo, ha fatto ritorno a casa sua a  Putignano. I medici gli avevano dato poche speranze di vita forse questione di  mesi, i genitori erano in preda a una disperazione nera. Amici e parenti, per il ritorno a casa  del piccolo bambino, però per sdrammatizzare gli eventi, hanno organizzato una festa di “benvenuto”. Un lungo striscione era sospeso sotto casa nel quartiere di San Filippo Neri  e una piccola festa con i compagni della scuola materna è stata organizzata presso il Conservatorio S. Maria degli Angeli a cura della dott.ssa Paola Troilo e della maestra Marianna, dove il piccolo ha  frequentato la sezione Primavera. Una festa “triste”, sembrava l’ultimo addio a questo sfortunato bambino. I giorni sono passati e la vita quotidiana ha ripreso il suo cammino. La scorsa settimana il telegiornale di RAI 3, ha dato la notizia che un bambino di Putignano aveva ricevuto una Grazia di guarigione dopo un pellegrinaggio a Medjugorje. “Il bambino che a seguito del tumore non poteva camminare,  giunto nel paesino della Bosnia, appena sceso dal pullman ha iniziato a correre con grande meraviglia dei genitori. - racconta il cronista -  In seguito sono state eseguiti degli esami clinici che hanno evidenziato una riduzione della massa tumorale da 7,5 cm e 3 cm e la cicatrizzazione delle metastasi alle ossa.” Un caso unico che ha fatto gridare al miracolo. Il bambino che ha ricevuto la “Grazia” dalla Madonna è Joshua De Nicolò, figlio di Manuel (famoso attore della sit com “Family very strong”)  e della putignanese Elisabetta de Venere. La notizia giornalistica ha creato stupore e meraviglia tra tutti i cittadini che erano a conoscenza della “via crucis” di questo piccolo figlio di Dio, anche perché Manuel e Betta non sono dei cattolici praticanti, ma dei “Cristiani fai da te” che fino a ieri hanno seguito per tradizione la fede cristiana. La famiglia De Nicolò nel suo viaggio a Medjugorje ha conosciuto il famoso giornalista Paolo Brosio ed ha incontrato la veggente Mirjana. Paolo Brosio ha voluto inserire un capitolo sulla storia di Joshua nel suo libro “A un passo dal Baratro” che sarà in vendita nelle edicole il prossimo 17 novembre e che gli introiti saranno devoluti a favore di un orfanotrofio e una casa per anziani del posto. Paolo Brosio, per testimoniare la sua esperienza di vita, è già stato il 25 ottobre a un raduno di fedeli ad Andria (12 mila presenze). Brosio, è disposto anche a venire a Putignano ospite della famiglia de Nicolò per presentare il suo libro e essere testimone di fede. Per realizzare questo evento si chiederà  la collaborazione organizzativa  della clinica Giovanni Paolo II di S. P. Piturno che dispone di una ampia sala congressi, del sindaco de Miccolis e dell’associazione Polis dell’avv.ssa Elisabetta Console.

Ma come mai questa famiglia è andata in pellegrinaggio a Medjugorje, santuario mariano poco conosciuto ai “cristiani sbadati”?

“Dopo tante disavventure mediche e preso dalla disperazione avevo pensato di portare Joshua a Lourdes – racconta Manuel al Giornale di Putignano -. L’unico santuario Mariano che conoscevo. Ma un giorno mentre ero a San Giovanni Rotondo, mi recai nella cripta di Padre Pio e  in un momento di disperazione gli chiesi a muso duro: “Perché proprio a mio figlio? Dammi un segno per tornare a sperare”. Dopo l’incontro con Padre Pio tornai all’ospedale e mentre camminavo per il corridoio del reparto si accese un totem di un computer dove mi apparve il viso della Madonna. E’ stato un flash che mi ha turbato. Quando sono entrato in camera ho trovato mia moglie che mi ha raccontato che Joshua non voleva dormire e che grazie a delle canzoni mariane aveva trovato serenità e calma. Ci informammo sulle musiche che avevano fatto riaddormentare nostro figlio. Erano canzoni dedicate alla Madonna di Medjugurie.  Non sapevamo neanche dell’esistenza di un paese chiamato Medjugorie. Ma la Madonna ci chiamava e ci ha dato un altro segno. Tra le riviste sparse nella sala d’attesa dell’ospedale c’era uno speciale di “Oggi” in cui parlava della Madonna che era apparsa a 6 veggenti bosniaci nel 1981 e dei suoi miracoli di guarigione. Dopo aver letto questo articolo abbiamo deciso di partire immediatamente. I medici ci sconsigliavo questo viaggio perché Joshua aveva le piastrine sanguigne molto basse (5.000), ma noi eravamo fortemente decisi. Il giorno che siamo partiti misteriosamente le piastrine di nostro figlio sono arrivate a 160.000.”

Ad ascoltare il racconto di Manuel, mi rendo conto che la Madonna di Medjugorje aveva già fatto un altro grande miracolo. Aveva ridato la speranza e la gioia di non essere più soli nella disgrazia a questi due genitori .

LA MADONNA PARLA CON MANUEL - Manuel, con fervore cristiano racconta il suo incontro con la Madre di Dio: “Mi viene spesso a trovare e gli parlo. Sono stato pure perseguitato dal demonio. Ma io ho resistito. Pensavo di avere delle allucinazioni ed ho chiesto alla Madonna di farmi vedere un Santo per provare che Lei non era una mia allucinazione. La Madonna mi ha mandato in visione San Michele Arcangelo. Alcuni giorni dopo questa apparizione sono stato chiamato ad uno spettacolo di beneficenza a Foggia. Il sindaco della città nel ringraziarmi della partecipazione gratuita mi ha donato una statua di San Michele. In quel momento ho pensato: Allora è vero!!! La Madonna mi parla e mi consiglia.”

Questi racconti di fede e conversione spesso lasciano increduli anche i fedeli praticanti e a volte si rischia di cadere in eccessi di fanatismo religioso. Manuel non è l’unico che crede di vedere la Madonna o i Santi. Ci sono fedeli che hanno queste stesse visioni, ma per paura di essere presi per pazzi o visionari, tacciono.

Non hai paura che ti prendono per un pazzo con queste storie delle visioni della Madonna?

“No!!! Ne parlo pubblicamente perché la Madonna mi ha chiesto di dare testimonianza delle Grazie che mi ha donato. Anche Paolo Brosio e Mirjana mi hanno consigliato di seguire gli insegnamenti della Madonna e di rendere pubblica testimonianza. Anche Paolo Brosio all’inizio temeva di essere preso per un fanatico o per un pazzo. Ma la fiducia nella Madre di Dio è immensa e perciò ha scritto un libro “A un passo dal baratro” per aiutare chi si trova nel dolore e si sente solo.”

Hai visto il diavolo, cosa è successo?

“E’ accaduto dopo che mi sono arrabbiato con padre Pio a San Giovanni Rotondo. La sera quando sono andato a letto, mentre stavo per addormentarmi ho sentito un peso sul mio letto. Mi sono voltato è ho visto un saio con il cappuccio che saltava.  Terrorizzato ho guardato quel saio e ho notato che all’interno non c’era nessuno. All’improvviso mi è saltato addosso e mi ha fatto “nuovo, nuovo”. Non ho mai avuto paura in vita mia, ma quella sera me la sono fatta addosso. Il giorno dopo sono andato da un  frate francescano della chiesa per raccontare il fatto e lui mi ha detto che era il diavolo che mi perseguitava perché non voleva che mi convertirsi e chi mi avvicinassi a Gesù e alla Madonna. Mi stava perdendo. Per protezione contro il demonio mi ha regalato un rosario con cui recito le Ave Maria.”

Hai una grande devozione per San Padre Pio?

“Si, perché io e Betta abbiamo sempre pensato che Joshua parlasse con Padre Pio da quando aveva 8 mesi. Un giorno è  successo  che con lo sguardo perso nel vuoto parlava come se avesse un interlocutore. Gli chiedemmo con chi parli? E lui sorridente disse “Pa Pio” indicando un quadro che era appeso nella nostra casa. Quando abbiamo scoperto che il bambino aveva un tumore è stato il giorno 23, giorno in cui è morto Padre Pio. E’ stato un segno. Quando siamo andati a Medjugorje, io povero cristiano poco esperto di cose della Chiesa,  avevo paura che San Padre Pio fosse geloso di questo pellegrinaggio. I frati, invece, mi dissero, che Padre Pio voleva che noi ci rivolgessimo alla Madre di Dio e di Gesù. San Padre Pio non fa miracoli, intercede per noi presso Nostro Signore. A Medjugorje abbiamo incontrato  la veggente Mirjana a cui la Madonna ha chiesto di pregare principalmente per i non credenti e per chi frequenta la Chiesa per tradizione e non per fede. Lei ci ha detto che non siamo soli e di testimoniare sempre la nostra esperienza per  aiutare il prossimo che ha perso la speranza.”

Un uomo misterioso e una donna sconosciuta consigliano l’operazione a Firenze.

“Il 17 novembre Joshua, si recherà a Firenze per sottoporsi a un difficile intervento chirurgico per togliere il “neuroblastoma mediastinico tra il cuore e i polmoni, con infiltrazione midollare e  metastasi scheletriche”. Una operazione difficilissima che i medici di San Giovanni Rotondo o di Milano non hanno voluto effettuare. Anche questo evento, racconta Manuel, è nato da un segno ricevuto dalla Madonna, infatti: “Avevo perso la speranza di poter operare mio figlio, ma un giorno mi sono recato a Canosa. Ho avuto problemi ad una gomma dell’auto e sono andato da un gommista. Mentre ero in attesa della riparazione si è avvicinato un uomo che non avevo mai visto prima in vita mia e mi ha detto: “Come sta Joshua?”.

Gli ho spiegato che non trovavo dei medici disposti ad operarlo. L’uomo mi ha detto di seguirlo e mi ha presentato una signora a cui ha raccontato la mia storia. La donna, che aveva vissuto una storia simile con suo fratello di 17 anni, ci ha consigliato di rivolgerci all’ospedale di Firenze. E mi ha ringraziato per avergli dato la possibilità di sciogliere il voto che aveva fatto alla Madonna di aiutare altre persone che si trovano nelle sue stesse difficoltà”. Manuel e Betta sono fiduciosi che tutto andrà bene perché la Madonna li protegge… “Il buon Dio sa di cosa abbiamo bisogno e sa ascoltare”. Speriamo che questa storia abbia un lieto fine. Di certo, per Manuel e Betta la gioia di questi eventi “sopranaturali” ha scacciato il dolore per la malattia del figlio. Manuel, che per professione fa l’attore comico, si è tolta la maschera di Pulcinella e dal suo viso è uscita una lacrima di gioia e di dolore. Una storia che ci ha commosso profondamente e di cui abbiamo solo tracciato qualche spigolatura, ma che ci lascia molto turbati … Ognuno di noi ha La sua “croce” e spesso si sente solo e abbandonato. Poi accade qualcosa che non ti aspetti e torna la gioia nella vita grazie alla Misericordia di Dio. E  anche i non credenti si fermano un momento a meditare su questi fatti misteriosi! Il Giornale di Putignano

Coraggiosi, Storie. Betta: “La nostra forza? La fede". Cinzia Ficco su magazine.tipitosti.it. Sono stati molto tosti.  Hanno sofferto parecchio, ma sempre con grande dignità. E alla fine, hanno avuto un miracolo. Il loro bambino, Joshua, che significa “Dio è la mia salvezza” , nato a Putignano, nel Barese,  il 9 febbraio di cinque anni fa, dato dopo i primi mesi di vita per spacciato, è guarito. Lo desideravano molto questo figlio, Elisabetta, Betta per gli amici, e Manuel De Nicolò. Insieme da tredici anni, lui un attore di sit-com, lei, figlia di sordomuti, di cui si è presa cura fin da quando era una bambina. Ad aiutarla, nella sua crescita, tre zii con lo stesso handicap. Il bimbo quando nasce non è sordomuto, come aveva temuto la mamma. Ma presenta qualche problema. La prima diagnosi parla di «sospetta cromosomopatia e plagiocefalia». Si ipotizza che il neonato sia down e affetto da un torcicollo congenito che lo porta a inclinare la testa verso sinistra. Pochi giorni dopo, nella famiglia torna il sorriso: il bambino sta bene, il problema al collo è forse dovuto a «ipoplasia dello sternocleidomastoideo del  muscolo sinistro del collo», e quell’occhio semiaperto e gonfio, di cui si sono accorti, è solo un raffreddore. Ma tutto falso. Una delle palpebre non si apre, né si chiude del tutto a causa della sindrome di Horner. Dietro quell’occhio c’è già una massa tumorale: cellule maligne hanno invaso il corpicino fin dalla nascita, colpendo anche i linfonodi del collo. Ma come fa notare Betta, da parte sua e di suo marito, c’era tanta ansia di sapere. Da parte dei medici, molta superficialità. «Se in quei primi giorni avessero effettuato una Tac o una radiografia – dice-  e non una semplice ecografia, si sarebbe arrivati subito a una diagnosi corretta, e le terapie necessarie sarebbero iniziate allora”. Dopo cure palliative,  i genitori si rivolgono ad un ospedale di Bari, al reparto di ortopedia e traumatologia. E ad un fisiatra di Noci. I medici dicono che la testa del bambino tende a piegarsi verso sinistra per una postura da parto. Ma il 23 dicembre del 2008, sulla tempia sinistra del piccolo Joshua compare una pallina non più grande di un nocciolo. Sarà questo episodio a salvare la vita del piccolo. Il 29 dicembre, il bambino viene visitato privatamente e sottoposto a ecografia:  Referto: si tratta di una cisti sebacea, un banale accumulo di grasso, che potrà essere asportato al quinto anno di età da un dermatologo. Ma mamma Betta non si sente tranquilla. Per niente. Solo quindici giorni dopo, nel gennaio 2009, la tumefazione dell’occhio sinistro aumenta e Betta e Manuel cominciano a temere per la vita del loro bambino. Si recano all’Ospedale di San Giovanni Rotondo, la struttura sanitaria realizzata da Padre Pio. Ma per una strana coincidenza hanno i genitori la possibilità di far visitare Joshua direttamente dal Professor  Saverio La Dogana, primario del reparto di Oncoematologia, al quale basta sentire i sintomi che il bambino accusa, occhio semiaperto e bozzo alla tempia, per capire. Dopo la Tac, la diagnosi che spezza ogni speranza: quella dei medici di San Giovanni Rotondo. Joshua ha solo cinque giorni di vita. È affetto da neuroblastoma mediastinico al quarto stadio S, con infiltrazione midollare e metastasi allo scheletro. Il tumore ha attaccato le ossa del bacino, il midollo, le ossa del cranio, il retro dell’occhio sinistro, i linfonodi del collo e stava penetrando nella parte sinistra del cervello, ed è questo, purtroppo, che spiega la posizione della testa inclinata fin dalla nascita. Dietro al polmone sinistro c’è una formazione tumorale grande sette centimetri e mezzo. Si comincia subito  con una terapia d’attacco, un vero e proprio bombardamento: chemioterapia, autotrapianto e radioterapia. Una battaglia contro il tumore lunga otto mesi. Inutile  parlare dell’angoscia, della disperazione di Betta e Manuel. Ma dei due Betta non riesce a versare lacrime. E’ come impietrita. E ai medici un giorno dice solo: “Affido a voi e a Dio mio figlio”». Manuel e Betta si trasferiscono a San Giovanni Rotondo, prendono un appartamento in affitto, ma la casa di Joshua e della sua mamma sarà per mesi l’ospedale.  In isolamento per tre mesi. Paura, dolore, una tristezza infinita. Nel frattempo Manuel, che di mestiere fa il comico, deve tornare al lavoro. Betta si chiede il perché di tanto dolore. «Perché a me? Si ripeteva. “Ma con i giorni – fa capire – invece di essere arrabbiata,  imparo a farmi accarezzare, abbracciare da Dio.  E tutto in un ambiente, in cui vedi morire quasi ogni giorno dei bambini. Ho conosciuto Rosa, una mamma straordinaria, che ha trascorso dai 21 ai 35 anni in “via oncologia”, come chiamava lei il nostro reparto.  Assisteva sua figlia Benedetta, una quattordicenne dolcissima, che era diventata grande amica di Joshua. A marzo, Benny è morta. E il mio bambino, non vedendola più, per giorni mi ha chiesto sussurrando: “mamma, Benetta dov’è? Che dolore!” Rosa, nonostante la sua tragedia, è stata molto vicina a Betta. Intanto Joshua comincia a rispondere in modo positivo alle cure. Dopo otto cicli di chemioterapia e l’autotrapianto del midollo, a giugno di tre anni fa il piccolo viene dimesso  dall’ospedale. “Ci torneremo – racconta Betta-  ad agosto.  Allora sarà sottoposto a diciassette radioterapie, tutte in anestesia generale, rischiando la tiroide e il polmone sinistro. Ma quando venti giorni dopo viene dimesso, la malattia ha cominciato la sua lenta ritirata”. Oggi Joshua, è un bambino vivacissimo.  E’ completamente guarito.  Un miracolo? “Sì – fa capire Betta –  E qualche segno che qualcosa di grande ed inspiegabile, ci sarebbe capitato, lo abbiamo avuto un giorno. Joshua aveva appena otto mesi ed era seduto sul nostro letto. Ad un certo punto, lo sento parlottare, come se avesse davanti un  interlocutore. Joshua con chi parli?” –  gli chiedo, e lui, sorridente, si gira verso il quadro di Padre Pio, che avevamo sul letto e me lo indica con la sua manina. Un’altra volta, ancora durante il primo ricovero, il bambino si sveglia improvvisamente e guardando verso la porta della stanza, mi dice: “Mamma hai visto Pa Pio? Lui bacio mano casa”. Aveva visto il Santo, che gli aveva dato un segno: era accanto a lui e lo avrebbe portato fuori dall’ ospedale guarendolo». Oggi Betta ed Emanuel sono devoti della Madonna di Medjugorje, dove sono stati a luglio del 2009, quando Joshua aveva 29 mesi ed era stato dimesso da poco dall’ospedale di San Giovanni  Rotondo. “Prima di partire – racconta Betta-  il bambino non riusciva a camminare bene, i medici mi tranquillizzavano, dicendo che era dovuto alla terapia e al fatto che fosse stato per un mese a letto. Invece, appena arrivato a Medjugorje, mio figlio correva, sgambettava felice senza problemi.» «Prima dell’autotrapianto – aggiunge –  mio figlio aveva metastasi ossee,  linfonodi profondi alla gola, alla tempia e al femore, e una massa mediastinica di 5-6 cmdi diametro dietro al polmone. Quando siamo tornati dal pellegrinaggio, la Tac ci diceva che la massa tumorale si era ridotta a poco più di tre centimetri e che il resto era scomparso. Si era miracolosamente cicatrizzato tutto”. Restava il tumore nascosto dietro al polmone, che viene operato, a Firenze. Tanti  i rischi. È il 27 novembre del 2009. I medici avevano previsto un intervento che sarebbe potuto durare anche sei ore, oltre ai quattro giorni in rianimazione. Va tutto per il meglio. “In rianimazione – dice la mamma-  è rimasto per due ore, a scopo precauzionale. Quando ha riaperto gli occhi era felice, e mi ha sussurrato di aver visto una luce bianca, le nuvole, che era stato in cielo con Gesù, che avevano riso insieme, chela Madonnavegliava in lontananza. Infine, che aveva ricevuto un regalo “grande grande”. Joshua resta sempre sotto controllo. L’ultima terapia di mantenimento, durata sei mesi, è terminata il 20 giugno 2010 e quest’ultimo traguardo  è stata festeggiato con un bagno al mare. A un anno esatto dal primo pellegrinaggio, nel luglio del 2010, la famiglia è tornata a Medjiugorie. Per ringraziare. Oggi vive serena, sapendo che a vigilare sul suo bambino c’è sempre il frate di Pietrelcina. Tra breve costruiranno una statua dedicata al santo, vicino la casa dei De Nicolò. A giocare con Joshua oggi c’è  una splendida bambina. Sana.  Cinzia Ficco

Emanuele De Nicolo. Nicola Pignataro su teatropurgatorio.it. “Quando il gioco si fa duro, i duri scendono in campo”. E’ una massima molto cara agli americani. La usano, quando mettono da parte fronzoli e sentimentalismi e sono costretti, da quel popolo pragmatico che è, a vedere le cose che sono così come sono e non come vorremmo che fossero. Bene, cosa centra questo incipit con l’anima in questione? Bè, centra, carissimi amici del Purgatorio, perché vi dirò che del De Nicolò avrei preferito non occuparmene, e ciò per una serie di ragioni che posso riassumere nel fatto che si tratta di un’anima certo non traboccante di fascino per il sottoscritto. Non voglio però essere frainteso: lo reputo un comico, un cabarettista che non riscuote affatto la mia simpatia, ma ciò non riguarda un giudizio di valore sulla persona, né tanto meno implica la minima offesa nei suoi riguardi. Ma come è giusto che sia, snoccioliamo gli antefatti.  Ho conosciuto il De Nicolò attraverso la mediazione di Franco Scaramuzzi, un impresario che evidentemente credeva molto in lui tanto da essere disponibile a finanziargli una serie di serate. Il Nostro mi si presentò un pomeriggio in compagnia di Alfredo Navarra, sua spalla di allora. Pimpante e ottimista si disse convinto che avrebbe riempito  il Teatro. Ma la prima sera nonché le successive,  le poltrone rimasero desolatamente vuote. Ciò naturalmente spiacque sia a lui che allo Scaramuzzi, che imputarono il fiasco alla sfiga ed ad altre entità metafisiche.  Da parte mia analizzai senza difficoltà l’insuccesso. Il Duo pur avendo nel suo novero qualche apprezzabile spunto comico aveva qualcosa che non andava (c’è sempre qualcosa che non va quando l’omino del botteghino sta lì a  rigirarsi i pollici); qualcosa insomma che non convinceva il pubblico barese (uno dei pubblici più marpioni e scaltri d’Italia) a sborsare il prezzo del biglietto: e questo qualcosa era a mio avviso una professionalità ancora acerba, un bagaglio di conoscenza e di tecnica ancora da affinare, da maturare. Dopo, averci dunque rimesso qualche soldarello, Scaramuzzi se la defilò e il Nostro ricominciò ramingo a cercare la sua grande occasione. Tra un numero e l’altro di Charlot, imitazione che costituiva il suo numero forte, esercitava per sbarcare il lunario  la professione di imbianchino. Un giorno mi si ripresentò in Teatro con sua moglie Chicca, dicendosi nuovamente  sicuro di poter far accorrere le masse. Bè, duole dirlo ma ancora una volta anziché lo scrosciare degli applausi si udirono volare le mosche.. Al ché fu piuttosto imbarazzante per me, quando si avvicinò il momento del rendiconto. Infatti, a rivoltarlo a testa in giù il Nostro non avrebbe fatto tintinnare sul pavimento nemmeno l’ombra di un centesimo. Si ripagò, devo dire, onorevolmente, dandomi una rinfrescata agli intonaci del mio ufficio. Dopo quella doppia quanto infelice parentesi, scomparve per qualche tempo, fino a quando intorno al 1996 non  lo rividi negli studi di Telebari, dove io ero impegnato a condurre il gioco a premi “Fave di Quiz”. Lui stava  allestendo  la prima serie della “Very Strong Family”. Tra gli attori che aveva reclutato figurava Franco De Giglio, che doveva riscuotere poi un enorme consenso di pubblico come “Nonno Ciccio”. Che dire? Il successo della serie, inutile nasconderlo, fu eclatante, e certo non sarò certo io a disconoscerlo. Fatto sta che lui, cominciò come dire a sentirsi una sorta di Buster Keaton spiegato ai baresi. Mi capitò di incontrarlo per strada e di ricevere in cambio del saluto che meritavo, un’alzata di ciglio piuttosto altezzosa. Ah, cara la mia schifiltosa quanto ingenua anima. Non so perché avevi la sicumera che avresti potuto sempre guardarmi dall’alto verso il basso. L’ultima volta, in verità, ho constatato che il saluto ti è ridiventato come dire più umile e sentito. Bravo, l’umiltà è una gran bella cosa! Vedi me, per esempio: sono oltre trentacinque anni  che godo il favore del pubblico ( e non solo di quello barese), ma non ho mai dimenticato la massima biblica sul fatto che tutti un giorno, esimio Emanuele De Nicolò, siamo stati schiavi in Egitto. Per gli anni a venire,  fai quindi tesoro del mio consiglio. Cerca di non dimenticare mai chi eri e da dove vieni.

Manuel e Kicca si sono lasciati.

Il Matrimonio della piccola Vanessa della Very Strong Family. Redazione Teleregionecolor.com il 6 ottobre 2018. Il matrimonio: un giorno speciale in cui coronare il sogno d’amore. Una data che viene impressa indelebile nella memoria. Un evento, soprattutto se a convolare a giuste nozze, è un volto noto di chi nel tempo ha saputo entrare nelle case con un sorriso e tanto divertimento. Nella basilica di San Nicola a Bari il giorno speciale di vanessa de Nicolò della Very Strong Family, ora cantante affermata di una band musicale. Una commedia che nel passato ha allietato per tantissimo tempo le giornate dei pugliesi, che non si lasciavano scappare l’appuntamento della sit com in onda su teleregione. lei, la piccola di casa, aveva solo 11 anni, ora e’ diventata una donna. Ad attenderla sul sagrato il fratello lino, in arte Piolino. Ad accompagnarla sull’altare Kikka, mamma nella vita oltre che sugli schermi. Ad attenderla per il sì Lorenzo Gentile, tutti bellissimi e sorridenti, per chi ha fatto della gioia di vivere il proprio marchio di fabbrica. Abito bianco e lungo velo ad accarezzare la bella vanessa che guarda ora al futuro con un rinnovato ottimismo.

Umberto Sardella. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Umberto Sardella (Binetto, 15 agosto 1956) è un attore e comico italiano. È noto al pubblico per la sitcom Mudù in onda su Telenorba e Teledue. Nel 1995 insieme a Manuel De Nicolò e Donata Frisini, in arte Manuel & Kikka, partecipa alla prima serie della Very Strong Family su Teleregione, che ottiene un ottimo successo, Umberto fa la parte del cugino gay del protagonista Manuel. L'anno successivo partecipa nel sequel Very Strong Family 2 su Teleregione.

·        Miracoli ed affari.

Medjugorie.

“Miracoli e guarigioni” a Medjugorie: dal profumo di rose alle lacrime di sangue. Le Iene News il 09 aprile 2021. In questo terzo appuntamento Gaston Zama ci presenta e approfondisce i presunti miracoli accaduti tra le colline di Medjugorje: dalle gocce che sgorgano dalla statua di Gesù Cristo al profumo di rose fino a chi dice di piangere sangue come Ludovico Pedone o chi si è alzato dalla sedia a rotelle nonostante fosse infermo. Incontriamo anche chi vive nella fortezza di Tomislav Vlasic, dove si parla di ufo ed extraterrestri. Dopo averci parlato dei 6 veggenti e del loro rapporto con il denaro, in questo terzo appuntamento Gaston Zama ci presenta i presunti miracoli accaduti tra le colline di Medjugorje. Uno di questi miracoli sarebbero le presunte lacrime che sgorgano da una statua di Gesù Cristo. Le abbiamo viste assieme a Paolo Brosio e alla sua fidanzata Marialaura De Vitis durante il primo capitolo della nostra Missione Medjugorje. “Sono le lacrime del paradiso che scendono sulla Terra”, così le spiegava Brosio. “Invece mi lascia perplessa la frequenza di questo fenomeno”, si chiede Marialaura. Se quelle gocce non si creano in superficie, ma da dentro, l’acqua da dove arriva? “Alla base della statua c’è un basamento che funge da serbatoio dell’acqua piovana”, spiega Lorenzo Tosi, ricercatore in Biotecnologie. “Ma quando piove non si riempie perché ci sono i buchi dei chiodi che Cristo ha nelle mani”. L’acqua piovana entrerebbe da qui e riempierebbe il basamento. “Con il calore del sole, evaporizzando, risalirebbero nella statua che all’interno è vuota. È un tipico delle sculture in bronzo”. I presunti miracoli vengono spesso ricollegati anche ad altrettante presunte guarigioni. “Tante persone sono guarite con i fazzolettini intrisi di quest’acqua”, ci aveva detto Brosio.  A Medjugorje ci sarebbe un altro presunto miracolo: quello del sole pulsante. Sulla collina si vedrebbero strani movimenti solari intermittenti. “Il sole ha iniziato a ruotare fortissimo venendo verso la Terra, liberando nel cielo i colori dell’iride. A un certo punto ho sentito gridare Raffaella che urlava di non vedere più dagli occhi”, dice Brosio che avrebbe assistito a questo fenomeno. La donna che nomina sarebbe una non vedente certificata da un occhio che si trovava lì in pellegrinaggio. “Dopo questo fenomeno ha fatto degli esercizi. Si è messa a piangere finché non ha iniziato a vedere da entrambi gli occhi”. Raffaella ne ha parlato anche in tv di questo fenomeno, ma dal Vaticano non arriverebbero conferme. A provocare la guarigione di Raffaella sarebbe stato il fenomeno del sole pulsante. C’è chi ha voluto studiare questo fenomeno. “Per riuscire a vederlo nei suoi comportamenti reali ho allestito una videocamera in modo che fosse in grado di resistere all’intensità luminosa del sole. Con dei filtri solari ho fatto delle riprese riscontrando comportamenti regolari”, spiega Valerio Rossi Albertini, fisico del Consiglio nazionale delle ricerche. Come mai allora c’è chi ha ripreso il sole che sembra pulsare? “La telecamera del telefonino non è un apparecchio idoneo a queste riprese. L’intensità luminosa è troppo grande”. Ci sarebbe un altro filmato incredibile registrato sulla collina delle apparizioni. Ha come protagonista Ludovico Pedone “che lacrima sangue dagli occhi”, dice Brosio. Nella clip non si vede il momento iniziale di questo fenomeno, ma solo la parte finale dove la sua faccia è intrisa di rosso che sembra sangue. Nel filmato Pedone giace davanti alla statua della Madonna. Brosio ha conosciuto Pedone a Forte dei Marmi. E anche in quell’occasione sarebbe avvenuto un fenomeno simile. “Mentre camminava ha iniziato a lacrimare sangue. Non voleva che chiamassi un’ambulanza perché diceva che gli succedeva sempre”, dice Brosio. A Valenzano in Puglia è sorto il Cenacolo, un tempio accanto alla casa in cui vive Pedone. Gaston Zama lo incontra: “Da quando mi è successo non prendo più i farmaci della malattia che avevo”, ci racconta Pedone. “Mi davano due mesi di vita, ero terminale. Mi portarono a Medjugorje e mentre pregavo ho iniziato a piangere sangue. Pensavo che stavo morendo”. Si parla anche di persone che misteriosamente si sarebbero alzate dalle loro sedie a rotelle. Un fenomeno che sarebbe successo nel santuario di Pedone, ma anche a Medjugorje. “Non ho mai parlato di miracolo”, dice. Porta delle bende alle mani e ai polsi, “perché ci sono delle ferite”. Sostiene di avere cicatrici anche ai piedi. Ferite che ricorderebbero le stigmate di Gesù Cristo. Sulle colline di Medjugorje ci sarebbe un altro miracolo che nessuno ha mai visto, ma che verrebbe solo odorato: il profumo di rose che sarebbe dovuto dalla vicinanza della Madonna. A Medjugorje c’è anche la fortezza dell’Immacolata, un’associazione creata da Tomislav Vlasic, ex padre spirituale dei veggenti. Un frate francescano che seguì fin dall’inizio i sei veggenti e che poi fu accusato di averli indotti a inventarsi le apparizioni della Madonna. Venne scomunicato dalla Chiesa per aver avuto rapporti sessuali con una suora. Oggi si sarebbe messo in proprio creando la sua fortezza dove parla di ufo ed extraterrestri. Il vescovo Hoser da poco amministra la parrocchia di Medjugorje durante una recente omelia ha detto che c’è un altro universo che aleggia tra quelle colline: “Qui si è infiltrata la mafia napoletana pronta a fare profitti”. Di questo e molto altro parleremo nella prossima puntata. 

Missione Medjugorje: i veggenti, le ville e il rapporto con il denaro. Le Iene News il 26 marzo 2021. Il rapporto con il denaro, l’estasi e oltre 50mila apparizioni di cui però solo 7 sembrano validate dalla Chiesa. Ecco il secondo appuntamento della “Missione Medjugorje”. Gaston Zama, nel suo viaggio con Paolo Brosio e la sua fidanzata Marialaura Devitis, ci racconta gli esperimenti e i tanti punti interrogativi ancora senza risposta attorno ai sei veggenti che dicono di vedere la Madonna. Il rapporto con il denaro, l’estasi e oltre 50mila apparizioni di cui però solo 7 sembrano validate dalla Chiesa. In questa secondo appuntamento della “Missione Medjugorje” parliamo dei sei veggenti che dicono di vedere la Madonna. Con Gaston Zama abbiamo vissuto un lungo e incredibile cammino in compagnia di Paolo Brosio e della sua fidanzata Marialaura De Vitis: un’esperienza in due mondi paralleli ma distanti anni luce l'uno dall'altro, un tentativo di dialogo tra la galassia di chi non ha fede e chi invece crede nell'esistenza di Dio, di Gesù e della Madonna (qui il primo servizio). Alcuni dei sei veggenti avrebbero un rapporto ambiguo con il denaro. Sono infatti titolari o proprietari di strutture ricettive che accolgono ogni anno i pellegrini. Molti però si chiedono quale mestiere facciano esattamente. Un’ambiguità che viene sottolineata anche nella relazione del cardinal Ruini e che potrebbe indurre qualcuno a pensare che si guadagnino da vivere grazie al fatto che la Madonna appaia loro da 40 anni. “Uno di loro ha un albergo con 54 camere e 120 posti letto”, dice Marco Corvaglia, autore, scrittore e studioso di Medjugorje. Un edificio poco distante dalla collina delle apparizioni di proprietà di Marija Pavlovic. Anche online il Magnificat è indicizzato come hotel, ma sul sito ufficiale questa parola non compare nonostante sia in tutto e per tutto un albergo. Abbiamo provato a contattare Marija Pavlovic, ma non siamo riusciti a parlarle. Le avremmo voluto chiedere approfondimenti su una sua frase detta a Tele Belgrado. “Fin dal principio la Madonna ci ha detto di non prendere del denaro…”, diceva in origine. E allora perché molti anni dopo ha invece organizzato cene benefiche per raccogliere fondi per un centro preghiera? E soprattutto questo centro preghiera è una parte di quello che oggi viene chiamato Magnificat? A Medjugorje tutto ruota attorno alla Madonna dai negozi di souvenir alle agenzie viaggio a ristoranti e alberghi. Tutto quanto il lavoro è legato alla Gospa, come la chiamano. “Questo benessere ha arricchito non solo i veggenti, ma tutti in egual misura”, dice Brosio. “Se hanno come fine solo il denaro dimenticandosi della gente, allora bisogna stare in guardia”, aggiunge Padre Angelo Epis, missionario monfortano. E l’ambiguità di alcuni veggenti era già stata affrontata anche dal cardinal Ruini che sembra mettere in guardia in particolare verso uno di loro: Ivan Dragičević. Dopo aver conosciuto Laureen Murphy, Miss Massachusetts del 1990, si trasferisce a Boston dove vive in una villa. “Non è una colpa, è un destino. Questa è la casa della moglie, che è di una famiglia di avvocati”, spiega Brosio. A scatenare altre polemiche sui veggenti c’è un’ulteriore dimora sull’isola di Hvar in Croazia. Per molti giornalisti sarebbe di proprietà della famiglia della veggente Mirjana Dragicevic Soldo. Si tratta di un’abitazione a pochi metri dal mare con piscina, patio e giardino. “Ma Soldo è il marito che ha una famiglia con alcune proprietà”, ipotizza Brosio. Fuori da questa villa come sostengono alcuni giornalisti locali, ci sarebbe stato un abuso edilizio: un pezzo di scogliera è stato cementificato “senza il permesso demaniale”, sostiene lo studioso Marco Corvaglia. L’abuso sembra sia stato fatto per mettere lettini e ombrelloni. Anche gli altri due veggenti Jakov e Ivanka sarebbero proprietari di strutture ricettive a Medjugorje. Infine Vicka sembrerebbe più discreta e riservata rispetto agli altri. “Lei vive in una villa grandissima a quattro chilometri da Medjugorje”, dice Corvaglia. E la sua bibliografia è abbastanza ampia. “Ho scritto la vita della Madonna e aspetto che lei mi dica di pubblicarla”, raccontava qualche anno fa. Ma non le avrebbe ancora detto quando farlo. “I veggenti erano molto legati ai frati francescani”, dice Padre Angelo. Il loro padre spirituale Tomislav Vlasic qualche anno fa è stato scomunicato. Avrebbe avuto rapporti sessuali e un figlio con una suora della zona di Medjugorje. Dietro la sua scomunica vengono addotte anche diffusione di dubbia dottrina, manipolazione delle coscienze, sospetto misticismo. Oggi sarebbe a capo della fortezza Immacolata, una specie di santuario non riconosciuto allestita nel bresciano dove il frate parlerebbe di ufo ed extraterrestri. Anche la commissione Ruini ritiene credibili le prime sette apparizioni, ma le altre le definisce un problema. In tutti questi anni i veggenti ne avrebbero totalizzate almeno 50mila, che hanno diviso il mondo della Chiesa. “Perché un’apparizione è riconosciuta e l’altra no?”, si chiede Maria Laura. Per stabilire se i veggenti fossero finiti davvero in estasi sono state istituite commissioni che hanno fatto alcuni test specifici. “È stato stabilito che questi veggenti qualcosa hanno visto, ma che fossero in estasi è tutt’altro che provato”, dice Francesco D’Alpa, neurofisiopatologo clinico. C’è un video curioso che riprende i veggenti mentre avrebbero avuto un’apparizione e quindi sarebbero stati in estasi. Una persona si dirige verso la Vicka, con un gesto fulmineo scaglia il suo dito indice verso il volto della veggente che clamorosamente arretra per schivarlo. Nonostante il suo spirito si dovesse trovare altrove, scorge l’avanzare del dito. Lei darà una spiegazione: “Per evitare la caduta di Gesù Bambino dalle braccia della Madonna lei è arretrata con quel gesto”, dice Corvaglia. “Può essere che la fase dell’estasi non fosse ancora in piena realizzazione”, aggiunge Padre Angelo. Ma è stato fatto anche un altro esperimento. Poco prima delle 17.40, orario in cui la Madonna apparirebbe ai veggenti, un’équipe li ha divisi. Ivan e Marija finiscono in due stanze differenti, in ognuna c’era un orologio che però segnava orari diversi. Loro non potevano saperlo e le apparizioni sarebbero avvenute in due momenti differenti. Attorno a Medjugorje ruota un altro volto che noi conosciamo bene, un uomo che ci bazzicava spesso e volentieri e che spesso si vedeva accanto a una veggente: don Barone. 

Missione Medjugorje: il cammino tra due mondi paralleli con Paolo Brosio e la sua fidanzata Marialaura. Le Iene News il 12 marzo 2021. Il nostro Gaston Zama ci porta in un lungo e incredibile cammino in compagnia di Paolo Brosio e della sua fidanzata Marialaura De Vitis. Inizia da qui "Missione Medjugorje": un’esperienza in due mondi paralleli ma distanti anni luce l'uno dall'altro, un tentativo di dialogo tra la galassia di chi non ha fede e chi invece crede nell'esistenza di Dio, di Gesù e della Madonna. Gaston Zama ci accompagna in un cammino in due mondi paralleli ma distanti anni luce l’uno dall’altro. Un tentativo di dialogo tra la galassia di chi non ha fede e chi invece crede nell’esistenza di Dio, di Gesù e della Madonna: è la Missione Medjugorje. I protagonisti sono Paolo Brosio e la sua fidanzata Marialaura De Vitis. Brosio, giornalista, scrittore e conduttore televisivo, nonché icona della tv anni ‘90 e della bella vita, si fece prendere la mano precipitando nel vizio più estremo: sesso, droga e alcol. Dipendenze che lo inghiottirono fin giù nell’abisso, poi però Dio gli tese la mano e Paolo si dimenticò della depravazione aprendosi alla devozione più assoluta, specie verso la Madonna di Medjugorje. Questo lungo e incredibile cammino ha avuto inizio da una telefonata. “In questo momento sono fidanzato con una ragazza che si chiama Maria… Diciamo che non crede molto, è scettica”, ci dice. Un particolare della sua Topolina - 41 anni di differenza - che non lo fa dormire la notte. “Le ho parlato di Medjugorje mille volte e mi piaceva portarla lì…”. Iniziano così i nostri 1.000 chilometri attraverso tre stati. Dopo 5 ore, la prima tappa è al santuario mariano del Grisa che Paolo vuole mostrare a Marialaura in questo cammino verso la fede. “Non ci credo, c’è la messa ora…”, dice. Per lui è un segno inequivocabile. La seconda tappa del nostro pellegrinaggio è invece vicino a Spalato dove c’è una sorgente d’acqua che a dir di Paolo sarebbe miracolosa: “Tante malattie che la scienza non riesce a curare, qui invece ci sono stati miracoli...”, sostiene. “Stai attenta Maria a tutto quello che ti accadrà dopo questo viaggio, ne sono sicuro”, dice alla sua fidanzata. “Per me è una gioia portare Maria da Maria perché Medjugorje è la scintilla che ti fa innamorare di Dio”. Dopo 35 ore di traversata, eccoci. Paolo scoppia in un pianto liberatorio. Con lui andiamo sulla collina Podbrdo dove sarebbe apparsa la Madonna: “Qui sono nati i veggenti, tutti i giorni alle 17.40 appare loro ovunque si trovino”. Ora spera che la fede di Marialaura possa fare un balzo in avanti. Lo fa mostrandole la statua del Gesù risorto da cui si formano gocce come se fossero lacrime (“c’è gente che è guarita con queste”) e poi con un altro fenomeno “il profumo intenso di rose che si sente su questa collina”. Per alcuni questa essenza è sinonimo di santità e della presenza della Beata Vergine e quindi è associata alla vicinanza della Madonna. Ma le visioni di Topolino e Topolina sono divergenti anche a proposito dell’aborto. “La nascita di un essere umano è un progetto di Dio, se tu lo impedisci vai contro Dio”, dice lui. “Il corpo è nostro e siamo libere di fare le nostre scelte. Una donna può subire uno stupro e il feto è solo il risultato di questo trauma”, replica lei. Posizioni che gettano Paolo nello sconforto che ribadisce: “È Dio che dà la vita, non l’uomo”. “Ma è lo Stato che fa la legge. E lo Stato non è la Chiesa”, aggiunge lei. Paolo ci parla anche di eutanasia e famiglia naturale: “Dove un uomo e una donna fanno l’amore e nasce un figlio”. Ma anche in questo Marialaura ha un’altra visione: “Può anche essere una coppia omosessuale a casa mia oppure una donna con un gatto. Famiglia significa amore”. Durante il nostro cammino incontriamo Ivo, un caro amico di Paolo, che ha qualcosa da raccontare a Marialaura. Lui era una giovane promessa del basket. “Ma sono rimasto senza gamba per un tumore”, dice. In base a quello che dice lui, l’arto gli è stato amputato perché il male non si fermava: “Mi avevano dato pochi mesi di vita”. Ed è così che si affida a Vicka, una delle veggenti più carismatiche di Medjugorje. Ivo le chiede di parlare del suo caso alla Madonna durante una delle sue apparizioni delle 17.40. “La Madonna tramite Vicka mi ha fatto sapere che sono un suo figlio prediletto e che sarei completamente guarito”, sostiene Ivo. Per lui il tumore sarebbe guarito e addirittura scomparso. Ma sarebbe successo un altro fatto straordinario: “Mi ricordo che Vicka ha preso la mia mano e mi ha fatto toccare la testa della Madonna. Al contatto ho sentito come una piccola scossa”. C’è un altro aspetto del tutto incredibile: “Subito dopo ricevo la mia gamba”. Questo racconto fa sorgere in Marialaura una curiosità: “Non credo assolutamente a questa cosa, ma vorrei sapere se lui crede che pelle, ossa e muscolo possano crescere così?”, gli chiede. “So cosa vuol dire non credere, anch’io ero come te. A molte cose non credevo, ma pregherò per te finché Dio ti darà la fede”. Topolina conserva il suo scetticismo e Paolo spinge per rientrare a Milano. La nostra missione Medjugorje volge al termine ed è il momento di fare un bilancio con i suoi protagonisti. “Ho fatto piccole cose dopo il ritorno a casa, erano 5 anni che non andavo a trovare mio padre al cimitero e ci sono andata. Ammetto che ho aperto la porta a questa entità”, ci dice Marialaura. “E poi quando ero sola ho pregato davanti alla statua della Madonna. Sono piccoli cambiamenti che per me sono grandi”. Dopo questo viaggio Marialaura conserva comunque il suo scetticismo. Oltre alle questioni di fede, ce n’è un'altra che rimane irrisolta attorno alla collina dove apparirebbe la Madonna, un fatto accaduto quasi 6 anni fa. Il 2 agosto 2015 poco dopo un’apparizione a una veggente è scomparso da lì padre Luciano Ciciarelli. Da quel giorno non si è più saputo nulla.

Lourdes.

Mario Giordano per la Verità il 4 aprile 2018. En marche. Con le sedie a rotelle. E le stampelle in spalla. Il presidente Emmanuel Macron mostra finalmente il volto nuovo dell'Europa solidale: infatti ha fermato i treni degli invalidi diretti a Lourdes. Sui binari francesi possono passare i convogli ad alta velocità, non quelli dell'Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali). Ma si capisce: che vogliono questi malati? La prossima volta imparino la lezione: anziché presentarsi con quelle bende bianche che non sono per nulla chic, si mettano un bel completo grigio di Yves Saint Laurent. Invece dell'acqua benedetta si facciano portare champagne. E quando alla frontiera qualcuno chiederà «dove state andando?», dimentichino la grotta della Vergine e rispondano a una voce: «A chiedere il miracolo a Bruxelles». Vedrete che Macron sarà molto più conciliante. Del resto lui è fatto così: moderno, elegante, alla moda, un figo che piace alla gente che piace, insomma, il simbolo europeo del bene: può forse mescolarsi con chi sta male? Le flebo, si sa, non s' intonano con le copertine di Vanity fair, i cerotti stridono con il bacio a Brigitte. E dunque basta con questi pellegrini che, pensate un po', aspirano a inginocchiarsi davanti alla Madonna. Anziché inginocchiarsi davanti ad Angela Merkel, come europeismo oblige. Voi pensate che stiamo esagerando? Macché. È stata proprio l'Unitalsi a denunciare il blocco dell'invalido alla frontiera di Mentone, la dura reazione di Parigi di fronte al pericoloso assalto delle Brigate Pannolone. Il tradizionale pellegrinaggio da Verona (quasi mille persone) doveva partire il giorno di Pasquetta. Ma, sapendo che ci sarebbero stati degli scioperi, gli organizzatori hanno anticipato tutto alla sera di Pasqua. «Così eviteremo l'intoppo», hanno pensato. Illusi. Lo spostamento organizzativo è stato inutile. Le Ferrovie francesi non hanno avuto pietà. Per salvaguardare la clientela più pregiata, hanno deciso di limitare comunque le corse sui binari francesi: avanti i treni ad alta velocità, fermi gli altri. Compresi i malati diretti a Lourdes. Che per poter giungere a destinazione sono stati obbligati a trasbordare su pullman, tre dei quali attrezzati per malati gravi. Un disagio, simile a una deportazione, che avrebbe irritato anche i partecipanti a una gita scolastica. «Ce l'abbiamo fatta», ha invece commentato con soddisfazione Raffaello Ferrari, presidente di Unitalsi Verona, «malgrado le molte difficoltà. C' è stata un po' di preoccupazione, ma poi tutto si è risolto». Nella splendida visione della nuova Europa di Macron, evidentemente, non c' è spazio per gli invalidi e tanto meno per le loro preghiere. Non è la prima volta, infatti, che si verificano disagi di questo genere. Al punto che i dirigenti dell'Unitalsi ora stanno pensando di abbandonare per sempre il tradizionale mezzo di trasporto su rotaia: troppi ostacoli, troppe discriminazioni. Una volta si andava a Lourdes sperando nel miracolo, adesso bisogna sperare nel miracolo per arrivarci. Non è esagerato? E così il presidente Macron potrebbe aggiungere al suo curriculum costruito in laboratorio un altro titolo di merito: da oltre 100 anni i treni Unitalsi solcano la Francia. Nessun altro è mai andato così vicino a eliminarli. En marche, ma non troppo. Un altro motivo per continuare a ammirare questo bell' esemplare di europeista à la page, non vi pare? Dopo aver chiuso le frontiere di Ventimiglia, trattando l'Italia come un'appendice dell'Africa, considerandola in pratica la succursale della Libia; dopo aver cercato di fregarci un pezzo di territorio nazionale con il gioco delle tre cartine; dopo averci dichiarato guerra sui cantieri navali e, da ultimo, dopo avere invaso bellamente i nostri confini senza chiedere permesso né scusa, adesso scatena l'offensiva finale contro i malati diretti a Lourdes. Ci resta soltanto che vieti agli studenti italiani di salire sulla tour Eiffel a meno che non accettino di scendere con il paracadute e che se la pigli con la Gioconda prendendola a scudisciate sulla pubblica piazza («così impara a sorridere meglio di me») e poi lo potremo definitivamente proclamare santo protettore della nuova Europa unita e solidale. Dalla grotta di Lourdes al grottesco di Macron, il miracolo è servito. E pazienza se i malati Unitalsi non ci potranno più sperare nella guarigione. Del resto loro, per quanto sofferenti, in tutta questa storia sembrano essere i più sani.

Da ansa.it il 3 settembre 2018. Si è spogliata nel santuario di Lourdes, rimanendo nuda con solo un velo azzurro sul capo e le spalle. Un gruppo di pellegrini ha cercato di coprirla e ha chiamato la polizia che l'ha fermata. Deborah de Robertis, artista franco-lussemburghese già nota per altre simili performance in musei di Parigi, sarà processata a maggio per "esibizionismo sessuale". Lo riferisce il Journal du Dimanche, precisando che la vicenda risale a venerdì. L'artista, 34 anni, ex membro delle Femen che la sostengono con un tweet, è già finita sul banco degli imputati in passato. Lo scorso anno posò nuda e a gambe aperte davanti alla Gioconda al Louvre: il tribunale di Parigi la condannò a 35 ore di lavoro socialmente utile per aver morso il braccio di un guardiano, ricorda anche il Jdd, ma fu assolta per il reato di esibizionismo. Nel 2014, De Robertis aveva posato senza veli anche al Musée d'Orsay e al Musée des Arts décoratifs. Anche il quel caso la donna fu prosciolta perché il giudice riconobbe il carattere artistico dei blitz. 

Manuela Tulli e Francesco Gerace per ansa.it il 23 novembre 2018. Più depressi e meno disabili, più carrozzelle motorizzate e meno accompagnatori, più voli charter e meno treni "bianchi", più pellegrini dall'Asia e meno dall'Europa. I miracoli più richiesti ai piedi della grotta? Un lavoro o la ricomposizione del matrimonio in frantumi. Si prega anche per liberarsi dal gioco d'azzardo o dal bullismo. Lourdes ha celebrato nel 2018 i suoi 160 anni: 70 i miracoli riconosciuti, alcuni milioni i pellegrini l'anno. Ma qualcosa è cambiato in questo secolo e mezzo. Viaggio nel santuario mariano che si difende dalle difficoltà economiche, dalle minacce del terrorismo ma soprattutto dalla crisi di fede. 

La metamorfosi

Alla grotta della Madonna il silenzio della preghiera è interrotto solo dai ‘bip’ delle carrozzelle per disabili automatizzate che fanno manovra per spostarsi. E’ questa la ‘fotografia’ del nuovo pellegrino di Lourdes: indipendente, tecnologico ma un po’ più solo. I disabili si muovono nel santuario con le loro vetture, i pellegrini scelgono il volo low-cost in solitaria piuttosto che l’affollata comitiva della parrocchia. Ma non è l’unico cambiamento: i pellegrini europei, e anche italiani, fa anni hanno dirottato i loro viaggi di fede altrove. Verso Medjugorje che è più economica. O verso Fatima che è più sicura. E allora oggi il santuario dei Pirenei parla asiatico con un afflusso senza precedenti di cristiani dall’India, dal Pakistan o dal Bangladesh. Anche i negozi della cittadina francese hanno insegne che vengono da lontano e che pian piano soppiantano gli antichi negozi dedicati a Padre Pio. Lo storico Hotel Amabassadeurs, uno dei più vicini alla Esplanade dove si svolgono le tradizionali processioni con le fiaccole, ha chiuso i battenti per passare ad un imprenditore asiatico. Dentro fervono i lavori per ristrutturare l’albergo a misura dei nuovi pellegrini. Ma i lavori di ristrutturazione sono in corso anche dentro le mura del santuario, alla Accueil, l’antica casa dei pellegrini che da oltre un secolo ospita chi si reca a pregare la Madonna. “Una volta c’erano gli stanzoni a dodici letti, poi abbiamo dimezzato le stanze che sono diventate a sei posti. Ma questo, oggi, non basta più e stiamo rifacendo ancora le stanze, che diventeranno a due o tre letti per dare alle persone e alle famiglie più privacy”, riferisce il Rettore del Santuario, padre Andres Cabes, spiegando che la crisi immobiliare e alberghiera oggi è legata anche all’eccessivo boom del passato. Tutti guardavano a Lourdes un po’ come la gallina dalle uova d’oro e sono sorti alberghi e negozi in una concentrazione che non ha pari in Francia. Non avevano fatto i conti con il terrorismo, la crisi economica e anche la crisi della fede. E ora gli alberghi a fine ottobre chiudono, quasi tutti, i battenti, per riaprire a Pasqua. Anche il santuario, con il calo dei pellegrini, ne ha risentito. Ad aggravare la situazione anche un paio di alluvioni, la più grave nel 2013, che hanno dissestato gli edifici più importanti e che hanno richiesto risorse per il loro ripristino. Gli introiti si aggirano intorno ai 20 milioni di euro l’anno ma ci sono 110 costruzioni da mantenere e 300 dipendenti ai quali dare lo stipendio ogni mese. Per questo nel 2017 è arrivato un ex manager della Renault, Guillaume de Vulpian. Il deficit da ripianare era di 2,8 milioni di euro. “La situazione finanziaria è in miglioramento”, si limita a rispondere il Rettore alla domanda se il ‘buco’ delle entrate sia stato ripianato. La strada scelta è stata quella di rinnovare il sito, dotarlo di wi-fi, proporre più cose commerciali, dai gadget in vendita in quella che una volta era solo una libreria ai ceri per le devozioni. Ma qualcuno storce il naso di fonte a questa strategia di marketing, molto 2.0 ma che poco ha a che fare con la fede, in una Lourdes diventata troppo tecnologica e un po’ più elitaria, dove anche le fontane per l’acqua (uno dei gesti più popolari dei pellegrini era riportare dal santuario l’acqua miracolosa) sono state nascoste. C’è anche il nodo delle richieste di offerte alle grandi organizzazioni, un ‘tot’ a pellegrino, perché basarsi sulla generosità spontanea non basta più. 

Le nuove patologie

Gli assistenti dei malati che si recano al santuario mariano di Lourdes, in Francia, si chiamano da sempre 'barellieri' ma a chiedere la grazia della guarigione, o semplicemente a fare una esperienza di fede sui Pirenei francesi, c'è sempre meno gente 'barellata', ovvero incapace di muoversi senza aiuto di altri. Si affacciano infatti nuove patologie, prima su tutti la depressione. Quasi tutti i malati hanno più di una malattia e uno su due è cardiopatico. Sono alcuni dei dati di una ricerca dell'Unitalsi che ha analizzato i dati pervenuti dai pellegrinaggi, nell'ultimo anno i malati che si sono recati nel santuario francese erano per il 54% affetti da malattie cardiovascolari, il 33% da malattie neurologiche, un altro 33% da malattie del tessuto connettivo e il 27% è affetto da malattie psichiatriche. "Il dato riguardante i disagi psichici è quello più nuovo, che deve fare riflettere, che richiama ancora di più il valore dell'accoglienza", spiega Federico Baiocco, responsabile nazionale dei medici che fanno volontariato nell'Unitalsi. La depressione colpisce anche le fasce giovanili: se nel complesso dei malati trasportati a Lourdes dalla organizzazione italiana solo l'8% ha meno di 34 anni, nel caso delle sole malattie legate alla psiche la percentuale degli under-34 sale al 12%. Quello del disagio psichico dei giovani è un tema che è all'attenzione non solo dei sanitari ma da qualche anno anche del volontariato cattolico. 

La grotta dei miracoli

Alessandro De Franciscis, medico con un passato da politico, è da dieci anni alla guida del Bureau des Constatations Medicales di Lourdes. E' l'ufficio, unico al mondo per un santuario cristiano, che riceve, accoglie, ascolta chi ha una storia di guarigione da raccontare, legata al suo pellegrinaggio al santuario mariano sui Pirenei francesi. Da lì parte l'iter che verifica in anni, "ma a Lourdes non abbiamo fretta", dice, e con accurate verifiche scientifiche, se una guarigione possa essere chiamata "miracolo". "Noi ci limitiamo a constatare se siamo di fronte ad una guarigione improvvisa, inattesa, completa, durevole e inspiegata secondo le nostre conoscenze mediche. Ma la scelta di dire se sia un miracolo o no spetta ad un vescovo, è una scelta pastorale", spiega il dottor De Franciscis. Ora "i dossier che procedono sono una dozzina", un paio di casi francesi, uno italiano, e tra le varie nazionalità anche gli Stati Uniti. Casi di guarigione che sono dunque sotto la lente del 'giudice'. "Ma io credo che qui vengano a raccontare le loro storie solo il dieci per cento delle persone che ritengono di avere ricevuto il dono della guarigione. Per non parlare delle patologie più diffuse, i tumori, che hanno dei precisi protocolli medici e in questi casi è veramente difficile arrivare a parlare di guarigioni inspiegate" e quindi di miracoli. Napoletano, un passato di politico, prima in Parlamento poi come Presidente della Provincia di Caserta, De Franciscis è il quindicesimo 'medico permanente' del Bureau Medical di Lourdes, il primo italiano. "Il primo non francese", precisa con un sorriso. Nella cittadina francese lo chiamano il 'dottore della Grotta'. Tutto cominciò con il suo primo pellegrinaggio, nel 1973, come barelliere dell'Unitalsi. Una esperienza che a lui, allora studente del liceo, cambiò la vita. La scelta di fare il medico, il pediatra, e allo stesso tempo il volontario nei viaggi della speranza. Ora la sua porta è sempre aperta: l'ufficio è nel bel mezzo di un corridoio. Chi passa per un saluto, chi per scambiare due chiacchiere; il telefono squilla in continuazione. Ma soprattutto ci sono quel centinaio di persone che ogni anno vengono dal medico italiano per raccontare la loro storia di fede e di guarigione. "Io ricevo e ascolto tutti, dando loro tutto il tempo di cui hanno bisogno". Ha tolto anche l'orologio dal polso per mettere a loro agio le persone che entrano qui per una esperienza che è fuori da ogni dimensione di tempo e spazio. "Certo, arriva di tutto. I millantatori? Sono un buon numero". Ma da qui sono passati anche 70 miracoli riconosciuti solennemente dalla Chiesa, l'ultimo dal vescovo di Bayonne lo scorso 11 febbraio e riguarda la guarigione di suor Bernadette Moriau. “Ma per favore – conclude – non chiamatemi ‘giudice’ dei miracoli, sono solo un testimone, grato di esserlo”. 

L’ultima miracolata

I flash dei fotografi non fanno per lei. Sorride ma si vede che non vede l'ora di andarsene. Anzi, con simpatia e franchezza, lo ammette: "Meno male che vado via presto, i fotografi, la televisione, i giornalisti..." e fa il gesto con le mani intorno alla testa come se questo fosse solo una grande confusione. Suor Bernardette Moriau è la settantesima persona in 160 anni, l'ultima in ordine di arrivo, per la quale è stato dichiarato ufficialmente dalla Chiesa che è stata guarita a Lourdes grazie ad un "miracolo". E' schiva, eviterebbe volentieri riflettori, "ma so che è importante raccontare la mia esperienza". Sessantanove anni compiuti il 23 settembre, decide di farsi suora a 19 nella congregazione delle Francescane Oblate, un ordine di infermiere ma a 27 anni i primi dolori per una sindrome di 'cauda equina' che si rivelerà invalidante. A luglio 2008 partecipa al pellegrinaggio a Lourdes della sua diocesi ma poi fa ritorno a casa "nelle stesse condizioni, anzi, forse con un po' più di stanchezza a causa del viaggio", dice. E' l'11 dello stesso mese di luglio quando nella cappella del suo convento prega: "In quel momento ho rivissuto quanto avevo sentito qualche giorno prima nella basilica di San Pio X a Lourdes, nella benedizione dei malati". Una sensazione di pace, libertà, e un invito che veniva da dentro a liberarsi dei corsetti e degli altri ausili. "Tutti i disturbi erano spariti" ma "io non avevo mai pregato per la mia guarigione", aggiunge spiegando che è stato "un dono". Alcune Testimonianze dei miracolati di Lourdes sono state raccolte in un libro di recente pubblicazione: “I misteri di Lourdes” di Filippo Anastasi (Effatà Editrice). Un viaggio dentro il mistero del miracolo che neanche chi lo vive ha ben chiaro. “Tante volte mi sono chiesta, e più che altro gli altri mi hanno chiesto, perché il Signore ha scelto te rispetto a tanti altri ammalati? E’ la domanda delle domande alla quale non so rispondere”, racconta al giornalista Elisa Aloi che, nell’annuario del Bureau, è la miracolata n. 61. Di Patti (Messina), nata nel 1931, è guarita da un ‘tumore bianco’, una tubercolosi osteo-articolare. “La cosa che conta – dice, tra le testimonianze raccolte nello stesso libro, un’altra ‘miracolata’. Delizia Cirolli, guarita da un sarcoma di Ewing – è cercare di vivere nella normalità – essere sé stessi”. Parla di pettegolezzi e di sacerdoti che la guardavano con scetticismo Danila Castelli, guarita, senza che nessun medico possa spiegare come, da un tumore endocrino devastante. 

L'odissea dei treni e i charter della fede

La storia di Lourdes è legata a quella dei ‘treni bianchi’, i convogli che sono degli ospedali viaggianti. Malati, medici e volontari da oltre un secolo condividono ore di viaggio, dall’Italia al Sud della Francia. Ma da qualche anno si scelgono altri mezzi: dai voli charter ai bus. Gli storici treni vivono una involuzione con la tabella di marcia che si allunga di anno in anno, invece che accorciarsi. Di recente preoccupazione per le sempre più difficoltose condizioni dei collegamenti ferroviari con Lourdes sono state espresse dal Cnpi (Coordinamento Nazionale Pellegrinaggi Italiani) che raggruppa le associazioni che organizzano viaggi religiosi per i malati e i loro parenti. "Tempi di viaggio paurosi, anche 10 ore più del previsto, fermate per ore e ore in stazioni secondarie francesi o in piena campagna transalpina sotto il sole cocente, aumenti costanti delle tariffe – denunciano gli organizzatori dei pellegrinaggi - mettono da anni a dura prova le organizzazioni dei viaggi, senza contare gli scioperi continui dei ferrovieri francesi con treni bloccati alla frontiera e rispediti indietro senza alcun rispetto delle persone che viaggiavano nel 2018. Tutto questo – fanno presente con rabbia – sulla pelle dei più deboli, i malati, persone sofferenti, spesso allettate, che escono una volta all'anno dai loro istituti e case e che sono costrette a vivere un autentico calvario". "Per capirsi negli Anni '80, ad esempio, da Milano si arrivava a Lourdes in 15 o 16 ore - racconta un volontario - oggi ce ne vogliono 24, come negli Anni '50". Come se non bastasse è ventilata anche l’ipotesi di un taglio dei convogli dei malati. Trenitalia però ha smentito assicurando “la propria volontà di proseguire nell'offerta di un servizio che, unica compagnia ferroviaria in Europa, gestisce con impegno da anni giovandosi di una flotta specificamente dedicata". Intanto, quest’anno, a causa anche di ondate di maltempo eccezionale, un ‘treno bianco’ partito da Roma, lo scorso ottobre, invece di arrivare a Lourdes è approdato nella stazione della ‘ville lumiere’. Proprio a Parigi, 830 chilometri a nord della cittadina mariana. Non era mai accaduto nella storia dei treni bianchi. "Fortunatamente è andato tutto benissimo. I pellegrini e i malati hanno capito la situazione ed è stata gestita molto tranquillamente", racconta uno dei volontari dell'Unitalsi che era bordo su quel treno, Maurizio Tassi. Il viaggio è durato 38 ore, oltre dieci in più di quelle che normalmente occorrono ad un 'treno bianco' per raggiungere Lourdes da Roma. "E pensare che invece in passato arrivavamo al santuario francese, partendo da Roma, con sole 18 ore", commenta. I treni sempre più lenti e la crisi dell'Alitalia, che aveva deciso di sospendere qualche anno fa i suoi collegamenti diretti con Lourdes, ha creato nuovi spazi. I viaggiatori della fede hanno cominciato a frequentare low-cost e charter. Ci sono anche compagnie, come la spagnola Albastar, che ha deciso di specializzarsi non solo offrendo i voli diretti ma anche formando il suo personale a bordo presso ospedali specializzati per la cura e l'assistenza di persone con mobilità ridotta.

Un futuro a sorpresa: i giovani

Nel corso del Sinodo sui giovani di ottobre in Vaticano sono state consegnate a Papa Francesco oltre 1.500 cartoline di giovani francesi che avevano partecipato a un incontro pre-sinodale a Lourdes, il santuario mariano sui Pirenei. "Sono stati diversi i mini-sinodi che si sono svolti qui, nella città mariana di Francia. Da qui sono nate tante proposte da consegnare ai vescovi in vista dell'incontro con i vescovi a Roma", riferisce padre André Cabes, rettore del santuario di Lourdes. "Aumentano i giovani pellegrini, di anno in anno sono sempre di più". Il santuario sui Pirenei da qualche anno sta infatti cambiando pelle: "I pellegrinaggi delle grandi organizzazioni sono in calo, aumenta invece la gente che viene da sola o in piccoli gruppi. Ma sorprendente è l'aumento dei giovani, cattolici ma anche non credenti, che vengono qui, ai piedi della Grotta in cerca di una risposta alle loro domande". "Ma la vera sorpresa di Lourdes - continua padre Cabes - è che i giovani hanno bisogno di esercitare la loro generosità. Tutti, nessuno escluso, abbiamo le nostre debolezze, i nostri handicap. Avere premura per i malati ci incoraggia". E' per questo che nei mesi scorsi, proprio in vista del Sinodo dei giovani voluto da Papa Francesco, sono stati oltre 10mila i ragazzi, calcolando solo i pellegrinaggi francesi, che si sono ritrovati a Lourdes per confrontarsi sull'evento, ma allo stesso tempo per assistere i malati. "Questa estate sono arrivati in tanti, mi ha colpito in particolare un gruppo che arrivava dalla periferia di Parigi, così contenti - ricorda il Rettore - di mostrare anche i simboli della fede, il rosario, la croce, di fare confusione per far sentire la loro gioia di credere" in un Paese in cui invece la religione è spesso ritenuta un fatto privato. Parlando di giovani e Chiesa, padre Cabes non si sottrae alle domande sulla piaga della pedofilia. Riferisce che nel santuario non ci sono mai stati casi ma che comunque si presta sempre più attenzione. Padre Cabes però crede che si possa superare questa situazione: "Qui a Lourdes sotto il fango Bernadette trovò l'acqua pura e io ritengo che potrà essere cosi anche per la Chiesa". Anche dall’Italia partono verso Lourdes tanti giovani: scout, volontari ma nel 2018 si sono mescolati ai pellegrini anche 250 ragazzi per l'alternanza scuola-lavoro. "Da quest'anno abbiamo dato il via a questa esperienza che si aggiunge a quella, già consolidata, del coinvolgimento dei giovani nel servizio civile presso la nostra organizzazione", spiega il presidente nazionale dell'Unitalsi, Antonio Diella. I 250 studenti hanno svolto un servizio presso le sezioni territoriali dell'associazione italiana che da oltre un secolo sostiene disabili, ammalati, anziani soli e famiglie in difficoltà. L'esperienza si è conclusa per tutti con un pellegrinaggio a Lourdes. Anche i giovani del servizio civile trascorrono un periodo a Lourdes, nel loro caso un intero anno, proprio per assistere le persone non autosufficienti. Tutti, prima del servizio, affrontano un periodo di formazione, con i medici per il primo soccorso e con gli psicologi per affrontare meglio il compito di accoglienza. Tra loro c'è Fabiana Macaluso, 21 anni, laureata in Scienza dell'educazione. "Non avevo mai provato un'esperienza del genere, completamente diversa dalla vita che facciamo tutti i giorni. Certo, stare accanto ai disabili e ammalati richiede pazienza, coraggio. Io, dopo nove mesi qui a Lourdes, ho ancora paura di sbagliare. Si dà tanto ma si riceve anche tanto", è la sua testimonianza. Giorgio Dragoni invece ha 20 anni, è di Teramo, e ha scelto il servizio civile non appena terminato le superiori.  "Facciamo soprattutto accoglienza. Le difficoltà ci sono ma io sono contento, affronto le giornate con serenità. Che è poi quello che noi giovani cerchiamo di trasmettere a chi viene qui ed è meno fortunato".

Serena Sartini per “Il Giornale” il 2 luglio 2020. Il primo pellegrinaggio online mondiale, anzi il primo e-pellegrinaggio, è ai nastri di partenza. A promuoverlo è il Santuario Internazionale di Lourdes che, per far fronte al buco economico di 8 milioni di euro e in seguito alle numerose cancellazioni dei pellegrinaggi, organizza «Lourdes United», il 16 luglio, anniversario della diciottesima e ultima apparizione della Madonna a Bernadette: una maratona di preghiera virtuale, accompagnata da una raccolta fondi. Il santuario alle pendici dei Pirenei lancia la sfida e invita i fedeli del Pianeta intero ad unirsi on line per un pellegrinaggio straordinario, una prima storica, che si terrà in diretta dalla Grotta delle Apparizioni, rimasta chiusa per quasi tre mesi. Quindici ore di diretta, 10 lingue rappresentate, celebrazioni, processioni, rosari, preghiere. Tutto in Rete, ma come se fosse un pellegrinaggio vero e proprio. «Quest' anno i pellegrinaggi a Lourdes sono stati tutti cancellati dice al Giornale il rettore del santuario, monsignor Olivier Ribadeau Dumas e per noi è molto importante riunire i pellegrini di tutto il mondo per un momento di preghiera comune, per riaccendere la speranza dopo il periodo del Covid. Sarà un pellegrinaggio spirituale che ha l'obiettivo di far vedere a tutti che Lourdes è un segno di pace, di fede e di speranza per il mondo intero». Dirette televisive, radio e social, con testimonianze di religiosi e laici, medici, giornalisti, politici, credenti e non, per raccontare cosa ha rappresentato Lourdes nella loro vita. Numerosi interventi anche sui temi della solidarietà, della fraternità, dell'impegno, del volontariato, si alterneranno alla messa in onda di reportage, video d'archivio, ma anche a musica dal vivo, che completerà la maratona di preghiera. Una giornata multiculturale e interreligiosa che «riunirà tutti coloro che, da ogni angolo del mondo, vedono Lourdes come un faro di fede, di condivisione e di speranza», si legge sul portale del santuario. In occasione del primo e-pellegrinaggio della storia, il santuario invocherà la generosità di tutti coloro che vogliono aiutare Lourdes a rinascere. Otto milioni di euro di perdita non sono pochi. «Per noi Lourdes United rappresenta anche un'occasione per chiedere a tutti di contribuire per far rinascere Lourdes che sta vivendo una crisi catastrofica. Si potrà donare sul sito del santuario o con sms dal telefono», spiega ancora il rettore Dumas. Chiuso da quasi tre mesi, per la prima volta nella sua storia, il Santuario è stato costretto a cancellare tutti i pellegrinaggi. E ora, nonostante la sua parziale riapertura, può accogliere un numero molto limitato di fedeli, secondo un rigoroso protocollo sanitario. «Circa 3mila fedeli sono una briciola in confronto a migliaia di pellegrini a cui eravamo abituati», conclude il rettore. Il Papa invierà un messaggio? «Verrà un cardinale a lui molto vicino, in rappresentanza del Pontefice e della Santa Sede», risponde Dumas, dando appuntamento al 16 luglio.

Maurizio Stefanini per “Libero Quotidiano” il 2 luglio 2020. Domanda: cosa hanno in comune un circo, un santuario, una pizza e un sistema di estrazione del petrolio? Semplice: il Covid li sta mandando in rovina tutti assieme. L'ultimo allarme arriva da Lourdes, che per la pandemia ha dovuto chiudere ai pellegrinaggi per la prima volta nella storia. E senza precedenti è appunto il buco che si è creato: ben 8 milioni di euro. E sì che appena lo scorso anno presentando il bilancio relativo al 2018 i responsabili del santuario avevano annunciato con orgoglio l'uscita da un "rosso" di 2 milioni - su un bilancio complessivo di circa 30 milioni. Adesso non solo lo sforzo è stato cancellato, ma il buco è quadruplicato. «Lourdes senza pellegrini è una Lourdes senza risorse per svolgere la sua missione, per mantenere l'intero sito, per garantire la sua durata e il lavoro dei suoi 320 dipendenti», è il tono dell'allarme. Per questo è stata lanciata una iniziativa senza precedenti: il pellegrinaggio online "Lourdes United", attraverso il quale il 16 luglio nell'anniversario dell'ultima apparizione della Madonna a Bernadette il santuario invocherà la generosità dei fedeli. in terra santa Non solo Lourdes si trova in questi guai, peraltro. Sempre sul fronte santuari, l'Ordine del Santo Sepolcro, del cardinale Fernando Filoni ha lanciato un appello per un Fondo straordinario, in modo da salvare dalla miseria le molte famiglie cristiane che in Terra Santa vivevano dell'indotto. E non solo sono i santuari. Una bancarotta controllata per salvare l'azienda è stata chiesta anche dal Cirque du Soleil, cui l'annullamenti di 44 spettacoli aveva creato un buco da 900 milioni di dollari. Oltre 100 volte più di Lourdes! Già a marzo «il più grande franchising del divertimento al mondo», come lo ha definito il New York Times, aveva dovuto licenziare 4000 dipendenti: il 95% del personale. Anche qui c'erano stati in realtà problemi pregressi, cui però il Covid ha dato una botta da ko. Forse non finale, nel senso che ai creditori sta venendo offerto in saldo il 45% di una nuova società da costituire. Se non funzionerà, sarebbe un finale triste per lo spettacolo che era stato creato 36 anni fa apposta con l'idea di liberare definitivamente il circo da un atavico alone di tristezza a base di pagliacci che devono ridere anche quando stanno soffrendo, acrobati dalla vita pericolosa, polemiche sull'uso degli animali. energia e cibO La bancarotta controllata è stata pure richiesta da Chesapeake Energy, che 22 anni fa era stata pioniera del fracking. Il sistema di pompare liquido per creare fratture nelle rocce in modo da estrarre petrolio o gas in giacimenti non convenzionali come quelli carboniferi o le rocce bituminose è stato contestato dagli ambientalisti, ma ha dallo scorso ottobre permesso agli Stati Uniti di ridiventare non solo autosufficiente ma esportatore di greggio per la prima volta dal 1948, Il fracking è però conveniente solo se i prezzi sono alti, e invece con l'arresto dell'economia mondiale sono crollati. Sede in Oklahoma, al suo apice contava su 175 impianti operativi, con operazioni in tutti gli Stati Uniti. Va detto che anch' essa aveva sbagliato nel fare investimenti ingenti con l'aspettativa che i prezzi sarebbero rimasti alti, e prima ancora che per il Covid aveva iniziato ad avere problemi per la guerra commerciale dell'Arabia Saudita, che ha buttato apposta sul mercato ingenti quantità di petrolio al costo di litigare con i soci Opec. Dopo 60 anni, per il Covid ha dichiarato bancarotta anche Pizza Hut: un colosso da 18.000 ristoranti in 100 Paesi, ma che soprattutto aveva contribuito a rendere la pizza popolare negli Usa. «Non scegliete noi solo per la pizza italiana ma per il nostro modo di essere, perché noi rendiamo felici le persone», era lo slogan. Con Pizza Hut chiuderà anche l'altra catena di ristoranti del gruppo: Wendy' s. Anche qui c'erano problemi pregressi, e in un deficit da un miliardo di dollari il Covid ha dato solo il toco finale.

Gianluca Veneziani per Libero Quotidiano il 24 agosto 2020. Ci vorrebbe un miracolo o un autunno della madonna per far riprendere Lourdes, una delle mete di pellegrinaggio cristiano più celebri al mondo, a dir poco azzoppata dall'emergenza Covid, che ha portato via fedeli, turisti, e quindi anche soldi, business e lavoro. È il paradosso di un luogo di culto dove da sempre ci si reca nella speranza di guarire dalle malattie; e che ora invece è stato disertato proprio per via di una malattia globale. I numeri rendono bene lo stato di sofferenza della cittadina francese, che in tempi normali è il secondo centro turistico di Francia e la seconda località transalpina per capienza alberghiera. Ogni anno, in questo paese di 14mila residenti, si recano in media circa 6 milioni di visitatori, tra pellegrini e turisti. Quest' anno invece, come fa notare Italia Oggi, dei 137 alberghi presenti in città solo 4 erano aperti a luglio. Anche il santuario, che durante il lockdown è stato costretto a chiudere i cancelli, ha i conti in rosso al punto che il suo rettore, mons. Olivier Ribadeau Dumas, stima un deficit di circa 8 milioni di euro. Il numero dei visitatori a sua volta rischia di essere molto più che dimezzato, se è vero che fino a metà maggio il flusso di pellegrini è stato nullo e anche ora il santuario può accogliere un numero limitatissimo di fedeli, in obbedienza a un rigoroso protocollo sanitario. Iniziative per attrarre di nuovo l'attenzione del mondo su Lourdes non sono mancate: il 16 luglio, ricorrenza dell'ultima apparizione della Vergine a Bernadette, il santuario ha ospitato un pellegrinaggio online mondiale con celebrazioni, processioni e rosari in 10 lingue. Ma le preghiere virtuali, si sa, possono far bene allo spirito di chi le pratica, molto meno alle casse del santuario e delle strutture ricettive del luogo. Qualche beneficio in più apporterà la ripresa dei pellegrinaggi a partire dall'Italia. Ha cominciato dal 14 al 17 agosto l'Oftal (Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes) che, come ricorda Vita.it, già nel 1947 fu la prima organizzazione di pellegrinaggi italiana a tornare al santuario dopo la seconda guerra mondiale. VOLONTARIATO Dal 18 agosto è stata poi la volta dell'Unitalsi che ha già fissato un dettagliato calendario di partenze fino all'8 dicembre, giorno di chiusura della stagione dei pellegrinaggi. Ma il contributo pure prezioso dei fedeli e lo sforzo delle associazioni di volontariato non bastano. Cosicché il rettore del santuario è stato costretto a chiedere direttamente l'aiuto dello Stato francese: «Il governo non può lasciare che Lourdes muoia. Sa che il motore dello sviluppo di Lourdes è il santuario. Quindi, lavoriamo insieme per adottare un'azione comune», ha detto mons. Ribadeau Dumas. Naturalmente la sua richiesta ha indignato i difensori della laicità in Francia, in cui la distinzione tra sfera temporale e sfera spirituale è molto più rigida che da noi. E sono malvisti favori di Stato a questa o a quella religione. Tuttavia i rappresentanti del governo francese, a cominciare dal presidente Emmanuel Macron, sanno bene che Lourdes non è soltanto fonte di consolazione fisica e metafisica per malati e credenti, ma è anche centro attrattivo di turismo e biglietto da visita della Francia nel mondo. E, in quanto tale, va incoraggiato e sostenuto, anche economicamente. Affinché ci si possa continuare a salvare anima e corpo nei pressi della Grotta, bisogna prima salvare Lourdes e risanarne i conti. D'altronde, i credenti avrebbero a loro volta un paio di moventi intimi per far tappa a Lourdes, a maggior ragione in questo periodo. Innanzitutto, al fine di scongiurare una nuova ondata di epidemia, una preghiera alla Vergine, davanti alla Grotta dove Ella apparve, non guasterebbe. La corona del rosario e un appello alla Madonna con la sua corona di stelle potrebbero essere una buona risorsa spirituale per fronteggiare il Corona. E poi, dopo aver chiesto tanti favori e miracoli alla Vergine, forse sarebbe il caso per loro di sdebitarsi, portando un po' di soldini nel suo santuario. Anche in tempo di Covid, insomma, Lourdes val bene un pellegrinaggio. 

Giulio De Santis per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 13 settembre 2021. Anziché destinare i soldi ai bisognosi per il pagamento dei pellegrinaggi a Lourdes, si sono appropriati dal 2009 fino al 2016 di un milione e 800mila euro dell'Unitalsi (Unione ammalati trasporto a Lourdes e santuari internazionali). Denaro utilizzato per comprare una villa in Sardegna e per pagare la governante. Con questa accusa la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per appropriazione indebita di Alessandro Pinna e Emanuele Trancalini, succedutisi alla guida come presidenti della sottosezione dell'associazione di Chiesa in via degli Embrici. Pinna ne è stato al vertice dal 2009 al 2015, per poi essere sostituito da Trancalini che è rimasto presidente nel biennio 2015-2016. Nel corso degli otto anni, i due, secondo l'accusa, hanno sempre programmato insieme ogni passo della depredazione dei conti dai bilanci della sottosezione. A fine 2016, l'Unitalsi - costituitasi parte civile attraverso gli avvocati Raffaele Bava e Roberto Afeltra - ha interrotto i rapporti con i due (ex) presidenti. Il «sacco», secondo la pm Mariarosaria Guglielmi, non si sarebbe realizzato senza l'apporto decisivo di tre collaboratrici di Pinna e Trancalini. Si tratta di Cristina Maddaluni e Elisa Rabatti, dipendenti della Unitalsi, mentre la terza imputata, Francesca Tommasi, è impiegata presso lo studio di commercialista di Pinna. Sono state loro in molti casi a incassare assegni dell'Unitalsi, per poi girare il denaro ai due principali imputati. Prima di procedere al racconto dell'inchiesta bisogna ricordare la centralità dell'Unitalsi nel mondo cattolico. L'associazione è, infatti, operativa dal 1903 e il suo statuto viene approvato dalla Cei (la Conferenza episcopale italiana). Semplice il sistema ideato per intascare i soldi, secondo l'informativa del nucleo investigativo dei carabinieri. Ogni mese sarebbero stati prelevati i soldi attraverso assegni intestati Unitalsi - se ne contano 1.251 in otto anni - i cui beneficiari sono stati i due ex presidenti o persone a loro vicine. Il capitolo più spinoso è l'acquisto della villa in Sardegna. Nel 2009 Trancalini e la moglie di Pinna stipulano un mutuo per comprare villa «Torre delle Stelle» nel comune di Sinnai. La cifra chiesta per l'immobile è di 430mila. Per saldare la compravendita, secondo l'accusa, i due avrebbero impiegato 205mila euro proveniente dalle casse dell'Unitalsi. La gestione della villa - per il pm - è stata affidata ad una signora, conosciuta dagli imputati durante un pellegrinaggio a Lourdes. La donna, ignara della provenienza del denaro, è stata retribuita con 37mila euro, sempre soldi dell'Unitalsi, per cucinare, stirare, lavare e tagliare l'erba del giardino. In numerose occasioni prima di partire per le vacanze in Sardegna, la «coppia» Pinna-Trancalini, secondo l'accusa, ha fatto ritirare dalle collaboratrici tra i duemila e i cinque mila euro ancora dai conti dell'Unitalsi. Oltre all'acquisito della casa in Sardegna, il denaro dai due principali imputati è stato utilizzato anche per stipulare una personale polizza vita. I soldi hanno infine ingrossato il portafoglio della moglie e quello delle sorelle di Pinna, nonché di tre suoi amici. Quest' ultimi ignari della provenienza del denaro, non essendo stati indagati. 

Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 27 settembre 2021. «Effettivamente Alessandro Pinna e Emanuele Trancalini avevano un tenore di vita molto alto. Oltre alla villa acquistata in Sardegna dove spesso si recavano per ferie estive, vestivano sempre con abiti firmati, avevano orologi di marca ed effettuavano viaggi in località esclusive come è successo più volte a Dubai e ai Caraibi». A riferire le impressioni «sul tenore di vita molto alto» tenuto dai due ex presidenti della sottosezione romana dell'Unitalsi (Unione trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali), è Cristiana Maddaluni, 50 anni, segretaria della divisione guidata tra il 2008 e il 2016 da Pinna e Trancalini. Entrambi sono accusati di essersi appropriati di un milione e ottocento mila euro sottraendoli alle casse dell'organizzazione. Soldi che avrebbero utilizzato, tra l'altro, per comprare una villa in Sardegna. È il 17 ottobre del 2018 il giorno in cui il Maddaluni esprime agli inquirenti le sue osservazioni e le sue valutazioni sul tenore di vita dei due ex presidenti. In quella data la signora è sentita come persona informata sui fatti. Solo in un secondo momento sarà imputata con l'accusa di riciclaggio per aver versato gli assegni intestati Unitalsi sul proprio conto, ritirandovi poi il denaro da girare a Pinna. Tra i soldi consegnati all'ex superiore, la Maddaluni sottolinea agli investigatori come alcuni prelievi siano avvenuti in un periodo dell'anno preciso: «In diverse occasioni il Pinna, spesso prima di partire per le ferie in Sardegna, mi faceva prendere del denaro contante dalla cassaforte della sottosezione, ammontante a seconda delle volte dai 2mila e 500 ai 5mila e 500 euro, per poi effettuare un bonifico sul conto corrente di Trancalini o a favore di una finanziaria per pagare un mutuo acceso dalla madre di Pinna». Perché la Maddaluni si è prestata a queste operazioni? «Effettuavo tutto quello che Pinna mi chiedeva in quanto avevo totale fiducia in lui avendomi aiutato nei momenti difficili della mia vita», ha spiegato la segretaria. Che, una volta indagata, ha scaricato l'ex presidente: «Ora ho capito che il senso di queste operazioni per Pinna era di appropriarsi dei soldi». I legami con i due ex presidenti la Maddaluni li ha chiusi: «Interrotti dopo il furto avvenuto nel 2017 nella sede della sottosezione dell'Unitalsi perché ho capito che mi stavo trovando, anche a causa loro, in una situazione di difficoltà». Il furto in via Embrici, il 20 marzo del 2017, è stato il giorno in cui ha cominciato a essere aperto il vaso di Pandora sulla gestione dei due ex presidenti. A processo Dario Fiorini, 52 anni, accusato di aver rubato 100mila euro. Dalle modalità del furto sembra che il ladro si sia mosso all'interno della sottosezione come se già sapesse dove andare. Le due inchieste - quella sul furto e quella sull'appropriazione - non sono collegate. Oggi si terrà l'udienza preliminare per decidere sul rinvio a giudizio dei due ex presidenti. Nella stessa udienza sono imputate per riciclaggio anche la Maddaluni, Francesca Tommasi ed Elisa Rabatti, tutte accusate di riciclaggio.

La banda dei miracoli. Report Rai PUNTATA DEL 25/10/2021 di Daniele Autieri collaborazione di Federico Marconi. Il 4 ottobre scorso il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma rinvia a giudizio quattro persone e ne condanna una quinta a poco meno di due anni di reclusione. Le accuse vanno dall’appropriazione indebita al riciclaggio, ma quello che più colpisce sono le vittime di questa vicenda: i malati, i pellegrini, i volontari, i fedeli di Lourdes, tutti quelli che,negli ultimi dieci anni, si sono affidati all’Unitalsi, la più importante associazione cattolica che da oltre un secolo organizza i viaggi dei malati nel Santuario francese. I principali accusati sono Alessandro Pinna e Emanuele Trancalini, per anni presidenti della sezione romana di Unitalsi, rinviati a giudizio per aver distratto dalle casse dell’Associazione quasi 2 milioni di euro, parte dei quali, secondo l'accusa, sarebbero stati riutilizzati per acquistare una villa in Sardegna, attraverso centinaia di assegni girati su conti correnti di amici, parenti, collaboratori e complici. Intorno ai due uomini emerge una rete di silenzi, tradimenti, connivenze e complicità: chi sapeva e non ha denunciato, chi ha tentato una mediazione invece di denunciare, e chi ha provato a nascondere l’intera vicenda per evitare che un nuovo scandalo colpisse un pilastro dell’associazionismo cattolico.

LA BANDA DEI MIRACOLI Report Rai di Daniele Autieri collaborazione di Federico Marconi immagini di Dario D’India, Alfredo Farina e Ahmed Bahaddou montaggio di Andrea Masella grafica di Michele Ventrone.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora passiamo a uno scandalo che sta turbando i sonni di un’importante associazione cattolica

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nella notte di Lourdes ogni candela accesa è un voto alla Madonna. Pellegrini e malati visitano la grotta dove Maria si è mostrata alla piccola Bernadette, e si immergono nelle acque gelate alla ricerca della grazia. Lourdes, un tempo la seconda meta turistica della Francia, di giorno si presenta con le serrande abbassate e le strade sono ancora deserte. Il Covid sembra aver rotto l’incantesimo della perla dei Pirenei e per chi vive qui il ritorno dei pellegrini è atteso come l’ultimo dei miracoli.

DANIELE AUTIERI Vedere Lourdes senza pellegrini che effetto fa?

GIOVANNI - COMMERCIANTE Chi come me ha visto le strade piene dove bisognava spostare la gente per passare fa una sensazione strana e triste.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A oggi sono 70 i miracoli riconosciuti dalla Chiesa. Il primo nel 1858, l’ultimo nel 2018. Alessandro De Franciscis viene da Caserta. È lui il primo medico non francese chiamato a guidare il Bureau des Constatations Médicales, l’ufficio incaricato di vagliare le guarigioni miracolose.

ALESSANDRO DE FRANCISCIS – CAPO BUREAU DES CONSTATATIONS MEDICALES Il vero miracolo di Lourdes non sono le 70 guarigioni miracolose. Lourdes è il luogo dove tu istintivamente impari a dare una mano all’altro. Questo è il miracolo di Lourdes.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il dottor De Franciscis è un membro dell’Unitalsi, l’Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali che dal 1903 organizza i treni bianchi, pellegrinaggi delle persone con disabilità, malate, anziane, bisognose di aiuto. Anche quest’anno l’associazione ha portato migliaia di persone al santuario. Tra loro c’è anche Teresa, arrivata in camper insieme a suo marito e ai suoi tre figli.

TERESA TRIVIGNO - PELLEGRINA Il bambino più grande, di circa 12 anni, ha fatto un sogno. Ha sognato… Mi ha detto: “Mamma ho sognato una santa, vestita di azzurro con un mantello bianco e mi ha detto: immergete… mettete Marisol in una scatolina, immergetela in quest’acqua”.

DANIELE AUTIERI Scusi, sua figlia che malattia ha?

TERESA TRIVIGNO - PELLEGRINA Marisol è affetta da una patologia genetica rara. Al di là della scelta di venire a Lourdes per chiedere magari una grazia, la forza per affrontare la quotidianità con tutte le problematiche annesse alla patologia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Teresa è arrivata in camper, ma c’è chi paga fino a 700 euro per arrivare a Lourdes. Ecco, si vola in genere con dei voli charter, perché adesso c’è il virus. Ma prima si arrivava con i treni bianchi, dei vagoni attrezzati per trasportare dei malati anche per 24 ore, tanto ci vuole per arrivare attraverso delle linee particolari a Lourdes. A organizzare i viaggi è un colosso dell’associazionismo cattolico, Unitalsi, da oltre 100 anni. Solo che oggi c’è chi avrebbe distratto milioni di euro per comprare ville in Sardegna, auto di lusso, elargire benefit ai familiari. Sono soldi dei pellegrini e dei volontari. E poi in questa storia si innesta anche un furto misterioso e un filmino a luci rosse.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora parliamo dei viaggi dei pellegrini a Lourdes. Da 100 anni e oltre li organizza una potente associazione cattolica: Unitalsi. Ai tempi d'oro riusciva anche a far viaggiare in un unico pellegrinaggio 24mila persone. E poi se ne svolge uno ogni mese. E ogni regione ha il suo. Perché sotto il grande ombrello di Unitalsi Nazionale, ci sono poi le sezioni regionali, le sottosezioni provinciali e quelle cittadine. In totale parliamo di circa 300, con 48.000 soci, 22.000 volontari e 50 dipendenti. Ecco, la sezione più influente e anche quella più ricca è quella di Roma. Che ha avuto a lungo come presidenti Alessandro Pinna ed Emanuele Trancalini. Ora gli inquirenti in questi anni li hanno accusati di appropriazione indebita. Avrebbero sottratto milioni di europer acquistare ville in Sardegna, auto di lusso ed elargire benefit alla famiglia. Ora come è possibile che tutto questo si sia svolto per lunghi sette anni nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse? Questa che racconteremo questa sera è una storia di tradimenti, di connivenze dove si innesta anche un misterioso furto in un caveau ed è spuntato anche un filmino a luci rosse. L’unico modo per raccontare questa storia è partire da quella grotta dove la madonna è apparsa a santa Bernadette e dove il silenzio vale più delle parole. Il nostro Daniele Autieri.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’ultima settimana di settembre si tiene a Lourdes il pellegrinaggio dell’Unitalsi. È il primo pellegrinaggio nazionale dopo il Covid guidato dal presidente nazionale Antonio Diella. Diella è un magistrato e dal santuario lancia un messaggio ai malati, dopo la notizia del rinvio a giudizio di alcuni componenti dell’associazione.

ANTONIO DIELLA - PRESIDENTE NAZIONALE UNITALSI Chi sceglie questa associazione sa e deve sapere sempre che questo è l’ordinario della nostra esperienza. E nessuna brutta notizia potrà fermare questa vita, perché questa vita non la può fermare nessuno, perché questa è la vita che dona Dio.

DANIELE AUTIERI Come vi ha colto sapere che era accaduto tutto questo?

GISELLA MOLINA – COMITATO DIRETTIVO UNITALSI Siamo rimasti increduli e sgomenti però come già abbiamo detto c’è veramente questo sentimento di certezza e piena fiducia nella magistratura e soprattutto di essere consci e consapevoli di quella che è l’opera che l’associazione praticamente svolge e i nostri 50mila soci svolgono quotidianamente sul nostro territorio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La prima a denunciare i misfatti della “banda dei miracoli” è una donna minuta, una dama che da oltre 30 anni presta il suo servizio per l’associazione. Insieme al suo tesoriere si accorge che i conti non tornano e il 20 marzo del 2018 bussa alla porta del Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma.

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI Avevo visto che c’erano delle irregolarità sulla prima nota, dei versamenti dei soldi dei pellegrinaggi.

DANIELE AUTIERI Quindi non corrispondevano…

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI No, non corrispondevano.

DANIELE AUTIERI Voi a un certo punto guardate sui conti e vedete che i soldi non ci sono?

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI No, mancavano i versamenti.

DANIELE AUTIERI Loro praticamente che facevano? Prendevano gli assegni intestati all’Unitalsi, se li giravano, li giravano ad altre persone e poi li incassavano?

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI Veniva versato il contante e poi gli assegni che venivano fatti venivano poi distribuiti sui vari conti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ed ecco i primi assegni che balzano agli occhi di Preziosa Terrinoni e del suo tesoriere. Assegni dai conti Unitalsi intestati a Pinna o a persone e società a lui vicine.

DANIELE AUTIERI Era durata a lungo questa cosa?

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI Beh, io quando me ne sono accorta…

DANIELE AUTIERI Che anno era?

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI 2016 esattamente sì.

DANIELE AUTIERI Ma voi avete cercato un confronto con loro?

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI Sì... DANIELE AUTIERI La giustificazione quale è stata?

PREZIOSA TERRINONI – PRESIDENTE SEZIONE LAZIO UNITALSI Che loro avevano sostenuto delle spese però poi altro non sapevano.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Pochi mesi dopo questo confronto, la sezione romana dell’UNITALSI guidata da Trancalini, e prima di lui da Pinna, subisce un furto anomalo, esattamente il giorno dopo la chiusura della giornata nazionale di vendita delle piantine nelle piazze, quando la cassaforte è gonfia di contanti. La prima persona che si accorge del furto si chiama Cristiana Maddaluni, un’ex segretaria dell’Unitalsi coinvolta nell’inchiesta e condannata a quasi due anni per riciclaggio dopo aver patteggiato la pena.

CRISTIANA MADDALUNI – EX SEGRETARIA UNITALSI La mattina dopo io alle 8,30 ho aperto l’ufficio. Entro in ufficio, vedo il cassetto mio aperto, però c’erano stati loro la sera prima e dico: “vedi?”! Vabbè, ho rimesso a posto e ho chiuso il cassetto. Vado nella stanza dove stava la cassaforte per prendere la cassa e la cassaforte era completamente divelta e lì ho alzato il telefono presa dal panico. E ho chiamato.

DANIELE AUTIERI E quanti soldi hanno portato via?

CRISTIANA MADDALUNI – EX SEGRETARIA UNITALSI Dai conti che mi ero fatta, intorno ai 100, 150mila euro.

DANIELE AUTIERI Lei non ha avuto alcun sospetto su questo furto, che fosse un furto un po’ anomalo?

CRISTIANA MADDALUNI – EX SEGRETARIA UNITALSI No, la prima domanda che mi sono fatta è stata: “ma tu dimmi te proprio nel giorno della chiusura degli ulivi”…

DANIELE AUTIERI Quando c’erano tutti questi soldi, no?

CRISTIANA MADDALUNI – EX-SEGRETARIA UNITALSI Sì. E ho detto: “c’è stata una soffiata”.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Quel furto avviene dopo che qualcuno si era già reso conto che i conti non tornavano. Ed ecco come ricostruisce quegli eventi un altro testimone di quella strana notte in via degli Embrici.

TESTIMONE UNITALSI Parallelamente a questo furto, ho scoperto anche una contabilità poco regolare. Però nel momento in cui tu sai che sei stato scoperto, cerchi di traccheggiare e mandare avanti e in questo mandare avanti succede un episodio di questo tipo…

DANIELE AUTIERI Perché voi lo avevate scoperto prima?

TESTIMONE UNITALSI Non ti nascondo Danie’ che prima del furto avevamo già notato qualcosa di strano, avevamo fatto presente a questi signori di Roma che c’era qualcosa che non andava, abbiamo informato il presidente nazionale il quale diciamo che a suo dire bisogna aspettare, bisognava vedere, bisognava verificare. Ci sono stati degli incontri con queste persone che comunque non hanno portato a niente. La paura è che in tutti questi anni se questo era un sistema che noi siamo riusciti a sollevare… da quanto andava in giro? Quante altre persone ci stanno in mezzo?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per il furto a via degli Embrici viene rinviato a giudizio solo un ladro professionista di nome Dario Fiorini. L’inchiesta sui fondi distratti all’associazione cammina invece parallela e i carabinieri scoprono che molti assegni intestati all’Unitalsi sono stati girati a persone vicine ad Alessandro Pinna: le sorelle, la madre, gli amici, le collaboratrici. Una di loro è la segretaria dello studio Pinna, oggi rinviata a giudizio per riciclaggio.

DANIELE AUTIERI Le contestano che lei abbia fatto da tramite per il versamento e poi il prelievo di alcuni assegni intestati a Unitalsi. È vero?

EX SEGRETARIA STUDIO PINNA Sì, io però ero solo una segretaria, per me Unitalsi era un cliente come un altro.

DANIELE AUTIERI Come funzionava? Pinna le dava un assegno, lo girava e le diceva: lo puoi incassare, prelevi e mi porti i contanti?

EX SEGRETARIA STUDIO PINNA Sì, nello specifico magari dovevo andare in banca per fare tutta una serie di cose e magari mi chiedeva, “puoi fare anche questo?”.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Torre delle Stelle è una piccola gemma nel paradiso di Villa Simius, a pochi chilometri da Cagliari. Il 23 dicembre del 2008 Pinna e Trancalini aprono un conto cointestato dove viene dirottata parte dei soldi dei malati di Lourdes. Soldi che servono per pagare un mutuo da 430mila euro, necessario per realizzare il loro sogno: comprare una villa in Sardegna. I soldi dell’Unitalsi non servono solo per pagare il mutuo, ma anche per saldare i compensi dei domestici della villa.

MARITO DI UNA COLLABORATRICE DOMESTICA Lei può immaginare, uno che va a fare pulizie non fa tante domande.

DANIELE AUTIERI Certo, quelli pagavano con assegni e finiva là.

MARITO DI UNA COLLABORATRICE DOMESTICA Magari le pulizie duravano un mese.

DANIELE AUTIERI Certo.

MARITO DI UNA COLLABORATRICE DOMESTICA Dopo che siamo andati dai carabinieri, che mi hanno chiamato, perché io non volevo rompimento d’anima da nessuno sinceramente… e basta

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nella villa in Sardegna c’è stata come ospite anche Cristiana Maddaluni, la dipendente che insieme a Francesca Tommasi si è prestata a cambiare gli assegni di Pinna. Lei è l’unica tra gli indagati che a processo ha ammesso la colpa e chiesto il patteggiamento.

DANIELE AUTIERI Pinna le dava degli assegni e le diceva di incassarli per lui…

CRISTIANA MADDALUNI – EX-SEGRETARIA UNITALSI Sì, mentre stavo magari sulla porta mi diceva: “senti poi fammi un favore: passi davanti alla banca, cambiami st’assegno al volo che così sabato e domenica se finisce la colla o la gomma piuma c’ho i contanti per andare da Leroy Merlin e prenderla.

DANIELE AUTIERI Quindi erano assegni intestati all’Unitalsi che lui girava a lei e lei andava alla sua banca…

CRISTIANA MADDALUNI – EX-SEGRETARIA UNITALSI Erano assegni dell’Unitalsi, quindi dal conto corrente dell’Unitalsi intestati a me; io versavo sul mio conto e li monetizzavo. A me era come se me lo chiedesse mio fratello.

DANIELE AUTIERI Lei non si è mai messa in tasca un euro…

CRISTIANA MADDALUNI – EX-SEGRETARIA UNITALSI Assolutamente no.

DANIELE AUTIERI Le manca Lourdes?

CRISTIANA MADDALUNI – EX-SEGRETARIA UNITALSI Da morire… ti prego…

DANIELE AUTIERI Va bene, cambiamo discorso…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel segreto di Lourdes tutti si chiedono come sia possibile che, per tanti anni, nessuno si sia accorto di niente. Anche perché, nella loro informativa, i carabinieri scrivono che “Pinna e Trancalini hanno architettato i continui passaggi di denaro tra conti al fine di sviare le pur blande e quantomeno “distratte” attività di verifica”.

VOLONTARIA UNITALSI Per me loro sono pesci piccoli e c’è il marcio dietro sopra. Perché appena tu versi loro sul conto prelevano subito quello che è pellegrinaggi, quote associative. Noi adesso siamo partiti; già ci hanno chiesto dal nazionale l’acconto di tutto il pellegrinaggio e quando torniamo dobbiamo fare il saldo.

DANIELE AUTIERI Quindi voi, comunque, siete controllati?

VOLONTARIA UNITALSI Altroché! Se io ho 120 soci loro mi prendono l’importo di 120 soci, se un socio, 20 soci, 100 soci non pagano ce li rimetto io. Quindi io mi chiedo: per sette anni com’è che a questa gente non avete chiesto questi versamenti?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I controlli ci sono ma non sono uguali per tutti. Mentre la Presidenza Dell’Unitalsi usava la mano di piuma con la sottosezione di Roma, ricorreva a quella di ferro nei confronti delle altre 300 sottosezioni e gruppi sparsi in tutta Italia. Un trattamento di favore che viene negato da Alessandro Pinna.

ALESSANDRO PINNA – EX PRESIDENTE SEZIONE ROMA UNITALSI Lei l’ha letta bene la denuncia? Che cosa dice?

DANIELE AUTIERI Che non corrispondevano.

ALESSANDRO PINNA – EX PRESIDENTE SEZIONE ROMA UNITALSI Poi che cosa dice? Poi Presidenza nazionale riversava…

 DANIELE AUTIERI Lei dice che lei anticipava e dopo…

ALESSANDRO PINNA – EX PRESIDENTE SEZIONE ROMA UNITALSI Sì, anticipavo e servivano anche per… ma nulla, neanche un centesimo è stato distratto. Neanche un centesimo. Il problema è che le invidie e le gelosie soprattutto in questo mondo di merda cattolico che è peggio di quello della politica… vabbè. Purtroppo qui ci sono un gruppetto di persone, e non faccio nomi figurati, che da sempre e poi soprattutto uno che sta un po’ in vista e ha la possibilità di replicare… Scusami ma, manco a Buscetta gli fanno un articolo al giorno, voglio dire… qualcuno che mi ferma mi dice: Alessa’, ma veramente?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Sotto lo sguardo della Madonna di Lourdes l’associazione si spacca in due: chi attacca gli accusati e chi preferisce tenere un profilo basso. È questa la linea del presidente Antonio Diella, un magistrato di lungo corso che oggi presiede una delle sezioni del tribunale di Bari.

DANIELE AUTIERI Viene da chiedersi come sia possibile che nessuno si sia fatto delle domande.

EX SEGRETARIA STUDIO PINNA Sì, esatto, tanto più che comunque l’Unitalsi continua a essere cliente. Quindi fa un po’ strano, ecco.

DANIELE AUTIERI L’Unitalsi era un cliente di Pinna? Figurava tra i clienti dello studio?

EX SEGRETARIA STUDIO PINNA Sì, figurava tra i clienti, pagavano gli F24. Sicuramente fino al luglio scorso.

DANIELE AUTIERI Quindi questo anche quando Pinna era sotto inchiesta diciamo, quando già gli venivano contestati questi reati di appropriazione indebita, l’Unitalsi era comunque cliente del suo studio?

EX SEGRETARIA STUDIO PINNA Sì, sì… continuava a essere cliente.

DANIELE AUTIERI Si fidavano di lui.

EX SEGRETARIA STUDIO PINNA Sì.

ALESSANDRO PINNA – EX PRESIDENTE SEZIONE ROMA UNITALSI Presidenza nazionale che ci fa fare le pratiche degli F24 tutti i mesi… io quello che vorrei… che dovrebbe anche il giudice…

 DANIELE AUTIERI Che se lo fai vuol dire che…

ALESSANDRO PINNA – EX PRESIDENTE SEZIONE ROMA UNITALSI Che sei deficiente? Tu mi hai rubato e poi mi fido di te? Eh, questo è! Perché Presidenza nazionale non ha mai? Che è l’unica autorizzata che approva i bilanci, che fa le cose a dirmi mai: c’è un problema?

DANIELE AUTIERI A me hanno detto, non so se è vero, che avevano provato una… avevano tentato di fare un accordo.

ALESSANDRO PINNA – EX PRESIDENTE SEZIONE ROMA UNITALSI Chi gliel’ha detto?

DANIELE AUTIERI Alcune persone del servizio Unitalsi, che lei avrebbe restituito dei soldi, una parte dei soldi e finiva là diciamo. Poi i regionali si sono opposti, hanno detto: no, dobbiamo denunciare.

ALESSANDRO PINNA – EX PRESIDENTE SEZIONE ROMA UNITALSI Se a lei hanno detto questo sarà così.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La Presidenza nazionale dell’Unitalsi smentisce di aver cercato un accordo con Pinna e Trancalini, senza però spiegare come sia stato possibile che nessuno, per anni, si sia accorto di nulla.

DANIELE AUTIERI Nel processo l’Associazione si costituisce parte civile. Perché?

GISELLA MOLINA – COMITATO DIRETTIVO UNITALSI Perché siamo praticamente parte lesa, nel senso che il maggiore danno l’ha subito l’associazione.

DANIELE AUTIERI Se è vero che sono stati sottratti quasi due milioni di euro in un po’ di anni con un sistema che sembra a quanto pare abbastanza oliato, non è strano che non ci si sia accorti di niente?

GISELLA MOLINA – COMITATO DIRETTIVO UNITALSI A questa non ti rispondo…

DANIELE AUTIERI Non mi rispondi?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’unico che potrebbe rispondere è il Presidente Diella. Lo incontriamo dopo che ha preferito evitarci per l’intera durata del pellegrinaggio.

DANIELE AUTIERI Presidente, presidente… sono Daniele Autieri di Report. La volevo giusto salutare perché domani…

ANTONIO DIELLA – PRESIDENTE UNITALSI NAZIONALE Grazie

DANIELE AUTIERI Ho sentito il suo discorso oggi… capisco che è una cosa che addolora. Io sinceramente mi sono chiesto solo come sia stato possibile che nessuno se ne fosse accorto?

ANTONIO DIELLA – PRESIDENTE UNITALSI NAZIONALE È una domanda anche per noi, ci stiamo riflettendo anche noi. D’altronde è partita da noi questa iniziativa.

DANIELE AUTIERI Vi state dando da fare per capire

ANTONIO DIELLA – PRESIDENTE UNITALSI NAZIONALE Sì sì però è partita da noi, già questo… insomma…

DANIELE AUTIERI Vuol dire molto ANTONIO DIELLA – PRESIDENTE UNITALSI NAZIONALE Vuol dire molto! Però mi fa piacere che le sia piaciuta Lourdes.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci sono piaciuti moltissimo soprattutto i volti puliti dei volontari che aiutano l’associazione. Ci è piaciuto un po’ meno invece sapere che la denuncia per questi fatti sia stata presentata da una sezione locale, non dalla presidenza nazionale Unitalsi, anche se aveva a capo un magistrato. Insomma Antonio Diella oggi è a capo di una delle sezioni del tribunale di Bari. Ma doveva fidarsi abbastanza di Alessandro Pinna, se è vero che anche dopo che è stato indagato ha lasciato che il suo studio si occupasse degli F24 di Unitalsi. È un pò se ci lascia l’espressione è come lasciare l'orso sul barattolo del miele. E poi potrebbe anche consumarsi un paradosso giudiziario: oggi Trancalini e Pinna sono accusati di appropriazione indebita, un reato che potrebbe prescriversi tra due anni. Mentre la segretaria che andava a cambiare gli assegni è accusata di riciclaggio. Un reato che si prescrive molto più a lungo. Potrebbe cioè rimanere alla sbarra colei che non ha toccato un euro in questa vicenda. E poi sorprende anche il fatto che per distrarre i soldi Pinna avrebbe utilizzato gli assegni. Insomma, è in buonafede? O è talmente sprovveduto da non sapere che gli assegni lasciano traccia, oppure era certo di godere di una certa impunità? E secondo gli inquirenti il reato lo avrebbe anche replicato quando è stato a capo di alcune associazioni. Avrebbe anche sporcato un progetto molto bello, quello di aiutare i genitori dei bambini malati di tumore, e anche quello quando è stato presidente di un’associazione che avrebbe dovuto recuperare dei detenuti. E qui spunta un filmino a luci rosse.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Progetto Bambini, oggi progetto dei Piccoli, viene creato nel 2012 dal presidente dell’Unitalsi Antonio Diella e finanziato direttamente dalla Presidenza Nazionale.

CARMEN TREPICCIONE – DIPENDENTE UNITALSI Il progetto dei piccoli è un progetto di carità assoluta perché noi in Italia abbiamo delle case di accoglienza dove ospitiamo dei bambini che sono ammalati dal punto di vista oncologico e che hanno bisogno di essere vicini ai luoghi pediatrici di eccellenza.

 DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Pinna e Trancalini erano i responsabili nazionali del Progetto Bambini e sfruttando la loro posizione dominante si sarebbero appropriati di 1,2 milioni di euro dai conti del Progetto, alimentati dalle casse di Unitalsi. Il meccanismo è sempre lo stesso: assegni intestati ad amici e parenti, poi trasformati in contanti. Lo stesso accade con un’altra associazione di cui Pinna è presidente fino al 2020: l’Isola Solidale, una struttura in grado di ospitare 40 detenuti che devono scontare le misure alternative per il fine pena, oggi diretta dal compagno della sorella di Pinna. Attraversi Pinna i soldi dell’Unitalsi finiscono anche all’Isola Solidale che in questi anni non avrebbe neanche pagato l’affitto dei terreni di proprietà della Fondazione Opera del Divino Redentore.

DANIELE AUTIERI Lui vi ha mai pagato l’affitto?

GIUSEPPE MARINO - AVVOCATO OPERA DIVINO REDENTORE Mai! L’affitto c’è stato un tentativo di pagamento soltanto lo scorso anno a novembre, quando c’era già odore di richiesta di sfratto da parte nostra.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’Isola Solidale svolge le sue attività su un terreno di 32mila metri quadrati e dal 2016 avrebbe dovuto pagare alla Fondazione un affitto irrisorio di mille euro all’anno. Non solo non pagano, ma trovano anche il modo di guadagnarci.

DANIELE AUTIERI L’Isola Solidale non si limita a non pagarvi l’affitto, fa qualcosa di più, cioè subaffitta una porzione di quel terreno.

GIUSEPPE MARINO - AVVOCATO OPERA DIVINO REDENTORE Il subaffitto non gli era vietato. Però l’articolo 7 prevedeva la preventiva autorizzazione della Fondazione che non è mai stata né richiesta né rilasciata.

DANIELE AUTIERI Siete in grado di calcolare quanto incassa l’Isola Solidale per le sublocazioni?

GIUSEPPE MARINO - AVVOCATO OPERA DIVINO REDENTORE Abbiamo appurato che solo da una società che occupava metà della struttura percepiva 10mila euro al mese.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Insomma, nella gestione dei terreni, la Onlus Isola Solidale guidata da Pinna è stata solidale soprattutto con sé stessa. A questo però si aggiunge un altro episodio che riguarda personalmente Alessandro Pinna nel suo ruolo di presidente dell’Isola e di garante del recupero dei detenuti stessi. DANIELE AUTIERI A voi arriva una lettera anonima, giusto?

GIUSEPPE MARINO - AVVOCATO OPERA DIVINO REDENTORE Certamente, alla sede legale della Fondazione arriva questa lettera

DANIELE AUTIERI Che c’era scritto?

GIUSEPPE MARINO - AVVOCATO OPERA DIVINO REDENTORE Conteneva un esposto anonimo anche di contenuto molto forte, oserei dire anche imbarazzante, che narrava di vicende immorali che venivano, che si sviluppavano all’interno dell’Isola Solidale. Un esposto così granitico ci ha imposto di depositarlo in Procura della Repubblica a Roma.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ma alla Fondazione, dopo la lettera anonima arriva anche un video che ritrae Alessandro Pinna in atteggiamenti intimi con uno dei detenuti che avrebbe dovuto fare un percorso di recupero.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È superfluo sottolineare che noi di Report non ficchiamo il naso nella vita privata altrui. Tuttavia questo non è un fatto privato: ci troviamo davanti a un presidente di un’associazione che deve valutare il percorso di recupero dei detenuti e con uno dei detenuti ha una relazione. E il giudizio di Pinna peserà sulle decisioni del magistrato di sorveglianza. È un giudizio obiettivo? Inoltre, quel filmato che è stato registrato a sua insaputa, lo rende ricattabile da parte di altri ospiti della struttura? Poi c’è anche un’aggravante: che Pinna da presidente dell’Isola Solidale ha utilizzato la associazione per recuperare i detenuti per sottrarre soldi all’Unitalsi. Insomma il destino, adesso la palla di tutta questa vicenda è in mano alla magistratura. Ma anche a quella che è l’unica vittima di questa vicenda: Unitalsi. Che è un patrimonio assoluto del nostro paese. Quello che grazie ai volontari si replica nel tempo: quel miracolo di Lourdes, quello di chi tende la mano a chi è in difficoltà.

·                        Comunione e Liberazione.

 

La strategia del Papa. Cosa c’è dietro il terremoto in Comunione e Liberazione, dopo Bose le comunità messe alla prova. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 17 Novembre 2021. Cosa significano le dimissioni di don Julian Carron da Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione (Cl)? Apparentemente la decisione rispetta un decreto del Dicastero Laici Famiglia e Vita che da qualche mese ha introdotto il limite di due mandati per i presidenti delle associazioni e dei movimenti cattolici. In realtà è il segnale di un fenomeno più ampio di cui al momento si vedono alcuni contorni e dobbiamo analizzarlo per capire dove porterà. Come sappiamo, Papa Francesco ama dire che il suo compito è “avviare processi” di cambiamento. In questo caso il decreto del giugno 2021 ha innescato un profondo cambiamento, è arrivato a segnare la data di inizio di una vera e propria rivoluzione. Il contesto è facile da comprendere. Il Dicastero vaticano per i Laici Famiglia Vita, che vigila su 120 tra movimenti e associazioni cattoliche, ha stabilito – con la specifica approvazione di Papa Francesco – un limite di due mandati quinquennali, per i presidenti. Contestualmente sono stati fissati 24 mesi di tempo per la prima applicazione della norma. Bruciando i tempi, che scadono nel 2023, il successore di don Giussani alla guida di Cl si è dimesso subito. Gli aspetti da rilevare sono almeno due, uno relativo a Cl e l’altro più generale sulla vasta galassia di quello che si chiama il laicato cattolico. Per quanto riguarda Cl l’arrivo di Carron nel 2005, primo e immediato successore di don Giussani, fondatore di Cl, ha segnato un certo cambio di rotta. Con Giussani, Cl ha avuto periodi di contiguità con la politica partitica, con l’elezione in posti di responsabilità di alcuni esponenti (valga per tutti l’esempio di Formigoni) e con una visibilità spesso molto discussa quando qualcuno finiva nel mirino della magistratura. Dal 2005 in poi, con don Carron, inizia un progressivo sganciamento dalla politica attiva, per ritornare alle origini di una formazione civica e spirituale, e non mancano incidenti di percorso quando emergono situazioni opache. Le stesse che hanno portato Papa Francesco, a settembre, a decidere per il “commissariamento” dei Memores Domini, l’associazione laicale di Comunione e Liberazione i cui aderenti si impegnano a praticare castità, povertà e obbedienza e spesso vivono secondo uno stile monastico. Il Papa due mesi fa ha azzerato i vertici e nominato come suo «delegato speciale» monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, e a suo tempo discepolo di don Giussani. E qui si innesta il secondo aspetto, di più vasta portata. In questione non è solo Cl o Memores Domini. È in atto un vasto sommovimento che sta portando alla luce episodi oscuri proprio all’interno di associazioni e movimenti, soprattutto quelli nati negli anni seguenti al Concilio Vaticano II. In Francia Jean Vanier e la sua associazione per i poveri – L’Arché – è stata messa sotto indagine per abusi sessuali e di potere commessi all’ombra del fondatore o da lui stesso. E stiamo parlando di un movimento internazionale diffuso in 37 paesi e fondato nel 1964. Sempre in Francia diverse associazioni avviate da sacerdoti, approvate da vescovi, seguite da tantissimi laici, sono salite alla ribalta delle cronache giudiziarie per le medesime accuse. Su Il Riformista ne avevo parlato ad aprile presentando un libro molto documentato e dettagliato, della giornalista Céline Hoyeau, intitolato La Trahison des Pères. Libro che parla di una categoria particolare di “abusatori”: non “semplici” sacerdoti, ma sacerdoti con la caratteristica specifica di essere o essere stati fondatori di comunità religiose o consulenti dei fondatori stessi. Si tratta di gruppi formati da aderenti sia uomini che donne – dunque abusi nei confronti degli uni e delle altre – che appartengono a quelle che dopo il Vaticano II si sono definite le “nuove comunità religiose”. Termine con cui si identificano le esperienze di vita religiosa avviate negli anni precedenti e successivi al Concilio Vaticano II, in cui sembrava che le “tradizionali” congregazioni e ordini religiosi avessero spento la loro forza propulsiva. Per l’Italia, negli ultimi due anni, è esemplificativa di questo percorso problematico la vicenda della Comunità di Bose. Però il terremoto della trasparenza sta facendo venire allo scoperto situazioni difficili e diffuse, come ad esempio all’interno del movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich e che conta due milioni di aderenti e una miriade di sigle e settori che investono la vita sociale e produttiva in senso ampio. Le testimonianze e le difficoltà che vive il movimento dei Focolari sono ora raccolte in un ampio e documentato volume di Ferruccio Pinotti (La setta divina, Piemme) dove vengono alla luce gli abusi di potere, il fanatismo, la sottrazione di beni personali, soprattutto i retroscena oscuri di un impero economico e spirituale e le coperture di cui gode tra cardinali, arcivescovi e vescovi. Come è possibile il ripetersi di tali situazioni? Il motivo “teologico” va cercato nella confusione tra “foro interno” e “foro esterno”, come spesso ha fatto notare Papa Francesco. Cioè stiamo parlando di quel sistema di potere e di controllo individuale basato sul fatto che le informazioni personali acquisite attraverso la confessione, vengono usate dai responsabili di associazioni e movimenti per dirigere la vita degli aderenti, di cui conoscono i pensieri più profondi e le difficoltà più intime. Con l’introduzione del mandato rinnovabile non più di una volta, si introduce un elemento correttivo. O almeno così spera papa Francesco. Ora si vedrà se la nuova norma verrà rispettata oppure se le eccezioni saranno più numerose della regola. Per la Chiesa le eccezioni non fanno problema. Nelle congregazioni religiose, soprattutto femminili, in molti casi la superiora generale veniva rieletta molte volte (spesso in passato, un po’ meno oggi), per decenni di seguito, in barba agli statuti, grazie a deroghe prontamente richieste e concesse. Mentre le congregazioni religiose sono realtà strutturate e solide, associazioni e movimenti sono di natura più “liquida”, soprattutto quelli nati dopo il Concilio che ora attraversano la prova della seconda generazione. Qui infatti si apre un problema di “tenuta”: saranno capaci di resistere una volta che il “fondatore” non è più in vita oppure si ritira per questioni legate all’età? La Chiesa di papa Francesco vuole introdurre dei criteri di trasparenza gestionale e funzionale. Allo stesso tempo sottopone tutta la Chiesa a uno “stress-test” di ampia portata. E al momento nessuno può dire come andrà a finire.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Gian Guido Vecchi per "corriere.it" il 25 settembre 2021. Un anno e mezzo fa il Papa nominò un suo «delegato», il confratello gesuita Gianfranco Ghirlanda, già rettore della Gregoriana, per «accompagnare» la «riforma dello statuto» e «la modifica di alcune norme del direttorio», come aveva chiesto invano due anni prima. Non è successo nulla, evidentemente ci sono state delle resistenze interne. E così Francesco ha deciso il commissariamento dei «Memores Domini», l’associazione laicale di Comunione e liberazione i cui membri si impegnano a praticare castità, povertà e obbedienza e spesso vivono nelle «case» del movimento in stile monastico: delle 1.600 persone hanno fatto questa scelta in 32 Paesi del mondo, soprattutto donne, le più conosciute sono le Memores che da anni vivono accanto e aiutano Benedetto XVI, tra gli altri ne ha fatto parte anche Roberto Formigoni. Nel comunicato della Santa Sede, si dice che «il Santo Padre Francesco, avendo a cuore l’esperienza dei Memores Domini e riconoscendone nel carisma una manifestazione della grazia di Dio, ha disposto un cambiamento nella conduzione dell’associazione». Il Papa ha azzerato i vertici e nominato come suo «delegato speciale» monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che conosce bene Comunione e Liberazione: è cresciuto nel movimento e nell’84 fu mandato dal fondatore, don Luigi Giussani, come missionario in Brasile, fino a diventare, dall’88 al ‘96, responsabile del movimento in America Latina. Ora monsignor Santoro «assumerà temporaneamente, ad nutum della Sede Apostolica, con pieni poteri, il governo dell’Associazione, al fine di custodirne il carisma e preservare l’unità dei membri», spiega la Santa Sede: «Simultaneamente, decade l’attuale governo generale dell’associazione». Nel frattempo, padre Ghirlanda è stato nominato «assistente pontificio per le questioni canoniche relative alla medesima associazione». La Santa Sede, nel chiedere la revisione degli Statuti, aveva detto di «aver ricevuto segnalazioni da parte di membri» dell’associazione e messo in guardia dal «rischio dell’autoreferenzialità» e quindi di chiusura, come spesso accade nei movimenti. Si parlava di «contestazioni in tema di libertà personale, di diritto alla riservatezza» e «più in generale» di «buon governo». In più c’era un problema di conduzione: il presidente della Fraternità di Cl, don Julián Carrón, ha ereditato gli incarichi del fondatore e quindi si trovava ad essere anche il consigliere ecclesiastico dell’associazione laicale, finora guidata da Antonella Frongillo. Insomma, il Vaticano voleva modificare una serie di «disposizioni che pregiudicano la necessaria distinzione tra ambito di governo dell’associazione e ambito della coscienza dei suoi membri». In questi anni, sotto la guida di Carrón e il pontificato di Francesco, Comunione e Liberazione, non senza conflitti interni, ha assunto un profilo sempre più spirituale e meno politico. Ora i Memores Domini dovranno cambiare, nel senso indicato da Francesco a Cl il 7 marzo 2015: «Fedeltà alla tradizione significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri» 

 (ANSA il 23 novembre 2021) - Con una lettera, inviata a tutti i membri della Fraternità di Cl, la Diaconia centrale della Fraternità di Comunione e Liberazione esprime "una gratitudine senza confine per quello che ha rappresentato in questi anni" a don Julian Carron dimessosi in ottemperanza alle direttive del Decreto vaticano che disciplina l'esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli. La stessa Diaconia - riferisce il Sir - si è riunita sabato scorso per prendere atto delle dimissioni e per l'affronto di alcune tematiche relative alla vita della Fraternità, fra cui una prima condivisione della bozza di revisione dello Statuto. "Da presidente della Fraternità - si legge nel testo - ci ha accompagnato a immedesimarci con l'esperienza viva di don Giussani e con il suo metodo di educazione alla fede - che la Chiesa ha riconosciuto come strada alla santità -, vivendo 'una obbedienza di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siamo stati consegnati' (J. Ratzinger)". Ricordando l'insegnamento di don Giussani, la Diaconia ribadisce di voler "accogliere fino in fondo l'invito contenuto nella lettera di don Carron: vivere questa circostanza come occasione di crescita della nostra autocoscienza ecclesiale. Domandiamo allo Spirito Santo di rinnovare in noi l'esperienza della grazia del carisma che ci ha investito attirandoci a Cristo, dentro la vita della Chiesa nostra madre e seguendo Pietro, per essere collaboratori attivi della volontà del Padre all'opera nell'oggi della storia". 

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 23 novembre 2021. La «Diaconia centrale» di Comunione e Liberazione, l'organo di governo della Fraternità, si è riunita ieri a Milano «per prendere atto delle dimissioni irrevocabili del presidente, don Julián Carrón», ma non ha potuto eleggere il successore perché il vicepresidente, Davide Prosperi, ha informato «di essere stato convocato dal Dicastero per i Laici per un colloquio nei prossimi giorni». Su Cl, insomma, è intervenuto di nuovo il Vaticano, anche perché si tratta di risolvere il groviglio giuridico nato con le dimissioni anticipate di Carrón, lunedì scorso. Ora si tratta di capire se si troverà una soluzione oppure se la Fraternità rischia il commissariamento come già accaduto al ramo dei «Memores Domini». Da giorni i responsabili di Cl ne discutevano: e adesso che si fa? Perché, prima ancora di pensare al nome del successore di Carrón, si trattava di capire come si potrebbe nominarlo, o nominarla: lo statuto di Cl non pone vincoli, non dev' essere per forza un sacerdote, anche un laico o una laica possono guidare il movimento. Di per sé, però, lo statuto non prevede le dimissioni del presidente. E in ogni caso lo statuto andrà rivisto, e sottoposto al Dicastero della Santa Sede, perché sia coerente con le disposizioni del decreto approvato da Francesco che l'11 giugno ha imposto un limite al governo di tutte le associazioni internazionali di fedeli laici: non più di cinque anni di mandato e al massimo dieci anni consecutivi. Per questo don Carrón, che era stato indicato dal fondatore don Luigi Giussani e guidava la Fraternità dal 2005, si è dimesso. Ma questo ha creato un problema giuridico che Cl dovrà risolvere col Vaticano. Secondo il decreto, la Fraternità dovrà definire un nuovo Statuto, sottoporlo alla valutazione della Santa Sede e, ottenuta l'approvazione, eleggere il presidente. «Un lavoro di mesi se non di oltre un anno», si riflette in Cl. E nel frattempo? Può la Fraternità restare senza un presidente? E la Diaconia, una trentina di persone, avrebbe il potere di eleggerlo anche «pro tempore»? Oppure gli organi di governo, dimesso il presidente, decadono? Si attende l'incontro in Vaticano, Cl scrive: «La deliberazione circa la carica di Presidente è stata rinviata a una nuova riunione della Diaconia che si svolgerà immediatamente dopo il colloquio».

·        I Vizi Capitali.

Estratto dell'articolo di Gian Guido Vecchi per il "Corriere della Sera" il 7 dicembre 2021. Il volo A34994 da Atene è decollato da mezz' ora quando Papa Francesco arriva in fondo all'aereo e risponde alle domande dei giornalisti che lo hanno seguito nei cinque giorni di viaggio tra Cipro e la Grecia. 

Santità, perché ha accettato la rinuncia dell'arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit?

«Io mi domando: ma cosa ha fatto di così grave da dover dare le dimissioni? Qualcuno lo sa? È stato condannato? E chi lo ha condannato? L'opinione pubblica, il chiacchiericcio...È stata una sua mancanza, contro il sesto comandamento, ma non totale. Le piccole carezze, i massaggi che faceva alla segretaria, così sta la cosa... E questo è un peccato, ma non è dei peccati più gravi. I più gravi sono quelli che hanno più "angelicalità" (hanno più a che fare con lo spirito, ndr), la superbia, l'odio... I peccati della carne non sono i più gravi. Così Aupetit è un peccatore come lo sono io, come è stato Pietro, il vescovo su cui Gesù ha fondato la Chiesa. Come mai la comunità del tempo aveva accettato un vescovo peccatore, che aveva rinnegato Cristo? Perché era una Chiesa normale, abituata a sentirsi peccatrice sempre, tutti, una Chiesa umile. Si vede che la nostra Chiesa non è abituata ad avere un vescovo peccatore, facciamo finta a dire: è un santo il mio vescovo, con questo cappelluccio rosso... No, tutti siamo peccatori. Ma il chiacchiericcio cresce e toglie la fama e un uomo al quale hanno tolto la fama così non può governare. Questa è una ingiustizia. Per questo ho accettato la rinuncia di Aupetit: non sull'altare della verità, ma sull'altare dell'ipocrisia». […]

Luigi Accattoli per il "Corriere della Sera" il 7 dicembre 2021. «I peccati della carne non sono i più gravi» diceva ieri Francesco sull'aereo: il popolo l'ha sempre saputo e ci sono pure i proverbi ad attestarlo. I moralisti tuttavia fino a ieri alzavano la voce e sostenevano che il peccato di sesso è sempre grave. Da qualche tempo le classifiche sono state riviste ma Francesco è il primo a dirlo da Papa. Non è tuttavia la prima volta che lo dice e mettendo insieme i suoi accenni in materia si ottengono indicazioni su quali siano, per lui, i peccati più gravi. Ieri ha detto la superbia e l'odio. Un'altra volta aveva accennato alla vanità. Tante volte ha indicato come gravissimi il commercio delle armi, le guerre, la tratta degli esseri umani, l'appartenenza alle mafie. Una volta ha detto che la pedofilia è un sacrilegio. Quanto alla gravità del peccato sessuale in un'occasione Francesco era giunto a rovesciare la classifica tradizionale dicendo a Dominique Wolton (nel volume Dio è un poeta , pagina 154) che «i peccati più lievi sono quelli della carne». In ciò avvicinandosi a Miguel de Unamuno che nella Vita di Don Chisciotte e di Sancho (1905) affermava della prostituta Maritornes che «si può dire a stento che pecchi». De Unamuno a sua volta seguiva il popolo, che ha sempre tenuto conto della debolezza della carne. «Pecài de mona Dio li perdona, pecài de pantaeòn pronta assoiussiòn»: asserisce un proverbio veneto che non fa differenze tra i peccatori maschi e femmine e tutti li vuole assolti. La paura del sesso è stata forte nelle Chiese cristiane degli ultimi secoli. Ma non fu sempre così. Dante mette i lussuriosi nel secondo girone dell'Inferno, subito dopo il limbo: cioè considera peggiori tutti gli altri peccati. Questo il suo ordine di gravità: golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi, eretici, violenti, fraudolenti, traditori. Dunque possiamo dire che con Francesco torniamo a Dante, ovvero alla Scolastica, a Tommaso d'Aquino. La voce grossa contro la sessualità - per quanto riguarda la Chiesa Cattolica - l'ha fatta la manualistica per confessori, che per secoli ha affermato come nelle cose dell'amore non si dia materia lieve: «In re venerea non datur parvitas materiae». È a motivo del celibato dei consacrati che il rigore contro la corporeità è salito, nei secoli della controriforma, a note acute.

Tra Lutero e l'usuraio Scrovegni, cambiano "i sette vizi" nel programma di Francesco. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Domandina facile, di cultura generale: “Quali sono i sette vizi?”.

Molti di voi lettori sapranno la risposta: Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira, Accidia.

Vi sbagliate. A parte uno, sono cambiati anche quelli: Disperazione, Incostanza, Gelosia, Infedeltà, Ingiustizia, Stoltezza, Ira.

A presentarli come “i 7 vizi” è proprio il sito Vaticannews che annuncia l’inizio di una trasmissione con Bergoglio e don Marco Pozza: “È proprio il delicato rapporto – scrive il sito - che intercorre tra i 7 vizi (Ira, Disperazione, Incostanza, Gelosia, Infedeltà, Ingiustizia, Stoltezza) e le 7 virtù (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, Fede, Speranza e Carità) il motivo conduttore del dialogo tra Papa Francesco e il sacerdote”. In realtà, quelli citati sono sette vizi non canonici che Giotto, dietro suggerimento del committente, il ricco usuraio Enrico degli Scrovegni, figlio di Riccardo - messo all’inferno da Dante - aveva opportunamente scelto per opporli alle corrette 3 virtù teologali e alle 4 cardinali del suo ciclo di affreschi nella Cappella di famiglia a Firenze. Questo tipo di confronto tra bene e male in modo speculare compare nella Psycomachia di Prudenzio del V secolo, che presentava generici vizi combattenti contro generiche virtù. Ma già allora non si trattava dei Sette vizi capitali canonici, né delle tre Virtù teologali e delle quattro Virtù cardinali. Il fatto che Vaticannews, pure avendo citando il riferimento al capolavoro giottesco, non specifichi che non si tratterà dei "Sette vizi capitali", ma semmai di “sette vizi opposti alle Virtù” può essere fomite di confusione. Presentare quindi “i sette vizi” è come dire “i dieci comandamenti” e se invece gli stessi sono diversi da quelli che Dio consegnò a Mosé, si fa un’opera di disinformazione religiosa. E infatti, non a caso, alcune agenzie e persino vari siti cattolici hanno riportato la notizia citando che nella trasmissione si parlerà dei “sette vizi capitali”.

Un piccolo disastro. Stupiscono, poi le parole di Francesco riportate nel video di presentazione: “Siamo caduti nella cultura dell’aggettivo, ci siamo dimenticati dei sostantivi. Non ci dimentichiamo che sei una persona, tu sei un uomo, sei una donna. È più importante essere uomo o donna che non avere questi vizi e virtù. Dio non ama l’aggettivazione della persona, ama la persona, come è”. Più importante essere uomo o donna che non avere vizi? Parrebbe un concetto luterano secondo cui le opere dell’uomo, i suoi meriti e il suo impegno non contano nulla ai fini della sua salvezza. “Pecca fortiter, sed crede fortius!”  - “Pecca pure fortemente, ma sii ancora più forte nella tua Fede!” raccomandava Martin Lutero del quale Bergoglio fece portare la statua in Vaticano nel 2016. L’eretico tedesco, acerrimo nemico del Cattolicesimo romano, credeva infatti, con cupo pessimismo, che l’uomo non avesse alcuna possibilità di evitare il peccato e potesse solo sperare nella misericordia di Dio. “Il vizio è essenzialmente parassitario” dice ancora Bergoglio, presentandolo - se le parole hanno un peso - come se fosse qualcosa di esterno, di estraneo all’uomo. Una visione abbastanza diversa, almeno da come si desume da questo breve stralcio, da quanto c’è riporta la dottrina cattolica, secondo cui il vizio è, invece, "una cattiva disposizione dell'animo a fuggire il bene e a fare il male, causata dal frequente ripetersi degli atti cattivi”. Quindi qualcosa che fa parte integrante dell’animo umano, non certo qualcosa di esterno come potrebbe esserlo un parassita. Insomma, già da questa breve presentazione, il programma promette scintille. Staremo a vedere.

·        Il Diavolo e l’Esorcismo.

Da leggo.it l'8 dicembre 2021. Quattro frati dell'Ordine dei Servi di Maria del Santuario di Monte Berico, a Vicenza, avrebbero eseguito un rito di esorcismo nei riguardi di una giovane ragazza che avrebbe assalito uno di loro durante una Confessione, con urla e bestemmie. L'episodio sarebbe avvenuto domenica mattina. Il rito sarebbe durato diverse ore, con i frati che dapprima hanno allontanato i fedeli dalla sala della «penitenzieria»; sul posto sono intervenuti anche agenti delle forze dell'ordine e operatori del 118. Alla fine, la presunta indemoniata, proveniente da una località fuori della provincia di Vicenza, è svenuta ed è stata riportata a casa. Secondo quanto ricostruito, la madre della giovane l'avrebbe portata al santuario mariano vicentino dopo che aveva dato segni di squilibrio, con comportamenti violenti e frasi blasfeme. Al momento dell'aggressione, assieme ai genitori era presente anche il fratello della ragazza. Il confessore ha chiesto l'aiuto dei confratelli, che hanno dapprima allontanato gli altri fedeli nella penitenzieria, e quindi hanno iniziato il rito dell'esorcismo. Nel frattempo sono stati chiamati la Questura, la Polizia locale e il Suem, i cui operatori però sono però rimasti fuori dalla penitenzieria. Attorno alle 20.30 la ragazza si sarebbe addormentata di colpo, stremata.

Andrea Priante per corrieredelveneto.corriere.it il 10 dicembre 2021. L’esorcismo eseguito domenica nel Santuario di Vicenza, ha visto protagonista una 28enne che ha aggredito il confessore e, secondo alcuni testimoni, bestemmiava, gridava e parlava in latino. Con lei c’era la madre, molto devota e convinta che la figlia fosse vittima del demonio. La stessa opinione dei frati che per nove ore l’hanno sottoposta al rito di liberazione che si è concluso in serata, quando è crollata, esausta. Più cauto appare invece don Silvio Zonin, della Diocesi di Verona, autore di libri come «Discesa agli inferi. Esperienze di un esorcista».

Cosa ne pensa di quanto avvenuto a Vicenza?

«Domenica sono stato contattato dai frati di Vicenza che volevano confrontarsi su quanto stava accadendo. Questo perché conosco quella giovane: negli ultimi mesi è venuta tre volte a chiedermi aiuto. È una brava ragazza ma con un vissuto difficile e dei rapporti intrafamiliari non sempre semplici. L’idea che mi sono fatto è che il demonio abbia a che fare col suo comportamento, ma non sia l’unico fattore: questo caso dimostra come all’azione del sacerdote andrebbe sempre affiancata quella di uno psicoterapeuta».

Lei si fa aiutare?

«Certo: collaboro con uno psicoterapeuta e mi avvalgo della consulenza di uno psichiatra. È molto importante: spesso il demonio trova “terreno” fertile in chi è vittima di uno squilibrio interiore». 

Quante persone si rivolgono a lei?

«Incontro circa 800 persone l’anno». 

Un numero altissimo...

«Sì. Se consideriamo che in Veneto sono una quarantina gli esorcisti autorizzati, possiamo dire che migliaia di persone, nella nostra regione, sospettano di essere finite nel mirino del diavolo».

Secondo lei, è così?

«Delle 800 che si rivolgono a me, appena 5 o 6 sono vittime di una vera e propria possessione, contro la quale devo intervenire con “pesanti” esorcismi». 

E il resto?

«Circa un terzo ha problemi personali che nulla hanno a che vedere con il male. Un altro 30 per cento presenta quello che io definisco “il graffio del maligno”: avvertono delle presenze in casa, dei malesseri legati all’ambiente in cui vivono, ma il loro agire non è condizionato dal demonio. Poi c’è un 30 per cento che ha direttamente a che fare con il Male, e ad esempio vomita se comincio a pregare. Infine ci sono i posseduti che, come dicevo, sono molto rari. Percentuali a parte, ciò che voglio dire è che non sempre è colpa del diavolo».

Un esempio?

«Poco tempo fa ho incontrato un ragazzo convinto di essere posseduto da Satana: soffre di schizofrenia».

Usa, i satanisti avanzano. E ora fanno paura. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 12 novembre 2021. Stupore e incredulità sono stati i sentimenti degli americani che, ad Halloween, hanno assistito alla proiezione in mondovisione di una scena tanto inverosimile da risultare incredibile. Perché quel giorno, che ogni anno cade alla vigilia della cristianissima ricorrenza di Ognissanti, il mostro sacro della scena rap nordamericana Ye (ex Kanye West) ha organizzato un evento suggestivo: una sessione di canti sacri, inni e lodi al Dio cristiano attraverso la quale ridurre apotropaicamente gli influssi negativi del paganeggiante Halloween. L’evento, che ha visto la partecipazione di un gruppo gospel, il Sunday Service Choir, e del cantante di fama mondiale Justin Bieber – che come l’omologo afroamericano è rinato nel protestantesimo evangelico -, sarebbe passato quasi inosservato se non fosse stato per la presenza di un ospite insospettabile: Marilyn Manson.

Manson è stato, ed è tuttora, l’uomo-icona del satanismo nordamericano contemporaneo, un cantante tanto carismatico quanto controverso che ha rivoluzionato il modo di fare la musica e che, soprattutto, ha esercitato una potente influenza culturale sulla società statunitense. Un cantante che, per i servigi incommensurabili resi alla causa del Principe delle Tenebre, nel 1994 fu insignito del titolo di reverendo onorario della Chiesa di Satana da Anton LaVey, il Papa nero a cui noi posteri dobbiamo il ritorno in auge del satanismo nel mondo. Travolto da una serie di scandali, contestualizzabili all’interno della campagna del Me Too, Manson era scomparso dalla luce dei riflettori nei tempi recenti e non è da escludere che il duro periodo di isolamento e caccia alle streghe lo abbia incoraggiato a fare un lavoro introspettivo, trovando nel supporto dei colleghi, come Ye e Bieber, una via di fuga e un modo per rinascere.

Perché sia importante scrivere e parlare dell’accaduto è oltremodo evidente, perlomeno a chi segue da vicino il panorama culturale e sociale dell’America: è la prova che, oramai, i cristiani evangelici hanno cominciato a fare proselitismo nella tana del lupo, cioè tra i satanisti, nella consapevolezza che trattasi di una forza in ascesa, ben organizzata e dotata di un elevato potere mediatico, culturale e finanche politico.

Satanismo, la nuova religione d’America

La bizzarra triade Ye-Bieber-Manson parla dell’America di oggi, di ieri e di sempre. Un’America fondata da un gruppo di puritani visionari, i Padri pellegrini, temprata dal Vangelo e che sin dagli albori non ha avuto dubbi sul proprio essere e sul proprio mandato. Essere Città sulla collina, Nuova terra promessa e Impero della libertà. E avere il mandato, di origine divina, di convertire il mondo alla pace e alla fede a mezzo di una violenza redentrice. Quell’idea messianica di America, però, è sempre più in bilico.

Dinamiche demografiche e cambiamenti sociali, in primis l’attecchimento definitivo della secolarizzazione, stanno riscrivendo il volto e l’anima della più grande democrazia multirazziale e multireligiosa del pianeta, e il crescendo di tensioni dell’ultimo decennio non è che un riflesso, una conseguenza inevitabile di questo mutamento paradigmatico. Paradigmatico perché rivoluzionario negli esiti, di cui i più considerevoli sono (saranno) la progressiva scomparsa dell’egemonia WASP, l’ispanizzazione, la scristianizzazione e, non meno importante, il sorpasso dei liberal sui conservatori.

Il cambiamento dell’America sembra ineluttabile, come mostrano e dimostrato i numeri sulla de-waspizzazione – i cristiani sono diminuiti dal 77% al 65% della popolazione totale dal 2009 al 2019, mentre atei e agnostici sono passati dal 17% al 26% nello stesso periodo –, e un ruolo-chiave all’interno di questo processo sta venendo giocato da una forza insospettabile: i satanisti.

Non è dato sapere quanti siano con esattezza i seguaci dell’Antico avversario a Jesusland, quel che conta realmente è il potere di condizionamento culturale e politico di cui dispongono. E quel potere, numeri e fatti alla mano, è enorme, riguarda una vasta gamma di settori e va crescendo di anno in anno. Un potere che, non a caso, le ale più oltranziste del Partito democratico hanno cominciato a sfruttare a proprio vantaggio da diversi anni, in particolare durante l’era Trump.

Prima di procedere con la disamina urge una premessa: il satanismo non è un blocco monolitico, ragion per cui non possiede una struttura univoca, non ha un’organizzazione verticistica e presenta una costellazione di chiese, spesso e volentieri in contrasto e competizione tra loro. Vi sono satanisti teistici, ovvero che credono nell’esistenza fisica di Satana, e satanisti non teistici, che lo venerano come simbolo di ribellione. E vi sono, ancora, satanisti bafomettiani e luciferiani, i crowleyani e gli acidi, e via dicendo.

Il satanista di Harvard che combatte i repubblicani

I primi e principali attori del satanismo nordamericano sono due: la Chiesa di Satana di Anton LaVey e il Tempio satanico di Lucien Greaves.

La prima, che è più antica, sin dalla fondazione – avvenuta nel 1966 – ha prediletto il proselitismo nei salotti buoni, focalizzando le campagne di reclutamento nei mondi della musica e dell’intrattenimento, ed è nota al volgo per aver istruito Rolling Stones e Led Zeppelin e per aver battezzato nel nome del Diavolo, oltre il famigerato Marilyn Manson, l’attrice Jayne Mansfield e il cantante Sammy Davis Jr.

Il Tempio satanico ha origini più recenti, essendo stato costituito nel 2013, ed è la realtà satanica più politica dell’intero panorama nazionale. È la realtà che sta aiutando i Dem a combattere Repubblicani e destra religiosa ovunque e comunque possibile: stampa, internet, scuole, intrattenimento e tribunali. Fondato da un bambino prodigio rispondente al nome di Douglas Mesner (Lucien Greaves è uno pseudonimo), laureatosi in neuroscienze ad Harvard, il Tempio satanico ha sede a Salem, la famigerata città delle streghe, ha distaccamenti ufficiali (i “capitoli”) in ventuno stati federati e vanta un diritto che gli sta permettendo di sfidare le leggi a firma repubblicana in ogni tribunale: è una chiesa a tutti gli effetti.

In qualità di chiesa ufficialmente riconosciuta, esenzione fiscale a parte, il Tempio satanico ha potuto fare e sta facendo ciò che ai laveyani e agli altri correligiosi non è mai stato concesso: difendere gli interessi dei seguaci di Satana in sede pubblica. Irriverenti, persuasivi e onnipresenti, i satanisti di Greaves sono ormai una presenza fissa sui principali media anglofoni – in particolare The Huffington Post, The Usa Today, Bbc, The Guardian e Daily Mail -, gli sono stati dedicati documentari celebrativi – Hail Satan? è stato il fenomeno del Sundance Film Festival 2019 – e sono diventati un punto di riferimento per la minoranza arcobaleno – anche perché il 50% di loro si identifica nella sigla lgbt+ -, nonché un importante alleato delle cause Dem.

In sella a cavalli di battaglia quali la giustizia sociale, la separazione tra Stato e Chiesa e la superiorità dell’individuo sulla comunità, i membri del Tempio satanico si sono rivelati degli aiutanti più che validi per i Dem, avendo mostrato in più occasioni di poter sabotare efficacemente le agende sociali e culturali dei rivali Repubblicani e della loro spalla: la destra religiosa. Perché quelli che la Bbc ha descritto come i combattenti per la libertà religiosa, che l’Irish Times ha presentato come dei difensori della democrazia e della dignità umana nell’epoca del trumpismo, e che il The Guardian ha definito “i bravi ragazzi nella lotta contro la destra evangelica”, vanno ottenendo più vittorie che sconfitte in quasi ogni stato federato, specie per quanto concerne l’elasticizzazione del diritto all’aborto, le rappresentazioni giudeo-cristiane negli spazi aperti e la parità di trattamento nel sistema scolastico.

Tra le gesta più eclatanti e i successi più considerevoli del Tempio satanico, la maggior parte dei quali risalgono al periodo della grande mobilitazione contro Trump, figurano e risaltano l’installazione provvisoria nel 2018 di un Bafometto accanto ai Dieci Comandamenti del Campidoglio di Little Rock (Oklahoma) – costruito grazie ad una raccolta fondi terminata in tempi record -, l’introduzione dei cosiddetti doposcuola satanici in un numero crescente di istituti e l’utilizzo del concetto di “aborto rituale” per sfidare nei tribunali le leggi più restrittive in materia di interruzione volontaria di gravidanza.

Il diavolo è nei dettagli

The Conversation aveva preannunciato l’anno scorso che il Tempio satanico “non può più essere bollato come una truffa”, perché sta obbligando gli americani “a riflettere un po’ di più su cosa sia la religione”. E Usa Today, in maniera simile, nel 2019 aveva invitato i lettori “ad aprire le porte a Satana” per il bene “della libertà religiosa nello spazio pubblico”, vedendo il proprio appello rilanciato dal The Huffington Post dopo la morte del giudice Ruth Bader Ginsburg. Tre articoli, quelli di cui sopra, pubblicati allo zenit della saga Trump e che non erano stati concepiti per finire nell’oblio, per acchiappare clic, quanto per preconizzare ciò che sarebbe accaduto nel nuovo decennio: l’emancipazione del satanismo dalla nicchia, il suo divenire una “religione liberal” a tutti gli effetti.

Non è un caso che l’onere-onore della battaglia alla legge texana sull’aborto abbia voluto autoassumerselo il Tempio satanico, i cui legali stanno preparando le carte da presentare in tribunale proprio in questi giorni. E non è un caso che la stampa statunitense, grande e piccola – dal Boston Globe a Fox –, stia seguendo la vicenda con attenzione, mentre l’opinione pubblica si chiede chi sarà il vincitore di questo capitolo-chiave della guerra culturale tra liberal e conservatori per l’anima dell’America.

Dagotraduzione da Vice.com l'11 novembre 2021. Un ex vescovo spagnolo è stato accusato di essere "posseduto" dopo aver lasciato il clero per legarsi a una scrittrice di narrativa erotica e per aver iniziato a lavorare in un'azienda che esporta semi di maiale. Xavier Novell, l'ex vescovo emerito di Solsona, ha fatto notizia a settembre dopo che i media spagnoli hanno raccontato che si era innamorato di Silvia Caballol, psicologa e scrittrice erotica. Caballol è autrice dei libri "The Hell of Gabriel's Lust" e "Amnesia Trilogy", su Amazon descritto con la domanda: «Cosa succede quando l'attrazione è più forte di qualsiasi codice etico o norma sociale?». Secondo i media spagnoli, Novell era ampiamente considerato una figura in ascesa all'interno della Chiesa cattolica spagnola, dove eseguiva esorcismi. Ha anche promosso (e secondo quanto riferito ha subito) una dannosa terapia di "conversione gay" descritta dalle vittime come «aggressiva e distruttiva». Dopo le dimissioni, Novell è scomparso dalla vista del pubblico e non è apparso sui media. La scorsa settimana, Novell si è ritrovato di nuovo a fare notizia perché i media spagnoli hanno riferito che ha iniziato a lavorare con Semen Cardona, un'azienda che produce ed esporta seme di suino di alta qualità in oltre 20 paesi in Europa, America, Asia e Africa. «Prepariamo e distribuiamo seme suino ad alto valore genetico», afferma il sito web dell'azienda, «da dosi fresche e congelate delle migliori genetiche mondiali e con le massime garanzie di qualità, prolificità e di biosicurezza». Alcuni degli ex colleghi di Novell avrebbero criticato la sua decisione di lasciare la chiesa, così come la sua nuova occupazione. Citando conversazioni con membri della diocesi di Solsona, il quotidiano nazionale spagnolo ABC ha scritto che alcuni sacerdoti pensavano che fosse «posseduto dal diavolo». Parlando del suo nuovo lavoro, un prete che secondo quanto riferito conosce Novell ha paragonato le sue azioni alla parabola del figliol prodigo, in cui un figlio sperpera i soldi di suo padre. «È come la parabola del figliol prodigo nel Vangelo di Luca, il figlio che ha abbandonato il Padre per condurre una vita dissoluta, e ha finito per desiderare di mangiare carne di maiale», secondo quanto riferito il sacerdote ha detto all'ABC. «Ma in questo caso è la bestia/diavolo, perché li masturba». Dissoluto o no, Novell sembra continuare la sua vita per ora e, secondo il quotidiano regionale Regio7, questa settimana sposerà Caballol. La diocesi di Solsona non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento.

Roberto D'Agostino per "Vanity Fair" l'11 novembre 2021. Farsi possedere dal Diavolo è oggi un segno di grande disponibilità, un modo di stare al mondo all'insegna dell'apertura e della reversibilità del comportamento; un trionfo dell'innocentismo e dello scetticismo, un rendersi pronti a tutte le esperienze, ad un mondo dove tutto può succedere. E forse anche un modo per sottrarsi alla banalità, all'omologazione. Soprattutto in una città che si autodefinisce Eterna come Roma, che assomiglia a una folata di vento che trasporta Storia, polvere, gioia di vivere, disinvolta ignoranza, cinismo senza limitismo e anche una materia imponderabile, preziosa: la stessa vita. E’ quello che deve aver cogitato Karol Wojtyla. Il 16 ottobre 1978 era salito al soglio pontificio con il nome Giovanni Paolo II. Con la sua figura franca e ironica, i modi pacati e solenni del suo ruolo, le sue orazioni simili a frustate, voce baritonale e dizione biblica, il primo Papa slavo della storia cominciò subito a sbuffare impazienza e insofferenza: gli impegni straripavano sulla sua scrivania. Durante una tediosa riunione di carattere amministrativo, Karol incontrò un alto prelato polacco. Monsignor Stanislaw Dziwisz era suo sodale collaboratore fin dai tempi in cui il futuro Papa era arcivescovo di Cracovia. La sorpresa fu tanta: “Che ci fai tu qui?”, disse il Papa rivolgendosi al suo connazionale, il quale rispose: “Che ci fai tu qui?”. Rimasero soli a chiacchierare lungamente, ricordando i vecchi tempi in cui nuotavano e sciavano insieme. Wojtyla disse di esser stato tentato di assumere il nome di Stanislao I, ma il Segretario di Stato e vari cardinali italiani, fecero notare che quel nome non possedeva nulla di “romano, santo e apostolico” e quindi andava cambiato. Si fece sera e quel diavoletto chiamato Roma entrò in azione: i due decisero che era già scoccata l’ora di godersi l’ottobrata capitolina pappandosi una buona pizza. Indossarono un discretissimo clergyman e saltando ogni protocollo di sicurezza decisero di uscire dal Vaticano. Dziwisz propose una trattoria trasteverina a lui nota. Siccome la questione non è mai stata approfondita, rimane il dubbio se si trattasse di “Santino”, in via S. Francesco a Ripa o “La Piccola Montecarlo”, in via Dandolo, angolo viale Glorioso. Curiosamente la prima era nella strada dove nacque Ennio Morricone (1928), la seconda dove venne alla luce Sergio Leone (1929). Consumata con abbondanti libagioni di birra la gastro-bisboccia, la zingarata papale si complicò. I due trovarono tutti i varchi chiusi e persino alla carraia di Porta Sant’Anna – nonostante gli sforzi del Dziwisz nell’affermare che il sacerdote accanto a lui era Giovanni Paolo II - le guardie svizzere non riconobbero il neoeletto Pontefice e sbarrarono il passo ai due birbanti (la gendarmeria dello Stato pontificio ha la stessa fama dei carabinieri delle barzellette). Mortificati, ma non troppo grazie alla quantità di alcol in corpo, i nostri eroi si recarono al Commissariato di Borgo, dove Dziwisz poteva vantare qualche amicizia. Al racconto, l’agente rimase perplesso: ‘’Ma se sei tu il Papa, non hai le chiavi di casa?”. Fu il commissario in persona, che aveva letto i giornali, ad accompagnare i due “fuggitivi” all’ingresso di Porta Sant’Anna testimoniando la vera identità del sacerdote cinquantottenne. Un “papocchio”, dove lo spirito di Roma si sposa con lo Spirito Santo, che prefigurò lo choc vivacissimo e oltre-oceanico del "fenomeno Wojtyla". Non si era mai visto, in passato, un sovrano cattolico capace di catturare laici e laidi, intellettuali e rivoluzionari, e tenere prigionieri la carta stampata e la comunicazione televisiva, il diavolo e l’acqua santa, senza rovesciare protocolli secolari e tirando avanti come se, niente niente, fosse un mito. Nel senso greco del termine: "mythos" come parola, discorso, narrazione, quindi fonte di emozione e monito di conoscenza, dunque metafora del mondo. Nel bene e nel male.

Alessandro Rico per “La Verità” il 2 Novembre 2021. C'è chi dice che il diavolo non sia brutto come lo si dipinge. Chi ci ha costruito fortune letterarie o cinematografiche. C'è chi nemmeno crede che esista. E poi c'è chi, Lucifero, lo combatte. Tanto da aver appena inaugurato, a Roma, la quindicesima edizione del corso su esorcismo e preghiera di liberazione dell'Ateneo pontificio Regina apostolorum. Dove la metà degli iscritti - sorpresa - è composta da laici. I segreti di Lucifero ce li rivela il coordinatore dell'iniziativa, padre Luis Ramirez. 

In che consiste il corso?

«C'è una parte teologica, biblica, liturgica e di diritto canonico. E poi c'è la parte interdisciplinare: sociologica, medica, terapeutica, psicologica».

Già, perché prima di esorcizzare qualcuno, bisogna escludere che sia semplicemente affetto da una patologia psichiatrica. Come si fa?

«Anzitutto, osservando i segni, i "sintomi". Si chiama "discernimento"». 

E quali sono, questi segni?

«Una persona può sentire voci interiori, o dire che vede ombre, sente suoni Se non siamo di fronte a un malessere psicologico, bensì all'azione straordinaria del demonio, la persona, dall'essere completamente sana, improvvisamente cade in una trance. E dopo la trance, torna perfettamente sana». 

Basta questo?

«No: ci sono dei segni essenziali che la persona posseduta presenta».

Ce li dica.

«Può dimostrare di possedere conoscenze del tutto estranee al suo livello d'istruzione».

Ad esempio?

«Una delle cose più frequenti è che, durante la trance, si metta a parlare in una lingua che non aveva mai studiato». 

È vero, allora, che i posseduti parlano in aramaico?

«Possono parlare qualsiasi lingua. Una volta mi trovavo con una missione in una giungla dell'America latina. C'era un posseduto, che viveva in una casetta piccolissima e assolutamente non era istruito: si mise a parlare in francese con un sacerdote. Propriamente, però, è il demonio a parlare attraverso di loro».

Perciò avviene il cambio di voce, che si vede in tanti film?

«Quello capita, ma sono casi rari. Hollywood inscena i casi estremi, ma ordinariamente, un esorcista non si trova di fronte a soggetti che presentano tutte queste caratteristiche». 

E la forza soprannaturale?

«Succede. Ma è anche vero che molte persone, che si trovano sotto stress pesante, a volte manifestano una forza sorprendente. È anche per questo che al sacerdote serve il discernimento».

Senza dubbio.

«Come le dicevo, il punto è che, a differenza di quello che si vede nei film, i posseduti quasi mai presentano tutti insieme questi segni: una volta il soggetto presenta la forza straordinaria, un'altra volta ha una voce di uomo anche se è una donna, un'altra volta ancora manifesta conoscenze inspiegabili». 

Alcuni resoconti descrivono individui che arrivano letteralmente a sputare fuori degli animali. Ma perché il diavolo produce questi fenomeni? Per spaventare l'esorcista?

«Il demonio cerca di mostrarsi come uno che ha molto potere. Bisogna ricordarsi, però, che è Dio l'unico onnipotente». 

Come si misura l'«intensità» della possessione?

«Il sacerdote a volte è in grado di percepire, ad esempio dalla voce, una particolare rabbia nel posseduto. Magari perché quella persona, che aveva già un passato di irascibilità, ha subito un malocchio, un artificio di magia nera ed è finita sotto possessione».

Si può finire posseduti anche in seguito a una «macumba»?

«Sì». 

Ma allora, che difesa abbiamo? Il diavolo non ha bisogno del nostro assenso?

«Chiariamo: sono pochissimi quelli che in modo pienamente libero e cosciente consegnano il proprio corpo al demonio. Tante persone si trovano in questa situazione perché, incoscientemente, hanno frequentato certi ambienti, certe pratiche». 

Di che tipo?

«Contesti in cui si pratica la magia con le carte, si leggono i tarocchi, o si organizzano sedute spiritiche».

Se, anche per gioco, si partecipa a una seduta spiritica, si apre una porta che non si doveva aprire?

«Esatto. Magari non succede niente. Dipende dalla disposizione del cuore della persona». 

Si spieghi.

«C'è chi vuole interrogare il mondo dei morti, approfondire certe questioni della storia della propria famiglia, perché porta dentro una ferita: allora, lì si apre una fessura e, nel tempo, se la persona non cura quella ferita interiore, la breccia può crescere, alimentata da altri sentimenti cattivi. Questo è il tipo di persona che, poi, ha un'alta possibilità di essere posseduta». 

I medium, se non sono solo dei ciarlatani, sono pericolosi?

«Capiamo che cos' è un medium. Nessuna persona, di per sé, ha questa capacità soprannaturale. Il medium arriva ad avere certi tipi di comunicazione perché qualche spirito maligno sta lavorando dentro di lui».

Anche il medium può essere un posseduto?

«Esatto. Non ci sono medium puri e semplici; ci sono i posseduti». 

E se costui mi mette in comunicazione con un caro defunto, cosa devo pensare? Sto parlando davvero con lui, o con un demonio sotto mentite spoglie?

«Non le posso dare una risposta univoca. Una cosa, però, noi cattolici la sappiamo».

Quale?

«Per i defunti si prega e se si cerca di parlare con loro, sicuramente si finisce a interloquire con uno spirito demoniaco. Per questo la Chiesa lo vieta - e nella Bibbia c'è scritto di lasciare in pace i defunti, affidando le loro anime alla misericordia di Dio, tramite la preghiera». 

Oltre a Lucifero, esistono altri demoni?

«L'Apocalisse dice che, con Lucifero, è partito da Dio un terzo della schiera degli angeli». 

E nella possessione, chi interviene? Lucifero stesso, o i suoi subordinati?

«Può intervenire un singolo demonio, o più di uno. Anche nel Vangelo, Cristo libera un posseduto da una "legione" di demoni». 

La gravità della possessione dipende dalla potenza del singolo demonio?

«Dipende anche dalla disposizione della persona: come è arrivata in quella condizione? Che finestre ha aperto? Con che sentimento e che grado di consenso?». 

Se il sacerdote rivolge una domanda al demonio, quello è obbligato a rispondere?

«Questa è un'altra scena che si vede spesso nei film, ma non dovrebbe succedere: anche secondo l'ultima edizione del rituale, l'esorcista non deve entrare in dialogo con il demonio». 

Perché?

«Perché il demonio è il padre della menzogna e può indurre in errore, ingannare, distrarre dalla preghiera l'esorcista». 

È facile far venire a galla il Maligno? Se il suo scopo è tenere la persona sotto il suo giogo, per lui sarebbe più logico cercare di non farsi scoprire

«Qui si entra davvero nel mistero. La possessione è pur sempre un evento che Dio, in qualche modo, permette. Non lo vuole, ma lo permette, perché ci ha fatti liberi: se non potessimo scegliere il male, non potremmo nemmeno amare. Uno che è costretto ad amare Dio, non ama autenticamente. Così, a volte, Dio permette che la persona non venga liberata subito». 

C'è una spiegazione logica?

«Sa, a volte, dopo una lunga possessione, una famiglia ricostruisce la propria unità, o ritorna a Dio, dopo anni di lontananza dalla messa. Da quell'esperienza, derivano tantissimi benefici spirituali». 

Insomma, Dio trae del bene da queste situazioni?

«Proprio così».

È capitato che qualcuno non sia mai stato liberato?

«Non ho mai sentito una cosa del genere, sinceramente. Ma conosco casi di possessione durati anche 10-15 anni». 

Se Dio trae del bene dalle possessioni, paradossalmente, per un'anima sono più pericolose le piccole tentazioni quotidiane, no?

«È corretto. E infatti, la possessione la chiamiamo azione "straordinaria" del demonio. Poi, c'è l'azione "ordinaria", cioè la tentazione sottile, silenziosa, portata, come dice papa Francesco, da questi demòni eleganti, che suonano alla porta della nostra anima. Noi pensiamo che non siano così cattivi, e crediamo di poterci concedere un piccolo peccato veniale».

Ci sono persone che dicono: credo in Dio, credo in Gesù, ma non nell'esistenza del diavolo.

«Non vogliono andare a dormire con la paura del diavolo, forse. Ma cos' ha fatto Gesù sulla croce, se non liberarci dal male? Non credere nell'esistenza del demonio significa eliminare il senso della morte in croce di Gesù». 

Le cause delle possessioni sono identiche ovunque?

«Ovviamente no. Nel contesto italiano, ad esempio, so che purtroppo c'è ancora una forte diffusione di gruppi satanisti». 

Ah.

«In America latina, invece, sono frequenti certi culti afroamericani o sciamanici. E nelle Filippine, pur essendo il Paese con più cattolici in Asia, sono ancora diffusi tantissimi riti pagani, risalenti a prima della dominazione spagnola». 

Se ne deve dedurre che gli antichi greci e gli antichi romani, che erano pagani, potevano cadere vittime di possessioni?

«Be', cercavano di conoscere il futuro, di parlare con i defunti Il Maligno, alla fine, rivolge all'uomo da sempre la stessa "promessa"». 

Ovvero?

«"Se mangerai di questo frutto, diventerai come Dio". E cos'è che fa Dio? Conosce tutto, può tutto. È questa la più grande tentazione del demonio». 

Satana, però, alla fine dei tempi, perderà: perché, allora, fa quello che fa? Perché combatte?

«Perché il suo scopo non è di vincere, ma di prendersi più anime possibili. Non per averle dalla sua parte, ma per toglierle a Dio. Affinché non si salvino mai».

Dagotraduzione dal Daily Beast il 29 ottobre 2021. La pandemia è stata dura per tutti, con i lockdown e le restrizioni, ma sembra sia stata particolarmente difficile per chi è posseduto da un demone. Gli esorcisti cattolici di tutto il mondo non sono stati in grado di svolgere il loro lavoro di persona, creando l’ambiente ideale per i demoni e i loro incantesimi. E così alla quindicesima conferenza annuale sull’esorcismo, che si è svolta questa settimana dopo un anno di pausa a causa del Covid, gli esorcisti di tutto il mondo hanno sollevato ogni tipo di problema legato alla pandemia. Durante i cinque giorni di conferenze, ospitate dall’università pontificia di proprietà del Vaticano, i partecipanti hanno condiviso storie sull’aumento delle chiamate ricevute nell’ultimo anno. «Ci è stato chiesto in modo schiacciante di esorcizzare il Covid da persone che erano malate» ha detto padre Miguel Martin, esorcista spagnolo. «Ma ci è stato vietato di eseguire riti su pazienti Covid». Quest’anno il convegno, che si chiama ufficialmente Corso di Esorcismo e Preghiera di Liberazione, è incentrato su angeli e demoni nella Sacra Scrittura e nel Magistero, oltre a offrire seminari sul mondo asiatico nell’ambito dei riti magici afro-brasiliani, che non sono in linea con l’insegnamento cattolico. Per la prima volta in assoluto, il convegno è stato aperto anche ai laici, in particolare ai cattolici devoti che lavorano nella salute mentale, che sono spesso chiamati ad aiutare a capire se qualcuno ha un problema psichiatrico o è davvero una pedina del diavolo. L'istruttrice Fernanda Alfieri, che insegna le connessioni tra scienza e religione all'Università di Bologna, studia da anni l'esorcismo. Dice che la convention di quest'anno è stata particolarmente importante a causa della pandemia e della paura che così tante persone hanno avuto riguardo all'ignoto. «Il compito di uno psichiatra all'interno del gruppo di ausiliari di un esorcista sarà approfondito», ha detto. «Si discute anche dell'alterazione dello stato mentale e della diagnosi differenziale tra i disturbi psicopatologici e l'azione straordinaria del diavolo». Ha detto che l'aumento delle richieste di esorcismi durante la pandemia non è stata una sorpresa. Ha fatto riferimento a padre Ronaldo Ablong delle Filippine, che ha inviato esorcisti nella parrocchia con acqua santa per eseguire esorcismi sui pazienti COVID mentre il virus si diffondeva in varie comunità. Ha attirato il disprezzo da alcuni a Roma per aver oltrepassato i confini tra la salute fisica e la vera possessione demoniaca, come definito dalla Chiesa cattolica. «La pratica esorcistica agisce su un'area di confine tra il corporeo e lo spirituale», ha detto Alfieri. «E ciò richiede quindi un'attenzione anche al punto di vista della medicina, come era chiaro anche in passato». Infatti, durante gli antichi attacchi di peste, i sacerdoti cattolici visitavano le case con i medici per amministrare gli ultimi riti o esorcismi quando si presentava la necessità. Padre Michel de Certeau, sacerdote, antropologo, linguista e storico francese che scrisse di un monastero in Francia dove un'epidemia di polmonite fu trattata come una possessione diabolica di massa negli anni '30 dell'Ottocento, afferma che invece di presumere che il COVID sia opera del diavolo, egli crede che le persone che hanno perso i propri cari, i mezzi di sussistenza e sono state isolate si siano aperte alla possessione diabolica, rendendo essenzialmente facile la possessione. «Il problema si fa più acuto con le crisi sociali e agisce come una sorta di espressione sintomatica di disagio che non ha altro modo di esprimersi se non attraverso il possesso», ha detto. Padre Cesare Truqui, un organizzatore, afferma che l'aumento delle richieste di esorcismo è stato alimentato in parte anche dal fatto che le persone non potevano partecipare alla messa di persona. «Ci sono molti casi di persone che non abbiamo potuto vedere a causa delle restrizioni per il COVID e che ora si rivolge a noi», ha spiegato nella sessione di apertura. La conferenza si chiuderà con una sessione speciale su Internet e pedopornografia legata ai riti satanici, che ha lo scopo di aiutare a preparare gli esorcisti per quello che molti nel campo credono sarà un problema dopo la pandemia. Negli anni passati, papi come Benedetto XVI non si riferivano al diavolo come forza del male, ma piuttosto si concentravano sul male come un concetto che sfidava molti cattolici. Ma papa Francesco si è fatto una specie di avvocato del diavolo, riferendosi spesso al diavolo in modo quasi umano. «Il diavolo vuole che noi falliamo», ha detto più volte Francesco, «non dobbiamo mai entrare in dialogo con lui». Questo, dicono gli organizzatori, ha spinto molti a partecipare alla conferenza.

Sintesi dell'articolo di Adnkronos realizzato da "la Verità" il 25 ottobre 2021. Comincia oggi a Roma il primo corso al mondo per esorcisti. Si svolge all'ateneo Regina Apostolorum e affronterà gli aspetti antropologici, fenomenologici, sociali, teologici, liturgici, canonici, pastorali, spirituali, medici, neuroscientifici, farmacologici, simbolici, criminologici, legali e giuridici del ministero dell'esorcismo e della preghiera di liberazione. L'attività degli esorcisti sta tornando alla normalità dopo i vari lockdown quando, come ricorda padre Cesare Truqui, «gli incontri erano quasi nulli». Ora invece i cacciatori di demoni sono alle prese con un superlavoro perché oltre ai casi nuovi devono recuperare l'arretrato.

Ma solo la metà sono preti. Laici a caccia di Satana, riparte il corso per diventare esorcisti: boom di iscrizioni. Gianni Emili su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Dietro i banchi, carta e penna in mano, per dare la caccia al Maligno. Dopo lo stop delle frequentazioni in presenza dovuto alla pandemia, ha registrato un boom di iscrizioni il corso sull’esorcismo e la preghiera di liberazione organizzato dall’Istituto Sacerdos dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum in Roma e dal Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa (Gris). Giunto ormai alla 15esima edizione, si terrà fino al 30 ottobre prossimo, è il primo al mondo nel suo genere. Gli organizzatori raccontano che il corso “propone una ricerca accademica attenta e multidisciplinare sul ministero dell’esorcismo e della preghiera di liberazione. Una risposta concreta, approfondita e professionale a questa tematica attuale e spesso ancora poco ben conosciuta”. Tra le principali novità dell’edizione 2021, ci saranno la presentazione di un’importante ricerca sull’esorcismo realizzata da Sacerdos in collaborazione con il Gris e l’Università di Bologna, una tavola rotonda tra esorcisti di diverse confessioni cristiane e, inoltre, l’intervento di un sacerdote francese, don Olivier Rolland, esperto in preghiera di guarigione. Il corso è in italiano con traduzione simultanea in inglese e spagnolo. Dopo i lockdown le iscrizioni sono aumentate notevolmente. Dei 100 iscritti in presenza e dei 37 che seguiranno le lezioni online, circa la metà sono laici, anche di altre confessioni cristiane, ha spiegato il coordinatore del corso, padre Luis Ramirez. Secondo il sacerdote in questi anni si è registrata una partecipazione sempre crescente, inizialmente di vescovi e sacerdoti, per lo più esorcisti, e successivamente anche di numerosi laici. Padre Ramirez ha spiegato l’importanza della presenza e della formazione dei laici proprio perché spesso affiancano un esorcista e partecipano al rito “con un ruolo di sostegno alla preghiera, ai familiari o anche, se si tratta di medici, con un supporto medico-scientifico”. Il sacerdote ha, inoltre, spiegato, che “con la pandemia non sono aumentate le richieste di esorcismi, ma di aiuti e sostegni psicologici. Oggi, rispetto per esempio agli anni Novanta, nella Chiesa in generale, sia da parte dei vescovi, sia dei laici, si è diffusa una maggiore coscienza di questa tematica”. Papa Francesco ha recentemente parlato dell’argomento: “Quando si avvicina il seduttore la tentazione è di dialogare con lui, come ha fatto Eva, e se noi entriamo in dialogo con il diavolo saremo sconfitti. Mettetevi questo nella testa e nel cuore: con il diavolo mai si dialoga, non c’è dialogo possibile”. E ha spiegato: “Il demonio, quando prende possesso del cuore di una persona, rimane lì, come a casa sua e non vuole uscirne. Per favore, non facciamo affari con il demonio”. Gianni Emili

Di politici, re, chiromanti e stregoni. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 9 ottobre 2021. È dall’alba dei tempi e del primo uomo, Adam Qadmon, che gli abitanti della Terra sono intrigati, e al tempo stesso impauriti, da ciò che non conoscono e non riescono a comprendere. E anche laddove scienza, positivismo, razionalismo e scientismo riescono a imporsi su fede e superstizione, comunque, l’ignoto non perde mai del tutto né fascino né seguaci. Il caso della Repubblica Ceca è eloquente a proposito della presa sempiterna dell’arcano sulle genti. Perché questa piccola nazione, che è la più scristianizzata del Vecchio Continente e tra le più atee del mondo, è un semenzaio di nuovi movimenti religiosi e culti New Age al cui interno prosperano la superstizione e il mercato dell’occulto. Praga e il 21esimo secolo, comunque, non sono né l’unico luogo e né l’unico tempo dove la defenestrazione del Dio abramitico, più che alla capillarizzazione del pensiero ateistico stricto sensu, ha condotto all’entrata in scena di forme nere di magia, esoterismo, misticismo ed occultismo. Perché è dall’Età moderna che le Bibbie vengono sostituite dai Grimori, i preti dai maghi e le croci dai talismani. Sostituzioni che, sin dal Cinquecento, lungi dal riguardare semplicemente l’uomo comune, interessano in maniera speciale i salotti letterari, i caffé filosofici, i circoli aristocratici e le corti dei re.

I condottieri e l’occulto

L’eminenza grigia è il consigliere per antonomasia, una persona che, essendo più realista del re, spesso e volentieri può combaciare con o sovrapporsi ad altre figure simili, quali sono il potere dietro al trono e il grande burattinaio. Ogni capo di Stato che si rispetti ha una o più eminenze grigie: loschi ma preparati figuri, battezzati alle arti sacre della guerra e della diplomazia, che sanno come muoversi nel mondo, che conoscono le leggi del bellum omnium contra omnes e che aiutano i loro re Davide ad affrontare e vincere i Golia di turno. Historia homines docet che cambiano le epoche, differiscono i contesti e mutano i regimi, ma le eminenze grigie sono una costante inamovibile e onnipresente: ieri le hanno avute gli imperatori, oggi le hanno i presidenti. Pragmatici, lungimiranti, geniali e diabolici, questi poteri dietro al trono, a volte, non rispondono al canone comune e stereotipato dello stratega in giacca e cravatta, freddo, calcolatore, razionale e spietato. Al contrario, non sono rari i casi di chiromanti, oracoli, occultisti e maghi, più legati al cielo che alla terra, che hanno sussurrato all’orecchio di re, imperatori, presidenti e dittatori. L’elenco dei condottieri che allo stratega formatosi nelle scuole diplomatiche hanno preferito uno stregone dalle origini nebulose è piuttosto lungo. E questi stregoni, lungi dall’aver provocato la rovina dei loro capi, in alcuni casi hanno cambiato il corso della storia. Tra i più importanti occultisti al servizio del potere si ricordano:

John Dee. Alchimista, cabalista e chiromante, fu il consigliere per la politica estera di Elisabetta I, alla quale suggerì di fondare delle colonie nell’America settentrionale e per la quale delineò un piano per la trasformazione del regno in una talassocrazia transcontinentale basato su espansione della Marina, controllo di isole-chiave e sviluppo del commercio. Fu il coniatore, inoltre, del termine “Impero britannico”.

Cosimo Ruggieri. Astrologo e negromante, fu l’uomo della famiglia De Medici alla corte del re di Francia.

Julia. Chiaroveggente, fu la consigliera di Cristina di Svezia.

Ulrica Arfvidsson. Indovina errante, veniva consultata da Gustavo III prima delle campagne belliche e dell’assunzione di decisioni in materia di politica domestica.

Clotilde-Suzanne Courcelles de Labrousse. Medium, era l’eminenza grigia di Robespierre.

Henrietta Zofia z Puszetów Lullier. Divinatrice francese di stanza a Varsavia, fu la consulente per la politica estera di re Stanislao II Augusto di Polonia.

Grigorij Rasputin. Mistico ortodosso, fu il consigliere privato della famiglia Romanov prima e durante la prima guerra mondiale.

Erik Jan Hanussen. Chiaroveggente e occultista, fu tra i mentori di Adolf Hitler.

Karl Maria Wiligut. Esoterista, fu il precettore di Heinrich Himmler.

Wolf Messing. Veggente e telepata, durante la seconda guerra mondiale fu trasferito segretamente dalla Germania all’Unione Sovietica su ordine di Stalin, del quale diventò confidente.

Il fascino dell’arcano

Da John Dee a Wolf Messing, passando per il celeberrimo Rasputin, sono vari gli elementi che accomunano le eminenze nere: il carisma, l’arrivismo, la previdenza, l’intelligenza superiore, il fascino e l’aura misterica. Elementi che li hanno trasformati in strateghi infallibili e veraci agli occhi di condottieri a volte deboli, come Nicola II, e a volte semplicemente suggestionabili, come Stalin.

Alcuni, come Hitler e Himmler, nell’operato di mistici, veggenti, sensitivi, occultisti e stregoni avrebbero intravisto qualcosa di estremamente utile ai fini del comando e del controllo delle masse. Perché l’arcano, nell’ottica nazista, poteva essere utilizzato per creare una nuova religione, nuovi miti e nuove credenze, e dunque un nuovo popolo. E quell’arcano, difatti, sarebbe stato usato per legittimare la nascita dell’Ahnenerbe, le ricerche esoteriche di Otto Rahn e le adunate orfiche delle SS nel castello di Wewelsburg.

I fatti, anche se è poco noto, avrebbero dato ragione a Hitler. Perché l’internazionale dell’occulto, nel dietro le quinte del palcoscenico mondiale, avrebbe lavorato duramente affinché la causa nazista superasse la prova del fuoco, cioè la seconda guerra mondiale, riscrivendo l’Uomo e il Mondo ad immagine e somiglianza di quelle teorie metafisiche e mefistofeliche propagate dalla scuola esoterica inglese, dall’ariosofia e dalla teosofia. Per quella causa, infatti, avrebbero lottato il negromante più famoso del Novecento, Aleister Crowley, e il gerarca nazista Rudolf Hess, che partì alla volta della Scozia (anche) per convincere la massoneria britannica a facilitare la fine delle ostilità tra Londra e Berlino.

Così Satana arrivò ad Hollywood. Jesùs Palacio il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Satana a Hollywood di Jesùs Palacios (Edizioni Npe). Immaginate un volto scolpito secondo i dettami di una ben definita fisionomia demoniaca: testa totalmente rasata, sguardo penetrante, baffi e pizzetto mefistofelico. Sono le fattezze che per molti americani benpensanti rappresentano il male allo stato puro, mentre per altri non meno benpensanti sono il ricordo di un’era libertaria, fatta di filosofie neopagane, amore libero e promesse per il futuro: gli anni Sessanta. Tuttavia, ci sono persone che pensano che Anton Szandor LaVey, autoproclamatosi Papa Nero, fondatore della Chiesa di Satana e autore di una vera e propria Bibbia Satanica, sia semplicemente un altro membro dell’esotica e funambolesca fauna californiana di Hollywood. Una bestia forse, non quella del 666, ma semmai una bestia dello show business e della spettacolare commercializzazione dell’esoterismo e del satanismo. Howard Stanton Levey (questo il suo vero nome) nacque l’11 aprile del 1930 a Chicago, senza che nessun altro fenomeno che non fosse stato il Proibizionismo, con tutti i suoi gangster e le sparatorie al seguito, facesse presagire l’arrivo dell’Anticristo. Sul finire degli anni Quaranta la sua famiglia si trasferì a San Francisco; LaVey passò da un lavoro all’altro fino a quando, terminati i suoi studi in criminologia, iniziò a lavorare come fotografo della polizia nel 1952, un lavoro che, secondo lui, lo avrebbe reso insensibile alla morte e alla condizione umana. Dopo essere stato organista in vari night club, la notte di Valpurga del 1966, ovvero il 30 aprile, Anton LaVey annunciò ai suoi scagnozzi che l’Era di Satana era giunta. All’inizio del decennio, LaVey aveva trasformato la sua casa, al numero 6114 di California Street a San Francisco, in un centro di riunioni occultiste, tenendo seminari nelle notti del venerdì, ai quali erano soliti partecipare illustri esponenti della società californiana: avvocati, medici, militari, dirigenti e persino agenti ell’fbi. Naturalmente, alle riunioni prendevano parte anche molte celebrità provenienti dalla vicina zona di Los Angeles. Tra queste troviamo Sammy Davis Jr. e il veterano Keenan Wynn, che intraprendevano una volta alla settimana la comoda peregrinazione verso San Francisco per incontrare LaVey, e apprendere i suoi insegnamenti magici. Fu esattamente quello che fece anche la stupenda Jayne Mansfield nel 1966, dando inizio a una delle leggende più popolari e sinistre della storia della Hollywood satanica. Quando la dea bionda del sesso arrivò alla dimora di LaVey, aveva solo 33 anni, tenuti benissimo, ma aveva già commosso il mondo dello spettacolo e le riviste di gossip con tre matrimoni alle spalle (il primo con Paul J. Mansfield a 14 anni; il secondo con Mr. Universo Mickey Hargitay, e il terzo col regista italiano di serie Z Matt Cimber), una carriera piena di episodi leggendari (violentata in adolescenza, Miss Photoflash 1952, il falso rapimento...), i seni più noti e spettacolari di Hollywood e un interesse piuttosto singolare per la religione, l’astrologia e le perversioni sessuali, argomenti che per lei non rappresentarono mai un tabù davanti alla stampa, confessando tanto il suo piacere per il sadomasochismo, quanto la sua idea, meno paradossale di quanto si pensi, di convertirsi al cattolicesimo. Nel novembre del 1966, durante la celebrazione del San Francisco Film Festival, Jayne Mansfield e il suo compagno, l’avvocato Sam Brody, un gran bel furfante, che per tutto il corso di quel decennio prodigioso si fece i fatti propri all’interno di nient’altro che uno squallido melodramma, andarono in visita alla dimora di Anton LaVey, nel frattempo diventata un’attrazione turistica: un pochino museo, un pochino teatro Grand Guignol, un pochino tempio, un tantino spettacolo circense, in cui si celebravano matrimoni e battesimi satanici, così come qualche funerale. Sin dal primo momento LaVey e Jayne Mansfield si sentirono attratti l’uno dall’altra... con enorme disappunto da parte di Brody, che, oltre a essere l’amante dell’attrice, considerava falso e ridicolo tutto quell’armamentario occultista, utile solo per fare pubblicità gratuita alla sua stella. Il rapporto di Brody e Jayne era tutto fuorché normale. Il legale aveva il controllo totale sulla vita dell’incantevole attrice, con tanto di ricatti (Brody di tanto in tanto minacciava di rendere pubbliche alcune foto che ritraevano Jayne Mansfield nuda… Foto che lui stesso aveva scattato dopo averla fatta ubriacare), la potestà quasi totale sul denaro e le proprietà dell’attrice (alla quale faceva continui regali costosi, pagati con assegni intestati a lei) e una serie di tormentati rapporti sessuali, che comprendevano il sadomasochismo, il feticismo e altri -ismi erotici più pericolosi. Nel giugno del 1967 la figlia maggiore di Jayne, Jayne Marie, abbandonò la casa materna e si rivolse alle autorità, affermando di subire abusi disonesti da parte di Brody e della sua stessa madre. Avendo una natura tanto possessiva quanto ambiziosa, non c’è da stupirsi che Brody provò un immediato antagonismo nei confronti del nuovo guru che era appena entrato nella vita di Jayne. Non gli mancavano di certo i motivi per essere geloso. Anche se all’inizio l’interesse dell’attrice verso LaVey non era altro che pura curiosità, tempo dopo confessò che la sua attrazione per il satanista era anche sessuale: rimase immediatamente affascinata dalle sue vesti sacerdotali nere, le sue conoscenze di magia nera e il suo animale domestico preferito, un leone di cinquecento chili. A quanto pare, lo stesso LaVey arrivò a proporle, senza clamore, di sposarla, anche se lei rifiutò l’offerta, non arrivando mai a prenderla sul serio. Se quel giorno Brody prese coscienza dell’attrazione sessuale tra la sua protetta e il satanista, di sicuro la cosa influì sul suo comportamento durante il primo tour di possessioni di LaVey, e sul corso (o forse dovrei dire Curse?) che presero gli avvenimenti. Mentre il mago mostrava ai suoi visitatori la sua collezione di oggetti magici, libri e amuleti, spiegandone i diversi utilizzi e la relativa filosofia satanista, l’avvocato non smise in alcun momento di fare commenti impertinenti, burlandosi delle parole di LaVey. Quando li condusse al suo altare privato, avvenne il sacrilegio che, finalmente, fece andare su tutte le furie il paziente occultista. Secondo la versione più conosciuta dei fatti, confermata dal principale biografo di Mansfield, May Mann, LaVey mostrò ai suoi ospiti i ceri neri dell’altare che, come spiegò loro, possedevano un potere letale in grado di lanciare una maledizione ineludibile verso tutti coloro che li avessero usati senza permesso, visto che solo il Diavolo in persona, o il suo appresentante in terra (lo stesso LaVey) potevano toccarli senza temerne le conseguenze. Niente di più semplice per irritare lo stregone se non accenderli quando questi era distratto, ed è proprio quello che fece Brody, suscitando l’indignazione del suo anfitrione. LaVey guardò l’avvocato con il fuoco negli occhi e predisse che sarebbe morto nel corso di quello stesso anno, vittima della maledizione di Satana. In disparte, disse a Jayne di stare alla larga dall’avvocato, visto che sarebbe morto in un incidente d’auto, e la stessa sorte sarebbe toccata a chiunque viaggiasse con lui in quel momento. Non si sa se la maledizione fosse semplicemente un discorso melodrammatico prodotto dalla gelosia di LaVey e dai suoi desideri inconfessabili di dividere la coppia di amanti, in modo da avere la strada spianata per approfondire la conoscenza con l’attrice, o se fosse solo un avvertimento sincero. Nessuno lo saprà mai, mentre si conosce perfettamente il destino terribile che sarebbe capitato a Jayne Mansfield e al suo amante, e diavolo personale, Sam Brody. Alcune versioni dell’episodio si prodigano in dettagli macabri, che includono teschi umani e un calice proibito, sul quale Brody avrebbe posato le sue mani empie. Poco importa. I dettagli cambiano, le leggende di Hollywood vanno a mano a mano arricchendosi dei loro tipici fronzoli barocchi, e il tutto si permea di quel sentore sciropposo e sinistramente dolce già sentito in quelle pellicole di serie B dove la Mansfield, rinchiusa nella trappola del suo fisico, aveva recitato nel corso della sua carriera col Diavolo, destinata a terminare con una morte spettacolare e alquanto raccapricciante, i cui dettagli reali non solo superano la leggenda difficilmente comprovabile che li circonda, ma sembrano presi, ancora una volta, da un romanzo horror pulp o da uno di quei film da due soldi di Roger Corman. Jesùs Palacio

Dagotraduzione dal Sun il 9 luglio 2021. Una visita all’inferno e ritorno. Così Bill Wiese ha descritto i 23 minuti di quel pomeriggio del 1998, quando ha vissuto la sua prima esperienza extracorporea. L’uomo, che in quel lasso di tempo sostiene di essere morto e poi tornato alla vita, ha scritto un libro raccontando quello che gli è successo. È stato «trascinato nelle profondità dell’inferno» e qui «ha visto una fossa di corpi in fiamme». L’esperienza è iniziata quando si è svegliato nel cuore della notte per bere un bicchiere di acqua. A quel punto è stato tirato fuori dal suo corpo e «trascinato nelle profondità dell’inferno» attraverso un lungo tunnel buio. «Faceva sempre più caldo e sono arrivato su un pavimento di pietra in una prigione dell’inferno». «C’erano muri di pietra, sbarre, era simile a una prigione, sporca, puzzolente e piena di fumo». «Il caldo era così insopportabile, che mi chiedevo come potessi essere vivo. Perché sono qui, come sono arrivato qui?» Ma Bill non era solo: ha detto di aver incontrato due enormi demoni dal «contegno feroce» nella cella della prigione che stavano camminando su e giù e bestemmiando. Ha spiegato: «E poi hanno diretto verso di me questo odio che avevano verso Dio. Un demone mi ha preso e mi ha gettato sul muro di questa cella di prigione. Mi sentivo come se le ossa si fossero rotte». «Mi chiedevo perché fossi ancora vivo nonostante tutto questo. L'altro demone ha conficcato i suoi artigli nel mio petto e ha squarciato la carne. Stava realmente accadendo». Ha poi raccontato che la cella della prigione si è poi illuminata, da ciò che credeva essere Dio, prima che fosse nuovamente immersa nell'oscurità. Ha poi visto in una fossa di fuoco «migliaia di persone, urlanti e in fiamme», aggiungendo che sembravano scheletri. Secondo Bill c'erano vari gradi o punizioni e lui era tenuto in isolamento, aggiungendo che «il fetore dell'inferno è un odore fetido, putrido, disgustoso». Altri si sono fatti avanti per condividere le loro esperienze su Reddit. Un utente ha scritto: «Stavo facendo un angiogramma, ero completamente sveglio e stavo guardando lo schermo e parlando con il dottore. Gli allarmi hanno iniziato a suonare e tutti sono andati nel panico. Il mio mondo è diventato morbido e nebbioso e tutto è sbiadito nel nero. La cosa successiva che ricordo è stata quando ho aperto gli occhi e ho sentito un dottore dire 'lo abbiamo riportato indietro'. È stata davvero una sensazione di pace più di ogni altra cosa». Un altro utente ha scritto: «Ho avuto overdose, e sfortunatamente tutto ciò che ricordo era pura oscurità. Solo oscurità senza fine. Forse non sono stato via abbastanza a lungo per arrivare completamente dall'altra parte, ma è tutto quello che ho visto. Dovrei anche dire che il tempo non funziona allo stesso modo quando sei vicino alla morte. Mi sembrava di essere stato via per poche ore ma erano passati solo 5 minuti».

Dagotraduzione dal New York Post il 6 luglio 2021. Monsignor Stephen Rossetti, esorcista americano, combatte da sempre contro le forze demoniache. Per cinque anni in due parrocchie di Siracusa, e oggi a Washington DC dove, lui e il suo team, eseguono fino a 20 esorcismi a settimana liberando case e persone da ciò che definiscono «demoni e male satanico». Secondo il sacerdote cattolico, gli esorcismi sono «cresciuti in modo esponenziale» negli ultimi dieci anni. Gli Stati Uniti, dilaniati dal conflitto e da una crisi morale, sono «demoniacamente oppressi». «Prima di migliorare, peggiorerà, e di molto» ha profetizzato Rossetti. Psicologo e professore associato di ricerca presso la Catholic University of America, Rossetti ha raccontato i suoi 13 anni di esperienze nel suo libro “Diary of an American Exorcist. Demons, Possession, and the Modern-Day Battle Against Ancient Evil” (Sophia Institute Press). Il sacerdote ha visto parecchi demoni all’opera: sbattono porte, accendono e spengono televisioni, fanno ululare i cani in modo incontrollato, parlano attraverso le vittime in lingue antiche a loro sconosciute o li inducono a vomitare oggetti estranei come dadi e bulloni. «Ci sono cose incredibili che accadono e che sono umanamente impossibili» ha detto. Il prete, anche presidente e fondatore del St. Michael Center For Spiritual Renewal, un'organizzazione cattolica senza scopo di lucro che supervisiona le sessioni di esorcismo nell'area di Washington, ha sostenuto di non aver ancora visto nessuna vittima levitare o girare la testa come nel film "L'esorcista" o nel nuovo "The Conjuring – Per ordine del diavolo". Ma ha assistito regolarmente al male diabolico. Ricorda per esempio l’esorcismo con cui liberò una donna dal suo demone. Iniziò ordinandogli «di andarsene. La donna posseduta scuoteva il dito e la testa, per dire “No!”». Allora il sacerdote si avvicinò e, spruzzando sulla donna acqua santa, gridò in latino: «Ecce crucem Domino: fugite partes adversae» (Ecco la croce del signore, fuggite, o potenze ostili). Dopo alcuni spasmi la vittima fu liberata. «In un esorcismo, i demoni sono inghiottiti in una santa tortura che crediamo sia peggiore dei fuochi dell'inferno», scrive Rossetti. «Si contorceva dal dolore». Alcune volte, i demoni gli causano male fisico. Nel suo libro Rossetti ricorda il caso di un uomo di mezza età lievemente posseduto. «Ho sentito subito la nausea salire e la sensazione di malessere si è diffusa rapidamente alla mia testa e al resto del mio corpo. Tutto il mio essere si è sentito spiritualmente preso a pugni durante la sessione». Un’altra volta, una giovane donna chiese il suo aiuto perché sulla spalla le era apparsa una bruciatura a forma di croce rovesciata. Non solo. Suo padre riceveva messaggi sarcastici dai demoni sul suo cellulare. «I testi erano un tipico sproloquio demoniaco: “Lei appartiene a noi”» ha raccontato Rossetti. Anche se i testi sembravano provenire dal cellulare della donna, secondo il sacerdote non c’erano prove che fosse stata lei a inviarli. «Diversi esorcisti hanno avuto la stessa esperienza: hanno ricevuto messaggi dai demoni. E perché no?» dice il prete. «In passato hanno pasticciato con l’elettricità: Tv e luci che si accendono e si spengono da soli. Adesso giocano con i cellulari». Ma i messaggi erano l’ultima preoccupazione della vittima. Da bambina il padre l’aveva dedicata a Satana. «Se qualcuno è abbastanza pervertito da unirsi a un culto satanico, allora non è una forzatura immaginarlo offrire i proprio figli al suo “Dio”». Quando la giovane donna è cresciuta, ha trovato la sua strada nella fede cattolica. «Ai demoni non piaceva. E l’hanno reclamata bruciandole quella croce sulla spalla. Così è iniziata la battaglia spirituale». La lotta è durata sei mesi e Rossetti si è fatto aiutare da un altro sacerdote e da diversi fedeli per vincerla. «Per fortuna, questa donna è stata recentemente liberata dal potere di Cristo», ha detto Rossetti. «È stata una brutta lotta e non voglio riviverla». Rossetti è stato nominato esorcista diocesano dal suo vescovo a Washington. Si è formato a Roma e negli Stati Uniti sotto un anziano esorcista, ed è stato coinvolto in centinaia di liberazioni sin dal 1999. Per ogni vittima indossa i suoi abiti clericali con una stola viola sulle spalle. «I demoni odiano la stola e continuano a dirmi di toglierla». Brandisce anche un crocefisso benedettino decorato con una formula esorcista: “Vade retro Satana”. Anche l’acqua santa è essenziale. «Usiamo una bottiglia grande e la spruzziamo addosso alle vittime» ha spiegato Rossetti. L’effetto? Gli indemoniati spesso vomitano schiuma bianca non appena vengono toccati dall’acqua. L’unico modo per proteggersi, secondo il sacerdote è «mettere crocifissi in casa, tenere acqua santa, circondarsi di statue religiose e recitare il rosario. Questa è la protezione».

Chi era Padre Amorth, l’esorcista nato il I maggio del 1925. Giampiero Casoni il 02/05/2021 su Notizie.it. Chi era Padre Amorth, l’esorcista nato il I maggio del 1925. Da giovane partigiano cattolico a combattente, a volte troppo irreprensibile, contro il Male. Chi era Padre Amorth, l’esorcita nato il I maggio del 1925? Per molti era un simbolo assoluto della lotta contro il male, per altri un prete talmente concentrato nella battaglia contro Satana da vederlo forse in un pò troppe cose e persone. Una cosa è certa, la figura di Gabriele Pietro Amorth, presbitero, esorcista della Diocesi di Roma e scrittore, è stata talmente netta nella sua caratterizzazione da risultare divisiva perfino all’interno della Chiesa. Gabriele nasce a Modena il I maggio del 1925 e muore a Roma il 16 settembre del 2016. 

Chi era Padre Amorth, il partigiano cattolico “Alberto”. La sua famiglia ha radici cattoliche marcatissime, tanto che Gabriele si iscrive subito alla Fuci e fa la sua parte nella Liberazione dell’Italia dai nazi fascista come effettivo partigiano della brigata Italia di Gorrieri. Il suo nom de guerre è “Alberto” e si distingue per carisma e coraggio, tanto da meritarsi la nomina a capo piazza di Modena e a comandante del III Battaglione. Si laurea in giurisprudenza, entra nella società San Paolo e diventa presbitero a fine gennaio del 1954. 

Chi era Padre Amorth: la nomina ad esorcista di Roma. La svolta della sua vita sta tutta nelle pieghe di quegli anni. Il vescovo Roatta lo indirizza alla pubblicistica con Famiglia Cristiana e in quel periodo Gabriele mette a fuoco la sua “vocazione” di combattente attivo contro Satana, come esorcista. Nel 1986 Ugo Poletti, cardinale ortodosso profondamente convinto della sustanzialità del Maligno, lo nomina esorcista della Diocesi di Roma. Diventa allievo di Candido Amantini, l’esorcista capitolino per antonomasia e nel 1990 fonda l’Associazione Internazionale degli Esorcisti, presieduta da lui fino al 2000. 

Chi era Padre Amorth, i giudizi su personaggi pubblici. E di esorcismi padre Amorth ne ha presieduti davvero tanti, molti dei quali in aperta controversia con la comunità scientifica, altri in endorsement con il mondo della psichiatria di matrice cattolica. Memorabili alcune sue “uscite” in merito al mondo della televisione, della politica, della società e dello spettacolo: per lui erano messaggeri del Demonio Belle Fiorello, Maurizio Costanzo e Nichi Vendola. Le sue posizioni ortodosse all’interno del dogma della chiesa furono palesi anche quando individuò in Beppino Englaro, padre di Eluana, la ragazzina coinvolta nella vicenda sul fine vita più iconica di inizio millennio, un nuncio di Satana. Su omosessualità, fine vita ed altri temi di forte impatto sociale Padre Amorth fu irreprensibile, a volte duro in maniera ingiustificata perché in quei fenomeni non vedeva una società che evolveva, magari non in linea con la dottrina cattolica, ma le varie epifanie di Satana. Per questo venne amato da moltissimi ma anche avversato da tanti. Altri membri dello show bitz finirono addirittura per usarlo come icona ed iperbole delle loro stramberie.

Chi era Padre Amorth, il prete che faceva paura a Satana. Diede dell’invasato a Giorgio Napolitano, asserì che Maometto era stato posseduto e che Mario Monti era manovrato da Satana, giungendo ad affermare che l’omosessualità sarebbe contronatura. Padre Amorth ebbe anche a dire che il caso di Emanuela Orlandi era stato innescato da orge tenutesi in Vaticano. mise sempre al centro delle sue “diagnosi” l’intervento diretto di intermediari di Satana, persone cioè in grado di scatenare malefici rivolgendosi a maghi ed occultisti legati all’Avversario. Insomma, dove il mondo vedeva grulli, lui ci vide soldati del Maligno. Di lui probabilmente resterà quella frase con cui rispose ad una domanda precisa durante un’intervista. “Io paura di Satana? E’ lui che deve avere paura di me”. 

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

Dagotraduzione dal Times il 13 aprile 2021. La Chiesa ortodossa russa ha redatto una serie di regolamenti su quali sono le procedure per espellere i demoni dal corpo. I religiosi hanno deciso di preparare questo manuale per via degli incidenti, a volte mortali, causati dagli esorcismi fai da te. Nel 2019 sono morte almeno due persone per via degli esorcismi: un bambino di nove anni, imbavagliato e frustato dal padre per “scacciare un demone”, e un uomo di mezza età, soffocato dalla madre per essersi avvicinato all’occulto. Altri casi: una donna di 26 anni, a Voronezh, morta nel 2011 dopo essere stata costretta dai genitori a bere 5 litri di acqua santa (erano convinti che il marito fosse il diavolo); un bambino di dieci anni, di cui è circolato il video, esorcizzato a colpi di aglio e acqua santa. Il vescovo Hilarion, un alto funzionario della Chiesa ortodossa russa, ha detto che il documento, che deve ancora essere reso pubblico, fornirà un insieme di regole "unificanti" per l’esorcismo. La Chiesa ortodossa ha messo in guardia i russi dal tentare di scacciare i demoni senza l'aiuto di sacerdoti qualificati. Secondo il patriarca Kirill di Mosca, capo della chiesa, solo il clero “spiritualmente forte” dovrebbe eseguire esorcismi. L'esorcismo ha guadagnato popolarità negli anni '90 dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Uno degli esorcisti più famosi è stato Sergei Romanov, ex poliziotto e assassino, poi convertito al cristianesimo. Romanov, 65 anni, è stato arrestato quest'anno dopo che lui e i suoi seguaci hanno preso il controllo di un convento negli Urali. È stato scomunicato dalla chiesa.

Salvatore Cernuzio per lastampa.it il 22 febbraio 2021. Mai, mai e poi mai dialogare con il diavolo: è un «nemico astuto, interessato alla nostra condanna eterna, al nostro fallimento», dobbiamo «combatterlo» non dialogarci, altrimenti «saremo sconfitti». Nell’Angelus della prima domenica di Quaresima, affacciato dal Palazzo Apostolico in una Piazza San Pietro assolata come un giorno di primavera, Papa Francesco rievoca il «duello» tra Gesù e Satana, durante i quaranta giorni vissuti da Cristo nel deserto. In questo luogo di «solitudine» ma anche di «tentazione», inizia una lotta che si concluderà con la morte del Figlio di Dio in Croce: «L’ultimo “deserto” da attraversare per sconfiggere definitivamente Satana e liberare tutti noi dal suo potere». Potere che, da soli con le nostre forze, non siamo in grado di contrastare. «Al diavolo è concessa la possibilità di agire anche su di noi con le tentazioni», ammonisce Francesco. Bisogna pertanto «essere consapevoli della presenza di questo nemico astuto, interessato alla nostra condanna eterna, al nostro fallimento, e prepararci a difenderci da lui e a combatterlo», dice nella sua catechesi. «Il tentatore seduce», ammonisce il Papa a braccio, ma «la grazia di Dio ci assicura, con la fede, la preghiera e la penitenza, la vittoria sul nemico». «Tutto il ministero di Cristo è una lotta contro il Maligno nelle sue molteplici manifestazioni: guarigioni dalle malattie, esorcismi sugli indemoniati, perdono dei peccati», evidenzia il Pontefice. «Dopo la prima fase in cui Gesù dimostra di parlare e agire con la potenza di Dio, sembra che il diavolo abbia la meglio, quando il Figlio di Dio viene rifiutato, abbandonato e, infine, catturato e condannato a morte. Ha vinto il diavolo, sembra. Sembra che il vincitore è lui». Invece proprio il «combattimento contro lo spirito del male, ci mostra che Gesù ha affrontato volontariamente il Tentatore e lo ha vinto». Attenzione, però: «Nelle tentazioni, Gesù mai dialoga col diavolo. Mai!», sottolinea Papa Francesco a braccio. «Nella sua vita Gesù mai ha fatto un dialogo col diavolo, mai! Lo scaccia via, lo condanna, fa vedere la sua malizia. Ma mai un dialogo… E anche nel deserto sembra che c’è un dialogo, perché il diavolo fa tre proposte e Gesù risponde. Ma mai Gesù risponde con le sue parole, risponde con la Parola di Dio, con tre passi della Scrittura». Questo serva da lezione a tutti: «Quando si avvicina il seduttore, e inizia a sedurre “pensa quello, fai questo”, la tentazione è di dialogare con lui, come ha fatto Eva… Se noi entriamo in dialogo, saremo sconfitti. Mettete questo nella testa e nel cuore: col diavolo mai si dialoga. Non c’è dialogo possibile, soltanto la parola di Dio». In questo tempo di Quaresima, conclude il Pontefice, tutti noi siamo spinti ad «entrare nel deserto» che non si tratta di un luogo fisico, ma di «una dimensione esistenziale in cui fare silenzio, metterci in ascolto della parola di Dio». «Non avere paura del deserto - esorta il Papa - cerchiamo momenti di preghiera, di silenzio, di entrare dentro di noi. Non avere paura… Siamo chiamati a camminare sui sentieri di Dio, rinnovando le promesse del nostro Battesimo: rinunciare a Satana, a tutte le sue opere e a tutte le sue seduzioni. Il nemico è lì accovacciato, ma mai dialogare con lui». Dopo l’Angelus, Papa Francesco saluta i fedeli polacchi presenti a San Pietro e dice: «Oggi il mio pensiero va al Santuario di Plock, in Polonia, dove 90 anni fa il Signore Gesù si manifestò a Santa Faustina Kowalska affidandole uno speciale messaggio della Divina Misericordia. Mediante San Giovanni Paolo II quel messaggio è giunto al mondo intero e non è altro che il Vangelo di Cristo morto e risorto che ci dona la misericordia del Padre. Apriamogli il cuore dicendo con fede: “Gesù confido in te”». Jorge Mario Bergoglio saluta anche i giovani del gruppo “Talita Khum” della parrocchia romana di San Giovanni dei Fiorentini: «Grazie della vostra presenza e avanti con gioia nei vostri progetti di bene». Infine si congeda augurando a tutti una «buona» e «bella domenica, bella c’è il sole!».

Sodoma e Gomorra, il racconto biblico ispirato dall’impatto di un asteroide: trovate le tracce. Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera 21 settembre 2021. Testimonianze di un impatto stellare a Tall el-Hamman che sarebbe all’origine del racconto biblico di Sodoma e Gomorra: ci fu un’onda d’urto fortissima. Quando apparve l'alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: «Prendi tua moglie e le tue figlie che hai qui ed esci per non essere travolto nel castigo della città»... ...Il sole spuntava sulla terra e Lot era arrivato a Zoar, quand’ecco il Signore fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco proveniente dal Signore. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti delle città e la vegetazione del suolo.Genesi, 19

Lo studio. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature collega il racconto biblico della punizione di Sodoma e Gomorra (e forse anche la distruzione delle mura di Gerico) con la distruzione di un villaggio a nord del mar Morto a causa di un oggetto piovuto dal cielo, un piccolo asteroide o più probabilmente una cometa o un suo frammento, avvenuto intorno al 1.600 a. C. nella cittadina che ora è conosciuta come Tall el-Hammam, in Giordania. Dopo 15 anni di scavi, un gruppo di 21 scienziati di Stati Uniti, Canada e Rep. Ceca sono giunti a una conclusione supportata da dati consistenti: Tall el-Hamman fu distrutta in modo rapido da un oggetto arrivato dallo spazio, simile a quello che nel 1908 provocò una grande devastazione nell’area della Tunguska, in Siberia.

I dati. Archeologi, geologi, geochimici, geomorfologi, mineralogi, paleobotanici, sedimentologi, esperti di impatti cosmici e medici si sono trovati di fronte a evidenze che non sono spiegabili con incendi, eruzioni vulcaniche o terremoti. In uno strato di 1,50 metri di spessore ci sono evidenze di ceneri, resti carbonizzati, di metalli, ceramica e mattoni liquefatti: nessun incendio, nemmeno il più terribile, è in grado di portare a fusione i mattoni, a meno che non si raggiungano temperature di 1.500 gradi. Oltre a questo sono stati trovati microdiamanti, sferule vetrificate e granuli di quarzo con strutture dovute a grandi pressioni, tipiche di aree che sono state colpite da intense onde d’urto.

La distruzione

L’ipotesi è che un giorno il villaggio venne investito dall’onda urto provocata dall’esplosione di un oggetto a 4 chilometri d’altezza che entrò nell’atmosfera a una velocità di 61 mila chilometri all’ora. La potenza dell’esplosione è pari a quella di mille bombe atomiche come quella di Hiroshima. Chiunque in quel momento stava guardando nella direzione dell’esplosione venne accecato all’istante dal lampo. La città fu investita da un’onda d’urto che viaggiava a 1.200 chilometri all’ora e provocò una pressione di 50 tonnellate al centimetro quadrato, la temperature salì rapidamente a 2 mila gradi. Tutto prese fuoco: metalli e mattoni si sciolsero in pochi minuti. L’intera città venne distrutta, difficilmente qualcuno dei suoi 8 mila abitanti riuscì a salvarsi. Pochi minuti dopo l’onda d’urto arrivò a Gerico, distante solo 22 chilometri, e potrebbe aver danneggiato o distrutto le sue famose mura. Tall el-Hammam e un centinaio di siti vicini furono abbandonati per secoli, forse perché l’onda d’urto sollevò i sali dei sedimenti intorno al mar Morto, che resero la zona sterile per circa 600 anni.

La Bibbia. Tutto ciò richiama da vicino la distruzione biblica di Sodoma e Gomorra. Gli autori dello studio ipotizzano che il racconto di coloro che si trovavano nei dintorni di Tall el-Hammam abbiano tramandato negli anni la devastazione che osservarono in diretta e che poi la tradizione orale fu trasposta nel racconto biblico.

·        L’inquisizione.

Dagotraduzione dal Guardian il 17 ottobre 2021. Il mago ufficiale della Nuova Zelanda, forse l’unico mago nominato dallo Stato al mondo, è stato licenziato dopo 23 anni di attività. The Wizard (appunto “Il Mago”), il cui vero nome è Ian Brackenbury Channell, 88 anni, era stato incaricato dal consiglio comunale di Christchurch di promuovere la città attraverso «atti di magia e altri servizi simili offerti dai maghi» al costo di 16.000 dollari all’anno. In tutto ha incassato 368.000 dollari. Channell, nato in Inghilterra, ha iniziato a compiere atti di magia e intrattenimento negli spazi pubblici poco dopo il suo arrivo in Nuova Zelanda nel 1976. Quando il consiglio cercò di fermarlo, il pubblico protestò. Nel 1982, la New Zealand Art Gallery Directors Association lo definì un’opera d’arte vivente e nel 1990 l’allora primo ministro Mike Moore gli chiese di prendere in considerazione l’idea di diventare il Mago della Nuova Zelanda. «Sono preoccupato che la tua magia non sia a disposizione dell’intera nazione» scrisse Moore sulla carta intestata ufficiale del governo. «Suggerisco quindi che dovresti considerare urgentemente il mio consiglio di diventare il Mago della Nuova Zelanda, dell’Antartide e della aree offshore rilevanti… senza dubbio ci saranno implicazioni nell’area di incantesimi, benedizioni, maledizioni e altre questioni soprannaturali che sono al di là della competenza dei meri Primi Ministri». Da allora The Wizard si è esibito a Christchurch, ha ballato sotto la pioggia della Nuova Zelanda e dell’Australia durante i periodi di siccità, ed è stato insignito della Queen's Service Medal nel Queen's Birthday Honours del 2009. Ma è andato incontro anche a critiche e polemiche, soprattutto per le sue battute sulle donne. Il mago ha detto che il consiglio aveva deciso di smettere di pagarlo perché non si adattava alle "vibrazioni" della città. Ha detto che era un provocatore. «Sono noioso e vecchio, ma non c'è nessun altro come me a Christchurch». Il mago è un volto noto ai residenti di Christchurch, ma negli ultimi anni la sua presenza è diminuita e gli avvistamenti sono diventati rari. Lui sostiene che è stato il consiglio a renderlo invisibile. Il mago ha detto che avrebbe continuato le sue apparizioni regolari al Christchurch's Arts Centre, chiacchierando con i turisti e la gente del posto. Il centro ospita questo mese una mostra sulla sua vita, che è sostenuta dal consiglio. Quando gli è stato chiesto se avrebbe maledetto il consiglio per la sua decisione, ha detto che preferiva dare benedizioni. «Offro ai bambini sogni felici, buona salute generale e voglio che i burocrati diventino più umani».

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 19 ottobre 2021. Il Mago ha assicurato che no, non farà la fattura alle autorità neozelandesi che l'hanno licenziato su due piedi, dopo trent'anni di malocchi, benedizioni e profezie sulla pubblica piazza di Christchurch. La giunta cittadina ha ufficialmente messo fine al contratto di lavoro con Ian Brackenbury Channell, 88 anni, che prevedeva un compenso annuo di circa 10 mila euro per le sue prestazioni di Mago Ufficiale della Nuova Zelanda. Il fatto che la stregoneria «non corrisponde più all'immagine di una città dinamica e moderna» e magari anche qualche sua dichiarazione ispirata a formule più sessiste che magiche, hanno convinto il Consiglio di Christchurch a chiudere il rapporto di collaborazione con lo stregone, diventato con gli anni una sorta di Gandalf o Silente: mantello nero, cappello a punta, barba bianca, e pulpito davanti alla cattedrale.

IL CONFERIMENTO Era stato l'ex premier Mike Moore nel 1990 a conferirgli l'incarico di mago ufficiale della Nuova Zelanda considerando all'epoca che «avrebbe potuto dare il suo contributo nel settore degli incantesimi, benedizioni, malocchi e altre questioni sovrannaturali che esulano dalle semplici competenze di un primo ministro». In trent'anni, il mago Brackenbury ha gettato incantesimi (spesso e volentieri sulle squadre di rugby avversarie di Christchurch), inscenato danze della pioggia (in occasione di periodi di particolare siccità ha anche operato in trasferta in Australia), e soprattutto predicato sul sagrato davanti ala cattedrale della città, fustigando anche le autorità quando riteneva che stessero snaturando l'anima della comunità, per esempio cambiando il colore delle cabine telefoniche. «Sono soltanto una banda di burocrati senza un minimo d'immaginazione» ha commentato mago Brackenbury alla notizia del suo licenziamento: «Non capiscono che potrebbero continuare ad approfittare della mia fama mondiale, sono molto, molto deluso». Ma alla domanda inevitabile sull'intenzione di usare i poteri speciali per vendicarsi, Brackenbury ha evitato minacce di ritorsioni con uso di magia nera o altri malocchi e ha detto che nel corso della sua carriera ha sempre preferito puntare sulle benedizioni: «preferisco regalare ai bambini salute e sogni felici. Al limite vorrei solo che i burocrati fossero un po' più umani». Figura popolare di Christchurch, menzionato nelle guide turistiche e protagonista di cartoline, il Mago si era un po' messo da parte da solo negli ultimi anni. Il mancato effetto di una fattura contro una squadra avversaria di rugby lo aveva portato a gettare il cappello a punta e a ritirarsi per qualche tempo con la compagna a Oamaru, cittadina neozelandese diventata rifugio di artisti. 

L'ADDIO Allora il consiglio comunale lo aveva pregato di tornare. Ad aprile si era invece distinto per dichiarazioni poco magiche sulle donne: «Mi piacciono le donne, perdono loro qualsiasi cosa, non ne ho mai picchiata una finora. Vi consiglio di evitare di picchiarle, perché hanno facilmente dei lividi e poi vanno in giro a dirlo a tutti e rischiate di avere problemi grossi». «Rifletteremo ad altri modi per mettere in valore Christchurch, una città dinamica, inclusiva e moderna» ha dichiarato la vicesindaca Lynn McClelland. Nato a Londra, ex pilota della Royal Air Force, Brackenbury ha una laurea in psicologia e un'altra in sociologia. Già all'università di Sydney, dove era arrivato all'inizio degli anni '70, era riuscito a farsi nominare mago del campus, dopo aver proclamato la Fun Revolution, la rivoluzione dello spasso.

Francesca Pierantozzi per "Il Messaggero" il 29 settembre 2021. Le notizie arrivano un po' in ritardo dal Sud-Kivu, vasta provincia collinosa a est del Congo. Questa volta sono stati alcuni abitanti dei villaggi di Cihira e Kanyunyo, sulle sponde del grande lago al confine con il Ruanda, a raccontare i fatti alle autorità del Governo provinciale: a metà agosto una ventina di donne sono state accusate di stregoneria. La caccia alle streghe sarebbe stata ordinata da una Bajakazi ed è stata condotta da un gruppo di uomini. Sono andate a cercarle casa per casa, molte sono riuscite a fuggire, alcune sono state punite, prese a bastonate, altre cacciate per sempre dal villaggio, ma una, la più anziana, Nyabadeux, ultranovantenne, aveva deciso di non scappare, l'hanno presa, picchiata, poi cosparsa di benzina e bruciata viva, davanti agli abitanti, ai vicini, alla famiglia. È la prima volta che il nome di una strega arriva alle cronache, ma nel Sud-Kivu i roghi contro le donne accusate di malefici, di aver mangiato bambini o altri membri della famiglia, di aver procurato carestie o disgrazie nel villaggio sono aumentati negli ultimi mesi. Complice anche la pandemia, con le autorità più occupate sul fronte sanitario, la caccia alle streghe è tornata a funestare queste regioni dell'Africa centrale e in particolare i villaggi del Sud-Kivu. «Soltanto nel periodo che va da giugno a settembre abbiamo registrato 324 accuse di stregoneria», ha dichiarato alla France Presse Nelly Adidja, militante dell'Associazione Donne e Media del Sud Kivu. Solo nel territorio di Kalehe, cinque donne sono state bruciate vive nelle ultime settimane. Il fenomeno non è nuovo e riguarda diversi paesi dell'Africa Subsahariana. Spesso sono donne anziane, che magari hanno perso il marito e non si sono mai risposate, un peso per la comunità. Secondo un recente sondaggio, il 95 per cento della popolazione della Costa d'Avorio sostiene di credere nella stregoneria, in Ghana, Congo e Tanzania, è circa il 70 per cento. Ma è in particolare nella regione del Sud-Kivu, dove le donne continuano a essere vittime anche della violenza delle milizie ruandesi, che la caccia alle streghe è tornata a diffondersi con maggiore accanimento e il potere delle Bajakazi a imporsi nonostante la legge. Nel 2014 il governo provinciale aveva tentato di arginarle emanando un editto che «vietava il ricorso alla giustizia popolare». «Ma la legge è rimasta quasi senza effetto» commenta oggi Thadée Miderho, amministratore del territorio di Kabare, dove, dall'inizio dell'anno, sono almeno sei le donne bruciate o lapidate, perché considerate streghe: «erano praticamente tutte di oltre sessant' anni». Due anni fa, dopo una (rara) denuncia arrivata al procuratore di Kavumu, municipalità nel nord della Provincia, undici Bajakazi erano state arrestate e condannate a sei mesi di carcere, «ma molte hanno ricominciato a emettere le loro sentenze appena uscite» assicura Miderho.

Individuarle è quasi impossibile, perché in caso di un'esecuzione per stregoneria «i capi dei villaggi dicono che è stata la popolazione a decidere, e non fanno mai nomi». Shasha Rubenga, insegnante e giovane militante in un'Associazione per i diritti umani, è stato uno dei testimoni della morte di Nyabadeux e della terribile caccia alle streghe all'alba del 16 agosto. «Era un lunedì, non lo dimenticherò mai ha raccontato all'Afp alle cinque del mattino ho visto dei giovani aggirarsi per il villaggio di Cifunzi con una lista in cui figuravano i nomi di 19 donne. Tutte avevamo più di 65 anni. Una profetessa le aveva designate come streghe. La maggior parte di quelle donne sono riuscite a scappare, le loro case sono state distrutte. Qualcuna è stata salvata da militari che hanno sparato dei colpi in aria. Ma poi li ho visti acciuffare questa donna, Nyabadeux, l'hanno colpita, picchiata mentre era già a terra, poi l'hanno cosparsa di benzina le hanno dato fuoco, in mezzo al villaggio. C'erano anche bambini. Ne ho visto uno, piccolissimo, che scuoteva con un bastone il corpo carbonizzato».

L’inquisizione a Milano: la strage delle STREGHE. Da milanocittastato il 25/06/2018. La caccia alle streghe si apre ufficialmente nel 1327, con la Bolla “Super illius specula” di papa Giovanni XXII con la quale viene conferita validità universale alla lotta alla stregoneria tramite l’Inquisizione. La prima strega giustiziata a Milano in realtà era uno stregone. Si trattava di Gaspare Grassi da Valenza che venne accusato di essere un “pubblico negromante, incantatore di demoni, uomo di eretica pravità e relapso nella abiurata eresia”. La sua esecuzione avvenne il 16 settembre del 1385 davanti a una grande folla. Il 26 maggio 1390 fu condannata al rogo per stregoneria Sibillia Zanni, seguita due mesi dopo da Pierina de’ Bugatis che confessa di aver partecipato al “gioco di Diana”, che si trattava di un corteo di streghe, stregoni e spiriti infernali, meglio conosciuto come “sabba”, in cui si celebravano riti orgiastici. La condanna viene eseguita nel Broletto Nuovo.

Nel 1484 il papa Innocenzo VIII intensifica la lotta alle streghe e fa redigere il Malleus maleficarum, il più autorevole manuale contro le streghe ad uso degli inquisitori.

Il 13 settembre del 1490 viene bruciata al Broletto Antonia da Pallanza.

Il 13 febbraio 1515 viene bruciata in S. Eustorgio una certa Giovannina.

Il 4 agosto 1517 vengono bruciate sette streghe giudicate colpevoli di aver provocato una terribile tempesta di pioggia su Milano.

Il 24 luglio del 1519 in S. Eustorgio viene bruciata Simona Ostera e nella stessa sede viene bruciata Lucia da Lissono il 21 ottobre del 1542. 

Nel 1558 il tribunale dell’Inquisizione di Milano viene trasferito da S. Eustorgio a S. Maria delle Grazie. Con la nomina ad arcivescovo di Carlo Borromeo, le cose non andarono meglio. Nel corso del primo Concilio Provinciale indetto nel 1568 da Carlo Borromeo viene approvato il decreto De magicis artibus, veneficiis divinationibusque prohibitis e il nuovo arcivescovo chiede la cattura di Domenica di Scappi, “denontiata al offitio della sanctissima Inquisitione per stria notoria”.

L’anno seguente in un processo contro 9 presunte streghe Borromeo lottò col senato milanese per farle condannare, ma non ci riuscì.

Ma il periodo peggiore arrivò con l’insediamento di Federico Borromeo nel 1594. Durante il suo episcopato, tra il 1595 e il 1631 a Milano furono bruciate 9 streghe e uno stregone. Il luogo delle esecuzioni era Piazza Vetra. Prima di essere arse sul rogo, le macapitate venivano torturate fino a che non confessavano i loro crimini. Una strega confessò di aver banchettato con il diavolo: «I cibi non erano amari né tanto sgradevoli, ma proprio non avevano quel sapore naturale che sentiamo mangiando comunemente, e che infine ne seguiva disgusto e nausea».

Il 12 novembre 1641 vengono bruciate alla Vetra Anna Maria Pamolea, padrona, e Margarita Martignona, sua serva. Sono le ultime due streghe condannate a Milano.

Nel 1692 nella cittadina di Salem, nella Nuova Inghilterra, si scatena l’ultima grande caccia alle streghe. Si conclude con la condanna a morte di 19 persone.

Nel 1749 col libro di Girolamo Tartarotti “Congresso notturno delle Lammie” e con gli scritti di Scipione Maffei si definisce il fenomeno della caccia alle streghe come “una credenza fantastica, opera di cervelli pazzi e teste strambe”.

Ma c’è ancora un rogo che viene fatto a Milano. Tra giugno e agosto del 1788 vengono bruciati nel chiostro di S. Maria delle Grazie, per volere dell’imperatore Giuseppe II, i documenti relativi all’Inquisizione di Milano, che coprivano il periodo dal 1314 al 1764.

Fonte: storiadimilano.it.

Alberto Fraja per "Libero quotidiano" il 21 settembre 2021. Questa storia delle torture inferte dagli inquisitori di Santa Romana Chiesa, per dire. Ne hanno dette e scritte di ogni. Mentendo sapendo di mentire. Centinaia di libri e di riviste grondano di racconti truculenti in cui si descrivono nei minimi particolari sevizie le più crudeli e tecniche le più efferate utilizzate per estorcere confessioni, abiure o più semplicemente sottomissioni. E vere e proprie manifestazioni grandguignolesche ditali bufale storiche sono i cosiddetti musei della tortura. Hanno riaperto i battenti lo scorso 6 agosto dopo circa due anni di chiusura causa virus cinese. Con grande successo di pubblico, a quanto pare e nonostante l'odiato green pass. Pali, seghe, gabbie, asce, funi, chiodi, ruote, carrucole: la narrazione inventata della tortura, in quei luoghi tocca lo zenit. Una macabra esposizione di attrezzi che fanno assomigliare ridicolmente il boia a un fabbro o a un falegname. Monumenti al falso che oltretutto riescono ad ottenere patrocini regionali, del FAI e addirittura di ONG piuttosto famose. E sono loro, i musei quelli che più fanno gioco sulle leggende nere che riguardano il medioevo e l'Inquisizione. E meno male che a smontare certe messe in scena farlocche ci pensa, ogni tanto, qualche persona dotata di senno ma soprattutto di rigore documentaristico. Come il sito di apologetica Il Cammino dei Tre Sentieri, per esempio, peraltro in buona compagnia considerando gli studi fatti in materia da medievisti di valore come Franco Cardini, Arturo Colombo e Marina Montesano. I redattori del sito non hanno dubbi: nessuno degli strumenti di sevizia esibiti nei musei delle torture sopravvivrebbe a una seria valutazione storica. Essenzialmente, esclusi gli strumenti di condanna capitale, gli altri sono tutti falsi storici del XVII e XIX secolo creati ad hoc per sostanziare la Leyenda Negra sulla Inquisizione senza, oltretutto, mai specificare di quale Inquisizione si tratti. Di esempi di consimili sòle, per dirla alla romana, ce n'è in quantità industriali. Cogliamo fior da fiore. Uno dei più famosi è la cosiddetta «Vergine di ferro» o «Vergine di Norimberga». Si tratta di un sarcofago antropomorfo a due ante e con aculei all'interno il cui scopo era quello di straziare, con la chiusura delle ante medesime, il corpo della vittima. C'è poi la cosiddetta «Forcella dell'Eretico», una sorta di doppia forchetta legata al collo, con le punte rivolte sotto il mento e al petto. Il sito de Il Museo della Tortura, gestito dalla Inquisizione s.r.l. (sic), lo definisce così: «Con le quattro punte acutissime conficcate profondamente nella carne sotto il mento e sopra lo sterno veniva impedito qualsiasi movimento della testa: la vittima poteva soltanto bisbigliare abiuro». «Ci si aspetterebbe di trovare almeno una menzione della Vergine di Norimberga o della Forcella dell'Eretico nel Philippi a Limborch Historia inquisitionis scritto da Philippus van Limborch nel 1692, un teologo protestante fortemente critico della Chiesa» contestano ai Tre Sentieri. Ma di tutto ciò, nel volume di van Limborch, non v' è traccia. La più divertente, però, è la «Pera Vaginale», marchingegno concepito per dilaniare vagine e orifizi anali di streghe e seguaci del demonio (ma non sarà stato un semplice e rudimentale sex toy avant lettre?). Anche in questo caso della pera non v' è l'ombra in documenti seri come, ad esempio, A history of the Inquisition of the Middle Ages, redatto dallo storico statunitense Henry Charles Lea e pubblicato a partire dal 1887. E che dire della «Sedia Inquisitoria»? Il torturato vi veniva fatto sedere - si racconta totalmente biotto. Alcune cinghie lo stringevano lentamente, in modo che gli aculei di cui la sedia era irta gli penetrassero nelle carni. L'interrogatorio - dicono sempre - poteva essere acuito mediante dondolio e percosse sugli arti. Il pianale era spesso tutto di ferro e poteva essere arroventato a mezzo di braciere o di fiaccola. Ebbene, c'è un piccolo particolare. Per costruire una diavoleria del genere si sarebbe reso necessario un quantitativo di metallo e di chiodi insufficiente anche per assemblare un trattore. Materiale, peraltro, nel medioevo raro come l'oro. L'ultima balla: la «Culla di Giuda». Il condannato sarebbe stato tenuto sospeso al di sopra di un cavalletto al cui culmine era posta una piramide sulla quale, attraverso un sistema di corde, sarebbe stato mosso in modo che la punta penetrasse nei suoi genitali o nell'ano.  Una cavolata demenziale, vista oltretutto l'impossibilità di mantenere in equilibrio l'imputato.

·        La Blasfemia.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” l'8 aprile 2021. Nelle lettere alla mamma, don Lorenzo Milano racconta un episodio avvenuto nella parrocchia di San Lorenzo di Calenzano mentre celebrava i funerali di una giovane donna, moglie di un dirigente comunista della locale casa del popolo. Al momento dell'Elevazione, il marito in lutto alzando il pugno verso l'ostia, gridò: «questa non me la dovevi fare» e giù un bestemmione. Commentava don Lorenzo: «e poi dicono che la gente non crede più in Dio». Se questo è vero, il fiume di bestemmie che circola in ogni ambiente dovrebbe avvertirci che nella società secolarizzata il sacro ci si trova bene. Padre Antonio MariaTava ritiene invece le bestemmie vere nefandezze e ha scritto un apposito manuale pratico-teorico intitolato Come smettere di bestemmiare. È un libro da leggere. Se non altro serve, come annota Giorgia Sallusti in una recensione online, a comprendere che ascoltare Radio Maria (e i laudatores compulsivi, aggiungiamo) senza bestemmiare richiede una preparazione di livello più avanzato di quello proposto da Tava. Il quale, dopo una disamina sulle situazioni in cui le bestemmie sembrano galleggiare a proprio agio (tradizione, sessismo, potere, denaro e altre) si concentra su quella che più coinvolge i giovani (e le giovani): la bestemmia divertente, quella che dà perniciosa e radicata dipendenza. Perché, scrive l'autore, loro «credendo che insultare il nome di Dio sia divertente, non ne ravvedono il soffio del maligno». Come evitarlo? Iniziando a utilizzare affermazioni eufemistiche come «dio campanaro, dio pop, massaia la madonna, madama la madonna». Oppure operare variazioni, navigando nell'oceano della fantasia, per produrre locuzioni efficaci ma non blasfeme, come insegnano Elio e Le storie Tese coni loro ortobio, pornodivo, bioparco, diporto. Perché, attesta il metodo Tava, «sperimentato dall'autore prima su se stesso, poi su una cerchia sempre più ampia, oggi più di sei milioni di persone in tutto il mondo hanno definitivamente smesso di bestemmiare anche grazie a questo manuale». Tutto sta a far schioccare la glottide, quella parte della laringe che comprende le pliche vocali. Perché ogni volta che l'aria esce dai polmoni e le pliche sono serrate, si verificano delle piccole, e piacevoli, esplosioni di sonorità. Che queste siano causate da una bestemmia o da qualcosa di immaginifico, la glottide non lo sa e gode allo stesso modo. Vero? Falso? Esiste davvero padre Tava «religioso, filantropo, manicheo, traduttore, esperto di tossicodipendenza e paura di volare»? Meglio non chiederselo, perché in questa seconda edizione, dopo averci avvertito di non commettere «la bestialità di comprare» una copia in versione ebook, ci invita a procurarcene una cartacea che stretta tra le mani ci potrà sottrarre «alla depravata corruzione del Maligno». Quindi leggere e sorridere, please!

Come smettere definitivamente di bestemmiare. Lucia Esposito su Libero Quotidiano l'01 aprile 2021.

Lucia Esposito. Da grande volevo fare la giornalista e così, diversi anni fa, da Napoli sono arrivata a Milano per uno stage di due mesi. Non sono più tornata. Responsabile Cultura di Libero, accumulatrice seriale e compulsiva di libri e pensieri. Profondamente inquieta, alla ricerca costante di orizzonti in cui ritrovarmi (o perdermi).

Il miglior modo per smettere di bestemmiare è bestemmiare tantissimo. Per un giorno intero, fino a non poterne più. La redenzione dalla blasfemia passa da un’ingordigia profana. Sembra un paradosso, invece è il primo dei tanti consigli di padre Alfonso Maria Tava che ha dedicato la vita a studiare le bestemmie in tutte le forme e declinazioni: le ha suddivise per categorie, classificate per aree geografiche e ha inventato un metodo per trasformare i più incalliti, feroci e impenitenti blasfemi in forbiti damerini che commentano perfino l’arrivo dell’ennesima cartella esattoriale con un timido e sussurrato “perbacco”. Il metodo - che pare abbia già convertito più di sei milioni di bestemmiatori seriali - è raccolto nel libro Come smettere di bestemmiare Il Saggiatore, pagg.176, euro 9,90) in libreria da giovedì.  Il religioso non giudica chi invoca invano il nome di Dio: anzi, avendo studiato il fenomeno della bestemmia, riconosce che la vita è un cabaret di sfighe multiformi che ci viene servito ogni giorno e ci induce in tentazione. Dalla batteria del cellulare all’uno per cento proprio mentre aspetti la telefonata che può cambiarti la vita, all’automobilista che ti taglia la strada, dal politico che riduce le pensioni, all’herpes che lievita sul labbro nel giorno del primo appuntamento, fino al computer che si impalla quando non hai ancora salvato il lavoro. ]Infinite sono le ragioni che spingono all’eresia linguistica: c’è chi lo fa per avere consenso (soprattutto i giovani), chi per conquistare una donna (ma il più delle volte la strategia fallisce) e c’è pure chi […]calpesta tutti i santi del paradiso per riempire i silenzi. Siccome la conversazione langue, si sciorina una bestemmia per dare verve al discorso e risollevare l’umore. C’è chi bestemmia per stupire e per divertire e chi per regionalismo e per folclore. I veneti, si sa, sono «campioni intergalattici di bestemmia» infatti, tra i tanti consigli di padre Alfonso c’è anche quello di stare lontani da un gruppo di anziani veneti che parlano di sport al bar perché «un bestemmiatore ha la potenzialità di rendere bestemmiatori almeno altre 4 persone (indice di contagiosità RB4), e costoro a loro volta potranno spandere il morbo ad altre, e così via, con il rischio di gravissime e incontrollate pandemie di empietà». Se per veneti e toscani la bestemmia è un intercalare, per i tifosi di calcio diventa una litania, una specie di mantra per esorcizzare il dolore di un gol subito e inveire contro l’arbitro che sì, è cornuto, ma a volte affibbiargli solo un paio di corna non è sufficiente e allora giù con le imprecazioni. Un capitolo a parte è dedicato alle bestemmie «barocche», quelle degli insospettabili signori dei salotti buoni che usano un linguaggio blasfemo per sfoggiare la propria erudizione, o gli avvocati che «vengono corrotti dal tirocinio professionale, se non addirittura dalla preparazione dell’esame di diritto privato (arcinoto l’adagio “diritto privato mezzo avvocato, io non ci credo che non hai bestemmiato”»). Legali, ma anche commercialisti, agenti del fisco, amministratori delegati, dentisti e idraulici che peraltro, osserva l’autore, hanno l’eccezionale capacità di trasformare in bestemmiatori convinti anche i clienti. Per togliersi il vizio della bestemmia bisogna, come dicevamo, passare un giorno intero a inveire contro il paradiso. Ma prima conviene coinvolgere amici e parenti, informarli di questo percorso di purificazione del linguaggio che intendete intraprendere. Ricordatevi di tenere un diario: ogni sera bisogna annotare su un foglio tutte le bestemmie proferite e la causa scatenante. La settimana successiva dovrete rileggere a ritroso gli appunti: vi renderete conto che i motivi delle imprecazioni non erano poi così gravi e che potevate cavarvela con esclamazioni innocue come “accidenti”, “accipicchia”, “mannaggia” se non addirittura sconfinare nel collegiale “perdindirindina”. Le prime settimane il bestemmiatore può farsi aiutare dalle «alterazioni eufemistiche», può cioè ricorrere a un’espressione che sembra una bestemmia ma non lo è. Come massaia la madonna, o porcamadosca, bioparco, pornodivo, Cris....toforo. Insomma, deve trovare mille scappatoie linguistiche per schivare il terreno minato della bestemmia. Il programma di redenzione dura dalle quattro alle otto settimane e prevede anche degli «stress test», esercizi che mettono a dura prova le buone intenzioni del bestemmiatore pentito. Tipo: programmare un fine settimana a casa dei suoceri, provare a perdere quattro tram di fila, farsi una doccia ghiacciata, bere un aperitivo in un bar veneto (e non lasciarsi contagiare dai bestemmiatori che vi circondano), sintonizzarsi su una frequenza diversa da Radio Maria e pesarsi dopo pranzo. La seconda settimana gli esercizi diventano ancora più difficili: è previsto il montaggio di un mobile Ikea dopo aver buttato le istruzioni e seguire la messa sul canale facebook di Paolo Brosio. La terza settimana dovrete rivedere la finale Italia‑Francia degli europei del 2000 e la semifinale Italia‑Argentina dei mondiali del 1990 senza lasciarvi andare alla blasfemia. Ma potrete considerarvi definitivamente guariti dal vizio solo se riuscirete a non bestemmiare guardando Italia-Corea del Sud del 2002, se davanti alla faccia bronzea dell’arbitro Byron Moreno, ai suoi gialli inesistenti, all’annullamento del gol di Damiano Tommasi, all’espulsione di Francesco Totti e alla rete del coreano Ahn Jung-hwan lascerete in pace dio, santi e madonne. Se non ce la fate, dovete ricominciare dall’inizio. Senza bestemmiare...

·        Il Sacramento della Confessione.

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 20 novembre 2021. «Il sigillo del sacramento della confessione è sacro e inviolabile. Un punto che rimarrà fermo e irrinunciabile; per difenderlo sono disposto a metterci tutto il mio peso magisteriale». Con queste parole il Papa, durante l'ultima riunione dei capi dicastero, ha fatto scendere nella stanza dove era riunito con i suoi più stretti collaboratori di curia, un clima grave. Francesco riassumeva a cardinali e vescovi presenti l'ultimo scontro in atto. Un argomento delicatissimo che stavolta vede contrapposta la Santa Sede e la Francia, anche se la Francia è solo l'ultimo paese in cui è affiorato un movimento popolare favorevole alla cancellazione del segreto confessionale. C'è chi pensa, infatti, che senza il segreto confessionale a cui sono vincolati i consacrati, pena la loro scomunica, preti e vescovi potrebbero denunciare alle autorità civili con maggiore facilità di quanto non accada oggi, gli episodi di pedofilia venuti a conoscenza durante la confessione. 

INDAGINE La pubblicazione dello choccante rapporto sugli abusi sessuali nella Chiesa francese ha fatto esplodere il caso. Davanti alle stime devastanti di circa 330 mila vittime in un arco di tempo di 70 anni, persino il magistrato che ha guidato la commissione di indagine indipendente, il giudice Jean Marc Sauvè ha indicato ai vescovi che la strada per arginare la piaga degli abusi passa anche dall'abolizione del segreto confessionale. Argomento dibattutissimo e all'origine di una bufera senza precedenti, tanto da aver indotto il primo ministro francese Jean Castex, l'8 ottobre scorso, a parlarne durante il colloquio privato con il pontefice. Ma anche in quella occasione Francesco ha fatto presente all'ospite che la questione si poteva chiudere anche subito, la Chiesa non avrebbe mai acconsentito un passo simile. Rompere il sigillo sacramentale è un atto sacrilego, anche perché la confessione non è affatto comparabile al segreto professionale, ma qualcosa che attiene alla fede e al rapporto istitutivo tra Dio e la Chiesa. Insomma, il muro contro muro. Prima della Francia altre nazioni sotto choc per la pubblicazione di rapporti sulla pedofilia avevano inoltrato richieste simili alla Chiesa. Australia, Irlanda, Stati Uniti. La domanda era sostanzialmente la stessa: se per caso un ministro di culto viene a conoscenza di violenze su un minore durante una confessione non dovrebbe andare dritto da un magistrato o in commissariato a denunciare? Secondo giuristi e canonisti cattolici fare pressing per la rimozione del sigillo della confessione, solleverebbe inevitabilmente la questione della libertà di religione e di coscienza. Il diritto canonico, al canone 983, impone al ministro di culto un comportamento chiarissimo: l'inviolabilità («E' assolutamente proibito tradire il penitente in qualsiasi modo, con la parola e per qualsiasi motivo»). Ne consegue che nessun prete, per la Chiesa, potrà mai rompere il sigillo, nemmeno per salvare la propria vita, proteggere il proprio buon nome, salvare la vita di chiunque o entrare in un processo, altrimenti si incorre nella immediata scomunica.

COLLABORAZIONE Per capire la determinazione del Vaticano a difendere la linea della fermezza, sarebbe bastato ascoltare - tempo fa - il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, che seduto di fronte all'inchiesta indipendente sugli abusi, aveva tagliato corto: «I preti preferirebbero morire o andare in galera piuttosto che rompere il segreto della confessione». Nel luglio di tre anni fa una nota della Penitenzieria Apostolica scriveva che il sacramento della confessione è intangibile. Posizione poi ribadita dai vescovi australiani che alla Royal Commission assicuravano la più ampia collaborazione a snidare pedofili facendo però salvo l'impegno assoluto di proteggere il carattere sacro del sacramento. In questi giorni il presidente dei vescovi francesi, l'arcivescovo Eric de Moulins-Beaufort, dopo la pubblicazione del rapporto choc, ha detto che ora bisogna lavorare per conciliare la natura della confessione con la necessità di proteggere i bambini. Intanto è stato fissato per il 26 novembre l'udienza tra il Papa e il presidente Macron. Chissà se si riparlerà di questo tema scottante.

·        Chi ha paura dei simboli cristiani?

Dagotraduzione dall’AFP il 23 dicembre 2021. I ricercatori israeliani mercoledì hanno mostrato un anello d'oro di epoca romana con un simbolo paleocristiano di Gesù inciso nella sua pietra preziosa, trovato in un naufragio al largo dell'antico porto di Cesarea. Lo spesso anello ottagonale d'oro con la sua gemma verde portava la figura del "Buon Pastore" nelle sembianze di un giovane pastorello in tunica con un montone o una pecora sulle spalle. L'anello è stato trovato tra un tesoro di monete romane del terzo secolo, insieme a una figurina di un'aquila di bronzo, campane per allontanare gli spiriti maligni, ceramiche e una figurina romana di pantomimus in una maschera comica. Nelle acque relativamente basse è stata anche trovata una pietra preziosa rossa con l'incisione di una lira, così come i resti dello scafo in legno della nave, ha detto l'autorità. Cesarea era la capitale locale dell'impero romano nel terzo secolo e il suo porto era un fulcro fondamentale per l'attività di Roma, secondo Helena Sokolov, curatrice del dipartimento monetario dell'IAA che ha studiato l'anello del Buon Pastore. Sokolov ha spiegato che mentre l'immagine è presente nel primo simbolismo cristiano, a rappresentare Gesù come un pastore premuroso, che si prende cura del suo gregge e guida i bisognosi, è molto raro trovarla su un anello. La presenza di questo simbolo su un anello probabilmente posseduto da un romano operante a Cesarea o nei dintorni aveva senso, data la natura etnicamente e religiosamente eterogenea del porto nel III secolo, quando fu uno dei primi centri della cristianità. «Era un periodo in cui il cristianesimo era solo agli inizi, ma decisamente in crescita e sviluppo, specialmente in città miste come Cesarea», ha detto ad AFP, notando che l'anello stesso era piccolo, il che implica che potrebbe essere appartenuto a una donna. E anche se all'epoca il cristianesimo veniva praticato nei forum "sotterranei", l'impero romano era relativamente tollerante nei confronti di nuove forme di culto, compresa la figura di Gesù, rendendo ragionevole per un ricco cittadino dell'impero indossare un anello simile. Oltre ai reperti di epoca romana, i subacquei IAA hanno scoperto anche un secondo relitto vicino a un tesoro di circa 560 monete di epoca mamelucca risalenti al XIV secolo.

DAGONEWS il 25 dicembre 2021. Siete sicuri che Babbo Natale sia sempre stata una figura rassicurante? Se credete di sì, dovete ricredervi. Lo dimostrano alcuni ritratti del diciannovesimo secolo che lo raffigurano con un vecchietto ricurvo e infelice. L’immagine del nonnetto panciuto è sostanzialmente moderna: i bambini di oggi non riuscirebbero mai a pensare a una figura diversa da quella dell’anziano dalle guance rosse, con la pancia contenuta da una cintura e con il sorriso sempre acceso sul viso. In realtà i bambini del 1880, ad esempio, non dovevano essere rassicurati dall’immagine di quell’uomo magro e col bastone. Men che meno quelli del 1890 che, come mostrano alcune cartoline, vedevano questo Babbo Natale come una figura spettrale. Agli inizi del ‘900 i pargoli erano terrorizzati da Krampus, un personaggio simile al diavolo che percuoteva e trascinava i bimbi cattivi all’inferno (altro che elfi e renne di babbo Natale). Solo negli anni '20 Babbo Natale è diventato l’uomo grassoccio che tutti conosciamo e dobbiamo ringraziare sostanzialmente la Coca-Cola: per la pubblicità il marchio aveva bisogno di un personaggio allegro, grassoccio e rassicurante. Detto, fatto. Solo da allora Santa Claus è quel nonnetto di cui non si può fare a meno a Natale.

Enrico Pirondini per blitzquotidiano.it il 20 dicembre 2021. La pandemia ha sollecitato di tutto, fantasia ed estrosità in testa. E anche stupide provocazioni. Alcuni hanno sbroccato, molti hanno osato. Certo, la capacità di creare stupore è essenziale nel processo creativo. E sognando di offrire  meraviglia e sconcerto, magari anche sbigottimento, gli italiani si sono superati. Da Nord a Sud. Ne è uscita una galleria di presepi che ci colloca sul tetto d’Europa. D’altronde la rappresentazione della nascita di Gesù è una usanza tipicamente italiana che ha origine da tradizioni antiche, medioevali. Oggi l’usanza del Presepe per Natale è diffusa in tutti i paesi cattolici del mondo. Abbiamo fatto scuola. La più antica raffigurazione di Maria con Gesù Bambino la troviamo di nelle catacombe di Priscilla sulla via Salaria a Roma, di fronte a Villa Ada. Ignoto l’autore. Sempre a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore (sul Colle Cispio, una delle tre alture dell’Esquilino) c’è il primo presepe scultoreo. Lo ha realizzato il toscano Arnoldo di Cambio (1245-1310 circa), artista di buona fama. Sua ad esempio la statua bronzea di San Pietro nella omonima Basilica della Città del Vaticano. Giotto è stato il primo a raffigurare una Natività più realistica (Padova, Cappella degli Scrovegni). Poi è stato seguito da un poker di eccelsi pittori: Botticelli, Lippi, Piero della Francesca, Correggio. Ma l’usanza del presepe, così come lo intendiamo oggi,  ebbe origine all’epoca di  San Francesco che lo realizzò a Greccio (Rieti),  su autorizzazione di papà Onorio terzo. Da allora il Natale molto è cambiato. Non la tenerezza della maternità, l’importanza della Sacra Famiglia, i doni dei Magi. Però oggi si vedono presepi alternativi, financo provocatori. Segno dei tempi. A Bassano del Grappa hanno costruito una Natività tra  la spazzatura. A Piacenza hanno allestito un presepe “gay friendly: due Giuseppe e Maria in soffitta. Furibonda la Lega. A Napoli a San Gregorio Armeno è spuntato addirittura Adolf Hitler in mezzo ai pastori con la mano tesa nel saluto nazista. A Firenze hanno dedicato il presepe alle vittime del crollo del ponte Morandi (in mostra al Rivoli Boutique Hotel). Ma i parenti dei morti nel disastro non hanno gradito  per niente. E in Vaticano? è comparsa una Natività futuristica, opera degli allievi della scuola d’arte di Castelli, paesino in provincia di Teramo.  Una scelta contestata anche dall’autorevole New York Times. Per favore, lasciamo fuori dalla Politica e dalle stupide provocazioni il presepe. Se anche i presepisti cedono all’andazzo, siamo fritti

Per li ramiVita e miracoli (senza morte) dell’albero di Natale. Dario Ronzoni su L'inkiesta il 24 dicembre 2021. Da antica tradizione invernale per la fertilità a simbolo di una magia a buon mercato che ognuno può portarsi in casa. La sua diffusione, ormai planetaria, ha accompagnato l’ascesa americana nel mondo e continua, anche oggi, a essere segno di speranza.

Il fascino dell’albero di Natale funziona grazie a un semplice trucco. È una cosa fuori posto – un albero dentro a una casa – cui si può attribuire diversi significati. Come spiega l’Economist, è allo stesso tempo «rudimentale e magico» e nel corso dei secoli si è caricato di simboli e virtù a seconda del periodo e del luogo, andando dagli antichi rituali di fertilità pre-cristiani fino al ringraziamento con cui la Norvegia, ogni anno, onora l’Inghilterra per l’aiuto dato durante la Seconda Guerra Mondiale.

L’albero è questo, ed è anche altro. Simbolo globale del Natale, punto di riferimento dei cenoni e dei pranzi, luogo privilegiato per depositare i regali ancora incartati. Addobbarlo significa rinnovare un appuntamento annuale, misurando così il tempo che passa e riscoprendo ogni volta gli stessi ricordi. È un deposito di storie private, certo. Ma ne ha anche una propria.

Lasciando da parte le leggende – quella dell’albero di Thor, sacro per la popolazione germanica dei Catti, e abbattuto da San Bonifacio per dimostrare la superiorità del cristianesimo rispetto agli dèi pagani, oppure quella di Martin Lutero, che avrebbe decorato un abete di candele per rispetto delle stelle – sembra che la sua origine sia antica. L’impiego di sempreverdi nel periodo invernale era ancora più antico. Risale ai druidi, ai romani, agli egizi. Il significato, come sempre in questi casi, è quello della rigenerazione e della fertilità, cioè promessa del ritorno della primavera durante l’inverno. L’idea dell’albero interno, da tagliare e portare in casa per la decorazione, sarebbe venuta dopo.

Secondo la storica e giornalista inglese Judith Flanders risalga all’albero del Paradiso che compariva nelle commedie medievali, che nella Germania del XV secolo fu adottato in forma reale dalle congregazioni, poi dai ricchi e infine dalle masse. Da qui venne trasportato negli Stati Uniti, dove divenne un ornamento stabile di ogni 25 dicembre. Il suo successo planetario discende da qui: l’albero accompagna l’ascesa dell’America come potenza. Il presidente Coolidge ne accende uno a Washington nel 1923, come segno di progresso e come mezzo per pubblicizzare l’elettricità. Pochi anni dopo, l’albero collocato nel Rockefeller Center a New York veniva invece a simboleggiare la speranza, in mezzo alla Depressione.

Ogni Paese esprime così, attraverso questo segno, la sua ambizione. L’albero di Natale svetta a Rio de Janeiro (forse la meo natalizia delle località possibili), vicino alla Laguna de Freitas. Madrid lo colloca alla Puerta del Sol. In Germania è celebre quello davanti alla Porta di Brandeburgo a Berlino. A Roma, invece, nel 2017 si era arrivati fino al povero Spelacchio, simbolo (in)volontario della Roma governata da Virginia Raggi, a metà tra il pauperismo anti-Olimpiade e la strutturale incapacità organizzativa. Tempi passati, per fortuna. Quello di Gualtieri ha convinto tutti, anche gli americani del New York Times.

Da semplice decorazione natalizia a campo di competizione politica. L’albero di Natale è pronto ad acquisire significati. E in quest’epoca rabbuiata dall’incertezza della pandemia, la sua salda tradizione è un punto di riferimento. Le sue illuminazioni, per quanto plastificate e a buon mercato, una luce di speranza: come sempre, la primavera ritornerà. 

MATTEO MATZUZZI  per ilfoglio.it il 9 dicembre 2021. La scrittrice osserva che "in fondo, a scegliere Giuseppe, a dispetto dei racconti apocrifi, non è stato Dio. E’ stata Maria”. Ne loda il silenzio ("Non apre mai bocca") a differenza della Madonna, che parla "contrariamente alla vulgata predicatoria". Ma quale? L’Osservatore Romano, organo ufficiale della Santa Sede, nel suo inserto mensile “Donne Chiesa Mondo”, ha riesumato qualche giorno fa un brano di Michela Murgia, la scrittrice attenta alle forme e alla lingua, che preferisce usare la schwa perché è ora di finirla con tutte queste desinenze maschili. Argomento: san Giuseppe. Il titolo scelto dal quotidiano diretto da Andrea Monda, docente di Religione, è: “Scelto da Maria fuori dalle norme del patriarcato”. Occhiello: “Sguardi diversi”. E già qui un brivido per il prosieguo s’insinua con forza. Murgia, novella teologa e anche un po’ biblista, scrive che “non comanda sulla moglie, non comanda sul figlio, a differenza di Maria non induce Gesù a compiere uno straccio di miracolo e per tutta la storia della cristianità sarà marchiato da quell’aggettivo terribile – putativo – che nel sentire comune non ha mai voluto dire altro che finto”. Eppure – riconosce la giacobina che combatte ogni forma di potere maschile (sia un articolo determinativo, sia una “o” a conclusione d’un nome) – “è grazie a lui che Maria non è stata uccisa a causa di una gravidanza difficile da spiegare a un paese intero già con le pietre in mano”. Quindi, scrive Murgia sempre nel testo ripreso dall’Osservatore Romano, “è grazie a lui che il Figlio di Dio ha avuto un’infanzia e un’adolescenza talmente serene da non offrire, in quella banale felicità da villaggio, manco mezzo appiglio narrativo agli evangelisti”. Insomma, il povero Giuseppe ha offerto poco materiale alla narrazione di Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Poi, la prosa si fa oscura: “Il punto dolente è che Giuseppe è maschio in un modo che col maschilismo (e quindi con i maschilisti) non c’entra niente, perché in lui il “perché” e il “per chi” coincidono in modo esatto. Non è Ulisse che sogna l’altrove. Non è Enea che fugge perdente da Troia in fiamme, ma solo per fondare un’altra città. Non è Artù che unisce con la spada le contraddizioni della Britannia. E non è nemmeno, per restare agli Atti, un più spirituale Paolo di Tarso, così eloquente da convertire i pagani alla fede più distante di tutte dalla loro”. Però alla Murgia, Giuseppe tutto sommato piace, e non solo perché “non apre mai bocca”, dato che “è lui il vero custode del santo silenzio, non Maria, che invece nei vangeli, contrariamente alla vulgata predicatoria (e chi l’ha mai detto?, ndr), prende parola ben più di una volta”. Lo si capisce anche quando osserva che “la maschilità del presente e del futuro potrebbe trovare ampio spunto in una figura così difficile da collocare nelle categorie della dominanza e del possesso, uno che dentro la logica del branco strutturata dal patriarcato nascerebbe reietto per essere e restare un maschio beta”. Che dire, “per riconoscere valore a un uomo capace di agire così fuori dagli schemi del sistema normativo dei generi non è possibile a prescindere da una rinnovata specularità dei ruoli, e dunque è indispensabile che vi siano donne disposte a rompere a loro volta quelli già esausti, prima di tutto per se stesse. Per questo forse non è inutile ricordare in questo discorso che, in fondo, a scegliere Giuseppe, a dispetto dei racconti apocrifi, non è stato Dio. E’ stata Maria”. Tutto questo sul mensile dell’Osservatore Romano, organo ufficiale della Santa Sede. Unicuique suum, a ciascuno il suo.

Giovanni Sallusti per Dagospia, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, il 7 dicembre 2021.

Caro Dago, perbacco, qui siamo di fronte a un temerario caso di provocazione intellettuale, a qualcuno che azzarda il contropelo alla contemporaneità, a un libertinaggio mentale tanto estremo quanto affascinante. Pensa, nell’anno 2021 dopo Cristo (chiedo scusa, non mi sono ancora giunte voci su una modalità più inclusiva e multiculti di contare le ere, nel caso mi correggerei subito), c’è qualcuno che ha l’ardire, in Europa, di sfidare Maria Vergine e la Natività. Ci vuole davvero molto coraggio, nel continente il cui Politburo voleva mettere al bando le celebrazioni e la parola stessa del Natale, oltre che appunto i nomi dei genitori terreni di Gesù (orridi e volgari reazionari all’addiaccio in una grotta plebea), a rappresentare una Madonna transessuale, con tanto di barba e baffi folti, tatuaggi in vista e orgoglio Lgbt ostentato (sì, poi in braccio ci sarebbe anche lui, il Bambino, ma ormai è un’appendice secondaria del 25 dicembre eurocratico). E difatti tale coraggio l’ha sfoggiato nientepopodimenoche che Riccardo Simonetti, attivista arcobaleno tedesco ma di origine italiana (sempre che “origine” si possa dire, o non implichi un pericoloso etnocentrismo) e soprattutto ambasciatore speciale dell’Unione Europea per i diritti Lgbt, sulla copertina del mensile queer (qualunque cosa significhi) Siegessäule. Tra le perle filosofico-teologiche del nostro: “Se ignoriamo il fatto che Gesù non era bianco, potremmo credere che la Vergine Maria avesse la barba. Perché no?”. Massì, perché no, perché non sputazzare un po’ sulla Sacra Famiglia, è un guizzo pop che non impegna (il Simonetti si autodichiara appartenente alla “cultura pop”, chiediamo scusa per lui ad Andy Warhol) e anzi, nell’Europa più che secolarizzata, de-cristianizzata (o relativizzata, direbbe Benedetto XVI, un tedesco che per il pensiero continentale ha fatto persino più del Simonetti) è un segnale di riconoscimento, il timbro sulla tessera del club degli arguti, dei buoni, degli illuminati. Ora, l’influencer (pare in Germania lo sia, e ogni giorno che passa capiamo perché Angela Merkel ha confessato di provare invidia per l’Italia) non è solo illuminato, è un intrepido philosophe illuminista in lotta contro le cappe teocratiche, un Voltaire postmoderno all’assalto di qualunque confessione dogmatica e para-omofoba (o transofoba, o come cacchio pretende lo stupidario politically correct aggiornato a mezzogiorno di oggi), quindi a breve tendiamo a credere, anzi siamo sicuri, che ci sforni un’altra performance delle sue, magari, azzardiamo un esempio (non) a caso, un Maometto transgender, o drag queen, o appartenente a uno dei 54 generi eccedenti la preistorica distinzione maschio/femmina codificati dall’agorà odierna di Facebook, magari intento a brandire piume di struzzo piuttosto della spada con cui diffondeva le proprie convinzioni (perdonate, riflesso ratizingeriano). Lo farai vero, Riccardo? Altrimenti, rischi l’iscrizione d’ufficio al cinquantacinquesimo genere, quello dei quaquaraquà.

Antonello Piroso per la Verità il 5 dicembre 2021. Lasciatemi nel medioevo della mia infanzia, ve ne prego. Quel magico eldorado anagrafico in cui Babbo Natale era asessuato, quel piccolo mondo antico in cui le tradizioni venivano omaggiate per quello che erano, riti condivisi in cui tutti erano accettati e accolti. Perché se per essere alla moda, up to date, devo trovare geniale la provocazione delle Poste norvegesi, che in occasione del cinquantesimo anniversario della depenalizzazione dell'omosessualità hanno deciso di girare uno spot in cui Babbo Natale si bacia con un altro uomo (che a uno, già così, verrebbe da domandare: «Dovendo genufletterci davanti al totem della modernità, a quando una bella ammucchiata nel presepe all'ombra della stella cometa?»).Perché se per non apparire un reazionario conservatore devo gioire per l'iniziativa presa a Modena, issare in una delle piazze principali una maxistatua di Papà Noel, o di Santa Claus, fate voi, però rigorosamente in tutù. Ecco, se per venire applaudito come contemporaneo evoluto devo dire di sì a queste, come ad altre manifestazioni del movimento di liberazione 3.0, la mia educata risposta è: grazie, ma anche no. Pronto a ripeterlo anche di fronte ad altre iniziative che finiscono con l'incenerire l'innocenza della mia giovinezza, quando le tempeste ormonali erano scatenate da donne maestre nel gioco del «vedo e non vedo», e il massimo dell'eccitazione si raggiungeva sbirciando il reggicalze che Laura Antonelli lasciava intravedere salendo su una scala nel film Malizia di Salvatore Samperi. Perché se per non farmi appiccicare la lettera scarlatta di retrogrado oscurantista devo cadere in deliquio davanti ad Alessia Marcuzzi, persona piacevole e ironica, che su Instagram esibisce il suo privato scrigno di sex toys, «vi porto nel mio arsenale». Con Marina La Rosa, l'ex «gatta morta» - e quindi vivissima - del primo Grande Fratello, la quale interpellata: «Che ne pensi del tabù sfatato da Marcuzzi?», ha elegantemente sghignazzato: "Ma quale tabù? Tutti noi abbiamo a casa dei sex toys. E menomale!», postando anche lei l'immagine del suo compagno di giochi. E dopo che l'ormai ex attrice Gwyneth Paltrow ha messo in vendita la candela «che profuma come la mia vagina» (sold out in poche ore, a conferma del vecchio adagio per cui la madre dei followers è sempre incinta), ebbene, di nuovo: grazie, ma anche no. Intendiamoci: qui non si sta sindacando la libertà del singolo di organizzare il proprio Natale, la propria sessualità, l'intera sua esistenza, come caspita più gli aggrada, ci mancherebbe pure altro. Ma non può accadere neppure che, in ossequio a una visione a senso unico della tolleranza, io arrivi a rinnegare la (o rinunciare alla) mia, d'identità: antropologica, sessuale, religiosa. Una società che abdichi ai propri valori prevalenti non è né più democratica né più «aperta», come l'avrebbe definita Karl Popper. Perché se non ci deve essere la prevaricazione del gruppo sull'individuo, non può neppure avvenire il contrario. Il tentativo è in corso. In nome di una legittima richiesta di rispetto delle minoranze o di categorie considerate in via presuntiva più deboli (personalmente ho sempre ritenuto che il sesso caratterialmente davvero forte sia quello femminile, anche se le leve del potere sono quasi sempre in mano di uomini e ominicchi), l'esplicita rivendicazione a muso duro «così è, se vi pare» cerca di mettere la mordacchia alla maggioranza, di cui si vorrebbe conculcare il diritto di esprimere il proprio punto di vista, antagonista o indifferente che sia. Un magnifico ossimoro, a ben guardare, un paradosso nel paradosso. Perché una maggioranza ridotta al silenzio si trasforma, in concreto, in una minoranza. Così, perseguendo ossessivamente l'inclusione (altro mantra che ha portato al lunare documento della commissione europea sull'uguaglianza ad uso dei funzionari della Ue, linee guida - poi ritirate - atte a non urtare la suscettibilità di chi non è cristiano, e che di fatto abolivano l'espressione «Buon Natale»), si tende all'esclusione dei dissidenti. Un gulag alla rovescia, a voler enfaticamente esagerare. Quello per cui poi si prova un sempre maggiore fastidio è l'esibizionismo di ritorno di persone che ti sbattono in faccia il loro status (compresi i maschi alfa, che ci tengono a farti sapere di essersi accoppiati con centinaia di donne, riducendole a tacche da segnare sul calcio del fucile: «almeno 700», evocando una datata autocertificazione contabile di Antonio Cassano, che però sportivamente aggiungeva: «Ma ai tempi chi cuccava più di tutti era Francesco Totti», alè), senza che tu abbia avvertito alcuna necessità di avere lumi al riguardo. Vedi da ultimo l'attrice Eliana Miglio, che, segnala il sito Dagospia, «sorprende con un libro autobiografico sul proprio disordine erotico, tra fluidità dei sensi e ambivalenza dei desideri», e vai con il coming out tendenza lesbo senza margini per l'immaginazione: «Mi tuffo dentro di lei, la sento ansimare sotto di me, vorrei fare l'amore facendole un po' male». Il dibattito e la critica è consentito solo tra simili, e tanti saluti alla crescita garantita dalla dialettica degli opposti, tesi-antitesi-sintesi. Gay che si confrontano con gay, donne con donne, neri con neri, perché tu bianco, tu maschio, tu etero, tu insomma «diverso» ma da sempre «privilegiato», che ne puoi sapere? Sicché, l'altra sera quel marpione di Maurizio Costanzo ha apparecchiato una puntata del suo show con un duello tra un reduce del Grande Fratello, Tommaso Zorzi, e il mai allineato Maurizio Coruzzi in arte Platinette, con il primo a riecheggiare la cultura del piagnisteo, «Noi (gay) per anni siamo stati vittime di un sistema eterocentrico», e il secondo a rintuzzare facendo ondeggiare il parruccone: «Ma se la televisione è piena di f**ci! Quale visione eterocentrica! Basta con questo vittimismo! Siamo ovunque!».Per chiudere: pensatela come più vi garba, ma non rubateci i nostri usi e consuetudini. La banale visione del mondo delle anime semplici: gli uomini, le donne, Babbo Natale e la Befana, il mistero del sesso e della vita. Soprattutto per i nostri figli, che avranno, si spera, tutto il tempo per scoprire che quell'anziano con la barba bianca, che dispensa doni viaggiando su una slitta trainata da renne, è una leggenda. Che quello tra il papà e la mamma, o - se preferite - tra un maschio e una femmina, non è l'unica forma di amore, fisico e spirituale, che esiste. E che i bambini non li portano le cicogne. Ma neppure una provetta. 

Francesco Moscatelli per "La Stampa" il 3 dicembre 2021. Tutù di aghi di pino con lucine, canottiera rossa (con peli delle ascelle bianchi in pendant con la barba), scaldapolpacci in pelo di simil-renna, occhi chiusi vagamente sognanti e mani alzate sopra la testa che stringono un cuore rosso. Basta inserire un euro e partono a rotazione cinque versioni di Jingle Bells - metal, honky tonk, disco anni '80, techno e carillon - mentre il pupazzone di poliuretano alto tre metri ruota su se stesso per un minuto e mezzo. Che non ci siano più i babbi natali di una volta è cosa nota. Anzi, a essere pignoli, la questione stessa dell'esistenza di un Babbo Natale autentico è ontologicamente controversa fin dai tempi in cui la Coca Cola dipinse di rosso l'abito del bisnipote di San Nicola. Il Babbo Ballerino installato in piazza XX Settembre a Modena, però, a due passi dallo storico mercato coperto Albinelli, ha fatto fare un salto ulteriore alle mai sopite polemiche fra progressisti e conservatori. Quella che poteva risolversi in una legittima e genuina disputa estetica, sul modello della discussione andata in scena ieri pomeriggio in piazza fra i titolari della polleria Vaccari - «È un po' imbarazzante vederlo così» - e il neo-ingegnere ambientale Luca Carini, intento a scattarsi un selfie instagrammabile insieme agli amici con la corona d'alloro ancora in testa, sta diventando materia di polemica politica. A lanciare il sasso è stato il senatore di Forza Italia Enrico Aimi: «È un'icona arcobaleno, per adulti ideologizzati, mezzo babbo e mezza babba. Qui non si smette mai di fare politica, nemmeno di fronte ai bambini che meriterebbero solo di essere lasciati in santa pace, in preparazione all'evento più bello e sacro dell'anno». «Viste le sue recenti battaglie e l'odio per le nostre tradizioni forse la sinistra ha trovato finalmente il suo simbolo natalizio, un bel Babbo Natale in calzamaglia», ha rincarato la dose Ferdinando Pulitanò, presidente provinciale di Fdi. C'è chi ha fatto spallucce, ricordando che il centrodestra a Modena si è sempre aggrappato a qualunque cosa pur di sfidare il monopolio del centrosinistra (che governa ininterrottamente il Comune dal 1946 e in anni recenti è andato al ballottaggio solo nel 2014, e contro i Cinque Stelle), e chi l'ha presa quasi sul personale. Maria Carafoli, responsabile della società di promozione territoriale Modenamoremio, madrina dell'iniziativa, si presenta in piazza con il dépliant che illustra le altre manifestazioni previste durante le feste: «L'idea era solo quella di donare un po' di divertimento e serenità ai bambini. E comunque non vengano a spiegare a me cosa sono le tradizioni» dice, mostrando sullo smartphone una foto scattata mentre dona un presepe a papa Francesco. Lorenzo Lunati, lo scenografo che ha realizzato l'opera insieme alla moglie, si aggira fra le telecamere dei programmi del pomeriggio con l'aria spaesata. Non si capacita che dopo il Babbo Natale capottato con renne e slitta del 2018, quello che sbucava dal centro della terra del 2019 - «La gente pensava avessi davvero rotto la pavimentazione» - oggi debba difendere pure quello in tutù. «Volevo dare un segno di leggerezza in questi mesi che si preannunciano ancora difficili - racconta -. Mi sono ispirato a mia figlia la prima volta che ha messo le punte e ha iniziato a volteggiare per casa. Sognava quel momento e per lei è stata una gioia incredibile». Il sindaco Gian Carlo Muzzarelli, esponente di primo piano del Pd emiliano e grande organizzatore di eventi (c'era lui dietro il concerto-evento di Vasco Rossi del 2017), non trattiene un sorriso prima di entrare in consiglio comunale: «L'unica cosa che mi auguro per questo Natale sono vaccini, tempo da trascorrere con i propri cari e la possibilità di godersi il nostro bellissimo centro storico. Natale è vita, non divisione. Non educhiamo i ragazzi a cercare il male dove non c'è». Nella città del Festival della Filosofia, però, c'è anche chi prende lo spunto per una riflessione amara. «Nell'incapacità di fare politica di oggi - ragiona Carlo Galli, ordinario di Storia delle dottrine politiche a Bologna, modenese doc - si fanno grandi discorsi su temi che una volta avremmo definito sovrastrutturali. Siamo in mezzo a una pandemia, con la disoccupazione giovanile al 30% e una crisi economica all'orizzonte: è un errore punzecchiarsi su questi diversivi». Davanti al Babbo Ballerino, intanto, la gente continua a fermarsi. Sono stati già raccolti 500 euro che, come spiega un cartello, verranno devoluti all'Ail di Modena-sezione Luciano Pavarotti. «L'importante è che porti gente - ammette con grande realpolitik Giuseppe Pierro, che gestisce la tigelleria Sosta Emiliana, affacciata proprio sulla piazza -. Per quanto mi riguarda potrebbe essere anche nudo». 

E adesso anche Google "censura" il Natale. Domenico Ferrara il 6 Dicembre 2021 su Il Giornale. Addobbato il doodle del motore di ricerca. Ma con la voce "festività stagionali 2021". Sapevate che dal 3 dicembre scorso sono iniziate le festività stagionali? Nemmeno noi. Eppure secondo Google sì. E a giudicare dalle palline colorate che animano il Doodle del motore di ricerca dovremmo pure esserne felici. Questa volta l'azienda di Mountain View ha dato il meglio di sé: si potrebbe dire che abbia fatto un upgrade coniando una nuova denominazione per non pronunciare o per non scrivere la pericolosissima parola «Natale». Insomma, ci risiamo: al politicamente corretto non c'è mai fine. Se incontrate qualcuno in questi giorni, augurategli dunque «Buone festività stagionali 2021». Se poi vi prende per scemo o vi chiede spiegazioni ditegli pure che è una questione di inclusività, di rispetto verso le altre religioni e che l'ha detto zio Google. D'altronde, non è la prima volta che il colosso del web intraprende la strada dell'oscuramento della nascita di Cristo. Da quando è nata, Google non risulta che abbia mai dedicato un Doodle al Natale (ne ha creati oltre 4mila). O meglio: magari lo ha fatto ma quasi di nascosto senza mai scrivere la parola dannata. Basti pensare, per fare giusto un esempio, che il 25 dicembre 2017 ha scelto il semplice augurio di «Buone Feste». All'epoca eravamo ancora alla formula asettica e non si erano raggiunti i livelli di oggi con una frase che sembra più un geroglifico, una delle peggiori formule burocratiche o un astruso testo di un manuale di istruzioni scritto male. D'altronde, si sa, la multinazionale ha sempre messo in pratica un laicismo imperante privilegiando quella che oggi si definisce cancel culture in nome di una parvenza di inclusività e di rispetto ecumenico. Uno specchietto per le allodole che rischia di celare un appiattimento per non dire altro di tutte le identità con l'effetto boomerang di escluderle tutte. Ma non sia mai che si turbi qualche non cristiano che naviga in rete. E quest'anno, con la dicitura «Festività stagionali», Google non dovrebbe correre questo pericolo. Semmai, potrebbe accadere che chi legge questa strana frase pensi che abbiano inserito qualche nuovo numero rosso nel calendario o che venga celebrata la festa dei lavoratori del turismo o dei braccianti agricoli, i cosiddetti stagionali appunto. Il Doodle arriva a pochi giorni dalla polemica, raccontata in esclusiva dal Giornale, sulle linee guida della Commissione Europea per una «comunicazione inclusiva» da impartire ai suoi membri. Linee guida che prevedevano, tra le altre cose, di non utilizzare la parola «Natale» e i «nomi cristiani di Maria e Giuseppe». Per fortuna, dopo il vespaio sollevatosi, Bruxelles ha fatto retromarcia porgendo le sue scuse. Google invece scommettiamo che tirerà dritta per la sua strada. Eppure, il sospetto che il colosso di Mountain View si sia ispirato alla Ue è presente così come potrebbe anche darsi che abbia voluto privilegiare la linea statunitense dove da tempo al posto di Merry Christmas si è fatta largo l'espressione Season's Greetings, che per gli americani significa «Saluti della stagione», una formula neutra che fa accapponare la pelle. Con tanti saluti al Natale. Anzi, scusate, alle «festività stagionali».

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...Dal 2015 sono viceresponsabile del sito de il Giornale e responsabile dei collaboratori esterni. Ho scritto "Il metodo Salvini", edito da Sperling & Kupfer e "La donna s'è destra. L'altra storia della cultura e della politica femminile italiana", edito da Giubilei Regnani. Per la collana Fuori dal coro del Giornale ho pubblicato: "Gli estremisti delle nostre vite"; "La sinistra dei fratelli coltelli" e "Tutte le boldrinate dalla A alla Z". Mi esaltano la genialità di Saramago, l'essenzialità di Hemingway e la bellezza di Dostoevskij, consapevole però di non capirli fino in fondo. Ho una sola passione vera: il Palermo. Non so resistere alle tentazioni culinarie sicule né a quella di tornare in Sicilia dalla "famigghia".

Retromarcia Ue sulla censura. Salvi "Maria" e "Buon Natale". È la vittoria dei moderati. Francesco Giubilei l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Almeno per quest'anno il Natale è salvo. Possono tirare un sospiro di sollievo i migliaia di cittadini europei che si sono indignati di fronte alle "linee guida per una comunicazione inclusiva". Almeno per quest'anno il Natale è salvo. Possono tirare un sospiro di sollievo i migliaia di cittadini europei che si sono indignati di fronte alle «linee guida per una comunicazione inclusiva» redatte dalla Commissione europea e scoperte da Il Giornale con uno scoop che ha fatto il giro dell'Europa. La storia è ormai nota: in un documento nato per circolazione interna alla Commissione, si invitava a non utilizzare la parola Natale o i nomi Maria e Giovanni perché di origine cristiana per non offendere le minoranze, a non iniziare una conferenza con la consueta formula «signori e signore» fino a non usare la frase «colonizzare Marte» ma «inviare umani su Marte» vista la connotazione negativa della parola colonizzazione. Un vero e proprio vademecum del politicamente corretto infarcito con una serie di raccomandazioni paradossali (quando non ridicole) ma purtroppo per noi estremamente serie provenendo da una delle principali istituzioni europee. Ieri la commissione è stata costretta a fare marcia indietro dopo la pressione mediatica e politica e lo sdegno di tanti cittadini. La commissaria europea alla Parità Helena Dalli ha spiegato: «La mia iniziativa di elaborare linee guida come documento interno per la comunicazione da parte del personale della Commissione nelle sue funzioni aveva lo scopo di raggiungere un obiettivo importante: illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione europea verso tutti i ceti sociali e le credenze dei cittadini europei» aggiungendo: «Tuttavia, la versione delle linee guida pubblicata non serve adeguatamente questo scopo. Non è un documento maturo e non soddisfa tutti gli standard di qualità della Commissione. Le linee guida richiedono chiaramente più lavoro. Ritiro quindi le linee guida e lavorerò ulteriormente su questo documento». Una decisione che ha suscitato il plauso dei leader e dei partiti di centrodestra. Antonio Tajani ha affermato: «Grazie anche all'azione di Forza Italia, la Commissione europea ritira le linee guida sul linguaggio inclusivo che chiedevano di togliere riferimenti a feste e a nomi cristiani. Viva il Natale. Viva l'Europa del buonsenso». Il leader della Lega Matteo Salvini parla invece di una vittoria: «Grazie alle migliaia di persone che hanno reagito e hanno portato al ritiro di questa porcheria. Continueremo a vigilare, grazie! Viva il Santo Natale» mentre gli europarlamentari Zanni e Camponesi (presidente gruppo ID e capo delegazione Lega) esprimono soddisfazione annunciando la necessità di mantenere «alta l'attenzione su ogni tentativo di eliminare e sostituire i nostri simboli, la nostra cultura, i nostri valori, nel nome del pensiero unico del politicamente corretto e della cancel culture». Parole di soddisfazione anche da parte di Giorgia Meloni: «La Commissione europea batte in ritirata e stralcia il documento interno che prevedeva l'eliminazione della parola 'Natale perché considerata poco inclusiva. Abbiamo fermato la vulgata del politicamente corretto. Occorre continuare a battersi per un'Europa che sia orgogliosa delle proprie radici e della propria identità e che non solo eviti di cancellarle ma che sia in grado di celebrarle e ricordarle». «Bene così. Si trattava di un documento assurdo e sbagliato. Una comunità non ha paura delle proprie radici. E l'identità culturale è un valore, non una minaccia» scrive Renzi su Twitter. Anche l'eurodeputata Patrizia Toia del gruppo dei Socialisti e democratici, si domanda: «La Commissione ritiene che vi sia rispetto del pluralismo e si negano le parole che ricordano l'identità e storia di uno dei patrimoni religiosi che ha fondato, con altri, il bagaglio culturale e ideale dell'Europa?». Per concludere: «Quel testo divide, non include».

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la

Le radici del crollo nel "No" a Wojtyla. Gli ultrà europei torneranno alla carica. Gian Micalessin l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Da 20 anni l'apparato burocratico di un'Unione neo positivista cerca di decristianizzare il continente. Il dietrofront è solo tattica. Per individuare la «linea d'ombra» di un'Europa pronta a cancellare il Natale e i valori cristiani bisogna tornare a quella Convenzione Europea - guidata dall'ex- presidente francese Valery Giscard d'Estaing - che tra il 2001 e il 2003 tentò di stillare i principi di una Costituzione Europea. In quell'inconcludente biennio l'Unione voltò definitivamente le spalle all'«Europa delle cattedrali», la visione con cui Robert Schuman, e altri padri nobili del pensiero unitario, evocavano una comune civiltà cristiana. Una visione definitivamente smantellata nell'ultimo ventennio per compiacere l'apparato burocratico di un'Unione de-cristianizzata e piegata al neo-positivismo anti-cristiano. In tutto questo un ruolo fondamentale lo giocò Giscard d'Estaing, l'ex-presidente francese sotto il cui mandato passarono - oltre alle leggi su divorzio e aborto - anche quei provvedimenti sul ricongiungimento familiare all'origine del grande fenomeno migratorio d'Oltralpe. Un'opera di revisione valoriale e sociale continuata all'interno della Convenzione Europea. Quell'opera, come rivelato nel 2015 dall'arcivescovo Monsignor Rino Fisichella, toccò lil suo «nadir» quando il Presidente della Convenzione rifiutò una lettera indirizzatagli da Papa Giovanni Paolo II e affidata a un politico italiano. «É bene che la tenga in tasca e non me la consegni - sbotto d'Estaing consapevole di come la lettera contenesse un' esortazione del Pontefice ad inserire un riferimento alle radici giudaico-cristiane dell'Unione. Quel «gran rifiuto» era il simbolo di un'intolleranza neo-laicista che rifiutava non solo di comprendere, ma persino di misurarsi con le ragioni del Cristianesimo. Quel diniego ha aperto la botola del precipizio che in 20 anni ha trasformato Bruxelles e palazzo Berlaymont in un laboratorio del politicamente corretto. Un laboratorio in cui mancando riferimenti a identità e valori condivisi hanno fatto breccia le prassi esposte dalla Commissaria all'Uguaglianza Helena Dalli nel suo triste e grigio abbecedario della neo-lingua. Ma non illudiamoci, il ritiro del documento, annunciato ieri, è semplice tatticismo indispensabile per sopire il fragore provocato dalla pubblicazione su Il Giornale di quel manifesto della sottomissione. «Sono vent'anni che Bruxelles sforna documenti con quei contenuti - spiega a Il Giornale l'ex- ministro della Difesa Mario Mauro ricordando i 14 anni passati in un Parlamento Europeo di cui è stato vice presidente. «Non lasciamoci ingannare il politicamente corretto - continua Mauro - non è un innocuo galateo, ma l'ideologia e lo strumento di una sinistra transitata dal desueto linguaggio della lotta di classe alla teoria dei nuovi diritti. Nella Genesi l'uomo s'appropria della realtà quando Dio ordina di dare un nome alle cose. Un principio applicato da tutte le rivoluzioni e sancito per la prima volta dal Pcus sovietico che definì «politicamente corretto» ogni atto in linea con i suoi dettami. Un secolo dopo il politicamente corretto è lo strumento usato della sinistra radicale americana e da quella europea per cambiare la realtà. Non a caso la «cancel culture» prevede di cambiare il corso della storia e trasformare i vinti in vincitori attraverso operazioni semantiche». Una maestrina di queste operazioni è, senza dubbio, la signora Dalli. Una Commissaria solerte nel raccomandare l'oblio del Natale nel nome dell'inclusione, ma altrettanto sollecita, il 23 aprile scorso, nell'indirizzare un tweet di buon Ramadan a tutti i musulmani d'Europa. Che tanto i cristiani da quest'Europa si possono pure escludere. 

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.

C'è una speranza contro chi taglia radici. Luigi Mascheroni l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. La Commissione europea ha ritirato il decalogo che vuole dettare le parole corrette, eliminare riferimenti alla religione e al genere, fare sparire persino il semplice "Signore e signori". La Commissione europea ha ritirato il decalogo che vuole dettare le parole corrette, eliminare riferimenti alla religione e al genere, fare sparire persino il semplice «Signore e signori». I burocrati della lingua, che la Storia ha insegnato essere i più pericolosi, hanno accettato di fare un passo indietro. Riscriveranno un documento ambiguo che pretendendo di garantire «il diritto di ogni persona ad essere trattata in maniera uguale» finisce per negare la possibilità di ognuno a manifestare la propria diversità. Quando l'ossessione per l'inclusione si trasforma in una miope cancellazione. Una battaglia è vinta, ma la guerra è ancora lunga. Dobbiamo saperlo. Non sarà facile preservare le tradizioni, poter dire «padre» e «madre» al posto di «genitore 1» e «genitore 2», salvaguardare il Natale o continuare a scrivere senza asterischi. Visti i tempi, la tutela delle supposte minoranze potrebbe alla fine travolgere la maggioranza. Dio non voglia. Ammesso che si possa usare la parola «Dio». L'onda lunga del «parlare corretto», l'incubo della discriminazione e la volontà di uniformare gusti e tendenze sono fenomeni violenti che si alimentano di fanatismo e stupidità, che oggi abbondano. Per fortuna però gli europei (che non sono esattamente i «cittadini della Comunità europea») hanno un vantaggio rispetto al mondo anglosassone, Stati Uniti in primis, dove il combinato disposto politically correct, cancel culture, ideologia Woke e #MeToo ha scatenato una crociata di cui non si riesce a vedere la fine. Noi europei, e noi italiani in particolare, siamo più cauti e disincantati. Mediamente i nostri conservatori sono meno rigidi dei repubblicani e i progressisti meno intolleranti dei liberal. È probabile che proprio la millenaria tradizione giudaico-cristiana alla fine ci salvi dai peggiori estremismi. Educati a rispettare le giuste differenze, eviteremo di distruggere la persona in nome dell'Ideologia. La speranza, come sempre, sono i giovani. E la paura semmai è che proprio i ragazzi, intesi come ragazzi e ragazze, siano invece i più deboli di fronte a quanti, volendo includere a tutti i costi, finiscono col generare le peggiori discriminazioni. La chiamano «generazione snowflake», «fiocco di neve», e sono i giovani, nati fra gli anni '90 e i Duemila, troppo fragili e sensibili davanti alle durezze del mondo per accettare critiche e difendere valori, principi e radici. Così spaventati di offendere qualcuno, che non parlano più di niente. Non leggono i libri scorretti, non vedono i film scandalosi, non guardano i quadri spudorati. Così rischiano di sciogliersi nel peggiore dei mondi omologati. No ragazzi: non siate neutrali. Non è il momento.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Un enigma d'amore chiamato Gesù. Eugenio Scalfari su La Repubblica il 30 novembre 2021. Il fondatore di "Repubblica" parte dal mistero dell’uomo venuto da Nazareth per ricordarci la necessità di avere cura della Terra

L'ascolto è riservato agli abbonati. Negli ultimi tempi mi è capitato (non credo soltanto a me) di ragionare di Gesù di Nazareth: il fascino che questa figura ancora esercita è fortissimo. Così come potenti sono il mistero e gli interrogativi che la sua vita, la sua morte e la successiva nascita della Chiesa pongono. Una serie di riflessioni che torno ad affrontare adesso, mentre riguardo il mio libro Il Dio unico e la società moderna.

Non solo Natale. Federica Bianchi su L'Espresso l'1 dicembre 2021. La Commissione propone (e poi ritira) delle linee guida per un linguaggio istituzionale più inclusivo. Che tenga conto delle sensibilità della nuova società europea. In cui l’Italia fa ancora fatica a riconoscersi. Alla fine, con un gesto tra il prudenziale e il pavido, la Commissione europea ha ritirato le linee guida sviluppate per la comunicazione istituzionale dei suoi funzionari. Si trattava per la verità di pagine a uso interno che qualcuno strumentalmente ha deciso di fare trapelare in prossimità delle festività. E difatti in Italia, e tra tutti i 27 Paesi europei, solo in Italia, è scoppiata la polemica. Che nei giorni scorsi è finita sulle prime pagine di tutti i giornali. Ma perché tanto clamore? Nelle linee guida per una comunicazione europea che rispecchi la composizione sociale, i credi religiosi e gli orientamenti sessuali di tutti i cittadini dell'Unione di oggi - e non quella del secolo scorso - la Commissione europea, tra tantissimi consigli ai suoi burocrati, aveva tra le varie cose suggerito di non dire automaticamente nelle comunicazioni istituzionali Buon Natale ma Buone Feste. Il termine "feste" comprende tutte le festività religiose di questo periodo (Hannuka, Natale e Ramadan) e, soprattutto, rende contenti tutti, cattolici, cattolici ortodossi, ebrei e musulmani, perché in quella parola generica ognuno può ritrovare l'augurio per la celebrazione del suo credo, senza nulla togliere agli altri. Lo scandalo è scattato anche a proposito del suggerimento di utilizzare negli esempi ipotetici fatti per illustrare una situazione non solo nomi della Vecchia Europa come Maria e John ma anche quelli in uso nell'Europa orientale, come Malika, o nomi dei nuovi europei, come Mohammed. Negli Stati Uniti, dove la realtà di una società composita e variegata esiste da oltre un secolo, saranno almeno 20 anni che l'augurio di Buon Natale è stato sostituito con quello di Buone feste. Ormai non ci fa caso più nessuno. E se a quel tempo l'Italia non aveva ancora fatto i conti con la sua trasformazione in una società multiculturale e multietnica, ormai siamo consapevoli di non essere più una società omogenea. Non più soltanto bianchi, cattolici, maschilisti. Il linguaggio deve cambiare per includerci tutti. E lo deve fare non per buonismo o perché "fa progressista" ma perché se il linguaggio non cambia, e da rappresentativo finisce per diventare escludente, sarà difficile costruire una nuova società coesa di cui abbiamo molto bisogno. Si rischiano conflitti e frammentazioni che solo chi trae vantaggio dal caos può auspicare. Sul Natale noi italiani siamo particolarmente sensibili. È la nostra festa annuale per eccellenza. Quella che, lo sappiamo fin da piccoli, credenti o meno, ci ricorda le nostre radici europee, la festività che ci caratterizza rispetto al resto del mondo, che magari la festeggia anche, almeno per il coté godereccio, ma che non dimentica di averla importata dalla culla del cristianesimo, dall'Europa. E dunque il Natale per noi, che il Vaticano lo abbiamo in casa, non è solo una festività religiosa ma soprattutto un simbolo identitario. Ci dice chi siamo, da dove veniamo. In un mondo in rapida trasformazione è la nostra certezza. Censurare la parola Natale, anche se solo in una comunicazione istituzionale, nell'immaginario collettivo equivale a censurare noi stessi. Discorso simile vale per i nomi propri, ovviamente. E non è un caso che l'esempio criticato, Maria, sia il nome della Madonna, ampiamente diffuso. Ma la realtà, che ancora in Italia facciamo fatica a sentire nostra, è che l'identità dell'Europa moderna non è più legata alle sue radici cristiane. Quelle non le eradicherà nessuno per definizione perché sono ancorate nel passato. Ma non sono più indispensabili per considerarci europei. Per renderci europei. La nostra Unione oggi è fondata su un costrutto giuridico-legale unico: lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. L'Europa, in un mondo sempre più dominato dai regimi autoritari, si differenzia con il suo abbraccio della democrazia e dei diritti, con le sue libertà commerciali, sociali, religiose, di movimento. Essere europeo vuol dire avere la certezza di vedere tutelata la propria libertà con l'unica limitazione del rispetto di quella altrui e del collettivo sociale, che è poi il grande lascito dell'insegnamento cattolico. Tutti i fili spinati del mondo non ci proteggeranno dalla realtà che il 1900 è finito. Che la nostra società è colorata. Ma ieri come oggi non ci sarà coesione, che è poi la forza di qualsiasi democrazia, senza la consapevolezza che la sensibilità dell'uno finisce lì dove inizia quella dell'altro. Ed è per questo che anziché battere velocemente in ritirata, per paura di scatenare un ennesimo polverone ancora una volta legato alla questione “immigrazione”, la Commissione avrebbe fatto meglio a cogliere l’occasione per spiegare il senso delle sue linee guida e ad affermare senza pudore il legame tra cultura, educazione e linguaggio. 

Se la sinistra abbandona il Natale alla destra. Francesco Merlo su La Repubblica il 30 novembre 2021. Perché il documento della Ue, subito ritirato, sulla festa cristiana politicamente corretta, è un’altra occasione mancata per i laici. Forse perché quasi tutti i suoi leader, a partire dai germanici Enrico e Goffredo, non hanno nomi ebreo-cristiani, la sinistra italiana si è concessa la miseria politica di regalare alla destra di Salvini e Meloni, ai loro sberleffi e alla loro esibita devozione non solo la difesa del Natale ma addirittura la difesa dell'onomastica ebreo-cristiana, a scorno di tutti i Maria, Giovanni, Luca, Giuseppe e ovviamente pure Matteo (tié).

Francesco Merlo per “la Repubblica”l'1 dicembre 2021. Forse perché quasi tutti i suoi leader, a partire dai germanici Enrico e Goffredo, non hanno nomi ebreo-cristiani, la sinistra italiana si è concessa la miseria politica di regalare alla destra di Salvini e Meloni, ai loro sberleffi e alla loro esibita devozione non solo la difesa del Natale ma addirittura la difesa dell'onomastica ebreo-cristiana, a scorno di tutti i Maria, Giovanni, Luca, Giuseppe e ovviamente pure Matteo (tié). (...) Ed eccoci tornati all'inizio e alla sinistra che non si è sentita offesa neppure per l'inclusiva esclusione di Mattarella, che porta il nome di Sergio di Radone, patrono di Russia, il santo più amato dai cristiani ortodossi. E allora - scherzi a parte, si dice - persino l'Iran, che è la teocrazia forse più intollerante, festeggia una tradizione preislamica che nessun ayatollah ha avuto mai il coraggio di proibire, il Capodanno zoroastriano (lo stesso Zarathustra che in Nietzsche diventa metafora). Ecco, forse stiamo pian piano creando, nel cuore dell'Europa, gli ayatollah del politicamente corretto se è vero che a Natale, in Italia, in sintonia con la presidente Dilla ogni anno c'è chi veste i pastorelli con la kefiah, chi sostituisce la recita di Betlemme con quella di Cappuccetto Rosso, chi vuole la Madonna con il chador, chi vieta Tu scendi dalle stelle. Si scatena, purtroppo a sinistra, il gioco infantile dell'etnologo dilettante, del siamo tutti Lévi-Strauss, del falso rispetto, della festa religiosa scaricata come il peso di un facchino o la soma di un somaro, con l'idea arrendevole che per onorare le altrui identità bisogna perdere di vista o rinunciare alla propria. Non è questo il relativismo. Ma i laici, che non sono orfani di assoluto, di assolutezze e di assolutismi, dovrebbero irridere e smontare lo sbracato politicamente corretto: il black tree in omaggio al black people, il Gesù nero, la colomba nera della pace, arlecchinate come un'ostia di pane nero. Ecco perché è un peccato mortale lasciare a Salvini e Meloni la difesa del Natale e dell'onomastica ebreo-cristiana, non certo perché davvero quasi tutti i leader a sinistra non hanno nomi cristiani, non solo Letta e Bettini: D'Alema è latino, Bersani è un composto latino-francone, Vendola e Fratoianni sono greci, Boldrini è latina. I solo cristiani ('mazza) sono Conte e Grillo, due Giuseppe. E se fosse per questo che non siamo messi tanto bene? 

Da repubblica.it il 29 novembre 2021. "Ogni persona in Ue ha il diritto di essere trattato in maniera eguale" senza riferimenti di "genere, etnia, razza, religione, disabilità e orientamento sessuale". Così - scrive Bruxelles nelle sue nuove linee guida - devono sparire "Miss o Mrs" (signorine e signore) sostituite da un più generico "Ms". E anche le festività non dovranno più essere riferite a connotazioni religiose, come il Natale, ma citate in maniera generica: si dovrà dire, ad esempio, le "festività sono stressanti" e non più "il Natale è stressante", si legge nel documento per una "corretta comunicazione" fornita dalla Commissione dal titolo "Union of Equality". Le linee guida contengono diversi capitoli in cui il trattamento egualitario della persona, secondo l'esecutivo Ue, va preso in considerazione. Nel decalogo della Commissione ci sono alcune raccomandazioni da usare sempre: "Non usare nomi o pronomi che siano legati al genere del soggetto; mantenere un equilibrio tra generi nell'organizzazione di ogni panel; se si utilizza un contenuto audiovisivo o testimonianze, assicurarsi la diversità sia rappresentata in ogni suo aspetto; non rivolgersi alla platea con le parole 'ladies' o 'gentleman' ma utilizzare un generico 'dear colleagues'; quando si parla di transessuali identificarli secondo la loro indicazione; non usare la parola 'elderly' (gli anziani) ma 'older people' (la popolazione più adulta, ndr); parlare di persone con disabilità con riferimento prioritario alla persona (ad esempio al posto di 'Mario Rossi è disabile' va utilizzato 'Mario Rossi ha una disabilità')". Nelle linee guida ci sono anche riferimenti ad una "corretta" comunicazione in merito alle religioni. Ad esempio nel testo si consiglia, in qualsiasi contenuto comunicativo, di "non usare nomi propri tipici di una specifica religione". In merito alle festività la commissione chiede di "evitare di dare per scontato che tutti siano cristiani". Con tanto di esempi: al posto di dire o scrivere "Natale è stressante" l'esecutivo europeo invita ad utilizzare le parole: 'Le festività sono stressanti'". Immediata la reazione del centrodestra italiano. Antonio Tajani e Forza Italia, in un'interrogazione scritta alla Commissione Ue, chiedono che il riferimento al Natale nelle linee guida venga modificato, "nel rispetto delle radici cristiane dell'Unione europea". E la Lega attacca: "Dietro una comunicazione formalmente anti-discriminatoria e neutrale, si nasconde la violenza del pensiero unico, che l'Ue ha ormai sposato appieno. La volontà sempre quella di riscrivere l'idea di società, di famiglia, di natura, di vita. La tecnica è ormai nota: si cambiano le parole, si rovesciano i significati, si introduce una neo-lingua che cambia il modo di pensare dei cittadini. Siamo orgogliosi dei nostri valori e delle nostre tradizioni. Non ci faremo uniformare dall'Ue. Mi sono già attivata per presentare un'interrogazione alla Commissione Europea, perché quando si perde la battaglia delle parole, si perde la battaglia delle idee". Lo dichiara Simona Baldassarre, europarlamentare e responsabile del Dipartimento Famiglia della Lega.

In Europa vietato dire "Natale" e perfino chiamarsi Maria. Francesco Giubilei il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. Il documento interno della Commissione: no all'uso di "Miss o Msr", basta riferimenti religiosi e nomi cristiani. Se ce lo avessero raccontato e non lo avessimo letto nero su bianco in una comunicazione ufficiale della Commissione europea, non ci avremmo creduto perché i contenuti delle nuove linee guida per una «comunicazione inclusiva» hanno dell'incredibile. In un documento per circolazione interna di cui Il Giornale è entrato in possesso in esclusiva intitolato #UnionOfEquality. European Commission Guidelines for Inclusive Communication, vengono indicati i criteri da adottare per i dipendenti della Commissione nella comunicazione esterna ed interna. Come scrive nella premessa il Commissario per l'uguaglianza Helena Dalli «dobbiamo sempre offrire una comunicazione inclusiva, garantendo così che tutti siano apprezzati e riconosciuti in tutto il nostro materiale indipendentemente dal sesso, razza o origine etnica, religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale». Per farlo la Commissione europea indica una serie di regole che non solo cancellano convenzioni e parole usate da sempre ma contraddicono il buon senso. Vietato utilizzare nomi di genere come «operai o poliziotti» o usare il pronome maschile come pronome predefinito, vietato organizzare discussioni con un solo genere rappresentato (solo uomini o solo donne) e ancora, vietato utilizzare «Miss o Mrs» a meno che non sia il destinatario della comunicazione a esplicitarlo. Ma non è finita: non si può iniziare una conferenza rivolgendosi al pubblico con la consueta espressione «Signori e signore» ma occorre utilizzare la formula neutra «cari colleghi». Il documento si sofferma su ambiti specifici come il «gender», «Lgbtiq», i temi «razziali ed etnici» o le «culture, stili di vita e credenze» con una tabella che indica cosa si può o meno fare basata sulla pretesa di regolamentare tutto creando una nuova lingua che non ammette la spontaneità: «Fai attenzione a non menzionare sempre prima lo stesso sesso nell'ordine delle parole, o a rivolgerti a uomini e donne in modo diverso (ad esempio un uomo per cognome, una donna per nome)»; e ancora «quando scegli le immagini per accompagnare la tua comunicazione, assicurarsi che le donne e le ragazze non siano rappresentate in ambito domestico o in ruoli passivi mentre gli uomini sono attivi e avventurosi». Una volontà di cancellazione del genere maschile e femminile che raggiunge livelli paradossali quando la Commissione scrive che bisogna evitare di usare espressioni come «il fuoco è la più grande invenzione dell'uomo» ma è giusto dire «il fuoco è la più grande invenzione dell'umanità». È evidente che dietro la ridefinizione del linguaggio si celi la volontà di cambiare la società europea, le nostre usanze e tradizioni come emerge dal capitolo dedicato alle «culture, stili di vita o credenze». La Commissione europea ci tiene a sottolineare di «evitare di considerare che chiunque sia cristiano» perciò «non tutti celebrano le vacanze natalizie (...) bisogna essere sensibili al fatto che le persone abbiano differenti tradizioni religiose». C'è però un'enorme differenza tra il rispetto di tutte le religioni e vergognarsi o cancellare le radici cristiane che sono alla base dell'Europa e della nostra identità. In nome dell'inclusività la Commissione europea arriva a cancellare il Natale invitando a non utilizzare la frase «il periodo natalizio può essere stressante» ma dire «il periodo delle vacanze può essere stressante». Una volontà di eliminare il cristianesimo che si spinge oltre con la raccomandazione di usare nomi generici invece di «nomi cristiani» perciò, invece di «Maria e Giovanni sono una coppia internazionale», bisogna dire «Malika e Giulio sono una coppia internazionale». Fino ad arrivare allo sprezzo del ridicolo che impone di contrastare la connotazione negativa di parole come colonialismo: vietato dire «colonizzazione di Marte» o «insediamento umano su Marte», meglio affermare «inviare umani su Marte». Quando la tragedia lascia lo spazio alla farsa.

Bufera sulla censura Ue. "Cancella la nostra storia". Francesco Giubilei il 29 Novembre 2021 su Il Giornale. Spagna, Polonia e Ungheria contro il documento che "purifica" il linguaggio. Salvini: "Una follia". La scoperta da parte del Giornale di un documento della Commissione europea nato per circolazione interna con le «linee guida per una comunicazione inclusiva» sta facendo discutere a causa delle indicazioni che vietano di utilizzare il termine Natale, i nomi cristiani come Maria e Giovanni, l'espressione «signori e signore» arrivando a divieti paradossali come «colonizzare Marte» (la formula corretta dovrebbe essere «inviare umani su Marte»). Un vero e proprio vademecum del politicamente corretto che ha suscitato reazioni di sdegno da parte del mondo politico italiano. Se la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni ha affermato senza giri di parole: «Ora basta: la nostra storia e la nostra identità non si cancellano», il segretario della Lega Matteo Salvini l'ha definita «una follia» e il vicesegretario federale Lorenzo Fontana ha rincarato la dose: «Quanto avviene in questa Europa dove si impone una deriva antropologica e sociale dei nostri costumi e tradizioni, è un qualcosa di mostruoso. Dobbiamo combattere con tutte le nostre forze, perché questo non accada». Sulla stessa linea Marco Zanni, presidente al Parlamento europeo del gruppo Identity and democracy e il capo delegazione Lega Marco Campomenosi che in una nota congiunta hanno scritto: «È preoccupante che questo modo di ragionare sia fatto proprio dalle istituzioni europee: vorremmo che l'Europa usasse meglio i soldi dei cittadini, per risolvere questioni ben più concrete e urgenti. Non ci renderemo complici: continueremo a difendere i valori giudaico-cristiani dell'Europa e la sacrosanta libertà di espressione dei cittadini». Unanime la condanna anche in seno al gruppo dell'Ecr dove, se Carlo Fidanza ha affermato che «siamo alla follia! Un altro piccolo passo verso il nulla», l'europarlamentare spagnolo Jorge Buxadé, vicepresidente di Vox, non usa giri di parole per condannare il documento: «I barbari sono dentro». Uno sdegno che ha travalicato i confini dell'Italia, dalla Spagna alla Polonia fino all'Ungheria dove Rodrigo Ballester, capo del Centro per gli Studi Europei dell'MCC di Budapest (principale collegio universitario ungherese), ha scritto un tweet per esprimere la sua disapprovazione. Eppure le follie della «comunicazione inclusiva» della Commissione europea non si fermano al Natale e all'abolizione dell'uomo e della donna ma abbracciano a trecentosessanta gradi ogni ambito della società mettendo in discussione principi come l'appartenenza nazionale e la famiglia. Nel documento si mette in guardia dall'offendere «persone apolidi o immigrati» invitando a evitare l'utilizzo del termine «cittadino» perché «non tutti nell'Ue sono cittadini», vietato perciò dire «tutti i cittadini hanno il diritto di essere sicuri». Non poteva infine mancare un attacco alla famiglia con l'invito a non descrivere le persone come sposate o single ed «evitare di legare il concetto di famiglia a uno status legale». Vale il principio che nessuno deve sentirsi offeso tranne i cristiani, chi crede nel valore della famiglia e nel rispetto della propria nazione, verso di loro tutto è concesso, anche cancellare millenni di storia.

Rivolta contro Bruxelles. Così in due anni è nato il bavaglio buonista. Francesco Giubilei il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. È bufera sulle "linee guida Ue" del linguaggio inclusivo. Interrogazione di Tajani: lesa la libertà. Chissà cosa direbbero gli artefici dell'idea europea Schuman, De Gasperi e Adenauer se leggessero le linee guida della Commissione europea per una «comunicazione inclusiva» in cui si cancella il riferimento al Natale, ai nomi cristiani come Maria e Giovanni e alla differenza tra uomo e donna. Sembrano passati secoli dalla firma del Trattato di Roma nel 1957 intriso di valori cristiani con cui si posero le basi per la cooperazione europea eppure, confrontando il documento diffuso dalla Commissione con un testo analogo realizzato dal Parlamento europeo nel 2019, le differenze sono notevoli. In soli due anni è avvenuta un'accelerazione senza precedenti per ridefinire il linguaggio e cancellare espressioni, modi di dire e concetti che da sempre hanno fatto parte della nostra storia. Le «linee guida per la comunicazione inclusiva» redatte nel 2019 nascono per «garantire la parità di rappresentanza tra donne e uomini» e una «efficace sensibilizzazione e impegno per mettere le donne e gli uomini sullo stesso piano» poiché «la parità tra donne e uomini è un valore europeo saldamente radicato nei trattati». Nel 2019 si dà per implicita l'esistenza dei sessi uomo e donna e si aggiunge che le linee guida mirano a «riconoscere che gruppi target ampiamente definiti (giovani, dirigenti, ecc...) hanno segmenti diversi al loro interno, per esempio donne, uomini, persone identificate come lgbti, persone con disabilità, persone di diversa origine sociale o etnica, ecc. Pertanto, queste raccomandazioni mirano a riconoscere la piena diversità del pubblico definito e fare sforzi per garantire che nessuno venga respinto». Obiettivo delle linee guida del 2019 è assicurare il bilanciamento dei sessi tra i relatori negli eventi ed evitare di utilizzare espressioni o parole offensive verso i disabili. Si tratta di indicazioni ragionevoli e di buon senso e di tutt'altro tenore rispetto al documento «#UnionofEquality» scoperto da Il Giornale con una volontà di regolamentare e normare ogni discorso definendo quali parole si possono usare e quali no. Non a caso l'europarlamentare e coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, ha presentato un'interrogazione alla Commissione europea chiedendo se linee guida per la comunicazione inclusiva «rispettino l'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sul principio della libertà di espressione, che include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche?» aggiungendo: «Nel rispetto del principio di inclusività, quali misure intende adottare per rispettare la sensibilità della maggioranza dei dipendenti della Commissione europea? Intende modificare queste linee guida, nel rispetto delle radici cristiane dell'Unione europea?». Un'interrogazione presentata anche dell'europarlamentare Nicola Procaccini del gruppo Ecr per chiedere spiegazioni sul documento che, più che promuovere una comunicazione inclusiva, sembra voler escludere cristiani e cittadini di buon senso.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più influenti d’Italia.

Chiara Baldi per "la Stampa" il 29 novembre 2021. A distanza di quattro giorni Martino Mora, professore di ruolo di storia e filosofia al liceo Scientifico Bottoni di Milano, ne è ancora convinto: «Quel vestiario era inaccettabile, totalmente inadeguato al contesto. E avrei avuto la stessa reazione se fossero venuti vestiti da clown o da Babbo Natale». L'abbigliamento «inaccettabile» è quello che tre studenti della terza D hanno indossato lo scorso 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne: un abito lungo («che era quello che mi ha dato più fastidio di tutti», dice Mora) e un tutù da ballerina («che ho visto solo dopo perché era seduto al banco»). Un terzo, poi, si era dipinto le unghie di rosso. Un gesto di solidarietà che al professore - che sul suo profilo Facebook esterna spesso con toni non proprio benevoli su donne, omosessuali, chiesa, giornali e vaccini - non è piaciuto. «Per solidarizzare con le donne - commenta - non c'è bisogno di vestirsi da donne. Io - prosegue - a scuola vado in giacca e cravatta non perché voglio fare l'elegantone ma perché considero la scuola un santuario di cultura e educazione che merita un vestiario adeguato. E voglio che gli alunni facciano lo stesso: non siamo al Carnevale di Viareggio». E così, i tre sono stati invitati a uscire dalla classe e, dopo essersi rivolti alla preside Giovanna Mezzatesta, è stato il professor Mora a essere cacciato. «La dottoressa Mezzatesta ha dato un ordine che non poteva dare, quello di allontanarmi da scuola, sono quindi io la parte lesa», rincara la dose l'insegnante. La vicenda però non si è conclusa giovedì ma ha avuto degli strascichi: sabato, infatti, gli studenti di due altre classi - la quarta e la quinta della sezione D - sono usciti dall'aula durante l'ora del professor Mora, in segno di protesta. «Ci siamo rifiutati di seguire la sua lezione per difendere le nostre idee», hanno scritto sul profilo Instagram dell'istituto, raccogliendo quasi 6 mila like. E anche il commento di un altro professore della scuola, Lorenzo Mazzi, che ha proposto una mozione in favore degli studenti e già firmata da buona parte degli altri insegnanti. «I docenti del Bottoni sono orgogliosi del vostro coraggio e del vostro impegno, avete tutto il nostro sostegno!», ha scritto Mazzi sotto al post su Instagram. La dirigente scolastica Mezzatesta, intanto, ha preso in mano la situazione: «Sto redigendo la relazione con i fatti accaduti, che sono due: il fatto che Mora non abbia assolto al compito di vigilanza poiché ha cacciato dalla classe tre alunni e, poi, che si sia rifiutato di fare lezione. Aggiungerò anche le varie schifezze che ha scritto su Facebook contro di me e contro la scuola. E appena sarà pronta la consegnerò all'ufficio scolastico provinciale, che prenderà provvedimenti nei suoi confronti», spiega. Per Mora è quasi certa la sospensione che potrebbe arrivare prima di Natale. Intanto, in queste ore, sono molti gli episodi «sgradevoli» che vengono riportati e che coinvolgono proprio il professore. Come quando un anno fa disse a una studentessa «prova a leggere questo testo, ammesso che voi donne sappiate leggere». Oppure quando, in occasione di una lezione in dad con la senatrice a vita Liliana Segre, il docente si fece scappare un «uff, della Segre non se ne può più!».

Natale salvo, sinistra triste: l'Unione europea ci ripensa, che amarezza per i compagni. Renato Farina su Libero Quotidiano l'1 dicembre 2021. Suonino le campane, si muovano gli zampognari. Va bé, non si usa più. Ma se non ora, quando? Il governo dell'Europa si è ritirato disordinatamente, magari nel castello di Erode dei nostri vecchi presepi. Si è arreso, alza le mani. Aveva ingaggiato la battaglia contro il Natale e contro i nomi di Maria e Giovanni perché troppo evocatori di Vangelo. Un po' come Ataturk aveva reinventato la lingua turca negli anni 30, omogeneizzando con la neo -lingua i neo -cervelli dei popoli dell'ex impero ottomano, così la commissaria europea alla Parità, Helena Dalli, aveva emesso con la dovuta solennità delle rivoluzioni epocali le "linee guida sulla comunicazione inclusiva". Era convinta di piantare le sue bandiere con serena facilità. Ha fatto male i suoi conti. Da ogni parte - più nell'opinione pubblica laica che in quella della ormai cedevole minoranza di credenti - si è alzato un no corale. Si trattava di un diktat con cui si vietava nelle comunicazioni dell'Unione Europea, perché facesse scuola ovunque, di citare l'evento di Betlemme e i suoi protagonisti su cui si è retta la nostra civiltà per duemila anni. La commissaria esigeva di sostituire il Natale con un generico riferimento alle Feste, e di sostituire Maria e Giovanni (ma forse intendevano Giuseppe) con la coppia internazionale Malika e Julio (sul serio!). La ministra Dalli ha preso atto della disfatta. «La mia iniziativa aveva lo scopo di raggiungere un obiettivo importante: illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione europea verso tutti i ceti sociali e le credenze dei cittadini europei». Ahi ahi, è costretta a costatare: «Non è un documento maturo. Lo ritiro. Lavorerò ulteriormente su questo documento». Insomma, ci riproverà. Li conosciamo. Intanto però l'Europa per la prima volta in questo millennio deve posare a terra le insegne del progressismo post -cristiano, e deve rinunciare a imporre la rinuncia della propria identità simbolica alle nazioni. La marcia che pareva irresistibile dei devastatori della memoria ha subito così un altolà. Le truppe del politicamente corretto sono state costrette a una precipitosa ritirata, con tanto di pive nel sacco. La vicenda è densa di insegnamenti. Vuol dire che rassegnarsi è sbagliato, e opporsi a chi vuol finire il lavoro di estirpare le radici cristiane persino dal linguaggio. è vincente. La prossima mossa sarebbe stata quella di smetterla di contare gli anni a partire dal Natale, visto che si voleva vietarne il ricordo. Come è potuto accadere questo stop? Non è un fatto isolato. In Italia, per nostro piccolo, c'è stato un segnale analogo con l'affossamento del ddl Zan: rispettare le differenze, condannare le discriminazioni non deve e non può coincidere con il cedimento all'ideologia del gender e obbligo di professarla. Allo stesso modo rispettare i diversi credo religiosi e le varie tradizioni, non può voler dire vergognarsi della propria anima. Qualche volta la storia inaspettatamente si avvita su sé stessa. Chi pretendeva di dirigerne il corso come fossero le rapide del Nilo Bianco inciampa nella strana capacità dei popoli di fiutare i totalitarismi , e quello linguistico ne è una specie subdola, e di reagire. Il nome delle cose e la scelta di quelle importanti appartiene alla libertà di essere sé stessi. Forse il politicamente corretto ha raggiunto il suo culmine. Poi si scende. E chi credeva di guidare il destino della gente galoppando sul cavallo bianco verso un mondo dove tutto è banalmente uguale, una sorta di nulla dove tutti anneghiamo nel caramello, senza bandiere, senza differenze sessuali, senza latino, senza Gesù Cristo, bé, è andato a sbattere contro il tram. Così Helena Dalli fa il verso a quel «contrordine compagni» inventato da Giovannino Guareschi onde descrivere le istruttive vicende dei trinariciuti. Ricordate? La vittoria del comunismo pareva una cuccagna da acchiappare al volo. Il Colosso è crollato sui suoi piedi di argilla (anche se non in Italia, dove camaleonticamente ha cambiato pelle ma non palle). Ora la partita si gioca su un altro fronte. Non c'è il Muro di Berlino, ma un muro linguistico in cui rinchiudere i popoli, a cui si gettano come nutrimento cacchette di parole dolci e suadenti, dotate del sacro sigillo della parità di genere e della fluidità delle fedi. Linguaggi che promettono pace, e invece sono lapidi di cimiteri senza luna. Ecco, quanto accaduto ieri ci dice che forse non finirà così. Ai guardiani del lager si è inceppato il fucile.

Natale salvo, sinistra triste: l'Unione europea ci ripensa, che amarezza per i compagni. Renato Farina su Libero Quotidiano l'1 dicembre 2021. Suonino le campane, si muovano gli zampognari. Va bé, non si usa più. Ma se non ora, quando? Il governo dell'Europa si è ritirato disordinatamente, magari nel castello di Erode dei nostri vecchi presepi. Si è arreso, alza le mani. Aveva ingaggiato la battaglia contro il Natale e contro i nomi di Maria e Giovanni perché troppo evocatori di Vangelo. Un po' come Ataturk aveva reinventato la lingua turca negli anni 30, omogeneizzando con la neo -lingua i neo -cervelli dei popoli dell'ex impero ottomano, così la commissaria europea alla Parità, Helena Dalli, aveva emesso con la dovuta solennità delle rivoluzioni epocali le "linee guida sulla comunicazione inclusiva". Era convinta di piantare le sue bandiere con serena facilità. Ha fatto male i suoi conti. Da ogni parte - più nell'opinione pubblica laica che in quella della ormai cedevole minoranza di credenti - si è alzato un no corale. Si trattava di un diktat con cui si vietava nelle comunicazioni dell'Unione Europea, perché facesse scuola ovunque, di citare l'evento di Betlemme e i suoi protagonisti su cui si è retta la nostra civiltà per duemila anni. La commissaria esigeva di sostituire il Natale con un generico riferimento alle Feste, e di sostituire Maria e Giovanni (ma forse intendevano Giuseppe) con la coppia internazionale Malika e Julio (sul serio!). La ministra Dalli ha preso atto della disfatta. «La mia iniziativa aveva lo scopo di raggiungere un obiettivo importante: illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione europea verso tutti i ceti sociali e le credenze dei cittadini europei». Ahi ahi, è costretta a costatare: «Non è un documento maturo. Lo ritiro. Lavorerò ulteriormente su questo documento». Insomma, ci riproverà. Li conosciamo. Intanto però l'Europa per la prima volta in questo millennio deve posare a terra le insegne del progressismo post -cristiano, e deve rinunciare a imporre la rinuncia della propria identità simbolica alle nazioni. La marcia che pareva irresistibile dei devastatori della memoria ha subito così un altolà. Le truppe del politicamente corretto sono state costrette a una precipitosa ritirata, con tanto di pive nel sacco. La vicenda è densa di insegnamenti. Vuol dire che rassegnarsi è sbagliato, e opporsi a chi vuol finire il lavoro di estirpare le radici cristiane persino dal linguaggio. è vincente. La prossima mossa sarebbe stata quella di smetterla di contare gli anni a partire dal Natale, visto che si voleva vietarne il ricordo. Come è potuto accadere questo stop? Non è un fatto isolato. In Italia, per nostro piccolo, c'è stato un segnale analogo con l'affossamento del ddl Zan: rispettare le differenze, condannare le discriminazioni non deve e non può coincidere con il cedimento all'ideologia del gender e obbligo di professarla. Allo stesso modo rispettare i diversi credo religiosi e le varie tradizioni, non può voler dire vergognarsi della propria anima. Qualche volta la storia inaspettatamente si avvita su sé stessa. Chi pretendeva di dirigerne il corso come fossero le rapide del Nilo Bianco inciampa nella strana capacità dei popoli di fiutare i totalitarismi , e quello linguistico ne è una specie subdola, e di reagire. Il nome delle cose e la scelta di quelle importanti appartiene alla libertà di essere sé stessi. Forse il politicamente corretto ha raggiunto il suo culmine. Poi si scende. E chi credeva di guidare il destino della gente galoppando sul cavallo bianco verso un mondo dove tutto è banalmente uguale, una sorta di nulla dove tutti anneghiamo nel caramello, senza bandiere, senza differenze sessuali, senza latino, senza Gesù Cristo, bé, è andato a sbattere contro il tram. Così Helena Dalli fa il verso a quel «contrordine compagni» inventato da Giovannino Guareschi onde descrivere le istruttive vicende dei trinariciuti. Ricordate? La vittoria del comunismo pareva una cuccagna da acchiappare al volo. Il Colosso è crollato sui suoi piedi di argilla (anche se non in Italia, dove camaleonticamente ha cambiato pelle ma non palle). Ora la partita si gioca su un altro fronte. Non c'è il Muro di Berlino, ma un muro linguistico in cui rinchiudere i popoli, a cui si gettano come nutrimento cacchette di parole dolci e suadenti, dotate del sacro sigillo della parità di genere e della fluidità delle fedi. Linguaggi che promettono pace, e invece sono lapidi di cimiteri senza luna. Ecco, quanto accaduto ieri ci dice che forse non finirà così. Ai guardiani del lager si è inceppato il fucile.

Il docente rischia la sospensione. Professore rifiuta di fare lezione agli studenti in gonna: la storia della ‘rivolta’ di alunni e dirigente del ‘Bottoni’ di Milano. Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Novembre 2021. È stato avviato un provvedimento disciplinare, col rischio di sospensione dal lavoro, per Martino Mora, professore del liceo scientifico Bottoni a Milano che venerdì 25 novembre, nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne e di genere, aveva rifiutato di fare lezione nella sua classe a causa di due studenti ‘colpevoli’ di indossare una gonna come gesto di solidarietà. Troppo, evidentemente, per il professore di storia, che prima ha chiesto di uscire dall’aula e poi si è rifiutato di continuare la sua lezione. La risposta al suo gesto è arrivata il giorno seguente anche da altre classi dell’istituto milanese: gli studenti della classe 4D sono usciti dall’aula rifiutandosi di ascoltare la lezione “per difendere le loro idee”, sedendosi in corridoio studiando per l’ora successiva. Una vicenda che ha aperto uno scontro senza precedenti tra il professor Mora e la dirigente scolastica del liceo Bottoni, Giovanna Mezzatesta. Intervista dal Fatto Quotidiano, la dirigente ha fornito la sua versione dei fatti: “Alla prima ora quando il professore ha cacciato fuori dall’aula i ragazzi vestiti da donna, la mia collaboratrice l’ha invitato a farli rientrare. Quando sono arrivata a scuola è venuto nel mio ufficio dicendomi che non avrebbe fatto lezione con “dei travestiti”. A quel punto l’ho invitato a tornare in classe perché in quel modo avrebbe violato il diritto allo studio degli studenti”. Da parte sua Mora avrebbe proposto di restare a disposizione della scuola in sala insegnanti senza rientrare in classe, soluzione rifiutata però dalla dirigente: “Non potevo certo chiamare un supplente perché il professore non voleva far lezione ai ragazzi in gonna. Ho detto che o tornava ad insegnare o sarebbe dovuto andare a casa”, cosa poi accaduta. Diversa, e non poteva essere altrimenti, la versione raccontata su Facebook dal professore nel giorno stesso in cui è avvenuto l’episodio: “La preside del liceo dove insegno mi ha cacciato da scuola. Stamattina. Mi ha cacciato poiché le avevo detto che non intendevo fare lezione in presenza di un allievo maschio che si è presentato travestito da donna dalla testa ai piedi. A questo punto la “signora” in questione mi ha messo brutalmente e arbitrariamente di fronte all’aut aut: o avrei fatto lezione facendo finta di nulla, o avrei dovuto lasciare immediatamente la scuola. Alla mia risposta che mi sembrava molto più onorevole la seconda possibilità, ella mi ha cacciato”. Posizioni inconciliabili, come evidente. La dirigente Mezzatesta è pronta però ad andare fino in fondo alla storia e sta preparando una relazione su quanto accaduto: “Mora non ha assolto al compito di vigilanza poiché ha cacciato dalla classe tre alunni e, poi, si è rifiutato di fare lezione. Appena sarà pronta la consegnerò all’ufficio scolastico provinciale, che prenderà provvedimenti nei suoi confronti”, ha spiegato a La Stampa la dirigente. CHI E’ MORA – Il professore da parte sua si dice pronto a pagare “il prezzo dell’isolamento e dell’ingiustizia”, annunciando una forma di martirio contro quella che definisce “paccottiglia sub-culturale anglosassone e politicamente corretta che sta prendendo il sopravvento anche qui”. Ma il suo profilo Facebook, aperto al pubblico, si possono notare altre posizioni ‘borderline’ su altri temi: da Draghi al vaccino, dal ddl Zan al suicidio assistito, fino ai giornalisti. Draghi, per esempio, viene definito in un post “sacerdote del dio denaro, il banchiere dei banchieri, il delegato di Wall Strett, l’amico di Big Pharma, l’uomo di fiducia degli strozzini globali, il mandatario degli usurai”. Il potere dei media è invece gestito, secondo Mora, da “uomini di tale profonda, luceferina malvagità, da lasciare sgomenti”, il tutto perché i grandi giornali “criminalizzano i renitenti al siero magico della multinazionali del farmaco, che trattano come untori e potenziali assassini”. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Valeria Braghieri per “il Giornale” il 27 ottobre 2020. Già la moglie ci procurava una punta di fastidio. Sensazione irrazionale e ingenerosa, per carità. Ma ci è sempre apparsa un po' superflua tra renne, elfi, campanellini, pacchetti e notti di consegne. E infatti il massimo che le sia mai stato concesso, nell'immaginario comune quanto nei libri e nei film, è stato preparare una cioccolata calda al marito prima della partenza in slitta, o scaldargli i piedi sotto le coperte una volta di rientro, al Polo Nord. Voluminosa come lui, vestita di rosso come lui... ma insomma diciamocelo, la moglie di Babbo Natale, non ha mai aggiunto nulla. E anche ai fini dell'atmosfera di magia non è mai servita un granché. Adesso, dopo non aver mai digerito fino in fondo la legittima consorte, il servizio di Poste norvegese, Posten, ci chiede di immaginare Babbo Natale in compagnia di un amante. Maschio. Per celebrare i cinquant'anni dal giorno in cui il Paese ha reso legale amare chi si vuole, l'azienda ha realizzato uno spot in cui, di anno in anno, Santa Claus, coltiva un romantico sentimento nei confronti di un aitante cinquantenne, tale Harry. I due si incontrano solo il 25 dicembre, in occasione della consegna natalizia. Babbo Natale si cala dal camino, si aggira nel soggiorno e il padrone di casa lo sorprende. I due si siedono sul divano, sorseggiano qualcosa, si guardano negli occhi... Si comprende subito che tra loro è amore al primo punch. Ma avere un solo giorno di approcci all'anno rende la faccenda un tantino sfinente. Ad ogni incontro qualche nuova ruga e qualche capello bianco in più. Così nello spot si va «avanti veloci» fino all'happy end: un bacio sulle labbra davanti all'albero addobbato. Un'atmosfera rarefatta, il camino acceso, il mondo fuori, che pare aver messo il silenziatore, un Babbo Natale innamorato e un amante impaziente. Ecco come, da oggi, i bambini norvegesi potranno immaginarsi Santa Claus e i suoi magici viaggi. Aspettando regali che evidentemente lui non avrà mai il tempo di consegnare…Per noi Babbo Natale andava benissimo completamente asessuato com'era. Una moglie, un amante, i piedi freddi, il punch caldo... tutta roba che serve solo a rovinare le favole. 

Luigi Ferrarella per corriere.it il 3 novembre 2021. La I Corte d’Appello penale di Milano ha assolto, ribaltando la condanna di primo grado, il fotografo Oliviero Toscani dall’accusa di vilipendio della religione cattolica, per la quale il Tribunale gli aveva invece inflitto una multa di 4 mila euro. Nella trasmissione radiofonica «La Zanzara» del 2 maggio 2014 su Radio 24, interpellato dai conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo sulla pedofilia nella Chiesa, Toscani aveva immaginato di essere un marziano atterrato in una chiesa e, in questa chiave, si era lanciato in paradossi sull’iconografia religiosa: «Vedi uno inchiodato alla croce, un altare con bambini nudi che volano… Poi quell’altro sanguinante... la Chiesa sembra un club sadomaso». E aveva poi lamentato che «Papa Bergoglio dice cose banali», e che «fanno santo Wojtyla che era contro il preservativo in Africa, un assassino».

La querela delle associazioni Pro vita

Cattivo gusto, forse, ma anche vilipendio per il pm Stefano Civardi che aveva istruito il processo, nel quale le associazioni querelanti, «Giuristi per la vita» e «Pro vita», avevano chiesto 100 mila euro l’una di danni, ottenendo 500 euro dal giudice Ambrogio Moccia. «Io sono credente, a modo mio. Sono religiosamente laico, ma soprattutto sono per la libertà di pensiero, di critica. Mi offende — aveva protestato Toscani all’epoca — ritrovarmi condannato per vilipendio della religione e dei Papi, quando ho fatto solo critiche estetiche o di scelte politiche, non certo in materia religiosa. La verità è che noi in Italia non siamo ancora un paese laico, anzi siamo tornati indietro di decenni. Ma non mi arrendo: farò appello con il mio avvocato Caterina Malavenda». E ora l’Appello (motivazione fra 60 giorni) l’ha assolto, aderendo peraltro alla non scontata richiesta di assoluzione formulata anche dal sostituto procuratore generale Cuno Tarfusser.

Giorgio Gandola per “La Verità” il 29 ottobre 2021. Le vette imbarazzanti del presepe di Guerre Stellari non si raggiungeranno e Darth Vader, il principe nero della forza oscura che nel dicembre scorso vagava fra le sacre statuine, è rientrato fra gli jedi. È l'unica buona notizia in arrivo da San Pietro, dove neppure quest'anno si torna alla tradizione: il presepe del 2021 sarà una rappresentazione andina e Gesù Bambino avrà le sembianze di un indio Hilipuska, avvolto dalla tipica coperta huancavelica, legato con un «chumpi», la caratteristica cintura intrecciata. Nulla si sa (e molto si teme) su un'eventuale colonna sonora degli Inti Illimani. In piena sintonia con il terzomondismo spinto di papa Francesco, la natività si preannuncia ancora una volta alternativa; i 30 pezzi realizzati in ceramica, legno di agave e vetroresina, saranno a grandezza naturale, addobbati con i tipici costumi peruviani. Anche l'arcangelo Gabriele si prende una pausa; la nascita del Salvatore verrà annunciata da un angioletto che suonerà il wajrapuco, antico strumento a fiato. Lo specifica una nota vaticana con dettagli da Garabombo: ci saranno animali della fauna locale (alpaca, vigogne, lama, il condor andino) e nelle bisacce dei Re Magi spunteranno alimenti caratteristici come quinoa, canihua, kiwicha, ormai noti anche sulla tavola dell'annoiato Occidente globalista. «Il presepe peruviano vuole ricordare» sottolinea il comunicato, «i 200 anni dell'indipendenza del Perù, riprodurre uno spaccato di vita dei popoli delle Ande e simboleggiare la chiamata universale alla salvezza». Senza quest'ultima allegoria potrebbe essere uno spot laico da Emergency, da circolo Arci o da agenzia di viaggi con mete sudamericane da proporre, più proiettato verso gli idoli e la teologia della liberazione che al messaggio evangelico. L'allestimento sarà pronto per il 15 dicembre ed è destinato a suscitare polemiche negli ambienti ecclesiastici ancorati alla tradizione, ancora una volta sorpresi da un messaggio che conferma la decadenza della cattolicità vittima del modernismo e la spinta verso una Chiesa new age. Due anni fa, durante il sinodo dell'Amazzonia, statuette pagane esposte nella chiesa di Santa Maria Traspontina furono gettate nel Tevere per protesta da fedeli ultraconservatori. Da qualche tempo davanti a San Pietro va in scena una corsa al ribasso sui temi dell'esotismo e dell'eccentricità. Niente di male, ma con questi presupposti sarà ancora una volta difficile far comprendere ai fedeli il significato più intimo e religioso dell'Evento. L'anno scorso neppure il papa andò all'inaugurazione del presepe modernista, e dall'Angelus nella domenica prima di Natale invitò i pellegrini a visitare la mostra dei 100 presepi allestita sotto il colonnato ma non quello in piazza. L'ultima natività rispettosa della tradizione fu nel 2019, con lo stupendo presepe di legno della Valsugana, ma la tendenza francescana è stupire. Nessuno ha ancora dimenticato il presepe di sabbia del 2018, un bassorilievo con granelli della spiaggia di Jesolo modellati da tre scultori (un olandese, un russo e un ceco) partendo da una piramide che faceva tanto antico Egitto. Nel 2017 altro exploit: il presepe Lgbt composto da statuine ambigue come il pastore seminudo dai muscoli scolpiti che giaceva lascivo, il cadavere con un braccio che penzolava da una barella, l'arcangelo Gabriele con ghirlanda arcobaleno e la cupola di San Pietro semidistrutta. Più che un'opera di spiritualità sembrava la sua negazione. Allora l'ex nunzio apostolico Carlo Maria Viganò disse con severo realismo: «Il brutto non è altro che la faccia estetica del male».  

Religione o civiltà? Non togliete quel crocifisso è il segno del dolore umano. Natalia Ginzburg su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule della scuola. Il nostro è uno stato laico che non ha diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso. La signora Maria Vittoria Montagnana, insegnante a Cuneo, aveva tolto il crocefisso dalle pareti della sua classe. Le autorità scolastiche le hanno imposto di riappenderlo. Ora si sta battendo per poterlo togliere di nuovo, e perché lo tolgano da tutte le classi nel nostro Paese. Per quanto riguarda la sua propria classe, ha pienamente ragione. Però a me dispiace che il crocifisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita. Tutte o quasi tutte le persone che conosco dicono che va tolto. Altre dicono che è una cosa di nessuna importanza. I problemi sono tanti e drammatici, nella scuola e altrove, e questo è un problema da nulla. È vero. Pure, a me dispiace che il crocifisso scompaia. Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non venisse toccato. Ogni imposizione delle autorità è orrenda, per quanto riguarda il crocefisso sulle pareti. Non può essere obbligatorio appenderlo. Però secondo me non può nemmeno essere obbligatorio toglierlo. Un insegnante deve poterlo appendere, se lo vuole, e toglierlo se non vuole. Dovrebbe essere una libera scelta. Sarebbe giusto anche consigliarsi con i bambini. Se uno solo dei bambini lo volesse, dargli ascolto e ubbidire. A un bambino che desidera un crocefisso appeso al muro, nella sua classe, bisogna ubbidire. Il crocifisso in classe non può essere altro che l’espressione di un desiderio. I desideri, quando sono innocenti, vanno rispettati. L’ora di religione è una prepotenza politica. È una lezione. Vi si spendono delle parole. La scuola è di tutti, cattolici e non cattolici. Perché vi si deve insegnare la religione cattolica? Ma il crocifisso non insegna nulla. Tace. L’ora di religione genera una discriminazione fra cattolici e non cattolici, fra quelli che restano nella classe in quell’ora e quelli che si alzano e se ne vanno. Ma il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Sono quasi duemila anni che diciamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. O vogliamo forse smettere di dire così? Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C’è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro. E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa dì particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati. Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l’idea di Dio ma conserva l’idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c’è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini. E di esser venduti, traditi e martoriati e ammazzati per la propria fede, nella vita può succedere a tutti. A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola. Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l’idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici portiamo o porteremo il peso di una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici. Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente. Ha detto “ama il prossimo come te stesso”. Erano parole già scritte nell’Antico Testamento, ma sono divenute il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le guerre. Il contrario degli aerei che gettano le bombe sulla gente indifesa. Il contrario degli stupri e dell’indifferenza che tanto spesso circonda le donne violentate nelle strade. Si parla tanto di pace, ma che cosa dire, a proposito della pace, oltre a queste semplici parole? Sono l’esatto contrario del modo in cui oggi siamo e viviamo. Ci pensiamo sempre, trovando esattamente difficile amare noi stessi e amare il prossimo più difficile ancora, o anzi forse completamente impossibile, e tuttavia sentendo che là è la chiave di tutto. Il crocifisso queste parole non le evoca, perché siamo abituati a veder quel piccolo segno appeso, e tante volte ci sembra non altro che una parte dei muro. Ma se ci viene di pensare che a dirle è stato Cristo, ci dispiace troppo che debba sparire dal muro quel piccolo segno. Cristo ha detto anche: “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati”. Quando e dove saranno saziati? In cielo, dicono i credenti. Gli altri invece non sanno né quando né dove, ma queste parole fanno, chissà perché, sentire la fame e la sete di giustizia più severe, più ardenti e più forti. Cristo ha scacciato i mercanti dal Tempio. Se fosse qui oggi non farebbe che scacciare mercanti. Per i veri cattolici, deve essere arduo e doloroso muoversi nel cattolicesimo quale è oggi, muoversi in questa poltiglia schiumosa che è diventato il cattolicesimo, dove politica e religione sono sinistramente mischiate. Deve essere arduo e doloroso, per loro, districare da questa poltiglia l’integrità e la sincerità della propria fede. lo credo che i laici dovrebbero pensare più spesso ai veri cattolici. Semplicemente per ricordarsi che esistono, e studiarsi di riconoscerli, nella schiumosa poltiglia che è oggi il mondo cattolico e che essi giustamente odiano. Il crocifisso fa parte della storia del mondo. I modi di guardarlo e non guardarlo sono, come abbiamo detto, molti. Oltre ai credenti e non credenti, ai cattolici falsi e veri, esistono anche quelli che credono qualche volta sì e qualche volta no. Essi sanno bene una cosa sola, che il credere, e il non credere vanno e vengono come le onde dei mare. Hanno le idee, in genere, piuttosto confuse e incerte. Soffrono di cose di cui nessuno soffre. Amano magari il crocifisso e non sanno perché. Amano vederlo sulla parete. Certe volte non credono a nulla. È tolleranza consentire a ognuno di costruire intorno a un crocifisso i più incerti e contrastanti pensieri. Natalia Ginzburg

Il professore "no crocifisso" è anche un No Pass. Redazione l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. No crocifisso, ma anche no green pass. Franco Coppoli, il professore che ha scatenato il bailamme sull'opportunità che il crocifisso stia nelle classi scolastiche si oppone anche al passaporto vaccinale. No crocifisso, ma anche no green pass. Franco Coppoli, il professore che ha scatenato il bailamme sull'opportunità che il crocifisso stia nelle classi scolastiche, ha «celebrato» la sentenza della Cassazione sulla sua vicenda nel corso di una riunione sindacale al cui ordine del giorno c'era l'opposizione al passaporto vaccinale. Giovedì, quando la suprema corte si è espressa sul suo caso, era impegnato in una tempestosa assemblea per il no green pass. Malgrado ciò ha trovato il tempo per affidare il suo sentimento all'Uaar, l'unione degli atei e degli agnostici: «Una sentenza importante che finalmente annulla la sanzione disciplinare e definisce illegittimi l'ordine di servizio e la circolare del dirigente scolastico che imponevano il crocifisso in classe». Diciamo che il professor Coppoli ha interpretato il giudizio della Cassazione in modo a dir poco soggettivo. Guardando il bicchiere mezzo pieno, quando a essere obiettivi per lui era per tre quarti vuoto. La Suprema Corte giovedì infatti ha stabilito con la sentenza numero 24414, che il crocifisso a scuola non è un atto di discriminazione se questo viene affisso sul muro della classe durante le lezioni di un docente che non lo vuole, ma ha invitato le scuole a trovare una soluzione condivisa che rispetti anche il punto di vista dell'«obiettore». E infatti la Cassazione, pur se ha annullato la sanzione disciplinare a carico del professore, non gli ha riconosciuto il risarcimento da lui richiesto. La crociata di Coppoli contro il crocifisso in classe parte nel 2009, quando il professore ogni volta che entrava in classe per la lezione, smontava il crocifisso dal muro per poi rimetterlo a suo posto durante le sue lezioni e rimettendolo al suo posto quando aveva finito. Un comportamento che gli era costato una sospensione di trenta giorni senza stipendio, una denuncia alla Procura della Repubblica e un deferimento davanti all'organo di disciplina del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, con il rischio del licenziamento. Poi, nel 2015, aveva preso a coprire il crocifisso con la Costituzione: altri 30 giorni di stop.

Orlando Sacchelli per ilgiornale.it il 9 settembre 2021. Il crocifisso, simbolo della cristianità e, nel corso della storia, vittima di oppressioni e violenze, non discrimina nessuno. Lo ha stabilito la Cassazione in una sentenza in cui afferma che ad esso "si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo", ribadendo che "non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione”. La sentenza delle sezioni unite civili della Suprema Corte, depositata oggi, riguardava un ricorso contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Il simbolo religioso non discrimina, dicono i giudici, che invitano tuttavia la comunità scolastica a cercare una soluzione condivisa. Non viene esclusa la presenza di altri simboli religiosi. L’aula "può accogliere" la presenza del crocifisso, si legge nella sentemza, quando la comunità scolastica interessata "valuti e decida in autonomia di esporlo" (deve essere, quindi, una scelta autonoma, non imposta), eventualmente "accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe" e in ogni caso ricercando un "ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi". 

Il caso in una scuola di Terni. La questione esaminata dai giudici riguardava l’ordine di esporre il crocifisso - impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale di Terni, tenendo conto di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti - e la libertà di coscienza di un docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete. Secondo la Corte il regolamento che disciplina la materia, risalente agli anni venti del Novecento, è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione. L’aula può decidere sulla presenza o meno del crocifisso mentre il docente non ha un potere di veto o di interdizione. La scuola deve comunque cercare di trovare una soluzione che tenga conto anche del punto di vista del docente e che rispetti la sua "libertà negativa di religione”. Per questo, la circolare del dirigente scolastico, che si limitava a ordinare l'affissione, è stata ritenuta dalla Corte "non conforme al modello e al metodo di una comunità scolastica dialogante che ricerca una soluzione condivisa nel rispetto delle diverse sensibilità" e per questo è stata annullata la sanzione disciplinare (sospensione per 30 giorni) che era stata inflitta al professore.

L'obbligo di esporlo è incostituzionale. Benedetto Croce, filosofo liberale, in un breve saggio spiegò perché "non possiamo non dirci cristiani". Per lui, profondamente laico, la storia dimostrava cioè che era stato il successo storico del Cristianesimo più che il suo messaggio religioso a imporsi nelle coscienze. Ma se non possiamo non dirci cristiani, culturalmente parlando, in base alla Costituzione italiana l'affissione obbligatoria del simbolo religioso non è consentita. "L’articolo 118 del regio decreto 965 del 1924 - si legge nella sentenza - che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, deve essere interpretato in conformità alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento ed attuazione, nel senso che la comunità scolastica può decidere se esporre il crocifisso in aula con valutazione del fatto che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”. Ai ragazzi e ai loro insegnanti il compito di trovare un accordo, che non preveda imposizioni ma neanche - ci permettiamo di ricordare - nessuna rinuncia all'insegna del "volemose bene" e cancelliamo la nostra storia, tradizione e cultura. Quest'ultimo, forse, sarebbe il male maggiore. 

Sdegno Santanchè, la sentenza Ue vieta crocifisso e velo islamico in azienda: come se fossero la stessa cosa. Bianca Conte martedì 20 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Daniela Santanchè è fuori di sé. La sentenza Ue vieta crocifisso e velo islamico in azienda: «Come se fossero la stessa cosa». E in tweet esprime tutta la sua indignazione. «L’Unione europea ha deciso di vietare il velo islamico in azienda, simbolo di sottomissione e portato come vessillo dagli Stati che non firmano la convenzione sui diritti umani. Come contraltare però cosa ha deciso l’Ue? Di vietare anche il crocifisso al collo, come se fosse la stessa cosa. Sono matti!». Eloquente il tweet della senatrice di Fratelli d’Italia, Daniela Santanchè che riassume (ed al tempo stesso commenta) quanto decretato dalla Corte di giustizia dell’Ue con una sentenza finita nella bufera. Con le associazioni in difesa delle donne musulmane, in testa a tutti, sul piede di guerra. Non ci stanno: «Decisione islamofoba». E noi cristiani? La prima a farsi sentire e irrompere nel dibattito è appunto Daniela Santanchè, una donna e una esponente politica da sempre particolarmente sensibile sull’argomento. La prima, a sottolineare la non congruità di equiparare crocifisso e velo islamico «come se fossero la stessa cosa». E a scagliarsi contro un erroneo principio di omogeneizzazione che la sentenza legittimerebbe motivando con la sentenza l’esigenza di «presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali». Già, perché i giudici di Lussemburgo non ne fanno una questione particolare: al contrario, mescolano in un unico calderone giuridico. Sociale. Culturale e religioso, per stabilire il principio generale che mira a riconoscere la liceità del divieto di indossare in ufficio «qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose». Dunque, stando al verdetto Ue: che si tratti di velo islamico, crocifisso, simbolo del partito per cui si vota, è sempre la stessa cosa. E, messi sullo stesso piano, c’è la possibilità che il datore di lavoro possa impedire di indossare il velo. Portare al collo una collanina col crocifisso. Una spilla con il logo di un partito. E via discorrendo…Un provvedimento che applica improvvidamente il principio del «o tutti, o nessuno» che strizza all’occhio a una politica di neutralità declinata all’impresa – oltre che di  omogeneizzazione dei costumi sociali e religiosi – che nel cercare di salvare il dogma del politicamente corretto e far sì che non creino, in sostanza, discriminazioni di sorta, in realtà discrimina proprio mettendo sullo stesso piano il velo islamico e il crocifisso. E stabilendo che lo stop «deve limitarsi allo stretto necessario», ma deve scattare per tutti i “simboli” altrimenti si creerebbe una discriminazione di fatto.

Un verdetto che omogeneizza in un solo calderone simboli e indicatori sociali, sacro e profano. E così, nella loro decisione, i giudici hanno stabilito che, stando ai precedenti, «non costituisce una discriminazione diretta» il divieto di simboli ove questo «riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni» religiose o filosofiche. E laddove «tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa. Imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni». Una soluzione che, nell’ecumenismo che prova a perseguire, omologa e ferisce sensibilità diverse messe sullo stesso piano. Come in un unico minestrone finiscono velo islamico e crocifisso. Simboli e indicatori sociali. Sacro e profano...

Vogliono toglierci pure il crocifisso dalle scuole. Francesco Boezi il 29 Giugno 2021 su Il Giornale. La Cassazione chiamata a pronunciarsi sul ricorso di un insegnante contrario al crocifisso nelle aule. I cattolici temono l'effetto domino. É un singolo episodio concreto, ma per qualcuno il vero rischio è l'effetto domino. Quello che può succedere dal giorno dopo. La presenza del crocifisso nelle aule scolastiche italiane è stato spesso al centro di discussioni politico-culturali.

Certa sinistra ha sempre riproposto la questione, specie quando altri cavalli di battaglia perdono in significato. A fasi alterne, insomma, ma con continuità. Si tratta di una polemica sempre verde. Le Sezioni unite della Corte di cassazione dovrebbero riunirsi nella prima metà di luglio per decidere sul ricorso di un docente che è incaricato in Umbria. Non è un periodo semplice per le identità in generale, figurarsi per quelle religiose. Lo sappiamo. Forse è anche per questo che il Centro Studi Rosario Livatino ha iniziato a puntare i riflettori sulla vicenda. Succede, secondo quanto raccontato a IlGiornale.it dal professor Filippo Vari, vice presidente del Livatino e professore ordinario di Diritto costituzionale presso l'Università Europea di Roma, che "un professore, vicino alla Unione Atei Agnostici Razionalisti" inizia a rimuovere durante le prime fasi delle sue lezioni "il crocifisso dal muro, contro la volontà espressa dagli studenti e contro un provvedimento del dirigente scolastico che chiedeva di rispettare tale volontà". A questo punto, sempre stando al racconto del costituzionalista, la "mancata osservanza del provvedimento" comporta la sospensione di trenta giorni delle funzioni e dello stipendio del docente. La faccenda però non passa in sordina, e il professore, dopo aver perso in primo grado ed in Appello, presenta ricorso in Cassazione. Arriviamo così ai giorni nostri, ossia in prossimità di una decisione che può fare notizia. Sono tempi, questi, in cui si fa un gran parlare della libertà d'espressione e, più in generale, del concetto stesso di libertà. Da un punto di vista culturale, attorno al crocifisso le posizioni sono cristalizzate da decenni: c'è chi lo percepisce proprio come un simbolo di libertà e che invece interpreta la presenza del Cristo sui muri delle aule scolastiche come una intollerabile imposizione nel contesto di uno Stato, che è laico. Gli anni trascorrono, ma i fronti restano in campo e più o meno ripetono sempre le consuete motivazioni. Anche per questo c'è curiosità per la pronuncia della Corte di cassazione. Un mesetto fa è intervenuto pure padre Federico Lombardi, che ha detto la sua su La Civiltà Cattolica. Ecclesiastici ed ambienti cattolici non possono che sperare che l'orientamento sia quello favorevole alla persistenza del crocifisso. Padre Lombardi ha parlato di "simbolo di prezioso contributo alla costruzione di una società fraterna". La Chiesa non può che fare la Chiesa. Un po', con le dovute proporzioni, come nel caso dei dubbi posti sul Ddl Zan. Il professor Vari dice che, con una sentenza favorevole alle istanze del professore, la Cassazione "finirebbe per affermare che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche dia vita a una discriminazione nel mondo del lavoro a carico dei non credenti, vietata dalla normativa antidiscriminatoria in vigore". L'effetto domino, appunto. "Facile immaginare - aggiunge il costituzionalista - che di fronte a una decisione delle Sezioni Unite della Cassazione si aprirebbe un dibattito pubblico sulle ragioni o sulla opportunità della esposizione dei simboli religiosi nelle scuole, nei tribunali, nei locali pubblici. Non è pensabile che su questi temi la parola definitiva sia ancora una volta quella del giudice, per quanto autorevolissimo". Il sottotesto è che la palla dovrebbe essere tra i piedi della politica. Che il legislatore dovrebbe farsi carico, forse una volta per tutte, di una preminenza in materia d'identità. Poi ci vengono esposti una serie di precedenti che potrebbero essere tenuti in considerazione dalle Sezioni unite: la compatibilità dell'esposizione del crocifisso con la CEDU dichiarata dalla Corte d'Europea - sottolinea sempre il professor Vari - e le pronunce in merito del Tar e del Consiglio di Stato. La giurisprudenza, ci pare di capire, non è contraria al crocifisso sui muri delle scuole italiane, tutt'altro. Qualche giorno ancora e sapremo. L'udienza dovrebbe essere fissata per il prossimo sei luglio. Poi sapremo se sarà polemica. 

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta".

Dagotraduzione dal Daily Best il 4 maggio 2021. Nel Medioevo ogni cristiano non poteva entrare in chiesa senza ascoltare la storia delle reliquie che vi erano custodite. Tutti amavano le reliquie e c'era una feroce competizione per il possesso delle spoglie di coloro che erano più vicini a Gesù. Dato che Cristo era asceso al cielo, i più vicini dovevano essere o suoi parenti o suoi seguaci, giusto? Non esattamente. C'era un pezzetto piuttosto importante del corpo di Gesù che alcuni credevano fosse rimasto sulla Terra: il suo prepuzio. Gesù era ebreo. Predicò nelle sinagoghe, fu chiamato rabbino e, come altri uomini ebrei, fu circonciso otto giorni dopo la sua nascita (Luca 2:21). Niente di strano, lo impone la legge tramandata da Dio ad Abramo nella Genesi 17. Tuttavia, l'apostolo Paolo non chiese ai suoi seguaci di circoncidersi per unirsi al cristianesimo, al contrario. Fu così che a un certo punto «i cristiani si trovarono a dover capire come e perché (e anche se) il loro salvatore aveva questo marchio ebraico sul suo corpo», racconta Andrew Jacobs del Center for the Study of World Religions presso la Harvard Divinity School e autore di «Christ Circumcised: A Study in Early Christian History and Difference». Le difficoltà sono aumentate quando i teologi cristiani hanno iniziato a sottolineare che «anche da bambino Cristo dovesse essere consapevole e avere il controllo di ciò che accadeva al suo corpo». Ma allora perché il bambino Gesù si è lasciato circoncidere? Nel Medioevo i cristiani avevano elaborato argomenti sofisticati per spiegare perché la circoncisione di Gesù non riguardava la sua ebraicità. Dissero che era stato circonciso per dimostrare che era effettivamente un essere umano; per porre fine alla legge adempiendola una volta per tutte (un'idea simile sul sacrificio si trova nell'Epistola agli Ebrei); o anche perché la sua circoncisione confermava la sua mascolinità. Il bestseller medievale «The Golden Legend» ha anche sostenuto l'idea che il giorno della circoncisione ha una funzione salvifica poiché è il giorno in cui Gesù inizia a versare sangue per l'umanità. È, dice Jacobs, «tutt'altro che una concessione alla legge ebraica!». Questa manovra teologica ha permesso ai cristiani di reclamare il prepuzio di Gesù come sacra reliquia. Ma c'era ancora un problema da superare: dov'era? La Bibbia non ce lo dice, ma per i cristiani medievali che erano affascinati dal potere e dall'intimità delle reliquie, l'idea che un pezzo del corpo di Gesù fosse ancora sulla Terra era piena di potenziale. Racconta una storia apocrifa del secondo secolo conosciuta come il «Vangelo dell'infanzia di Tommaso», che il prepuzio (e il cordone ombelicale) fu portato via da una «vecchia ebrea» e conservato in una scatola di olio di alabastro. Secondo la tradizione è poi finito in qualche modo nella bottiglia di profumo che la donna peccatrice usava per ungere il corpo di Gesù prima della sua morte (Marco 14). Come per tutte le reliquie, il santo prepuzio iniziò a moltiplicarsi. Il primo esempio si presentò all'inizio del IX secolo quando Carlo Magno, l'imperatore del Sacro Romano Impero, ne presentò uno a papa Leone III. Secondo santa Brigida, la Vergine Maria conservò il prepuzio di Gesù in una borsa di cuoio per poi lasciarlo in eredità all'apostolo Giovanni. Languì per 700 anni prima di finire nelle mani di Carlo Magno. Nel XIII secolo era in mostra in Vaticano. La reliquia di Carlo Magno non era l'unica; durante il Medioevo se ne potevano trovare, nelle chiese europee, almeno 12. Un famoso esempio include un santo prepuzio francese che fu posto nel letto matrimoniale di Enrico V d'Inghilterra e Caterina di Valois durante la loro prima notte di nozze come incantesimo di fertilità. Nel corso dei secoli, tuttavia, molti dei sacri prepuzi sono scomparsi o sono stati rubati. L'ultimo esempio noto è stato rubato da una chiesa a Calcata, in Italia, nel 1983. È interessante notare che il vescovo locale non ha tentato di recuperarlo e ha lasciato che l'intera faccenda scivolasse via. Alcuni hanno ipotizzato che lo stesso Vaticano avesse rubato la reliquia per impedire alla gente di parlare del pene di Gesù. In quanto reliquia, il santo prepuzio era oggetto di venerazione religiosa. La suora svedese Santa Brigida registrò una visione in cui mangiava il santo prepuzio allora millenario. Il capitolo 37 delle sue «Revelationes» descrive l'esperienza: «Ora sento sulla sua lingua una piccola membrana, come la membrana di un uovo, piena di una dolcezza sovrabbondante, e l'ho inghiottita… E ho fatto lo stesso forse centinaia di volte. Quando l'ho toccata con il dito, la membrana è andata giù per la gola». Anche se questo potrebbe sembrare un po' estremo, l'accademico di Harvard Marc Shell scrive che assaggiare il prepuzio di Gesù era uno dei pochi modi per testare l'autenticità di un santo prepuzio. Mentre noi possiamo eseguire test di datazione al carbonio, i medici antichi assaggiavano la «pelle raggrinzita per determinare se fosse interamente o parzialmente pelle umana». Shell osserva che il prepuzio era solo uno dei tanti scarti di Gesù. Fecero la loro apparizione infatti il sudore del Giardino di Getsemani, i denti da latte persi, il latte materno della Vergine Maria e persino l'urina. Il monaco cistercense del XII secolo San Bernardo era famoso per aver bevuto il latte materno della Vergine. Molti cristiani, tuttavia, erano scettici riguardo alle affermazioni sul prepuzio di Gesù. Nel sesto secolo, Severo di Antiochia fu il primo, dice Jacobs, a sostenere quella che in seguito sarebbe diventata la visione standard: che il prepuzio è salito con Gesù alla risurrezione e ora è in cielo. Questo punto di vista non riguarda solo la protezione dell'integrità della risurrezione di Gesù, ma anche la risurrezione di tutti gli altri. I primi cristiani si preoccupavano degli effetti estetici delle persone che lasciavano pezzi di sé stessi dopo il Giorno del Giudizio. Volevano assicurarsi che arti amputati, capelli persi a causa della calvizie maschile e così via si dirigessero verso il paradiso. Lasciare pezzi di te dietro presenta un problema filosofico: «tu» sei davvero risorto se il tuo corpo - nella sua interezza - non è risorto? Anche seguendo questa versione, il santo prepuzio ha suscitato più di una giusta dose di umorismo e critica. Una teoria piuttosto comica è quella del teologo Leone Allazio, secondo cui il prepuzio di Gesù lasciò la Terra per espandersi e formare una delle bande di Saturno. Nel corso del tempo, quindi, la chiesa cattolica romana si è preoccupata. Nel 1900 il Vaticano ha emesso una sentenza secondo cui chiunque si riferisse alla «vera carne sacra» poteva essere soggetto a scomunica. Durante i i 2.000 anni della sua storia, il prepuzio di Gesù è stato un detrito biologico, poi un controverso indicatore di identità, una reliquia e, infine, un sacro tabù. Il viaggio culturale di questo piccolo pezzo di pelle segna il passaggio del cristianesimo da setta ebraica a potenza socioeconomica medievale fino alla religione moderna.

DAGONEWS DA dailystar.co.uk il 6 aprile 2021. La scorsa settimana il gruppo Regavim, dedicato alla protezione delle risorse nazionale d’Israele, ha lanciato una petizione per spingere la città di Gerusalemme a chiudere i tunnel sotto la basilica della Dormizione di Maria, sul monte Sion. Il collettivo sostiene che ci sia una serie di passaggi segreti lunga 600 metri e larga 1,5 metri. Il gruppo Regavim sostiene che circa 12 anni fa le autorità cristiane abbiano completato i lavori per la costruzione del tunnel che parte dall’abbazia e arriva ai dormitori del clero nel quartiere di Beit Moshav. Inoltre, il gruppo afferma che il passaggio segreto sia stato costruito senza permessi e potrebbe aver danneggiato numerosi artefatti archeologici durante gli scavi non autorizzati. Il Rabbino Daniel Asor dell’Istituto Yanar, uno dei leader spirituali del gruppo Regavim, è convinto che il motivo degli scavi del tunnel sia ancora più sinistro di quanto si pensi: lui crede che il tunnel sia stato costruito per permettere ai membri della chiesa della Dormizione di riesumare i resti del Davide, il re di’Israele noto per aver ucciso il gigante Golia, seppelliti sul monte Sion. Sempre secondo Asor, la chiesa sta agendo per volere del Vaticano, il quale vorrebbe ottenere del DNA dai resti per clonare un essere umano e tentare di illudere i credenti del ritorno del Messia. Infatti, una delle differenze chiave tra il Cristianesimo e il Giudaismo è la fede nel ritorno del Messia. Mentre i cristiani sostengono che Gesù Cristo sia stato il Messia nonché figlio di Dio, venuto in terra per salvare il mondo dai peccati, secondo la fede ebraica Gesù non era il figlio di Dio e sono ancora in attesa dell’arrivo del Messia. La Israel Antiquities Authority ha negato l’esistenza del tunnel sotto alla chiesa, ma il comune di Gerusalemme ha ammesso di recente la presenza di un “vecchio tunnel” sotterraneo. La documentazione ufficiale rivela che il tunnel lungo 150 metri racchiuda numerose stanze sotterranee contenenti artefatti antichi. Nonostante questi ritrovamenti, il municipio non ha ancora esortato la chiesa a pagare le ammende per gli scavi illegali.

Domenica delle Palme 2021, la storia e perché si celebra. Il Corriere della Sera il 28/3/2021. Il 28 marzo 2021 si celebra la Domenica delle Palme, la ricorrenza che ricorda l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, in sella a un’asina, e viene accolto e acclamato come Messia. La data di questa festività — che precede la Pasqua — cambia di anno in anno: si tratta del giorno che dà inizio alla Settimana Santa, quella che conduce alla più importante festività del calendario cristiano: la celebrazione della Passione, morte e Resurrezione di Cristo. La Domenica delle Palme è celebrata da cattolici, ortodossi e in alcune chiese protestanti.

Rami, palme e mantelli. Nella tradizione cattolica, la Domenica delle Palme deve il suo nome al racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme, presente in tutti e quattro i Vangeli, anche se in modi differenti. Mentre in Matteo e Marco si narra che la gente sventolò rami di alberi, o fronde prese dai campi, Luca non accenna all’episodio, mentre solo Giovanni parla di palme. In particolare, nel Vangelo di Matteo si legge: «I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava: Osanna al figlio di Davide!» (21,1-11). In Marco, si legge: «E molti stendevano i propri mantelli sulla strada e altri delle fronde, che avevano tagliate dai campi...» (11, 1-11). In Luca, si legge: «Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada...» (19,28-44). In Giovanni, si legge: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna!..» (12,12-19).

La festa ebraica di Sukkot. L’episodio rimanda — poi — alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la cosiddetta «festa delle Capanne», in occasione della quale i fedeli si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. La tradizione vuole che ogni fedele sventolasse il Lulav, un piccolo mazzo composto dai rami di alcune piante: palma, mirto, cedro e salice.

Le indicazioni della Cei in tempo di pandemia. Come già avvenuto nel 2020, anche quest’anno la Domenica delle Palme e la Settimana Santa cadono durante la pandemia e con molte regioni in zona rossa. Per questa ragione la Conferenza Episcopale Italiana (Cei) ha comunicato una serie di indicazioni sui comportamenti da adottare. A differenza dello scorso anno, i riti potranno avvenire in presenza dei fedeli, ma «nel rispetto dei decreti governativi riguardanti gli spostamenti sul territorio e delle misure precauzionali» (distanziamento, mascherine, divieto di processioni, ...).

La paternità di Giuseppe. Non ci sono padri naturali e padri adottivi. Per la Chiesa cattolica il 2021 è l'anno "giuseppino". Se è riuscito lui ad amare nella carne corrotta dal peccato originale, al pari delle nostre stesse carni, perché non lo possiamo fare anche noi? Luigi Mariano Guzzo su Il Quotidiano del Sud il 14 marzo 2021. Quella di Maria è una maternità divina. Theotòkos, in greco, significa Madre di Dio. Un titolo la cui verità teologica è stabilita dal Concilio di Efeso, nel 431. E che generazioni e generazioni di cristiani, a diverse latitudini, nei secoli, sin dalla più tenera età, hanno ribadito e continuano a ribadire in una delle più conosciute preghiere: l’Ave Maria (ricordate: “…Santa Maria, Madre di Dio…”?). È Madre di Dio perché ne ha generato il Figlio, Gesù, vero uomo e vero Dio. Quella di Giuseppe è, invece, una paternità pienamente umana. Giuseppe è il padre di Gesù, nell’umanità della carne. Per la fede non è il padre biologico: com’è noto, Colei che è stata concepita senza peccato originale, Maria, ha concepito verginalmente il figlio Gesù (il dogma dell’immacolato concepimento di Maria deve essere tenuto distinto dal dogma del concepimento verginale di Gesù). Eppure, Giuseppe, è padre nel senso più profondo del termine. Lo è umanamente parlando. E tutto ciò rende la sua testimonianza ancora più sfidante. Ci toglie ogni alibi: se è riuscito lui, Giuseppe, ad amare nella carne corrotta dal peccato originale, al pari delle nostre stesse carni, perché non lo possiamo fare anche noi? Perché non possiamo anche noi essere padri alla maniera di Giuseppe, con una donazione completa, aperta, libera? Sia chiaro: non è una paternità superflua quella di Giuseppe. È vero: Maria per diventare la Madre di Dio non ha avuto necessità di un uomo; o meglio, di “conoscere uomo” come dicono le Scritture. Ma, per essere madre di uomo, per fare la madre nella vita di tutti i giorni, Maria trova nel marito Giuseppe sostegno e supporto. Una paternità può esserci come, per diversi motivi, non esserci, lo sappiamo bene. Molte donne lo sanno ancora meglio. E, anzi, in una paternità rinnegata, drammaticamente rinnegata, si celano spesso forme di sopraffazione e di violenza di genere. Tanto che quando Olympe de Gouges nel 1791 scrive la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” interpreta la libertà di opinione alla luce di una specifica esigenza femminile: che le donne non abbiano di che vergognarsi nel rivendicare il diritto di vedere attribuita la paternità a figli nati fuori dal matrimonio (ahinoi, due anni dopo Olympe finirà ghigliottinata, nel bel mezzo della Rivoluzione francese che mette al centro l’uomo, meglio se maschio, borghese, bianco). Ma quando la paternità c’è, quando la paternità è vissuta, sperimentata, consumata nell’amore, questa non è, e non può mai essere, un di più. Non è insomma una paternità accessoria, quella di Giuseppe. Essa assume un ruolo centrale nella storia della salvezza, al punto da esaltare la dimensione umana di Gesù, anche nel rapporto con Maria. Giuseppe è un uomo che rispetta la donna, le donne. Quando viene a conoscenza della gravidanza di Maria si preoccupa, in un primo tempo, di cosa comporterebbe un ripudio pubblico per la sua promessa sposa. Anche nel momento in cui potrebbe lasciare Maria in balìa del suo destino, ha cura di lei. E alla fine, comunque, ha fiducia nelle emozioni che avverte, nei sentimenti che prova, nella voce del cuore (in quella dell’angelo, leggiamo nelle Scritture). Si affida all’amore. Accetta di essere padre. La paternità di Giuseppe permette di liberarci da stereotipi, equivoci e preconcetti che destrutturano il ruolo del padre per presentarlo quale paradigma di modelli sociali deformati e deformanti, non a caso definiti “patriarcali”. In tali concezioni il padre è pater familias, cioè padrone, al quale devono essere sottomessi la moglie, i figli, gli schiavi e (eventualmente) le nuore. La paternità coincide con la capacità generativa, secondo l’assioma che riduce la mascolinità a virilità, biologicamente intesa. Mentre nella paternità di Giuseppe non vi è nulla di tutto ciò. Egli non si sente padrone della famiglia. È consapevole che quando il figlio Gesù, adolescente, gli dice di doversi occupare delle “cose del Padre mio”, quel “Padre” non è lui. Persino in quell’occasione, Giuseppe rimane pienamente padre. Cade l’ultimo tabù, probabilmente il più granitico, sulla paternità: essa non è questione di generatività o di biologia. È semplicemente questione di amore. Non ci sono padri naturali e padri adottivi. Ci sono padri e basta, senza aggettivi. Per la Chiesa cattolica il 2021 è l’anno “giuseppino”, secondo quanto deciso da Papa Francesco. Chissà che non sia l’occasione per purificare la mascolinità e la paternità dai numerosi residui “patriarcali” che le contamino. Alla scuola di Giuseppe, padre per eccellenza, impariamo che si è maschi e padri, in senso proprio, soltanto nella verità di relazioni vissute con amore e rispetto. E così in questo 19 marzo, nella festa di San Giuseppe, l’augurio è che i padri, tutti i padri, acquisiscano finalmente consapevolezza di ciò. Solo così sarà una buona festa dei papà, per davvero.

Da huffingtonpost.it il 3 marzo 2021. “Era un po’ tutto concordato. Amadeus, che è un professionista, non il primo che capita, e la regia del Festival di Sanremo, hanno voluto inserire quel gesto, e in questo senso a me sembra davvero poco opportuno. Mi chiedo: come sarebbe stata presentata la stessa situazione se anziché fare il segno della croce, Amadeus avesse esposto la nostra tessera in mondovisione? Probabilmente ci sarebbero state delle proteste, dicendo che Amadeus aveva occupato lo spazio pubblico promuovendo la sua concezione del mondo. E questo è ciò è successo”. A dirlo all’AdnKronos è il segretario nazionale dell’Uaar, l’Unione atei agnostici razionalisti, Roberto Grendene, commentando il segno della croce che ieri Amadeus si è fatto all’inizio della prima puntata del Festival di Sanremo, un attimo prima di scendere le scale del Teatro Ariston. Non è dello stesso parere l’Imam di Catania Abdelhafid Kheit, che parla sempre all’AdnKronos: “Come uomo di Dio e di religione, affidando tutto al nostro creatore, è sempre un gesto gradevole e bello. Esprime la propria fede in un momento di difficoltà dove la pandemia che oltre a creare vittime e problemi in tutto il pianeta, sta pure cambiando tante abitudini, come in questo caso, il festival di Sanremo, che per l’Italia rappresenta un momento importante per il mondo dello spettacolo e della musica”. “Io non giudico le intenzioni delle persone - conclude l’Imam di Catania- ma ribadisco come quello del conduttore, sia stato un bel gesto perché, oggi più che mai, abbiamo bisogno della preghiera e della spiritualità, in privato e in pubblico, per accompagnare e supportare ogni gesto quotidiano in un periodo di grande difficoltà come quello che investe il mondo”. “Credo che vadano rispettate le sensibilità religiose dei singoli e dei cittadini italiani” dice invece Yahya Pallavicini, presidente della Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana), “A mio avviso non bisogna avere un atteggiamento puritano nei confronti di un istinto di sensibilità religiosa. Inviterei, dunque, a moderare i termini e a rispettare le sensibilità religiose spontanee, perché fanno parte della natura dell’uomo che crede. Perciò, rispetto per il gesto di Amadeus. Stiamo attenti, però, a non esasperare neanche le ostentazioni identitarie. In altre parole, occorre trovare con intelligenza e sensibilità la misura giusta fra libertà e dignità di culto e il voler fare dell’ostentazione, dello spettacolo religioso o del formalismo bigotto, e penso al Rosario dell’ex ministro dell’Interno”.

Vilipendio alla statua di Cristo Salvini: "Insulto a nostra storia". La statua del Cristo Ligneo di Cosseria vandalizzata da ignoti. Immediata la reazione di Matteo Salvini: "Un attacco alla nostra storia". Rosa Scognamiglio - Dom, 21/03/2021 - su Il Giornale. Orrore. Non c'è altra parola per definire lo scempio avvenuto la scorsa notte a Cosseria, località in provincia di Savona, dove la statua del Cristo Ligneo è stata barbaramente oltraggiata da ignoti. Un atto inglorioso, e a dir poco spregievole, che ha profondamente indignato i Cosseriesi e tutta la comunità religiosa locale. A raccontare l'accaduto su Facebook è stato il leader della Lega Matteo Salvini rassicurando, nel tardo pomeriggio di oggi, che l'opera sarà risanata da un artigiano locale. "I parlamentari della Lega, Sara Foscolo e Paolo Ripamonti sono andati subito oggi a Cosseria (Savona) a portare solidarietà al sindaco Roberto Molinaro, alla sua comunità e a tutta la Valbormida, profondamente turbata per l’orribile sfregio del Cristo ligneo - scrive il leader del Carroccio -È già partita una colletta spontanea anche nei comuni vicini per il restauro e per fare un’opera ancora più bella, rappresentativa di un patrimonio di storia, cultura, identità e simboli che unisce tutti, credenti e non credenti. È bello e commovente vedere che a questo atto ignobile (di qualcuno che speriamo venga individuato) sia nato in risposta un grande moto di sdegno e concreta vicinanza, ci sono valori che ancora muovono le coscienze, appassionano e uniscono".

La statua oltraggiata. "Amputato e impalato". È così che, stando a quanto riferisce la testata online IVG.it, gli abitanti di Cosseria avrebbero ritrovato la statua del Cristo Ligneo, opera d'arte esposta tra i boschi della Valbormida, nel Savonese. A dare l'allarme della vandalizzazione, nel primo pomeriggio di sabato, sono stati alcuni bikers che transitavano in zona. Il gruppo di ciclisti ha immortalato lo scempio con lo smartphone provvedendo ad allertare immediatamente il sindaco della piccola cittadina. "Un gesto orribile, ingiustificabile e assurdo - ha commentato il primo cittadino di Cosseria Roberto Molinaro - Non ha spiegazioni qui a Cosseria, non mi viene in mente nessuno che possa anche solo immaginare un gesto del genere. Non è sicuramente qualcosa che riguarda la fede, dato che tra le comunità delle varie religioni qui i rapporti sono ottimi. E' un gesto inquietante, che non ha spiegazioni. Non mi darò pace finché non avremo trovato il responsabile: credo che abbia bisogno di cure, oltre che di una pena severa".

Le indagini. Il sospetto degli inquirenti è che la profanazione sia ben altro da una disdicevole bravata. Secondo quanto si apprende, infatti, ulteriori atti vandalici sarebbero stati commessi anche nell'area del castello, dove alcune lapidi in memoria dei caduti della Seconda Guerra Mondiale e della battaglia napoleonica sono state divelte. Ad ogni modo, il Cristo è stato rimosso ed è a disposizione della magistratura che ha incaricato i carabinieri delle indagini.

Salvini: "Atto ignobile, attacco alla nostra cultura". Sulla vicenda si espresso il leader della Lega Matteo Salvini che non ha mancato di esprimere profonda vicinanza ai Cosseresi per l'oltraggio subito. "Un atto vergognoso, orribile, avvenuto a Cosseria (Savona). - ha scritto su Facebook ieri - Come si può arrivare a questo? Un insulto alla nostra storia, alla nostra cultura, alla Fede di tante persone passate di lì a recitare una preghiera o a inviare un pensiero a una persona cara. Spero che i vandali criminali vengano individuati e puniti severamente". Solidarietà anche dalla leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni: "Un altro insensato e vergognoso attacco ai simboli della cristianità. - si legge in un post pubblicato ieri -A Cosseria (Savona) un crocefisso è stato vandalizzato: gli sono state tagliate le gambe e una di queste è stata infilzata nel petto". "Vandalizzare un crocifisso è un gesto ignobile che offende la fede di un'intera comunità. Voglio esprimere la mia solidarietà ai cittadini di Cosseria, provincia di Savona. Mi auguro che i responsabili vengano consegnati alla giustizia e che il Cristo torni presto al suo posto", ha scritto su Facebook il vicepresidente e coordinatore di Forza Italia Antonio Tjani. Tra le altre personalità politiche di spicco che hanno espresso vicinanza agli abitanti di Cosseria anche il governatore della Liguria Giovanni Toti che si è detto "profondamente indignato" per l'accaduto. Non sono mancate nemmeno le offerte di aiuto economico sia per ripristinare la statua, sia per realizzare un altare e ampliare così quello che potrebbe diventare un santuario dedicato alla risurrezione di Cristo.

Vogliono annientare i simboli cristiani, ma la cultura può salvarci. Elisabetta De Luca il 19 Febbraio 2021 su culturaidentita.it. Che l’ondata di becera globalizzazione modernista stia ormai attanagliando il mondo fino a stritolarlo, corrodendo ogni aspetto delle esistenze individuali è un innegabile dato di fatto: chi non lo accetta è omertoso complice della distruzione in corso. Bersaglio preferito delle vessazioni incessanti del web e della stessa società sembrano essere divenuti i Cristiani, verso cui vilipendi e ingiurie sono all’ordine del giorno. Basta una sola occhiata ai social per rimanere esterrefatti: esprimere liberamente la propria appartenenza alla religione cattolica procura ormai automaticamente accuse di idolatria, di promozione di odio e discriminazione sociale. Più si manifesta la propria fede, più piovono abominevoli blasfemie, da parte di utenti inferociti e logorati dall’odio: sembra non essere più rimasto un solo post in rete che non rechi una forma di bestemmia nei commenti sottostanti o che non contenga un riferimento offensivo al sempre più debole e vessato popolo cristiano. Sembra che il rispetto e il buoncostume siano più che decaduti, nell’apparente trionfo di ingiurie diventate ormai inestirpabili e ossessivi intercalari, giustificate freddamente e spaventosamente dietro la schiavitù dell’abitudine: la bestemmia è quasi una forma di saluto, di cui soprattutto i giovani, anche spesso involontariamente, non riescono più a fare a meno. Complice ne è anche il sistema scolastico: sembra venga ormai quasi insegnato che essere cristiani inibisca la regolare analisi critica di una problematica, finanche l’esercizio di una propria logica di pensiero. Chi crede è automaticamente quasi emarginato, definito necessariamente bigotto, additato come retrogrado e incapace di prendere decisioni svincolate dalla fede stessa. In un’epoca che sembra voler spazzare via ogni precetto morale cristiano in nome di una modernista e progressista secolarizzazione, la cultura è l’unica arma che può salvarci. Ci sovvengano dunque le parole dei Santi Agostino, Anselmo, Tommaso (chissà perché, delle volte, scartati dai programmi didattici dei licei per sedicente mancanza di tempo) finanche dello stesso Dante e di qualsiasi altro uomo di vera fede, da Galilei a Pascal, da Plotino a Manzoni, da Seneca a Leibniz, che da sempre hanno innalzato e coniugato la filosofia, l’arte, la scienza, la letteratura, la matematica, con la più preziosa e costante ricerca di Dio, come se Fede e Scienza fossero davvero due ali di uno stesso corpo che vola nella stessa direzione, quella della Verità, vibranti all’unisono, l’una in funzione dell’altra. In tempi così duri, affidare a Dio le proprie angosce e innalzare i vessilliferi segni della propria fede diventa sinonimo di un incendiario amore e si configura come la più tortuosa delle ambagi, la più ardua delle missioni. In un mondo irrimediabilmente svuotato della presenza di Dio, ravvisare la mano della Sua creazione in ogni creatura sembra essere ormai un pensiero ribelle e rivoluzionario. Ci ingabbiano gli intenti di turpe laicizzazione forzata di ogni tradizione e istituzione, fino al materialismo e al meccanicismo più crudi. In un mondo che demonizza chi crede, ritenendo la fede stessa un valore atavico e superato, continuare a professare la propria religione assurge alla più alta forma di libertà raggiungibile in un secolo di oppressione come questo. Fa riflettere e lascia attoniti l’eclatante e terrificante pretesa dell’Università di Torino di nascondere crocifissi, altarini, santini e medagliette durante le sessioni di esami a distanza. Intimerebbero mai a una ragazza islamica di non indossare il suo hijab durante l’esame? O chiederebbero mai a un ragazzo ebraico di non portare il suo copricapo a lezione? E se allora l’annientamento dei simboli cristiani non fosse stato concepito in nome di una millantata e livellante uguaglianza, bensì finalizzato all’esclusiva eradicazione della religione cattolica dal cuore dell’Italia?

Chi erano i Re Magi: la storia di chi ha seguito la stella. La storia dei magi, che la Chiesa cattolica celebra il 6 gennaio, è stata attualizzata dagli ultimi pontefici. Ecco il significato dell'avventura dei tre re. Francesco Boezi, Mercoledì 06/01/2021 su Il Giornale. Disastro significa privo di stelle. I re magi, che le stelle invece le desideravano, ne hanno seguite e studiante tante. Una è davvero singolare: la storia cristiano-cattolica la chiama cometa. Tra fonti approvate dalla Chiesa cattolica e leggende, la storia dei magi si inserisce a pieno titolo nel filone del conflitto tra disastro e desiderio, una dicotomia che accompagna spesso i racconti. Il modo in cui la vicenda dei Magi incarna quella contrapposizione è davvero calzante. Se disastro si riferisce ad una situazione non accompagnata da buoni auspici o legata ad una stella nefasta, dunque non propizia per chi scruta il cielo, desiderio ha un significato simile, ma al contempo opposto: percepire la mancanza di stelle - che è appunto la chiave etimologica di "desiderio" - è la condizione preliminare per muoversi verso astri nascosti. Traslato, si direbbe assecondare una vocazione. In pratica, dare seguito ad una speranza. La letteratura è piena di viaggiatori che fanno rotta da Oriente. Nel caso dei magi, i punti di partenza differiscono ma la meta è la stessa per tutti e tre. La stella di Betlemme, quella che Giotto dipinge nella padovana cappella degli Scrovegni, ha un significato religioso, ma anche esistenziale: è lì a dimostrare la luminosità della perseveranza in una visione. Jorge Mario Bergoglio crea un termine per spiegare la particolare forma di desiderio provata dai tre: "nostalgiosi di Dio". I magi hanno quindi percepito Dio, ma ne provavno nostalgia. Forse perché non l'hanno ancora visto. E per questo s'incamminano: "Raffigurano - ha detto il Papa ormai tre anni fa - il credente 'nostalgioso' che spinto dalla sua fede va in cerca di Dio, come i magi, nei luoghi più reconditi della storia". I sapienti - magi sta per "sapienti" prima ancora che per "re" - non accettano lo status quo del disastro - di un panorama senza cielo stellato - disegnano mappe nuove e partono. Qualche millennio dopo, alcuni astronomi ammettono la contemporaneità di una singolare congiunzione astrale e la nascita di Gesù Cristo. Quello dei magi è un episodio evangelico, ma pure un'avventura che stimola l'immaginario. La loro è una scommessa. Il 7 a.C è forse quello della congiunzione astrale che ha mosso i tre. E i magi scommettono sulla venuta del Messia, tanto da comunicarlo ad Erode, prima tappa del loro arrivo a Betlemme. A raccontarlo è Matteo nel suo Vangelo, al netto delle interpretazioni che seguiranno. All'epoca non c'era evidentemente troppa preoccupazione per il diffondersi dell'esclusive prima del tempo previsto. L'evangelista scrive di magi, senza fornire contezza sulla cifra esatta. Poiché ci troviamo dinanzi ad oro, incenso e mirra in qualità di doni, allora la tradizione decide di schierarne tre. I nomi sono quelli che conosciamo, anche se le fonti in merito possono non essere prese alla lettera. Pure Benedetto XVI, in uno dei discorsi pronunciati alla Gm di Colonia, presenta la sua spiegazione: "Siete giunti - argomenta a braccio il tedesco parlando ai tanti giovani che hanno animato quella edizione - da varie parti della Germania, dell’Europa, del mondo, facendovi pellegrini al seguito dei magi. Seguendo le loro orme voi volete scoprire Gesù. Avete accettato di mettervi in cammino per giungere anche voi a contemplare in modo personale e insieme comunitario, il volto di Dio svelato nel bambino del presepio". Il pontefice tedesco pone poi gli accenti sulle difficoltà superate dai sapienti per arrivare al cospetto di Dio: "Ora che erano vicini alla meta, non avevano da porre altra domanda che questa. Anche noi siamo venuti a Colonia perché sentivamo urgere nel cuore, sebbene in forma diversa, la stessa domanda che spingeva gli uomini dall’Oriente a mettersi in cammino". La domanda cui l'ex Papa si riferisce è ingombrante: "dov'è il re dei giudei che è nato?". Lo stesso quesito accompagna chi si mette in viaggio di questi tempi. Un po' come nel caso di Melchiorre, Gasparre e Baldassarre, domandarsi oggi dove sia il re dei giudei significa per la teologia ratzingeriana evitare il disastro di un'esistenza terrena senza stella. Intraprendere un cammino, anche complesso e denso d'ostacoli, pur di poter rivolgere la domanda che fornisce il tutto al senso.

·        La Mattanza dei Cristiani.

La scomparsa delle croci. I cristiani in Medioriente sono sempre di meno. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 23 Dicembre 2021. Dall’Egitto all’Iraq (tranne ovviamente Israele) sono perseguitati, messi in disparte dalle autorità, presi come bersaglio. Una presenza decimata negli anni e che, in futuro, rischia di essere azzerata. In Iraq erano mezzo milione, adesso – ma le stime sono più complicate – soltanto 15mila. In Siria sono in calo da anni, a causa della guerra e della repressione, mentre in Egitto sono sottoposti a discriminazioni ed esclusioni specifiche. A Gaza, dove un tempo erano totalità, sono soltanto 800. I Cristiani in Medioriente sono sempre di meno. Scompaiono, spiega la scrittrice, giornalista e reporter di guerra Janine Di Giovanni, senior fellow del Jackson Institute for Global Affairs della Yale University e soprattutto autrice di “The Vanishing”, libro che documenta la diminuzione progressiva della presenza cristiana in aree dove sono presenti da duemila anni.

Come spiega al podcast di Haaretz, «È un declino evidente e rapido», che ha potuto riscontrare con i suoi viaggi e la sua frequentazione delle comunità cristiane mediorientali. «In Iraq è difficile avere cifre chiare, a causa dei danni dello Stato Islamico. Ma l’ultimo censimento è stato fatto 30 anni fa». Si tratta di popolazioni che, soprattutto con l’Isis sono state colpite con durezza. Venivano obbligate ad andarsene (ma adesso cercano di riprendersi i villaggi) oppure a convertirsi all’Islam. «Molti hanno scelto di non farlo, anche se l’alternativa era la morte. Per loro la fede è un tratto fondamentale, importantissimo per la loro identità». Anche più della vita stessa. In Siria la popolazione cristiana è quasi dimezzata dall’inizio della guerra. I più colpiti sono stati gli armeni. «Sono stati presi a bersaglio dai raid turchi, che li considerano nemici. Molti di loro sono dovuti scappare, hanno abbandonato Aleppo, la città in cui sono più numerosi, per andare in Armenia. Un Paese in cui, nonostante la tradizione, tanti non sono nemmeno mai stati». In Egitto i copti hanno una lunga storia di persecuzioni e discriminazioni, punteggiati da scontri ed episodi di violenza. Solo nel 2021 un monaco è stato giustiziato senza processo e un copto è stato ucciso da alcuni militanti Isis nel Sinai. Ma anche le autorità non vanno per il sottile, tanto che nel 2018, a causa di un litigio, due copti erano stati uccisi da un poliziotto a guardia di una chiesa. «In generale, ai copti non è permesso ottenere ruoli apicali nel governo né nell’esercito», ricorda. A Gaza, «la situazione è drammatica. I cristiani sono 800, al centro degli attacchi di Hamas (e pensare che una volta erano maggioranza, come dimostrano le chiese e la storia, ricca di santi provenienti da quest’area). La maggior parte sono laureati, professionisti. Dentisti e ingegneri, medici, affossati dalla disoccupazione». Perché, ricorda, lo scontro etnico-geopolitico non è l’unica causa della decimazione della popolazione cristiana in Medioriente. Un’altra è l’economia, che spinge i giovani a spostarsi, soprattutto in Europa o in America, in cerca di prospettive migliori, «soprattutto quelli che hanno una laurea e di conseguenza possibilità migliori». E la terza è il cambiamento climatico, che riduce gli spazi coltivabili. «Anche se queste sono cause più generali», puntualizza. Il trend delineato però è chiaro. Il calo è costante e sembra inarrestabile e le autorità internazionali, a parte report e documentazioni, «fanno poco». Colpisce soprattutto come il tema preoccupi poco «le comunità evangeliche americane, più attente a questioni come eutanasia e aborto che allo stato dei loro fratelli cristiani in Medioriente. Questo argomento è più trattato nei Paesi cattolici». Il viaggio del Papa in Iraq, in questo senso, «è stato un messaggio chiaro: al mondo e alle comunità cristiane dell’area. Sapere che il loro dramma è conosciuto è, per loro, la cosa più importante di tutte». Se non cambia nulla, tra 100 anni i cristiani in Iraq non ci saranno più. Il libro di Di Giovanni, in questo senso, è una sorta di viaggio pre-archeologico, uno studio di popolazioni che presto saranno estinte: insieme a loro scomparirà una tradizione più che millenaria di riti, culti e credenze. Mentre il Medioriente diventerà – ed è una disgrazia – più omogeneo e povero.

India, violenze contro i cristiani: «Noi nel mirino di estremisti e autorità». Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2021. Chiese e congregazioni accusate di fare proselitismo. Bloccati i conti della congregazione fondata da madre Teresa di Calcutta. Tra gli ultimi a finire in manette un prete cattolico e un pastore. La polizia li ha prelevati la sera di Santo Stefano dalla loro casa, in un villaggio del Madhya Pradesh, Stato tra i più arretrati dell’India, dove oltre un abitante su tre vive sotto la soglia di povertà. Padre Jam Singh Dindore e l’evangelico Ansingh Ninama sono stati arrestati con l’accusa di aver attirato nell’orbita del cristianesimo la gente delle aree tribali offrendo istruzione e cure gratuite nelle scuole e negli ospedali gestiti dai missionari. Tempi duri per i cristiani in India. Sotto Natale gruppi di estremisti indù hanno intensificato gli attacchi alle comunità. Irruzioni durante le messe, scuole assaltate, statue distrutte, effigi bruciate, preti aggrediti e vessati. Violenze giustificate come la risposta ai tentativi dei cristiani di usare le festività per costringere gli indù a convertirsi.

Gli autori sono gruppi dell’ultra destra indù che puntano a trasformare l’India da Paese laico multireligioso in nazione indù «ripulita» da cristiani e musulmani. Violenze alimentate dalle leggi anti conversioni già in vigore in sette Stati indiani, che prevedono fino a 10 anni di carcere per chiunque sia giudicato colpevole di convertire qualcun altro «con la forza», con «metodi fraudolenti» o con il matrimonio.

Questo Natale nel mirino sono finite anche le Missionarie della carità di madre Teresa. Il governo indiano guidato dal partito nazionalista indù del premier Narendra Modi ha di fatto bloccato i conti bancari della congregazione: il 25 dicembre non ha approvato il rinnovo della licenza per poter beneficiare dei contributi esteri. «Senza questi fondi il gruppo fondato dal premio Nobel madre Teresa non avrà soldi per funzionare: non sarà in grado di pagare le migliaia di collaboratori che lavorano negli orfanotrofi e nelle case per anziani di tutto il Paese» dice al Corriere da New Delhi John Dayal, già presidente dell’All India Catholic Union, che rappresenta 16 milioni di cristiani del Paese.

Tra le prime reazioni di sdegno quella di Mamata Banerjee, alias Didi, la «grande sorella», come viene chiamata la governatrice del West Bengala, lo stato di Calcutta, dove c’è la sede principale della congregazione. «I loro 22 mila assistiti e collaboratori vengono lasciati senza cibo e medicine» ha twittato ieri la donna che, al terzo mandato, resiste all’ondata «zafferano». «Un crudele dono di Natale ai più poveri tra i poveri» ha tuonato padre Dominic Gomes, dell’arcidiocesi di Calcutta.

Delhi motiva il rifiuto per non meglio precisati «input negativi». La mossa arriva a poche settimane da un altro attacco alle suore di madre Teresa: il 12 dicembre erano state accusate di fare proselitismo in Gujarat, uno degli Stati indiani in cui è in vigore la legge anti conversioni. Un provvedimento pensato per colpire sia i musulmani che una delle comunità cristiane più antiche e numerose dell’Asia: quasi 30 milioni, seppur rappresentino in India una piccola minoranza — appena il 2% della popolazione, in un Paese a stragrande maggioranza indù. Il 60% dei cristiani d’India sono dalit, senza casta, intoccabili.

Incursioni e abusi sono più marcati nell’India centrale e settentrionale, controllate dal Bjp. Unica eccezione lo Stato meridionale di Bangalore, il Karnataka, l’ultimo ad aver approvato, alla vigilia di Natale, la legge anti conversione. Nello stesso giorno qui la chiesa di San Giuseppe è stata vandalizzata. È il quarantesimo attacco nel 2021 in questo Stato. Ci sono stati sacerdoti aggrediti o finiti in prigione. Come il pastore Somu Avaradhi. Una domenica di ottobre aveva trovato la sua chiesa «piena di persone che cantavano canzoni religiose indù e gridavano slogan». Ha chiamato la polizia, ma quando gli agenti sono arrivati, i manifestanti lo hanno accusato di aver costretto un uomo indù a convertirsi. E alla fine è stato lui ad essere arrestato.

L'epopea delle Crociate come non l'avete mai vista. Matteo Sacchi il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Il nuovo saggio di Christopher Tyerman racconta le guerre di religione a colpi di oggetti e iconografia. Prendere la croce. Ottenere la remissione dei peccati. Combattere in nome di Cristo in una scintillante armatura da cavaliere. Oppure semplicemente fare il carpentiere, ben pagato per costruire macchine d'assedio per conquistare Damietta. Oppure essere una donna che, coinvolta negli scontri feroci contro i musulmani, si ritaglia un ruolo che in altre circostanze sarebbe stato impensabile: come la crucisegnata Margaret di Beverley che, accorsa a difendere Gerusalemme nel 1187, combatte come una virago in armatura maschile e vive mille avventure contro i turchi. Sono soltanto alcune delle possibilità, degli infiniti ruoli - che vanno dal traduttore al ladro di reliquie - che si sono sviluppati attorno a quel complesso fenomeno che furono le crociate. Elemento fondante della storia medievale, e non solo, l'idea di crociata ha caratterizzato fenomeni ed epifenomeni molto diversi che spaziano dalle scorrerie dei cavalieri teutonici nel grande Nord agli accordi sottobanco tra cristiani e musulmani per cercare di trovare un equilibrio in Terrasanta. Una bella sintesi di come sia nata e cresciuta questa complessissima idea di guerra santa (all'occidentale) arriva adesso in libreria per Einaudi a firma dello storico oxoniense Christopher Tyerman: Il mondo delle crociate. Una storia illustrata (pagg. 500, euro 95). Tyerman, che del tema è uno dei massimi specialisti a livello mondiale, ha realizzato un testo incredibile a partire anche dalla documentazione fotografica e dalle schede a tema che lo accompagnano. La storiografia ha spesso oscillato tra la laicizzazione di questi conflitti - trasformando il movente religioso nella triste foglia di fico dell'espansionismo della rissosa nobiltà feudale europea - e l'apologetica empatica verso il modo di pensare dei nostri antenati della fine dell'XI secolo. Il volume non fa nessuna delle due cose e si muove in mirabile equilibrio per fornire uno strumento d'approfondimento di livello. Per usare la sintesi dello stesso Tyerman: «Il coinvolgimento dei crociati poteva essere fervido o forzato, frutto di una libera scelta o delle necessità legate al lavoro, entusiasta, indifferente o risentito. Le crociate furono guerre combattute sotto il vessillo della fede religiosa, e sono inspiegabili se non si riconosce questo dato. Tuttavia sono anche qualcosa di più e di meno: di più perché rientravano in uno schema più ampio di aggressione culturale e territoriale; di meno perché in quanto guerre, venivano combattute come tutte le altre, ed erano una faccenda di soldi e di uomini, di tattica e di tecnologia, di castelli e di carpenteria». E le schede ricche di immagini del volume aiutano proprio a mantenere collegati questi livelli. Una croce in metallo della prima crociata è il punto di partenza per raccontare tutto il complesso percorso simbolico che dava via al viaggio bellico verso la Terrasanta che solo molto tardi iniziò a essere chiamato «Crociata». A partire da Urbano II nacque proprio un rituale della partenza che culminava nel posizionare una croce ben visibile sul partente. Chiunque poteva prenderla a condizione di essere libero. Il crucisegnatus da quel momento aveva un nuovo stato con obblighi e privilegi precisi. Privilegi che potevano fare molto comodo: per dirla come una formula liturgica inglese, la croce sul mantello diventava «uno strumento speciale di assistenza, un sostegno della fede... una protezione e salvaguardia contro i dardi feroci di tutti i suoi nemici». Il così detto Sudario di San Josse è invece il punto di partenza per parlare di bottino, altro tema di grande importanza nelle guerre in nome della fede. Tra il salvataggio di una reliquia e la caccia alle altrui ricchezze spesso il confine era molto labile. Ci fu chi come l'abate Baldrico di Bourgueil arrivò a teorizzarlo con chiarezza, sostenendo che erano offerti ai crociati «i beni dei vostri nemici... perché saccheggerete i loro tesori». Certo il saccheggio poteva avere un prezzo molto alto, lo provano le belle immagini provenienti dalla fortezza di Ateret dove all'alba del 29 agosto 1179, dopo un assedio di cinque giorni, il Saladino riuscì ad irrompere con le sue truppe nella fortezza che gli uomini di re Baldovino IV stavano costruendo per difendere il così detto Guado di Giacobbe. Il forte distrutto si è trasformato in una capsula del tempo che ci ha consegnato un resoconto archeologico perfetto di una battaglia del XII secolo. Ma, se ci sono i resti cruenti degli scontri, il libro ci ricorda anche quanto spesso si procedesse sul filo della diplomazia e il nemico islamico di ieri potesse diventare l'amico di oggi contro un altro potentato islamico o anche contro un ex alleato cristiano. Molto belle anche le pagine che raccontano, anche in questo caso a colpi di immagini, come l'idea delle crociate sia arrivata - trasfigurata - sino ai giorni nostri trasformandosi in un meme duraturo della cultura occidentale e non solo. Esiste un'idea di crociata che ha fatto la sua strada sino alla Prima guerra mondiale quando i soldati americani venuti a combattere in Europa vennero definiti, a torto o a ragione, i «Pershing's Crusaders». E un'idea di crociata che ha fatto di Saladino un eroe ancora presente in forma di statua nelle città islamiche. Ma proprio nel misurare la distanza tra queste idee e i fatti del Medioevo diventa utile lo studio della Storia. 

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano.

Marta Serafini per corriere.it il 7 dicembre 2021. È iniziata - e terminata rapidamente dopo qualche minuto - stamattina a Mansura, in Egitto sul delta del Nilo, la terza udienza del processo a carico di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna sotto accusa per diffusione di false informazioni attraverso articoli giornalistici e detenuto in carcere esattamente da 22 mesi. Quando lo hanno portato velocemente in aula, non era ammanettato. Era vestito di bianco come altre volte. Ha detto «sto bene», ma era agitato. Due secondi al volo per parlare con la mamma e poi l’hanno portato via. Si è appreso che uno dei due diplomatici italiani presenti in tribunale ha potuto parlagli brevemente per rappresentargli la vicinanza delle istituzioni italiane e Patrick ha ringraziato per quello che l’Italia e l’Ambasciata stanno facendo per lui. Il diplomatico italiano si era intrattenuto anche con i genitori di Patrick poco prima. La legale di Patrick Zaki, Hoda Nasrallah, ha chiesto l’acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l’arresto del 7 febbraio 2020 e sia la correttezza dell’articolo sui copti alla base del processo. L’udienza, dopo l’intervento del legale, è stata sospesa dopo appena 4 minuti. Al Tribunale non circolano ipotesi accreditabili circa la possibile durata dell’interruzione.

Marta Serafini per corriere.it il 7 dicembre 2021. Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere da quasi due anni con l’accusa di diffusione di notizie false, è formalmente libero. Il giovane «non è stato assolto», ma verrà rilasciato dal carcere nelle prossime ore e dovrà apparire davanti alla corte di nuovo il 1 febbraio. L’ordine di scarcerazione — secondo fonti legali vicine a Zaki — è stato già firmato. Hoda Nasrallah, la legale di Zaki, ha confermato al Corriere che il rilascio dovrebbe avvenire a breve dal carcere di Tora al Cairo. Lobna Darwish di Eipr, la Ong con cui collaborava Zaki e che si occupa della sua difesa legale, ha confermato al Corriere che Zaki a breve verrà trasferito al Cairo. L’annuncio è stato accolto con un urlo di gioia nel tribunale di Mansoura, dove oggi si è svolta una nuova udienza del processo. Alla base del procedimento contro Zaki — che al momento dell’arresto aveva 28 anni, e ne ha compiuti 30 in una cella egiziana — c’erano tre articoli giornalistici sulla persecuzione dei cristiani copti in Egitto. L’Italia, nei mesi scorsi, aveva trattato e ricevuto assicurazioni per ottenere che la condanna corrispondesse al tempo che Zaki aveva già trascorso in carcere. «Primo obiettivo raggiunto: Patrick Zaki non è più in carcere», ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno. Un doveroso ringraziamento al nostro corpo diplomatico». «Quando lo hanno arrestato nel febbraio 2020 abbiamo aspettato per ore all’aeroporto del Cairo sperando di vederlo arrivare, aveva appena passato i controlli, “tutto bene mamma”, mi ha detto per telefono. Poi lo hanno fermato», ha detto la madre di Zaki nei giorni scorsi al Corriere. «Diceva sempre così Patrick. “Tutto bene”». Il 20 novembre a Zaki è stato riconosciuto il premio Cutuli. «Mi piacerebbe scrivere presto per il Corriere della Sera», aveva fatto sapere il ricercatore attraverso la sorella Marise in occasione della premiazione. Il Corriere, come promesso, si augura presto di poter pubblicare il suo articolo.

Patrick Zaki sarà scarcerato, le mani gelate della sorella e poi l’urlo liberatorio del papà: «Grazie Italia». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 7 Dicembre 2021. MANSOURA — Una giornata che sono cento. E che cambia temperatura come le mani di Marise, la sorella di Patrick. Fredde come il ghiaccio mentre il giudice si prende il suo tempo per deliberare. «Grazie, grazie, per quello che state facendo per lui». E Marise si tormenta la manica del maglione blu mentre gli occhi non smettono di correre in giro. Vedere il fratello durante la prima parte dell’udienza, anche solo per pochi minuti, ha portato un po’ di caldo nelle vene. Ma è durato poco, troppo poco, dopo 22 mesi di angoscia. «È riuscito a salutare la mamma era tanto che non si vedevano, almeno un mese», sussurra. E lui è ancora lì, dietro le sbarre. Poi tutti fuori dall’aula, in mezzo ai parenti degli altri detenuti. Una guardia con la pistola viene a controllare i documenti. Le voci iniziano a rimbalzare. «Ci sarà un rinvio». Si rientra. Marise e mamma Hala in prima fila si stringono l’una all’altra. Le mani sono calde ora, il sangue circola più veloce. Nell’altro banco Hoda Nasrallah, l’avvocata della Eipr, la ong con cui Patrick collaborava, sta ferma immobile con la schiena dritta, nei banchi dietro di lei, tutti gli attivisti e i compagni della Eipr. Poi i rappresentati diplomatici della delegazione di osservatori voluta dall’ambasciata italiana. Entrambi che non smettono di andare avanti e indietro. «L’ho visto bene, dai, meno nervoso delle altre volte». In ultima fila papà George. C’è tempo per due parole. «Io non dico niente. Solo pensarlo a casa mi pare impossibile, un sogno. Ma grazie, grazie davvero». Nella gabbia c’è un detenuto «comune», un uomo che ha firmato un assegno in bianco. «Il giudice ora ordinerà il suo rilascio», dice qualcuno. E di nuovo le mani di Marise sono di ghiaccio. Rientra il giudice, c’è via vai con il banco. Mr. Salim, l’avvocato dell’ambasciata italiana, che tutti conosce e tutto sa sussurra piano, «buon segno, buon segno». Il magistrato dà la notizia all’avvocata: Patrick sarà liberato . Ecco l’urlo di Hala e Marise. «Mabrouk, mabrouk» congratulazioni, come per una nascita. «Tamem, tamem», va tutto bene, va tutto bene, la frase che Patrick ripete sempre alla mamma. I funzionari del tribunale fanno allontanare tutti. In strada Hoda e Lobna Darwish, dirigente della Eipr che fin qui è rimasta ferma in mezzo alla tempesta, si abbracciano stretto. Lacrime, sorrisi, pacche sulle spalle. Da Bologna arriva il messaggio della professoressa Rita Monticelli, del master. «Lo aspetto, aspetto qui». Marise e Hala si precipitano a cercare del cibo. Patrick non mangia da domenica. «Ma dov’è Patrick ora? Dove lo portano?». Forse lo rilasciano già oggi, forse no. Forse prima lo riportano a Tora. Forse esce qui a Mansoura. Forse. C’è chi salta in auto e parte per il Cairo, chi resta. Poi cala il silenzio. E restano i clacson incessanti della città. Iniziano a rimbalzare le notizie. «Marise dov’è Patrick ora? L’hanno rilasciato?». «Non sappiamo niente di certo. Non l’abbiamo ancora visto». Il sole cala sulla casa dove Patrick è cresciuto e dove lo aspettano. Le mani tornano ad essere fredde. Lobna della Eipr paziente risponde a tutti. «Dovrebbero avergli fatto firmare dei documenti». Marise va al commissariato a verificare se hanno portato lì Patrick. «No, niente». Anche all’ambasciata italiana aspettano. I telefoni accesi fino a tardi. Papà George spera ancora sia per oggi. Ma alla stazione di polizia dove Patrick dovrebbe essere portato dalla prigione di Mansoura sono chiari. «Non è ancora qui. Forse è al dipartimento della Nsa, l’intelligence egiziana». Ed è di nuovo freddo. Sudore ghiacciato sul palmo delle mani. Patrick non è ancora fuori.

Patrick Zaki sarà scarcerato, ma non assolto. Albert Voncina su L'Espresso l'8 Dicembre 2021. Il ricercatore egiziano dell’università di Bologna potrà uscire dal carcere dopo 22 mesi di reclusione. La prossima udienza è prevista il primo febbraio. Rilasciato, ma non assolto. Il ricercatore dell’università di Bologna Patrick Zaki potrà finalmente uscire dal carcere, dove è rinchiuso dal 7 febbraio 2020, e potrà attendere la prossima udienza prevista il prossimo primo febbraio lontano dalle sbarre che lo hanno circondato per 22 mesi. Lo ha stabilito oggi la corte di Mansoura, dove Zaki è stato trasferito nei giorni scorsi dal carcere cairota di Tora, in cui aveva trascorso quasi tutta la sua custodia cautelare. Lo studente egiziano sarà dunque libero, «anche se non è stato assolto» dalle accuse, come riferito da alcuni avvocati al termine dell’udienza. Ad attendere all’esterno dell’aula del tribunale la sentenza su Patrick - vestito di bianco, colore simbolo degli imputati - c’erano il padre George, la madre Hela, la sorella Marise, gli amici e alcuni attivisti. Oltre ai legali di Zaki in tribunale erano presenti anche due diplomatici italiani. Alla loro domanda su come stesse, lo studente ha risposto: «Bene, bene, grazie». Zaki potrebbe essere liberato già nelle prossime ore, anche se per il momento non c’è alcuna conferma ufficiale. A Patrick, secondo quanto si apprende, non è stato imposto l’obbligo di firma in vista della prossima udienza, fissata il primo febbraio. «Abbiamo appreso che la decisione è la rimessa in libertà ma non abbiamo altri dettagli al momento», ha spiegato la legale Hoda Nasrallah all'Ansa. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha espresso con una nota di Palazzo Chigi soddisfazione per la scarcerazione di Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano. Immediata anche la reazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. «Primo obiettivo raggiunto: Patrick Zaki non è più in carcere. Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno. Un doveroso ringraziamento al nostro corpo diplomatico», ha scritto Di Maio su Twitter. «Un enorme sospiro di sollievo perché finisce il tunnel di 22 mesi di carcere e speriamo che questo sia il primo passo per arrivare poi ad un provvedimento di assoluzione. L'idea che Patrick possa trascorrere dopo 22 mesi una notte in un luogo diverso dalla prigione ci emoziona e ci riempie di gioia. In oltre dieci piazze italiane questa sera scenderemo con uno stato d'animo diverso dal solito e più ottimista», commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. «La notizia che tanto aspettavamo. Patrick Zaki sarà scarcerato. Speriamo presto di poterlo riabbracciare qui a Bologna», ha invece esultato il sindaco di Bologna Matteo Lepore. Una sentenza, quella emessa durante la terza udienza a carico dello studente 30enne, tutt’altro che scontata. Contro Patrick ci sono diversi capi di accusa, per cui rischia fino a cinque anni di carcere. Il mandato di cattura contiene le accuse di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo.

Lo studente 30enne detenuto da 22 mesi per “diffusione di notizie false”. Patrick Zaki scarcerato ma non assolto, la svolta all’udienza in Egitto. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Patrick George Zaki sarà scarcerato ma non assolto. È quanto fa sapere l’Ansa da Mansoura, in Egitto, dove lo studente è detenuto e dove stamane al Palazzo di Giustizia si è tenuta la terza udienza sul caso. Il 30enne, ricercatore e studente all’Università di Bologna è in carcere da 22 mesi, dal febbraio 2020, con l’accusa di “diffusione di notizie false”. La notizia è stata confermata da alcuni avvocati all’esterno del Palazzo di Giustizia. Non è ancora stato chiarito ma la scarcerazione potrebbe avvenire già tra oggi e domani. L’ordine sarebbe stato comunque già firmato. La decisione è stata accolta con urla di giubilo all’interno del tribunale. Zaki dovrà ricomparire davanti alla Corte il prossimo 1 febbraio. “Sto bene, grazie Italia”, le parole del 30enne, in una cella nel Palazzo di Giustizia di Mansoura dove si è tenuta l’udienza, a un diplomatico italiano come riportato dall’Ansa. Presenti, come nelle precedenti udienze, due diplomatici italiani, su richiesta dell’Ambasciata italiana anche funzionari di altri Paesi (USA, Spagna, Canada), un avvocato della Delegazione dell’Unione Europea e un legale di fiducia della rappresentanza diplomatica italiana al Cairo. Tutti per monitorare il processo come prima avevano fatto per tutte le sessioni di rinnovo della custodia cautelare. Zaki non era ammanettato ed era vestito di bianco quando è arrivato in aula. Da poco è stato trasferito dalla prigione di Tora, nei pressi de Il Cairo, a quella di Mansoura, vicino casa sua. “In carcere ha freddo, nemmeno una coperta, ha ancora fortissimi dolori alla schiena. Non gli lasciano i libri per continuare a studiare”, ha detto a Il Corriere della Sera la madre Hala, intervistata nella casa dove lo studente è cresciuto. “Non gli fanno avere né acqua né cibo”, ha aggiunto il padre George. A soli quattro minuti dall’inizio l’udienza era stata sospesa: la legale del ragazzo, Hoda Nasrallah, ha chiesto l’acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l’arresto del 7 febbraio 2020 e sia la correttezza dell’articolo sui copti alla base del processo. Articolo che era comparso sul sito Darj. Zaki è accusato di propaganda sovversiva per alcuni post sui social network e per alcuni articoli sulle persecuzione ai danni dei cristiani copti. È stato arrestato il 7 febbraio 2020, appena atterrato per una vacanza in Egitto. Da allora la sua custodia in carcere è stata puntualmente rinnovata. Il rinvio a giudizio è arrivato per “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese” sulla base di un articolo scritto dallo stesso studente. Zaki era arrivato a Bologna dopo aver vinto una Borsa di Studio per un master Gemma dedicato agli studi di genere e delle donne. La nota della Presidenza del Consiglio: “Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano”. La giornalista di Rai3 e del quotidiano Domani ha fatto sapere di aver “appena parlato al padre di Patrick. Dovrebbe uscire alle 18. È molto contento e ringrazia tutti”. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Zaki ritrova la libertà: "Grazie Italia". Chiara Clausi su Il Giornale l'8 dicembre 2021. Un abbraccio e un pianto liberatorio. È stato quello tra la sorella di Patrick Zaki, Marise, e la madre, Hala, dopo una notizia attesa da quasi due anni. Patrick, il ricercatore egiziano di 30 anni, che frequentava un master in Studi di Genere all'Università di Bologna in carcere da 669 giorni, è stato liberato. Non è ancora stato assolto però, e dovrà apparire davanti alla corte di nuovo il primo febbraio. Patrick, durante i 4 minuti in cui è stato in aula fuori dalla gabbia, era vestito di bianco, colore simbolo degli imputati, portava una mascherina nera calata sul mento, codino, occhiali rotondi. Come sempre. Fuori dall'aula del tribunale insieme alla madre e alla sorella, c'erano anche il padre e gli amici. Lo studente invece non era in aula al momento dell'annuncio. Ma poco prima dell'inizio dell'udienza aveva detto «grazie, grazie sto bene» alzando il pollice. Il padre di Patrick, George, dopo la decisione, ha abbracciato i due diplomatici italiani presenti all'udienza e ha detto: «Vi siamo molto grati per tutto quello che avete fatto». Zaki era stato da poco trasferito dal carcere cairota di Tora, dove ha trascorso quasi tutta la sua custodia cautelare, dove dormiva per terra, a una prigione di Mansura, la sua città natale. Immediatamente dopo l'arresto, aveva raccontato il suo avvocato, Patrick era stato torturato. Picchiato, spogliato, bendato, sottoposto a scosse elettriche sulla schiena e sull'addome, insultato verbalmente. Per molti mesi gli era stata negata la possibilità di comunicare con l'esterno e di ricevere visite dalla famiglia, anche se ufficialmente era stato detto a causa dell'emergenza coronavirus. Ma non finisce qui. C'erano state gravi polemiche sul fatto che le autorità egiziane gli stessero negando le cure mediche. Patrick soffre di asma, oltre che di ansia e depressione. Il suo dolore alla schiena si era aggravato ed era molto dimagrito negli ultimi tempi. Ma la partita non è conclusa. In tribunale, la legale, Hoda Nasrallah, ha chiesto l'acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l'arresto avvenuto il 7 febbraio 2020 all'aeroporto del Cairo che la correttezza dell'articolo sui copti alla base del processo. I capi d'accusa menzionati nel mandato di arresto sono minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di notizie false, propaganda per il terrorismo. Inoltre, Patrick avrebbe compiuto propaganda sovversiva attraverso alcuni post pubblicati su Facebook. Il rinvio a giudizio è avvenuto invece per «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese» sulla base di tre articoli scritti da Zaki. In particolare ne spicca uno, scritto nel 2019, sul giornale Daraj, sui cristiani copti in Egitto perseguitati dallo Stato Islamico, e discriminati da alcuni segmenti della società musulmana. Tema caro a Zaki perché anche lui appartiene alla comunità copta egiziana. Subito dopo la sentenza è arrivato il commento di Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia: «È un enorme sospiro di sollievo perché finisce il tunnel di 22 mesi di carcere e speriamo che questo sia il primo passo per arrivare a un provvedimento di assoluzione», ha dichiarato. «Non me l'aspettavo. Non siamo abituati a ricevere buone notizie sul processo, ma oggi sono molto contento per lui, la sua famiglia e per tutti quelli che hanno portato avanti la campagna per la libertà di Patrick». ha raccontato Rafael Garrido Alvarez, amico prima di tutto ma anche ex compagno di studi di Patrick Zaki, quando frequentava il master in studi di genere all'Università Alma Mater di Bologna.

Free PatrickZaki è libero, ma l’Egitto continuerà il suo assurdo processo politico. Futura D’Aprile su L'Inkiesta.it il 7 dicembre 2021. Il giovane egiziano è stato scarcerato dopo 22 mesi di detenzione, ma la prossima udienza del primo febbraio 2022 potrebbe concludersi con una condanna definitiva. Rischia fino a 5 anni di carcere a causa di un articolo in cui si denunciavano i mancati provvedimenti del regime di al-Sisi per garantire la sicurezza della minoranza dei cristiani copti. Dopo ventidue mesi di carcere, Patrick Zaki è tornato libero,  per ora. Il 7 dicembre il tribunale egiziano ha ordinato la scarcerazione del giovane studente iscritto all’Università di Bologna e detenuto in Egitto dal febbraio 2020 con l’accusa di “diffusione di notizie false dentro e fuori il paese”. Il caso Zaki però non può dirsi ancora concluso. Le accuse contro il giovane sono ancora in piedi e il primo febbraio 2022 si attende la nuova udienza. Lo studente rischia fino a 5 anni di carcere per diffusione di false informazioni a causa di un articolo in cui si denunciavano i mancati provvedimenti del regime di Abdel Fattah al-Sisi per garantire la sicurezza della minoranza dei cristiani copti, a cui lo stesso Zaki appartiene. Nonostante ciò, la notizia della scarcerazione è stata accolta con grande gioia all’interno dell’aula, dove erano presenti i parenti del giovane oltre alla delegazione dell’Unione europea, due diplomatici italiani e alcuni funzionari delle ambasciate di Stati Uniti, Spagna e Canada. I legali di Zaki temevano l’ennesimo prolungamento della detenzione preventiva, a cui il giovane è stato sottoposto negli ultimi ventidue mesi. Le udienze tenutesi fino a ieri si sono sempre concluse con un nulla di fatto e con un rinnovo della detenzione del giovane, trasferito tra l’altro dal carcere di Mansura, sua città natale, a quello di Tora al Cairo, noto per la durezza dei trattamenti riservati ai detenuti. Per più di cinque mesi gli è stato anche negato il diritto a ricevere visite familiari, ufficialmente a causa delle restrizioni imposte dal governo per contenere i contagi da coronavirus. 

La difesa

L’udienza in cui si è decisa la scarcerazione di Zaki è stata breve. La sospensione è arrivata dopo soli quattro minuti, dopo che il capo del team della difesa, Hoda Nasrallah, aveva chiesto di aver accesso a tutte le prove a carica del suo cliente, facendo specifico riferimento alle immagini delle telecamere di sicurezza dell’aeroporto del Cairo. Zaki è stato fermato il 7 febbraio durante il controllo passaporti e portato in un edificio della National security agency dove, secondo i suoi avvocati, sarebbe stato picchiato, torturato con scosse elettriche, abusato verbalmente e minacciato di stupro. 

Nelle carte delle indagini, però, è riportato che il giovane è stato arrestato l’8 febbraio a Mansura, mentre era nell’abitazione della sua famiglia. Tramite le registrazioni dell’aeroporto, la difesa vuole invece dimostrare che Zaki è stato prelevato appena atterrato in Egitto e che il suo arresto è stato formalizzato solo 24 ore dopo. Gli avvocati hanno anche richiesto l’accesso al verbale redatto dal funzionario della Sicurezza nazionale riportante l’arresto al Cairo e a quello in cui viene ufficialmente registrato il fermo a Mansura del giovane. La difesa ha anche chiesto di poter ascoltare la testimonianza del fratello di un soldato cristiano ucciso da terroristi islamici, per dimostrare che quanto riportato da Zaki nell’articolo uscito nel 2019 sul portale el-Daraj corrisponde al vero. 

La stampa egiziana 

La notizia dalla scarcerazione di Zaki ha riempito i media italiani, ma ha invece trovato poco spazio in Egitto. Alcuni giornali online indipendenti in lingua inglese e che sfuggono alle maglie della censura hanno dato la notizia della sentenza emessa ieri dal giudice, ma la questione è passata abbastanza sotto traccia nel paese nordafricano. Il tema d’altronde è piuttosto delicato. Zaki è ufficialmente accusato di diffusione di notizie false, ma le motivazioni hanno una forte connotazione politica e riguardano sia il trattamento riservato nel paese alla minoranza copta, quanto (più indirettamente) il lavoro svolto dal giovane a Bologna all’interno della comunità Lgbt. 

I rapporti con il Cairo

Eppure i rapporti tra Egitto e Italia in questi ventidue mesi non hanno subito alcuna modifica. I due paesi continuano ad avere normali rapporti diplomatici e commerciali, come dimostra anche la recente partecipazione delle maggiori aziende dalla Difesa all’Expo militare tenutosi al Cairo. D’altronde nemmeno l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni e i continui depistaggi operati dai servizi di intelligence e di sicurezza sono stati sufficienti perché il governo italiano facesse le dovute pressioni alla controparte egiziana. Per quanto riguarda quest’ultima vicenda, si attende adesso la data del 10 gennaio, quando si terrà una nuova udienza davanti dal Gup di Roma dopo la pubblicazione della relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del giovane ricercatore. Una data vicina a quella della prossima udienza di Patrick Zaki, che potrebbe concludersi con una condanna definitiva e senza appello.

Da ansa.it l'8 dicembre 2021. Patrick Zaki è stato scarcerato da un commissariato di Mansura. Appena uscito, lo studente egiziano dell'Università di Bologna, in carcere da 22 mesi, ha abbracciato la madre. "Tutto bene": queste le prime parole che Patrick Zaki ha pronunciato, parlando in italiano, appena rilasciato. L'abbraccio è avvenuto in una stretta via su cui affaccia il commissariato, fra transenne della polizia del traffico e un camion con rimorchio. Per abbracciare la madre Patrick ha lasciato a terra un sacco bianco di plastica che portava assieme a una borsa nera.

"Un abbraccio che vale più di tante parole. 

Bentornato Patrick!". Lo scrive su Fb il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, postando una foto dell'abbraccio tra Zaki e la sorella all'uscita dal carcere. 

"Aspettavamo di vedere quell'abbraccio da 22 mesi e quell'abbraccio arriva dall'Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l'università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell'abbraccio arrivasse". 

Così all'ANSA Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia commenta la notizia del rilascio di Zaki. "Un abbraccio - dice Noury - soprattutto ai mezzi di informazione che hanno tenuto alta l'attenzione per questi 22 mesi. Ora che abbiamo visto quell'abbraccio aspettiamo che questa libertà non sia provvisoria ma sia permanente. E con questo auspicio arriveremo al primo febbraio, udienza prossima".

Carlo Verdelli per il “Corriere della Sera” l'8 dicembre 2021. Nei giorni del naufragio della civiltà, appena denunciati con forza disperata da papa Francesco, una notizia finalmente diversa, controcorrente, di gioia invece che di ripetuto dolore. Un sommerso che invece si salva, torna libero, si riguadagna un pezzo inatteso di futuro. Preparati a lasciare la tua cella, Patrick Zaki, figlio sgradito d'Egitto, fratello di tanti studenti italiani che ti hanno adottato. Questione di ore, massimo di giorni, e l'incubo senza fine dove eri precipitato svanirà. O almeno dovrebbe, condizionale d'obbligo quando si ha a che fare con Paesi che non praticano la democrazia ma il suo contrario. Hai nelle ossa, nei polmoni, negli occhi l'enormità di 670 giorni di carcere infame, senza materasso per dormire, senza medicine per curarti l'asma, senza una colpa da cui difenderti né una ragione per sopportare il fatto che di colpo, un giorno, il 7 febbraio 2020, a neanche 29 anni, ti hanno tolto all'improvviso la libertà. Ma tu hai resistito a tutto. Ti sei aggrappato come un naufrago alla speranza che da qualche parte, specialmente in quell'Italia dove eri stato studente per un master a Bologna, non si erano dimenticati di te. E forse questo ha contato nell'esito clamoroso di queste ore. Forse la mobilitazione di movimenti, università, città, instancabile nonostante le frustrazioni dei ripetuti prolungamenti della tua detenzione preventiva (45 giorni più altri 45 più altri 45), qualcosa ha smosso nei meccanismi ineluttabili e perversi del potere. Forse la richiesta di cittadinanza italiana, avanzata all'unanimità dalla maggioranza del Parlamento che sostiene il nostro governo, ha aiutato una diplomazia impigrita da una ragion di Stato che, in nome degli affari e delle convenienze strategiche, è spesso capace di chiudere un occhio, e anche tutti e due. Forse hanno avuto un peso le parole di Liliana Segre, quando si è spinta fino in Senato a Roma per sostenerti: «Sono qui come nonna di Zaki, e come lui so che cosa vuole dire la porta chiusa di una cella e l'angoscia che possa succedere di peggio quando si apre». E forse, da ultimo, non è stata inutile anche la pressione di alcuni giornali, e il Corriere della Sera è tra questi quando ancora ieri raccontava il tormento dei tuoi genitori e di tua sorella, in attesa come tutto il mondo libero di quello che ti sarebbe successo all'indomani, udienza importante del tuo irreale calvario giudiziario. I fari tenuti accesi sul buio della tua prigione hanno magari impedito che quel buio diventasse impenetrabile. Vero che non è finita. Non è quasi mai finita quando c'è di mezzo un regime che si considera arbitro e padrone delle vite degli altri, dei suoi cittadini, dei sudditi. Dovrai ripresentarti davanti a una Corte egiziana il primo febbraio, perché sarai anche libero ma non ancora assolto (da quale accusa, chissà). Potrebbero decidere di tornare a rovinarti l'esistenza in qualsiasi momento. Ma intanto sei praticamente fuori, potrai dormire prestissimo, una delle prossime notti, nella tua casa di Mansoura, con la famiglia che ti ha aspettato ogni secondo di questi 22 mesi, o magari anche tornare a studiare in quella Bologna, dove in ogni tua lettera dal carcere bestiale di Tora, al Cairo, chiedevi di poter ripartire dopo il tunnel dove ti avevano cacciato. «Riportatemi in piazza Maggiore. Grazie alla città, alle bandiere gialle. Io combatterò per questo». Combattere e vedere riconosciuto, in un giorno di festa, che non è impossibile, che non è tutto inutile, è un segno che pretende un seguito. Le pressioni delle piazze, della società civile, e l'effetto domino che determinano sulle attenzioni di un Paese come l'Italia, possono davvero cambiare il corso delle cose, anche per gli ultimi, le vittime più incolpevoli della perdita di qualsiasi valore per il rispetto dei diritti fondamentali dell'essere umano. Salvato, per adesso, il soldato Zaki, arruolato in una guerra di inciviltà che non lo ha mai riguardato, diventa ancora più urgente proseguire con convinzione sulla stessa strada. È evidente che il prossimo passo, nei confronti dell'Egitto, non può che avere a che fare con la riapertura del processo sulla fine ignobile di Giulio Regeni. Quella vita meravigliosa non si può più salvare. Ma almeno tutta la verità sulla sua esecuzione e i suoi assassini, ecco, quello è un obiettivo non contrattabile, non più rinviabile, irrinunciabile. La liberazione di Patrick è benedetta ma si completa soltanto con la fine dell'omertà sullo studente Giulio, italiano del mondo. 

Patrick Zaki è libero, ma le accuse non sono cadute: «Grazie a chi mi ha sostenuto. Avete tenuto accesa la luce». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021.Intervista a Zaki, scarcerato dopo 22 mesi: «In cella leggevo quel che potevo, il mio libro preferito è “L’amica geniale”. E scrivevo, quando mi era permesso. Vorrei pubblicare i miei diari. In carcere una delle cose che ti fa più soffrire è il pensiero del dolore che provochi a chi ti vuol bene. Ora vorrei andare a Napoli. E conoscere Liliana Segre»

«Sono ancora un po’ confuso, tutto sta andando velocemente. Ma ora sono felice, sono qui con la mia famiglia, con tutte le persone che amo. Tutto qui». 

Non indossa più la tuta bianca dei detenuti in attesa di giudizio, Patrick Zaki. È seduto nel salotto della sua casa di infanzia a Mansoura. Alle sue spalle un arazzo di spugna che raffigura Cristo. È il più calmo di tutti, nella stanza. Intorno a lui, il magico «dream team» di donne. La sorella Marise, la fidanzata, un’amica, mamma Hala che, dopo 22 mesi di lontananza, angoscia e paura, ora non lo perdono di vista un attimo. C’erano loro ad aspettarlo fuori dal commissariato di polizia di Mansoura da cui è stato rilasciato ieri dopo 670 giorni di detenzione. E ci sono loro mentre Patrick entra nell’appartamento dove è cresciuto e sull’auto verso il Cairo. In salotto, intanto, papà George non smette di sorridere un attimo. Zaki ha cambiato montatura di occhiali («l’altra l’ho persa durante un trasferimento da una cella all’altra»). La barba è lunga, il sorriso quello delle fotografie di prima dell’arresto. Sotto il maglione scuro, la maglietta dell’Università di Bologna. Poi i jeans preferiti. I palmi della mani, neri al momento del rilascio, ora sono puliti. Intorno, la cagnetta Julie scodinzola felice.

Patrick, innanzitutto ben trovato. Quando hai capito che stavi per tornare libero?

«Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato, e hanno iniziato a prendermi le impronte. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi stessero per scarcerare. Ero confuso. Non posso dire tutti i dettagli e preferisco non parlare delle condizioni di detenzione. Ma poi ho capito che c’era una speranza. È la speranza, sai, la cosa più difficile da tenere in vita quando ti tolgono la libertà».

Hai abbracciato prima tua mamma, poi la tua fidanzata e infine tua sorella Marise. Qual è stata la prima cosa che hai detto a questo gruppo di donne che lotta per te da 22 mesi, insieme a tuo padre e tutto lo staff della Eipr?

«Ho detto grazie. E poi “Temam”: va tutto bene».

Patrick ride, si interrompe.

La frase che hai sempre ripetuto a tua madre fin da quando lei stava in angoscia nel 2011 ai tempi della rivoluzione e tu ti eri trasferito a vivere al Cairo…

«Già. Una delle cose che più ti fa soffrire quando sei in carcere è il pensiero del dolore che provochi alle persone cui vuoi bene. Io devo solo dire grazie, grazie all’Italia per essere stata vicina a me e alla mia famiglia. Grazie a tutti quelli che hanno tenuto accesa la luce. E l’elenco è lunghissimo».

Abbiamo tempo, ora.

«Gli amici in ogni parte del mondo, che si sono dati da fare per me. Ma anche la vostra delegazione diplomatica che è venuta alle udienze. Poi l’università di Bologna. Tutti i compagni di master, ma in particolare c’è una persona».

Chi è?

«La professoressa Rita Monticelli. È la mia mentore al master Gemma a Bologna (quando Patrick è stato arrestato nel 2020 stava frequentando il primo semestre). Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto. E poi mia sorella Marise. Ma sicuramente così faccio arrabbiare qualcuno, mi fermo qui».

L’Italia si è adoperata per il tuo rilascio a più livelli. Il premier Mario Draghi ha seguito costantemente il tuo caso. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ti ha dedicato un abbraccio pubblico. L’ambasciatore Quaroni ti ha chiamato al telefono.

«Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di altre persone cui dovrò stringere la mano».

Anche la società civile ha avuto un ruolo fondamentale. «Aspettavamo di vedere quell’abbraccio da 22 mesi», ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

«Non dimenticherò mai tutte le volte in cui durante le visite mi venivano raccontato delle manifestazioni, delle piazze. E di tutte le iniziative organizzate per chiedere il mio rilascio in questi quasi due anni».

La senatrice Liliana Segre ha votato per la richiesta di cittadinanza dicendo di essere in Aula idealmente come tua nonna, come persona che sa cosa vuole dire stare chiusa dentro stanza da cui non si può uscire. Vuoi dirle qualcosa?

«Mi ha riempito di orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che questo avvenga quanto prima».

Patrick ora sei libero ma le accuse a tuo carico non sono cadute. Il giudice ha fissato un’udienza all’inizio di febbraio come dice la tua legale Hoda Nasrallah. Pensi di poter tornare in Italia un giorno?

«Spero, ovviamente, che questo avvenga presto. Non so se ci sia un’interdizione per viaggiare all’estero. Per ora so che posso tornare al Cairo».

Dalle tue lettere traspariva grande dolore per il master in studi di parità di genere dell’Università di Bologna che non hai potuto finire. Lo riprenderai?

«Spero davvero presto. Il prima possibile. Non vedo l’ora di poter riabbracciare i miei compagni, i miei professori. E c’è un posto dove vorrei andare prima o poi, in Italia».

Qual è?

«Napoli. Non ci sono mai stato. La mia bisnonna Adel veniva da Napoli. Non parlo così bene l’italiano, ma l’accento di quella parte del Paese mi ha sempre affascinato. Amo molto gli autori napoletani».

Hai potuto leggere in carcere?

«Sì. Dostoevskij, Saramago. E poi L’amica geniale di Elena Ferrante. Il mio preferito, forse. I libri dell’Università invece erano più complicati da avere. Ho provato anche a scrivere qualche volta ma non sempre mi era permesso tenere il blocco».

Già, scrivere… Ti piace?

«Permette di rielaborare, di processare l’accaduto. Una persona a me vicino mi ha insegnato questo».

Alza lo sguardo Patrick, e in cambio gli arriva un sorriso di rimando indietro. Ma in quegli occhi c’è anche un rimprovero, dolce. Basta parlare con gli altri. Prenditi il tuo tempo, Patrick. Ricordati cosa ti hanno fatto, sembrano dire quegli occhi.

Dal Corriere il 20 novembre scorso hai ricevuto un premio che speriamo di poterti consegnare molto presto di persona, il premio alla memoria di Maria Grazia Cutuli, l’inviata uccisa in Afghanistan nel 2001…

«Sì, mia sorella mi ha detto. Maria Grazia… questo premio significa tanto per me. Non lo merito, ci sono eroi là fuori che combattono, in Egitto, più di me, molto più di me. Ma è un premio per cui ringrazio di cuore, Maria Grazia è molto molto importante per me, e questo riconoscimento rappresenta un grande sostegno che ho ricevuto dal Corriere, come istituzione. E presto spero di scrivere i miei diari, quello che ho passato, sul Corriere. Aspettatemi!».

Uscito dal commissariato di Mansura ha abbracciato la madre. Le sue prime parole sono state in italiano. Di Maio: «Bentornato Patrick». La Repubblica l'8 dicembre 2021. Patrick Zaki è stato scarcerato da un commissariato di Mansura. Appena uscito, lo studente egiziano dell'Università di Bologna, in carcere da 22 mesi, ha abbracciato la madre. "Tutto bene": queste le prime parole che Patrick Zaki ha pronunciato, parlando in italiano, appena rilasciato. L'abbraccio è avvenuto in una stretta via su cui affaccia il commissariato, fra transenne della polizia del traffico e un camion con rimorchio.

Per abbracciare la madre Patrick ha lasciato a terra un sacco bianco di plastica che portava assieme a una borsa nera.

"Un abbraccio che vale più di tante parole. Bentornato Patrick!". Lo scrive su Fb il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, postando una foto dell'abbraccio tra Zaki e la sorella all'uscita dal carcere.

"Aspettavamo di vedere quell'abbraccio da 22 mesi e quell'abbraccio arriva dall'Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l'università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell'abbraccio arrivasse". Così all'ANSA Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia commenta la notizia del rilascio di Zaki. "Un abbraccio - dice Noury - soprattutto ai mezzi di informazione che hanno tenuto alta l'attenzione per questi 22 mesi. Ora che abbiamo visto quell'abbraccio aspettiamo che questa libertà non sia provvisoria ma sia permanente. E con questo auspicio arriveremo al primo febbraio, udienza prossima".

Giu. Sca. per "il Messaggero" il 9 dicembre 2021. Per adesso Patrick Zaki non potrà venire in Italia. Il rientro nella città che l'ha adottato, Bologna, è solo rinviato. Anche se occorre prudenza. Le reazioni del regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi sono imprevedibili. Zaki è, infatti, considerato un problema locale. La sua storia va vista nella più ampia condizione dei cristiani Copti in Egitto. Una minoranza costantemente perseguitata, cittadini di serie b rispetto al resto della popolazione musulmana. La colpa di Zaki, per la locale magistratura, è quella di aver avuto, da cristiano, il coraggio di scrivere articoli a difesa dei cristiani nel 2019. Una lunga ricostruzione in cui il 30enne denunciava una serie di vessazioni patite dai Copti che poi gli è valsa l'arresto, la detenzione lunga 22 mesi con annesse torture. Come scrive in una relazione la Onlus Porte Aperte «nella società egiziana, i cristiani sono considerati cittadini di seconda classe dalla maggioranza islamica. Una minoranza svantaggiata nella sfera politica e nei rapporti con lo Stato. In tale contesto, il Governo è restio a rispettare e fare rispettare i loro diritti». E ancora, si legge sempre sul sito di Porte Aperte, «lo Stato sembra concedere poca attenzione ai diritti umani fondamentali e al pluralismo democratico. Il livello di violenza contro i cristiani rimane estremamente elevato». Una minoranza ampia, di 16 milioni di persone, in una popolazione di 100 milioni. Nella visione del regime non deve assolutamente passare il messaggio che la pressione internazionale possa avere contribuito alla scarcerazione del 30enne. Sarebbe un segno di debolezza che il Cairo non vuole proiettare al proprio interno. E sebbene le richieste incessanti dell'Italia, con il sostegno degli Usa, siano andate avanti nei 22 mesi di carcerazione, il principale motivo che ha spinto l'Egitto a concedere la liberazione (il processo continuerà) di un suo cittadino è collegato all'assassinio di Giulio Regeni. Lo studente italiano ammazzato dai servizi di sicurezza locali tra gennaio e febbraio del 2016. Il messaggio che il Cairo manda sotto voce a Roma è quella di una sorta di compensazione, una comunicazione cinica. Sull'omicidio Regeni gli egiziani non vogliono che venga fatta giustizia né in Patria né in Italia. È quindi difficile che dall'altra sponda del Mediterraneo collaborino per la notifica dell'avviso di garanzia dell'inchiesta che il pm Sergio Colaiocco ha condotto dalla Capitale per individuare i responsabili delle torture culminate con l'omicidio di Regeni. E senza la notifica dell'atto della richiesta di rinvio a giudizio, in Italia non si può processare nessuno. Ecco allora che Zaki viene liberato come una concessione rispetto a un muro che il Cairo solleva sul brutale assassinio dello studente di Cambridge. È in quest' ottica che negli ambienti di governo italiano si legge la scarcerazione di Zaki. Occorre sempre ricordare che sulla testa del 30enne pende la spada di Damocle del processo. In qualsiasi momento le autorità locali possono ritornare sui loro passi. La Farnesina che ha lavorato a fari spenti lo sa bene. E nessuno, negli ambienti diplomatici, vuole urtare la sensibilità egiziana ben sapendo quale possa essere la reazione. Nessuno vuole che la macchina di repressione inghiottisca lo studente egiziano dell'Università di Bologna come è accaduto allo studente italiano dell'Università di Cambridge.

Da striscialanotizia.mediaset.it il 9 dicembre 2021. L’8 dicembre è stato finalmente rilasciato il 30enne Patrick Zaki, l’attivista e studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere in Egitto da 22 mesi e ancora sotto processo. I media italiani hanno dato grande risalto alla notizia, peccato che i due corrispondenti Rai al Cairo, Giuseppe Bonavolontà e Leonardo Sgura (stipendio: oltre 220.000 l’anno, come pubblicato sul sito della Rai), non fossero presenti nel momento della scarcerazione (15 ora locale, le 14 in Italia). I principali tg della tv di Stato sono stati costretti a riutilizzare immagini e interviste del Corriere della Sera e la Repubblica, nonostante nella capitale egiziana la Rai abbia un ufficio di corrispondenza. Cosa sarà successo? Le ipotesi di Pinuccio stasera a “Rai Scoglio 24”. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35).

Filippo Facci per “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2021. Poi Patrick Zaki ha aperto bocca a margine delle tremila interviste rilasciate dopo la sua liberazione: e si è visto che non parla una parola d’italiano. Tutti di sale, ma guai a dirlo. Rispondeva in inglese. Cioè: «Zaki uno di noi», «cittadino italiano», le luci dei municipi accese, le candele alle finestre, centinaia di comuni a conferirgli la cittadinanza onoraria, una mozione in Senato per dargli la cittadinanza italiana, la richiesta al Governo di motivarla con «meriti speciali», quasi 300mila firme, l’appello della conferenza dei rettori, 26 europarlamentari e una lettera all’ambasciata del Cairo, una risoluzione a Bruxelles, studenti mobilitati, Patrick «affamato di conoscenza», appassionato di «letteratura napoletana, «Zaki il bolognese», la maglietta della «sua» università recapitata dall’Ateneo, la borsa di studio per lui «sempre teso alla condivisione, quell’ansia di conoscere e di sapere», il master frequentato nella «sua» Bologna: anche se non è chiaro in che lingua. Poi capisci che l’unica cosa che conta è che abbiano liberato un detenuto per un reato di opinione, anche se è accaduto in Egitto con un detenuto egiziano. Andrea Costantino e Marco Zennaro, invece, accusati di reati indefiniti, sono due detenuti incarcerati rispettivamente negli Emirati Arabi e in Sudan, ma, dopo il caso Regeni, sono solo italiani e non egiziani. 

Dalla rubrica delle lettere de “la Repubblica” l'11 dicembre 2021. Caro Merlo, il tunisino Wissem Ben Abdel, morto a 26 anni al San Camillo, secondo la famiglia e tre testimoni è stato picchiato dalla polizia nel Centro di accoglienza, il Pm è stato avvisato tardi e l'autopsia è stata fatta senza avvocati. La Tunisia protesta e nelle strade manifestano chiedendo giustizia. Lo abbiamo ucciso di botte! Pietà l'è morta. Ada Bolognesi - Roma

Risposta di Francesco Merlo

È morto legato a un letto, vedremo se di botte. L'Italia che aveva sognato si è rivelata una trappola di disumanità e i tunisini pretendono la trasparenza che noi pretendiamo dall'Egitto per Zaky e Regeni. Non ci si può indignare contro le violenze degli altri e balbettare quando di violenza siamo accusati noi.

Patrick Zaki, Nicola Porro: "Sapete come funziona la giustizia in Italia?", quello che i giornali non dicono. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2021. "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina": Nicola Porro, nella sua consueta rassegna stampa della mattina, annota gli articoli e gli argomenti più importanti della giornata. Oggi in primo piano c'era, appunto, la scarcerazione dello studente egiziano, dopo 22 mesi di detenzione. Il giornalista, però, ha voluto far notare un dettaglio, che molti giornali non hanno riportato: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". E' un discorso di giustizia e garantismo quello fatto da Porro, che poi sull'argomento chiosa in questo modo: "Giusta l'indignazione nei confronti di Zaki, ma poi in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". Specificando: "Che nemmeno conosco". 

Patrick Zaki, Nicola Porro e il paradosso della giustizia in Italia: "Quello che non viene scritto". Il Tempo il 09 dicembre 2021. Dopo 22 mesi di detenzione, il tribunale egiziano di Mansura ha ordinato il rilascio, in attesa del processo, per Patrick Zaki, l'attivista per i diritti umani e studente incarcerato a febbraio 2020. La prossima udienza si terrà il 1 febbraio, ma mentre difesa e pubblici ministeri prepareranno le loro argomentazioni finalmente Zaki sarà libero, probabilmente da mercoledì o nei giorni seguenti. Zaki, studente dell'Università di Bologna oggi 30enne, è stato arrestato nel febbraio 2020 poco dopo essere atterrato al Cairo per un breve viaggio di ritorno dall'Italia. Da allora è stato detenuto e accusato di aver diffuso notizie false sull'Egitto a livello nazionale e all'estero. Le accuse derivano da articoli di opinione scritti da Zaki nel 2019 e che parlano della discriminazione contro i cristiani copti in Egitto.  Nicola Porro, nella sua rassegna stampa mattutina segnala gli articoli più importanti della giornata evidenziando che su tutti i quotidiani c'è solo la notizia di Zaki fuori dal carcere dopo mesi di apprensione e di interessamento da parte dell'Italia: "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina" commenta il giornalista che evidenzia un particolare di cui invece pochi parlano: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". Porro ritiene "giusta l'indignazione nei confronti di Zaki ma poi - evidenzia - in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". "La cosa straordinaria - spiega Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". 

Il sistema giudiziario italiano come quello egiziano. Il caso Pittelli è come quello Zaky, l’Anm si infuria con il Riformista. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Il sindacato dei magistrati, quello così ben descritto nelle sue trame politiche nel libro Il Sistema di Palamara e Sallusti, se la prende con il Riformista. Perché abbiamo paragonato il sistema giudiziario italiano a quello egiziano e il caso di Giancarlo Pittelli a quello di Patrick Zaki. E anche perché abbiamo ironicamente qualificato come “malizia politica” e anche “stupore” le parole delle tre giudici del tribunale di Vibo che ha riportato in carcere l’avvocato calabrese, quando affermano che «Pittelli manifesta la volontà di instaurare contatti con la precipua finalità di incidere sul regolare svolgimento del processo». Se qualcuno si fosse aspettato una bella vigorosa lavata di capo da parte di un sindacato forte e con voce in capitolo, un ruggito alla Landini con le sue bandiere rosse, dobbiamo subito deluderlo. Anzi, possiamo persino buttarla in ironia, anche se chi indossa la toga, forse per deformazione professionale, in genere ne ha un po’ pochina. Pare quasi che nella sede centrale dell’ Anm, il sindacato dei magistrati, esistano delle schede prestampate a schema fisso, con scritto “autonomia e indipendenza” (quella da tutelare) e poi “finalità politiche”, quelle che gli altri attribuiscono alle toghe suscitando la loro indignazione. Come se non ci fosse più, nell’era post-Palamara, qualcuno in grado di elaborare un pensiero, non dico originale, ma almeno alfabetizzato. Mai una volta, per esempio, che il sindacato dei giudici e dei pm parli, oltre che di indipendenza e autonomia della magistratura anche dell’imparzialità, al pari degli altri due, valore costituzionale. Avrebbero potuto, i sindacalisti dell’Anm, descrivere le tre giudici del tribunale di Lamezia come “imparziali” soprattutto, visto anche che lo stesso avvocato Pittelli, nella lettera a Mara Carfagna che gli è costata la sua terza carcerazione, affermava che in Calabria esiste una giurisdizione “asservita” al volere del potente procuratore Nicola Gratteri. Noi stessi, che siamo maliziosi e non abbiamo reputazione di essere amici delle toghe, abbiamo avanzato dubbi sul fatto che la sciagurata contiguità tutta italiana tra giudice e accusatore sia sempre anche complicità. A maggior ragione dai vertici del sindacato impegnati nella difesa (un po’ anomala, perché mettono insieme il procuratore e i giudici) dei colleghi, ci si aspetterebbero parole del tipo: come vi permettete, voi del Riformista, di insinuare che le nostre giudici di Vibo non siano imparziali? Sarebbe stato un argomento –in questo caso sbagliato, perché noi non l’abbiamo messo in dubbio- ma in qualche modo sensato. Ma a chi pensate possa interessare invece la loro “autonomia e indipendenza”? Soprattutto affiancata a quella del procuratore Gratteri? E veniamo così all’indignazione più politica, quella che prende spunto dal paragone fatto dal Riformista tra il sistema giudiziario egiziano e quello italiano. Brucia, certo, è comprensibile. Ma brucia soprattutto a noi cittadini di uno Stato democratico, ogni volta che dobbiamo constatare quanto arretrata e contraddittoria e ingiusta sia la pratica quotidiana del nostro sistema processuale penale. La custodia cautelare, prima di tutto. Abbiamo scritto e riscritto gli articoli 273 e 274 del codice di procedura penale (mi permetto di dire “abbiamo” perché mi ci sono impegnata da presidente della commissione giustizia della Camera), ma il legislatore poco può fare di fronte al modo con cui la norma viene poi applicata. La verità è che nella testa di gran parte della magistratura, e in particolare dei pubblici ministeri, alberga ben poco il concetto del principio di non colpevolezza previsto dall’articolo 27 della Costituzione. E anche del fatto che per misura cautelare non debba necessariamente intendersi la detenzione in carcere. Prendiamo l’onorevole Pittelli, per esempio. È da Stato democratico o da regime totalitario il fatto che due anni fa, dopo il glorioso blitz del procuratore Gratteri, l’avvocato sia stato sbattuto (sì, sbattuto, non trovo altri termini che definiscano meglio) nel carcere speciale di Bad ‘e Carros, lontano dalla famiglia e dai difensori ma soprattutto dal suo giudice naturale e lì ristretto per quasi un anno? Stiamo parlando di un cittadino innocente secondo la Costituzione, e stiamo parlando di custodia cautelare. Siamo sicuri che il regime di detenzione di Patrick Zaki sia stato peggiore? Inoltre: nel frattempo i reati specifici per i quali l’avvocato Pittelli era stato arrestato, sia l’abuso d’ufficio che la rivelazione di atti d’ufficio e infine quello di essere una sorta di “capo” esterno dall’organizzazione mafiosa, erano caduti. È rimasta un’unica imputazione, il concorso esterno in associazione mafiosa. Il reato che non c’è nel codice penale italiano, e probabilmente neanche in quello egiziano. Un reato molto più evanescente rispetto a quelli d’opinione contestati a Zaki, accusato, oltre che di propaganda sovversiva anche di aver diffuso notizie false. Dando per scontato che siano comunque contestazioni infondate, hanno pur sempre in sé una concretezza maggiore rispetto a quelle su cui si basano le accuse contro l’avvocato calabrese. E questa è solo la fase uno della storia giudiziaria di Giancarlo Pittelli. Con la fase due si entra nel paradossale, perché la procura di Reggio Calabria arresta a sua volta e dopo Catanzaro l’avvocato –che nel frattempo era infine, dopo un anno, approdato alla detenzione domiciliare- con un’altra accusa. E porta in carcere una persona già in custodia cautelare, che il tribunale del riesame poi rispedisce, come un bel pacco postale, ai domiciliari. Ma c’è un intoppo: il vecchio braccialetto elettronico dell’avvocato nel frattempo è stato assegnato a un altro detenuto e per lui non ce ne sono più. Così l’onorevole Pittelli subisce anche l’umiliazione di restare quattro giorni in carcere più del dovuto nell’attesa di un nuovo braccialetto. Se la fase due è paradossale, la tre è semplicemente ridicola. È il terzo arresto, per “trasgressione alle prescrizioni imposte”, articolo 276 del codice di procedura penale. Quello che viene usato in genere nei confronti di quei detenuti che si allontanano dal domicilio coatto, o che comunque comunicano in modo diretto con persone estranee a quelle conviventi. Giancarlo Pittelli non è scappato, non ha neanche fatto un salto al bar per riassaporare un caffè ben fatto, e non ha neanche comunicato in forma diretta con nessuno, non ha telefonato, per esempio. Ha scritto una lettera. Ma la lettera non è un’interlocuzione, una forma immediata e diretta di dialogo, di conversazione, di rapporto con un’altra persona. È un foglio che viene imbucato e cui il ricevente può, se vuole, rispondere in modo diciamo sfasato rispetto a chi lo ha scritto e spedito. In che modo quindi Giancarlo Pittelli avrebbe comunicato con la ministra Carfagna destinataria della lettera? In nessuno, anche se lei gli avesse risposto. Cosa che non ha fatto, preferendo consegnare la missiva alla polizia. Con ciò sottraendosi anche all’ipotesi un po’ ridicola e ingenua, avanzata dal tribunale, che l’intervento di una vecchia amica e collega di partito avrebbe potuto turbare lo svolgimento regolare del processo. Questa è la storia. Ma un’ultima precisazione va fatta e ribadita. Giancarlo Pittelli non è solo un cittadino trattato da uno Stato democratico alla stessa maniera degli Stati totalitari, è anche e soprattutto un avvocato. Un penalista che svolge la propria professione in una regione del sud d’Italia dove, se non vuoi occuparti solo di furti d’appartamento, incontri facilmente persone imputate di associazione mafiosa. Vien quindi da domandarsi –e ne ha parlato diffusamente il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza– se dietro la persecuzione subìta da Giancarlo Puttelli non ci sia anche un pregiudizio di procuratori e giudici che porta a far coincidere la reputazione dell’avvocato con quella del suo assistito. E quindi, in definitiva anche con il reato. Mafioso l’assistito e mafioso chi lo difende. In questo l’Italia non è seconda a nessun altro Stato, democratico o totalitario che sia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Scarcerazione Patrick Zaki, Roberto D'Agostino: "Sono intervenuti i servizi segreti americani, non certo i nostri..." La7.tv l'08/12/2021

Un appello (e gli aiuti): Usa decisivi. Fausto Biloslavo il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Lettera di 56 deputati Usa. E ora si complica l'affaire Regeni. La lista Usa dei prigionieri da rilasciare, centinaia di milioni di dollari di aiuti militari in ballo e lo stop in punta di diritto al processo Regeni hanno dato il via libera alla liberazione di Patrick Zaki. «È un'operazione americana spinta dal Congresso e negoziata dalla Casa Bianca per ottenere delle concessioni nel campo dei diritti umani - rivela una fonte del Giornale - A livello politico siamo ai ferri corti con l'Egitto dopo la decisione del governo di costituirsi parte civile nel processo sul caso Regeni».

Otto mesi dopo l'arresto al Cairo dello studente egiziano dell'università di Bologna, 56 membri democratici del Congresso di Washington hanno inviato al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi una lettera di una pagina e mezza. Nella missiva su carta intestata del Congresso i parlamentari chiedono la liberazione di sedici attivisti compreso «Patrick George Zaki». I rappresentanti americani vanno dritti al punto: «La esortiamo a rilasciare immediatamente e incondizionatamente i prigionieri che abbiamo citato (...). Queste sono persone che non avrebbero mai dovuto essere incarcerate», si legge nella lettera.

Una volta insediato alla Casa Bianca il presidente americano Joe Biden ha usato il bastone e la carota con l'Egitto per ottenere un'apertura sui diritti umani. «Gli Stati Uniti garantiscono 1,3 miliardi di dollari all'anno di aiuti militari al Cairo - fa notare la fonte del Giornale che conosce il tema - Gli egiziani devono anche ammodernare i loro F-16 e Biden ha congelato qualche fondo sbloccando altri. Ottenendo alla fine un gesto distensivo soprattutto nei confronti della richiesta del Congresso».

Il 15 settembre la Casa Bianca ha concesso il via libera a 170 milioni di dollari di aiuti militari e ne ha congelati altri 130. La cifra fa parte del pacchetto di 300 milioni che il Congresso lega al rispetto dei diritti umani. Non è un caso che all'udienza che ha concesso la libertà vigilata a Zaki era presente pure un inviato Usa assieme ai diplomatici della nostra ambasciata al Cairo e rappresentanti di Canada e Spagna.

La mossa americana sarebbe stata caldeggiata dall'ambasciatore italiano in Egitto Cairo Giampaolo Cantini, Al Cairo fino ad agosto, e poi seguita dalla nuova feluca Michele Quaroni. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio solo da settembre a oggi ha discusso di Zaki con il suo pari grado egiziano alla media di una volta al mese.

Gli Stati Uniti hanno blandito il presidente al Sisi anche in campi non militari, come l'assegnazione al Cairo della Cop 27 del prossimo anno sui cambiamenti climatici. Ad annunciarlo ci ha pensato il 3 ottobre l'inviato Usa sul clima, John Kerry, proprio alla pre-Cop di Milano. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, «esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano». Nelle stesse ore del vittorioso comunicato di Palazzo Chigi, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani metteva il dito sulla piaga della Cop 27 in Egitto e l'impunito omicidio di Giulio Regeni. «Andiamo lì - dice il ministro - e che facciamo? Facciamo finta di nulla. Per me questo è un grosso problema».

Oltre alle mosse americane gli egiziani hanno liberato Zaki dopo lo stop al processo ai funzionari dei servizi segreti del Cairo per il brutale omicidio deciso dalla Corte d'Assise a causa di cavilli legati alla notifica degli atti.

Il rischio adesso è che la liberazione di Zaki allontani sempre più qualsiasi spiraglio sul caso Regeni con al Sisi che pensa di avere fatto abbastanza. Non solo: lo studente egiziano è libero, ma con una spada di Damocle sulla testa. Il primo febbraio dovrà tornare in tribunale per la sentenza sulle accuse che lo hanno già tenuto in galera 688 giorni. All'Italia conviene mantenere, almeno per ora, un profilo basso sul suo caso e su Regeni.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace. 

Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 10 dicembre 2021. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane. Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni. Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria. Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari. Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.

Zaki, la libertà pagata a caro prezzo. In cambio silenzio e lo stop su Regeni. Fausto Biloslavo il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Chi tiene alle sorti dello studente sa che non ha senso esultare. E il caso dell'italiano ucciso potrebbe impantanarsi per sempre. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane.

Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni.

Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria.

Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari.

Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.

Patrick Zaki, il primo politico seguito dopo il carcere? Foto clamorosa: trionfo nel centrodestra. Libero Quotidiano il 10 dicembre 2021. Patrick Zaki, finalmente scarcerato ma ancora sotto processo in Egitto, ha appena aperto un suo account su Twitter. Il suo primo messaggio è stato: "Libertà, libertà, libertà". Un concetto semplice ma forte allo stesso tempo. A corredo una foto in cui si mostra sorridente e con un'etichetta del Bologna calcio tra le mani. Lo studente, infatti, si trovava a Bologna prima di finire in carcere. Lì frequentava un master, dove adesso - come detto da lui stesso - spera di tornare. Impossibile non notare che per il momento Zaki segue solo due persone su Twitter. Uno è l'account ufficiale di Google. L'altro invece è il profilo di Antonio Tajani, ex presidente del Parlamento europeo e numero due di Forza Italia. Un riconoscimento non di poco conto per il partito di Silvio Berlusconi e, in generale, per tutto il centrodestra. I follower, invece, per il momento sono circa 600. Tanti i commenti sotto il suo primo post. "Torna preso in Italia, ti aspettiamo", ha scritto un utente. Un altro invece: "Bellissimo vederti sorridente e libero". Nonostante la scarcerazione, però, il 30enne non è ancora stato assolto dalle accuse di aver diffuso notizie false "dentro e fuori" il suo Paese d'origine. La prossima udienza, infatti, si terrà il primo febbraio 2022. Zaki è stato rinviato a giudizio alla fine della scorsa estate, ma la sua permanenza in carcere, da febbraio 2020, era stata rinnovata di volta in volta sulla base di ordinanze di custodia cautelare.Sapete come funziona la giustizia in Italia?"

Patrick Zaki, ecco l’articolo sui cristiani copti per cui l’Egitto accusa lo studente. Patrick Zaki su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2021. L’incriminazione: «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese». Pubblicato nel 2019 sul sito web Daraj, l’articolo è una sorta di diario delle persecuzioni cui sono sottoposti nel Paese musulmano i copti, minoranza a cui il giovane appartiene. Non passa un mese senza che si verifichino incresciosi atti di violenza contro i copti egiziani, dai tentativi di trasferimento forzato nell’alto Egitto fino ai sequestri di persona, chiusura delle chiese o attentati dinamitardi. Questo articolo si propone il semplice scopo di seguire gli avvenimenti di un’unica settimana, come annotati nei diari dei cristiani d’Egitto. Il primo giorno dell’ultimo Eid al-Fitr, l’Egitto è stato colpito da un gravissimo attacco terroristico che ha reclamato la vita di quattordici effettivi tra le forze armate e la polizia egiziana, di vario ordine e rango. Poiché non sono state menzionate vittime cristiane tra le reclute, siamo rimasti sorpresi nel ricevere la notizia di un funerale militare tenutosi nella cittadina natale di uno dei soldati cristiani, Abanoub Marzouk, proveniente da Bani Qurra, e dal centro di addestramento Qusiya di Assiut. Ho diffuso la notizia sul mio blog, nel quale chiedevo come mai si era taciuto il nome di Abanoub. Mi sono visto piombare addosso una valanga di critiche dagli utenti delle reti social, come pure da parte di certi giornalisti egiziani, i quali mi hanno confermato che cose del genere sono «normali», in quanto le forze armate non pubblicano mai i nomi delle vittime degli attacchi terroristici nel Sinai per motivi di sicurezza e per non deprimere il morale delle truppe stazionate in quei luoghi. Tutte queste pressioni mi hanno convinto a cancellare il mio post. Ho aggiunto che forse mi ero sbagliato e non si era trattato di un atto di discriminazione e ho chiesto scusa ai miei colleghi. Qualche ora più tardi, si è diffusa la notizia di scontri e violenze nella cittadina natale della recluta Abanoub Marzouk, poiché l’esercito voleva intitolare una scuola a suo nome e la popolazione locale si era violentemente opposta alla decisione, in quanto la recluta era «cristiana». I media egiziani si sono guardati bene dal far luce sulla vicenda, ma alcuni giornalisti e attivisti cristiani hanno sollevato obiezione. Nader Shukri, un reporter che tratta di affari cristiani in Egitto, ha scritto: «Il governatore della provincia ha consigliato a Abanoub Naheb, fratello della vittima, che se qualcuno lo invita a un matrimonio, e offre agli sposi dieci sterline, l’altro non vada in giro a dire che doveva offrirgliene cento. Questo in risposta al rifiuto del fratello di mettere il nome del martire su un ponte, che è un semplice attraversamento di un canale, «facendo inoltre notare che una targa del genere non è assolutamente indicata a onorare il sacrificio di un soldato morto in un attacco terroristico». Successivamente Ishaq Ibrahim, ricercatore presso l’Iniziativa egiziana per la tutela dei diritti della persona, ha commentato su Facebook: “Coloro che hanno rifiutato di dare il nome di Abanoub a una scuola non fanno parte né dei fratelli musulmani, né dei salafiti, né degli integralisti. Siamo coraggiosi e diciamo chiaramente che la decisione è stata presa da un funzionario dello stato per motivi discriminatori. Dare la colpa ai gruppi religiosi equivale a uno scaricabarile delle responsabilità». Per poi aggiungere: «Il governatore di Assiut, dopo aver criticato il funzionario per non aver dato il nome di Abanoub a una scuola, ha fatto sistemare una targa commemorativa su un ponticello della sua città natale, che scavalca un canale, malgrado l’opposizione della famiglia del defunto! Con questa soluzione, il governatore ha pensato da un lato di accontentare tutti, dando formalmente il nome della vittima a “qualcosa”, e dall’altro di scansare ogni seccatura che gliene verrebbe se avesse dato il nome a una scuola. Tra l’altro, il nome di ponti e strade nei piccoli centri non ha nessuna importanza, perché non viene nemmeno registrato nel piano urbanistico, né utilizzato dai residenti». Ibrahim ha rimarcato, nel suo post, l’assenza del ruolo dello stato e la totale indifferenza davanti al razzismo sistematico praticato dagli abitanti del luogo, mai affrontato dai funzionari statali, che hanno ceduto alle pressioni e non hanno intitolato una scuola alla giovane vittima. Il governo egiziano ha fatto prova di estrema passività in questa vicenda, rifiutandosi di adottare misure decisive per impedire la sistemazione della targa commemorativa di Abanoub Marzouk su un ponticello. Il governatore della provincia è intervenuto allora per risolvere il problema e ho scoperto che aveva dato il nome di Abanoub Marzouk a uno dei ponti in costruzione all’ingresso della cittadina natale della vittima. E così almeno uno, tra i tanti problemi che affliggono i cristiani d’Egitto, è stato risolto grazie a un «ponte»! Indagando sui modi più comuni per onorare ufficiali e militari morti in servizio, ho scoperto che il governo ha dedicato un certo numero di strade, scuole e piazze principali alla memoria delle vittime del Sinai, dal 2013 a oggi. Questo mi spinge a sollevare non poche domande su come il governo abbia gestito il caso di Abanoub Marzouk, la recluta cristiana, che i suoi concittadini hanno rifiutato di onorare intitolandogli una scuola, con il beneplacito del governatore, per timore dei militanti islamici più estremisti. Il figlio maschio eredita la quota di due figlie femmine, anche se sono cristiani! «Nella legge egiziana, non è stabilito da nessuna parte che al maschio spetti la quota di eredità di due femmine». È così che si è espresso il giudice, nella dichiarazione del tribunale, in risposta alla relazione pubblicata di recente dall’avvocata per i diritti umani Hoda Nasrallah. Dopo la morte del padre, Hoda ha deciso di proseguire la battaglia da sola, ma non a suo esclusivo beneficio, bensì a tutela di tutte le donne cristiane. Il terzo articolo della costituzione del 2014 dichiara che «i principi contenuti nelle sacre scritture dei cristiani e degli ebrei d’Egitto rappresentano la fonte legislativa principale nel dirimere ogni questione relativa al loro statuto personale, affari religiosi e la scelta dei loro capi spirituali». L’articolo 245 dell’Ordinamento copto ortodosso, varato nel 1938, afferma nel terzo capitolo, per quanto riguarda l’eredità e il diritto di ciascun erede, che «i discendenti diretti avranno la precedenza sugli altri familiari, pertanto riceveranno tutta l’eredità o quanto resta dopo aver attribuito la quota legale al marito o alla moglie. Nel caso di più eredi, con il medesimo grado di parentela, l’eredità verrà suddivisa tra di loro in parti uguali, senza alcuna differenza tra eredi maschi ed eredi femmine». Hoda ha respinto la proposta dei due fratelli, quando hanno chiesto che venisse seguito l’iter stabilito dalle autorità giudiziarie secondo la normativa vigente, promettendo tuttavia di suddividere successivamente l’eredità in parti uguali. Ma Hoda mirava a un obiettivo più alto, ben al di là del suo caso personale, e cioè all’introduzione di normative che in futuro avrebbero cancellato le ingiustizie patite dalle donne cristiane attraverso la legge egiziana sul diritto di famiglia, dalle questioni delle separazioni fino all’eredità. Molti maschi cristiani approfittano della legge egiziana che non riconosce i diritti dei cristiani nella normativa sull’eredità e si accaparrano più di quanto a loro spettante, grazie alle sentenze dei tribunali e all’esecuzione delle stesse. La legge pertanto diventa un ostacolo per tutte le donne, impedendo loro di accedere ai loro diritti, specie nel caso delle donne cristiane.

È una battaglia che si traduce in una forma di persecuzione contro le donne cristiane sotto la legge islamica, benché la religione cristiana non sottoscriva queste idee né tuttavia le abbia mai affrontate, né da vicino né da lontano: le ingiustizie della società patriarcale sono tendenzialmente sostenute e giustificate dalla legge.

«Non accettiamo la tua testimonianza perché sei un cristiano!»

Un post di questo tenore ha raggiunto una diffusione inverosimile su Facebook qualche settimana fa, e si riferisce a quanto accaduto al padre di un dottore, Mark Estefanos, coperto d’insulti in tribunale. Tutto ciò in seguito a lunga storia del padre, ingegnere e dipendente statale per 35 anni. Il padre doveva recarsi in tribunale per testimoniare in una vertenza riguardante un collega, ma il giudice ha respinto la testimonianza dell’ingegner Makarios perché cristiano. «Un copto non avrà mai nessuna autorità su un musulmano». Il padre e il figlio, dottore, sono rimasti sbalorditi, e quest’ultimo ha pubblicato un post per riferire che a causa di situazioni come queste sta pensando di lasciare l’Egitto, perché non gode degli stessi diritti dei suoi connazionali.

Questo problema fu sollevato per la prima volta nel 2008, quando Ahmed Shafiq, cittadino musulmano, chiese la testimonianza del suo vicino di casa cristiano, Sami Farag, in una questione ereditaria, caso 1824 del 2008, ma il tribunale di Shubra El-Kheima respinse le dichiarazioni di un cittadino cristiano, in quanto la sua testimonianza non era ritenuta ammissibile, sotto il profilo legale nonché religioso, contro un musulmano.

Il tribunale costrinse Shafiq a reperire un testimone musulmano. Per tornare alla costituzione… scopriamo che esiste una palese contraddizione sul diritto alla testimonianza e la sua normativa, visto che nel secondo articolo si dichiara che «l’Islam è la religione di stato, l’arabo la sua lingua ufficiale, e i principi della Sharia islamica sono alla base della legislazione», mentre l’articolo 53 recita che «i cittadini sono uguali davanti alla legge e godono di uguali diritti, libertà e doveri pubblici, e non esiste discriminazione tra di loro in base a fede religiosa, credenze, genere, origine, razza, colore, lingua, disabilità, classe sociale, appartenenza politica o geografica, o qualunque altra ragione. La discriminazione e l’incitamento all’odio costituiscono un crimine, punito dalla legge. Lo Stato ha l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per eliminare ogni forma di discriminazione e a tal scopo la legge regola la nomina di una commissione indipendente». D’altro canto, la Sharia islamica respinge la testimonianza di un non musulmano in più di un testo. «Nel diritto in materia di assunzione di prove, non si trova nulla che faccia distinzione tra cristiani e musulmani e impedisca di accogliere la testimonianza di qualsiasi cittadino», con queste parole si è espresso l’avvocato Reda Bakir dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona. Facendo riferimento al diritto sull’assunzione delle prove, è chiaro che non esiste alcun articolo legale che imponga di respingere la testimonianza di un non musulmano.

Muhammad Hassan, ex avvocato dei diritti umani e ricercatore in campo giudiziario, tuttavia conferma: «Sono propenso all’applicazione della legge islamica per tutto ciò che riguarda questioni religiose incontestabili. Non si tratta di essere al di sopra della legge o altro. Ma l’esercizio dell’autorità è riservato ai musulmani, e l’Egitto è la patria dell’Islam, mentre il dhimmi (non musulmano) paga la jizya (tasse) per agevolare le sue istanze».

Basta questa semplice osservazione per spiegare quello che la comunità cristiana in Egitto è costretta a sopportare in una sola settimana! (Traduzione Rita Baldassare)

«Il calvario dei cristiani copti in Egitto», l’articolo per cui Zaki è incriminato. Da editorialedomani.it il 14 settembre 2021.

Pubblichiamo in versione integrale l’articolo di Patrick Zaki del 2019 per cui i pm egiziani accusano lo studente di diffusione di notizie false. «Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi» scriveva Zaki. Traduzione di Monica Fava

Pubblichiamo in versione integrale l’articolo di Patrick Zaki del 2019 per cui i pubblici ministeri egiziani accusano lo studente di diffusione di notizie false. Patrick è in carcere da febbraio del 2020, il processo è partito il 14 settembre 2021. Traduzione di Monica Fava.

Non passa mese senza che si verifichino incidenti dolorosi contro i copti egiziani, dai tentativi di sfollamento nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o ad altri attentati. Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi di una settimana della vita quotidiana di cristiani egiziani…

Non passa un mese per i cristiani in Egitto senza 8 o 10 incidenti dolorosi, dai tentativi di sfollarli nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di una chiesa o qualcosa che viene fatto saltare in aria, all’uccisione di un cristiano, la conclusione è sempre «disturbo mentale».

Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi di una settimana dai diari dei cristiani d’Egitto, una settimana è sufficiente per rendersi conto della portata del calvario che vivono.

Il giorno seguente la fine dello scorso Ramadan, nella festa di Eid al-Fitr, l’Egitto è stato vittima di un enorme attacco terroristico che ha causato la morte di quattordici membri delle forze egiziane, di diversi ranghi della polizia e dell’esercito. Poiché non era stato fatto il nome di alcun soldato cristiano, ci ha sorpreso la notizia di un funerale militare nella città natale di uno dei soldati cristiani egiziani, Abanoub Marzouk del villaggio di Bani Qurra, affiliato al Centro Qusiya di Assiut.

UN POST

Ho scritto un post sul blog per chiedere le ragioni di questo blackout sul nome di Abanoub. Ho ricevuto una serie di attacchi da utenti di social network e anche da giornalisti egiziani che confermavano che queste cose sono “normali”, perché le forze armate non pubblicano i nomi di chi muore martire negli attentati terroristici in Sinai, per ragioni di sicurezza e per il morale delle truppe che si trovano là. Tutte queste pressioni mi hanno indotto a cancellare il post. Ho detto che forse mi ero sbagliato, che non era un atto di discriminazione, e mi sono scusato con i colleghi.

Alcune ore dopo, si è diffusa la notizia dell’insorgere di gravi problemi nel paese natale del soldato, Abanoub Marzouk, al cui nome le forze armate avevano deciso di intitolare una scuola: la gente della città si era opposta con decisione perché il soldato era un “cristiano”. I media egiziani non hanno fatto abbastanza luce sulla questione, ma diversi giornalisti e attivisti cristiani hanno espresso le loro obiezioni.

Nader Shukri, un giornalista che segue le vicende dei cristiani in Egitto, ha scritto: «Un governatore dice al fratello del martire Abanoub Naheh: “Se andassi a un matrimonio e regalassi agli sposi 10 sterline, non mi dire che avrei dovuto regalargli 100 sterline”. Questa è la sua risposta al rifiuto di un fratello del martire a farsi intitolare un ponte, quando si tratta solo di un passaggio sopra un canale”, sottolineando che quella dedica non è commisurata al valore di onorare un soldato caduto in un attentato terroristico.

Poi Ishaq Ibrahim, un ricercatore dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, ha commentato su Facebook. “Quelli che hanno rifiutato di intitolare ad Abanoub una scuola non appartengono ai Fratelli musulmani, non sono salafiti, non sono estremisti o altro. Abbiate il coraggio di dire che è stato un pubblico funzionario che ha preso questa decisione lasciandosi influenzare dai suoi pregiudizi. Qualsiasi tentativo di addossare la colpa a gruppi religiosi è un modo per annacquare le proprie responsabilità”. Poi ha aggiunto: “Il governatorato di Assiut, dopo aver criticato la sua decisione di non intitolare al martire Abanoub una scuola, ha messo il suo nome accanto a un piccolo ponte sopra uno dei canali nel suo villaggio, nonostante i familiari del defunto si fossero opposti!! In questa maniera il governatorato ha voluto accontentare tutti: gli ha formalmente intitolato ‘qualcosa’ e, al tempo stesso, si è tirato fuori dalle polemiche nate dopo la decisione di dedicargli una scuola. Peraltro, i nomi dei ponti e delle strade nei villaggi non sono importanti, perché non sono registrati nei documenti ufficiali e spesso non sono utilizzati dalla gente comune”.

Nel suo post Ibrahim ha messo in evidenza l’assenza del ruolo dello stato e il condono del razzismo sistematico della gente del villaggio, che le autorità hanno deciso di non affrontare, cedendo alle pressioni e rinunciando all’idea di dedicare la scuola ad Abanoub.

IL GOVERNO EGIZIANO

Il governo egiziano non ha reagito e non ha preso alcuna nessuna misura decisa per impedire di intitolare la scuola ad Abanoub Marzouk, così è intervenuto il governatore a risolvere il problema. Quando ho cercato di capire in che modo il governatore avesse risolto problema, ho scoperto che aveva dedicato a Abanoub Marzouk il ponte in costruzione all’ingresso del villaggio. Insomma, il problema, come tutti i problemi dei cristiani in Egitto, è stato risolto con un “ponte”!

Quando abbiamo cercato come fosse stato reso omaggio ad altri ufficiali o altre reclute morti nello stesso attentato o in altri, abbiamo scoperto che il governo in generale ha dedicato un buon numero di strade, scuole e piazze frequentate a molti dei soldati che sono caduti in Sinai dall’inizio del 2013 a oggi. Questo ci spinge a fare domande sulle ragioni per cui il governo ha gestito in questo modo il caso di Abanoub Marzouk, il soldato cristiano a cui i compaesani hanno rifiutato di intitolare la scuola del villaggio, cosa che il governatore ha accettato temendo l’ira dei militanti.

Un uomo riceve un’eredità pari a quella di due donne, anche nel caso dei cristiani!

«Nel diritto egiziano non c’è questa cosa che un uomo riceve una quota di eredità pari a quella di due donne». Così ha stabilito un giudice e così dice la relazione del tribunale dopo la dichiarazione sull’eredità dell’avvocata per i diritti umani Huda Nasrallah (che oggi difende Zaki, ndr), di recente pubblicazione. Huda ha dichiarato che, dopo la morte del padre, ha deciso di combattere la sua battaglia da sola, ma non solo per sé, bensì in nome di tutte le donne cristiane.

Il terzo articolo della Costituzione del 2014 afferma che “i principi delle scritture dei cristiani e degli ebrei egiziani sono la fonte legislativa principale per regolare lo statuto personale, gli affari religiosi e la selezione delle guide spirituali”.

L’articolo 245 del Regolamento della Chiesa ortodossa copta, pubblicato nel 1938, afferma nel terzo capitolo, riguardo agli eredi e al diritto di ciascuno di loro all’eredità, che «i discendenti dell’erede hanno la priorità sugli altri parenti sull’eredità, pertanto ricevono tutta l’eredità o quello che ne resta dopo che il marito o la moglie hanno ricevuto la loro parte. Nel caso ci siano eredi multipli con lo stesso grado di parentela con il defunto, le proprietà saranno divise tra di loro in parti uguali, senza differenza fra uomini e donne».

Huda ha rifiutato la proposta dei suoi due fratelli, quando hanno chiesto che il processo si svolgesse nel modo solito in cui le autorità giudiziarie sono solite procedere e che la dichiarazione di eredità fosse ricevuta in qualsiasi forma, e poi l’eredità divisa tra loro in parti uguali. Hoda aveva un obiettivo più ambizioso, ben oltre il suo caso personale, e cioè di istituire provvedimenti che fossero applicati anche in seguito, per far fronte alle ingiustizie che subiscono le donne egiziane riguardo al diritto della persona, dai casi di separazione all’eredità. Molti cristiani uomini approfittano del fatto che i tribunali non riconoscono la religione cristiana nelle sue norme sull’eredità e prendono più di ciò che gli spetterebbe per diritto secondo la loro religione, perché lo ha ordinato il tribunale e devono rispettarlo. Di conseguenza la legge è diventata un ostacolo per le donne nell’ottenere i propri diritti, specialmente per le donne cristiane.

Questa battaglia dimostra una forma di persecuzione contro le donne cristiane in base al diritto islamico, anche se la religione cristiana non afferma questi concetti e non li ha affrontati, né da vicino né da lontano. Tuttavia, i mali della società patriarcale sono sostanzialmente supportati e giustificati dalla legge.

«Non accettiamo la sua deposizione perché è un cristiano!»

Questo post è stato diffuso ampiamente su Facebook qualche settimana fa e racconta che cosa è successo al padre del dottor Mark Estefanos e degli insulti che ha ricevuto in tribunale. Questo dopo una lunga vicenda del padre, un ingegnere che ha lavorato in un’istituzione pubblica per 35 anni. Il padre doveva presentarsi in tribunale per testimoniare di fronte al giudice su un caso riguardante un collega, ma il giudice ha rifiutato la deposizione dell’ingegner Makarios perché cristiano. «Non c’è tutela legale per un copto rispetto a un musulmano». Il padre e suo figlio, un medico, sono rimasti estremamente turbati e quest’ultimo ha pubblicato il post, sottolineando che episodi così lo inducono sempre a pensare di andarsene dall’Egitto, perché non gode degli stessi diritti degli altri.

Il problema è stato sollevato per la prima volta nel 2008, quando Ahmed Shafiq, un cittadino musulmano, richiese la testimonianza del suo vicino cristiano, Sami Farag, nel caso di dichiarazione d’eredità 1824/2008, ma il tribunale di Shubra el-Kheima rifiutò la deposizione di un cittadino cristiano adducendo il motivo che la deposizione di un cristiano non era legalmente/religiosamente consentita contro un musulmano. Il tribunale obbligò Shafiq a portare un testimone musulmano.

Tornando alla costituzione...

C’è una chiara incoerenza sul diritto a testimoniare e la sua applicazione, poichè il secondo articolo afferma che «l’islam è la religione di stato, l’arabo è la lingua ufficiale e i principi della shari’a islamica sono la principale fonte legislativa».

L’articolo 53 afferma che «i cittadini sono uguali di fronte alla legge e hanno gli stessi diritti, libertà e doveri pubblici, non c’è discriminazione fra di essi sulla base della religione, delle convinzioni, del genere, dell’origine, della razza, del colore, della lingua, della disabilità, della condizione sociale, dell’affiliazione politica o geografica, o di qualsiasi altra ragione. La discriminazione e l’incitamento all’odio costituiscono un reato perseguibile dalla legge. Lo stato è obbligato a prendere le misure necessarie per eliminare tutte le forme di discriminazione e la legge regola l’istituzione di una commissione indipendente a tale scopo».

D’altro canto, la shari’a in più di un testo non accetta la deposizione di un non musulmano. «Non c’è nulla nel diritto procedurale che distingua fra cristiani e musulmani e impedisca di accettare la deposizione di un qualsiasi cittadino», ha dichiarato l’avvocato Reda Bakir dell’Egyptian Initiative for Personal Rights. Facendo riferimento al diritto procedurale è già evidente che non esiste nessuna disposizione di legge che impedisca di accettare la testimonianza di un non musulmano.

Muhammad Hassan, un ex avvocato per i diritti umani e ricercatore giuridico, ha confermato: «Sono incline alla legge islamica in questioni relative a costanti religiose che non sono in discussione. Non si tratta di legge o cose del genere. La tutela è nella casa dei musulmani, dato che l’Egitto è dimora dell’Islam e il dhimmi (non-musulmano) paga le jizya (tasse) per facilitare i suoi affari».

Questa era una semplice osservazione di quello che può succedere alla comunità cristiana in Egitto solo in una settimana!

Il cuore antico del cristianesimo in Medio Oriente. Mauro Indelicato su Inside Over il 7 dicembre 2021. “Nel mondo milioni di cristiani continuano a vivere emarginati, in povertà, ma soprattutto discriminati e in pericolo. Dopo due anni di pandemia vogliamo tenere acceso un faro su questa oppressione e aiutare Aiuto alla Chiesa che Soffre Onlus a portare conforto e sostegno ai fedeli di tutto il mondo: in particolare coloro che vivono in Libano, Siria e India“. Il Libano, rispetto ai vicini arabi, ha una particolarità: è l’unico Paese del mondo arabo ad essere a maggioranza cristiana. O almeno così era fino all’immediato secondo dopoguerra. L’afflusso di profughi palestinesi prima e siriani poi, ha rivoluzionato il mosaico demografico. Tuttavia la presenza di cristiani è ancora molto significativa. I censimenti nel Paese dei cedri si fanno oramai a bassa voce, non esistono statistiche ufficiali, ma la comunità dovrebbe rappresentare circa il 40% della popolazione. Ed è questo il dato principale. Perché dona al Libano, quando si parla di cristianità in medio oriente, un ruolo politico, storico e sociale fondamentale.

Il ruolo dei maroniti

La diffusione del cristianesimo nell’area libanese la si deve soprattutto alla Chiesa cosiddetta “maronita“, sviluppatasi intorno al V secolo. Il suo nome deriva dal fondatore San Marone, un asceta vissuto in Siria e morto nel 452. I suoi discepoli hanno dato vita a una comunità che nel corso dei decenni ha considerato l’odierno Libano come sua base principale. Inizialmente la chiesa maronita ha seguito il Patriarca di Antiochia. Successivamente si è dotata di maggiore autonoma, pur rimanendo comunque all’interno dell’alveo romano. I maroniti infatti hanno sempre riconosciuto l’autorità papale. Dunque oggi è possibile considerare la Chiesa maronita come pienamente organica alla Chiesa cattolica. Una sorta di “dualismo identitario” sancito ufficialmente nel sinodo maronita nel 2004. Qui i vescovi maroniti hanno approvato i cinque elementi distintivi della comunità. Gli ultimi due riguardano proprio la fedeltà alla Cattedra di San Pietro e il suo radicamento nella storia del Libano. Per questo ancora oggi sono proprio i maroniti a costituire il numero più rappresentativo dei fedeli cristiani nel Paese. Una circostanza ben rintracciabile a livello politico. Quando nel 1943 il Libano ha optato per l’indipendenza dalla Francia, è stato stilato un “patto nazionale“, valevole ancora oggi, con il quale si è sancita la divisione delle più importanti cariche politiche. Ai cristiano maroniti è stata affidata la nomina del presidente della Repubblica. Da allora fino ad oggi i capi di Stato libanesi sono sempre stati maroniti. L’afflusso di profughi dalla Palestina dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948 ha determinato non poche tensioni. Gli equilibri tra le varie comunità etniche e religiose in Libano sono stati messi pesantemente in discussione. L’ingresso dell’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i disagi economici avvertiti dalla popolazione sciita e i timori dei maroniti di perdere la maggioranza, hanno esasperato il clima. Tutto questo ha portato al periodo più buio della storia recente libanese, culminato con la grande crisi del 1958 e la guerra civile iniziata nel 1975. A livello politico, i partiti rappresentanti i maroniti sono confluiti nelle Falangi e nelle Forze Libanesi, queste ultime vere e proprie milizie sciolte poi soltanto negli anni ’90. In questa fase la sicurezza è rimasta precaria per tutti i vari cittadini libanesi, tanto cristiani quanto musulmani. Le ferite aperte durante il conflitto ancora oggi non sono state del tutto rimarginate.

I cristiani nel Libano di oggi

Quella maronita non è comunque l’unica comunità cristiana libanese. Fino al 1932 il 10% della popolazione professava la religione ortodossa. Una percentuale oggi inferiore e non meglio precisata. Gli ortodossi libanesi in gran parte appartengono alla comunità greco-ortodossa. Sono presenti, con percentuali inferiori al 10%, i cattolici romani e in minor misura i cattolici di rito armeno. Poco meno del 2% invece appartiene alla famiglia protestante. Più o meno tutte le varie comunità cristiane sono rappresentate da partiti politici. I maroniti hanno come riferimento soprattutto le Falangi e le Forze Libanesi, ma dal 2005 sulla scena parlamentare si è affacciato anche il Movimento Patriottico Libero di Michel Aoun, attuale presidente della Repubblica. In parlamento sono presenti anche membri di partiti armeni e indipendenti appartenenti alle altre confessioni cristiane. Il punto di equilibrio, in un sistema che privilegia la suddivisione su base settaria degli incarichi, è stato raggiunto con gli accordi di Taif del 1989. Con quel documento, che ha sancito la fine della guerra civile, ai cristiani è stata riservata la metà dei seggi in parlamento, mentre l’altra metà è suddivisa tra sciiti, sunniti e drusi. Un compromesso che, unito alla conferma dell’attribuzione ai maroniti del ruolo di presidente della Repubblica, ha contribuito a far diminuire le tensioni. Ma i problemi non mancano. I cristiani, al pari del resto della popolazione, stanno patendo gli effetti di una lunga e deleteria crisi economica. Oggi a Beirut e in tutte le altre principali città del Paese, i principali servizi sono a rischio: manca il carburante, l’elettricità viene erogata per poche ore al giorno, il prezzo dei beni di prima necessità è alle stelle. Crisi politiche e mancanza di riforme hanno lasciato sul lastrico il Libano e questo, tra le altre cose, sta facendo sorgere il timore di nuovi scontri tra le varie comunità. I cristiani libanesi hanno quindi due sfide davanti a loro. Da un lato respingere le tensioni e, dall’altro, contribuire alla rinascita del Paese dei cedri. Obiettivi non semplici, anche considerato il mai domato spettro del terrorismo jihadista.

L’India e il cristianesimo: una storia antica e profonda. Andrea Muratore su Inside Over il 9 dicembre 2021. “Nel mondo milioni di cristiani continuano a vivere emarginati, in povertà, ma soprattutto discriminati e in pericolo. Dopo due anni di pandemia vogliamo tenere acceso un faro su questa oppressione e aiutare Aiuto alla Chiesa che Soffre Onlus a portare conforto e sostegno ai fedeli di tutto il mondo: in particolare coloro che vivono in Libano, Siria e India“.  La storia del cristianesimo in India è antica quasi quanto quella del cristianesimo stesso. Nella valle dell’Indo, da millenni, tutte le principali religioni dell’Eurasia hanno avuto modo di diffondersi, svilupparsi e influenzarsi reciprocamente, e la presenza cristiana risale ai tempi della predicazione dei primi discepoli di Gesù. Come in altri casi di predicazione la tradizione cristiana assegna un ruolo da apripista del cristianesimo in India a San Bartolomeo, che negli anni successivi all’Ascensione di Cristo avrebbe portato la parola di Gesù fino al subcontinente, e secondo Eusebio di Cesarea avrebbe lasciato in India copie del Vangelo di Matteo. Così come in altre tradizioni che indicano in Bartolomeo il primo predicatore cristiano in altre terre (Armenia, Etiopia, Mesopotamia), anche in questo caso la tradizione si mescola a fatti storicamente accertati. Nell’anno 52 dopo Cristo, meno di trent’anni dopo la morte di Gesù, uno degli apostoli, San Tommaso, avrebbe messo piede in India sbarcando a Kodungallur, dando vita a una predicazione che lo avrebbe portato al martirio presso l’attuale Chennai. Dunque, il cristianesimo si è stabilito in India persino prima che alcune nazioni europee divenissero cristiane. Diverse città della costa occidentale dell’India, principalmente nell’attuale Kerala, divennero sede episcopale. Kodugallore, Palayoor, Kottacave, Kokamangalam, Niranam, Chayal, Kollam furono solo alcune delle città in cui in India prese piede una versione particolare del cristianesimo siriaco. Essa si sviluppò in forma pressoché autonoma rispetto alle comunità che prendevano piede in Europa dall’età romana in avanti, pur aprendosi la strada sulla scia delle antiche rotte commerciali tra l’Impero Romano e l’India.

Come racconta Peter Frankopan nel saggio Le vie della seta, l’India fu una delle terre, assieme all’Asia centrale, in cui per secoli si strutturò una forma di cristianesimo totalmente ignorato nel Vecchio Continente, con comunità basate su diocesi, agapi e riti autonomi, il cui richiamo lontano portato da mercanti e viaggiatori alimentò in Europa leggende come quella del Prete Gianni, il misterioso sovrano cristiano d’Oriente associato a diversi regnanti nell’era medievale. L’unica certezza era che la tomba dell’apostolo Tommaso si trovasse in India, tanto che nell’883 Alfredo il Grande re del Sussex inviò doni e omaggi per commemorarlo.

Quando i portoghesi, in seguito all’impresa di Vasco da Gama, iniziarono a raggiungere l’India a fine XV secolo furono sorpresi di trovare sulle sue terre una comunità cristiana minoritaria a livello collettivo ma influente nelle comunità locali. Dopo aver subito persecuzioni ai tempi dell’invasione di Tamerlano e pur trovandosi in una posizione precaria sotto l’arbitrio dei raja di Calcutta e delle altre città i “cristiani di San Tommaso” risultavano influenti nello strategico commercio delle spezie che interessava fortemente i mercanti e gli esploratori al servizio di Lisbona.

Nei secoli, l’arrivo degli europei sedimentò una serie di evangelizzazioni profonde: dapprima i cattolici, con i Gesuiti di Francesco Saverio in prima linea nel XVI secolo assieme a Francescani e Domenicani, a cui dal Settecento fecero seguito i protestanti e, con l’arrivo degli inglesi, gli anglicani. A inizio Novecento anche diverse confessioni di orientamento statunitense, dai metodisti agli evangelici, inviarono missionari. 

Senza aver mai dato i propri crismi a nessuna delle dinastie o degli Stati che hanno dominato il subcontinente, il cristianesimo in India è da tempo la terza religione maggiormente professata dopo l’induismo e l’Islam. Il 2,30% della popolazione indiana, oltre 27 milioni di persone, nel 2011 si è dichiarato cristiano nel censimento nazionale, e i cristiani erano la maggioranza in tre Stati: Meghalaya (87.93%), Mizoram (87.16%) e Nagaland (74.59%), risultando inoltre il 20% in Kerala, lo Stato indiano coi più alti indici di sviluppo. Significativo il caso del Meghalaya, lo “Stato tra le nuvole” confinante con il Bangladesh nel quale, come ha scritto La Voce di New York, “da quando i missionari protestanti e cattolici hanno cominciato ad arrivare, spesso a rischio per la propria vita, il cristianesimo ha spesso preso il posto dell’antica religione monoteistica che privilegiava lo stretto rapporto tra la divinità e la natura, la lingua, da orale, è diventata scritta grazie all’aiuto del missionario gallese Thomas Jones”. Ma al contempo, la proliferazione del cristianesimo è stata fonte di valorizzazione delle culture locali: ” Nel 2000, ad esempio, l’ordine dei Salesiani ha aperto a Shillong il Museo Don Bosco della cultura indigena, che ha una splendida collezione di artefatti, strumenti originali e costumi delle varie tribù”.

L’India è una nazione con una storia profonda, complessa, millenaria. Una storia che affonda le sue radici nel mito e nella tradizione. Una storia, in ogni caso, plurale e articolata, in cui anche i cristiani hanno sempre potuto giocare un ruolo fondamentale. Il ruolo di pontieri, di edificatori di comunità plurali, di antidoto contro ogni fanatismo. Un ruolo pluralista, dunque, come plurale è la natura delle confessioni, che dalle formazioni di stampo europeo si allarga a una versione nazionale e antica della fede cristiana, che getta le sue radici nella storia stessa dei seguaci di Gesù. Tale insieme di tradizioni è innervato nella storia stessa dell’India e va preservato ad ogni costo. Per permettere all’India di mantenere intatta un’identità nel cui cuore profondo c’è spazio importante per il cristianesimo.

Persecuzioni in India: trecento attacchi contro i cristiani. Redazione Esteri Avvenire il 30 ottobre 2021. Oggi, alle 8.30, papa Francesco riceverà il premier indiano Narendra Modi, come confermato dalla Sala stampa della Santa Sede. Alla vigilia dell’incontro e dell’avvio del G20, diverse Ong cristiane hanno diffuso un rapporto che registra l’aumento delle violenze contro i fedeli durante il governo del partito nazionalista Bharatiya Janata (Bjp), vicino al radicalismo indù. Da gennaio, gli attacchi contro la minoranza sono stati oltre trecento, secondo quanto riferisce Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs). A favorire l’intolleranza, sostengono gli attivisti, contribuiscono le cosiddette leggi anti-conversione varate in otto dei 28 Stati indiani che puniscono con pene fino a 10 anni di cella la scelta di abbandonare l’induismo per un’altra religione. Le accuse di proselitismo nei confronti di sacerdoti sono spesso impiegate come strumento di repressione. A volte, perfino quelle di terrorismo, come dimostra il caso di padre Stan Swamy, morto il 4 luglio dopo 233 giorni di reclusione nel carcere di Taloja di Mumbai nonostante gli 84 anni e la grave forma di Parkinson. Insieme a sedici intellettuali e artisti – tutti difensori per i diritti umani –, padre Stan era stato arrestato con una sfilza di accuse palesemente false. A dar fastidio a proprietari terrieri e autorità la difesa degli indigeni Adivasi.

"Europa meretrice dell'islam". Spuntano gli inediti di Oriana Fallaci. Francesco Boezi il 6 Settembre 2021 su Il Giornale. Dalla disamina sull'Europa alle critiche feroci all'islam: stanno per essere pubblicate alcune riflessioni inedite di Oriana Fallaci. E sono attuali. Critica all'Occidente e disamina senza giri di parole sull'islam. Sappiamo quanto il pensiero di Oriana Fallaci, nell'ultima fase della sua opera letteraria, si sia concentrato su questi aspetti. E quelle due direttrici, accomunate da una visione strutturata e comune, hanno spesso viaggiato in parallelo nelle opere fallaciane. Senza alcuno conto, s'intende. Adesso, con alcuni scritti inediti che iniziano a balzare sulle cronache, le disamine della giornalista possono essere attualizzate con modalità e sottolineature più incisive. Perché è il mondo, con la crisi afghana e gli effetti che quella tragedia sta portando in dote, oltre alla crisi del cristianesimo e della civiltà occidentale che permea un po'tutto il contesto contemporaneo, ad offrire ai ragionamenti della Fallaci assist continui e prolifici sotto il profilo delle previsioni. Quelle che possono essere considerate come azzeccate. Il tutto tramite una pubblicazione che è prevista per il prossimo anno. Per qualcuno, a farla breve, siamo nel campo delle "profezie" o comunque delle letture previsionali. L'opera è intitolata "Oriana Fallaci inedita", mentre l'autore è il francescano Francesco Alfieri, che la Fallaci l'ha conosciuta eccome. Oltre il tumore che ha accomunato tanto esistenza del frate quanto quella della giornalista, si può intravedere una linea continua che passa dal rapporto che la scrittrice ha avuto con il cristianesimo nelle ultime fasi della sua esistenza. Non da credente, ma da aperta sostenitrice della necessità di tutelare l'identità cristiana-cattolica d'Europa. In un certo senso, da "ratzingeriana" convinta. Non ci si stupisce poi molto, dunque, leggendo gli estratti del testo inedito che sono stati riportati su Libero nella mattinata odierna. Oggi, in virtù del disastro occidentale in Afghanistan, si fa un gran parlare della necessità d'instaurare un dialogo con i talebani, mentre la Fallaci, con ogni probabilità, avrebbe ricusato ogni ipotesi in merito e magari si sarebbe scandalizzata per le modalità del ritiro, oltre che per l'abbandono di quel popolo. "Voi - annotata la storica inviata fiorentina - siete un'offesa alla logica, voi siete un'offesa alla Ragione, voi siete un'offesa alla Verità, voi siete un'offesa alla Vita. Voi siete i veri sostenitori del culto della morte". Il riferimento è all'islam in maniera generalizzata. Ma la feroce critica, come premesso, è concatenata a quella sul declino occidentale. Infatti la Fallaci, sempre in relazione alla religione islamica ed all'avvenire europeo, parlava di una "Europa vendutasi come una meretrice ai sultani, ai califfi, ai visir, ai lanzichenecchi del nuovo Impero Ottomano. Insomma l'Eurabia". Sono toni duri che la Fallaci dell'ultimo periodo ha spesso utilizzato. E giù pure con una serie di critiche dirette al dogma della dialettica obbligata che viene spesso ascritta alla gestione vaticana odierna, passando per le istituzioni sovranazionali, per l'"ecumenismo", per il "pacifismo", e per "l'umanitarismo". Parole di fuoco che avrebbero potuto incendiare, se pronunciate oggi, il dibattito attorno allo stato di salute del Vecchio continente, ma pure attorno quello degli Stati Uniti d'America. La fiorentina - questo è il succo della possibile attualizzazione - avrebbe tuonato con enfasi sulla fase odierna occidentale, che non avrebbe usufruito di troppi sconti, ad essere eufemistici. Poi la parte "ecclesiologica" degli inediti, per così dire, tramite cui la Fallaci diagnosticava alla Chiesa cattolica una debolezza insita nelle opzioni culturali e strategiche preferite da i "preti". "Voi - annotava la giornalista in chiave storico-culturale - chiedete scusa per il Medioevo". E ancora: "Chiedete scusa per le Crociate. Il Medioevo fu un'epoca luminosa, un'epoca che sostenne e sviluppò la nostra civiltà, sia in campo culturale, artistico, filosofico, religioso. Le Crociate furono la risposta ai loro 11 settembre, alle loro invasioni". Insomma, invece di presentare una rivalutazione di se stessa e delle proprie conquiste, la Chiesa cattolica, attratta dal pensiero debole, avrebbe finito per negare la propria storia. La frase che forse meglio riassume quale fosse la visione della Fallaci in materia di salute fideistica è questa: "In Italia i primi a vendere il cristianesimo sono stati i preti (salvo eroiche eccezioni)". Non sarebbe stata l'unica a pensarla così.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna.

Dal corriere.it l'8 novembre 2021. Un uomo ha ferito con un coltello tre persone, due delle quali in maniera grave, su un treno in Germania che collega la Ratisbona a quella Norimberga, nello Stato federale della Baviera. L’aggressore è stato arrestato dalla polizia e identificato come un uomo di 27 anni con problemi di salute mentale, ed è stato da subito escluso un movente terroristico del gesto. Secondo quanto riferisce il quotidiano tedesco «Bild», che attribuisce all’uomo «origine araba», l’attacco è avvenuto intorno alle 9: le forze dell’ordine sono potute intervenire subito perché due camionette delle forze speciali stavano andando verso Ratisbona per una partita di calcio. Il treno Intercity trasportava circa 300 passeggeri al momento dell’attacco. L’aggressore è stato trasferito in una stazione di polizia presso il comune di Seubersdorf, a sud-est di Norimberga. La polizia distrettuale dell’Alto Palatinato, che sta conducendo le indagini, ha confermato l’arresto nell’incidente ma non ha ancora confermato il numero dei feriti - che per la «Bild» sono tre - né ha rivelato il loro stato di salute. L’operatore ferroviario tedesco Deutsche Bahn ha chiuso temporaneamente la linea tra Norimberga e Ratisbona e la stazione di Seubersdorf, dove attualmente il treno è fermo.

Gb: Liverpool, comitato Cobra eleva allerta terrorismo. (ANSA il 16 novembre 2021) - Il comitato di emergenza Cobra, convocato oggi a Londra sotto la presidenza del premier Boris Johnson, ha elevato l'allerta terrorismo nel Regno Unito in seguito all'attentato di ieri a Liverpool. La minaccia passa da 'sostanziale' ad 'altamente probabile', come rende noto il governo britannico. L'indicazione è stata data a margine della riunione del comitato Cobra dall'organismo preposto, il Joint Terrorism Analysis Centre, o Jtac, ha spiegato ai giornalisti Priti Patel, ministra dell'Interno del governo Johnson. La decisione è legata ai due attentati dell'ultimo mese per i quali è stata indicata una matrice terroristica: l'uccisione a ottobre nel sud dell'Inghilterra di David Amess, deputato della maggioranza Tory alla Camera dei Comuni massacrato a coltellate mentre riceveva i suoi elettori da un giovane britannico di origini familiare somale, additato dalle indagini come un cane sciolto ispirato dal jihadismo islamico; e l'esplosione ieri in un taxi a Liverpool dell'ordigno artigianale che ha ucciso solo il presunto attentatore grazie alla prontezza di riflessi di un "tassista eroe". "Il Jtac ha ora innalzato il livello di minaccia (legata al terrorismo) da 'sostanziale' a 'grave' poiché quello di ieri è stato il secondo incidente in un mese" nel Regno, ha detto Patel. Il livello 'grave' (in inglese 'severe') è il quarto più alto in una scala di 5 e presuppone un rischio di attentati "altamente probabile". 

Gb: Johnson non ci faremo intimidire dal terrorismo. (ANSA il 16 novembre 2021) - I britannici "non si lasceranno intimidire" dal terrorismo. Lo ha detto il premier Boris Johnson reagendo a margine di un briefing sui vaccini anti Covid a Downing Street all'attentato di ieri a Liverpool. Johnson ha detto di non poter commentare l'accaduto a indagini in corso, ma ha confermato l'indicazione della polizia sulla matrice e la decisione d'innalzare l'allerta terrore nel Regno Unito da 'sostanziale' a 'grave', con minaccia "altamente probabile". Ha poi definito poi "esecrabile" l'esplosione avvenuta a Liverpool a bordo di un taxi, parlandone come di un monito al Paese a "restare vigile". 

Gb: moglie tassista Liverpool, 'fortunato ad essere vivo'. (ANSA il 16 novembre 2021) - "Circolano molte voci sul fatto che mio marito sia stato un eroe bloccando il passeggero nell'auto ma la verità è, senza ombra di dubbio, che è fortunato ad essere vivo". E' quanto si legge sul profilo Facebook attribuito a Rachel Perry, moglie di David Perry, il tassista rimasto lievemente ferito nell'attentato avvenuto ieri davanti ad un ospedale di Liverpool. Secondo alcuni media britannici, Perry avrebbe bloccato le portiere del suo veicolo per lasciarvi chiuso dentro l'attentatore giusto in tempo prima dell'esplosione, in teoria evitando che il presunto terrorista potesse uscire dal taxi e colpire all'interno dell'ospedale. Per questo è stato definito un "eroe" e anche le autorità del Regno Unito hanno encomiato la sua presunta azione coraggiosa. "L'esplosione è avvenuta mentre lui si trovava nell'auto e come sia riuscito a scappare è un assoluto miracolo. Aveva di sicuro qualche angelo custode che vegliava su di lui", si legge ancora sul post. Perry dopo le dimissioni dall'ospedale si sta riprendendo a casa dalle ferite lievi riportate e dallo shock subito. 

Da today.it il 16 novembre 2021. Nessun pian coordinato, "solo" l'azione di uno sbandato solitario, di origine araba ma senza alcun legame con il terrorismo internazionale, e anzi apparentemente psicolabile. Questa in sintesi la vicenda dell'attentato compiuto domenica a Liverpool, dove un uomo, Emad Al Swealmeen, di 32 anni, ha fatto esplodere un ordigno che aveva con sé all'interno di un taxi, perdendo la vita lui solo e ferendo il coraggioso tassista David Perry in modo non grave. Sono stati rilasciati senza alcuna accusa quattro giovani, tra 20 e 29 anni di età, fermati inizialmente come potenziali fiancheggiatori. Non esisteva nessuna cellula terroristica. 

Chi era Emad Al Swealmeen (detto Enzo)

Al Swealmeen è un giordano rifugiato da diverso tempo nel Regno Unito: in passato aveva tentato di farsi passare per siriano per ottenere asilo politico. In passato aveva minacciato dei passanti per strada con un coltello, nell'ambito di un episodio addebitato ai suoi disturbi mentali a quanto raccontato al Sun da Malcolm ed Elizabeth Hitchott, la coppia - un ex militare e sua moglie, impegnati in un'organizzazione caritativa cristiana. - che per un certo periodo l'aveva preso sotto tutela. Forse lo scorso weekend Emad si è voluto vendicare per la mancata concessione dell'asilo: obiettivo per il quale si era pure convertito - almeno formalmente - dall'Islam alla fede anglicana, nel 2017. Si è del resto saputo che il rifugiato giordano - passato durante l'infanzia in Iraq, terra di nascita della madre - aveva anche cercato di allontanare da sé le tracce delle proprie origini mediorientali fino al punto da farsi chiamare sui social media o in giro per Liverpool con un nome di sapore italiano: Enzo Almeni, scelto in onore di Enzo Ferrari. Era un grande fan delle auto veloci. Malcolm ed Elizabeth Hitchcott raccontano ai tabloid di "un giovane cosi' adorabile". "Voglio dire, ha vissuto qui per otto mesi, e noi vivevamo fianco a fianco. Non c'e' mai stato qualcosa che ci abbia fatto pensare male", ha raccontato ancora Hitchcott. "Era venuto per la prima volta in cattedrale nell'agosto 2015 e voleva convertirsi al cristianesimo: ha seguito un corso Alpha, che spiega la fede cristiana, e lo ha completato nel novembre di quell'anno. Ha potuto cosi' fare una scelta informata, e' passato dall'Islam al cristianesimo ed e' stato confermato ccristiano nel marzo 2017, poco prima di venire a vivere con noi. Era indigente in quel momento e lo abbiamo accolto". Ufficialmente le autorità non si sbilanciano sulle motivazioni del gesto.

Monica Ricci Sargentini per corriere.it il 15 novembre 2021. Mentre il Regno Unito commemorava solennemente i Caduti, a Liverpool un uomo si faceva esplodere in un taxi di fronte al Liverpool Women’s Hospital e non lontano dalla Cattedrale dove, di fronte a duemila persone, stavano per iniziare i due minuti di silenzio di rito. La Merseyside Police aveva inizialmente escluso una matrice a politica o religiosa ma oggi «l’incidente», come viene definito dagli investigatori, è stato dichiarato di natura terroristica anche se il movente è ancora sconosciuto. Ieri sera tre giovani uomini di 29, 26 e 21anni sono stati arrestati dalla polizia a Liverpool per violazione della legge britannica sul terrorismo (Terrorism Act). E un quarto è stato fermato questa mattina. Russ Jackson, capo dell’Antiterrorismo nell’Inghilterra del nordovest ha detto che l’ordigno usato era improvvisato: «Le indagini ora dovranno accertare come è stato costruito e se c’erano altre persone coinvolte». Ad evitare una strage sarebbe stato l’autista del taxi, Dave Perry, che è riuscito ad uscire in tempo dalla vettura e a chiudere il presunto kamikaze in macchina pochi secondi prima dell’esplosione. L’autista è stato dimesso poche ore dopo il ricovero per le ferite lievi riportate mentre il presunto attentatore è l’unica vittima. Perry ha raccontato che il passeggero era salito a Sefton Park ed era rimasto in silenzio fino all’arrivo davanti all’ospedale quanto l’autista ha notato che stava armeggiando con qualcosa e si è insospettito. Sui social il tassista è diventato rapidamente un eroe. Anche la sindaca della città Joanne Anderson ha voluto lodare il suo comportamento: «Coi suoi sforzi eroici è riuscito a evitare quello che avrebbe potuto essere qualcosa di terribile per l’ospedale. I nostri ringraziamenti vanno a lui e ai nostri servizi di emergenza». Per la Gran Bretagna è il secondo segnale d’allarme in poco tempo. Soltanto un mese fa il deputato conservatore Sir David Amess veniva ucciso in Essex per mano di un presunto sostenitore dell’Isis. Proprio mentre esplodeva quel taxi all’ospedale di Liverpool, a Londra al «Cenotaph» di Whitehall, l’intero establishment della politica e della monarchia britannica, con Boris Johnson e il Principe Carlo in prima fila, ricordava gli eroi delle guerre mondiali tra infinite corone di tradizionali papaveri rossi, simbolo della memoria e indossati dagli inglesi in questi giorni. Non può essere una casualità anche se Priti Patel, ministra dell’Interno del governo britannico di Boris Johnson, non si è sbilanciata sul potenziale movente dell’accaduto. «La polizia e i servizi di emergenza stanno lavorando duramente per stabilire cosa sia successo e dobbiamo dare loro il tempo e lo spazio necessari» a indagare, ha tagliato corto. «Siamo consapevoli del fatto che vi fossero in corso eventi del Remembrance Day a poca distanza, non possiamo al momento trarre conclusioni, ma è una linea d’indagine che stiamo seguendo», ha detto Jackson. L’ospedale e la zona dell’incidente restano transennati, con una forte presenza di polizia e di vigili del fuoco. Una dirigente della Merseyside Police ha precisato che la vittima è in via d’identificazione e che l’accesso al nosocomio rimane «ristretto fino a nuovo ordine». Ha inoltre invitato la cittadinanza a essere «calma, ma vigile». 

Ecco chi è l'attentatore di Liverpool. Federico Garau su Il Giornale il 15 novembre 2021. Occhi puntati su Liverpool (Inghilterra), dove da domenica mattina si è tornati a parlare di terrorismo. Dopo aver inizialmente pensato ad un incidente, le autorità locali hanno infatti rapidamente ricostruito le dinamiche di quanto accaduto dinanzi al Women's Hospital, e sarebbe già stato fatto il nome del presunto attentatore, tale Emad Al Swealmeen. Il 32enne, che viaggiava all'interno del taxi esploso, ha perso la vita in seguito alla deflagrazione.

Chi è il presunto attentatore

Nato da padre siriano e madre irachena, Emad Jamil Al-Swealmeen aveva trascorso gran parte della sua vita in Iraq, prima di arrivare nel Regno Unito. Il soggetto, a quanto pare, aveva addirittura cambiato nome, facendosi chiamare Enzo Almeni. Alcuni suoi amici, secondo quanto riferito dal DailyMail, hanno parlato di suoi problemi mentali. Arrivato nel Regno Unito da richiedente asilo, Al-Swealmeen aveva ricevuto il sostegno di alcuni volontari cristiani, poi, nel 2014, sarebbe stato arrestato e sanzionato dalla polizia per essere stato trovato in possesso di un coltello. Tutto è ancora da verificare, e l'ispettore capo Andrew Meeks si è rivolto alla popolazione nella speranza che qualcuno in possesso di informazioni possa parlare con la polizia. Al momento sappiamo solo che Al-Swealmeen non era un soggetto già controllato dalle autorità.

Che cosa è successo

L'allarme è scattato domenica mattina, intorno alle 11, quando un taxi posteggiato proprio davanti al Women's Hospital di Liverpool è esploso, provocando il panico. Poco prima della deflagrazione, il conducente del mezzo, evidentemente insospettito dal comportamento del passeggero, è riuscito ad uscire, salvandosi la vita. L'autista, un uomo di nome Dave Perry, è stato già dimesso dall'ospedale presso cui si trovava ricoverato a causa delle ferite. Le sue condizioni, infatti, non sono preoccupati. Scartata presto l'ipotesi dell'incidente, questa mattina le autorità locali hanno provveduto ad arrestare quattro persone considerate sospette - un 20enne, un 21enne, un 26enne ed un 29enne – servendosi della Terrorism Act (TA), una legge che permette alla polizia inglese di fermare e perquisire un individuo sospetto nel caso in cui sussista un ragionevole dubbio circa il suo coinvolgimento in attività terroristiche. Il racconto di Dave Perry, ha poi fatto maggiore chiarezza. L'autista del taxi ha infatti raccontato che il suo passeggero era salito a bordo della vettura all'altezza di Sefton Park, per poi chiudersi in un inquietante silenzio fino all'arrivo di fronte all'ospedale. Qui, il 32enne aveva cominciato ad armeggiare con qualcosa: comportamento che ha spinto il taxista ad uscire in fretta dal veicolo e rinchiudervi all'interno il personaggio sospetto. A seguito della terribile esplosione, una persona, oltre al presunto attentatore, ha perso la vita, mentre un'altra si trova in ospedale.

Enzo Almeni, ecco chi era il kamikaze di Liverpool: l'islam non c'entra? La più terrificante delle piste. Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. Prende sempre più corpo l'ipotesi che l'uomo che ha compiuto l'attentato a Liverpool - dove è rimasto ferito il coraggioso tassista David Perry - fosse uno sbandato, uno psicolabile, un solitario e che non avesse legami con il terrorismo internazionale. Anche perché Emad Al Swealmeen, di 32 anni, si era convertito al cristianesimo e si faceva chiamare Enzo. I suoi presunti "fiancheggiatori", quattro uomini tra 20 e 29 anni, sono stati rilasciati. E alla fine è morto solo lui. La verità sembra essere questa. Emad Al Swalmeen era un rifugiato di origine giordana che da tempo viveva nel Regno Unito. Aveva cercato di farsi passare per siriano per ottenere asilo politico ma le autorità, scoperto presto l'inganno, glielo hanno quindi negato. E probabilmente "Enzo" ha compiuto l'attentato proprio per vendicarsi della mancata concessione dell'asilo. Per ottenerlo si era convertito  alla fede anglicana, nel 2017. L'uomo, che aveva passato l'infanzia in Iraq, terra di nascita della madre, aveva fatto di tutto per mascherare le tracce delle proprie origini mediorientali fino al punto da farsi chiamare sui social media o in giro per Liverpool con un nome italiano: Enzo Almeni, scelto in onore di Enzo Ferrari e per la passione delle auto sportive.

"Allah akbar" poi le coltellate all'agente: a Cannes assalitore con permesso di soggiorno italiano. Ignazio Riccio l'8 Novembre 2021 su Il Giornale. L’episodio è accaduto questa mattina, intorno alle ore 6.30, a Cannes, davanti a un commissariato di pubblica sicurezza. Ha invocato il profeta Maometto prima di accoltellare un poliziotto, ma non ha fatto in tempo a portare a termine il suo disegno criminale, poiché è stato ferito gravemente da un altro agente di polizia. L’episodio è accaduto questa mattina, intorno alle ore 6.30, a Cannes, in Francia, davanti a un commissariato di pubblica sicurezza. L’attentatore, secondo le prime ricostruzioni, è spuntato improvvisamente dal nulla, ha aperto la portiera della vettura delle forze dell’ordine e ha aggredito uno dei poliziotti. In macchina erano presenti in tutto tre agenti, uno dei quali ha reagito sparando alcuni colpi di pistola all’indirizzo del criminale, ferendolo gravemente. Adesso l’uomo è in pericolo di vita ricoverato in ospedale. Si tratterebbe, come riporta il quotidiano Le Figaro, di un algerino si 37 anni e con permesso di soggiorno italiano, identificato come Lakhdar B. L'assalitore sarebbe entrato legalmente in Francia nel 2020 attraverso l'aeroporto di Nizza. Era sconosciuto alle forze dell'ordine. Non era seguito perché non considerato a rischio per la sicurezza dello Stato. L’agente accoltellato, invece, è stato salvato dal giubbotto antiproiettile, grazie al quale ha riportato leggere ferite. La notizia è stata resa pubblica dal ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin che ha scritto di Twitter: “L'aggressore è stato neutralizzato. Mi reco immediatamente sul posto questa mattina è garantisco tutto il mio sostegno alla polizia e alla città di Cannes”. Per l'attacco all'arma bianca contro il poliziotto, per il momento, si ipotizza la pista terroristica. Il sindaco della città, David Lisnard, ha specificato che l'attentato è avvenuto nei pressi della stazione di polizia centrale. Sull’episodio è intervenuto anche il primo cittadino di Nizza Christian Estrosi, il quale ha espresso la sua solidarietà agli agenti di Cannes. “In Francia c'è attualmente una banalizzazione del terrorismo”, ha affermato ai microfoni dell'emittente televisiva BfmTv la leader del Rassemblement National e candidata alle prossime elezioni presidenziali Marine Le Pen, commentando l'attentato di questa mattina. "Nel Paese – ha continuato l’esponente della destra –ci sono regolarmente dei tentativi di attentati, ma le persone schedate come sospette islamiste non sono espulse dalla Francia in modo sistematico".

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere

Da quotidiano.net l'8 novembre 2021. Avrebbe un permesso di soggiorno italiano l'uomo che questa mattina ha accoltellato un poliziotto a Cannes, in Francia. Secondo i media francesi si tratta di un algerino di 37 anni, Lakhdar B, domiciliato in città. "Sarebbe arrivato legalmente in Francia nel gennaio 2016 - scrive Le Figaro - e successivamente sarebbe andato a vivere in Italia, dove ha ottenuto diversi permessi di soggiorno di seguito".  Avventandosi contro l'agente avrebbe affermato di agire "in nome del Profeta". Si indaga per terrorismo. I fatti sono avvenuti questa mattina intorno alle 6.30. L'uomo ha aperto la portiera della volante fingendo di chiedere informazioni e ha aggredito con un coltello il poliziotto seduto al posto di guida, colpendolo al torace tre volte: l'agente si è salvato grazie al giubbotto antiproiettile. L'aggressore, sconosciuto alle forze dell'ordine, ha poi tentato di attaccare anche il collega seduto a fianco ma a quel punto l'agente ferito ha aperto il fuoco raggiungendolo con due proiettili alla schiena. Ha lesioni gravi. La notizia che arriva da Oltralpe si presta alla polemica politica. "Chiediamo chiarezza immediata da parte del Viminale - incalza il leader della Lega Matteo Salvini - soprattutto perché è ancora vivo il ricordo dell'attentatore di Nizza di un anno fa e che era sbarcato poche settimane prima a Lampedusa". Gli fanno eco da Fratelli d'Italia, con la deputata Ylenja Lucaselli: "È doveroso che il nostro governo, nello specifico il ministro Lamorgese, chiarisca tutti gli elementi del caso, coinvolgendo le forze politiche". 

I precedenti

In passato è già accaduto che i terroristi che hanno colpito in Francia o in altri Paesi europei avessero legami con l'Italia. E' accaduto, in particolare, con l'attentato al mercatino di Natale a Berlino, nel dicembre 2016, e con l'attacco nella cattedrale di Nizza nell'ottobre 2020. Nel primo caso si trattava del tunisino Anis Amri, che aveva trascorso diversi anni nel Belpaese, anche come detenuto in carcere; nel secondo caso l'autore era Brahim Aoussaoui, sempre tunisino, arrivato con i barchini a Lampedusa.

Dal corriere.it il 15 ottobre 2021. David Amess, parlamentare conservatore britannico, è stato accoltellato «ripetutamente» mentre stava incontrando gli elettori della sua circoscrizione in una chiesa nell’Essex, la Belfairs Methodist Church di Leigh-on-Sea. Secondo le prime notizie, rilanciate dall’agenzia Reuters, il parlamentare sarebbe stato accoltellato da un uomo che è entrato all’incontro e lo ha attaccato. Amess si trova in questo momento sottoposto a cure mediche sul luogo dell’accoltellamento. Le sue condizioni non sono al momento note. «È ancora all’interno della chiesa, non ci fanno entrare per vederlo. Sembra una situazione molto seria», ha detto il rappresentante dei Tories John Lamb. L’accoltellatore è stato arrestato, e la Polizia ha affermato di «non essere alla ricerca di altri sospetti». L’area intorno alla chiesa è stata circondata dalle forze dell’ordine. Amess, 69 anni, era stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 1983. Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, il parlamentare sul suo sito indica tra i suoi interessi «il benessere degli animali e le tematiche pro-life». Nel 2010 il parlamentare del Labour Stephen Times era sopravvissuto a un accoltellamento avvenuto durante un incontro con i suoi elettori. Nel 2016 Jo Cox, sempre del Labour, fu uccisa a pochi giorni dal referendum sulla Brexit.

Sir David Amess è stato ucciso «per terrorismo»: chi è il killer. Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2021. La polizia che indaga sulla morte del parlamentare conservatore David Amess parla di «una matrice potenziale legata all’estremismo islamico»: l’uomo arrestato, 25 anni, è un cittadino britannico di origini somale. L’indagine sulla morte di Sir David Amess, il parlamentare conservatore britannico ucciso venerdì 15 ottobre, a coltellate, mentre incontrava i suoi elettori in una chiesa metodista di Leigh-on-Sea, nell’Essex, è nelle mani delle forze antiterrorismo di Londra. Secondo quanto rivelato dalla Metropolitan Police in una nota emessa nelle prime ore di sabato, quello contro Amess è stato un attentato terroristico, e «le prime risultanze dell’indagine hanno rivelato una matrice potenzialmente legata all’estremismo islamico». L’uomo arrestato per l’omicidio è un 25enne che, secondo quanto rivelato da SkyNews e riportato dalle agenzie di stampa internazionali, sarebbe un cittadino britannico di origini somale. L’identità dell’arrestato non è al momento nota. Secondo quanto rivelato da alcune fonti al Guardian, l’uomo sarebbe stato in qualche misura già noto alle forze dell’ordine: il suo nome potrebbe essere nel database del Prevent scheme, il programma che raccoglie informazioni su soggetti considerati a rischio di radicalizzazione. La polizia britannica non sta dando la caccia a possibili complici del 25enne, ma nella mattinata di sabato sono state effettuate perquisizioni in due abitazioni a Londra. L’arma con cui Amess — 69 anni, cattolico, sposato e con 5 figli, parlamentare dal 1983, volto familiare della politica britannica nonostante non avesse mai avuto ruoli di governo, sostenitore della Brexit e dei diritti degli animali, antiabortista — è stato ucciso era stata recuperata subito dopo l’accoltellamento, che si è svolto in pochi secondi attorno al mezzogiorno di venerdì. Sir David si stava intrattenendo con i concittadini quando il killer è stato visto entrare di corsa nella chiesa, brandendo un coltello: l’uomo si è avventato contro di lui e lo ha colpito più volte. Inutili, benché immediati, i soccorsi: Amess è spirato prima che potesse essere trasportato in ospedale.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 18 ottobre 2021. Non si è trattato di un gesto folle scattato all'ultimo momento: l'assassinio di David Amess, il deputato conservatore ucciso venerdì a coltellate in una chiesa dell'Essex, è stato pianificato con almeno una settimana di anticipo. Infatti l'attentatore, il 25enne britannico di origine somala Ali Harbi Ali, si era prenotato per tempo per partecipare all'incontro con gli elettori organizzato dal politico nella sua circoscrizione di Leigh-on-Sea. E Ali ha preso un treno da Londra, dove abitava, per raggiungere il suo obiettivo. L'omicida, si è scoperto, è il figlio di un ex consigliere per la comunicazione del primo ministro della Somalia: «Sono traumatizzato - ha detto il padre al Sunday Times - ma tutto ciò non ha nulla a che fare col mio lavoro per il governo somalo». Ali viveva a Londra col padre nel quartiere benestante di Kentish Town, in una strada alberata fatta di case vittoriane che valgono anche due milioni e mezzo di euro: a poca distanza abita il leader laburista Keir Starmer, che è anche il deputato locale, e tra gli altri vicini c'è l'ex direttore del Guardian Alan Rusbridger e prima ci viveva pure la defunta ministra laburista Tessa Jowell, moglie dell'ex avvocato di Berlusconi. Insomma, l'epicentro londinese della sinistra intellettual-chic. Prima di trasferirsi lì da adolescente con la famiglia, Ali era cresciuto a Croydon, un sobborgo a sud di Londra, dove aveva frequentato la locale scuola anglicana. Pare anche avesse lavorato per il servizio sanitario. Gli investigatori ritengono che il killer sia un «lupo solitario» che si è radicalizzato da solo, probabilmente durante i lunghi mesi del lockdown, e che non abbia agito in complicità con altri. La polizia britannica è convinta che durante la pandemia molti soggetti vulnerabili, confinati nelle mura di casa, siano diventati facile preda della propaganda online. Tuttavia Ali, in passato, era già stato indirizzato al programma governativo volontario di prevenzione dell'estremismo noto come «Prevent»: l'anno scorso sono state 6 mila le persone raccomandate per «Prevent», di solito dopo che hanno postato commenti incendiari sul web. Ali non era comunque nel radar dei servizi segreti, che monitora attivamente oltre 3 mila persone in Gran Bretagna che si teme possano preparare attentati. Ma il suo gesto è stato qualificato ufficialmente come atto terroristico e la polizia ha scoperto «una potenziale motivazione legata all'estremismo islamico»: e c'è chi sospetta che Amess possa essere stato scelto come bersaglio per la sua proclamata fede cattolica. Ora gli investigatori passeranno al setaccio telefoni e computer del giovane Ali, oltre che esaminare eventuali viaggi all'estero. Anche se negli ultimi anni l'Isis ha ispirato (e rivendicato) attacchi ai quattro angoli del mondo, i servizi di intelligence ritengono che al momento le «filiali» di Al Qaeda in Africa - tra cui la Somalia - siano la maggiore fonte di reclutamento per aspiranti terroristi sul suolo britannico.

Deputato ucciso in chiesa da un somalo di 25 anni. Indaga l'antiterrorismo. Erica Orsini il 16 ottobre 2021 su Il Giornale. Londra. Il suo omicida l'ha colpito decine di volte prima di lasciarlo a terra in fin di vita. Sir David Amess, parlamentare eletto tra le file dei Conservatori nel collegio elettorale di Southend West, era impegnato in uno dei tanti incontri con i cittadini nella cittadina di Leigh-on-Sea, in Essex, quando un uomo ha iniziato a colpirlo con un pugnale. Gli agenti sono stati chiamati nella Chiesa Metodista dove si teneva la riunione poco dopo mezzogiorno. I paramedici dell'ambulanza arrivata nello stesso momento hanno tentato di fare il possibile per salvarlo, ma il parlamentare è morto prima ancora che si potesse trasportarlo all'ospedale. Al momento si sa che il presunto omicida è un uomo di 25 anni, somalo, arrestato immediatamente dopo l'arrivo della polizia, che ha anche recuperato l'arma del delitto. Ecco perché la guida dell'indagine, pur avvenendo in collaborazione con gli uomini della sede locale, è passata adesso all'anti-terrorismo. Secondo fonti ben informate del quotidiano Independent dietro l'omicidio c'è l'ipotesi di una matrice islamista. Al momento non è stato escluso alcun movente né che l'azione possa essere stata dettata da problemi psichiatrici dell'accoltellatore. Anthony Finch, un testimone sentito dai giornalisti televisivi di Sky News, ha raccontato che stava lavorando nell'edificio adiacente quando ha sentito una signora particolarmente turbata chiamare al telefono qualcuno e dire: «Dovete venire, presto. È ancora qui». Poi Finch ha visto arrivare degli agenti armati, un elicottero della polizia e un’aeroambulanza. La notizia ha lasciato una città sotto choc e il mondo politico fortemente turbato. Ieri, le bandiere del Parlamento e di Downing Street sono state abbassate a mezz'asta. Sir David aveva 69 anni e lascia una moglie e cinque figli. Nato a Londra, nel quartiere di Plaistow, prima di entrare in politica aveva lavorato come consulente nel settore del reclutamento di personale. Era un politico di lungo corso, con una carriera di 38 anni alle spalle, iniziata a Basildon nel 1983, prima di venir eletto rappresentante dei Tories per il Southend West nel 1997. Allevato nella fede cattolica, politicamente era noto come un conservatore sociale e un fervido anti-abortista. Si era a lungo impegnato nella difesa dei diritti degli animali e a favore della messa al bando della caccia. Era anche un promotore della Brexit e, sebbene non sia mai diventato ministro, faceva parte di numerose commissioni ministeriali, inclusa quella della Sanità e dell'Assistenza Sociale e quella degli Affari. «I nostri cuori sono pieni di sgomento e tristezza - ha detto ieri il premier Boris Johnson - Sir David era una delle persone migliori del mondo della politica. Oggi perdiamo un ottimo servitore del popolo, un amico e un amato collega». Secondo il leader laburista Sir Keir Starmer «aveva un profondo senso del servizio pubblico ed era rispettato e amato da ogni parte politica all'interno del Parlamento». «Oggi è un giorno particolarmente cupo, soprattutto perché ci siamo già passati - ha dichiarato Starmer, alludendo all'omicidio della collega di partito Jo Cox, avvenuto cinque anni fa in circostanze molto simili. Anche per questo si è riaperto il dibattito sulla sicurezza dei membri del Parlamento, che dispongono di una protezione adeguata a Westminster, mentre rimangono totalmente scoperti quando operano nei loro collegi elettorali.

L'omicidio che scuote l'Inghilterra. Chi era David Amess, il deputato inglese ucciso in chiesa a coltellate. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Il primo ministro inglese Boris Johnson lo ha ricordato come “una delle persone più gentili e cordiali in politica”, un uomo “che credeva con passione in questo Paese e nel suo futuro”. Era questo, per il numero uno di Downing Street, il deputato conservatore David Amess, il 69enne ucciso oggi mentre era all’interno di una chiesa metodista di Leigh-on-Sea, nell’Essex, sud-est dell’Inghilterra. Amess, veterano della politica e del Parlamento, era diventato deputato nel lontano 1983 e rappresentava il collegio elettorale di Southend West dal 1997. Pur non avendo mai avuto ruoli di governo, Amess è stato protagonista della campagna pro Brexit e autore di campagne anti-aborto e animaliste. Sposato e padre di cinque figli, David Amess è stato ucciso mentre era impegnato in un incontro con i suoi elettori, una cosiddetta “constituency surgery”. Ad accoltellarlo a morte è stato un 25enne, che secondo alcuni media britannici sarebbe di origini somale. Nelle indagini sull’omicidio è coinvolta anche la polizia antiterrorismo, anche se l’inchiesta al momento continua ad essere condotta dalle forze di polizia dell’Essex: una prassi, quella del coinvolgimento dell’antiterrorismo, almeno fino a quando non emergerà un movente estraneo a fatti di terrorismo. Le sue posizioni politiche erano vicine all’ala più radicale dei Tory: tra i più ferventi sostenitori della Brexit, la sua fede cattolica lo aveva spinto su posizioni anti abortiste e contro ogni estensione dei diritti nei confronti di gay, lesbiche e trans, tanto da scontrarsi su questo con la maggiore delle cinque figlie, l’attrice Katie. Amess aveva anche espresso posizioni favorevoli al ripristino della pena capitale, mentre era forte il suo impegno in favore di campagne animaliste. La morte di Amess arriva a soli cinque anni da quella di Jo Cox, deputata laburista uccisa nel 2016. L’esponente del Labour venne uccisa il 15 giugno di cinque anni da Thomas Miar, arrestato dalla polizia poco dopo l’omicidio: Cox venne aggredita in strada al termine di un incontro elettorale, col 52enne estremista che le sparò e la ferì ripetutamente con un coltello. L’omicidio del deputato conservatore ha anche riaperto il dibattito in Inghilterra sulla protezione in favore dei parlamentari. La ministra degli Affari interni britannica Priti Patel ha detto che fornirà un aggiornamento sulla questione della sicurezza dei membri del governo del Regno Unito e dei suoi parlamentari. In un post su Twitter, unendosi al cordoglio dei politici per la morte di Amess, Patel ha aggiunto: “Mi stanno arrivando domande sulla sicurezza dei nostri rappresentanti di governo e provvederò a dare al più presto le dovute risposte”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il silenzio su Sir Amess e il solito doppiopesismo dei commentatori. Francesco Boezi il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Pochissimi interventi sulla morte di Sir David Amess. I grandi opinion maker restano in silenzio, ma in altri casi non è stato così. Perché? L'uccisione di Sir David Amess ha prodotto un quantum d'inchiostro giornalistico rivedibile. Si direbbe una forma di silenzio. Sull' omicidio di Jo Cox, ai tempi, sono invece intervenuti tutti. Sono episodi simili, ma fanno notizia in modo diverso. E pure in questo caso, purtroppo, il pregiudizio sembra riguardare l'appartenenza politica di questo o di quell'esponente, oltre che la narrativa maggioritaria presente sui media del Belpaese. Sir David Ammess era solo un conservatore, quindi il fatto che sia stato trucidato può passare con scioltezza in secondo piano. Non era accaduto, e non sarebbe potuto accadere, per la morte di Jo Cox, cui è stato giustamente dedicato uno spazio importante dei commenti dell'epoca. Certo però che queste forme di doppiopesismo possono infastidire e soprattutto lasciano pensare. Un po' perché le aggressioni omicide sono aggressioni omicide e basta ed andrebbero trattate al netto del segno politico che possono caratterizzarle. E un po' perché la notizia di un politico morto "per matrice terroristica legata al terrorismo islamico" - come riportato dalle agenzie - peraltro all'interno di un contesto che riguarda una chiesa, non dovrebbe trasformarsi in un trafiletto o in una registrazione redazionale di passaggio. Un fenomeno - questo - che non può essere accettato da chi intravede dilagare il "due pesi e due misure" come regola fissa nel nostro Paese. Su Sir David Amess, ne siamo abbastanza certi, non si esprimeranno i grandi costruttori dell'opinione nazionale né assisteremo a speciali televisivi e ad iniziative simili. In fin dei conti, a morire, è stato solo un conservatore. E qualche battuta tra un silenzio ed un altro basta e avanza. Se la grande stampa se ne dimentica o quasi, ci pensa la base a rimettere a posto le cose: "Mentre #sindacati e @EnricoLetta perdono tempo a parlare di #Fascismo, l'omicidio di #SirDavidAmess ci ricorda che il nemico principale delle democrazie occidentali resta l'Islam che si espande nel Pianeta con ferocia e mire di conquista", ha scritto un utente su Twitter. Uno che non sarà Roberto Saviano, per citare qualche opinionista di grido, ma che ci tiene comunque a dire la sua. Un altro parla di cittadinanza consegnata agli islamici e della necessità di buttare la chiave. Non saranno pensieri profondi, e saranno magari conditi da qualche errore interpretativo e da qualche semplificazione, ma sono tra le poche voci italiane che si leggono in relazione a questa vicenda sulla piattaforma dei cinguettii. La stessa su cui i commentatori tendono a divampare, tracciando le rotte delle priorità politiche peraltro. Eppure, di elementi per un vero e proprio choc occidentale, ce ne sarebbero: la matrice ed il contesto, appunto. Per non parlare dell'attacco sferrato nei confronti di un esponente che rappresentava un'istituzione. Oriana Fallaci sì: lei sarebbe, con ogni probabilità, intervenuta in modo deciso sull'episodio tragico, scuotendo la coscienza italiana e pure quella occidentale. Ricordando a tutti quali e quanti pericoli derivino da un'integrazione che non presenta più filtri. Ma la Fallaci non c'è più e dobbiamo procedere con molta più umiltà a segnalare quanto possa essere pericoloso un accoltellamento raccontato in sordina. La Gran Bretagna non è poi così distante e questa è una di quelle circostanze in cui dovremmo essere tutti chiamati a raccolta per una riflessione condivisa. Ma a dominare, in Italia, se non è il silenzio è qualcosa che gli somiglia molto: Sir David Amess è morto accoltellato da un terrorista e a pochi sembra interessare per davvero.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione int

Chi è il somalo che ha ucciso Amess Ritorna la paura dei lupi solitari. Affari Italiani il 17 ottobre 2021. Si chiama Ali Harbi Ali, l'uomo arrestato per l'uccisione di Sir David Amess, il deputato conservatore ucciso venerdì mentre incontrava i suoi elettori in una chiesa, la Belfairs Methodist Church a Leigh-on-Sea, vicino a Southend. Gli inquirenti potranno trattenerlo per interrogarlo fino al 22 ottobre ai sensi del Terrorism Act. Si tratta di un 25enne britannico di origine somale il cui padre, secondo il Daily Mail, è un ex membro del governo somalo. Ali avrebbe vissuto nel passato nel collegio elettorale di Sir David, Southend West, nell'Essex, ma più di recente si sarebbe trasferito a Londra, in un quartiere residenziale, dove le case costano fino a 2 milioni di sterline. Il 25enne era noto all'antiterrorismo, inserito alcuni anni fa in Prevent, il programma de-radicalizzazione del governo. Per gli inquirenti si tratta di un 'lupo solitario': ha agito da solo magari ispirato dai jihadisti di al-Shabaab, il gruppo terroristico nato da una costola di al-Qaeda e che opera tra Somalia e Kenya. Si sta anche valutando se possa essersi radicalizzato online durante il lockdown. Le moschee della località inglese di Southend, che era rappresentata da Amess, hanno definito il suo omicidio  un'"atrocità indifendibile".  In una nota congiunta, i leader religiosi hanno denunciato l'aggressione "brutale e senza senso", ricordando che il parlamentare 69enne era un "grande amico della comunità musulmana". I firmatari hanno raccontato che Amess, cattolico praticante, usava partecipare a eventi come matrimoni, aperture di moschee, persino il lancio del primo gruppo scout musulmano della cittadina; ed era "un pilastro" della comunità locale. "L'omicidio di 'Sir' David è un'atrocità indifendibile, commessa all'interno di un tempio, e noi la condanniamo nei termini più duri possibili", si legge nella nota. "Questo atto è stato commesso in nome dell'odio cieco e vogliamo che l'autore sia assicurato alla giustizia".    Intanto nel Ragno Unito il lutto per l'omicidio riunisce maggioranza e opposizione. Il primo ministro Boris Johnson e il leader dell’opposizione laburista, Kier Starmer, sono arrivati insieme sul luogo del delitto. Seguiti a poca distanza del ministro dell’Interno Priti Patel, hanno deposto dei fiori e osservato, uno di fianco all’altro, un minuto di silenzio. Nel Paese inoltre il dibattito sulla sicurezza dei parlamentari è all’ordine del giorno. Se da una parte ci si interroga sull’opportunità di continuare a esercitare, in questo clima, la cosiddetta attività di constituency surgery, e cioè i periodici incontri faccia a faccia con i cittadini del proprio collegio elettorale, dall’altra sono in tanti i parlamentari che desiderano portarla avanti. Ad esempio, Robert Largan e Alec Shelbrooke, deputati conservatori, hanno entrambi incontrato i loro elettori. Quest’ultimo ha twittato: “Non possiamo lasciare che eventi come questo riducano la profonda relazione che abbiamo con i nostri elettori. È una relazione veramente importante e desidero che i miei concittadini, che mi abbiano votato o meno, possano avvicinarmi per le strade, nei pub, al supermercato o in una delle mie surgery”.

Se l'ammazzato è conservatore allora vale meno. Una vita è sempre una vita e contro il terrorismo non si accettano compromessi. Gian Micalessin su Il Giornale il 17 ottobre 2021. Una vita è sempre una vita e contro il terrorismo non si accettano compromessi. Belle parole. Anzi, principi immortali. Peccato che nei notiziari televisivi e sulle pagine dei giornali anche vita e morte, al pari di indifferenza e indignazione, finiscano poi con l'adeguarsi al metro del politicamente corretto. Così, quando a finire ammazzata dalla pistola e dal coltello di un fanatico nazionalista inglese è stata la deputata laburista Jo Cox, caustica avversaria della no-Brexit e coraggiosa esponente del pensiero progressista inglese, lo sdegno ha subito coinvolto e sconvolto, i media di tutto il mondo. E, nel giro di qualche ora, quel delitto è diventato apertura obbligata per telegiornali e quotidiani. Quando, invece, il terrorismo è tornato a metter piede in Gran Bretagna colpendo un autorevole deputato conservatore e cattolico ammazzato nell'alveo, già di per sé simbolico e sacrilego, di una chiesa, il mondo mediatico è sembrato tentennare. Come se alla prova dei fatti il corpo straziato di un conservatore di destra non valesse quanto quello di una donna laburista e di sinistra. Così, fino a quando alla notizia dell'uccisione di Sir David Amess non si è aggiunta la certezza di una connotazione terroristica tutto è sembrato restare sotto tono, quasi ignorabile. O, perlomeno, ridimensionabile. Come se, in base a principi e valori correnti, la vita di un politico fastidiosamente conservatore, vetustamente religioso e troppo sollecito nel difendere gli animali anziché i migranti, fosse ideologicamente meno rilevante, umanamente meno significativa e giornalisticamente meno importante. Per restituire dignità a quella morte, indignazione al sangue versato sul sagrato e peso alla notizia c'è voluta l'aggravante del terrorismo. La mano assassina era quella di un integralista islamico di origini somale, radicalizzato, ma pare non ancora attenzionato da Scotland Yard. Però nel mondo largamente «liberal» dei media anche esecrazione e condanna hanno i loro tempi. Sono immediate e quasi istintive se l'assassino, spinto da trumpiane pulsioni, affonda il coltello urlando «England first». Vanno valutate, soppesate ed elaborate, sforzandosi di non offendere l'islam, quando l'assassino ulula «Allah è grande». Ma attenzione, l'indignazione a comando, sensibile solo alle luci verdi del politicamente corretto, è assai pericolosa. Soprattutto quando si applica alle vittime di un terrorismo che non fa distinzioni e considera eliminabili tutti gli «infedeli» colpevoli di non credere alla predicazione di Maometto. Anche perché, come tende volentieri a dimenticare chi teme di offendere il mondo musulmano, le vittime preferite del «politicamente corretto» islamista, di moda non solo nell'Emirato talebano, ma anche in tanti Paesi islamici, restano le donne, gli omosessuali e le minoranze etniche e religiose. 

Stefano Piazza per "la Verità" il 19 ottobre 2021. L'indagine sulla morte di sir David Amess, il parlamentare conservatore britannico ucciso venerdì 15 ottobre con 17 coltellate mentre incontrava i suoi elettori in una chiesa metodista di Leigh-on-Sea, nell'Essex, è ora di competenza dell'antiterrorismo di Londra. L'uomo arrestato per l'omicidio è Ali Harbi Ali, un venticinquenne britannico di origine somala arrivato con la famiglia nel Regno Unito dalla Somalia negli anni Novanta, già noto alle autorità come persona radicalizzata e da tempo inserito nella lista Prevent violent extremism che ha «lo scopo di impedire che le persone diventino terroristi o sostengano il terrorismo». L'uomo è figlio di Harbi Ali Kullane, un ex portavoce del primo ministro della Somalia che divide il suo tempo tra Londra e Nairobi, il quale ha confermato che suo figlio era sotto custodia della polizia dopo l'accoltellamento e si è detto «traumatizzato dall'arresto». Ali Harbi Ali è cresciuto con la famiglia in un quartiere lussuoso fatto di case a tre piani che costano in media 2 milioni di sterline e dove i vicini sono una serie di personaggi noti della televisione britannica. Allo stato attuale la polizia inglese avrebbe escluso l'intervento di eventuali complici, anche se nella giornata di sabato 16 ottobre sono state perquisite tre case a Londra, mentre l'arma con la quale è stato ucciso sir David Amess, 69 anni, parlamentare dal 1983, già segretario onorario dei Conservative friends of Israel dal 1998 e descritto come un sostenitore della comunità ebraica britannica, è stata recuperata nella chiesa accanto a Ali Harbi Ali. Il giovane, invece di darsi alla fuga dopo l'attacco pianificato da una settimana, si è seduto e ha aspettato con calma l'arrivo della polizia. Il ministro degli Interni, Priti Patel, dopo l'assassinio ha chiesto a tutte le forze di polizia di rivedere le disposizioni di sicurezza per i parlamentari «con effetto immediato». Difficile però proteggersi dalla furia degli islamisti, specie quando agiscono da soli in un Paese dove l'islam radicale dilaga ormai da decenni e dove spuntano di continuo moschee e associazioni che finiscono sotto il controllo della Fratellanza musulmana e di molte altre sigle estremiste, tra le quali c'è anche la pericolosissima setta dei Deobandi. Di quest' ultima fanno parte anche i talebani afghani, che in Inghilterra controllano almeno 738 delle 1.600 moschee presenti. I musulmani nel Regno Unito sono ormai più di tre milioni secondo la rilevazione del 2020 dell'Office for national dtatistics (Ons). La maggioranza dei musulmani britannici è pacifica e religiosamente osservante e la comunità cresce continuamente di numero anche grazie alle conversioni, che sono triplicate negli ultimi dieci anni, raggiungendo quota 100.000, con una media di 5.200 all'anno (dati 2019). La città che da tempo registra il maggior numero di conversioni alla religione maomettana è Londra, dove ogni anno 1.400 persone scelgono l'islam. Per capire le ragioni di questa esplosione occorre osservare l'andamento demografico: il censimento 2011 ha rivelato che l'età media dei musulmani è di 25 anni, mentre quella dei cristiani è di 45. Come spiegarlo? Semplice: i musulmani fanno più figli, molti più dei cristiani. Va inoltre aggiunto che la politica d'immigrazione e d'integrazione britannica negli ultimi anni ha favorito un vero e proprio boom degli arrivi dai Paesi musulmani, in particolare dal Pakistan. È evidente che, se questo trend dovesse essere mantenuto, tra meno di dieci anni la maggioranza dei cittadini britannici sarà di fede musulmana, e di questi l'80% sarà nato da immigrati. Già oggi i fedeli musulmani sono più numerosi degli anglicani: ogni settimana la preghiera islamica del venerdì riunisce quasi un milione di musulmani, mentre, secondo le più recenti statistiche della Chiesa d'Inghilterra, sarebbero solo 938.000 gli anglicani che partecipano alla messa domenicale. Le moschee a Londra sono più di cento e sono in continuo aumento le richieste per costruirne di nuove. Chi le finanzia? Arabia Saudita e Qatar. Come la Moschea centrale, che è stata costruita con finanziamenti diretti della famiglia reale saudita. L'Inghilterra però si è accorta solo dopo molto tempo di dover fare i conti anche con l'estremismo islamico salafita, cresciuto grazie a predicatori del male come Anjem Choudary, avvocato di origine pakistana e allievo prediletto dell'ex predicatore della moschea di Finsbury Park, Abu Hamza Al Masri, che sconta negli Usa due ergastoli e altri 100 anni per nove capi di terrorismo, senza possibilità di libertà condizionale. Choudary, fondatore di quasi tutti i gruppi islamisti inglesi tra i i quali Al-Muhajiroun e Islam4Uk, ha organizzato per decenni manifestazioni di protesta che avevano come fine ultimo la richiesta di imporre la sharia nel Paese. Inoltre ha incoraggiato e ha dato supporto ai giovani che volevano partire per la Siria e l'Iraq, ed esulta pubblicamente a ogni attentato, giustificando le stragi dell'11 settembre 2001 fino a quelle di Londra del 2005 e altre ancora. Oggi, dopo l'ennesimo soggiorno in carcere (è uscito nel 2019), si è fatto più cauto a livello mediatico ma non ha certo rinunciato alle sue idee. Con lui sono cresciute figure come Mizanur Rahman, Yasser Al-Sirri, Abu Haleema alias Shakil Chapra, Mohammed Shamsuddin, Abu Qatada Al-Filastini, Omar Bakri Muhammad, Abdullah El-Faisal e molti altri.L'intelligence britannica attualmente sta monitorando più 30.000 persone, delle quali circa 3.500 sono ritenute essere estremisti islamici pronti a compiere attacchi nel Regno Unito. L'Mi5, il servizio interno, stima che più di 800 cittadini britannici sono andati a combattere nel «Siraq»: molti di loro sono diventati star della propaganda islamista. Ma l'intelligence non si fornisce le cifre di coloro che sono rientrati. A proposito di numeri: dei trentamila che rappresentano una minaccia terroristica per lo Stato, oltre il 10% sarebbe pronto all'atto di forza. A fomentarli di continuo sono centinaia di «predicatori del male» liberi di spargere l'odio nelle strade della Gran Bretagna, sul Web, nelle tv e radio islamiche e nelle carceri, dove i casi di radicalizzazione non si contano più, così come gli attentati sventati. L'emblema del fallimento inglese però è rappresentato dalle «Sharia Court», le Corti islamiche che ammontano ormai a un centinaio nel Paese. Le principali si trovano a Londra, Birmingham, Bradford, Manchester e Nuneaton. Mentre sono già iniziati i lavori per istituirne di nuove a Leeds, Luton, Blackburn, Stoke e Glasgow. Fino a poco tempo fa queste Corti erano un mistero per gli stessi britannici; solo nel 2013 la Bbc (con un documentario dal titolo The secrets of Sharia courts) ha rivelato al grande pubblico l'esistenza di questo sistema legale parallelo al quale fanno riferimento sempre più musulmani britannici e, cosa ancora più sorprendente, anche cittadini britannici che ritengono la sharia un sistema giuridico sbrigativo ed efficace. Il primo tribunale islamico in Gran Bretagna fu creato nel 1982 a Leyton (est di Londra) con il nome di Consiglio della sharia islamica. Tutto si svolge nella riservatezza più totale. Le Corti analizzano e giudicano molte materie, tra le quali la poligamia, il ripudio della moglie (talaq), l'eredità, l'affidamento dei bambini e molti altri aspetti della vita di un musulmano. Si attivano anche nel caso di matrimoni misti, atto ritenuto gravissimo a meno che non vi sia un'immediata conversione all'islam del coniuge appartenente a un'altra religione. Intervengono e legiferano anche su questioni inerenti temi in cui le donne sono gravemente discriminate. A sovraintendere il lavoro dei tribunali della sharia è Suhaib Hasan, decano e segretario generale delle Corti islamiche britanniche, nonché membro del Cerf (Consiglio europeo della fatwa e della ricerca) diretto dal religioso Yusuf Qaradawi, membro dei Fratelli musulmani al quale in passato le autorità britanniche hanno negato il permesso di entrare nel Paese. Nel suo statuto, il Cerf sancisce che la sharia non può essere emendata per conformarsi all'evoluzione dei valori e dei comportamenti.La denominazione macchiettistica «Londonistan» è riduttiva rispetto alla realtà di certi quartieri della capitale, così come a quella di molte altre città britanniche dove è forte la presenza dell'islam radicale. In alcune zone si trovano cartelli o adesivi sui lampioni che mettono in guardia chi entra: «Stai entrando in un'area controllata dalla sharia». Simili segnali allarmanti si trovano a Liverpool, Manchester, Leeds, Birmingham, Derby, Bradford, Dewsbury, Leicester, Luton e Sheffield. Senza dimenticare Waltham Forest, a Nord di Londra, e Tower Hamlets, nella parte più orientale della capitale britannica. Si tratta d'intere aeree nelle quali il martellante lavoro dei predicatori salafiti con la loro dawaa al jihad, ovvero «chiamata al combattimento», ha fatto breccia. Essendo quartieri finiti sotto il controllo della sharia, guai ad attraversarli senza velo e vestiti castigatissimi se si è donne. E guai agli uomini sorpresi con bottiglia di birra o sigaretta in mano: si rischia di esser circondati dalla «sharia police» che, tra insulti e minacce, farà passare ai malcapitati un brutto quarto d'ora. Ma è il multiculturalismo bellezza.

Il parlamentare ucciso da un terrorista islamico "Ora tutelate i politici". Erica Orsini Il Giornale il 17 ottobre 2021. Londra. Un vero gentleman inglese, cortese con chiunque, e uno dei più grandi difensori dei diritti degli animali. Così viene descritto il deputato conservatore David Amess, il parlamentare britannico ucciso venerdì da un uomo in quello che viene considerato da Scotland Yard un attacco terroristico riconducibile all'estremismo islamico. L'aggressione è avvenuta a Southend-on-Sea, un piccolo paese dell'Essex, nella costituente di Southend West che Amess ha rappresentato in Parlamento dal 1983 fino alla sua morte. Il deputato stava incontrando i cittadini quando è stato ripetutamente pugnalato da un cittadino britannico di origini somale, che l'ha lasciato agonizzante a terra ed è stato arrestato subito dopo dalla polizia senza opporre resistenza. Il ragazzo, la cui identità non è ancora stata resa nota, si trova attualmente in custodia e, secondo quanto rivelava ieri il Guardian, gli inquirenti avrebbero deciso di collegare il suo gesto all'estremismo islamico da alcune dichiarazioni che avrebbe fatto mentre lo stavano portando via. Si sta vagliando ogni movente possibile del terribile atto. La polizia non sta cercando nessun altro complice, anche se ieri ha perquisito due abitazioni private a Londra e al momento non sono pervenute reazioni significative da parte del mondo jihadista. Non sembra neppure che il nome dell'uomo fosse inserito nella lista delle persone i cui movimenti vengono costantemente monitorati dalla polizia in quanto a rischio di radicalizzazione. Al vaglio anche le condizioni di salute mentale in quanto una delle ipotesi più accreditate rimane quella del cane sciolto, con un disagio mentale pregresso. Ieri sul luogo dell'incidente si sono recati il Premier Britannico Johnson, il ministro degli Interni Piri Patel, il leader laburista Sir Keir Starmer e la Speaker della Camera Sir Lindsay Hoyle. Patel, che era amica personale di Amess, ha richiesto alle forze dell'ordine una revisione immediata di tutte le misure di sicurezza annunciando che altre verranno attivate «per consentire ai parlamentari di svolgere il proprio lavoro». Su questo punto, l'omicidio di Amess, avvenuto a cinque anni da quello della collega laburista Jo Cox, che venne ammazzata a Londra a colpi di machete in una situazione identica, ha riaperto un dibattito molto sentito. «Nei prossimi giorni dovremo parlare in Parlamento di quali misure di protezione debbano essere prese», ha dichiarato ieri la Speaker Hyole, ma non sarà così semplice. Soprattutto nei piccoli paesi come Southend-on-Sea, i politici preferiscono avere un contatto diretto con i cittadini, non filtrato da controlli di polizia che possano scoraggiare le relazioni tra politica e gente comune. Così, mentre da una parte alcuni come l'ex ministro conservatore Tobias Elwood raccomandano ai colleghi di limitarsi a contatti via Zoom, altri sono determinati a continuare a lavorare come ha sempre fatto lo stesso Amess, rimanendo a fianco di chi rappresenta in Parlamento. Ieri una folla si è recata a deporre dei fiori, a raccontare episodi, ad abbracciarsi, davanti alla Chiesa Metodista di Belfairs dove David è stato ucciso. «Lui piaceva a tutti, indipendentemente dal colore politico», ha raccontato al Guardian Robert, un abitante dell'area - era estremamente presente nella comunità, un uomo caritatevole e attento che si sforzava di essere sempre presente ai nostri incontri». Per anni, Amess ha portato avanti le sue campagne locali, come quella sulla promozione a città del collegio elettorale di Southend-on-Sea, una battaglia che probabilmente vincerà adesso, da morto. E mentre tutti si stringono solidali attorno alla moglie e ai suoi cinque figli, il livello di allerta nel Paese riguardo a eventuali possibili attentati rimane, per ora, invariato.

Da Corriere.it il 9 novembre 2021. Un uomo a torso nudo ha cercato di aggredire alcune persone con un coltello nella zona di Bislett, a Oslo , ed è stato ucciso dagli agenti. Lo ha detto il direttore delle operazioni di polizia, Tore Solberg, alla Norwegian Broadcasting (Nrk). L’aggressore è stato portato all’ospedale di Ulleval dopo che la polizia gli ha sparato ed è morto per le ferite riportate. Solo un agente sarebbe rimasto ferito, in modo non grave. «Una pattuglia era vicina» al luogo dell’aggressione e per questo è riuscita a fermare l’uomo, ha detto il capo della polizia Torgeir Brenden citato dai media norvegesi. «All’inizio gli agenti hanno cercato di investirlo quando ha cercato di accoltellare una persona», ma «l’auto della polizia si è scontrata con un muro ed è in questo frangente che gli agenti sono stati aggrediti dall’uomo». «Non escludiamo alcun motivo, ma in questa fase non c’è nulla che indichi che si tratti di un attacco terroristico», ha detto ai giornalisti l’ispettore di polizia Egil Jorgen Brekke. Secondo alcuni testimoni l’aggressore avrebbe urlato «Allahu Akbar» durante l’attacco. Ma si tratta di dichiarazioni da verificare. Secondo il quotidiano norvegese Verdens Gangè, l’aggressore sarebbe un russo sulla trentina che è stato obbligato, nel dicembre 2020, a sottoporsi a cure psichiatriche dopo un attacco con un coltello compiuto un anno prima, sempre a Oslo. I video dei testimoni diffusi sui social media mostrano il sospetto a torso nudo e armato di un grosso coltello. Meno di un mese fa, a Kongsberg, nel sud della Norvegia, un 37enne armato di arco e frecce aveva ucciso quattro donne e un uomo.

Coltellate ai passanti in nome di Allah: ancora terrore a Oslo. Ignazio Riccio il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Il blitz delle forze dell’ordine in Norvegia è stato decisivo per evitare una nuova strage come accaduto un mese fa. Dopo l’episodio di ieri a Cannes, in Francia, dove Lakhdar Benrabah, un algerino di 37 anni con regolare permesso di soggiorno italiano ha aggredito alcuni poliziotti nel nome del profeta Maometto, questa mattina un nuovo atto di violenza si è consumato a Oslo, in Norvegia. Un uomo di 33 anni si è scagliato contro i passanti e la polizia, con in mano un coltello da cucina, urlando“Allahu Akbar” durante il suo raid. Alcuni organi di informazione norvegesi hanno pubblicato un video in cui è ripreso il presunto aggressore nudo dalla cintola in su e scalzo. Nessuna persona avvicinata dall'uomo in preda a un raptus è rimasta ferita, solo uno degli agenti di polizia ha riportato leggere escoriazioni. L’intervento delle forze dell’ordine è stato risolutivo e ha evitato una strage. In un primo momento, come riporta il giornale norvegese Nettavisen, i poliziotti hanno tentato più volte di investire l'aggressore con la loro auto, ma l'uomo è riuscito a scappare. I testimoni hanno affermato di aver visto la volante seguire il fuggitivo e poi di aver udito sei spari di pistola. In precedenza, il facinoroso si era avvicinato minaccioso a una donna, che è riuscita a ripararsi in una macchina, e ad altre persone, senza però riuscire a colpirle. Il 33enne era noto alle forze dell'ordine. Nel giugno del 2019, infatti, aveva cercato di aggredire, sempre con un coltello, alcune persone a Ankerbroe. Da qui la decisione del tribunale distrettuale di Oslo, nel dicembre del 2020, di sottoporre l'uomo a cure psichiatriche obbligatorie. La polizia norvegese, comunque, ha confermato che un'auto di pattuglia nel quartiere di Bislett, a nord di Oslo, è entrata in un edificio per fermare l'aggressore. “Diversi colpi sono stati sparati contro l'uomo”, ha aggiunto il portavoce della polizia Torgeir Brenden, spiegando che l'autore dell'attacco è stato portato d'urgenza in un vicino ospedale dove è morto. In un primo momento era stato escluso il movente terroristico, ma gli inquirenti stanno seguendo tutte le piste e dopo la testimonianza di alcuni cittadini, i quali hanno sentito l’aggressore inneggiare ad Allah, ritorna forte il sospetto che si tratti di un atto estremista. Già il mese scorso, un uomo armato di arco, frecce e coltello aveva ucciso cinque persone in una piccola cittadina a sud-ovest di Oslo, a Kongsberg. Una notte di follia quella del 13 ottobre scorso, quando l'uomo iniziò a colpire i suoi obiettivi partendo da un supermercato. L'arciere killer, come è diventato noto ai media, fu arrestato quella stessa notte dopo aver ucciso quattro donne e un uomo al termine di uno scontro con la polizia. Il servizio di intelligence norvegese (Pst) descrisse l'attacco come "atto di terrorismo". Sui social, l'uomo aveva annunciato e spiegato la sua conversione all'Islam. Più volte in contatto con il servizio sanitario, era noto alle forze dell'ordine per precedenti per droga e intimidazioni alla famiglia. Nel 2020 aveva minacciato di uccidere il padre e per questo era stato sottoposto ad un ordine di restrizione di sei mesi.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere

Cani sciolti in azione, perché torna l’allerta terrorismo. Mauro Indelicato su Inside Over il 9 novembre 2021. A distanza di meno di un mese dall’episodio di Kongsberg la Norvegia nelle scorse ore è ripiombata nell’incubo del terrorismo. Nella capitale Oslo un uomo armato di coltello ha aggredito alcuni passanti nel quartiere di Bislett. La polizia è riuscita a neutralizzare l’aggressore e si contano solo pochi feriti. Alcuni testimoni hanno riferito ai media locali che l’uomo, mentre aveva in mano il coltello, avrebbe più volte urlato “Allah Akbar“. La polizia norvegese ha escluso il movente terroristico e ha parlato di azione isolata. Ma l’episodio, sia per la vicinanza con i fatti di Kongsberg che con quelli accaduti a Cannes lunedì, è significativo per valutare l’attuale allerta terrorismo.

Dalla Norvegia alla Francia, quei segnali da non sottovalutare

Per mesi gli allarmi sui pericoli derivanti dalle attività jihadiste sono stati in secondo piano. A livello mediatico, anche buona parte del 2021 è stata monopolizzata dalle allerte sul coronavirus. Questo i terroristi lo sanno bene. Del resto i loro attentati hanno, tra gli obiettivi primari, quello di richiamare attenzione. Se le telecamere sono puntate su altri fronti, ai gruppi islamisti non conviene compiere attacchi. Non è un caso che soltanto ora, con la pandemia parzialmente alle spalle o comunque non più seguita come prima, si è tornati a parlare di jihad. Da ottobre ad oggi sono tre gli attacchi sospetti. Il primo riguarda quello di Kongsberg del 15 ottobre. In quell’occasione nella cittadina norvegese un uomo di 37 anni armato di balestra ha ucciso cinque persone. In alcuni video recenti l’aggressore, di origine danese, ha parlato della sua conversione all’Islam. Piantonato in un reparto psichiatrico, l’attentatore era già noto alla polizia anche per altri reati e per problemi psichiatrici.

Rimanendo in ambito norvegese, l’attentatore di Oslo di questo martedì avrebbe urlato secondo molti testimoni la tipica frase pronunciata dai miliziani jihadisti, ossia Allah Akbar. Un segnale che farebbe propendere per la catalogazione di questo episodio tra gli attentati di matrice islamista. La polizia non ha confermato e ha parlato di un soggetto già noto per problemi psichici. Inoltre è molto probabile che il gesto, a prescindere dal movente, sia isolato. Come del resto è da considerarsi isolato l’attacco di lunedì a Cannes, in Francia. Un uomo di origine algerina, sbarcato in Italia nel 2008, ha aggredito con un coltello un agente di polizia prima di essere arrestato. Gli inquirenti avevano già segnalazioni sulla radicalizzazione dell’aggressore e la matrice in questo caso è apparsa subito chiara. Dalla Norvegia alla Francia comunque, i casi isolati nell’ultimo mese costituiscono motivo di allarme. Che si tratti di soggetti organici a gruppi terroristici oppure animati da propri problemi mentali o da “semplice” fanatismo, chiunque ha intenzione di creare problemi sul fronte della sicurezza è ben cosciente di poter colpire adesso. E di poter soprattutto ricevere quell’attenzione mediatica impensabile fino a pochi mesi fa.

Le similitudini con il 2020

A conferma delle possibili allerte terrorismo in questi ultimi mesi dell’anno vi sono le tragiche assonanze con il 2020. Durante i primi lockdown lo scorso anno non si sono registrati attacchi jihadisti. Dunque tra marzo e giugno sul fronte della sicurezza in Europa la situazione è stata piuttosto tranquilla. In estate le prime avvisaglie, ma i veri episodi terroristici sono iniziati poi tra ottobre e novembre. Il 29 ottobre il primo grave attacco, quello di Nizza. A portarlo a termine il tunisino Aouissaoui Brahim, sbarcato a Lampedusa un mese prima. Armato di coltello, il giovane terrorista ha decapitato tre persone all’interno della cattedrale della città francese. Pochi giorni dopo a Vienna un altro attentato ha causato la morte di 4 innocenti. Un altro cane sciolto probabilmente, ma ben consapevole anch’egli della possibilità di avere maggiore attenzione mediatica con l’affievolirsi dell’emergenza pandemica. Quanto accaduto nel 2020 quindi si starebbe ripetendo anche in questo 2021. I terroristi potrebbero aver scelto l’ultima parte dell’anno per i propri tragici propositi. E adesso in tutta Europa, da qui al prossimo Natale, potrebbe crescere l’allerta sulla sicurezza.

Dall’arciere killer al sangue di Oslo: quella follia che inquieta la Norvegia. Lorenzo Vita su Inside Over il 9 novembre 2021. Meno di un mese fa, la Norvegia fu sconvolta da un inquietante fatto di sangue. Espen Andersen Brathen, un 37enne danese, è uscito di casa con arco e frecce iniziando a colpire chiunque gli capitasse a tiro. Il bilancio è stato di cinque morti e due feriti. L’uomo si era appena convertito all’Islam ed era già noto alle forze dell’ordine come pericoloso e con un passato da tossicodipendente. Una notte di ordinaria follia che ha lasciato il Paese nello sgomento e con quel senso di angoscia di una popolazione che si è riscoperta fragile e con una violenza oscura e nascosta. Oggi un nuovo inquietante episodio a Oslo, nella capitale norvegese. Un uomo, armato di coltello, è uscito per strada minacciando i passanti e ferendone tre, tra cui un poliziotto in modo non grave. La polizia è intervenuta prima tentando di investirlo con una volante e poi colpendolo mentre si muoveva a torso nudo brandendo l’arma. I media locali si dividono sulla matrice e nessuno riesce a fornire un quadro particolarmente chiaro. Secondo le forze dell’ordine, sarebbe da escludere la pista del terrorismo, anche se qualcuno – tra testimonianze ancora da verificare-  ha detto di aver sentito urlare al potenziale assassino le parole “Allahu Akbar”. Indiscrezioni che però non hanno ancora ricevuto conferme da parte delle autorità. Il primo ministro norvegese, Jonas Gahr, ha detto di comprendere “molto bene” che i residenti ritengano l’episodio drammatico. Tuttavia, ha preferito calmare le acque ribadendo ai giornalisti che “se la paragonate ad altre città in Europa, Oslo è una città sicura”. Un monito che rappresenta forse la vera chiave di lettura di questi due tragici episodi che hanno terrorizzato la Norvegia e che adesso sembrano gettare un’ombra di paura su un Paese che spesso si trova a convivere con una violenza che serpeggia sul suo territorio e che affiora in questi episodi di terrore. I due fatti, apparentemente slegati l’un l’altro, che ha fatto pensare a un nuovo fatto di sangue come quello avvenuto ieri a Cannes contro una pattuglia di polizotti francesi, sembrano riportare al centro la follia, prima ancora che il terrorismo. Una forma di violenza pura e indefinibile, in cui la polizia, pur conoscendo i potenziali killer, non riesce a trovare un modo per frenare questa tendenza. In entrambi i casi le autorità norvegesi conoscevano il pericolo insito nella mente dell’autore del gesto. Eppure questo non è bastato a evitare che entrambi gli autori commettessero il loro folle piano di “vendetta”. Nel giugno del 2019, l’uomo che oggi ha ferito le persone con il coltello mentre camminavano per le vie di Oslo, aveva compiuto lo stesso gesto ad Ankerbroe. Il tribunale distrettuale di Oslo, preoccupato per quanto avvenuto, aveva anche disposto, a dicembre dell’anno scorso, che l’uomo fosse sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio e a cure psichiatriche. Mentre l’arciere killer era noto alle forze dell’ordine e aveva ricevuto già un ordine restrittivo per le minacce nei confronti dei familiari, oltre che una condanna per furto con scasso e acquisto di droghe. Aveva pubblicato sui social video della sua radicalizzazione, eppure nessuno aveva fermato prima che commettesse l’orrenda mattanza. La Norvegia ora fa i conti con questa nuove e inquietante forma di oscura violenza.

Mirko Molteni per “Libero Quotidiano” il 30 novembre 2021. Dopo il danno, la beffa. A oltre dieci anni dalla strage di Utøya, il criminale norvegese Anders Behring Breivik s'è messo a scrivere dal carcere lettere folli ai parenti delle sue vittime e ai sopravvissuti, non per chiedere perdono, ma per propinare i suoi deliri. In pratica rigira il coltello nella piaga e rinnova in tante famiglie il dolore straziante dei lutti. Il caso è stato segnalato dalla televisione norvegese NRK e fa discutere il Paese scandinavo. Come noto, il 22 luglio 2011 Breivik, uccise con esplosivi e fucili un totale di 77 persone fra Oslo e l'isola di Utøya, dove si teneva un raduno giovanile della sinistra. Poiché l'associazione dei famigliari delle vittime si chiama "Gruppo di sostegno 22 luglio", Breivik s'è permesso di intitolare le lettere col prepotente proclama «Caro Gruppo di sostegno, si prega di leggere e agire». Seguono frasi sconclusionate prese dalle sue «memorie» e dal suo «manifesto politico» in cui si fa tutta un'insalata di anticattolicesimo, antislamismo, antifemminismo, antimarxismo, senza capo né coda. La presidente dell'associazione delle vittime, Lisbeth Røyneland, commenta: «È del tutto insostenibile che un assassino di massa possa inviare lettere alle sue vittime. Immagino che lo faccia per farci reagire in modo da attirare l'attenzione. Lo descrivo come una molestia. Vuol farci sapere che è lì e vuole spaventarci, in un certo senso». La signora Røyneland ha perso una figlia per mano dell'assassino e non è l'unica ad aver ricevuto le sue missive. Fra i destinatari c'è un sopravvissuto, il giovane parlamentare del Partito Laburista norvegese Torbjørn Vereide, che a Utøya si salvò per miracolo mentre Breivik sparava sulla folla. Così descrive la sua reazione alla lettera: «Ho un nodo allo stomaco. C'è qualcosa di assurdo in qualcuno che ti ha puntato un'arma contro, ha sparato e ha cercato di ucciderti, e ora ti manda una lettera. Ho sentito che il mio cuore si è fermato e che la mia giornata è diventata pesante». Intervistato da NRK, che gli chiedeva cosa ne ha fatto della lettera, Vereide ha risposto: «Ho fatto quello che era giusto. Mi sono preso un momento di tranquillità dopo averla letta, poi l'ho messa nel tritacarte. E lì sta bene, a strisce e a pezzi». Da più parti si chiede di impedire a Breivik quella che qualcuno considera «libertà d'espressione». Ma il direttore del servizio carcerario Erling Fæste ribatte: «La legge sull'esecuzione delle sentenze stabilisce che i detenuti dovrebbero essere in grado di inviare lettere a meno che ciò non possa portare a nuovi reati penali». Le molestie epistolari alle vittime non sono l'unico aspetto controverso della gestione del caso Breivik da parte dello Stato norvegese. Fin dal processo, chiusosi nel 2021, si era polemizzato sul fatto che il mostro era stato condannato a soli 21 anni, laddove nella maggior parte dei Paesi del mondo, per una strage di tali dimensioni ed efferatezza, avrebbe avuto l'ergastolo o la pena di morte. Qualche anno fa gli fu negata, ma il suo avvocato, Øystein Storrvik, è ripartito alla carica e nel gennaio 2022 i giudici dovranno decidere di nuovo se rilasciarlo. Sembra improbabile dato che lui, ancora nel decimo anniversario del massacro, non si è mai pentito. In più, da tempo fa discutere che la sua detenzione, nel carcere di massima sicurezza di Skien, circa 120 km dalla capitale Oslo, assomigli di più a un soggiorno, per quanto blindato e in isolamento, in un albergo stellato. La sua non è infatti una cella da Alcatraz, bensì una linda camera ben ammobiliata con scrivania, libreria, computer, doccia. Eppure Storrvik, che del resto difende Breivik per mestiere, interpellato da NRK sul caso delle lettere e sulla richiesta di impedirgli di spedirle, ha sostenuto che il suo assistito «è già sottoposto a condizioni estremamente rigide». 

Il presunto autore è stato fermato. Strage in Norvegia, armato di arco e frecce uccide 5 persone: non si esclude il terrorismo. Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Una strage, forse di matrice terroristica, che ha ricordato sinistramente quella di Utoya in cui Anders Behring Breivik uccise 77 persone. È quella avvenuta ieri sera in Norvegia, a Kongsberg, nel sud-est del Paese, dove un uomo armato di arco e frecce ha ucciso cinque persone, tra cui un agente in borghese, prendendo di mira i passanti in diverse zone della cittadina. L’aggressore, il cui nome sarebbe un cittadino danese di 37 anni, ma la polizia non ha confermato l’identità, è stato arrestato dopo un breve scontro con le forze dell’ordine. L’uomo aveva anche altre armi con sé e avrebbe annunciato le sue intenzioni su un suo canale Youtube: nei video lo stragista si filmava mentre si allenava al tiro con l’arco. Per fermare la strage a Kongsberg sono intervenuti polizia, cani, artificieri, anche elicotteri con infrarossi per sorvegliare il fiume che passa in città. Secondo quanto emerso finora, l’uomo avrebbe agito da solo. L’attacco è iniziato intorno alle 18:30, con l’aggressore che si è spostato in più zone della città per colpire: la polizia ha infatti reso noto che si sono state “diverse scene del crimine”. In particolare l’attacco sarebbe partito da un supermercato della Coop Extra vicino a una zona residenziale e a un dormitorio per studenti. Prima di finire arrestato l’assalitore sarebbe anche riuscito a scappare da un primo ‘faccia a faccia’ con la polizia. Durante una conferenza stampa, il capo della polizia locale Øyvind Aas ha spiegato che l’uomo che ha compiuto l’attacco si è spostato in “una vasta area” di Kongsberg, comune di circa 28 mila abitanti. Quanto al movente dell’attacco, non è chiaro: “Abbiamo molti testimoni da interrogare e al momento non possiamo dare ulteriori informazioni”, ha aggiunto ancora Øyvind Aas. “E’ naturale considerare se si tratti di un atto di terrorismo. Ma l’uomo non è stato interrogato ed è troppo presto per giungere a conclusioni”, ha riferito ancora il capo della polizia di Kongsberg. In serata la prima ministra uscente norvegese, Erna Solberg, aveva parlato dell’attacco dicendo che i messaggi che arrivano da Kongsberg “sono raccapriccianti”.

Orrore in Norvegia, trentenne danese armato di arco e frecce uccide almeno cinque persone. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2021. È successo a Kongsberg, nel sudest del Paese. Non si esclude la matrice terroristica. Si è mostrato su YouTube qualche giorno prima di entrare in azione. Maglietta e pantaloni della tuta, ha impugnato arco e frecce per esercitarsi nel tiro al bersaglio. Poi ieri, dopo il tramonto, complice l’oscurità, ha iniziato a girare per la cittadina di Kongsberg, 68 chilometri a sud ovest di Oslo, e a scoccare le sue frecce. Per uccidere, questa volta. Da solo, è partito da un supermercato Coop Extra. Poi è andato avanti fino alle 18.30, quando la polizia norvegese ha ricevuto la prima chiamata. Una freccia e un’altra ancora. Gli agenti sono entrati immediatamente in azione. In campo sono stati schierati due elicotteri e 10 autoambulanze, una squadra di artificieri, mentre ai residenti veniva ordinato di restare chiusi in casa e ai poliziotti, che di norma in Norvegia non sono armati, veniva permesso di dotarsi di pistole e fucili. Poi, le manette e il trasferimento del sospettato, un trentenne danese, nella stazione della vicina Drammen. Molto prudenti, come da consuetudine gli agenti norvegesi. «Ci sono diversi morti e feriti», ha dichiarato alla stampa Oyvind Aas, capo della polizia di Kongsberg. Ma fino a ieri sera tarda, il bilancio dei morti non era confermato mentre la tv pubblica Nrk parlava di cinque morti, così come non erano chiare le condizioni dei feriti. «Potrebbe aver usato anche una pistola e un coltello», è l’ipotesi delle tv locali. Né confermate erano le motivazioni del killer, nonostante l’arresto. Non escluso il terrorismo ma nemmeno confermato. «Il tempo ci dirà di più», è stato l’asciutto commento. Passate un paio d’ore dalla strage e già sui social media circolava il nome del killer — Rainer Winklarson — così come il fermo immagine di un video postato su YouTube nei giorni precedenti all’attacco che lo mostra mentre si esercita con l’arco e le frecce. In un’altra immagine, seduto su una sedia impugna una pistola. «L’uomo che ha compiuto l’atto è stato arrestato dalla polizia, e non c’è nessuna ricerca attiva di altre persone. Sulla base delle informazioni che abbiamo, c’è una persona dietro a tutto questo», si è limitato a dire ancora Aas. Eppure, mentre ancora sono pochi i dettagli, è già grande lo choc in tutto il Paese. Perché immediatamente torna alla memoria il massacro di Utoya di dieci anni fa, quando, l’estremista di destra Anders Behring Breivik portò a termine il suo piano terroristico, provocando in totale 77 morti e centinaia di feriti . Travestito da agente di polizia, Breivik prima fece detonare un potente esplosivo all’interno di un’automobile nei pressi dei palazzi governativi di Oslo, poi si trasferì nella non lontana isola di Utoya, dove sparò per oltre un’ora contro giovani militanti del partito Laburista, lì riuniti per un campus estivo; a perdere la vita sull’isola furono 69 persone, circa metà delle quali non ancora maggiorenni. Da allora i seguaci di Breivik sono stati molti. Nuova Zelanda, il massacro di Christchurch. Ma soprattutto l’Europa, Italia compresa, che vede sempre più giovani radicalizzarsi. E, mentre ancora si cercano indizi per ricostruire il percorso che ha portato il killer di Kongsberg ad entrare in azione, resta l’orrore per «l’episodio più grave in Norvegia dopo la strage di Utoya», come già l’hanno definito i giornali norvegesi. «È una tragedia per tutte le persone colpite», ha dichiarato il sindaco Kari Anne Sand. «Il ministro della giustizia norvegese Monica Maeland è stato informato e sta monitorando da vicino la situazione», hanno twittato invece da Oslo.

Strage in Norvegia, si indaga per terrorismo. Killer convertito all’Islam e radicalizzato. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2021. Danese, 37 anni, aveva precedenti penali ed era in cura. I servizi: era sotto osservazione ma uscito dai radar. Nel nuovo governo di centro-sinistra due ministri sopravvissuti di Utoya. Quattro donne e un uomo uccisi, tutti tra i 50 e i 70 anni, di cui un agente di polizia colpito alla schiena. All’indomani della strage di Kongsberg, costata la vita a 5 persone, iniziano ad emergere i primi dettagli. «Le vittime sono state colpite in modo del tutto casuale», ha dichiarato la procuratrice regionale Svane Mathiassen che guida le indagini. Tra le armi utilizzate, sicuramente arco e frecce ma forse anche un coltello, dettaglio che deve essere però confermato dalle autopsie. E dopo le prime indiscrezioni poi smentite, inizia a delinearsi anche parte del profilo del killer di cui i media locali hanno diffuso un nome, però non confermato dalla polizia. Il sospettato è un cittadino danese di 37 anni, Espen Andersen Brathen, convertito all’Islam e già noto alla sicurezza di Oslo in quanto radicalizzato. «Aveva dato segnali, l’anno scorso era sotto osservazione, poi è uscito dai radar», ha spiegato Ole Bredrup Saeveru della polizia. Madre danese e padre norvegese, Brathen — che comparirà in tribunale oggi e che sarà sottoposto a perizia psichiatrica — aveva già ricevuto l’anno scorso un ordine restrittivo di sei mesi dopo avere minacciato di uccidere un suo familiare. Ma Brathen era anche stato condannato per furto con scasso e acquisto di piccole quantità di hashish nel 2012. Infine, secondo diversi media norvegesi, nel 2017 aveva pubblicato un video su YouTube — ora rimosso — nel quale annunciava la sua conversione all’Islam definendosi, con toni minacciosi, «un messaggero». Su Kongsberg, cittadina a una settantina di chilometri da Oslo, intanto è calata l’angoscia. Durante l’attacco, Brathen è entrato in un negozio spaventando il personale e i clienti ma senza ferire nessuno. Poi ha fatto irruzione in una serie di abitazioni private. «Qui tutti si conoscono, teniamo la porta aperta», ha spiegato alla Bbc Fiona Helberg, testimone e residente della cittadina. Inoltre, tra la prima allerta lanciata alla polizia e l’arresto, è trascorsa oltre mezz’ora e gli agenti hanno dovuto sparare diversi colpi in aria prima che il killer si arrendesse. La paura investe la Norvegia, che tenta però di non farsi prendere dal panico o di farsi trascinare nelle polemiche. «Sembra essere un atto di terrorismo», si legge nella nota dell’agenzia della sicurezza norvegese, Pst. A fronte della prudenza, è chiaro però come il killer abbia sfruttato delle «falle» del sistema. Archi e frecce non sono classificati come armi illegali in Norvegia. È consentito acquistarli e possederli, e i proprietari non sono tenuti a registrarli, sebbene debbano essere utilizzati nei poligoni di tiro con l’arco designati. E non solo. Al momento dell’attacco, gli agenti di polizia non indossavano le armi, come prevede la normativa norvegese, ed è solo dopo un episodio violento— come successo ieri — che viene ordinato il contrario. Segni dunque che l’allerta sale, sebbene la Pst si affretti a dichiarare «non vi è finora alcuna indicazione che vi sia un cambiamento nel livello di minaccia nazionale». «Siamo inorriditi dai tragici eventi di Kongsberg», ha detto re Harald V riassumendo il sentimento generale. L’attacco di Kongsberg, il più grave dalla strage di Utoya, arriva mentre si insedia il nuovo governo di centro sinistra guidato dal leader laburista Jonas Gahr che, oltre ad aver voluto un esecutivo a maggioranza femminile, ha chiamato in squadra proprio due sopravvissuti a Utoya, Tonje Brenna, 33 anni, cui è stata affidata la Pubblica Istruzione, e di Jan Christian Vestre, 35 anni, ministro del Commercio e l’Industria. Intanto su Kongsberg volano ancora gli elicotteri. E c’è chi, tra i passanti, non si trattiene e scuote il capo: «Sembra di essere a Kabul».

L'assassino con l'arco è un convertito all'islam. Perquisite le moschee. Luigi Guelpa il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il killer è Espen Andersen Brathen, 37 anni. Nel nuovo governo 2 sopravvissuti di Utoya. Si chiama Espen Andersen Brathen, il 37enne originario della Danimarca che mercoledì sera ha fatto rivivere l'incubo di Utoya a 5 milioni di norvegesi. L'uomo, armato di arco e frecce, ha seminato il panico a Kongsberg, cittadina di 27mila abitanti a 70 chilometri a sud ovest di Oslo, tenendo per un'ora in scacco la polizia, uccidendo 5 persone (1 uomo e 4 donne) e ferendone tre (una è finita in terapia intensiva) prima di essere arrestato. Le forze dell'ordine hanno tenuto per ore nascosta l'identità dell'aggressore, giusto il tempo di far sparire dalla rete i suoi profili social; a quanto pare pieni di proclami farneticanti inneggianti all'islam più estremo. Brathen infatti aveva abbracciato il culto islamico dal 2017, radicalizzandosi nel corso degli ultimi mesi. «Non era un frequentatore abituale della nostra moschea», ha spiegato alla tv norvegese l'imam Osama Tlili. Eppure, anche se dalle prime indagini risulta che l'uomo abbia agito da solo, la radicalizzazione sarebbe avvenuta proprio in Norvegia e l'attentato dell'altra sera meditato con alcuni complici. Gli inquirenti ieri hanno iniziato a perquisire le moschee del Paese, cercando di trovare riscontri su una possibile affiliazione di Brathen con una cellula yemenita, attiva in Norvegia dal 2008. Il terrorista non era comunque estraneo alle forze dell'ordine. Due anni fa aveva minacciato il padre di morte puntandogli un coltello alla gola e per questo ricevuto un ordine restrittivo di sei mesi. Nel 2012 era inoltre finito davanti al giudice per spaccio e furti di vario genere. I vicini di casa lo descrivono come un uomo solitario e scontroso. In un'intervista al quotidiano Dagbladet, la 21enne Gudoon Hersi sostiene di aver dovuto lasciare abitazione al numero 23 di Kirkegata dopo essere stata importunata per parecchio tempo. «Mi diceva che ero una donna di malaffare e mi insultava per il colore della pelle». Il terrorista ha iniziato il suo assalto al centro commerciale Coop Extra, spostandosi poi in altre cinque zone della città. Uno dei tre feriti è un agente che era fuori servizio al momento dell'attacco, colpito alla schiena mentre stava facendo acquisti al supermercato. L'assalto, iniziato circa alle 18.15, si è concluso tre quarti d'ora dopo, quando Brathen è stato fermato dalla polizia, non prima però di ferire un agente con una freccia. La procura di Oslo non ha voluto al momento precisare se Brathen abbia ucciso le sue vittime con le frecce o con una pistola rinvenuta al momento dell'arresto. «Ci esprimeremo soltanto dopo le autopsie - ha spiegato il capo dell'intelligence di Oslo Sofie Nystrom - Gli eventi di Kongsberg appaiono al momento come un atto di terrorismo. L'inchiesta chiarirà più nel dettaglio le ragioni. Il livello di minaccia in Norvegia è ancora considerato moderato». Le autorità effettueranno una perizia psichiatrica sull'omicida, che già in giornata apparirà davanti al giudice Ann Iren Svane Mathiassen. Giovedì mattina, nel corso del primo interrogatorio al distretto di polizia, ha confessato di aver colpito in maniera casuale. Sull'onda emotiva, ieri nel nuovo esecutivo di Jonas Gahr Store, governo di coalizione a guida laburista, sono stati nominati ministri due giovani che si trovavano sull'isola di Utoya durante il massacro perpetrato nel 2011 da Breivik. Sono il 33enne ministro dell'Istruzione Tonje Brenna, e quello del Commercio e dell'Industria Jan Christian Vestre, 35 anni. Luigi Guelpa

Monica Perosino per "la Stampa" il 15 ottobre 2021. Si chiama Espen Andersen Bråthen l'uomo che mercoledì ha ucciso cinque persone con arco e frecce nella sonnolenta cittadina di Kongsberg. Una mattanza eseguita a sangue freddo da un ragazzone che ha sempre vissuto tra queste casette di legno e gli amici di una vita, che lo descrivevano «mite, gentile e per bene». Fino a quando, nella sua mente, qualcosa «si è rotto». Trentasette anni, madre danese e padre norvegese, da tempo viveva praticamente recluso in casa, senza vedere nessuno, e da almeno quattro anni si era convertito all'Islam. Il 29 maggio dell'anno scorso aveva provato a "incontrare" i genitori, a suo modo, facendo irruzione in casa con una pistola. Il risultato era stato un divieto di avvicinamento alla famiglia per le minacce di morte rivolte al padre. Non lavorava da anni, e la scorsa estate un vicino di casa preoccupato aveva chiamato la polizia perché Bråthen era solito brandire mazze, bastoni e manganelli in giardino, tutti i giorni, tranne quando faceva troppo freddo: «Era brutale, ho avuto una brutta sensazione, per questo ho chiamato la polizia», ha detto il giovane al quotidiano locale "Verdens Gang". «Era sempre solo. Dalla finestra della cucina potevo guardare nel suo appartamento. Era molto disordinato e c'era qualcosa di estremamente inquietante in quella casa». La segnalazione più preoccupante però risale già al 2017, quando il suo amico di infanzia avverte la polizia: Bråthen ha pubblicato un video in cui dichiara di essersi convertito all'Islam. Sostiene di essere «un messaggero» che porta «un avvertimento», e che «è arrivato il momento». L'amico è preoccupato, pensa che Bråthen sia malato, che debba essere curato, perché «una bomba a orologeria in grado di fare qualcosa di assolutamente terribile». Ieri la polizia ha confermato che Espen Andersen Bråthen lo conoscevano bene, ed erano in allerta «per il rischio di radicalizzazione», ma visto che nel 2021 non avevano ricevuto nessuna nuova segnalazione sul suo conto, era uscito dai radar. Intanto, la confusa dinamica dell'attacco si fa più chiara: le vittime sono 4 donne e un uomo, un agente in borghese, e sono state scelte a caso. Bråthen sarebbe prima entrato in un negozio senza ferire nessuno, poi avrebbe fatto irruzione in una serie di abitazioni private con arco, frecce e un coltello. Le vittime, tra i 50 e i 70 anni, sono state trovate parte in strada e parte all'interno delle abitazioni. Ma sui trenta minuti che hanno fatto precipitare la Norvegia nella paura, e cinque famiglie nel dolore, i dettagli non aiutano a comprendere. Il movente è «ancora da chiarire», l'attacco, potrebbe essere «terrorismo», intanto si procederà con una perizia psichiatrica. Nel Paese ancora sotto choc a prendere il testimone è toccato al neo premier , il laburista Jonas Gahr Store, che ieri ha presentato il suo governo. L'esecutivo, a maggioranza femminile, comprende due sopravvissuti della strage di Utøya, il peggior attacco terroristico mai avvenuto nel Paese.

Mauro Evangelisti per "il Messaggero" il 15 ottobre 2021. Potevano fermarlo. Espen Andersen Brathen, 37enne di origini danese convertito all'Islam, nel tardo pomeriggio di mercoledì ha ucciso cinque persone a Kongsberg, in Norvegia. Alle 18.18 viene raggiunto dalla polizia, è vicino al supermercato Coop-Extra, ha l'arco e le frecce, in molti hanno lanciato l'allarme, ma ancora non ha ammazzato nessuno. Gli agenti lo incrociano, sparano alcuni colpi di avvertimento in aria, ma Espen, un gigante con i capelli rasati, riesce a fuggire. Da quel momento, per mezz' ora, la polizia non lo trova, lui ha il tempo di uccidere con arco e frecce, ma anche con un coltello, quattro donne e un uomo, di età compresa tra i 50 e i 70 anni. Quando alle 18.47 lo arrestano è ormai tardi. Se il primo intervento degli agenti fosse stato più efficace e deciso oggi nessuno parlerebbe del danese convertito all'Islam che in Norvegia ha ucciso cinque persone scelte a caso per strada e all'interno di un'abitazione. Potevano fermarlo. Anche cinque anni fa era chiaro che Espen Andersen Brathen, con risaputi problemi psichiatrici, stava diventando pericoloso. 2017, sui social pubblica un video in cui spiega: «Mi sono convertito all'Islam, il mio è un avvertimento». Più di un amico lo vede, conosce il carattere instabile di Espen e avverte le forze dell'ordine: guardate che questa persona è pericolosa, intervenite. La polizia norvegese risponde: tranquilli, lo stiamo tenendo d'occhio. Racconta uno degli amici parlando con il quotidiano Aftenposten: «Ora è frustrante pensare che io e molti altri abbiamo saputo che era una bomba a orologeria, lo abbiamo segnalato, ma nessuno l'ha fermato». Intervistato dal giornale danese Bt un altro amico di infanzia dice: «Da bambino era molto gentile e aveva un buon carattere, ma a 17-18 anni ha iniziato ad avere problemi mentali. Anche suo nonno aveva un disturbo paranoico. Varie volte è stato ricoverato in ospedale, ma non voleva prendere le medicine. Con gli anni è divenuto sempre più violento. Improvvisamente è diventato musulmano anche se in realtà non sapeva nulla dell'Islam. Quando nel 2017 ho visto il video minaccioso, ho capito che era pericoloso e ho inviato una mail alla polizia. Loro mi hanno risposto che avevano la situazione sotto controllo». La conversione dovrebbe risalire a una decina di anni fa, anche se il video con le minacce è successivo. 

VIOLENTO Poteva essere fermato. Espen aveva spesso spaventato e insultato i vicini, anche con insulti razzisti. E aveva insospettito il presidente dell'unica moschea della città dove era andato per annunciare la sua conversione, «non lo abbiamo preso sul serio, non era credibile, ci ha detto che aveva ricevuto una rivelazione...». Espen aveva piccoli precedenti per furto con scasso e possesso di hashish, risalenti al 2012. Il 29 maggio scorso aveva minacciato i genitori, tentando di picchiare il padre, lasciò anche una pistola sul divano. Per questo il tribunale ha emesso una ordinanza che gli impediva di avvicinare i genitori per sei mesi. In Norvegia, dove proprio ieri è stato formato il nuovo governo a guida laburista, l'attacco che è costato la vita a cinque persone viene considerato di tipo terroristico o, quanto meno, non si esclude questa matrice. Il capo dell'Antiterrorismo norvegese, Arne Christian Haugstoyl, ha spiegato che ci sono centinaia di nomi per i quali arrivano segnalazioni di pericolosità come quella che riguardava Espen Brathen, «è difficile sapere chi passa dalle parole all'azione». Più volte la polizia era stata, anche di recente, nella sua casa per i comportamenti aggressivi nei confronti dei familiari e dei vicini. Espen in giardino si addestrava a combattere, usando mazze e bastoni, e mostrando di conoscere le arti marziali. In sintesi: violento, con problemi psichici, armato, autore di un video minaccioso in cui ribadiva la sua conversione all'Islam, segnalato da amici e familiari, incrociato dalla polizia subito dopo il suo primo assalto a un supermercato. Eppure, non lo hanno fermato e ha avuto il tempo per uccidere cinque persone con arco, frecce e un coltello. Tutto questo nel Paese che dieci anni prima aveva vissuto lo choc della strage di Uttaya. Ora in Norvegia resta alto il livello di attenzione: si temono emulazioni ma anche azioni di vendetta irrazionale contro cittadini di religione musulmana.

Bataclan, processo ai fantasmi. In aula vietato parlare di islam. Francesco De Remigis il 17 Novembre 2021 su Il Giornale. Fino a gennaio richiesto un linguaggio "eufemizzante". Il tribunale non vuole riferimenti a moschee e imam. Sebbene gli attacchi del 13 novembre 2015 a Parigi siano stati rivendicati dall'Isis, nelle udienze sul Bataclan il movente religioso è diventato il grande assente. L'estrema sinistra francese ha faticato a pronunciare la parola terrorismo anche nel ricordo delle vittime, sabato scorso: parlamentari della gauche sommersi di critiche su Twitter, perché incapaci di denunciare la matrice islamica del sangue. Ma sono soprattutto le «regole» del processo in corso a Parigi a lasciare più di un dubbio. Vietato parlare di islam in presenza degli imputati, per esempio; almeno nella recente fase che li ha visti alla sbarra. Per espressa volontà del presidente del tribunale speciale Jean-Louis Périès, e come da suo avvertimento del 2 novembre, le carte del processo iniziato a settembre sembrano via via scompaginarsi; come pure le aspettative su un procedimento che in nove mesi vedrà i giudici sentenziare sulle responsabilità dei venti a giudizio. Chiarito che non è ancora tempo di affrontare «i fatti», né tanto meno parlare di «religione», quindi di movente, il processo ha tirato il freno a mano, trasformando l'aula bunker in un magnete di polemiche e frustrazione per le parti civili: «Gli imputati si dipingono come banali sbandati», denuncia Theodora, la giovane ventenne che ha perso lo zio sulla terrazza del cafè La Bonne Bière. Lei come altri, è su tutte le furie: «Vogliamo sapere cosa li ha resi assassini...». Possibile che manchi il riferimento all'islam? Sì, perché dopo un mese e mezzo di atroci racconti dei superstiti, nei giorni scorsi è stato richiesto un linguaggio «eufemizzante» alle udienze-show concesse alla Salah Abdeslam e associati, con interruzioni censorie che hanno fatto sobbalzare dalle sedie sopravvissuti e accusa. Fuori luogo anche riferimenti a moschee o imam. Per giorni è stata celebrata la vita di quartiere di presunti assassini, più simile apparentemente alle immagini di un maxi-spot pubblicitario della Nike. In questa fase si cerca «solo» di tracciare i «profili» degli imputati: per parlare della religione che ha spinto a uccidere, embargo fino a gennaio. Interrogati sulla loro «personalità» e non sui fatti, i venti imputati per terrorismo sono diventati «personaggi». Libertà di sproloquio e di menzogna. Salah ha parlato della sua infanzia felice. Via, il volto truce dell'udienza di settembre, quando si dichiarò orgogliosamente un «combattente» di Daesh che compì quegli attentati per «vendetta» dopo i bombardamenti francesi in Siria. Gli avvocati difensori hanno sfruttato la timeline del processo e cambiato strategia: alla sbarra ci sono angeli di banlieue, fratelli benevoli con poche macchie sul curriculum, vittime di una Francia matrigna anziché indossatori di kalashnikov, proiettili da guerra e coltelli. «Vogliamo sapere il resto», gridano le famiglie dei morti e i sopravvissuti alla strage. Dopo il ridicolo show dei «santi subito», la lente del processo si sposta ora sulla rotta dei migranti che ha permesso all'Isis di trapiantare terroristi nel cuore dell'Europa. E sul flop dei Servizi francesi. Ieri, riprese le udienze dopo lo stop per le commemorazioni, è stato il turno delle spiegazioni di Bernard Bajolet e Patrick Calvar, allora rispettivamente capo della Direzione generale della Sicurezza esterna (DGSE) e della Sicurezza interna (DGSI). La maggior parte dei membri dei commando del 13 novembre era nota, ha ammesso il primo, ma «non sapevamo che avrebbero preso parte a operazioni in Europa». Il secondo ha puntato il dito sul flusso migratorio dell'estate 2015 di merkeliana maternità; profughi di cui vari jihadisti «hanno approfittato». Resta la reticenza a dare un nome all'ideologia che ha lasciato 130 morti e oltre 350 feriti. E il rischio paralisi prima del verdetto del 24 e 25 maggio. Il tribunale dei tabù ha chiamato ieri pure un professore, per facilitarsi la lettura dei fatti: di cui, però, potrà chieder conto ai ragazzotti diventati criminali apparentemente quasi per caso solo più avanti.

Strage al Bataclan, il ministro sapeva: perché quel bagno di sangue poteva essere evitato. Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. L'ex ministro dell'Interno e premier francese Manuel Valls sapeva che il Bataclan era uno dei principali obiettivi dei terroristi islamici. Di più: avrebbe rifiutato la lista di jihadisti francesi che gli era stata proposta dai servizi di sicurezza siriani. Le accuse, pesantissime, provengono da Bernard Squarcini, ex capo della Dcri (oggi Dgsi), ossia dell'intelligence interna di Parigi. Intervistato dal canale YouTube Thinkerview, l'ex boss degli 007 francesi sotto la presidenza Sarkozy ha rivelato che Ali Mamlouk, consigliere speciale per la sicurezza di Bashar al Assad, lo aveva chiamato nel 2013 per mettergli a disposizione la lista di jihadisti francesi presenti sul territorio siriano. Squarcini non era più al vertice dei servizi segreti, ma aveva comunque contattato il suo successore Patrick Calvar per informarlo. «Calvar ha detto che era interessante, Cazeneuve, ministro dell'Interno, era d'accordo, Valls, invece, ha detto no, perché "non si parla con i banditi"», racconta Squarcini. L'ex direttore della Dcri riporta in seguito che nel 2011 il terrorista franco-belga Farouk Ben Abbès, autore di un attentato al Cairo nel 2009, fu arrestato «grazie all'aiuto dei siriani» e che durante la prima audizione pronunciò queste parole: «Dovevo compiere un attacco anche al Bataclan». Squarcini, subito dopo, chiese ai suoi collaboratori di scrivere una nota sul rischio di un attentato nella sala concerti parigina. «Siamo nel 2011. Il Bataclan era un obiettivo. Il patron aveva attirato l'attenzione perché difendeva l'esercito israeliano. Attenzione, si è accesa la spia rossa, dissi», rivela Squarcini, accusando i suoi successori e il socialista Manuel Valls di aver sottovalutato le minacce.

Salah Abdeslam, il mostro del Bataclan. Pietro Emanueli su Inside Over il 12 novembre 2021. Un 13 novembre come oggi, ma del 2015, un feroce e altamente preparato commando legato allo Stato Islamico metteva a ferro e fuoco le strade, le piazze e i locali di Parigi, trasformando la capitale parigina in un inferno per un giorno, o meglio per una sera. La caccia al kāfir dei soldati dell’oramai defunto Abu Bakr al-Baghdadi sarebbe durata quasi quattro ore, dalle ventuno e mezza all’una, terminando in una mattanza con pochi pari nella storia del terrorismo islamista in Europa: 130 morti e 368 feriti. Soltanto i qaedisti di Madrid 2004 mieterono più vittime – 192 morti e 2.057 feriti. Sette membri del commando morirono quella sera di novembre – portando il bollettino a 137 deceduti –, mentre altri due furono uccisi cinque giorni più tardi, nel corso del celebre raid di Saint-Denis. Soltanto uno sarebbe sopravvissuto ai fatti del 13 novembre, uscendo indenne anche dal successivo pugno di ferro delle forze speciali. Quel superstite, il cui processo sta avendo luogo proprio in questi giorni, risponde al nome di Salah Abdeslam.

La vita prima del terrorismo

Salah Abdeslam nasce in quel di Bruxelles il 15 settembre 1989. Figlio di due francesi di origini marocchine, Abdeslam è cresciuto nel quartiere più difficile della capitale belga, il famigerato Molenbeek-Saint-Jean. Qui, data l’alta concentrazione di persone provenienti dal Maghreb – in particolare dal Marocco –, Abdeslam non avrebbe mai avuto l’opportunità di integrarsi realmente nel resto della società né di entrare in contatto con i belgi.

Nonostante la scarsità di prospettive di sviluppo, tanto umane quanto professionali, Abdeslam avrebbe vissuto all’occidentale almeno fino alla prima parte del 2014, frequentando locali notturni e facendo utilizzo di alcolici e droghe leggere. Al termine di una breve esperienza come meccanico presso le officine della Società di Trasporto Intercomunale di Bruxelles, durata dal 2009 al 2011, il giovane Abdeslam sarebbe entrato rapidamente in un circolo vizioso, autodistruttivo, fatto di droghe, prostitute, furti e rapine.

Il tentativo di rialzarsi, aprendo un bar nel cuore di Molenbeek, si sarebbe rivelato infruttuoso. Aperto nel dicembre 2013, il locale sarebbe stato chiuso poco dopo dalle autorità perché ritenuto un ricettacolo di spacciatori. Tornato nel mondo della microcriminalità, Abdeslam avrebbe trovato la “salvazione” grazie ad una vecchia conoscenza, un amico di infanzia con il quale era cresciuto a Molenbeek e con cui aveva commesso delle rapine negli anni passati: Abdelhamid Abaaoud.

La radicalizzazione

Abaaoud e Abdeslam si sarebbero incontrati ad un certo punto del 2014. Il primo era appena tornato dalla Siria, dove aveva combattuto nelle file dello Stato Islamico. Il secondo stava accumulando denunce per piccoli reati, cercando di combattere la depressione tra locali notturni e coffe shop. Il primo, tanto carismatico quanto fanatico, non avrebbe avuto difficoltà a convincere il secondo, abbattuto e rancoroso e, dunque, psicolabile, ad abbandonare quello stile di vita autodistruttivo, incoraggiandolo a tornare all’Islam.

L’Islam praticato da Abaaoud, ad ogni modo, nulla aveva a che fare con l’Islam vero, originale, di Maometto e dei Puri antenati. Perché tra una preghiera e l’altra, e dopo aver chiuso con ogni vizio – sigarette, alcolici, prostitute e droghe leggere –, Abdeslam, un giorno del 2015, avrebbe visto una nuova persona allo specchio: non uno sbandato senza meta, ma un aspirante terrorista.

A partire dalla metà del 2015, l’anno dell’avvenuta radicalizzazione, Abdeslam avrebbe cominciato a viaggiare in lungo e in largo per l’Europa, Italia inclusa, allo scopo di reperire armi, di procurarsi materiale utile alla preparazione di esplosivi, di fare proseliti e di stabilire alleanze con altre cellule.

I movimenti di Abdeslam non sarebbero passati inosservati agli inquirenti e ai servizi segreti del Vecchio Continente. Soltanto qualche settimana prima degli attacchi, infatti, il nome del giovane sarebbe apparso in un elenco preparato dall’intelligence belga avente come oggetto la conduzione di possibili attentati terroristici. Il contenuto allarmistico di quel documento, come è noto, sarebbe stato ignorato, permettendo ad Abdeslam e soci di muoversi liberamente, limare i dettagli del piano e, infine, portarlo a compimento.

La strage e la fuga

Il commando giunse a Parigi la sera dell’11 novembre, alloggiando in alcune stanze di un aparthotel sito ad Alfortville, nei pressi di Parigi. Abdeslam si era occupato di tutto: della prenotazione delle camere, dell’organizzazione del viaggio, del noleggio delle automobili. Con lui, in quei giorni, si trovava il fratello, Brahim, anch’egli radicalizzato e anch’egli pronto a compiere il volere di al-Baghdadi.

La sera del 13, pochi minuti prima dell’avvio della mattanza, Abdeslam comprò una carta sim. Compose un numero di telefono, avvisando l’interlocutore che tutto era andato come da programma e che a breve avrebbe avuto inizio il massacro. Quel numero, avrebbero poi scoperto gli investigatori, apparteneva ad Abdheila Chouaa, un commilitone che al momento della chiamata si trovava rinchiuso nella prigione belga di Namur. Chiusa la chiamata, avrebbe avuto inizio la strage, alla quale Salah, tuttavia, non avrebbe partecipato. Il fratello Brahim, invece, vi prese parte, e morì la stessa sera, facendosi esplodere all’interno del Comptoir Voltaire.

Raccolto alcune ore dopo da due complici – Hamza Attou e Mohammed Amri –, Salah fu riportato in Belgio in macchina. I tre, paradossalmente, furono fermati ad un posto di blocco nei pressi di Cambrai, a pochi chilometri dal confine, ma gli agenti, al termine degli accertamenti, permisero loro di proseguire.

Rientrato in Belgio, Abdeslam si sarebbe dato alla macchia, cercando di guadagnare tempo adottando un nuovo vestiario, cambiando pettinatura e cambiando continuamente nascondiglio. Le indagini hanno appurato la sua presenza in una pluralità di alloggi localizzati a Schaerbeek, un altro quartiere a composizione islamica di Bruxelles.

Dopo quattro mesi di ricerche incessanti, caratterizzati da raid improvvisi in luoghi di culto e abitazioni e dall’arresto di svariati complici della latitanza, fra il 15 e il 18 marzo 2016 ha finalmente avuto luogo la svolta. Il 15, nel corso di un’operazione alle porte di Bruxelles, viene scoperto un rifugio ancora fresco utilizzato da Abdeslam. Nel blitz, durante il quale gli agenti speravano di scovare il ricercato, verrà ucciso in una sparatoria uno dei tanti membri della cellula del terrore di Bruxelles: Mohamed Belkaid.

Il 18, infine, il fuggitivo più pericoloso d’Europa verrà individuato e tratto in arresto nel suo quartiere natale, Molenbeek, nel quale gli era stato offerto ricetto da una famiglia già indagata nei mesi precedenti. Nel corso dell’incursione, per via di un tentativo di aggressione ai poliziotti, riceverà un proiettile nella gamba.

Il processo

Abdeslam ha fatto parlare di sé sin dal trasferimento in carcere, prima in Belgio e poi in Francia, essendo divenuto l’oggetto di una devozione popolare dentro e fuori le sbarre. Dentro è stato ed è temuto e rispettato dagli altri detenuti, che in Francia lo accolsero tra gli applausi. Fuori, invece, ha stregato numerose donne, che gli scrivono lettere d’amore sin dal 2016.

Abdeslam non ha mai nascosto le proprie responsabilità, sebbene abbia cercato di minimizzarle. Ha ammesso sin dal primo interrogatorio di essersi occupato del noleggio auto, della prenotazione delle camere di albergo e di aver trasportato i tre attentatori suicidi che provarono a farsi esplodere allo Stade de France.

Secondo quanto dichiarato ai giudici, Abdeslam avrebbe dovuto partecipare agli attentati del 13 novembre. Il fratello, invero, gli avrebbe consegnato una cintura esplosiva. L’accusa, ad ogni modo, ha sempre parlato di dichiarazioni concepite allo scopo di ripulire la sua immagine attraverso il trasferimento del peso giudiziario su delle persone impossibilitate a difendersi.

Per quanto riguarda il movente, invece, Abdeslam è stato chiaro, conciso e spietatamente sincero sin dal principio: gli attacchi non sarebbero stati concepiti a causa di presunti sentimenti d’odio serbati nei confronti dei francesi, quanto per aggredire e punire la Francia come Stato, come governo.

Nel 2018 è stato condannato da un tribunale di Bruxelles a vent’anni di carcere per il tentato omicidio di un agente di polizia il giorno della cattura. Per la strage del 13 novembre 2016, invece, il processo si è aperto quest’anno, a inizio settembre. 

A che punto è il processo a Salah Abdeslam. Mauro Indelicato su Inside Over il 12 novembre 2021. Il processo è iniziato lo scorso 8 settembre. Lui, Salah Abdeslam, contro ogni pronostico ha iniziato a parlare. Dopo cinque anni di silenzio negli interrogatori, in aula è invece costantemente un fiume in piena. Non certo per spirito di collaborazione con i giudici. Né tanto meno per mostrare pentimento per le sue azioni. Al contrario, il processo sulla strage del Bataclan e sugli attacchi terroristici che hanno insanguinato il 13 novembre 2015 la città di Parigi si è trasformato per lui, più o meno inaspettatamente, in un palcoscenico perfetto. Abdeslam, che del commando jihadista in azione nella capitale francese è stato l’unico superstite, da due mesi sta raccontando di tutto. Dal perché dell’attacco ai motivi politici dietro l’uccisione di innocenti. Fino ad arrivare, come fatto nelle ultime ore, al racconto della sua vita e del momento della sua conversione. Uno show, quello dell’islamista, forse finalizzato a fare di lui uno dei leader jihadisti in Europa. Oppure, circostanza più temuta, a lanciare precisi segnali all’esterno.

Le indagini che hanno portato al processo

Mentre Parigi piangeva ancora le 130 vittime del massacro del 13 novembre, gli inquirenti notavano che non tutti gli aspiranti kamikaze erano morti. Nella scena dell’attacco è stata accertata la presenza anche di un giovane terrorista belga, riuscito a fuggire via dalla capitale francese. Si trattava per l’appunto di Salah Abdeslam, nato nel 1989 a Molenbeek, quartiere difficile di Bruxelles e negli anni fucina di aspiranti jihadisti. Ed è proprio tra le vie di questo grande rione della periferia belga che Abdeslam è stato catturato. Era il 18 marzo 2016. L’irruzione delle forze speciali è stata fulminea, l’obiettivo era catturare il terrorista vivo. Questo perché per la prima volta in un maxi processo su attentati islamisti, uno dei protagonisti avrebbe potuto parlare e dare precise indicazioni sull’universo jihadista in Europa. Le inchieste su Abdeslam hanno accertato connivenze e complicità da parte di un nutrito gruppo di persone a lui vicine. Grazie a questa rete il terrorista belga è potuto andare via da Parigi poche ore dopo gli attentati ed ha potuto gestire per diversi mesi una difficile latitanza.

Le indagini sulla strage sono durate a lungo e in parte ancora non sono terminate. Secondo gli inquirenti, ad agire è stata una cellula dell’Isis dispiegata tra la Francia e il Belgio. La regia degli attacchi è stata considerata in mano ad Abdelhamid Abaaoud, altro terrorista belga. Quest’ultimo è stato ucciso in un raid portato avanti dalla polizia francese il 19 novembre 2015. I rapporti dei servizi di intelligence hanno descritto Abaaoud come una personalità carismatica, in grado di fare proseliti nel mondo islamista. E sarebbe stato proprio lui infatti a spingere verso la guerra santa Salah Abdeslam, conosciuto in carcere nel 2010 mentre entrambi erano detenuti per reati minori. Dopo cinque anni di inchieste, l’8 settembre scorso è scattato il maxi processo al terrorista sopravvissuto la notte del Bataclan e a 14 presunti suoi fiancheggiatori. Un’occasione per la Francia di guardare in faccia i carnefici e fare i conti con la realtà.

“Abbiamo agito in nome di siriani e iracheni”

Prima del processo forse nemmeno gli stessi carcerieri conoscevano la sua voce. Ma una volta in aula Salah Abdeslam ha iniziato a parlare. In primo luogo ha rivendicato la sua azione. “Sono un combattente islamico”, ha dichiarato il belga quando il giudice formalmente gli ha chiesto la sua professione. In aula Abdeslam, che adesso ha 32 anni, si è presentato vestito di nero. Ha un fisico ben allenato, dal carcere in cui è detenuto hanno fatto sapere ai media francesi che quando non prega pensa soltanto a fare allenamenti. “Siamo degli esseri umani, ci trattate come dei cani”, ha poi rimarcato il terrorista al giudice. In aula erano presenti molti parenti delle vittime. In totale sono 1.800 le parti civili. Alcuni hanno inveito contro Abdeslam. Lui però non ha fatto una piega, né ha mostrato pentimento. “Abbiamo colpito la popolazione, ma non c’era nulla di personale – è il contenuto più significativo di una delle sue dichiarazioni fiume – Ha sbagliato Hollande: sapeva che la sua decisione di partecipare all’intervento militare avrebbe portato francesi incontro alla morte”.

Una rivendicazione in pieno stile. Proseguita anche nella seconda udienza. “Abbiamo agito – ha continuato – in nome dei cittadini siriani e iracheni. La nostra è stata una reazione ai bombardamenti francesi e americani. Le vittime in Siria e Iraq potranno parlare?” Più che una dichiarazione, è sembrato un vero e proprio manifesto politico. E anche un modo forse per accrescere la sua popolarità negli ambienti jihadisti.

“Vivevo da occidentale, da libertino”

La vera domanda adesso è chiedersi come mai Abdeslam abbia deciso di trasformare un maxi processo in un palcoscenico a sua disposizione. La mente va al recente caso di Anders Breivik, il terrorista norvegese autore della strage di Utoya del luglio 2011. Anche se in un contesto del tutto differente dal mondo jihadista, l’assonanza è possibile vederla nell’uso del processo come sede di rivendicazione politica e base di propaganda delle proprie idee. L’islamista belga vuole quindi accreditarsi come figura di riferimento della galassia islamista europea? Difficile al momento da dire. Tra gli inquirenti c’è chi sospetta che dietro la sua strategia difensiva non ci sia solo mera ambizione personale o propagandistica ma, al contrario, anche la volontà di lanciare precisi segnali all’esterno.

Intanto nella prima udienza di novembre, Abdeslam si è lasciato andare anche a toni quasi autobiografici. “Ero un tipo calmo, servizievole – ha dichiarato al giudice con riferimento al periodo antecedente alla sua adesione all’Islam radicale – ero amato dagli insegnanti. Vivevo impregnato dai valori occidentali, vivevo per come mi avete insegnato voi”. Poi è arrivato l’odio verso questa vita e verso l’occidente. “Vivere da occidentale – ha infatti proseguito – vuol dire vivere da libertini. Vivere da libertino vuol dire vivere senza preoccuparsi di Dio, fare ciò che si vuole, mangiare ciò che si vuole, bere ciò che si vuole”. 

Bataclan, sei anni dopo Molenbeek continua a far paura. Pietro Emanueli su Inside Over il 13 novembre 2021. Un 13 novembre come oggi, ma del 2015, un commando armato composto da nove persone, che avevano giurato fedeltà allo Stato Islamico, si infiltrava nei luoghi-chiave della vita notturna parigina per portare a compimento una strage che è entrata negli annali del terrorismo.

Quel giorno, o meglio quella sera, i soldati dello Stato Islamico avrebbero condotto il più sanguinoso attentato terroristico della storia francese, nonché il secondo per dimensioni mai effettuato in Europa – il primo resta Madrid 2004 –, assassinando 130 persone e ferendone 368. Sette jihadisti avrebbero trovato la morte quella stessa notte, portando il bollettino finale a 137 decessi, mentre altri due sarebbero stati uccisi nel corso del celebre “raid di Saint-Denis”, avvenuto cinque giorni dopo.

Per lo stupore dell’opinione pubblica, ma non degli investigatori, le indagini successive avrebbero appurato che la strage di Parigi del 13 novembre 2015 fu pianificata a Bruxelles, più precisamente tra i palazzi fatiscenti di Molenbeek-Saint-Jean, da una cellula capeggiata da Abdelhamid Abaaoud e formata da altri combattenti. E oggi, a distanza di sei anni da quei tremendi avvenimenti, è il momento giusto per tornare a Molenbeek e scoprire se qualcosa è cambiato, se il terrore continua ad annidarsi qui.

Lo spettro Molenbeek a sei anni dall’11/9 parigino

Sono passati sei anni dall’11/9 francese e l’unico superstite di quella cellula del terrore passata alla storia per aver messo a ferro e fuoco Parigi per una sera si trova dietro le sbarre, dove è in attesa di ricevere una condanna per quelle gesta brutali. Quel superstite risponde al nome di Salah Abdeslam e, parimenti ad alcuni dei defunti compagni di merende insanguinate, è cresciuto nel più celebre ghetto di Bruxelles e dell’intero Belgio: Molenbeek.

A sei anni da quella sera funerea e tragica sulla questione Molenbeek, questo ghetto dimenticato da Dio e dal Belgio, è calato il sipario. Ed è calato nonostante la storia recente parli di questo piccolo quartiere alle porte di Bruxelles come di uno dei più grandi semenzai di jihadismo della contemporaneità, essendo il luogo che ha dato i natali e/o ha allevato gli assassini di Ahmed Shah Massoud, Hassan el-Haski (Madrid 2004), Mehdi Nemmouche (Bruxelles 2014), Ayoub El Khazzani (Oignies 2015), Oussama Zariouch (Bruxelles 2017), che ha fornito le armi ad Amedy Coulibaly (Parigi 2015) e che soltanto quattro anni or sono risultava essere la casa di ben 51 associazioni legate al terrorismo islamista.

La domanda è lecita: come va interpretato questo silenzio tombale, quest’oblìo nel quale ha fatto ritorno Molenbeek una volta che i riflettori sono stati spenti? È un silenzio rassicurante, che è indicativo di un problema risolto dalle autorità, oppure è un silenzio ipocrita, che verrà squarciato dalla prossima tempesta? Alcuni eventi sembrano suggerire che la Molenbeek del 2021 non si discosti molto da quella che il mondo ebbe modo di conoscere nel 2015.

A ricordarsi della dimenticata Molenbeek, in occasione del sesto anniversario degli attentati di Parigi, è stato il celebre quotidiano francese Le Figaro, che qui si è recato per scattare una fotografia del luogo e dei suoi abitanti. Quell’istantanea racconta che qualcosa è cambiato dal 2015 ad oggi, come mostra la presenza in loco di un collettivo femminista (RWDM Girls), ma non è priva di dettagli inquietanti, di prove, più che di indizi, a supporto dell’ipotesi che qui stia regnando la classica pace prima della tempesta.

Testimoni, che hanno parlato coi giornalisti de Le Figaro a patto di restare anonimi, hanno raccontato che tra belgi e marocchini – la prima nazionalità di Molenbeek – non c’è dialogo, men che mai se l’argomento al centro della discussione è il terrorismo. E il clima non è migliore negli ambienti frequentati da operatori sociali, politici locali e inquirenti, i quali preferiscono non parlare né interferire eccessivamente negli affari di Molenbeek per paura di alimentare tensioni.

I numeri della paura

Oggi come ieri, nel 2021 come nel 2015, le autorità belghe non mettono piede a Molenbeek, se non per effettuare arresti e operazioni antiterrorismo, e questo impedisce loro di creare un legame con il territorio e di risolverne i problemi. Problemi come l’esclusione dal mercato del lavoro – il 40% dei residenti è disoccupato; il tasso più alto del Belgio –, la segregazione spaziale e la ghettizzazione che, mai risolti dallo Stato, favoriscono e facilitano l’operato di predicatori dell’odio e reclutatori di narco-bande.

I numeri danno ragione alle preoccupazioni dei cronisti del quotidiano francese: dei 640 affiliati ad un’organizzazione terroristica di stampo jihadista che risiedono nel territorio belga, 70 hanno la propria dimora a Molenbeek. Spiegato altrimenti, questo quartiere ai margini della capitale belga, che è al tempo stesso la capitale informale dell’Unione Europea, ospita l’11% dell’intera popolazione jihadista della nazione – una percentuale che non tiene in considerazione, però, i radicalizzati e i soggetti in fase di radicalizzazione.

Il quadro, già abbastanza cupo, presenta delle tinte persino più fosche se analizzato nella sua interezza. Perché il Belgio, invero, è costellato di realtà periferiche dove prosperano criminalità e radicalizzazione religiosa; realtà che circondano Bruxelles – come Molenbeek e Laeken –, Anderlecht e Anversa – quest’ultima, che da anni è la “porta d’accesso della cocaina all’Europa”, è un crocevia babelico in cui si incontrano islamisti e jihadisti di ognidove, finanche della Cecenia.

Meno sangue, più colonizzazione culturale

Sebbene il terrorismo belga sia entrato in stand-by da qualche tempo – gli ultimi atti eclatanti risalgono al 2016 –, inquirenti e politici invitano a tenere alta la guardia. Perché la minaccia, lungi dall’essere scomparsa, ha semplicemente mutato forma. Oggi, infatti, i predicatori dell’odio preferiscono il controllo territoriale e l’influenza culturale al fragore delle armi, nella consapevolezza che scommettere sull’islam politico e su un comunitarismo esclusivistico equivale ad ottenere un vantaggio sostanziale nel lungo e lunghissimo termine.

Dal parlamentare Georges Dallemagne all’esperta di terrorismo Fadila Maaroufi, tutti sembrano essere d’accordo su un fatto: la pace che regna sopra Bruxelles è chimerica, fittizia, perché “l’islam politico e il comunitarismo continuano a guadagnare terreno, [mentre] le influenze esterne – Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Egitto – pesano sempre di più”. E sempre qui, in un caso più unico che raro, i vari gruppi islamisti e jihadisti hanno siglato una sorta di cessate il fuoco, alternando collaborazione e competizione, guidati dal comune obiettivo di riuscire nell’impensabile e nell’impossibile: l’islamizzazione della città-simbolo dell’Europa.

Difficilmente l’internazionale dell’islam radicale – che in Belgio è capeggiata da Fratellanza Musulmana e salafiti di varie estrazioni – riuscirà nell’anelo di islamizzare il cuore pulsante del liberal-progressismo occidentale, ma un’altra tempesta, prima o poi, esploderà di nuovo. E fermarla, questa volta, potrebbe rivelarsi più arduo, perché, come ha denunciato la Maaroufi, “la verità è che Fratelli musulmani e salafiti hanno infiltrato i partiti e il tessuto associativo” e che la pandemia, almeno per loro, è stata una manna dal cielo in termini di propaganda ed evangelizzazione. Perché a Molenbeek e negli altri quartieri dimenticati dal Belgio, dove la crisi sanitaria ha colpito più duramente che altrove, ad aiutare disoccupati e malati sono stati i volontari delle associazioni islamiste. E finita la pandemia, che per i teologi dell’islam radicale è stata vissuta come una semina, giungerà il tempo del raccolto.

Marco Cicala per “Il Venerdì” il 6 settembre 2021. Il processo più atteso si aprirà nello storico Palazzo di giustizia sull'Île de la Cité. A pochi passi da Notre-Dame, è il posto dove vennero giudicati Maria Antonietta, Danton, Baudelaire per I fiori del male, Émile Zola per il J'accuse, il maresciallo Pétain per aver collaborato coi nazisti. Mercoledì 8 settembre toccherà a Salah Abdeslam, 31 anni, belga di famiglia marocchina. Alla sbarra, dovrà spiegare che cosa fece nella notte tra il 13 e il 14 novembre del 2015, insieme ai commando-kamikaze che a Parigi ammazzò 130 persone in una sala-concerti, il Bataclan, nei dehors di bar e ristoranti, e fuori dallo Stade de France, dove si stava per giocare un'amichevole tra Francia e Germania. Abdeslam è un enigma. È le dixième homme, il decimo uomo, l'unico terrorista sopravvissuto a quegli attacchi-suicidi targati Isis. Perché non si fece esplodere? Paura? O un inconfessabile attaccamento alla vita? Oppure era forse programmato che non si immolasse pur di continuare a servire da passeur, da autista degli jihadisti in giro per l'Europa, da Convoyeur de la mort, trasportatore di morte, come recita il titolo di un avvincente libro-inchiesta in uscita dalle edizioni francesi Équateurs Lo firma Etty Mansour, pseudonimo di una scrittrice-giornalista che ha provato a entrare nella testa del "kamikaze interruptus", immergendosi per quattro anni nel milieu da cui è sgorgato - Molenbeek, il quartiere islamizzato di Bruxelles - e interrogando amici, vicini, conoscenti. Più Nour, la fidanzata che non vorrebbe più sentir parlare di lui. «Ho lasciato la parola ai testimoni» spiega l'autrice al Venerdì. «Non era mia intenzione ergermi a giudice e consegnare al lettore una verità. Resterà sempre una parte di mistero nella mente di uno che decide di troncare i ponti con i propri simili. Ma ciò non ci autorizza a non cercare di capire». Salah Abdeslam è stato arrestato in Belgio e condannato a vent'anni per terrorismo. Qualunque sarà il verdetto parigino della Corte d'Assise speciale, la sua vita è già fottuta, incenerita, andata in malora. Mansour ricostruisce la traiettoria di un "jihadista della porta accanto" in parallelo con l'affermarsi del radicalismo islamico mondializzato: «Abdeslam ha la stessa età di Al-Qaeda». 

Sognando Scarface. Un padre ex-tranviere, una madre iperprotettiva, tre fratelli e una sorella, Salah non era poi partito così male. Ottenuto un diploma da perito elettrotecnico, viene assunto anche lui nei trasporti pubblici, come addetto alla manutenzione. Ma, tempo un anno, lo cacciano via per assenteismo. Il posto fisso gli va stretto. Tipetto sveglio, istrionico, seduttore, un po' sbruffone, preferisce la vita di espedienti: spaccio, rapine, furtarelli. Parla male l'arabo e del Corano non sa quasi nulla. Vuole fa' l'americano. Si sogna Scarface. Ma diverrà l'emblema desolante di una generazione perduta che l'Europa ha gettato via senza sapere che farsene, salvo poi accorgersi che esisteva quando le è scoppiata letteralmente in faccia. All'inizio, la religione non c'entra. L'unico movente di Salah è il denaro, i quattrini con cui le reti della lotta armata islamista accalappiano sbandati votandoli alla missione della grande revanche musulmana, al martirio. Prima dell'estremo sacrificio però piovono i benefit: gipponi, contanti da bruciarsi in feste, lupanari, casinò, bar gay dove Salah gioca al gigolò. Non si prostituisce: deruba i clienti dei documenti d'identità che verranno falsificati per la causa. Durante le giornate uggiose, Abdeslam e i goodfellas del quartiere si stordiscono di birra e canne, nelle sale interne dei bar guardano al computer i video delle decapitazioni come se fossero serie tv. Il califfato dell'Isis promette il gran salto: dal piccolo gangsterismo alla vita eterna. Il fratello di Abdeslam, Brahim - che si farà esplodere in un bar parigino - parte a combattere in Siria. Lui non lo segue. Gli va più a genio il lavoro di retroguardia, l'organizzazione logistica sul continente: trovare esplosivi, affittare covi per i compagni. Finché, nel 2015, il gioco non si fa duro. L'annus horribilis si apre con il massacro nella redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo. È il segnale che in Europa si sta preparando una campagna militare stragista. Quella culminata nell'ecatombe del Bataclan e dei bar della movida.

Mutismo e preghiere. Come racconta il libro, Parigi è vista dai guappi dell'islamismo con un misto di attrazione e rigetto. È la capitale del sesso, dello sballo, del peccato, che affascina, ma va punita. La storia di quella notte assassina non è ancora del tutto chiara. Abdeslam fu lo chauffeur dei kamikaze. Secondo i piani, avrebbe dovuto immolarsi anche lui. Ma sosterrà che la sua cintura esplosiva fece cilecca. Salah se ne libera e di straforo riesce a rientrare in Belgio, a Molenbeek, la sua tana. Ormai è in carcere da cinque anni. Dietro le sbarre si è radicalizzato. Stavolta davvero. Parla pochissimo. Prega o compulsa il Corano. «L'islamismo è la nuova maschera che ha indossato per far dimenticare il codardo» dice Etty Mansour. «Le prigioni sono incubatrici di radicalismo. E forse lui sente che ora la sua missione è il proselitismo tra i detenuti. Certo, si è islamizzato après coup, a cose fatte. Ma, nel suo caso, parlare di "radicalizzazione rapida" può essere fuorviante. Perché era già impregnato di jihad come cultura, immaginario, ideologia totalitaria, narrazione che deve compiersi in un obiettivo». La riconquista talebana in Afghanistan ridarà slancio al terrorismo in Europa? - chiedo alla scrittrice. Risposta: «C'è qualcosa di indecente nella sua domanda. Non dovremmo preoccuparci prima del popolo afgano?». Dato il suo mutismo e le sue reticenze, non si riusciva a trovare un avvocato per Salah Abdeslam. Alla fine, a difenderlo sarà Maître Olivia Ronen, 31 anni, stessa età dell'imputato. Una donna per l'ex macho sciupafemmine. Perfida ironia della storia. Ma forse, anche, grandezza del Diritto. 

Mauro Zanon per “Libero Quotidiano” l'1 settembre 2021. Il prossimo 8 settembre, davanti alla corte d'assise speciale di Parigi, si aprirà il maxi-processo degli attentati jihadisti del 13 novembre 2015, durante i quali persero la vita 130 persone, e 500 rimasero ferite più o meno gravemente. L'unico sopravvissuto degli attacchi che funestarono la Francia nello stesso anno della strage di Charlie Hebdo è Salah Abdeslam, il terrorista francese naturalizzato belga e di origini marocchine attualmente rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Fleury-Mérogis, nella periferia sud di Parigi. Sarà presente in aula Abdeslam, che partecipò agli attentati come "convoyeur de la mort", trasportatore della morte, secondo la definizione di Etty Mansour, che in un libro appena uscito per le edizioni Équateurs ha ricostruito il percorso dell'islamista cresciuto nella banlieue di Molenbeek, a Bruxelles. L'inchiesta dell'autrice, che si è presentata come "écrivaine" e sotto pseudonimo ai suoi interlocutori per ragioni di sicurezza, racconta la storia di disumanizzazione di questo ragazzo figlio dell'immigrazione maghrebina che passava le giornate a fumare hashish e a giocare alla play station, prima di radicalizzarsi e guardare video di decapitazioni assieme a correligionari estremisti al cafè Les Beguines di Molenbeek, covo di frustrazioni e progetti violenti contro i "kouffars", gli infedeli. Ma nel libro di Etty Mansour si scopre anche che Salah Abdeslam e alcuni dei suoi amici estremisti avevano una fissa per i locali gay di Bruxelles. «A Molenbeek, Salah Abdeslam viveva in una società di soli uomini. "Alhamdulillah! (grazie a Dio, ndr) Allontana i miei figli dal vizio", dicevano le madri. Il vizio erano le donne. Tentatrici da cui bisognava tenere lontani i ragazzi. E madonne di cui bisognava preservare la verginità prima del matrimonio. Perennemente tra uomini, l'eccitazione omosessuale diventava onnipresente», scrive la Mansour a proposito dell'ambiente in cui viveva il coordinatore del commando del 13 novembre. Dei bar gay di Bruxelles, Abdeslam era un habitué. «Amava flirtare con questo doppio divieto: diventare un frequentatore assiduo dei locali in cui andavano gli omosessuali e derubarli», rivela Mansour. Col fratello Brahim, andava a sedurre altri uomini e talvolta rubava portafogli o cercava carte d'identità da falsificare. Alcuni suoi conoscenti hanno detto a Etty Mansour che Salah «non è mai passato all'atto» con altri uomini. Ma l'autrice riporta anche una testimonianza: «Sono venuta a sapere da un agente della polizia giudiziaria che nei casi di terrorismo numerosi sospetti nascondono immagini di porno gay nei loro cellulari. Hanno problemi di frustrazione sessuale».

Da Socrate al Bataclan: se il processo penale è un dramma letterario. Lo scrittore francese Emmanuel Carriere assisterà al processo sulla strage del Bataclan. Non è la prima volta che la letteratura entra in un'aula di giustizia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 2 novembre 2021. Da oltre un mese lo scrittore francese Emmanuel Carrère si sveglia all’alba, impugna un taccuino da cronista e si affretta a prendere il metrò per raggiungere il tribunale dove è in corso il processo per le stragi jihadiste del 13 novembre 2015: le sventagliate di kalashinikov sulle terraces della Bastiglia, il massacro del Bataclan, la mancata carneficina allo Stade de France, una delle giornate più sanguinose nella storia del dopoguerra transalpino. E una ferita ancora sanguinante nel cuore del Paese. I media lo hanno definito il “processo del secolo”, la “Norimberga del terrorismo” ma è un paragone che non sta in piedi: a Norimberga sfilavano i gerarchi del Terzo Reich, mentre qui è alla sbarra un povero fanatico 32enne che sembra ostaggio di una Storia più grande di lui; dalla banalità del male alla miseria del male. Sarà anche un processo lunghissimo, almeno nove mesi di udienze per cinque giorni alla settimana. Tutti i riflettori sono dunque puntati su Salah Abdeslam (e altri 13 presunti complici), l’unico sopravvissuto del commando che, quella notte di sei anni fa, scatenò l’inferno nelle vie di Parigi. Ha parlato solo il primo giorno Abdeslam, per ribadire che non aveva nulla da dire, ha confermato la sua identità ma ha detto di non riconoscere la giustizia francese e di essere un guerriero dell’Islam: «Allah è l’unico che mi può giudicare». Una cosa molto concreto però l’ha detta, denunciando il trattamento ricevuto in prigione: «Ci trattano come dei cani». E probabilmente su questo ha ragione. Carrere, che tiene un diario periodico delle udienze sul Nouvel Observateur , confessa di essere attratto dai meccanismi mentali che portano un individuo a perdere il senso dell’umanità, divorato dall’odio religioso: «Anche se non sono un esperto, mi interesso da tempo alle religioni, alle loro mutazioni patologiche, e mi chiedo: dove inizia la patologia? Quando si tratta di Dio dove comincia la follia? Assistere al processo è un modo per scrutare questo fenomeno». Durante le prime settimane, nella grigia aula bunker allestita alla periferia di Parigi, scorrono i raggelanti racconti dei superstiti, ogni testimonianza apre uno squarcio sull’orrore, un’orrore dilagante, generale, ma fatto anche di piccoli dettagli, di percezioni sfasate del tempo, nell’interminabile presa d’ostaggi del Bataclan, tra i feriti agonizzanti, i ragazzi e le ragazze che si nascondevano sotto le pile di cadaveri fingendosi morti, i momenti di speranza e quelli disperati. «Non so ancora cosa mi ha spinto a infliggermi una simile prova. Resteremo chiusi in quest’aula per quasi un anno, sentiremo e proveremo un’esperienza estrema, le parole di persone restate in bilico tra la vita e la morte e che hanno visto l’orrore, sarà una lunga traversata», spiega ancora Carrere. Quando la penna di uno scrittore incontra i grandi processi penali avviene sempre una distorsione dei piani di racconto e di ascolto, lo scopo della letteratura eccede e non coincide mai con quello del processo. Non si tratta di ricostruire i fatti (anche se non è escluso che possa accadere) o di stabilire una plausibile verità giuridica, ma raccontare un punto di vista, magari allargato, che spesso chiama in causa sentimenti universali attraverso storie particolari, che prova a entrare nella carne viva delle persone, oltre la pedissequa prosa della burocrazia, gli elenchi dei faldoni, le cantilenose. Un punto di vista soggettivo e irriducibile, a volte faziosamente schierato come nell’Apologia di Socrate, scritta dal discepolo Platone che mette in scena la spassionata difesa del filosofo di fronte allo zelo accusatorio di Antino, Meleto e Licone, in un processo che porterà all’ingiusta condanna morte di Socrate per empietà e corruzione della gioventù. Ma anche un’opera politicamente schierata, che attacca i sofisti e la democrazia da parte di Platone seguace dell’oligarchia. Lo stesso processo a Gesù di Nazaret viene raccontato dai quattro Vangeli principali, una testimonianza tra storia e leggenda da parte dei discepoli di Gesù che, nei limiti della verosimiglianza, illumina uno dei primi grandi errori giudiziari della nostra civiltà, le accuse pretestuose e la condanna del Sinedrio, la promessa tradita di una pena mite da parte del romano Ponzio Pilato che vigliaccamente lo manderà crocifisso per seguire la vox populi che voleva Barabba libero. Processi che si perdono nella notte dei tempi. ricostruiti tramite testimonianze di seconda mano a tanti anni di distanza dai fatti. Ma era l’antichità e le informazioni non correvano veloci come oggi. Molto più simile a quello di Carrere il lavoro dello scrittore americano Truman Capote nel celebre A Sangue Freddo, che racconta il brutale omicidio alla fine degli anni 50 di una famiglia di proprietari terrieri del Kansas da parte di due balordi, poi catturati, processati e mandati al patibolo. Un romanzo che sconvolse l’America per la crudezza del racconto e per l’intraprendenza di Capote che volle conoscere gli assassini personalmente, capace di guardare il male dritto negli occhi senza ipocrisie e ricami letterari. Il fatto di cronaca che diventa allora una metafora della violenza che lievita nella società americana. La sparatoria infinita che segna la cronaca nera d’oltreoceano da oltre mezzo secolo dimostra che Capote aveva capito i mali dell’America prima di tutti. All’inverso, la Banalità del Male di Hannah Arendt si immerge nella “grande Storia”, l’Olocausto del popolo ebraico, raccontando il processo al contabile dello sterminio Adolf Eichman, catturato dal Mossad in Argentina quando ormai pensava di averla fatta franca e portato alla sbarra a Tel Aviv. Un processo tra i più importanti del ventesimo secolo per attenzione e carica simbolica. E un’opera, quella di Arendt, sospesa tra il report giornalistico e il saggio filosofico in cui il “male” nel suo significato storico e generale, si annida nei dettagli, si incarna nella normalità di un individuo grigio, anonimo, per l’appunto “banale”, che vidimava carte per mandare a morire dei bambini nei campi di sterminio con la stessa mitezza con cui avrebbe timbrato un pacco postale. Sull’altro fronte Il caso Kravchenko di Nina Berberova, ci racconta il processo per diffamazione intentato dall’ex ingegnere sovietico dissidente contro il settimanale comunista Les Lettres françaises.

Kravchenko aveva denunciato i gulag staliniani e ottenuto asilo dagli Usa, venendo definito «un bugiardo e una spia» da parte di decine di intellettuali francesi, su tutti Roger Garaudy, filosofo marxista poi sprofondato negli anni in una cupa deriva antisemita. La penna di Beberova ci porta nelle conventicole del confromismo ideologico di moti intellettuali comunisti incapaci di ammettere che il loro sogno politico si era trasformato in un incubo.

Da "lastampa.it" il 2 novembre 2021. Vivere secondo i valori dell'Occidente equivale a «vivere da libertino». Così il terrorista Salah Abdelsam, unico sopravvissuto all'attentato del Bataclan, spiega in aula il perché della sua decisione di «rinunciare al progetto di avere una famiglia e dei figli» per un obiettivo più ampio, «il progetto per il quale oggi sono criticato». Nato e cresciuto in Belgio, «imbevuto di valori occidentali», Abdelsam in tribunale racconta di trascorrere le sue giornate in cella leggendo, ma di aver smesso di giocare a scacchi perché «è proibito dall'Islam». Infine, interrogato sulla sua definizione dei valori occidentali, specifica che si tratta di «vivere da libertino, vivere senza preoccuparsi di Dio, fare ciò che si vuole, mangiare ciò che si vuole, bere ciò che si vuole». Prima della sua radicalizzazione nel 2014, Salah Abdeslam andava in una discoteca «di tanto in tanto per divertirsi» ma non ballava. Si definisce «un bravo studente, amato dai miei insegnanti». «Non ero un bravo ballerino - racconta ancora ai giudici - giocavo al casinò ma non dipendente dal gioco». Dice di non essere stato «un consumatore di cannabis». Ma di farne uso, «solo per hobby, una canna ogni tanto nei fine settimana».

L’orrore rivissuto in un audio 

In aula alla Corte di Assise di Parigi è stato diffuso oggi – come richiesto da un'associazione delle vittime – un audio di qualche minuto, registrato nel pieno del massacro del 13 novembre 2015, nel quale morirono in un attacco jihadista 90 persone, tra cui l'italiana Valeria Solesin. «Il primo che si alza sparo», si sente gridare. Dopo cinque settimane consacrate alle testimonianze di circa 350 parti civili, questa diffusione permette «di rendersi conto, in altra maniera, dell'orrore», ha spiegato Arthur De'nouveaux, presidente di Life of Paris, lui stesso sfuggito all'attacco. L'audio è stato ottenuto da un dictafono che era rimasto acceso durante tutto il tempo e ha captato la dinamica dell'attentato. Si sentono chiaramente le voci degli attentatori che rivendicano l'attacco «per la Siria e per l'Iraq», che tirano in ballo l'allora presidente Francois Hollande e i bombardamenti effettuati «dai soldati francesi e americani». «Noi ora bombardiamo sulla terra, non abbiamo bisogno di aerei si sente». E ancora: «Il primo che si alza gli sparo un proiettile in testa. E' chiaro? Chi prova a fare il giustiziere lo uccido, avete capito?». Un'altra voce monocorde, fredda in sottofondo: «Non potete che prendervela con il vostro presidente Hollande». Sui banchi le parti civili abbassano la testa, qualcuno se ne e' andato invitato dal giudice prima ancora che iniziasse la registrazione. Qualcun altro si prende le mani, qualcuno esce dalla sala. Poi gli spari, le urla e il frastuono di un'esplosione», quella della cintura esplosiva del terrorista algerino Samy Amimour, deflagrata subito dopo che un poliziotto lo aveva colpito sul palco del teatro. 

Sotto processo anhe la madre di un attentatore

Intanto la madre di Foued Mohamed Aggad, uno dei tre kamikaze, viene processata per «finanziamento del terrorismo», assieme alla compagna del figlio, anch'essa alla sbarra «per associazione di stampo terrorista». Fatima Hajji, 53 anni, è in tribunale per aver versato soldi al figlio e alla compagna del figlio tra il 2014 e il 2015, quando si trovavano nella zona tra Siria e Iraq. Foued Mohamed Aggad tagliò in ponti con la famiglia alla fine del mese di agosto 2015, dopo aver annunciato che sarebbe «morto da martire», secondo i verbali della polizia. Sarebbe poi rientrato in Francia nell'estate del 2015 per diventare uno dei tre assalitori morti nell'attacco che ha causato 90 morti al Bataclan.

"Vivere come voi? Da libertini". E spunta l'audio choc del Bataclan. Rosa Scognamiglio il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. A sei anni dal massacro, spunta l'audio choc dell'attentato al Bataclan. Così uno dei terroristi: "Il primo che parla, gli sparo un proiettile in testa. Avete capito?". "Vivere da occidentale vuol dire vivere da libertini". A dirlo è il terrorista Salah Abdelsam, uno degli autori della strage al Bataclan, consumatasi il 13 novembre 2015. Davanti ai giudici della Corte d'Assise di Parigi, lo jihadista spiega le ragioni per cui ha rinunciato al progetto di una famiglia: "per qualcosa più grande, quello per cui oggi sono criticato". In aula spunta anche l'audio choc della mattanza: "Il prima che si alza, sparo".

"Gli occidentali? Dei libertini"

Salah Adelsam, terrorista francese di origini marocchine naturalizzato belga, non fa marcia indietro: "Vivere da occidentale vuol dire vivere da libertini", afferma con tono solenne davanti ai giudici parigini. Racconta del suo passato da "bravo studente, amato dagli insegnanti" e della sua conversione all'Islam radicale. A sei anni dalla strage che uccise 90 giovani, tra i quali anche l'italiana Valeria Solesin, il terrorista non mostra segni di ravvedimento: "Vivere da libertino vuol dire vivere senza preoccuparsi di Dio, - spiega - fare ciò che si vuole, mangiare ciò che si vuole, bere ciò che si vuole". Nega di esser stato un consumatore abituale di cannabis sostenendo di averne fatto uso "solo per hobby, una canna ogni tanto nei fine settimana". In carcere legge molto e ha smesso di giocare a scacchi perché "è proibito dall'Islam", ribadisce a più riprese.

L'audio choc della strage al Bataclan

Questa mattina, davanti ai giudici della Corte d'Assise di Parigi, è stato trasmesso l'audio choc del massacro. Come ben spiega il quotidiano La Stampa, si tratta di una breve registrazione - recuperata da un dictafono rimasto acceso durante l'attentato - che consegna alla memoria collettiva tutto l'orrore della strage al Bataclan. "Il primo che si alza, sparo", grida uno degli jihaisti dal palco prima di aprire il fuoco sulla folla. Nel nastro si distinguono chiaramente le voci degli attentatori che rivendicano l'attacco "per la Siria e per l'Iraq", che se la prendono con l'ex presidente Francois Hollande e i bombardamenti "dei soldati francesi e americani". "Noi ora bombardiamo sulla terra, non abbiamo bisogno di aerei". E poi le minacce: "Il primo che si alza gli sparo un proiettile in testa. E' chiaro? Chi prova a fare il giustiziere lo uccido, avete capito?". Infine il rumore sordo degli spari e il "frastuono di un'esplosione", quella della cintura esplosiva del kamikaze algerino Samy Amimour.

A processo la mamma di un attentatore

Intanto, è finita sotto processo anche la madre di uno degli attentatori. Si tratta di Fatima Hajji, 53 anni, indagata per "finanziamento del terrorismo" e "associazione di stampo terrorista". Secondo l'accusa avrebbe finanziato il figlio e la fidanzata tra il 2014 e il 2015 dopo l'annuncio che "sarebbe morto da martire". Foued Mohamed Aggad sarebbe quindi rientrato in Francia nel 2015 per dare seguito al piano criminale. 

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019,

Bataclan, a Parigi parla l'attentatore Salah Abdeslam: "Abbiamo colpito per rispondere ai bombardamenti contro lo Stato islamico. Anche voi avete ucciso civili e bambini". Anais Ginori su La Repubblica il 15 settembre 2021. In una immagine che fu trasmessa da Sky News, uno dei presunti attentatori di Parigi, Salah Abdeslam (l'uomo con la giacca marrone), cammina tra la folla a poche ore dagli attacchi simultanei che causeranno circa 130 vittime la sera del 13 novembre 2015. In aula l'unico sopravvissuto tra i terroristi del 13 novembre del 2015: "Noi, autentici musulmani. Abbiamo colpito la popolazione, ma non c'era nulla di personale. Ha sbagliato Hollande: sapeva che la sua decisione di partecipare all'intervento militare avrebbe portato francesi incontro alla morte". “Sì, abbiamo voluto colpire la Francia per rispondere ai bombardamenti sullo Stato islamico”. Al sesto giorno di processo, senza grande sorpresa, Salah Abdeslam riconosce la sua colpevolezza. Il decimo uomo del commando degli attentati del 13 novembre 2015, l'unico che non è morto da “martire”, sa che non ha niente da perdere, che rischia l'ergastolo alla fine del lungo percorso giudiziario che si è aperto mercoledì e durerà nove mesi.

Leonardo Martinelli per "La Stampa" il 3 novembre 2021. Negli ultimi giorni appariva già con i capelli rasati in testa e una barba sempre più folta. Quel look da fondamentalista non augurava niente di buono: Salah Abdeslam, 32 anni, l'unico sopravvissuto dei dieci jihadisti del commando, che sparse l'orrore a Parigi la sera del 13 novembre 2015, doveva rispondere ieri alle domande dei giudici e degli avvocati, al processo in corso nell'aula bunker, nel cuore di Parigi. Per gridare ancora, come fece il primo giorno, lo scorso settembre, aggressivo e vendicativo, «sono un soldato dello Stato islamico»? No, ieri, in realtà, al di là delle apparenze, l'uomo ha assunto toni tranquilli. Ambiguo, la sua è stata probabilmente una strategia difensiva. Ostentare il volto umano e rilassante di un terrorista. Contraddittorio Abdeslam lo è stato fin dagli inizi. Quella sera, prima che i suoi complici si fiondassero al Bataclan, lui ne accompagnò tre allo Stade de France, che si fecero saltare in aria. La sua cintura esplosiva, invece, fu ritrovata nella periferia Sud in un cestino dell'immondizia. Non poté fare il martire, perché era difettosa? O non l'azionò per codardia? Dovrà spiegarsi anche su questo, ma in gennaio. Ieri, invece, l'udienza riguardava la sua vita e personalità. Salah ha parlato, forse anche un po' recitato. È originario di Molenbeek, il quartiere di Bruxelles, da dove provengono gran parte degli altri tredici imputati, accusati di complicità. Papà conducente di tram, mamma casalinga, di origini marocchine, Abdeslam dice che da bambino era «calmo e gentile. In famiglia c'era una buona atmosfera». Dopo la maturità tecnica, andò a lavorare come meccanico nella società del padre, a riparare i convogli. Ma dopo un anno e mezzo si licenziò, inanellando una serie di lavoretti. Finché una sera fu arrestato per tentativo di rapina in un garage («mi ci ritrovai in mezzo, senza volerlo»), assieme al suo amico da sempre, Abdelhamid Abaaoud, altro giovane perso di Moleenbek. Ieri non lo ha ricordato, ma anni dopo, guardando i video postati da Abaaoud dalla Siria, mentre al volante di un Suv trascinava nella polvere i cadaveri dei giustiziati dello Stato islamico, Abdeslam si convincerà che anche per lui era arrivata l'ora della jihad. Prima era stato condannato più volte, anche per guida senza patente o sotto l'effetto di stupefacenti. «Amo la velocità», ha commentato ieri. Abaaoud, mente operativa degli attentati del 13 novembre, lo utilizzò nei mesi precedenti per scorrazzare in tutta Europa su auto di grosse cilindrata: andava a cercare tra l'Austria e l'Ungheria gli altri terroristi del commando, arrivati dalla Siria come migranti qualunque. La sua radicalizzazione risale al 2014, giusto un anno prima del Bataclan. In precedenza (ma, secondo varie testimonianze, anche pochi giorni prima gli attentati) Abdeslam beveva, andava in discoteca (pure gay, per attirare omosessuali adulti e poi spennarli), si faceva le canne nel bar del fratello (lui martire davvero il 13 novembre). Ieri ha voluto ridimensionare quel Salah lì («Spinelli? Una volta ogni tanto»). Per poi riassumersi così: «Sono nato in Belgio, sono cresciuto lì, impregnato dei valori occidentali». Che vuol dire «vivere come un libertino, senza preoccuparsi di Dio. Fare, bere e mangiare quello che si vuole». Da cinque anni e mezzo vive isolato nella sua cella, con la possibilità due volte al giorno di andare in un altro spazio a fare sport. Si è lamentato del fatto di vivere relegato in nove metri quadrati. Ma il presidente della corte gli ha fatto notare che a Fleury-Mérogis, la prigione dove si trova, al Sud di Parigi, ci sono anche due o tre persone in ogni cella, delle stesse dimensioni, a causa della sovrappopolazione carceraria. «In ogni caso ho rifiutato i sostegni psicologici che mi hanno proposto - ha detto lui, sicuro -, non ne ho bisogno». Che enigma Abdeslam. O forse no. Sven Mary, suo ex avvocato in Belgio, lo descriveva così: «Era un esecutore d'ordini più che uno che decideva. Ha l'intelligenza di un posaceneri vuoto». 

“Resto un combattente”. Non si pente il terrorista della strage del Bataclan. Anais Ginori su La Repubblica l'8 settembre 2021. Al via le udienze contro gli autori dell'attentato del 2015. La sentenza a maggio Salah Abdeslam compare in aula. Le urla dei parenti delle vittime: "Sei un bastardo". "Imputato Salah Abdeslam, le chiedo di confermare la sua identità". "Tengo innanzitutto a testimoniare che Allah è l'unico dio e che Maometto è il suo messaggero". "Questo lo vedremo dopo". Nel dialogo surreale tra un jihadista non pentito e il presidente della Corte d'assise di Parigi è riassunta la sfida che si è aperta ieri, affermare la superiorità dello stato di diritto nella lotta contro l'odio fondamentalista in una Francia che non è ancora uscita dalla stagione del terrorismo islamista.

Anais Ginori per "la Repubblica" il 16 settembre 2021. «Sì, abbiamo voluto colpire la Francia per rispondere ai bombardamenti sullo Stato islamico». Salah Abdeslam riconosce la sua colpevolezza e con l'ennesima provocazione tenta di giustificarsi. Al sesto giorno di processo sugli attentati del 13 novembre 2015, la parola alla difesa. Non è ancora svanita l'emozione dell'udienza in cui sono stati elencati i nomi delle 130 vittime, la più giovane Lola non era ancora maggiorenne, ed è già il momento di ascoltare gli imputati. Dietro ai vetri blindati, alcuni si scusano, hanno la voce che trema, parlano della sfortuna di essere finiti nel giro sbagliato. Non è la Norimberga del terrorismo islamico perché gli esecutori degli attacchi sono morti e i mandanti sono assenti, forse uccisi in Siria. Alla sbarra, personaggi di seconda e terza fila, jihadisti quasi per caso, creando un misto di frustrazione e rabbia. L'unico che non rinnega, anzi contrattacca, è lui. Il kamikaze riluttante che quella notte non s' è fatto esplodere come il fratello Brahim e gli altri compagni "martiri". Sa che rischia l'ergastolo alla fine del percorso giudiziario che durerà 9 mesi. Ha esordito nei primi giorni sfidando i giudici nella nuova maxi-aula sull'Île de la Cité, presentandosi come "combattente islamico", mettendo "l'unico Dio Allah" sopra alla giustizia degli uomini. E ieri, quando il suo microfono si accende, non si fa sfuggire l'occasione. «Una giudice belga ha parlato di terrorismo, jihadismo», commenta a proposito della deposizione avvenuta il giorno prima. «Sono termini che creano confusione. Io dico che non sono terroristi, sono autentici musulmani». Il trentenne belga-marocchino - fisico palestrato, giacca alla moda - riprende una domanda posta dai giudici ad altri testimoni. «Perché abbiamo colpito la Francia? Perché è il Paese che bombardava lo Stato islamico senza fare distinzione tra uomini, donne e bambini. Abbiamo voluto che la Francia provasse lo stesso dolore». Aggiunge una frase che risulta insopportabile a molti: «Certo, abbiamo colpito la popolazione ma non c'era niente di personale». Abdeslam cita l'allora presidente Hollande che aveva varato l'intervento militare con l'Isis. «Sapeva che la sua decisione avrebbe portato i francesi a incontrare la morte», dice, ricordando Chirac che nel 2003 rifiutò di partecipare alla guerra in Iraq. «Perché si rendeva conto che avrebbe provocato un movimento di odio anti-francese». Prima di concludere, con lo sguardo un po' allucinato, Abdeslam si rivolge all'aula, meno affollata del solito. Pochi parenti delle vittime sono presenti, forse nel timore di dover incassare pure le sue invettive. Nei giorni scorsi qualcuno gli ha gridato "bastardo", "pezzo di merda". Ora è calato il silenzio. «So che alcuni dei miei propositi possono urtare le anime sensibili. Lo scopo non è girare il coltello nella piaga, ma voglio dire la verità alle vittime. Il minimo che devo loro è essere sincero». Hamza Attou, uno dei tre amici che aveva riportato Abdeslam in Belgio la notte del 13 Novembre, spiega: «In nessun momento volevo fare terrorismo». Un altro imputato, Farid Kharkhach, dice quasi in lacrime: «Ho fornito falsi documenti ma non immaginavo che servissero a un massacro». Yassine Atar, fratello minore del mandante Oussama Atar (presunto morto in Siria), ripete più volte: «Quello è mio fratello, non sono io». All'uscita dal processo, i due legali che difendono Abdeslam chiedono ai media di non enfatizzare le dichiarazioni del loro cliente. «Non dobbiamo trasformare questo processo in un frastuono permanente», commenta Martin Vettes. «Siamo consapevoli che qualsiasi cosa faccia o dica sarà odiato» riconosce. «Ma è presente e parla, e già questo non era scontato». Salah parla e ora molti si chiedono come evitare che il maxi-processo immaginato come una catarsi collettiva non si trasformi in un megafono della sua propaganda. 

Bataclan, il terrorista Abdeslam a processo: «La mia professione è fare il combattente. Allah è grande». Stefano Montefiori, corrispondente a Parigi, su Il Corriere della Sera l'8 settembre 2021. Parla l’unico attentatore sopravvissuto: «In carcere mi trattano come un cane». E qualcuno gli urla: «Sei un porco!». «Siamo come dei cani qui! — urla Salah Abdeslam nel box degli imputati, dopo essersi alzato in piedi —. Sono più di sei anni che vengo trattato come un cane (in realtà è stato arrestato nel marzo 2016, ndr). Qui è bello (riferendosi alla nuova aula del tribunale, ndr), ci sono gli schermi e l’aria condizionata, ma dietro siamo trattati come cani». Nell’aula, dalla zona riservata alle parti civili, qualcuno urla «Perché sei un porco!». Un altro: «Bastava che tu non uccidessi 130 persone!». Il principale imputato al processo per il Bataclan e e altre stragi del 13 novembre 2015 si rivolge allora al presidente del tribunale indicandolo con il dito: «Non mi sono mai lamentato in sei anni. Dopo la morte resusciteremo, e anche lei sarà chiamato a rendere conto». Il presidente resta calmo, gli dice che può bastare, «non siamo in un tribunale ecclesiastico», Abdeslam torna a sedersi. È il primo scontro di un processo storico, il più grande mai organizzato in Francia per un affare criminale, che durerà nove mesi e che già dall’inizio attira l’attenzione pressoché totale di tutto il Paese.

Professione combattente. Poche ore prima il principale imputato, Salah Abdeslam, maglietta nera, capelli raccolti all’indietro, barba, è chiamato a fornire le generalità. A dispetto delle previsioni, che lasciavano supporre un silenzio assoluto, il terrorista si abbassa la mascherina e si avvicina al microfono: «Prima di tutto vorrei testimoniare che non c’è altro Dio se non Allah e che Maometto è il suo messaggero». «Questo lo vedremo più tardi», risponde con grande calma il presidente della Corte di assise, Jean-Louis Periès. I nomi dei genitori? «Non c’entrano nulla con questa storia». È dunque il giudice a pronunciarli. Professione? «Ho abbandonato la mia professione per diventare un combattente dello Stato islamico», dice Abdeslam. «A me risultava professione: lavoratore temporaneo», puntualizza Periès, che ostenta serenità ma al tempo stesso sembra non volere stare al gioco delle provocazioni di Abdeslam.

L’unico sopravvissuto. Abdeslam è l’unico terrorista islamico che è sopravvissuto dopo avere partecipato alle stragi del 13 novembre allo Stade de France, ai tavolini all’aperto dei ristoranti e al Bataclan. Non è chiaro se la sua cintura esplosiva non ha funzionato, o se lui ha rinunciato a innescare l’ordigno all’ultimo momento, rinunciando al suicidio programmato. Quella sera suo fratello Brahim Abdeslam faceva parte del commando, ed è morto — per fortuna senza fare altre vittime — facendosi esplodere davanti al ristorante Comptoir Voltaire. Salah Abdeslam invece ha gettato la sua cintura in un cestino della spazzatura a Montrouge, e poi è scappato in Belgio, a Molenbeek, dove è stato arrestato il 18 marzo 2016.

L’avvocato: «Tutti vanno difesi». Estradato in Francia e incarcerato nella prigione di Fléury-Merogis, nell’estate 2018 Salah Abdeslam ha contattato una giovane avvocata sconosciuta all’opinione pubblica, Olivia Ronen, oggi 31enne. Nel settembre 2018 la donna è andata a parlare con il terrorista in prigione. «Abbiamo discusso molto — ha raccontato al Parisien —, ho pensato che si potesse fare qualcosa. Amo le sfide. Un avvocato non difende una causa, ma un individuo. Anche se certe volte si ha la tentazione di escludere qualcuno dall’umanità, questa persona ne fa parte tanto quanto noi». Prima di prendere la parola in tribunale, Abdeslam si è avvicinato a Ronen sussurrandole qualche parola.

Un segnale lanciato all’esterno. Le sue dichiarazioni su Allah e sul suo essere un combattente dello Stato islamico possono essere interpretate come la volontà di non riconoscere la legittimità della Corte a giudicarlo, perché nella sua ottica solo Allah può farlo. Ma c’è anche il timore che le parole di Abdeslam siano un segnale lanciato all’esterno, per fare proselitismo mostrando che la battaglia continua nonostante la sconfitta dello Stato islamico in Siria e Iraq, e per convincere altri potenziali terroristi a entrare in azione, in un momento che vede incrociarsi tre eventi: il processo di Parigi per il Bataclan e le altre stragi del 13 novembre, il ritorno dei Talebani a Kabul e il ventesimo anniversario dell’11 settembre.

Dal Corriere.it il 9 settembre 2021. «Siamo come dei cani qui! — urla Salah Abdeslam nel box degli imputati, dopo essersi alzato in piedi —. Sono più di sei anni che vengo trattato come un cane (in realtà è stato arrestato nel marzo 2016, ndr). Qui è bello (riferendosi alla nuova aula del tribunale, ndr), ci sono gli schermi e l’aria condizionata, ma dietro siamo trattati come cani». Nell’aula, dalla zona riservata alle parti civili, qualcuno urla «Perché sei un porco!». Un altro: «Bastava che tu non uccidessi 130 persone!». Il principale imputato al processo per il Bataclan e altre stragi del 13 novembre 2015 si rivolge allora al presidente del tribunale indicandolo con il dito: «Non mi sono mai lamentato in sei anni. Dopo la morte resusciteremo, e anche lei sarà chiamato a rendere conto». Il presidente resta calmo, gli dice che può bastare, «non siamo in un tribunale ecclesiastico», Abdeslam torna a sedersi. È il primo scontro di un processo storico, il più grande mai organizzato in Francia per un affare criminale, che durerà nove mesi e che già dall’inizio attira l’attenzione pressoché totale di tutto il Paese. Poche ore prima il principale imputato, Salah Abdeslam, maglietta nera, capelli raccolti all’indietro, barba, è chiamato a fornire le generalità. A dispetto delle previsioni, che lasciavano supporre un silenzio assoluto, il terrorista si abbassa la mascherina e si avvicina al microfono: «Prima di tutto vorrei testimoniare che non c’è altro Dio se non Allah e che Maometto è il suo messaggero». «Questo lo vedremo più tardi», risponde con grande calma il presidente della Corte di assise, Jean-Louis Periès. I nomi dei genitori? «Non c’entrano nulla con questa storia». È dunque il giudice a pronunciarli. Professione? «Ho abbandonato la mia professione per diventare un combattente dello Stato islamico», dice Abdeslam. «A me risultava professione: lavoratore temporaneo», puntualizza Periès, che ostenta serenità ma al tempo stesso sembra non volere stare al gioco delle provocazioni di Abdeslam. Abdeslam è l’unico terrorista islamico che è sopravvissuto dopo avere partecipato alle stragi del 13 novembre allo Stade de France, ai tavolini all’aperto dei ristoranti e al Bataclan. Non è chiaro se la sua cintura esplosiva non ha funzionato, o se lui ha rinunciato a innescare l’ordigno all’ultimo momento, rinunciando al suicidio programmato. Quella sera suo fratello Brahim Abdeslam faceva parte del commando, ed è morto — per fortuna senza fare altre vittime — facendosi esplodere davanti al ristorante Comptoir Voltaire. Salah Abdeslam invece ha gettato la sua cintura in un cestino della spazzatura a Montrouge, e poi è scappato in Belgio, a Molenbeek, dove è stato arrestato il 18 marzo 2016. Estradato in Francia e incarcerato nella prigione di Fléury-Merogis, nell’estate 2018 Salah Abdeslam ha contattato una giovane avvocata sconosciuta all’opinione pubblica, Olivia Ronen, oggi 31enne. Nel settembre 2018 la donna è andata a parlare con il terrorista in prigione. «Abbiamo discusso molto — ha raccontato al Parisien —, ho pensato che si potesse fare qualcosa. Amo le sfide. Un avvocato non difende una causa, ma un individuo. Anche se certe volte si ha la tentazione di escludere qualcuno dall’umanità, questa persona ne fa parte tanto quanto noi». Prima di prendere la parola in tribunale, Abdeslam si è avvicinato a Ronen sussurrandole qualche parola. Le sue dichiarazioni su Allah e sul suo essere un combattente dello Stato islamico possono essere interpretate come la volontà di non riconoscere la legittimità della Corte a giudicarlo, perché nella sua ottica solo Allah può farlo. Ma c’è anche il timore che le parole di Abdeslam siano un segnale lanciato all’esterno, per fare proselitismo mostrando che la battaglia continua nonostante la sconfitta dello Stato islamico in Siria e Iraq, e per convincere altri potenziali terroristi a entrare in azione, in un momento che vede incrociarsi tre eventi: il processo di Parigi per il Bataclan e le altre stragi del 13 novembre, il ritorno dei Talebani a Kabul e il ventesimo anniversario dell’11 settembre.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 9 settembre 2021. Salah Abdeslam ha 32 anni e ne aveva 26 il 13 novembre 2015 quando scese da una Seat nera e sparò sulle terrazze del Café Bonne Bière e della pizzeria Casa Nostra a Parigi. Non so quante persone abbia ammazzato, ma quella sera allo Stadio di Francia, in altri locali del centro e al Bataclan lui e i suoi compari ne ammazzarono centotrenta, scegliendoli a caso. Salah è l'unico sopravvissuto del commando, e ieri è comparso in tribunale per essere processato con alcuni complici che lo aiutarono a pianificare l'impresa. Anzitutto, ha detto rivolto alla corte, ci tengo a testimoniare che Allah è l'unico Dio e Maometto è il suo messaggero. Questo lo vedremo dopo, gli ha risposto il giudice. Chissà, forse guarderò per la terza volta "13 novembre: attacco a Parigi", un formidabile documentario Netflix in tre puntate nel quale la serata viene ricostruita minuziosamente. Vengono intervistati il presidente di allora, François Hollande, il sindaco Anne Hidalgo, il ministro dell'Interno, il capo della polizia e decine di sopravvissuti. Uno racconta di come la moglie gli è svanita fra le braccia, una di come il fidanzato gli è crollato accanto, uno di essere rincasato all'alba incolume e la sua compagna gli ha detto sono incinta. Li si vede sorridere, piangere, guardare in camera e non avere più niente da dire. Non c'è odio e non c'è retorica, c'è un'enorme straziante incredulità, che sia successo davvero, e sia successo per un motivo che non accetta repliche: Allah è l'unico Dio. Ecco perché, qualsiasi condanna emetterà il giudice, non potrà valere quanto la sua sentenza di ieri: questo lo vedremo dopo.

Leonardo Martinelli per “La Stampa” il 9 settembre 2021. Parlerà? Non parlerà? Nei giorni che hanno preceduto l'avvio del processo degli attentati del 13 novembre 2015, i media francesi si sono arrovellati sul dilemma: Salah Abdeslam, che oggi ha 31 anni, l'unico sopravvissuto del commando, che quella sera scatenò il terrore per le strade di Parigi, metterà fine al mutismo, che l'ha accompagnato nei suoi anni di carcere? Racconterà la verità? Ieri il processo ha avuto inizio. E Abdeslam si è dimostrato assolutamente loquace. Qualcuno potrebbe aggiungere: anche troppo. Perché il terrorista si è rivelato provocatorio e vendicativo, per niente disposto a rimettersi in questione. È arrivato poco prima delle dieci di mattina nell'aula bunker costruita appositamente all'interno del vecchio Palazzo di giustizia, nell'isola della Cité, a due passi da Notre-Dame. Fisicamente in forma (vive in una cella isolata, dove ha uno spazio fitness a sua unica disposizione), maglietta attillata e mascherina in tono, i capelli neri lunghi con il gel, a parte la barba folta sembra ancora il giovane bullo, seduttore e piccolo delinquente, che si aggirava a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove ha vissuto, fino alla sua cattura nel marzo 2016. «Si metta in piedi!», gli ha intimato il magistrato che presiedeva l'udienza, Jean-Louis Péries. Lui l'ha fatto, per poi dire: «Ci tengo a testimoniare che non c'è dio al di fuori di Allah e che Maometto è il suo servitore». Professione? «Ho lasciato ogni tipo di mestiere, per diventare un combattente dello Stato islamico». Gli altri imputati, invece, hanno declinato le proprie generalità, senza fare troppo scene, perfino un altro «agguerrito» della prima ora, Mohamed Abrini, amico d'infanzia di Abdeslam. Nel pomeriggio, un altro degli uomini alla sbarra, Farid Kharkhach, ha avuto un malore. Allora Abdeslam si è messo in piedi, gridando: «Voi non fate attenzione alla gente. Pericolosi o meno, siamo esseri umani. Abbiamo dei diritti». E poi: «Sono più di sei anni che sono trattato come un cane. Ma non mi lamento, perché tanto, dopo la morte, resusciterò». «Si sieda!», gli ha detto il giudice, imperturbabile. «Qui non siamo in un tribunale ecclesiastico». I familiari delle vittime presenti erano sconcertati. Jean Reinhart, avvocato di un centinaio di parti civili (suo nipote morì al Bataclan), ha cercato di rassicurarli: «Sta rispondendo alle domande e questo è positivo. Forse spiegherà cosa ha fatto, rivelerà dettagli importanti». Il processo durerà nove mesi. Forse Abdeslam racconterà perché non è saltato in aria come gli altri quella sera. Ha avuto paura e si è tirato indietro all'ultimo momento? O la sua cintura esplosiva (come è stato confermato dagli specialisti francesi che l'hanno analizzata) non funzionava? Sulla sua psicologia ha indagato anche una giornalista, Etty Mansour (è uno pseudonimo). Ha incontrato tantissime persone che l'hanno conosciuto e scritto su di lui un libro, «Convoyeur de la mort», trasportatore della morte. Perché lui, Abdeslam, era specializzato nello sfrecciare in tutta Europa con grosse macchine noleggiate grazie ai soldi dello Stato islamico, per andare a cercare i terroristi del commando, che arrivavano dalla Siria, o gli esplosivi necessari per quella sera. «I quattrini inebriavano Abdeslam - racconta la Mansour - e sono stati uno dei motori della sua azione. Ma poi lui ha anche aderito all'ideologia islamista». Che si è infiltrata in quella testa, nel personaggio di un patetico bullo di periferia.

Olivia Ronen, la giustizia oltre il processo mediatico. Trentuno anni, parigina. L’avvocata di Salah Abdelsalam, principale imputato per le stragi del Bataclan, avrà addosso gli occhi di un’intera nazione. «Non mi spaventa - dice - ma i giudici non seguano le pressioni esterne». Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 9 settembre 2021. Fra poche ore sarà una delle donne più odiate, detestate e minacciate di Francia. L’ondata emotiva delle stragi del 13 novembre 2015 non si è mai veramente placata, la carneficina del Bataclan, le sventagliate di Ak47 nei caffé della Bastiglia, il sangue, i gemiti dei feriti e le lacrime dei testimoni sono ancora carne viva per milioni di francesi. Olivia Ronen questo lo sa benissimo, ma ha accettato senza esitazioni la sua “missione impossibile”: difendere Salah Abdeslam, imputato centrale del “processo del secolo” – i media lo paragonano a quello del boia di Lione Klaus Barbie – e unico superstite del commando terrorista. Pur essendo sconosciuta è stata contattata direttamente dall’imputato, che da sei anni è rinchiuso in regime speciale nel carcere di Fleury-Mérogis, il più grande e affollato d’Europa. Il vecchio legale di Abdesalam si chiama Frank Berton ed il classico principe del foro che si tuffa nei processi più in vista, dai casi di cronaca nera, al terrorismo, alla corruzione di personaggi politici. Ma non era riuscito a stabilire alcun dialogo con il giovane attentatore di origine marocchina che, dopo due anni di mutismo, lo ha definitivamente licenziato. Affidandosi a Olivia Ronen, una giovanissima avvocata pressoché sconosciuta che in precedenza aveva difeso Erwan Guillard, un militare francese radicalizzato e partito per il jihad in Siria e dei militanti di estrema destra. Tra i due è nato un dialogo e soprattutto una strategia difensiva: «All’inizio sono rimasta molto sorpresa di essere stata scelta, in fondo non avevo una grande esperienza. Ci siamo incontrati in carcere, abbiamo discusso a lungo e ho accettato la sfida, c’è molto da fare ma ormai conosco il dossier a memoria e naturalmente il contenuto dei nostri scambi deve restare segreto», racconta al settimanale Les Echos in una lunga intervista in cui ripercorre la sua giovane carriera e la sua prima traumatica esperienza in un processo per terrorismo. I fatti risalgono a quattro anni fa, quando assume la difesa di un complice negli attentati di Nizza del 2016, una figura minore tra gli imputati alla sbarra, che però morirà suicida in prigione: «L’ho visto spegnersi giorno dopo giorno, era chiaro che si sarebbe ucciso. È stata una tragedia che mi ha trasmesso un forte sentimento di impotenza, ma anche tanta voglia di combattere». Il giorno precedente il giudice di sorveglianza non aveva accettato di concedere i domiciliari al suo cliente nonostante una perizia psichiatrica parlasse apertamente di forte depressione e pulsioni suicide. «Quel giorno ho deciso che avrei svolto il mio mestiere con dedizione assoluta, amo il teatro e la musica, ma è giusto seguire fino in fondo la propria passione principale senza risparmiare alcuna energia, bisogna sempre dare il cento per cento». Olivia Ronen si è fatta le ossa come stagista nello studio di un celebre “tenore” parigino Thierry Levy; nel 2013 entra nell’ordine della capitale francese. Due anni dopo vince il concorso della Conférence du stage, un celebre concorso d’eloquenza che ogni anno seleziona giovani avvocati che assumeranno la difesa d’ufficio nelle inchieste criminali e per terrorismo. Pugnace ma discreta, nessun francese fino a poche settimane fa sapeva chi fosse. Ora avrà addosso non solo gli occhi della nazione ma quelli del mondo intero: lei però giura di non essere spaventata e che difenderà il suo cliente «senza compromessi, come deve essere ogni difesa in un processo penale, non mi importa di essere sgradevole o di non piacere al pubblico». Certo, ci sono le minacce di morte, gli insulti che corrono sui social, l’ostilità diffusa dell’opinione pubblica, ma ogni penalista sa bene quanto la cultura giustizialista sia dominante, e allora si arma di santa pazienza e alle invettive replica con la pedagogia: «La gente mi incontra per strada e mi chiede tra l’arrabbiato e lo stupito : “Come fai a difendere quello lì, come fai a difendere dei terroristi sanguinari?”. Semplice: non difendo una causa, ma il diritto di un individuo ad avere una difesa e un giusto processo, anche i criminali più efferati sono esseri umani». Il compito più arduo però non sarà contrastare la vox populi, ma evitare che le pressioni esterne destabilizzino la giuria, che il processo mediatico si sovrapponga ai fatti comprovati annebbiando la capacità di giudizio. Non semplice nel clima concitato ed emotivo che circonda il più grande processo penale organizzato in Francia dal dopoguerra (sono previsti oltre nove mesi di udienze con centinaia di testimoni, il tutto documentato dalle telecamere e da una web radio che seguirà ogni passaggio fino alla sentenza)«Per tutti Abdelsalam è il “mostro”, il nemico pubblico numero uno, le stragi di Parigi hanno suscitato una grandissima emozione nell’opinione pubblica, ma il compito della giustizia è di tenere distanti le emozioni e non perdere di vista i principi che fondano lo Stato di diritto».

Il viaggio dello scrittore Emmanuel Carrère nell'inferno del Bataclan. Di Maxime Biosse Duplan  & Euronews il  27/10/2021. Scrittore, giornalista e anche regista, Emmanuel Carrère è uno dei più importanti autori francesi contemporanei. Il suo viaggio ai confini tra letteratura, giornalismo e cinema, è stato insignito con il Premio Principessa delle Asturie 2021 per la letteratura: un riconoscimento per una carriera tanto rinomata quanto controversa. Come nel caso dell'ultimo libro - un'opera che oscilla tra racconto personale e tematiche di respiro sociale - in cui Carrère continua la sua ricerca introspettiva, mettendo insieme gli spunti offerti dalla pratica della meditazione, dal percorso segnato dalla grave depressione di cui ha sofferto e dagli attacchi a 'Charlie Hebdo'.

Libertà di espressione e/o libertà religiosa

Nel suo ultimo libro, "Yoga", lei parla degli attacchi a 'Charlie Hebdo'. Irrompono all'improvviso nella sua storia. Forse lei ha anche partecipato, o almeno seguito, gli omaggi resi a Samuel Paty, il professore assassinato per aver mostrato vignette di Maometto durante un corso sulla libertà di espressione. Come si concilia questa sacrosanta libertà di espressione con la necessaria libertà religiosa, che è un'altra libertà? È possibile criticare una religione? Come è possibile bestemmiare senza insultare gli altri?

"Questa è una grande domanda. Certo, il diritto alla blasfemia è assolutamente parte della nostra tradizione repubblicana e anche di quella pre-repubblicana. Voltaire lo cita, per esempio. Tendo a considerarlo inalienabile. Il rischio di offesa è incluso in esso. Se diciamo, naturalmente, che dobbiamo avere l'uno pur tenendo conto dell'altro, nonostante tutto, quello che favorisco tra i due è la libertà di pensiero e di espressione. Quindi ovviamente ti sto dando una risposta ambivalente, ma al di là di tutto sono piuttosto dalla parte della libertà di espressione a tutti i costi, sì".

Il processo per gli attentati al Bataclan

Oggi sta seguendo, per un settimanale francese, come editorialista, il processo per gli attentati del novembre 2015. È questo il soggetto del suo prossimo libro? Se sì, sa già che forma prenderà, avrà il coraggio di mescolare la fiction, o anche l'autofiction, con questa realtà molto dura degli attentati al Bataclan, che è diventata di fatto una ferita nazionale?

"Non sono affatto sicuro che questo lavoro si tradurrà in un libro, ma è molto possibile, nonostante tutto ce l'ho in testa. Senza però avere la minima idea della forma che potrebbe prendere perché, vede, siamo all'inizio e sarebbe totalmente prematuro. Poi aggiungerci, iniettare fiction o docu-fiction, è qualcosa che non ho mai fatto! Quando ad esempio ho scritto "L'avversario", non c'era la minima finzione!".

Cosa conserva di questo primo mese di processo, qual è l'impressione generale che ha?

"Quello che finirà dopo questa prima fase è un periodo molto particolare: la sequenza delle testimonianze delle parti civili che, come diciamo noi, sono i sopravvissuti, i superstiti, le famiglie delle vittime. Quindi, tutto questo è di estrema intensità emotiva. Significa che siamo tutti distrutti, tutte le persone che seguono il processo: andiamo a casa, abbiamo una specie di crisi di pianto, è qualcosa di terribile, quello a cui stiamo assistendo.

È una cosa terribile, ma non solo. Voglio dire, assistiamo anche a momenti di eccezionale e ammirevole umanità. E ora, dalla fine della prossima settimana, o da quella successiva, passeremo all'interrogatorio degli imputati, quindi ci muoveremo in una dimensione completamente diversa del processo. È molto sorprendente, un processo del genere, perché abbiamo l'impressione che in nove mesi si cerchi di spiegare, in tutte le direzioni e da tutte le angolazioni, quello che è successo in poche ore la notte del 13 novembre. È qualcosa di estremamente provante emotivamente, ma anche costantemente emozionante".

Il Bataclan è una ferita aperta: cosa aspettarsi dal processo. E, alla fine, cosa si aspetta da questo processo, se possiamo aspettarci qualcosa in particolare?

"È interessante perché la domanda che lei fa è la domanda che viene effettivamente posta a ciascuna delle parti civili. Alla fine ognuno risponde alla domanda 'Cosa ti aspetti dal processo?' Le risposte, che posso fare mie, sono che si deve fare giustizia.

Significa che ci devono essere sentenze proporzionate agli atti, sapendo che le persone che sono sul banco degli imputati non sono quelle che hanno ucciso; questo non le scagiona affatto, ma non sono loro che hanno ucciso, perché i killer sono tutti morti.

Significa anche che la giustizia deve essere fatta secondo le norme di legge, come se fosse l'onore di un tale processo assicurarsi che vada bene, che gli imputati siano ben difesi. Tutti lo esigono, comprese le persone che sono state maggiormente ferite.

Significa che è importante capire un po' meglio le cose per aiutare a prevenire altri attacchi; bene, anche se ci credo solo a metà. E poi quello che alcuni dicono ed è in fondo forse quello che mi resta di più: creare una sorta di narrazione collettiva di questo evento. Quindi forse è una sorta di deformazione professionale".

La narrazione è un obiettivo condiviso

È il punto di vista dello scrittore

"Sì, ma non è solo il mio punto di vista. È anche quello di molte persone che testimoniano, dicono che anche per loro è uno degli aspetti importanti perché ognuno ha la sua storia e il fatto di sentire tutte le altre è molto importante e prezioso. Insomma, non è solo la mia deformazione professionale che dà tanta importanza a questa dimensione.

Ultima domanda: Lao-tzu avrebbe detto 'La meta non è la meta, la meta è il cammino'. Penso che lei conosca questa citazione

"La conosco e la sottoscrivo pienamente".

Quindi, a che punto è del suo percorso?

"Beh, diciamo che sto sempre camminando, e che sto sbattendo, e zoppicando, è un po' il nostro destino. Questo ci riporta all'inizio di questa conversazione, al desiderio di migliorare un po', e nel farlo, migliorare un po' le cose intorno a sé. È un'ambizione modesta e immensa allo stesso tempo".

Giampiero Mughini per Dagospia il 30 ottobre 2021. Caro Dago, il sabato mattina è il giorno che il mucchio di giornali che traggo via dalla mia edicola è talmente pesante che richiederebbe un carrello per portarlo sino a casa. Solo che oggi gli altri giornali che ho comprato – e i giornali sono esseri viventi – dovrebbero mettersi sull’attenti innanzi al “Robinson” che ospita le prime puntate del resoconto che uno scrittore francese da me amatissimo, Emmanuel Carrère, farà giorno per giorno per tutti e nove i mesi che durerà il processo a quattordici degli islamisti radicali che avevano progettato l’attacco al Bataclan e ai ristoranti pagini, attacchi che costarono in tutto 130 vittime. Tranne uno, i quattordici imputati non fecero parte del gruppo (4 terroristi) che effettivamente sparò e massacrò al Bataclan. Tranne quello che avrebbe dovuto farsi saltare in aria e che all’ultimo momento non ne ebbe l’animo e di cui il suo avvocato difensore (probabilmente per sminuirne le responsabilità) ha detto che il suo livello mentale è quello di “un posacenere vuoto”. E comunque è impossibile che le pagine di un qualsiasi altro giornale di oggi abbiano la forza agghiacciante di quello che racconta Carrère dopo avere ascoltato le testimonianze di alcune centinaia di sopravvissuti, alcuni dei quali menomati dai colpi ricevuti. Erano in mille circa al Bataclan, asseragliati ad ascoltare le note di un gruppo rock. A tutta prima credettero che gli scoppi fossero quelli di alcuni petardi. Poi cominciarono a vedere i corpi che cadevano, i cadaveri di ragazzi e ragazze ai quali le pallottole dei kalashnikov avevano fatto dei fori grandi quanto un piatto, e cominciarono a buttarsi per terra gli uni sopra gli altri, gli uni che sanguinavano e talvolta morivamo sugli altri. A questo punto gli assassini cominciano a deambulare lungo la sala, guardano i corpi che non si muovono, prendono la mira, sparano. Uno degli uomini sdraiati per terra si alza e si rivolge loro: “Perché lo fate?”. Lo ammazzano. Uno dei delinquenti sopravvissuti dirà che lo avevano fatto perché gli aerei francesi avevano bombardato in Siria luoghi islamici dove c’erano anche donne e bambini, e dunque loro volevano rendere la pariglia. In quello spaventoso finimondo di sangue e di violenza succedono cose che nemmeno una grande letteratura saprebbe inventare. Uno dei terroristi muniti di kalashnikov si rivolge a uno dei ragazzi francesi (di nome Guillaume) e gli fa cenno con lo sguardo che per il momento non lo avrebbe ucciso, anzi lo invita a salire sul palco dov’è lui. Guillaume non sa che cosa lo attende, non capisce il perché di questo comportamento e comunque sul palco ci sale. In quel preciso momento irrompono nella sala del Bataclan un eroico commissario della brigata anticriminalità e il suo autista. In tutto e per tutto sono armati di due pistole e pur tuttavia sparano e uccidono il terrorista che ha il tempo di farsi esplodere. “E dopo?”, chiede il giudice a Guillaume. “Dopo è il dopo”, risponde Guillaume. Il quale aggiunge che il commissario anticriminalità che probabilmente gli ha salvato la vita lo ha cercato e che si sono parlati a lungo, a cercare di capire quel che era successo dentro di loro. A questo punto il giudice ha chiesto a Guillaume se lui si avvalga attualmente di un qualche supporto psicologico. Carrère: “Con il suo bel timbro di voce, con quel tono perfettamente neutro che a tutti noi faceva venire la pelle d’oca, ha risposto: ‘No’ “.

Da avvenire.it il 9 agosto 2021. Il corpo senza vita di un prete è stato scoperto stamani a Saint-Laurent-sur-Sèvre, in Vandea, nell'ovest della Francia. Lo comunicano la diocesi e la gendarmeria di Mortagne-sur-Sèvre, citati dai media locali. Su Twitter il ministro dell'Interno Gérard Darmanin ha annunciato che si sta recando sul posto dove è stato "assassinato" il prete. Secondo France 3, il corpo sarebbe stato ritrovato su segnalazione di un uomo si è presentato alla gendarmeria. "Tutto il mio sostegno ai cattolici del nostro Paese dopo il drammatico assassinio di un sacerdote in Vandea. Ci vado", scrive il ministro su Twitter.  

Secondo France Info, un uomo di 40 anni, nato in Ruanda, si è presentato in mattinata alla gendarmeria di Mortagne-sur-Sèvre, in Vandea, per confessare l'omicidio del sacerdote. Sarebbe l'uomo incriminato e posto sotto controllo giudiziario per l'incendio alla cattedrale di Nantes nel luglio 2020 . Secondo La Croix , è stato rilasciato sotto controllo giudiziario all'inizio di giugno e aveva trovato casa in una comunità religiosa in attesa del suo processo, che potrebbe aver luogo nel 2022. "Questa liberazione dalla detenzione è una buona notizia, ma il mio cliente rimane. fragile sia fisicamente che psicologicamente", ha allertato il suo avvocato Me Quentin Chabert.

Bruciò una chiesa. Profugo ruandese uccide il prete che lo ospitava. Francesco Erba il 10 Agosto 2021 su Il Giornale. Abayisenga, 40 anni, con disturbi psichiatrici certificati, due anni fa aveva tentato di dare alle fiamme la cattedrale di Nantes. Padre Maire lo seguiva in attesa del processo: l'ha assassinato. Lo aveva accolto per «permettergli di vivere in pace». E così era stato per qualche tempo. Ieri, però, è successo che il 40enne ruandese Emmanuel Abayisenga, già noto alle autorità francesi per aver incendiato la cattedrale di Nantes il 18 luglio 2020, riparato nella comunità religiosa dei monfortani dopo un periodo in carcere, ha ucciso l'uomo che gli aveva permesso di essere libero. O quasi. Il 40enne, infatti, aveva obbligo di dimora dopo un periodo di detenzione concluso il 31 maggio 2021. E, mentre era in attesa di giudizio, aveva pure ricevuto delle cure psichiatriche. Poi, alcune liti col suo «tutore»: a partire da quella che il 20 giugno convinse il sacerdote da lui ucciso ieri mattina, Olivier Maire, a chiamare d'urgenza la polizia. Il ruandese aveva infatti minacciato di lasciare i locali della congregazione dei monfortani: l'indirizzo che lo ospitava e che aveva dato alle autorità da quando era uscito di prigione due mesi fa, in attesa di giudizio per un'altra azione, a Nantes, dove l'anno scorso aveva tentato di dare alle fiamme l'intera cattedrale. Il 40enne viveva sotto una sorta di tutela religiosa, ma con un percorso alle spalle ben noto alle autorità francesi che non lo avevano ancora rimpatriato perché volevano prima processarlo per il rogo. Personalità con disturbi psichiatrici certificati, finiti dunque nelle mani amorevoli di un sacerdote amato da tutti a Saint-Laurent-sur Sèvre, in Vandea. La procura ha escluso, per ora, il movente terroristico. L'inchiesta è per «omicidio volontario», ma l'intera Francia è scossa da una morte apparentemente inspiegabile. «Attaccare un prete, significa prendersela con l'anima della Francia», dice il ministro dell'Interno Gérald Darmanin, giunto ieri sul posto a tempo di record dopo la notizia del nuovo dramma. A consegnarsi alle autorità è stato lo stesso 40enne, che ai gendarmi ha pure indicato con precisione il luogo dove avrebbero trovato il prete. E una comunità cattolica in profondo stato di agitazione, anche con il governo, accusato da più parti di non tutelare abbastanza i religiosi. Emmanuel Macron ha espresso tutta la sua «solidarietà» alla comunità religiosa dei monfortani, la congregazione che segue le orme degli apostoli poveri. Il presidente della Repubblica ha chiamato inoltre il presidente della Conferenza dei vescovi di Francia, monsignor Éric de Moulins Beaufort, nonché il segretario generale della Conferenza episcopale francese. Il premier Jean Castex, colto da «viva compassione» per la comunità cattolica, ha chiesto alla procura di far luce sulle circostanze di questa tragedia apparentemente inspiegabile, «affinché se ne possano trarre tutte le conseguenze», secondo Matignon. Anche interrogarsi su falle del sistema. In precedenza, l'uomo aveva infatti già sconvolto Nantes. La città che lo vide scagliarsi contro la cattedrale. Quell'episodio nacque da un diverbio durato giorni con i religiosi del capoluogo della Loira atlantica, accusati allora dal 40enne di non essersi spesi abbastanza per fargli ottenere il permesso di soggiorno. In realtà, il visto umanitario del 40 enne era stato bocciato quattro volte dall'ufficio per la protezione dei rifugiati: respinto si legge nella motivazione perché non è provato che sarebbe stato vittima di persecuzione in caso di ritorno in Ruanda. Monta dunque la polemica politica: la leader dell'estrema destra Marine Le Pen punge l'esecutivo per la mancata espulsione dell'uomo, ancora in attesa di giudizio per l'incendio di Nantes: «In Francia si può essere clandestini, incendiare la cattedrale di Nantes, non essere mai espulsi e diventare recidivi assassinando un prete, è il fallimento dello Stato». «Parole indegne!», la replica di Darmanin. «Le Pen Polemizza senza conoscere i fatti: questo straniero non poteva essere espulso finché non fosse stato revocato il suo regime di sorveglianza». Francesco Erba 

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 10 agosto 2021. Emmanuel Abayisenga aveva ritrovato la libertà da dieci giorni. Il 29 luglio aveva lasciato il reparto psichiatrico dell'ospedale di Georges Mazurelle alla Roche-sur-Yon, in Vandea. Ci aveva passato quattro settimane, dopo i dieci mesi di detenzione provvisoria per aver dato fuoco, nel luglio dell'anno scorso, alla Cattedrale di Nantes. In attesa del processo era stato affidato alla congregazione religiosa dei Monfortains, a Saint-Laurent-sur-Sèvre. A vegliare su di lui, che era in libertà vigilata, c'era padre Olivier Maire. Ieri Emmanuel ha preso l'auto della congregazione, ed è andato da solo alla gendarmeria di Mortagne sur Sèvre, la stessa dove due volte a settimana doveva andare a firmare secondo i termini della sua liberazione in attesa di processo. Come un anno fa, quando si era detto «sollevato» di poter confessare tutto, di poter ammettere che sì, era stato lui ad appiccare il fuoco alla cattedrale dove lavorava da quando era arrivato come rifugiato nel 2012 in Francia, anche questa volta ha confessato tutto, subito, ma un crimine ben più grave: «Ho ammazzato un prete - ha detto ai gendarmi sono stato io». Gli agenti hanno trovato il cadavere di padre Maire nel suo appartamento. Un'autopsia è in corso, ma fonti vicine all'inchiesta dicevano che non era stato ucciso con un coltello, il modus operandi degli ultimi attentati terroristici islamici sul territorio francese. 

L'INCHIESTA L'inchiesta è stata aperta dalla procura della Roche-sur-Yon per omicidio, ma «non sarebbe privilegiata per il momento la pista del terrorismo», come ha precisato il vice procuratore Yannick Le Goater. Padre Maire aveva segnalato a fine giugno che Emmanuel non stava bene, che diceva di voler partire, di voler lasciare la Francia. Per questo era stato deciso il suo ricovero in psichiatria. Dopo quattro settimane era potuto tornare nella sua camera alla sede della Congregazione. Il ministro dell'Interno Gérald Darmanin si è subito recato sul posto, esprimendo «tutto il suo sostegno ai cattolici», e aggiungendo che «Emmanuel non poteva essere espulso dal territorio francese perché era in detenzione provvisoria». Una dichiarazione che non è servita a spegnere le polemiche. Di «lassismo», di «fallimento totale dello Stato» ha subito parlato, via twitter, Marine Le Pen, attaccando direttamente il ministro dell'Interno: «In Francia si può essere un clandestino, incendiare la cattedrale di Nantes, non essere espulso e uccidere un prete». Eric Ciotti, deputato dei Républicains, ha chiesto una protezione rafforzata delle chiese di Francia, in particolare in vista delle processioni del 15 agosto. Emmanuel Macron ha invece tenuto a esprimere «tutta la sua vicinanza» alla comunità cattolica, come aveva fatto un anno fa, davanti alle fiamme che avevano semidistrutto la cattedrale di Nantes, ancora chiusa, con i lavori che dureranno almeno fino al 2023. Quarant' anni, di nazionalità ruandese, Emmanuel Abayisenga era profondamente segnato dalla guerra civile e dal genicidio dei Tutsi che aveva devastato il suo paese. Molto credente, aveva trovato rifugio nel 2012 a Nantes, dove viveva nei locali della parrocchia e lavorava come sacrestano nella cattedrale. Invano aveva cercato di ottenere l'asilo. Alla fine del 2019 era arrivato l'obbligo di espulsione, cui aveva fatto, senza troppa speranza, ricorso. La notte del 18 luglio 2020 aveva dato fuoco alla cattedrale. Chi lo conosceva aveva parlato di un uomo «molto credente, sempre pronto ad aiutare, ma molto riservato».

I buchi nei controlli. Espulso 4 volte, da poco in libertà ma "sorvegliato". Fausto Biloslavo il 10 Agosto 2021 su Il Giornale. Ennesimo delitto di una persona segnalata alle autorità e ritenuta pericolosa ma lasciata libera di circolare, come i numerosi jihadisti che hanno colpito nonostante la "Fiche S". L'assassino ruandese di padre Olivier Marie in Francia aveva già ricevuto quattro ordini di espulsione, sempre disattesi. L'ultimo perché era sotto «controllo giudiziario» per aver dato alle fiamme la cattedrale gotica di Nantes «e non poteva venire espulso» ha dichiarato il ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin. Oltre al danno la beffa di un sistema con norme boomerang. Per non parlare della falle nella sicurezza: l'omicida è un cattolico, ma nei precedenti sgozzamenti di preti in chiesa di matrice jihadista i tagliagole erano bellamente segnalati nelle cosiddette Fiche S (sorveglianza) come personaggi pericolosi da tenere sotto controllo. Emmanuel Abayisenga, 40 anni, assassino del sacerdote che gli aveva concesso aiuto e ospitalità, è un ruandese, che deve avere qualche problema psichiatrico. Otto anni fa era arrivato in Francia chiedendo l'asilo, mai concesso con questa motivazione: «In caso di ritorno nel suo Paese, non è provato che sarebbe stato vittima di persecuzione». Suo padre di etnia hutu è stato fatto fuori per rappresaglia dai tutsi a loro volta massacrati durante il genocidio. Alcuni membri della famiglia di Abayisenga avrebbero partecipato alle stragi. Ex poliziotto ha denunciato di avere subito violenze in Ruanda, che lo hanno convinto a lasciare il paese. Proprio la sua vittima, padre Marie, lo aveva accolto in comunità a Mortagne-sur-Sèvre, in Vandea, facendolo lavorare nella diocesi. Nessuno sospettava una deriva omicida, ma nel luglio dello scorso anno ha dato fuoco alla cattedrale di Nantes. «Aveva dei problemi psichici e ha cercato di regolarizzare la sua situazione sulla base di questi problemi» dichiarò all'epoca il procuratore di Nantes. La domanda di asilo era stata definitivamente respinta nel 2019 e aveva ricevuto l'ennesimo ordine di espulsione. Poi sospeso dopo l'incendio perché sotto sorveglianza giudiziaria. Abayisenga era stato riaccolto nella diocesi, dove ha compiuto il brutale omicidio. Prima di ieri l'ultimo attacco mortale in una chiesa in Francia è avvenuto lo scorso 29 ottobre. Brahim Aouissaoui, tunisino di 22 anni, ha ucciso a coltellate due fedeli e il sagrestano della basilica di Notre-Dame-a Nizza. Il «migrante» era sbarcato a Lampedusa un mese prima per poi essere identificato a Bari. Alla fine lo abbiamo lasciato andare con il foglio di via che gli intimava di abbandonare il Paese entro sette giorni. In Francia è entrato grazie ad una carta di identificazione rilasciata da una Ong. Altri killer jihadisti di preti in Francia erano segnalati nelle famose Fiche S e potevano, in alcuni casi, venire fermati in tempo. La scheda «sorveglianza» riguarda anche i gangster o gli anarchici, ma sono almeno 10.500 quelle relative a sospetti jihadisti. Nel 2016, il 19enne Nabil Abdel Malik Petitjean, uno dei boia del parroco della chiesa di Saint-Etienne-de-Rouvay, era segnalato nelle Fiche S. Il suo complice, Adel Kermiche, doveva essere addirittura agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Solo quattro giorni prima una intelligence straniera aveva inviato ai francesi la foto di Petitjean segnalato come terrorista in procinto di compiere un attentato, ma senza il nome. L'antiterrorismo non era riuscito ad identificarlo in tempo. I casi più famosi di terroristi segnalati nelle Fiche S, che hanno messo a segno attentati, sono Mohamed Merah a Tolosa nel 2012, segnalato da sei anni, Amedy Coulibaly che ha attaccato un supermercato ebraico dopo la strage di Cahrelie Hebdo nel 2015 e Chérif Chekatt dell'attentato nel 2018 a Strasburgo. Adesso fra le falle della sicurezza d'Oltralpe abbiamo la versione del killer cattolico straniero di un prete, che aveva già bruciato una chiesa e nonostante il no all'asilo e quattro ordini di espulsione rimaneva in Francia.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le gue

Massacri, stupri e controllo digitale: ecco come vengono perseguitati i cristiani. Alessandra Benignetti su Inside Over il 25 giugno 2021. L’allontanamento dalle figlie piccole, la prigione, le torture psicologiche, le vessazioni da parte degli agenti di polizia. Asia Bibi, la bracciante pakistana cattolica condannata a morte per blasfemia nel 2010 da un tribunale del distretto del Punjab dopo essere stata accusata dalle colleghe musulmane di aver toccato la loro acqua, porta ancora le cicatrici del suo lungo calvario. Ora vive in Canada, dopo essere stata assolta dalla Corte Suprema del Pakistan nel 2018. Ma non dimentica il dramma di chi, come è successo a lei, continua ad essere imprigionato ingiustamente, o peggio ucciso, stuprato, rapito, discriminato, a causa della propria fede. Quante Asia Bibi ci sono nel mondo? Secondo la quindicesima edizione del rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa 5,2 miliardi di persone oggi vivono in un Paese in cui il diritto di professare il proprio credo viene soppresso o addirittura negato.

La persecuzione religiosa in una nazione su tre. Succede in 62 Stati, una nazione su tre. In 26 casi non si parla soltanto di discriminazione, ma di vera e propria persecuzione. Non sono semplici numeri, seppur inquietanti. “Dietro ci sono la carne, il sangue e la sofferenza di milioni di persone”, sottolinea il presidente di Acs-Italia, Alfredo Mantovano. Tra i gruppi più perseguitati c’è quello dei cristiani. Cristiani come Asia, ai quali con la violenza, e con strumenti come la legge pakistana sulla blasfemia, vengono tolte dignità e libertà. “È una spada in mano alla maggioranza del Paese”, accusa la donna, intervenendo alla presentazione del report della fondazione pontificia. Tra qualche settimana sarà a Roma. Spera di incontrare Papa Francesco e Benedetto XVI. Vuole ringraziarli per essersi battuti e aver pregato per lei, quando nell’indifferenza generale portava la sua croce nel silenzio di una cella spoglia del carcere di Sheikhupura.

Stupri e rapimenti contro i cristiani in Pakistan. Asia denuncia come in Pakistan le violenze contro le minoranze religiose non si siano fermate. Parla dei soprusi subiti dalle ragazzine rapite e costrette a sposarsi e convertirsi all’Islam, delle donne stuprate da uomini musulmani. Secondo le organizzazioni locali si stima che almeno mille ragazze e giovani donne cristiane e indù vengano rapite ogni anno. È andata peggio a Sonia, una giovane cristiana uccisa nel novembre del 2020 dopo aver rifiutato le avances di un uomo musulmano. Soltanto due settimane fa un’altra ragazza è stata attaccata con un coltello per la stessa ragione. L’aggressore è libero mentre lei è stata arrestata per blasfemia. “Se l’Islam è una religione di pace e armonia, come si può giustificare una tale violenza in nome della stessa religione? L’Islam permette forse di sposare ragazze minorenni e costringerle alla conversione?”, sono le domande di Asia Bibi al primo ministro del Pakistan. E poi un appello, il più accorato, a modificare quella legge sulla blasfemia di cui troppo spesso si abusa per colpire le minoranze religiose.

Le violenze del Califfato transnazionale. L’avanzata dei gruppi islamisti in alcune aree del mondo, la pandemia e persino lo sviluppo tecnologico hanno aggravato un quadro che già nello scorso biennio si presentava fosco. “Nel novembre del 2018 i Paesi dove si sono registrate violazioni erano 38, di cui 21 con persecuzioni gravi e 17 con discriminazioni. – spiega il direttore di Acs-Italia Alessandro Monteduro – I soprusi non sono diminuiti: nel 2021 i Paesi con violazioni sono diventati 62, di cui 26 colorati di rosso e 36 di arancione”. La persecuzione religiosa cresce nel continente africano che conta ben sette nuovi ingressi nella triste classifica con Burkina Faso, Camerun, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Mali e Mozambico. Alla base dell’aumento di violenze e discriminazione in Africa c’è l’aumento della presenza dei gruppi jihadisti e la crescente radicalizzazione.  “Il network islamista transnazionale – va avanti Monteduro – si estende dal Mali al Mozambico, dalle Comore nell’Oceano Indiano alle Filippine nel Mar Cinese Meridionale, con lo scopo è creare un sedicente califfato transcontinentale”.

L’Africa sempre più “nera”. Tra gli esempi più lampanti c’è quello del Burkina Faso, dove negli ultimi due anni sono raddoppiati gli attacchi da parte dei gruppi islamisti come Jama’at Nusrat al Islam wal Muslimin, Ansaroul Islam e lo Stato islamico del Grande Sahara. “Il loro obiettivo è quello di invadere l’Africa collegando il deserto al mare per poter controllare le vie del commercio per portare avanti i loro traffici e cambiare l’organizzazione della società, islamizzando tutta l’area”, spiega monsignor Laurent B. Dabiré, vescovo di Dori e presidente della Conferenza episcopale del Burkina Faso e del Niger. La sua diocesi, nel nord del Paese, si è ritrovata ad avere a che fare all’improvviso con miliziani jihadisti che hanno “massacrato la popolazione, distrutto case, scuole e ogni simbolo di tolleranza e dialogo”. “La chiesa si è trovata coinvolta, assieme al resto dei cittadini, compresi gli stessi musulmani”, spiega il vescovo. Nella sua diocesi, assicura, sei parrocchie su tre sono chiuse, ci sono interi villaggi off limits ed esercitare la propria libertà religiosa viene di fatto impedito. “È una minaccia seria per la libertà, – avverte – se i gruppi islamisti avranno la meglio e sarà finita per tutti”.

La persecuzione 2.0 grazie alle nuove tecnologie. Alla minaccia del fondamentalismo si affianca anche quella dell’abuso delle tecnologie più all’avanguardia. Ad usarle sono gli stessi gruppi jihadisti, ma anche i governi. Come quello cinese che attraverso una sorveglianza di massa basata sull’intelligenza artificiale, portata avanti con l’ausilio di 626 milioni di telecamere piazzate in tutto il Paese, controlla e reprime le minoranze religiose, grazie a sistemi di riconoscimento facciale come quelli dei nostri smartphone. Non solo regimi autoritari, come Cina e Corea del Nord, ma anche nazionalismi etno-religiosi che si traducono nella persecuzione delle minoranze in Paesi come India, Nepal, Myanmar e Thailandia.

Gli effetti della pandemia e della “persecuzione educata”. Poi c’è la pandemia, che ha aggravato le discriminazioni nei confronti delle minoranze, che si sono viste negare gli aiuti economici, alimentari e sanitari in Paesi come Niger, Turchia, Egitto, Pakistan e la stessa Cina. Un trattamento di serie b, basato proprio sui forti pregiudizi sociali già esistenti nella società e spesso amplificati dalle istituzioni. E infine, la “persecuzione educata”. Così Papa Francesco ha definito l’ascesa di quei nuovi “diritti” e norme culturali che relegano la religione nella “oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe e delle moschee”. Norme che rischiano di spingere la maggior parte dei Paesi civili all’indifferenza verso il dramma vissuto ogni giorno in tutto il mondo da milioni di persone.

Terrore in Germania, armato di coltello uccide 3 persone. Federico Garau il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. L'uomo, ferito alla gamba con un colpo di arma da fuoco, è stato tratto in arresto: ancora ignote le cause della furia omicida. Armato di coltello, ha aggredito alcuni passanti nel centro di Würzburg, città extracircondariale della Baviera, in Germania. Protagonista dell'attacco un uomo di colore, che sarebbe stato ferito da un colpo di arma da fuoco prima di finire in manette. Stando alle prime notizie rese di pubblico dominio dalla polizia locale sarebbero stati numerosi i feriti nell'agguato: inizialmente si parlava di almeno due vittime accertate, ma il numero, ancora provvisorio, era destinato a crescere ben presto.

Tre morti e sei feriti. Secondo gli ultimi aggiornamenti sarebbero tre i morti e sei i feriti, un bilancio decisamente pesante, anche se le forze dell'ordine stanno cercando di tranquillizzare la popolazione diffondendo la notizia del fermo dell'omicida. Tramite Twitter, la polizia locale ha fornito un'ulteriore conferma della versione dei fatti, spiegando che un uomo scalzo armato di coltello si è avventato contro alcuni cittadini che si trovavano a passare a Barbarossaplatz, nel centro della città bavarese di Würzburg. Nessuna conferma ufficiale sul numero dei morti e dei feriti da parte delle autorità, ma la Bild continua a parlare di tre vittime e di sei feriti, cinque dei quali versano tuttora in gravi condizioni di salute e si trovano in prognosi riservata. Sui social network hanno iniziato anche a circolare dei video nei quali vengono documentati quegli attimi drammatici, con alcuni passanti, almeno una ventina di persone, che tentano il possibile per arrestare la furia omicida dell'aggressore. Per fermare l'uomo, le forze dell'ordine sono state costrette ad aprire il fuoco, ferendolo ad una gamba prima di far scattare le manette ai suoi polsi. La Bild riferisce che l'omicida non sarebbe comunque al momento in pericolo di vita. Nonostante la circolazione nella cittadina bavarese non sia ancora ripresa regolarmente, la polizia ci tiene a sottolineare che non c'è più alcun pericolo per la popolazione locale. Per strada restano solo le pozze di sangue ed ancora tanta paura. Nessuna notizia sul movente dell'agguato letale.

L'attacco al grido di "Allah Akhbar". Il responsabile, un uomo di 24 anni, si sarebbe scagliato contro i suoi obiettivi al grido di "Allah Akhbar" (Allah è grande): questo secondo quanto riferito durante una conferenza stampa tenuta dal ministro dell'interno bavarese Joachim Herrmann, che ha raggiunto Würzburg subito dopo aver ricevuto la notizia della violenta aggressione. Il ministro ha anche rivelato alla stampa locale che il responsabile era stato di recente ricoverato in un ospedale psichiatrico.

Il commento di Salvini. "Almeno tre morti e sei feriti, riferisce Bild. Accoltellati i passanti nel centro di Würzburg, arrestato l'aggressore. Sconcertante, inviamo la nostra vicinanza", ha twittato il leader del Carroccio Matteo Salvini dopo la terribile notizia.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronac

Chi era Sayyid Qutb, il padre dell’islam politico. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 16 maggio 2021. L’epopea del terrorismo islamista non ha avuto inizio con Osama bin Laden e Al-Qāʿida e, molto probabilmente, non finirà con l’estinzione dello Stato islamico. Petrodollari e wahhabismo rappresentano una parte del problema, aggravato dall’incapacità delle società di integrare ogni loro membro, ma la verità è che l’ideologia del terrore continuerà a prosperare e ad ispirare le gesta di improbabili califfi e attentatori perché essa vive in alcuni libri che vengono tramandati di generazione in generazione. Quei libri, contrariamente a quanto si crede in linea generale, non sono il Corano e la Sunna, i cui versetti (sure) e detti del profeta Maometto (hadith) ivi contenuti vengono strumentalizzati dagli imam estremisti per legittimare omicidi e attentati. Quei libri che hanno ispirato fanatismo, culto della morte, antioccidentalismo e voglia di scontro di civiltà, sono stati pubblicati ai primordi della globalizzazione e portano le firme dell’egiziano Sayyid Qutb, del palestinese Abdullah Yusuf Azzam e del pakistano Abul Ala Maududi. Azzam fu il teorico del “jihad globale” e mentore di bin Laden e Ayman al-Zawahiri, Maududi fu colui che diede inizio al risveglio islamico che nel secondo dopoguerra travolse l’Asia meridionale e il Sudest asiatico, mentre Qutb fu colui che riportò in vita la Fratellanza musulmana, tradusse in termini politici le battaglie culturali e sociali dell’islam – di fatto fu il fondatore dell’islam politico contemporaneo – e, ultimo ma non meno importante, formulò l’intera cornice intellettuale dalla quale hanno attinto, negli anni, le principali organizzazioni terroristiche dell’internazionale jihadista, da Al Qaida allo Stato Islamico.

L'infanzia e la gioventù. Sayyid Qutb, nome completo Sayyid Ibrahim Hussain Shadhili Qutb, nacque nello sperduto villaggio di Musha, Egitto meridionale, il 9 ottobre 1906. Figlio di una famiglia di proprietari terrieri molto religiosa, Qutb si distinse sin dalla più tenera età per le doti intellettive particolarmente precoci e sviluppate che gli valsero la fama di bambino prodigio. All’età di dieci anni imparò il Corano a memoria, ma quella conoscenza perfetta del testo sacro dell’islam non produsse alcun effetto nel campo spirituale: Qutb, infatti, si contraddistinse dalla gioventù dell’epoca in quanto critico del modello di società auspicato dall’islam e dell’istruzione affidata agli imam. Coerentemente con il proprio credo giovanile, ribelle verso la famiglia e ostile alla religione, nel 1929 si trasferì a Il Cairo, la capitale, per frequentare un istituto di formazione britannico. Concluso il ciclo di studi, nel 1933 iniziò la carriera di insegnante, dedicandosi prevalentemente al recupero dal dimenticatoio di poesie e classici della letteratura islamica medievale. Sei anni dopo, nel 1939, fu promosso funzionario presso il Ministero dell’Istruzione.

L'incontro con Carrel e il viaggio negli Stati Uniti. Ad un anno dalla promozione avvenne qualcosa di importante nella vita di Qutb: un incontro metafisico con Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina nel 1912. Carrel, ateo redento, rigettò i valori edonistici e materialistici dell’Occidente moderno in seguito ad un viaggio a Lourdes. Una volta convertitosi al cattolicesimo, Carrel si lasciò alle spalle la carriera da chirurgo per darsi alla scrittura, utilizzata come mezzo per descrivere il proprio cambiamento e denunciare la presunta decadenza della civiltà occidentale. A colpire Qutb non fu tanto la storia dello scienziato razionale e ateo che scoprì la fede assistendo in diretta ad un miracolo, quanto la lettura de L’uomo, questo sconosciuto. Il libro, pubblicato da Carrel nel 1935, rimase in cima alle classifiche sino al 1945 ed esercitò un’influenza profonda e duratura sull’insegnante egiziano. Gli studiosi che hanno indagato sulla vita di Qutb concordano: il pensiero antimoderno, antioccidentale e simil-spengleriano dell’autore francese, esposto in maniera estesa nel testo suscritto, ha avuto un ruolo-chiave nel provocare un risveglio spirituale in lui. Carrel è, infatti, l’autore non-islamico più citato nelle opere e nelle interviste di Qutb. Nel 1948 Qutb partì alla volta di Greeley, Colorado, per perfezionare il proprio profilo accademico all’Università del Colorado settentrionale. Il soggiorno di due anni, frutto della vittoria di una borsa di studio per soggetti meritevoli, portò a compimento quel percorso di rielaborazione intellettuale iniziato con la lettura di Carrel. Fu negli Stati Uniti, paradossalmente, che Qutb iniziò ad abbracciare e a valorizzare la religione di famiglia e del suo popolo, a lungo criticata. A Greeley, nel 1949, il pensatore egiziano pubblicò una delle sue opere più importanti, “La giustizia sociale nell’islam” (Al-‘adala al-Ijtima’iyya fi-l-Islam).

Rientrò in Egitto nel 1950 come un uomo radicalmente diverso, plasmato dall’aver visto gli Stati Uniti in lungo e in largo, da Washington D.C., dove si recò per studiare al Wilson Teachers’ College, a San Francisco, dove si recò per studiare all’università di Stanford, e dall’aver vissuto lo stile di vita americano (American way of life). L’esperienza statunitense avrebbe dovuto formare positivamente Qutb, supportandolo nell’avanzamento di carriera, ma fu vissuta come un trauma destinato a lasciare un’impronta indelebile nella sua visione del mondo, più in particolare della civiltà occidentale. Una volta rincasato rassegnò le dimissioni dagli incarichi pubblici ed entrò a far parte dei Fratelli Musulmani, dai quali fu assunto come capo redattore del loro settimanale ufficiale, “Al-Ikhwan al-Muslimin“. Nel 1951 diede alle stampe “L’America che ho visto” (The America I Have Seen), che si sarebbe rapidamente rivelato un successo in termini di vendite. In quel libro, che ancora oggi è uno dei pilastri della letteratura islamista di stampo antioccidentale, Qutb descrisse gli Stati Uniti come una nazione fondata sul peccato, sull’odio e sulla falsità. I suoi abitanti, secondo il pensatore egiziano, avevano una propensione alla promiscuità sessuale, alla superficialità, all’individualismo e all’attaccamento alla materia e al denaro. Altrettanto criticabile era il sistema sociale americano che, secondo Qutb, sarebbe stato basato sull’esaltazione del “brutto” nell’arte, sugli eccessi del capitalismo e sul razzismo. Ultimo ma non meno importante, un altro motivo per cui Qutb aveva sviluppato una profonda insofferenza verso gli Stati Uniti era lo schieramento filosionista della popolazione e della politica.

L'opposizione contro Nasser e la morte. 23 luglio 1952, data spartiacque nella storia dell’Egitto moderno. Il generale Mohammed Naguib e il colonnello Gamal Abdel Nasser svegliano dal sonno il Movimento degli ufficiali liberi (al-Ḍubbāt al-Aḥrār), un gruppo golpista nel seno delle forze armate, e pongono fine all’esperienza monarchica, detronizzando re Faruk e instaurando un sistema repubblicano. La reazione iniziale dei Fratelli Musulmani è di giubilo: l’organizzazione credeva che Naguib e Nasser avrebbero modellato il nuovo stato seguendo i dettami coranici. L’aspettativa, che presto si sarebbe rivelata falsa, era anche legata al fatto che, nell’ante-golpe, Nasser aveva avuto una serie di incontri con Qutb durante i quali si era discusso della rivoluzione. Il carisma e la popolarità di Qutb, però, non ebbero alcuna presa su Nasser, il quale, anzi, adottò un’ideologia basata su un nazionalismo laico, socialisteggiante ed enfatizzante l’identità araba in luogo dell’identità islamica. Nei piani iniziali dei rivoluzionari, comunque, non era in programma alcuna persecuzione nei confronti della Fratellanza Musulmana; fu la decisione di Qutb di rompere ogni rapporto con Nasser, rifiutando anche l’offerta allettante di guidare un ministero, a determinare l’inizio di una rivalità che, presto, sarebbe terminata nel sangue. Nel 1954 le autorità sgominarono una presunta cospirazione orchestrata dai Fratelli Musulmani per eliminare fisicamente Nasser e sfruttare il conseguente momento di caos per condurre una rivoluzione islamista e abbattere la repubblica. La veridicità del piano continua ad essere oggetto di dibattito, ma è noto è l’episodio funse da apripista ad una stagione di dura repressione, caratterizzata da arresti, torture ed esecuzioni extragiudiziali, che portò l’organizzazione sull’orlo dell’estinzione. Qutb, che fu arrestato poco tempo dopo la scoperta del presunto complotto, scrisse le sue opere più popolari durante il periodo di detenzione: All’ombra del Corano (Fi Zilal al-Qur’an) e Pietre miliari (Ma’alim fi-l-Tariq). Il primo libro è un’opera monumentale di lettura e spiegazione del testo sacro islamico, che gode di un apprezzamento universale, il secondo è il manifesto dell’islam politico che ha ispirato intere generazioni di jihadisti, a partire da Azzam e bin Laden fino ad Abu Bakr al-Baghdadi. Fu rilasciato verso la fine del 1964 su intervento dell’allora primo ministro iraqeno, Abdul Salam Arif, ma fu arrestato nuovamente nell’agosto dell’anno successivo con l’accusa di aver minato le fondamenta dello stato democratico attraverso la pubblicazione di Pietre miliari. Nel corso del processo, durante il quale riemersero accuse di un complotto ai danni dei personaggi-chiave delle istituzioni, a Qutb fu anche chiesto (senza successo) di rigettare pubblicamente il contenuto del libro. Ritenuto colpevole di ogni capo d’imputazione presentato dall’accusa, Qutb fu condannato a morte. L’esecuzione, avvenuta per impiccagione, avvenne il 29 agosto 1966.

I concetti-chiave del qutbismo. “Se guardiamo alle fonti e alle fondamenta degli stili di vita moderni, appare chiaro che l’intero mondo è entrato nella Jahiliyyah e che tutte le meravigliose comodità materiali e le invenzioni di alto livello non fanno diminuire questa ignoranza”; questo è uno dei passaggi centrali di Pietre miliari, il manifesto dell’islam politico scritto dal pensatore egiziano durante la detenzione, poiché condensa in poche righe i concetti-chiave del qutbismo. Jahiliyyah, nel lessico islamico, è il termine con cui si fa riferimento alla condizione di ignoranza in cui avrebbe vissuto l’umanità prima dell’arrivo di Maometto. Qutb non è stato il primo pensatore musulmano a credere che quella condizione di ignoranza non sia stata completamente abbattuta, ma a lui va il merito di aver sviluppato un’analisi critica della contemporaneità attorno a tale concetto. Essendo il mondo, incluso quello islamico, pervaso dall’ignoranza, ne consegue che, secondo Qutb, l’unica via possibile per la salvezza sia il recupero della fede degli antenati e, una volta acquisita, la sua trasmissione al resto della società. Vincere la jahiliyyah, però, non è affatto semplice, perché essa è stata istituzionalizzata e ha un impatto corruttivo considerevole sugli esseri umani. Ed è a questo punto che entra in gioco il jihad, che nella visione di Qutb assume la valenza di lotta fisica, tanto difensiva quanto offensiva, ai fini della restaurazione del puro islam. Non sarà soltanto l’esempio dei credenti a convincere la massa ad uscire dall’ignoranza; la massa andrà spronata per mezzo dell’attivismo e, laddove possibile, della lotta armata. Inoltre, e questo è un passaggio fondamentale del qutbismo, tra islam e jahiliyyah non può esserci pace né compromesso: l’uno dovrà, infine, prevalere sull’altro. Curiosamente, Pietre miliari non si apre parlando di islam, ma di Occidente. Qutb, che come si è visto fu grandemente influenzato da un pensatore europeo ed ebbe modo di vedere gli Stati Uniti e il Vecchio Continente, era consapevole dei traguardi raggiunti dalla civiltà occidentale nel corso dei secoli ed era fermamente convinto della necessità di preservarli. L’Occidente, poiché ormai “privo di quei valori vitali che gli hanno consentito di guidare l’umanità”, era visto da Qutb come una civiltà giunta al capolinea, incapace di dare un contributo costruttivo al benessere collettivo dell’uomo. Sarebbe spettato all’islam l’onere-onore di “preservare e sviluppare i frutti materiali del genio creativo dell’Europa” e guidare il mondo verso la rinascita, ovvero il superamento della jahiliyyah. Quest’ultimo punto è estremamente importante e si è dimostrato, inoltre, il più incompreso da coloro che hanno raccolto l’eredità di Qutb. Il pensatore egiziano non anelava alla distruzione dell’Occidente che, anzi, ringraziava per il contributo fondamentale dato “nelle scienze, nella cultura, nel diritto e nella produzione materiale, grazie al quale l’umanità ha progredito verso vette elevate di creatività e comodità materiale”; egli ambiva a sostituirlo con l’islam poiché ritenuto “l’unico sistema che possiede quei valori [vitali] ed uno stile di vita […] in armonia con la natura umana, positivo e costruttivo”. Qutb non auspicava, quindi, alla morte e alla distruzione nel nome dell’odio religioso e del nichilismo, ma ad una battaglia fisica e spirituale da combattere simultaneamente contro la civiltà occidentale, grande ma condannata alla decadenza, e quella islamica, florida, forte del fatto di essere custode della vera religione eppure afflitta anch’essa dai mali della jahiliyyah.

L'influenza senza tempo del qutbismo. Daniel Benjamin, coordinatore per l’antiterrorismo durante la prima presidenza Obama, ne “The Age of Sacred Terror“, un libro del 2005 sulle origini ideologiche del terrorismo islamista post-guerra fredda, scrive che “Qutb è stato colui che ha fuso insieme gli elementi centrali dell’islamismo moderno: i takfir del kharigismo, le fatwe e le prescrizioni di Ibn Taymiyya, il salafismo di Rashid Rida, il concetto odierno di jahiliyyah di Maududi e l’attivismo politico di Hassan al-Banna”. Il pensiero qutbista sulla giustizia sociale di stampo islamico continua ad essere il pilastro su cui reggono i programmi sociali della Fratellanza Musulmana, mentre la rielaborazione del concetto di jihad quale strumento di lotta, sia offensiva che difensiva, ha superato i confini del mondo sunnita ed è stato oggetto di studio, apprezzamento e accoglimento in Afghanistan, presso i Talebani, e nell’Iran rivoluzionario, dove i lavori di Qutb sono tradotti in lingua farsi dall’ayatollah Ali Khamenei e hanno periodicamente luogo conferenze sull’attualità del qutbismo. L’influenza più significativa e perniciosa è stata esercitata nel mondo dell’islam radicale. Muhammad Qutb, fratello di Sayyid, nel dopo-esecuzione si trasferì in Arabia Saudita, dove ottenne una cattedra in studi islamici all’università Re Abdulaziz di Gedda. Fu precisamente lì che Muhammad popolarizzò gli insegnamenti del fratello defunto, avendoli trasformati nell’oggetto di studio ed esame del suo corso, plasmando e plagiando un’intera generazione. È noto che tra gli studenti iscritti al corso di Muhammad Qutb vi fossero i futuri padrini di Al-Qāʿida, Azzam, Zahawiri e bin Laden. Forse, però, l’unico modo per capire realmente quale sia stato il peso del pensiero di Qutb nell’architettura dell’internazionale jihadista è una lettura dei passaggi a egli dedicati nel Rapporto della Commissione sull’11 settembre. Lì, Qutb, viene descritto come l’ispiratore di bin Laden e, più in generale, della visione distruttrice di Al-Qāʿida. Al pensatore viene riconosciuto il merito di aver idealizzato una visione duale e manichea del mondo che ha condizionato in maniera profonda bin Laden e i suoi seguaci. Quella visione, dove l’islam è rappresentante del bene e della purezza e la jahiliyyah è fonte di barbarie e peccato, è particolarmente potente perché non lascia spazio all’ignavia, al temporeggiamento e/o al compromesso. Come è scritto nel rapporto, “non esiste una via di mezzo in quella che Qutb concepì come la battaglia tra Dio e Satana. Ogni musulmano, perciò, dovrebbe armarsi e unirsi al combattimento. E ogni musulmano che rifiuta le sue idee è soltanto un altro noncredente meritevole di distruzione”.

L'uomo che ha guidato la rivolta contro gli islamici. Lorenzo Vita il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Umar ibn Hafsun, a cavallo tra XI e X secolo, divenne l'incubo dei comandanti musulmani che dominavano su Al Andalus, l'odierna Spagna meridionale. Un assassino a capo di una rivolta, un fine stratega o solo un fuorilegge anarchico. È difficile capire quale sia la vera identità di Umar ibn Hafsun, l'uomo per molti anni, alla fine del IX secolo mise in serio pericolo il dominio degli Omayyadi sulla Spagna meridionale, quella che era Al Andalus. Una figura quasi sconosciuta, ma allo stesso leggendaria. Simbolo di una regione ribelle, molto spesso estranea alle regole, ma che rappresenta ancora oggi uno dei cuori pulsanti di Spagna. Della vita di Umar ibn Hafsun prima della sua rinascita come condottiero si sa poco. Di lui si narra che era nato a Parauta, vicino all'odierna Malaga, e che era un muladi, un discendente di cristiani che avevano deciso di abbandonare la fede cristiana per diventare musulmani. Quella di Umar non deve essere stata una giovinezza particolarmente facile. Il suo è un carattere violento - qualcuno lo descrive come un selvaggio - incine alle risse e ai duelli. Ma a un certo punto, irrompe l'episodio che gli cambierà per sempre la vita: un omicidio. Forse in una rissa - ma le testimonianze ovviamente sono scarse e difficilmente attendibili - Umar colpisce un uomo a morte e decide di fuggire dalla giustizia. Prende una barca e fa rotta verso il Marocco, si ferma a Tahart e inizia a lavorare nel laboratorio di un sarto. Il tempo scorre come se nulla fosse, ma un giorno un uomo proveniente da Al Andalus entra nel laboratorio e gli domanda se sa cosa è successo a Bobastro, un'antica roccaforte tra le montagne e i corsi d'acqua andalusi. Umar ibn Hafusn prova a evitare di rispondere, ma il racconto di uno storico andaluso di qualche anno dopo, Ibn al-Quṭiyya, il vecchio lo riconosce, aggiungendo una profezia: "Sarai il mastro di Banu Umayya, incontreranno la rovina dalle tue mani, e governerai su un grande regno". Le parole del vecchio andaluso accendono i sogni di gloria di Umar, che decide di ripartire per la sua terra. L'uomo si unisce a un gruppo di banditi e fuggitivi che si sono rifugiati a Bobastro, antica roccaforte romana circondata da boschi e fiumi e da cui si può controllare l'intera provincia. Un luogo impervio e allo stesso tempo ricco d'acqua: ideale per rimanere nascosti e resistere a qualsiasi tipo di assedio. Umar decide di ricostruire la fortezza e nel giro di poco tempo, dopo aver assunto la guida dei banditi nascosti tra le antiche mura di Bobastro, lancia una vera e propria campagna di reclutamento in tutto il territorio circostante. Raduna intorno a sé muladi e mozarabi, coloro che, al contrario dei primi, non si erano convertiti all'Islam, e comincia a colpire i castelli intorno alla sua roccaforte fino a raggiungere anche Cadice, Jaen e l'odierna Granada. In poco tempo, il suo nome diventa famoso in tutto l'emirato di Cordoba, trasformandosi nell'incubo dei capi musulmani. L'esercito degli Omayyadi inizia a dargli la caccia, ma i primi risultati sono nefasti. Per due volte l'assalto dell'esercito omayyade finisce male, e Umar, ritiratosi a Bobastro, non sembra intenzionato a cedere. Soltanto dopo tre anni di nuove scorrerie e conquiste le forze islamiche riescono a prenderlo, trascinandolo in catene a Cordoba. Il sultano lo ammira e gli confessa di essere pronto ad arruolarlo tra le sue forze perdonandolo dall'accusa di essere a capo della peggiore rivolte dagli ultimi anni. Umar accetta la proposta. Tuttavia, dopo qualche mese, complice una corte ben poco incline ad accettare uno come lui, un muladi che si è permesso di combattere contro le forze del sultano, decide di andarsene riprendendo la lotta. Il capo ribelle scaccia le truppe che hanno conquistato Bobastro in sua assenza e, dopo aver resistito per nuovi assedi, prova a trattare con il nuovo sultano Al Mundir, dopo che Mohammad I muore improvvisamente. Al Mundir è pronto a vendicarsi di ibn Hafsun, ma viene avvelenato dal fratello, Abdallah. Il ribelle vede l'esercito omayade praticamente in disperato e punta ad assaltare l'accampamento, ma il sultano chiede disperatamente un armistizio e Umar firma la pace in cambio di Archidona. Una tregua che durerà comunque poco, perché dovrà di nuovo confrontarsi con un assedio nella sua roccaforte. Nel frattempo, nell'899, Umar ibn Hafsun si battezza prendendo il nome di Samuele. Non si sa se per convinzione di fede o se, come dicono molti storici, per farsi apprezzare dai mozarabi o più ancora da Alfonso III delle Asturie, sovrano in cerca di gloria contro i musulmani. A Bobastro fa erigere anche la Iglesia Mozárabe, ma quella mossa non piace a tantissimi muladi, che iniziano ad abbandonarlo segnando il declino del ribelle che aveva fatto tremare i sovrani omayyadi. In una decina di anni, il suo regno inizia a vacillare definitivamente. Per un momento partecipa anche a una spedizione contro i cristiani, ma senza successo. E nel 917 muore nella sua città. I figli proveranno a mantenere in vita il sogno del padre, ma questa volta Abd al-Rahman III non darà tregua alla stirpe del ribelle. Il sultano punterà Bobastro distruggendo ogni cosa e si narra che i resti mortali di Umar ibn Hafsun siano stati riesumati e crocifissi a Cordoba in segno di vendetta contro colui che aveva saccheggiato e messo in pericolo il regno islamico.

L'islamismo è un virus che corrode l'Europa. Paolo Bianchi il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. L'algerino Boualem Sansal smaschera l'"attacco" inesorabile che stiamo sopportando senza reagire. L'allegoria è uno strumento narrativo potentissimo. Chi dimostra di saperla usare con maestria è lo scrittore algerino Boualem Sansal, già noto per la sua recente distopia 2084 - La fine del mondo, pubblicato in Italia cinque anni fa, e ora nelle librerie con Il treno di Erlingen (Neri Pozza, pagg. 224, euro 17; trad. Alberto Folin). L'ammonimento in esergo è molto preciso: «Tu che entri in questo libro abbandona ogni speranza di distinguere la fantasmagoria dalla realtà». In effetti, l'intreccio è complesso e a tratti può perfino apparire cervellotico, ma alla fine tout se tient: i personaggi e le loro azioni, la realtà e la metafora, e fra tutto il tema di fondo principale: l'invasione ineffabile e inesorabile che l'Europa, il Vecchio Mondo, sopporta senza rimedio. La città tedesca di Erlingen (non esiste nella realtà) è isolata dal mondo, minacciata da un nemico che non si vede mai. Gli abitanti sono in attesa di un misterioso convoglio che dovrebbe venire a prelevarli per metterli in salvo, però sanno che non ci sarà posto per tutti. Con il passare del tempo, né il nemico si palesa, né il treno si manifesta. Tutto è solo un rincorrersi di voci. Il riferimento a Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati è ampiamente dichiarato. La storia di Erlingen è narrata attraverso le lettere che una tale ricchissima baronessa Ute von Ebert manda a sua figlia Hannah, residente a Londra. Poi le cose si fanno un po' complicate, attraverso un collegamento con gli attentati di matrice islamica a Parigi del 13 novembre 2015. Una volta chiuso il libro non c'è da stupirsi che l'autore, ex funzionario ministeriale in Algeria, sia stato strapazzato dal governo filoislamico del suo Paese, già facente capo a quel presidente Adelaziz Bouteflika che, pur agonizzante, non avrebbe mollato la poltrona se non vi fosse stato rimosso a calci metaforici dalle manifestazioni di piazza. In poche parole, Sansal non è benevolo con l'Islam. Non lo è neanche con l'Europa, a dire il vero. «Esiste ancora l'Europa? Non lo credo, e a dire la verità non è importante», scrive la protagonista. E anche: «L'invasore è dovunque e in nessuna parte: è qui il grande mistero di tutta la faccenda». Rifacendosi a Franz Kafka, lo scrittore algerino si concentra sul concetto di metamorfosi, applicandola ai cambiamenti di gran parte della popolazione mondiale, là dove «l'invasore, che sembrerebbe possedere l'arte del camaleonte, sa confondersi con il paesaggio, ma sa anche fare in modo che il paesaggio si confonda con lui, rendendo impossibile qualunque localizzazione. Allo stesso modo, l'islamismo provoca una curvatura dello spazio-tempo, ed è questo fenomeno invisibile a trascinarci in fondo...». Non può non venire in mente Michel Houellebecq quando si legge che il tempo dei barbari è arrivato quando si uccide perché è Dio a ordinarlo e l'unica reazione, dall'altra parte, è la sottomissione. Per quieto vivere, si praticano l'autocensura e il doppio linguaggio «secondo i migliori intendimenti del politicamente corretto». Al tempo dei barbari si contrappone il tempo dei vili. Inoltre, sempre facendolo dire dalla bocca (anzi, dalla penna) dei suoi personaggi, Boualem Sansal srotola le sue considerazioni sul fatto che i pilastri della nostra civiltà, Stato, Mercato, Religione e Natura sono corrosi alla base dalla mondializzazione, dal materialismo dei nuovi schiavi salariati, dal modernismo artificioso, dall'incuria delle élite e che, rispolverando Henry David Thoreau, «le religioni corrompono gli uomini come l'inquinamento corrompe la natura». Vorrebbe che la filosofia di Thoreau ci aprisse gli occhi per sradicare in noi quella sottomissione, la «servitù volontaria» di La Boétie. Il tono apocalittico di questo romanzo allucinante, denso, stratificato, intriso di un incombente mistero, conduce all'attesa di una salvezza che rischia di arrivare fuori tempo massimo. Gli abitanti della fantasmagorica Erlingen sono come i commilitoni del luogotenente Drogo di Buzzati, intrappolati nella fortezza Bastiani, al cospetto di un nemico che non possono combattere perché è senza volto e inafferrabile. Quando, anche di recente, Sansal paragona l'islamismo al virus, non fa che ampliare la sua metafora: sempre di qualcosa di impercettibile si tratta, qualcosa che talvolta è più facile negare che affrontare, perché aggrapparsi a una menzogna è pur sempre più comodo che il dover scegliere fra diverse verità, con il rischio di non sposarne più nessuna, salvo cedere a quella della violenza fanatica definitiva. Il nichilismo ci perderà.

Indonesia: il paradosso dei diritti che colpisce i cristiani. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo si Undise Over il 3 maggio 2021. Il 28 marzo scorso due esplosioni hanno sconvolto la città di Makassar, in Indonesia. Le bombe non hanno scalfito soltanto la vicina cattedrale cattolica ma hanno anche fatto risvegliare la coscienza indonesiana. Ancora una volta il Paese asiatico si è trovato di fronte al suo più grande e grave paradosso: da una parte la Costituzione garante delle libertà religiose, dall’altra le difficoltà nel mettere in pratica questi principi.

La Costituzione garantista. L’Indonesia ha una particolarità: è il Paese musulmano più abitato del mondo. Tuttavia, almeno sulla carta, tutela le varie minoranze. Leggendo infatti le prime righe della Costituzione indonesiana, quello che emerge è la garanzia data alla libertà di fede e di culto. Andando avanti però lo stesso documento inizia a fare dei distinguo. Vale a dire, si tutelano soltanto le sei religioni ufficialmente riconosciute: Islam, Protestantesimo, Cattolicesimo, Induismo, Buddismo e Confucianesimo. Se quindi in un primo approccio si può pensare di essere di fronte ad uno Stato che tutela a 360 gradi la libertà religiosa, ci si accorge in un secondo momento che così proprio non è. I diritti di chi professa altre fedi, incluse le credenze tradizionali locali, o di chi è ateo, non sono allo stesso modo tutelati e protetti. Sull’ordinamento indonesiano a pesare è anche lo spettro della Sharia, la legge islamica. La Costituzione non la contempla, ma essa è presente a livello locale. Secondo il report redatto da Aiuto alla Chiesa che Soffre “Si stima che almeno 52 dei 470 distretti e comuni dell’Indonesia abbiano introdotto circa 78 regolamenti ispirati alla sharia”. “Varie fonti – prosegue il report – sostengono che la cifra reale sia ancora più alta, con almeno 151 leggi locali ispirate alla legge islamica a Giava, Sulawesi, Sumatra e Nusa Tenggara Ovest”. Altro nodo centrale è rappresentato dal reato di blasfemia previsto dall’articolo 156 del Codice Penale, in base al quale chiunque si macchi di questo crimine dovrà scontare almeno fino a 4 anni di prigione. Chi commette questo reato? Chiunque “esprima pubblicamente sentimenti di ostilità, odio o disprezzo – si legge nel testo dell’articolo in questione – contro uno o più gruppi della popolazione dell’Indonesia”, laddove i gruppi sono definiti da “razza, Paese di origine, religione, origine, discendenza, nazionalità o condizione costituzionale”. Reclusione fino a cinque anni per chi  “abusi o offenda una religione professata in Indonesia”. Ci sono dei criteri per definire questi reati? In base a quello che accade pare che non sia proprio così.

L’accanimento verso le minoranze religiose. Oltre al discorso relativo alle incongruenze dell’ordinamento indonesiano, c’è da sottolineare anche un altro grave problema: sono infatti sempre più evidenti fenomeni di intolleranza verso le minoranze religiose. In un editoriale dell’11 maggio 2019 pubblicato Jakarta Post, uno dei quotidiani più seguiti, si legge che “l’Indonesia vive una profonda crisi di intolleranza”. Nel caso dell’articolo 156 del Codice Penale e del reato di blasfemia contemplato al suo interno, si può notare come identificare la commissione del reato sia alquanto arbitraria.

Nel 2019 tre donne sono state processate per blasfemia. Una di loro, Suzethe Margaret, cattolica, era anche affetta da problemi mentali riscontrabili nella schizofrenia paranoide. La sua colpa? Essere entrata in una moschea col cane. Un’altra donna, Meliana, buddista, ha subito il processo ed è stata condannata perché ha chiesto ad una moschea di abbassare il volume degli altoparlanti. In più parti dell’Indonesia i luoghi dedicati al culto sono oggetto di minacce e pressioni. “Nel 2018 – secondo il report di Aiuto ala Chiesa che Soffre –  il Setara Institute ha documentato 202 casi di abuso della libertà religiosa, in aumento rispetto ai 151 del 2017/18″. Dei 202 episodi, 72 sono stati commessi dal governo. Circostanza riscontrata anche dalla Fondazione Wahid, secondo cui si è passati dai 265 casi di violazioni della libertà religiosa del 2017 ai 276 del 2018, di cui 130 perpetrati dal governo”.

Gli attentati che hanno sconvolto l’Indonesia. Il tarlo dell’estremismo islamico nel Paese asiatico si è insinuato già da anni. La prova non è soltanto nei comportamenti di una parte delle istituzioni o della società, ma anche nell’attivismo di alcuni gruppi terroristici. L’episodio più grave è risalente al 12 ottobre 2002: sull’isola di Bali un kamikaze si è fatto esplodere all’interno del Paddy’s Pub, uccidendo 202 persone. È stato quello un attentato che ha avuto una lunga eco mediatica non solo per l’alto numero di vittime, ma anche perché è stato compiuto a poco più di un anno dall’11 settembre 2001. Tre anni più tardi sempre a Bali un altro kamikaze ha ucciso 35 persone. La furia islamista e la violenza ceca operata dal fanatismo hanno mostrato ancora una volta il volto più cruento e nefasto. Ma se nei due casi in questione il terrorismo ha agito contro i turisti, essendo Bali un rinomato paradiso per i vacanzieri provenienti da ogni parte del mondo, diversi sono anche gli attacchi diretti esclusivamente contro i cristiani. Il 29 ottobre 2005, in una località delle Solawesi meridionali, un gruppo armato ha bloccato e decapitato tre giovani studentesse cristiane, ponendo successivamente le teste delle vittime davanti l’ingresso di una Chiesa. Nel maggio 2018 a Surabaya, seconda città più popolosa dell’Indonesia, tre attentatori hanno ucciso 13 fedeli attaccando simultaneamente tre chiese cristiane. Il 28 marzo scorso è stata presa di mira la cattedrale di Makassar, a morire in questo caso sono stati i due kamikaze. Le preoccupazioni tra i cristiani stanno aumentando: “Ciò che più preoccupa – ha dichiarato una fonte diplomatica su InsideOver – è l’attivismo di numerose cellule che si dichiarano affiliate all’Isis, ma che agiscono in solitaria”.

Alcuni spiragli positivi. Eppure qualche margine di miglioramento inizia a intravedersi. Nel suo rapporto, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha sottolineato come sempre più associazioni e leader religiosi locali sono impegnati nella costruzione di un vero dialogo tra le diverse comunità. In tal senso è stata giudicata positivamente anche la rielezione, nell’aprile del 2019, dell’attuale presidente Joko Widoso, il quale in campagna elettorale ha rilanciato la questione della convivenza pacifica tra le varie fedi che compongono il Paese e ha sfidato una coalizione che comprendeva al suo interno anche partiti islamisti: “Gli elettori – si legge nel rapporto di Acs – hanno ascoltato il suo messaggio di tolleranza religiosa”. Da un lato le influenze islamiste, in crescita in tutta la regione del sud est asiatico, dall’altro gli spiragli provenienti dalla reazione di una parte importante della società: “Attualmente, l’Indonesia si trova di fronte ad un bivio”, si è sottolineato ancora nel report di Acs. Una strada porta a un maggior insediamento delle istanze più radicali tanto nello Stato quanto nella società, l’altra invece a un lungo ma necessario cammino verso il superamento dell’intolleranza religiosa specialmente nelle zone più remote del Paese. L’Indonesia deve riscoprire sé stessa e la sua vocazione di Paese unitario, pilastro peraltro dell’ideologia che nel 1945 l’ha portata all’indipendenza dai Paesi Bassi. Per farlo il contributo dei cristiani risulta fondamentale.

(ANSA " il 27 aprile 2021. ) Dodici persone sono stati arrestate a Rumbek, in Sud Sudan, accusate di essere coinvolte nell'agguato al vescovo Christian Carlassare. Lo ha riferito l'agenzia d'informazione Aci Africa, secondo quanto rilanciato da Nigrizia, la rivista dei Comboniani. "Tre di loro, tra cui spicca il nome del coordinatore diocesano John Mathiang, sono preti della Diocesi di Rumbek mentre gli altri sono laici con diverse responsabilità a livello della Chiesa locale", riferisce il portale dei missionari di cui fa parte lo steso padre Carlassare.

Da ilgazzettino.it il 26 aprile 2021. Padre Christian Carlassare, missionario italiano e vescovo eletto della diocesi di Rumbek, in Sud Sudan, è stato ferito da due uomini armati: gli hanno sparato alle gambe ed è stato picchiato, è fuori pericolo, in condizioni stabili. Lo riferisce la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. Originario di Piovene Rocchette, è il più giovane vescovo del mondo. Riferisce il sito di Nigrizia, la rivista dei padri Comboniani che ha sede a Verona, che i medici del Cuamm «si stanno prendendo cura di lui nell’ospedale di Rumbek ma il vescovo ha perso molto sangue e verrà presto trasferito nella capitale Juba e poi a Nairobi dove sarà sottoposto a una trasfusione». Cosciente e sofferente - scrive ancora il sito di Nigrizia - padre Christian ha telefonato direttamente la famiglia per informarla e ha detto al responsabile dei Missionari Comboniani in Italia: «Pregate non tanto per me ma per la gente di Rumbek che soffre più di me». Nominato da Papa Francesco l'8 marzo di quest'anno dovrebbe essere ordinato vescovo a fine maggio.

Arresti immediati. Sono 24 le persone arrestate in Sud Sudan in relazione all'agguato al vescovo Carlassare, picchiato e ferito alle gambe nella diocesi di Rumbek. Lo ha reso noto una fonte della chiesa locale al Juba Echo a condizione di anonimato. «La polizia e altre forze della sicurezza hanno arrestato diverse persone all'interno del compound e verranno condotti altri arresti perché abbiamo bisogno di sapere esattamente cosa è successo nella Chiesa cattolica della diocesi di Rumbek», ha confermato a Juba Echo il ministro dell'Informazione dello Stato dei Laghi, William Kocji Kerjok sottolineando che si è trattato di un «attacco mirato» al sacerdote.

Missionario comboniano. Nella notte abbiamo appreso dell'attentato ai danni del neo-eletto vescovo della diocesi di Rumbek padre Christian Carlassare. Il missionario comboniano è stato immediatamente trasportato all'ospedale di Juba», riferisce l'agenzia Fides. «Padre Christian è stato picchiato, insieme alla suora che era con lui, poi gli hanno sparato quattro proiettili alle gambe. Stando alle prime notizie l'attentato era pianificato pare per spaventarlo in modo che non venga consacrato vescovo». Proprio nei prossimi giorni, infatti, è prevista la consacrazione del missionario comboniano a vescovo (il più giovane tra gli italiani con i suoi 43 anni) della diocesi di Rumbek che dalla morta di mons. Cesare Mazzolari nel 2011 era rimasta sede vacante.

Fausto Biloslavo per "il Giornale" " il 27 aprile 2021. «Sto bene. Dio mi ha aiutato. Me li sono trovati di fronte e ho parlato con loro. Poi hanno puntato le armi sparandomi alle gambe. Mi hanno pure picchiato colpendomi in testa, ma li perdono dal profondo del cuore». La voce di Christian Carlassare, che parla in inglese, arriva sofferente, ma chiara, ai microfoni di radio Eye, un'emittente del Sud Sudan. Il missionario italiano, veterano del Paese più giovane dell'Africa, indipendente dal 2011, era stato gambizzato poche ore prima. «Potevano ammazzarlo, ma si è trattato di un avvertimento, un messaggio ancora da decifrare. Forse non vogliono un vescovo bianco oppure un missionario che ha lavorato a lungo con un'altra etnia», spiega padre Daniele Moschetti, ex provinciale dei comboniani per il Sud Sudan. Carlassare è stato nominato vescovo della diocesi di Rumbek l'8 marzo da papa Francesco e la sua consacrazione è prevista il 23 maggio. «La scorsa notte (domenica, nda), attorno a mezzanotte e mezza, alcune persone hanno bussato violentemente alla porta. Poi l'hanno aperta a forza», racconta alla radio la vittima. Gli aggressori erano almeno due e hanno sparato tre colpi a bruciapelo sotto il ginocchio, probabilmente di kalashnikov. «Ho le gambe ferite, ma le ossa non sono state colpite - racconta Carlassare -. In ospedale hanno fermato l'emorragia. Sono fiducioso». Per l'attentato la polizia sudsudanese ha arrestato 24 persone. Il più giovane vescovo della Chiesa non si è perso d'animo: «La popolazione soffre molto più di me. Perdono chi mi ha colpito. La mia solidarietà va a chi è stato ferito oppure ucciso a Rumbek. Ringrazio Dio per permettermi di svolgere la missione». Padre Andrea Osman, che vive vicino al vescovo, ha raccontato: «L'ho sentito gridare e poi gli spari. Quando mi hanno visto hanno intimato di andarmene. Uno di loro ha sparato due proiettili, che si sono conficcati nella sedia alle mie spalle».  I primi a soccorrerlo sono stati i medici italiani del Cuamm ospitati nel compound accanto al luogo dell'agguato. Enzo Pisani ha raccontato a Nigrizia, mensile dei missionari combioniani come Carlassare, che il vescovo «sanguinava notevolmente. Non è stato facile trovare il sangue perché il suo gruppo è H negativo. La provvidenza ci ha aiutato e un volontario del Cuamm, con gruppo O negativo, gli ha donato il suo». Il vescovo è stato portato in aereo a Juba, la capitale del Sud Sudan, e poi in Kenya, a Nairobi. «Ci ha chiamato questa mattina (lunedì, nda) alle sette e ci ha detto che lo avevano colpito, che avevano sparato al chiavistello della porta con i fucili e poi alle gambe», racconta Marcellina Leder, la mamma del giovane vescovo, dalla loro casa di Piovene Rocchette, in provincia di Vicenza. «Siamo frastornati. Gli è andata bene. Voleva tranquillizzarci: Non vi preoccupate, mi hanno fatto una trasfusione di sangue». Carlassare è missionario nel Sud Sudan da 16 anni. A lungo è stato missionario a Malakal, nella regione dell'Alto Nilo, in mezzo ai nuer, un gruppo etnico in atavica lotta contro i dinka della sua nuova diocesi. Un vescovo che aveva vissuto con i «nemici» tribali imparando addirittura la lingua forse non andava a genio. «Si tratta di un avvertimento chiaro e di un'intimidazione per padre Christian - ha dichiarato a Nigrizia una fonte ben informata -. Il messaggio che hanno voluto trasmettere è che non deve essere consacrato vescovo il prossimo 23 maggio, giorno di Pentecoste». Gran parte della popolazione ha accolto Carlassare con gioia, ma nel Sud Sudan aleggia ancora lo spettro della sanguinosa guerra civile. Il Paese è parcellizzato dai signori della guerra, che hanno mantenuto le loro milizie e gli appetiti sulle ricchezze come il petrolio. «Se non riusciranno a formare un solo esercito - spiega Moschetti - si tornerà a una sanguinosa guerra tribale per il controllo delle risorse». (ANSA il 25 aprile 2021) Una missionaria laica italiana, Nadia De Munari, 50 anni, originaria di Schio (Vicenza), è stata uccisa in Perù a colpi di machete forse durante un tentativo di rapina. Lo riferiscono 'Il Giornale di Vicenza' e 'Il Corriere Veneto' citando fonti di stampa del Paese sudamericano. La donna sarebbe stata assassinata mentre dormiva. Portata in ospedale, è stata sottoposta ad un intervenuto chirurgico d'urgenza, risultato purtroppo inutile. In Perù con l'Operazione Mato Grosso, la missionaria era responsabile nel centro 'Mamma mia' di Nuevo Chimbote, realizzato da padre Ugo De Censi.

Fausto Biloslavo per il Giornale il 28 aprile 2021. «È stato un avvertimento. Gli aggressori eseguivano l'ordine di un mandante, ma tornerò presto in Sud Sudan», dichiara Christian Carlassare, 43 anni, il più giovane vescovo missionario italiano, gambizzato domenica notte nella diocesi di Rumbek. Nell'intervista esclusiva al Giornale, dal letto d'ospedale a Nairobi, racconta come gli hanno sparato e il desiderio di parlare con il Papa.

Come sta?

«Sono stato trasportato a Nairobi e in nottata operato nuovamente per estrarre alcune pallottole dalle gambe. Ora sono tranquillo e confidente che recupererò presto».

Perché l'hanno gambizzata?

«Penso che sia un atto intimidatorio, un avvertimento. Gli aggressori non li ho mai visti prima. Erano due uomini sulla trentina. Sospetto che qualcuno abbia commissionato questo gesto».

Come le hanno sparato?

«Cercavano di scassinare la porta, ho sentito i rumori e mi sono alzato. Sono rimasto nella penombra in silenzio. Quando si sono resi conto che non sarebbero riusciti a forzare la porta, hanno cominciato a sparare alla serratura. Così ho capito che la faccenda era più seria di quanto pensassi, che non si trattava di normali ladri».

E poi cosa è accaduto?

«Quando ho chiesto aiuto hanno cominciato a colpire più intensamente la serratura. Cercavo di tenere in piedi la porta, ma dovevo stare di lato perché entravano i proiettili. Uno dei preti è uscito dalla sua stanza con grande coraggio. Abbiamo chiesto agli aggressori cosa volessero e per un attimo sono indietreggiati, ma non hanno risposto. Anzi, uno dei due ha caricato il kalashnikov».

E l'hanno gambizzata.

«Nel giro di 40 secondi si sono diretti verso di me e uno di loro mi ha puntato l'arma contro. Ho notato, però, che mirava in basso, alle gambe. Poi ha sparato. Non voleva uccidermi, ma ferirmi».

Hanno detto qualcosa?

«Non hanno mai aperto bocca. Stavano eseguendo un ordine. Quando hanno cominciato a sparare sono indietreggiato verso la stanza cercando di proteggermi al buio, ma gli aggressori mi hanno inseguito per picchiarmi con il calcio del fucile. Poi hanno assestato l'ultimo colpo sulla nuca che mi ha fatto crollare».

Avrebbero potuto ucciderla?

«Certamente, ma non mi hanno dato il colpo di grazia e sono scappati. Era sicuramente un avvertimento».

È vero che ha perdonato i suo aggressori?

«Sì, li perdono perché non sapevano quello che stavano facendo. La violenza nella zona di Rumbek sembra la soluzione a tutti i problemi. La gente della diocesi vive ogni giorno questa situazione di sofferenza a causa della presenza di armi in mano ai civili che si scontrano con altri clan o dentro la stessa tribù. Il perdono è l'unico messaggio che può portare un po' di speranza».

Lei è stato missionario per anni con i Nuer, «nemici» tribali dei dinka della sua nuova diocesi. L'hanno gambizzata per questo?

«È una lettura possibile. Però il benvenuto dalla grande maggioranza delle persone e la mia propensione ad amare tutti indistintamente dalla loro tribù dimostra il contrario».

Ha la pelle bianca e da anni c'era un facente funzioni del vescovo locale (John Mathiang, arrestato ieri come sospetto). È un altro motivo?

«Anche questo elemento potrebbe avere giocato un ruolo, ma il modo in cui i preti diocesani mi hanno accolto è stato molto bello. E poi esisteva già una presenza importante di religiosi non locali».

Tornerà in Sud Sudan?

«Certo che tornerò. Quando sono stato colpito la gente fuori dall'ospedale diceva: Padre non abbandonarci, ritorna. Verrò consacrato vescovo il 23 maggio e conto di tornare per quell'occasione».

Il Papa prega per lei, ma le ha pure telefonato?

«Non ancora, ma aspetto una sua chiamata o di avere la possibilità di incontrarlo».

Non teme per la sua vita?

«La vita è un dono prezioso, che va coltivato e protetto. L'altra notte ho visto la morte davanti agli occhi. Però mi spaventa di più la paura di vivere. Penso che sia importante vivere ciò che è santo, bello, e giusto fino in fondo. Non importa se la vita sia lunga, corta, ricca o povera, ma va vissuta con questi valori».

(ANSA il 25 aprile 2021) Agenti della squadra omicidi di Lima si sono recati nella località costiera peruviana Chimbote per partecipare alle indagini sull'uccisione della missionaria Nadia De Munari. Lo scrive il quotidiano locale, Diario de Chimbote. L'aggressione - secondo il quotidiano compiuta con un'ascia e una sbarra metallica - è avvenuta nella casa famiglia 'Mamma mia' martedì mattina. La polizia ha interrogato le cinque persone presenti nella struttura, tra cui un cittadino italiano. Anche un'altra donna, Lisbet Ramírez Cruz, è stata aggredita dai criminali e gli investigatori ritengono particolarmente utile la sua testimonianza.

De Munari aveva 50 anni ed era originaria del Vicentino. Perù, missionaria italiana uccisa nel sonno a colpi di machete: “Nadia è una martire”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Aprile 2021. Assassinata a colpi machete mentre dormiva. E’ stata uccisa così in Perù Nadia De Munari, la 50enne missionaria laica originaria di Schio (Vicenza). Lo riferiscono ‘Il Giornale di Vicenza’ e ‘Il Corriere Veneto’ citando fonti di stampa del Paese sudamericano. Dopo l’aggressione, avvenuta martedì 20 aprile, De Munari è stata soccorsa e trasportata in ospedale a Lima dove nonostante i tentativi dei sanitari di salvarle la vita, con un intervento chirurgico alla testa, non c’è stato nulla da fare. Troppo gravi le lesioni riportate, soprattutto alla testa. La 50enne si trovava nel paese sudamericano con l’operazione Mato Grosso ed era responsabile nel centro "Mamma mia" di Nuevo Chimbote. La prima ipotesi avanzata dalla polizia locale, che ha rilevato molte tracce, anche ematiche, nella stanza della donna, potrebbe essere quella relativa a una rapina finita male. Ma ancora non vi sono ipotesi certe. Al momento non ci sarebbero testimoni anche se nella casa famiglia dove è avvenuto l’omicidio vivono un’altra decina di insegnanti. Nessuno avrebbe sentito nulla perché dormivano in un’altra ala della struttura. Secondo i media locali, gli aggressori l’avrebbero colpita più volte e avrebbero tentato di strangolarla con una corda. Altri volontari hanno raccontato di essersi accorti della sua assenza al risveglio, prima della preghiera mattutina delle 6.30, e di averla ritrovata priva di coscienza ma ancora viva. “Nadia è una martire“. Sono le parole che ha pronunciato la mamma di Nadia De Munari, la missionaria laica uccisa in Perù a colpi di machete, al parroco di Schio, paese natale della volontaria che operava per i poveri delle baraccopoli. “La mamma di Nadia – dice all’Adnkronos don Gaetano Santagiuliano, parroco di Schio – ha detto che la figlia è una martire. Parole che non potrebbero essere più vere perché Nadia ha donato la sua vita, ci ha messo il sangue”. Il paese vicentino, come racconta il parroco, “è sotto scock. Nadia tornava a casa ogni due tre anni ed era entusiasta, orgogliosa del servizio che faceva con l’operazione Mato Grosso. Gestiva sei asili e la scuola elementare in una periferia degradata a due ore da Lima “. Oggi la comunità di Schio la ha ricordata nella celebrazione religiosa. “E quattro sacerdoti tornati dal Perù provvisoriamente – racconta ancora il parroco di Schio – la ricorderanno anche oggi con una messa concelebrata è un rosario”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 faccio parte della redazione del Riformista.

Massacri, stupri e controllo digitale: ecco come vengono perseguitati i cristiani. Alessandra Benignetti su Inside Over il 20 aprile 2021. L’allontanamento dalle figlie piccole, la prigione, le torture psicologiche, le vessazioni da parte degli agenti di polizia. Asia Bibi, la bracciante pakistana cattolica condannata a morte per blasfemia nel 2010 da un tribunale del distretto del Punjab dopo essere stata accusata dalle colleghe musulmane di aver toccato la loro acqua, porta ancora le cicatrici del suo lungo calvario. Ora vive in Canada, dopo essere stata assolta dalla Corte Suprema del Pakistan nel 2018. Ma non dimentica il dramma di chi, come è successo a lei, continua ad essere imprigionato ingiustamente, o peggio ucciso, stuprato, rapito, discriminato, a causa della propria fede. Quante Asia Bibi ci sono nel mondo? Secondo la quindicesima edizione del rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla libertà religiosa 5,2 miliardi di persone oggi vivono in un Paese in cui il diritto di professare il proprio credo viene soppresso o addirittura negato.

La persecuzione religiosa in una nazione su tre. Succede in 62 Stati, una nazione su tre. In 26 casi non si parla soltanto di discriminazione, ma di vera e propria persecuzione. Non sono semplici numeri, seppur inquietanti. “Dietro ci sono la carne, il sangue e la sofferenza di milioni di persone”, sottolinea il presidente di Acs-Italia, Alfredo Mantovano. Tra i gruppi più perseguitati c’è quello dei cristiani. Cristiani come Asia, ai quali con la violenza, e con strumenti come la legge pakistana sulla blasfemia, vengono tolte dignità e libertà. “È una spada in mano alla maggioranza del Paese”, accusa la donna, intervenendo alla presentazione del report della fondazione pontificia. Tra qualche settimana sarà a Roma. Spera di incontrare Papa Francesco e Benedetto XVI. Vuole ringraziarli per essersi battuti e aver pregato per lei, quando nell’indifferenza generale portava la sua croce nel silenzio di una cella spoglia del carcere di Sheikhupura.

Stupri e rapimenti contro i cristiani in Pakistan. Asia denuncia come in Pakistan le violenze contro le minoranze religiose non si siano fermate. Parla dei soprusi subiti dalle ragazzine rapite e costrette a sposarsi e convertirsi all’Islam, delle donne stuprate da uomini musulmani. Secondo le organizzazioni locali si stima che almeno mille ragazze e giovani donne cristiane e indù vengano rapite ogni anno. È andata peggio a Sonia, una giovane cristiana uccisa nel novembre del 2020 dopo aver rifiutato le avances di un uomo musulmano. Soltanto due settimane fa un’altra ragazza è stata attaccata con un coltello per la stessa ragione. L’aggressore è libero mentre lei è stata arrestata per blasfemia. “Se l’Islam è una religione di pace e armonia, come si può giustificare una tale violenza in nome della stessa religione? L’Islam permette forse di sposare ragazze minorenni e costringerle alla conversione?”, sono le domande di Asia Bibi al primo ministro del Pakistan. E poi un appello, il più accorato, a modificare quella legge sulla blasfemia di cui troppo spesso si abusa per colpire le minoranze religiose.

Le violenze del Califfato transnazionale. L’avanzata dei gruppi islamisti in alcune aree del mondo, la pandemia e persino lo sviluppo tecnologico hanno aggravato un quadro che già nello scorso biennio si presentava fosco. “Nel novembre del 2018 i Paesi dove si sono registrate violazioni erano 38, di cui 21 con persecuzioni gravi e 17 con discriminazioni. – spiega il direttore di Acs-Italia Alessandro Monteduro – I soprusi non sono diminuiti: nel 2021 i Paesi con violazioni sono diventati 62, di cui 26 colorati di rosso e 36 di arancione”. La persecuzione religiosa cresce nel continente africano che conta ben sette nuovi ingressi nella triste classifica con Burkina Faso, Camerun, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Mali e Mozambico. Alla base dell’aumento di violenze e discriminazione in Africa c’è l’aumento della presenza dei gruppi jihadisti e la crescente radicalizzazione.  “Il network islamista transnazionale – va avanti Monteduro – si estende dal Mali al Mozambico, dalle Comore nell’Oceano Indiano alle Filippine nel Mar Cinese Meridionale, con lo scopo è creare un sedicente califfato transcontinentale”.

L’Africa sempre più “nera”. Tra gli esempi più lampanti c’è quello del Burkina Faso, dove negli ultimi due anni sono raddoppiati gli attacchi da parte dei gruppi islamisti come Jama’at Nusrat al Islam wal Muslimin, Ansaroul Islam e lo Stato islamico del Grande Sahara. “Il loro obiettivo è quello di invadere l’Africa collegando il deserto al mare per poter controllare le vie del commercio per portare avanti i loro traffici e cambiare l’organizzazione della società, islamizzando tutta l’area”, spiega monsignor Laurent B. Dabiré, vescovo di Dori e presidente della Conferenza episcopale del Burkina Faso e del Niger. La sua diocesi, nel nord del Paese, si è ritrovata ad avere a che fare all’improvviso con miliziani jihadisti che hanno “massacrato la popolazione, distrutto case, scuole e ogni simbolo di tolleranza e dialogo”. “La chiesa si è trovata coinvolta, assieme al resto dei cittadini, compresi gli stessi musulmani”, spiega il vescovo. Nella sua diocesi, assicura, sei parrocchie su tre sono chiuse, ci sono interi villaggi off limits ed esercitare la propria libertà religiosa viene di fatto impedito. “È una minaccia seria per la libertà, – avverte – se i gruppi islamisti avranno la meglio e sarà finita per tutti”.

La persecuzione 2.0 grazie alle nuove tecnologie. Alla minaccia del fondamentalismo si affianca anche quella dell’abuso delle tecnologie più all’avanguardia. Ad usarle sono gli stessi gruppi jihadisti, ma anche i governi. Come quello cinese che attraverso una sorveglianza di massa basata sull’intelligenza artificiale, portata avanti con l’ausilio di 626 milioni di telecamere piazzate in tutto il Paese, controlla e reprime le minoranze religiose, grazie a sistemi di riconoscimento facciale come quelli dei nostri smartphone. Non solo regimi autoritari, come Cina e Corea del Nord, ma anche nazionalismi etno-religiosi che si traducono nella persecuzione delle minoranze in Paesi come India, Nepal, Myanmar e Thailandia.

Gli effetti della pandemia e della “persecuzione educata”. Poi c’è la pandemia, che ha aggravato le discriminazioni nei confronti delle minoranze, che si sono viste negare gli aiuti economici, alimentari e sanitari in Paesi come Niger, Turchia, Egitto, Pakistan e la stessa Cina. Un trattamento di serie b, basato proprio sui forti pregiudizi sociali già esistenti nella società e spesso amplificati dalle istituzioni. E infine, la “persecuzione educata”. Così Papa Francesco ha definito l’ascesa di quei nuovi “diritti” e norme culturali che relegano la religione nella “oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe e delle moschee”. Norme che rischiano di spingere la maggior parte dei Paesi civili all’indifferenza verso il dramma vissuto ogni giorno in tutto il mondo da milioni di persone.

Quella “pandemia ombra” che uccide i cristiani. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 19 marzo 2021. Ci sono Paesi nel mondo in cui si continua ancora a perseguitare gli appartenenti alle minoranze religiose. In particolar modo sono le comunità cristiane a subire gli effetti delle ritorsioni. In questo contesto le donne sono le più vulnerabili perché rappresentano la parte più viva della comunità. Gli effetti della persecuzione si sono accentuati durante l’anno della pandemia, tanto che Porte Aperte Onlus ha parlato di “pandemia ombra”.

Gli effetti della pandemia. La pandemia da ormai più di un anno ha preso in mano le redini della vita di tutti. Un importante cambiamento che ha scosso la quotidianità e lo stile di vita: entrambe hanno subito una trasformazione non indifferente. Ma ci sono alcuni territori in cui questo cambiamento ha fatto sentire ancora di più i suoi effetti per via della gravità delle conseguenze. A mettere alla luce la drammatica situazione di alcune nazioni è il report annuale di Porte Aperte Onlus dal quale emerge che gli appartenenti alle minoranze religiose stanno subendo una persecuzione come mai vista prima d’ora. Violenza di genere, rapimenti e traffico di esseri umani hanno raggiunto numeri preoccupanti: le donne cristiane sono le vittime maggiormente colpite. “La pandemia da Covid- si legge nel report – ha reso i vulnerabili ancor più vulnerabili, soggetti a persecuzione e opposizione durante i lockdown da parte delle loro stesse famiglie e comunità ostili alla loro fede. Il report – continua il documento – ha raggiunto il livello più alto di persecuzione che questo studio annuale abbia mai registrato negli ultimi 3 anni, con le donne che spesso affrontano un rischio potenzialmente più elevato rispetto agli uomini”. Lo studio è stato eseguito principalmente sulle 50 nazioni sottoposte all’analisi della World Watch List  e i dati registrati provengono dal personale e dai collaboratori di Porte Aperte che hanno operato sul campo raccogliendo le interviste di  uomini e donne cristiani vittime di violenza per la loro fede,  da analisti della persecuzione della stessa organizzazione, nonché  da consulenti esterni.

La persecuzione verso le donne cristiane. Dando lettura al report c’è un elemento che non può non assumere un rilievo di particolare attenzione. Ovvero la differenza nella persecuzione contro le donne e quella che invece subiscono gli uomini. In quei Paesi dove le discriminazioni sono più importanti, approfittando della  pandemia, non si è  perso tempo a colpire i corpi delle donne per “danneggiare le comunità cristiane minoritarie e limitare la crescita della chiesa”. Ed ecco quindi che ancora una volta il sesso femminile è quello che rimane il più colpito in questa persecuzione senza fine. Particolare in questo contesto è quella forma di violenza sia fisica ma anche psicologica verso le donne che si sono convertite al cristianesimo: “Loro sono esposte- si legge nel report-a un maggior rischio quando, chiuse in casa con le proprie famiglie, possono subire abusi per aver abbandonato la religione di Stato o di famiglia per il cristianesimo”.

È cresciuto anche in modo significativo il traffico e lo sfruttamento di donne  forzate in matrimoni o schiavitù sessuale. In altri Paesi, tra cui il Pakistan ad esempio, i lockdown hanno ridotto il numero di persone per strada, rendendo però allo stesso tempo donne e ragazze cristiane un bersaglio facile. Le stesse sono sottoposte continuamente a violenze e stupri. “Questa violenza- testimonia una fonte segreta di Porte Aperte – è una specifica arma di persecuzione, un mezzo per ferire le donne cristiane e traumatizzare le comunità”. C’è anche dell’altro.  In Medio Oriente, in Nord Africa e nell’Africa Sub-Sahariana, gli  estremisti ricorrono anche  all’adescamento mirato, ai matrimoni forzati e ai rapimenti “come strumento per islamizzare ragazze e donne e impoverire la tormentata comunità cristiana”. Ed ancora: “In varie parti dell’Asia- si legge nel report – ragazze di famiglie cristiane povere vengono selezionate e mandate in Cina per matrimoni combinati, dove l’aborto selettivo ha portato a una carenza di giovani donne. Gruppi criminali in America Latina e leader del narcotraffico minacciano di morte le famiglie cristiane se rifiutano di cedere le loro figlie. Questo riduce al silenzio le chiese e i responsabili di chiesa che mettono alla prova l’effettivo dominio di questi gruppi sui loro villaggi”.

La persecuzione verso gli uomini. Se da un lato è la stessa Porte Aperte a ribadire più volte la vulnerabilità delle donne cristiane nei contesti più delicati, dall’altro è anche vero che la Onlus nei suoi rapporti ha sempre specificato come anche gli uomini delle minoranze religiose sono oggetto di persecuzioni. Una situazione che durante la pandemia è ancor di più peggiorata. Il motivo è presto detto: “Si assiste – si legge nel report – a discriminazioni economiche o reclusione riguardo agli uomini”. Ai cristiani cioè viene costantemente limitata la prospettiva di accedere a lavori di prestigio, in alcuni casi addirittura viene negata la possibilità stessa di avere un lavoro. E se è questo è stato vero per gli anni passati, a maggior ragione è stato riscontrabile durante la pandemia. Le misure anti Covid in tutto il mondo hanno provocato gravi danni economici e hanno acuito le disuguaglianze. In quei Paesi dove i cristiani erano già discriminati, gli uomini hanno avuto sempre meno opportunità lavorative. Questo ha comportato maggiore vulnerabilità da parte delle famiglie, rimaste spesso senza reddito e dunque ancora più esposte alle discriminazioni. Ma non c’è soltanto il fattore economico nella persecuzione verso gli uomini cristiani. Nell’ultimo anno Porte Aperte ha annotato un incremento del 40% della coscrizione nell’esercito nei Paesi a maggioranza musulmana: “L’arruolamento forzato di uomini cristiani negli eserciti o nelle milizie – si legge nel report – è una delle forme di persecuzione in aumento”. Da non dimenticare poi la persecuzione fisica verso gli uomini: migliaia in tal senso gli omicidi segnalati in vari Paesi nel 2020.

Il fattore fede non riconosciuto come causa di persecuzioni. C’è poi un paradosso ancora più evidente nell’anno della “pandemia ombra”. Nonostante diverse forme di discriminazione e migliaia di casi di persecuzione, a livello internazionale il fattore fede non è riconosciuto come causa di vulnerabilità nei contesti più delicati. E forse anche questo elemento ha contribuito al dilagare nel 2020 dell’epidemia discriminatoria: “È ora che il fattore fede venga riconosciuto – ha dichiarato Helen Fisher, co autrice del rapporto di Porte Aperte – mentre l’etnia e il genere sono riconosciute come vulnerabilità nelle zone di conflitto, la fede individuale generalmente non lo è”. In poche parole, in caso di persecuzione accertata si potrebbe riconoscere una violenza attuata solo su base etnica o di genere. Un cristiano o una cristiana ufficialmente potrebbero subire discriminazioni per la loro etnia o per il loro sesso, non invece per la religione professata: “Va assolutamente riconosciuta – ha commentato in tal senso nel rapporto il direttore di Porte Aperte, Cristian Nani – questa doppia vulnerabilità delle donne cristiane nei paesi dove già esiste una forma di persecuzione anticristiana: istituzioni, governi ma anche la stessa comunità cristiana globale deve esserne consapevole e usare ogni tipo di influenza possibile affinché il destino di queste nostre madri, figlie, sorelle, cambi”.

La Polonia difende i cristiani d’Etiopia. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 24 gennaio 2021. La Polonia di Diritto e Giustizia (PiS) sta tentando di ritagliarsi un ruolo di primo piano nella nascente internazionale per la protezione dei cristiani perseguitati nel mondo. I rapporti fra il governo e il papato sono ottimi e lo scorso agosto è stato siglato un memorandum di cooperazione con l’Ungheria inerente l’attuazione congiunta di progetti ed iniziative in ogni parte del mondo in cui si abbia notizia di persecuzioni anticristiane. In conformità all’aspirazione di fare di Varsavia il nuovo scutum saldissimum et antemurale Christianitatis, il governo polacco è intervenuto su un tremendo massacro di cristiani avvenuto di recente in Etiopia e passato incredibilmente in sordina nonostante le dimensioni: 750 morti.

Il massacro che ha turbato Varsavia. Il Ministero degli Esteri di Polonia ha pubblicato una nota ufficiale per denunciare una strage di cristiani avvenuta in Etiopia lo scorso 15 dicembre. La notizia del massacro, che sarebbe costato la vita a 750 fedeli della Chiesa ortodossa etiope, è stata confermata dallo Europe External Programme with Africa il 9 gennaio ma ha iniziato a circolare soltanto nei giorni scorsi. La mattanza è avvenuta all’interno della Cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion, uno dei siti più importanti dell’intera cristianità – non soltanto etiope – in quanto sarebbe ivi nascosta la leggendaria Arca dell’Alleanza, la cassa di legno contenente le Tavole della Legge date da Dio a Mosè. Non è la prima volta che il luogo di culto è oggetto di incursioni, spesso opera di ladri alla ricerca della reliquia, ma la carneficina sacrilega del 15 dicembre non ha precedenti storici. Secondo quanto ricostruito, la strage sarebbe stata consumata dalle forze armate etiopi e da milizie irregolari appartenenti all’etnia Amhara; paradossale il motivo: la loro irruzione nella cattedrale alla ricerca dell’Arca dell’Alleanza, alla quale i fedeli ivi presenti – almeno mille – hanno opposto una tenace resistenza culminata nel martirio. Nel comunicato del governo polacco si esprime una ferma condanna nei confronti “[de]gli autori di questo crimine barbaro compiuto in un luogo di culto” e vengono invitate “le autorità etiopi ad intraprendere immediatamente ogni iniziativa per chiarire le circostanze e punire i responsabili”. Varsavia, inoltre, richiama “le parti del conflitto alla cessazione delle violenze, al rispetto dei diritti umani, alla garanzia della sicurezza della popolazione civile e anche alla difesa dei luoghi di culto religioso” e auspica che venga consentito “l’accesso degli aiuti umanitari alla regione dei Tigrè”.

Cosa sta accadendo in Etiopia? L’Etiopia è culla di una delle chiese più antiche dell’intera cristianità e la maggioranza della popolazione appartiene a confessioni cristiane. Malgrado ciò, le condizioni di vita dei cristiani hanno registrato un grave e repentino peggioramento negli anni recenti, in particolare a partire dal biennio 2019-20. Il deterioramento è dovuto principalmente all’aumento della conflittualità interna, palesata dall’esplosione della guerra del Tigrè ed aggravata dalla concomitante recrudescenza del fenomeno terroristico di stampo jihadista. Tale è il livello delle violenze, compiute sia dai terroristi che nel contesto della guerra del Tigrè, che, nell’ultimo rapporto di Porte Aperte sulla persecuzione dei cristiani nel mondo, l’Etiopia ha scalato tre posizioni in un anno, raggiungendo il 36esimo posto e consolidando il proprio status nella categoria dei Paesi “ad alto rischio”. Avere delle stime sulle uccisioni, anche solo approssimative, è difficile per via del controllo capillare delle notizie da parte del governo ma, come si è visto con i fatti del 15 dicembre, l’eco dei massacri più gravi trova il modo di superare i confini nazionali. A questo proposito, secondo un’indagine dell’International Christian Concern, soltanto fra giugno ed agosto dell’anno scorso sarebbero morti almeno cinquecento cristiani per mano del terrorismo islamista. 

La mancata vita dei bambini cristiani perseguitati. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo, su Inside Over il 22 gennaio 2021. Difficoltà a vivere la quotidianità perché spettatori di crimini e maltrattamenti o perché vittime dirette di questi atti vili: sono i bambini cristiani che, in alcune parti del mondo, sono costretti a fare i conti con una dura realtà dovuta proprio alla loro fede. Milioni di questi bambini, se hanno la fortuna di sopravvivere, subiscono abusi, matrimoni forzati, la tratta e la riduzione in schiavitù. Drammatiche condizioni di vita che non possono passare per scontate, ma che purtroppo fanno fatica ad essere sradicate in alcuni Paesi.

La World Watch List 2021 di Porte Aperte. C’è una Onlus che giorno per giorno monitora la situazione dei cristiani perseguitati in tutto il mondo. Si tratta di “Porte Aperte”, la quale ogni anno a gennaio pubblica una classifica in cui vengono esaminati in tal senso tanti aspetti: i Paesi dove i cristiani subiscono i peggiori maltrattamenti, quelli dove subiscono violenze o dove è difficile per loro praticare la propria fede. Anche quest’anno la World Watch List di Porte Aperte ha descritto uno scenario impietoso: qualcosa come 309 milioni di cristiani sono stati vittime di persecuzione in 50 diversi Paesi, con 4.761 fedeli uccisi, un ritmo di 13 al giorno per tutto il 2020. Numeri che danno l’idea dell’intero contesto internazionale che riguarda i cristiani. La persecuzione ha diversi atroci aspetti: dalla violenza alla carcerazione arbitraria, passando per gli abusi, le conversioni forzate, le torture e la sistematica distruzione dei luoghi di culto. Su quest’ultimo aspetto, ad esempio, nella Word Watch List si contano 12 edifici religiosi distrutti al giorno nell’interno anno appena trascorso. Tuttavia spesso le comunità di fedeli devono scontrarsi con un altro e forse ben peggiore nemico, il silenzio. Di queste sofferenze e di queste sopraffazioni lì dove i cristiani sono minoranza, in Europa soprattutto non interessa quasi nessuno. E anche se i numeri di Porte Aperte appaiono drammatici, spesso i cristiani vengono lasciati da soli.

Perché vengono colpiti i minori. Sono diversi gli aspetti riguardanti la persecuzione dei cristiani. Uno di questi appare particolarmente rilevante per via della categoria colpita, quella dei minori. Cristina Merola, specialista sulla persecuzione di genere di Porte Aperte, su InsideOver spiega il perché donne e bambini vengono presi particolarmente di mira: “Se si vuole distruggere la Chiesa – dichiara – si porta via la sua “ricchezza” terrena più preziosa”. Le ragazze e i ragazzi rappresentano il futuro di una comunità cristiana, la risorsa affettiva più preziosa di cui si può disporre per mandare avanti la tradizione religiosa. Colpire loro, vuol dire provare ad affossare per sempre l’intera comunità. È un fenomeno che si verifica soprattutto nei Paesi dove il fondamentalismo islamico, in Asia come in Africa, ha radici molto profonde: “Le donne nei Paesi musulmani e in molti Paesi dell’Asia – spiega Cristina Merola – sono simboli della purezza e dell’onore della famiglia, e se vengono “compromesse” da un abuso, viene loro detto di nascondersi perché a causa della loro vergogna non hanno più alcun contributo da offrire al mondo in cui vivono”. Ecco quindi che per colpire i cristiani, ragazzine e bambine sono vittime di gravi abusi, tanto fisici quanto psicologici: “La convinzione della maggioranza – prosegue l’esponente di Porte Aperte – è che Dio non proteggerà le donne cristiane perché prive di onore. In alcune regioni musulmane, gli estremisti hanno creato un ambiente in cui donne e ragazze sono prese di mira da stupratori, rapitori e amanti molesti. La pandemia non ha fermato questa pratica”.

Le bambine vittime di matrimoni forzati. Un’infanzia negata dove non esiste spensieratezza, dove non ci sono momenti per giocare e lasciare spazio alla fantasia come avviene normalmente ma solo comportamenti di difesa da incubi reali rappresentati dalle violenze. Queste ultime sono sia psichiche che fisiche e portano le bambine ad essere anche vittime di matrimoni forzati. Una situazione che avviene ad esempio in Pakistan dove, nonostante sia stata ratificata la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne, alcuni Stati al suo interno permettono ancora che le bambine e le ragazzine si sposino: il 21% delle ragazze ha assunto lo stato di coniuge  prima di aver compiuto il 18esimo anno di età. “Nonostante il matrimonio forzato sia stato bandito nel 2011- racconta Cristina Merola – le ragazze delle minoranze religiose sono comunemente prese di mira. Si stima che siano circa 1.000 i delitti d’onore perpetrati ogni anno”. Se le ragazzine hanno difficoltà ad opporsi alle nozze forzate, ancor più difficile è la possibilità di avanzare una richiesta di divorzio al contrario del marito che ha libertà di fare tutto ciò che crede: “Sotto la Sharia – continua Merola – un uomo ha il diritto di divorziare dalla moglie con il talaq (ripudio), mentre una donna deve affrontare uno stigma sociale significativo nel caso in cui chieda il divorzio. Dopo un divorzio, alle donne è di solito concessa la custodia dei bambini al di sotto dei 7 anni, mentre la tutela, con annesso potere decisionale, rimane al padre. Se viene evidenziato il caso che il bambino debba essere cresciuto da musulmano, tuttavia, la custodia dei figli sarà probabilmente data al genitore musulmano, indipendentemente dall’età del bambino”.

I bambini vittime di lavori forzati. La vita per i bambini cristiani non è del tutto differente rispetto alle bambine. La forma di violenza perpetrata nei loro confronti assume modalità differenti ma sempre con terribili conseguenze. Le donne vengono obbligate alla conversione e al matrimonio mentre i maschi vengono costretti a compiere i lavori più pesanti che di solito gli appartenenti alla religione maggioritaria non vogliono fare. Si tratta ad esempio dei lavori di pulizia delle fognature e delle strade che implicano sforzi fisici e psichici disumani. Tra loro ci sono anche i bambini:  “Esiste ancora una forma di lavoro coatto – racconta Cristina Merola – al quale anche i bambini delle famiglie operaie sono vincolati perpetuando tale legame su varie generazioni. Il lavoro minorile è dilagante, Una Ong stima in 12,5 milioni i bambini lavoratori”. Sono giovani privati del loro normale percorso di crescita e di una sana evoluzione. Le conseguenze di queste costrizioni se non hanno conseguenze prettamente di carattere fisico in un primo momento, sfociano più in avanti in disturbi comportamentali e nella depressione.

Maiduguri. LA SFIDA E LA GRAZIA. Foto e video di Marco Gualazzini. Testo di Daniele Bellocchio. Inside Over il 30 luglio 2021. C’è un luogo, in Africa, dove l’ordine naturale delle cose si è interrotto. La vita scorre in margine alla morte, l’eresia è stata elevata a fede, migliaia di biografie sono state piallate in una tragedia uniformatrice, e tutto è stato raso al suolo, persino le parole hanno perso il loro valore ontologico di descrivere ciò che c’è rivelando invece l’opposto di ciò che raccontano: questo luogo, nel nord est della Nigeria è lo Stato del Borno, che in lingua hausa significa ”Casa della pace”, ma che è divenuto dal 2009 ad oggi la dimora di Boko Haram, la setta jihadista africana che in undici anni ha provocato la morte di 350mila persone e ha costretto alla fuga e all’esodo quasi 3 milioni di cittadini. Maiduguri è la capitale di questo stato della Repubblica federale della Nigeria, incastonata tra l’Africa subsahariana e il Sahara, tra le sabbie e il cielo, tra i checkpoint e i campi profughi, tra la vita e la morte. Ed è in questa città che, arrivata a contare quasi 2 milioni di abitanti in seguito all’arrivo degli sfollati del conflitto, occorre addentrarsi se si vuole avere una prospettiva privilegiata per capire cosa significhi vivere laddove non si può sospettare l’incedere della vita senza l’incombere improvviso della tragedia. Come si esce dall’aeroporto, si viene sferzati dal caldo vento del nord, l’Harmattan, che solleva nugoli di polvere e cuce addosso, come brividi di febbre, le infuocate temperature africane. Subito si ha la percezione del conflitto che è in corso a queste latitudini. I checkpoint sono in ogni dove, i controlli dei documenti sono sistematici e premurosi, cavalli di frisia e blindati dell’esercito punteggiano le strade tappezzate dai manifesti con i ritratti dei membri più ricercati della setta jihadista Boko Haram. Il nemico è invisibile ma c’è, non lo si vede ma lo si avverte e qui, in questa città prigioniera di un anatema di paura e di un bisogno opprimente si comprende, da subito, e a distanza ravvicinata, l’odio antico della ferocia islamista ma anche il suo contrappasso, il silenzioso incedere, pervicace e monacale, di chi, giorno dopo giorno, cerca con ogni mezzo di apporre un argine al totalitarismo del male. “Vivere a Maiduguri è una sfida, una sfida perchè ogni giorno si è posti difronte alla paura, al rischio e alla minaccia. Ma vivere a Maiduguri è anche una grazia, la grazia ricevuta di dover testimoniare”. È con queste parole che padre Joseph Fidelis, della Diocesi di Maiduguri, accoglie e ricorda il perché della presenza dei giornalisti in città: per obbligatorietà di testimonianza e responsabilità dell’assistere. E mentre attraversa la città in fuoristrada, il sacerdote nigeriano indica i minareti della Moschea Centrale, poi passa accanto al luogo dove sorgeva la Markaz, il complesso che ospitò le prime predicazioni di Mohamed Yousuf, il fondatore di Boko Haram, e il prete cattolico svela, a poco a poco, la città in cui vive e opera e che la setta jihadista vorrebbe trasformare nella capitale del Califfato africano: “Da quando è iniziata la crisi dettata dal terrorismo noi cristiani siamo stati presi di mira e ad oggi, a ben 11 anni dall’inizio delle violenze, viviamo ancora perseguitati e minacciati. Anche io sono stato vittima di minacce, ma questo non deve fermarci dal compiere la nostra missione”. La domenica la chiesa di St.Mary’s Catholic, situata nel quartiere di Polo, accoglie fedeli che provengono da ogni parte della città. Al di fuori dell’ingresso del tempio i volontari perquisiscono tutti i presenti per scongiurare la minaccia di eventuali attacchi terroristici e quattro guardie armate presidiano gli ingressi della cattedrale. Leggendo i report della Diocesi di Maiduguri si scopre infatti che circa 100mila parrocchiani, 200 catechisti, 30 suore e 26 preti sono stati sfollati a causa di Boko Haram e oltre 350 chiese, 30 scuole e 6 ospedali sono stati completamente rasi al suolo. La celebrazione domenicale ha inizio e tra i banchi della navata i fedeli danzano, cantano e ballano. Ed è la parola pace quella che viene pronunciata più spesso durante la funzione. Al termine della liturgia il padre Fidelis spiega: “Il nostro aiuto però non è solo di tipo spirituale. Di fronte a questa emergenza noi cerchiamo di dare un aiuto concreto sia in termini di supporto psicologico, ma anche per quel che riguarda gli aiuti umanitari perché la guerra, e anche il Covid, hanno inasprito una situazione economica già compromessa e la gente ha bisogno di cibo perché qui si soffre davvero la fame. I terroristi, inoltre, compiono ogni sorta di violenza nei confronti delle donne, non solo stupri, ma anche violenze psicologiche indicibili”. “Ci sono casi di ragazze e bambine che hanno assistito alle decapitazioni dei propri genitori e madri che hanno visto morire i propri figli. È necessario che noi ci impegniamo ad aiutare le persone vittime di questi orrori ed è per questo che grazie all’Associazione Aiuto alla Chiesa che soffre abbiamo dato vita allo Human Resources Skills and Acquisition for Trauma Care, un centro specializzato nell’aiutare le donne e le ragazze che sono state vittime di violenza fisica e psicologica da parte degli islamisti. Il centro è in fase di ultimazione, ma nel mentre abbiamo attivato un’equipe che lavora nelle tendopoli presenti in città”. Dove doveva sorgere la segreteria della diocesi di Maiduguri è sorto invece un campo per sfollati in fuga dalle persecuzioni dei militanti jihadisti. La tendopoli ospita circa 500 persone, sono tutti profughi cattolici che hanno abbandonato i loro villaggi, perso per sempre il loro passato e oggi vivono con la sola eredità delle proprie sofferenze. L’unica fonte di sopravvivenza per le famiglie sfollate proviene dalla chiesa che fornisce alloggio, razioni di cibo e garantisce anche istruzione gratuita ai bambini. Ed è in questo campo improvvisato, dove tra sacchi di sorgo e mais si affastellano anabasi familiari, che si incontra Mary, che vive insieme ai suoi figli e alle sue sorelle e ricorda così il giorno in cui è fuggita da casa sua: “Gli uomini di Boko Haram sono arrivati nel nostro villaggio, la gente fuggiva, da ogni parte. Loro hanno ammazzato mio padre e mia madre e per giorni io ho vagato con le mie sorelle sulle montagne. Mangiavamo quello che trovavamo, bevevamo l’acqua solo quando ce ne si offriva l’occasione. Siamo scappate in Camerun, ma anche lì sono arrivati i terroristi. E quindi siamo fuggiti di nuovo e adesso siamo qua”. Mary, seduta in un piccolo antro dove vive con sua sorella più piccola e i suoi bambini, racconta di come gli jihadisti non abbiano scrupoli e aggiunge che la loro politica di distruzione e violenza non si abbatte solo su “gli infedeli”, ma travolge anche i cittadini musulmani. Per comprendere appieno quanto detto dalla donna occorre recarsi in un altro luogo adibito a ricovero per sfollati. La vecchia stazione dei treni di Maiduguri. Qui sono ospitati altri 500 profughi e quasi tutti sono musulmani che, sui binari morti della vecchia ferrovia, hanno trovato un precario ancoraggio alla vita. È uno scenario di desolazione quello che si presenta. Le banchine e le sale dei passeggeri di quella che un tempo era una ferrovia che metteva in comunicazione il nord del Paese con il sud sono adesso adibiti a giacigli. Zanzariere e materassi sono posizionati in ogni dove e sulle banchine, come nella vecchia biglietteria, sono accesi piccoli fuochi sui quali vengono scaldate manciate di riso. Tra chi vive sospeso in questo luogo di perenne attesa c’è Mohamed, che da sette anni e tre mesi, da quando gli jihadisti hanno assaltato il suo paese, alloggia da solo in questa stazione dove gli orologi sono tutti fermi a indicare un tempo passato a cui non ha fatto seguito né un oggi e neppure un domani: “Da quando sono scappato ho perso tutto. Tutto. La mia attività, la mia famiglia e posso solo restare qua. Tutt’intorno alla città ci sono i ribelli e questo è l’unico posto sicuro in cui stare. I soldati di Boko Haram non sono veri musulmani, loro sono terroristi, non fanno differenza tra cristiani e musulmani, loro uccidono tutti, sono degli assassini e basta”. La storia di Boko Haram negli ultimi anni è stata tortuosa e caratterizzata da faide interne. La setta jihadista nata nel 2002 dalle predicazioni di Mohamed Youssef nel 2009 è passata dalla violenza dei sermoni a quella delle armi. Ed è stato quello l’anno in cui il gruppo, il cui nome in lingua hausa significa “l’educazione occidentale è proibita” essendo haram il termine utilizzato per indicare ciò che vietato dal Corano e boko una storpiatura della parola book che in inglese significa libro e rappresenta quindi il concetto di sapere, è salito alla ribalta delle cronache internazionali per aver compiuto attacchi e massacri in tutta la Nigeria. A seguito della morte del fondatore Yousuf le redini del potere sono state prese da Abubakar Shekau, il leader sanguinario del gruppo osteggiato addirittura nel mondo dello jihadismo per la sua ferocia indiscriminata. È stato lui ad aver introdotto l’utilizzo di bambini come attentatori kamikaze e ad aver fatto della violenza cieca lo strumento con cui imporre il potere islamista. Un cambiamento radicale nella formazione è avvenuto quando si è affermato nella galassia dell’internazionalismo jihadista l’Isis. Con l’ascesa del gruppo di Al Baghdadi, in Nigeria si è verificata una scissione interna e ad oggi esistono due gruppi salafiti: uno ha il nome di JAS (Jama’tu Ahlis Sunna Lidda awati wal-Jihad), vanta tra i 1500 e i 2000 uomini ed è attivo nella foresta di Sambisa e in alcune zone dello Stato del Borno, compie attacchi indiscriminati, rapimenti, attentati anche contro i musulmani che non aderiscono alla formazione, ed è legato alla figura di Abubakar Shekau. Lo storico leader il 20 maggio 2021 è stato dato per morto, ma certezze sulla sua morte non se ne hanno dal momento che già altre tre volte in passato era stata annunciata la sua uccisone. L’altro gruppo è l’ISWAP (Islamic State West African Province), guidato da Abu Abdallah Al Barnawi, legato all’ISIS e forte di quasi 5000 uomini e che sta creando un vero e proprio stato islamico nella regione. I territori sotto il controllo della branca africana del Califfato, che si estendono dallo Stato del Borno sino alle sponde del Lago Ciad, hanno visto la nascita di infrastrutture, di un sistema di tassazione, di scuole e di ospedali e il gruppo ha preso controllo  di un’ampia porzione di territorio nigeriano sfruttando l’assenza del governo di Abuja che ha abbandonato le popolazioni del nord est alla fame, alla miseria e all’epidemie, tanto che secondo l’O.C.H.A. (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs), nei tre stati più colpiti dalla guerra, Borno, Adamawa e Yobe, 7,7 milioni di persone hanno un disperato bisogno di assistenza umanitaria e metà di loro sono bambini. Boko Haram si alimenta ogni giorno dell’assenza dello stato e potenzia le sue armi grazie alla miseria e all’ignoranza e a confermalo è Micalel Hameth, insegnante in una scuola coranica di Maiduguri che, incontrato nella sangaya (scuola coranica in Nigeria) in cui insegna, circondato da giovanissimi studenti che apprendono a leggere e scrivere recitando le sure incise sui loox, le tavole coraniche utilizzate nel Sahel, racconta: “Noi ai ragazzi diamo un’istruzione e diamo anche da mangiare e vietiamo loro di andare a mendicare. Per le strade voi vedrete molti bambini chiedere l’elemosina, ma sono tutti fanciulli dei campi profughi, a uno studente coranico è vietato. E Boko Haram allarga le sue fila grazie a quei ragazzi, alla miseria in cui vivono. Li compra dando loro dei soldi e poi li indottrina con falsi precetti coranici”. E proseguendo ha aggiunto. “È vero, siamo tutti musulmani, noi e loro. Ma quanti musulmani ci sono nel mondo? Ci siamo noi che insegniamo a leggere, scrivere e far di conto ai bambini e loro che invece li educano ad essere degli assassini. Non siamo le stesse persone. Talvolta i membri di Boko Haram vivono mimetizzati tra di noi, è per questo che il nostro lavoro è importante. Fornire un’educazione significa creare un argine e impedire che i giovanissimi possano essere adescati dai terroristi ed essere ingannati dalle loro parole”.

Il maestro poi ritorna tra i suoi studenti, bambini in jalabie azzurre e bianche e bambine avvolte in hijab colorati recitano all’unisono i versi del Corano e il salmodiare dei piccoli studenti, dolce come una nenia materna, sovrasta, almeno per un istante, l’eco mortifero delle sirene che sopraggiunge in lontananza.

Foto e video di Marco Gualazzini. Testo di Daniele Bellocchio

I cristiani sempre più perseguitati: il rapporto di “Porte Aperte”. Mauro Indelicato su Inside Over il 14 gennaio 2021. Numeri inquietanti e che raccontano di un fenomeno sempre più in crescita: il rapporto di Porte Aperte sui cristiani perseguitati nel mondo, non lascia spazio purtroppo a delle interpretazioni. Nel 2020 in migliaia hanno perso la vita in quanto professavano la fede cristiana, così come in migliaia per lo stesso motivo sono stati ingiustamente incarcerati o rapiti. Il rapporto ha registrato tutti i vari casi accaduti nel mondo dal 1 ottobre 2019 al 30 settembre 2020. Un anno in cui, a causa anche delle conseguenze sociali della pandemia, in molte aree del pianeta professare il cristianesimo ha significato mettere a rischio la propria vita.

I numeri del rapporto di Porte Aperte. Dalle Americhe all’Asia, passando per l’Africa e il medio oriente: Porte Aperte ha redatto il World Watch List 2021, un rapporto in grado di mostrare la cruda realtà in cui vivono i cristiani in tutto il mondo. E non ci sono continenti che si salvano: ovunque c’è almeno un Paese in cui anche andare a messa appare complicato se non del tutto proibito. A livello generale, nel rapporto si parla di complessivi 309 milioni di cristiani perseguitati in 50 diversi Paesi. Tra la fine del 2019 e il settembre del 2020, i fedeli uccisi sono stati 4.761. Conti alla mano, vuol dire che ogni giorno nel mondo sono morti 13 cristiani. Una media non molto lontana da quella che riguarda i cristiani incarcerati: sono stati, sempre nello stesso lasso di tempo, 4.277, ossia 11 al giorno. Si tratta, in quest’ultimo caso, di fedeli messi in galera senza giusto processo e soltanto perché appartenenti alla comunità cristiana. Vuol dire, in poche parole, che nel mondo ogni giorno ci sono 11 differenti casi simili a quello di Asia Bibi, la donna pakistana per 10 anni in galera con l’accusa di blasfemia, oppure a quello di Asif Pervaiz, l’uomo in carcere sempre in Pakistan sul cui capo pende una condanna a morte. Elevato inoltre il numero dei cristiani rapiti: nel 2020 sono stati 1.710, una media di 4 al giorno. Oltre alle violenze fisiche contro i fedeli, i cristiani nel mondo devono patire attacchi contro i propri luoghi di culto. Porte Aperte ha registrato 4.488 edifici distrutti, una media di 12 al giorno. Nel rapporto c’è poi una lista in cui viene valutata la condizione dei cristiani Paese per Paese. Diversi i parametri usati: dalla violenza, alle difficoltà nella vita di Chiesa e di professare la fede, fino alla tolleranza da parte delle autorità governative. In base a questi elementi, il Paese in cui secondo il report di Porte Aperte è più difficile essere cristiani è la Corea del Nord, seguito poi dall’Afghanistan, dalla Somalia, dalla Libia e dal Pakistan. L’area più critica è proprio quella del medio oriente: tra Paesi in guerra e dove il fondamentalismo islamico sta prendendo sempre più piede, nel silenzio generale dell’Europa i cristiani sono sempre più perseguitati. È il caso della Nigeria, in cui l’azione di Boko Haram e dell’Iswa (lo Stato Islamico dell’Africa Occidentale) miete ogni anno sempre più vittime. Nella top 20 di questa triste classifica, è entrata anche la Cina. Secondo Porte Aperte, il governo starebbe attuando un sempre più stringente controllo verso i fedeli, limitandone la libertà di azione. Preoccupano, inoltre, la “sinicizzazione” del Vangelo e i criteri di nomina e scelta dei vescovi, sempre più in mano allo Stato che alla Chiesa. Questioni che, a detta di molti, limiterebbero il diritto di professare il proprio credo ai cristiani.

Il Covid ha peggiorato la situazione. Il 2020 è stato poi l’anno della pandemia. E anche l’emergenza sanitaria ha contribuito e non poco a peggiorare la situazione. In primis perché le misure per il contenimento attuato in tutto il mondo hanno reso le comunità cristiane, lì dove sono minoranza, ancora più vulnerabili sotto il profilo economico e sociale. Di conseguenza, molti attacchi e molte persecuzioni sono state favorite da una situazione resa ancor più drammatica dal Covid. Ma non solo: Porte Aperte ha sottolineato la legittimazione, generata dalla pandemia, della sorveglianza sociale e dell’incremento di misure draconiane e di limitazione della libertà in quei Paesi dove già i cristiani risultavano perseguitati. E nel 2021 la situazione, nel silenzio più totale e imbarazzante dell’Europa, rischia solo di peggiorare.

Andrea Priante per il "Corriere della Sera" il 13 gennaio 2021. «Non ci sono colpevoli, né vincitori né vinti. Siamo riusciti a riconquistare la vita che i kalashnikov ci avevano tolto, prima che fosse troppo tardi. Continuo a pensare a coloro che sono ancora sequestrati, nel mondo» riflette Luca Tacchetto in una lettera alla «sua» Edith Blais. Sono trascorsi dieci mesi dalla liberazione dell' architetto padovano e della fidanzata canadese, rapiti in Burkina Faso nel dicembre del 2018 e rimasti per 450 giorni nelle mani di jihadisti collegati al Gruppo di sostegno per l' Islam e i musulmani. Un sequestro su cui ora prova a fare chiarezza la stessa Edith con «Le Sablier», un libro pubblicato da Éditions de l' Homme che uscirà in francese il 20 gennaio e che si chiude proprio con la lettera del trentenne di Vigonza. «Non ricordo più - scrive Tacchetto - se prima di questa esperienza fossi così consapevole di ogni piccolo respiro di vita: il passato comincia già a perdersi nelle nebbie». Il libro vuole proprio trascinare fuori dalla nebbia dei ricordi ciò che è stato. Il 20 novembre 2018 i due trentenni partono per quella che pareva «un' avventura incredibile, un po' pericolosa ma saremmo stati attenti»: dal Veneto al Togo, su una vecchia Renault. Invece il viaggio si ferma in Burkina Faso, a metà dicembre, nel Parco degli Elefanti: a meno di 50 chilometri dal confine «ci aspettavano sei uomini in turbante - scrive Edith - armati di kalashnikov () Quattro di loro si gettarono su Luca, urlando, puntandogli contro le pistole come pazzi...». Il capo del gruppo «ci ha detto che erano jihadisti, soldati che combattono lungo la strada di Allah, e che li avremmo aiutati nella loro missione». Arrivati in Mali, vagano per mesi nel deserto cambiando carcerieri e nascondigli, mangiando carne di montone e grasso fritto. «Ci hanno fatto indossare abiti tipici e degli enormi pantaloni di cotone che dovevamo legare con una corda. I miei vestiti erano viola e quelli di Luca blu». Tra i sequestratori, perfino alcuni bambini-soldato: «Potevano avere dai 13 ai 15 anni, militari in miniatura con in mano grandi kalashnikov». Dopo un paio di mesi, per ottenere migliori condizioni di prigionia, i due ostaggi intraprendono uno sciopero della fame, durato 25 giorni. «Luca è molto testardo. Dalle sue parole ho capito che avremmo digiunato come combattenti». Per farli desistere, i sequestratori tolgono loro anche la possibilità di bere. «Al quarto giorno senz' acqua, Luca ha avuto un' idea: "Berrò la mia urina". Si alzò e uscì dal rifugio...». Il 4 marzo 2019 Edith viene affidata a un gruppo nomade che gestisce anche altre prigioniere. Con loro rimane undici mesi, e viene costretta a convertirsi all' Islam. Il carceriere non le lascia scelta: «Diventerai musulmana! Se morissimo e ci trovassimo entrambi davanti a Dio, mi chiederebbe perché non ti ho convertita. Cosa dovrei rispondere? Che ho provato, ma tu non volevi ascoltarmi? No!». E lei finge di accettare: «Mi sono lavata e ho indossato l' hijab (...) Non mi pento della mia scelta: dovevo sopravvivere e la conversione era il male minore. Oggi non ho conservato nulla di questa religione». Agli inizi del 2020 i sequestratori le concedono di riunirsi a Tacchetto, che nel frattempo ha abbracciato anche lui la nuova fede. Una scelta arrivata dopo un tentativo di fuga terminato nel peggiore dei modi: «Mi hanno riportato al campo - le ha confidato - e mi hanno colpito con un bastone, legato a un albero, sotto il sole per giorni. Poi per due mesi sono rimasto con le catene alle caviglie, giorno e notte (...) A novembre mi sono convertito all' Islam (...) e per loro adesso il mio nome è Sulayman». La canadese, invece, sceglie di chiamarsi Asiya. I due provano nuovamente a scappare. Lo fanno una notte di marzo del 2020, dopo 15 mesi di prigionia, con Luca che, scalzo, è costretto a utilizzare stracci come scarpe. Riescono a raggiungere la strada per Kidal e a fermare un camion, che però viene intercettato dai mujaheddin. L' autista nega di aver visto due occidentali e così salva loro la vita. «Il nostro angelo custode ha fermato il camion a Kidal, davanti a un edificio governativo. Eravamo liberi!».

I jihadisti penetrano in Asia: il caso delle Filippine. Federico Giuliani su Inside Over il 10 gennaio 2021. Dall’Indonesia al Bangladesh, dall’India alle Filippine passando per il Pakistan, probabilmente l’epicentro del rinnovato, pericoloso fenomeno che stiamo per raccontare. L’estremismo islamico minaccia l’Asia, lo fa da vicino e rischia di far saltare in aria equilibri polito-sociali fragilissimi. Sia chiaro, non stiamo parlando di una nuova tendenza, quanto piuttosto di un ritorno di fiamma agevolato da diversi fattori. L’elenco sarebbe piuttosto lungo ma, per ragioni di tempo, ci limitiamo a citare i principali: la crisi economica, aggravata dalla pandemia di Covid, la presenza di sistemi politici corrotti e inefficienti, e la storica frammentazione presente in alcuni Paesi che cova sotto le ceneri di un’apparente stabilità. A rimetterci, oltre ai governi in carica, le minoranze religiose presenti nel continente asiatico, tra cui quella cristiana, sempre più spesso nell’occhio del ciclone. Cerchiamo di fare il punto della situazione, analizzando le aree più critiche. Le cronache hanno fatto emergere un Pakistan a tinte fosche per i pochissimi cristiani che vivono a Islamabad e dintorni. Si parla di qualcosa come circa l’1,5% di una popolazione formata da 210 milioni di abitanti, tutti di fede musulmana. Qui, tra rapimenti di giovani donne cristiane, conversioni forzate, soprusi, stupri e rapimenti, la situazione per i cristiani è sempre più invivibile. Poco distante, in India, la situazione è leggermente migliore ma i rischi sono comunque elevati; anche perché la minoranza cristiana non deve solo fare i conti con i fanatici islamici ma anche (e soprattutto) con gli indù ultra nazionalisti.

Un serbatoio pericoloso. In Asia, il jihadismo salafita è riuscito a penetrare nei vuoti lasciati da esecutivi a dir poco traballanti e scricchiolanti. È così che sono apparse (o, talvolta, tornate dall’ombra) vecchie e nuove correnti legate ad al Qaeda e all’Isis. C’è un dato da considerare con estrema attenzione: alle spalle di Medio Oriente e Africa settentrionale, la regione più colpita al mondo dal terrorismo jihadista è quella asiatica. L’Asia balza tuttavia in cima al podio se consideriamo l’intera area pacifica. Prendiamo le Filippine, dilaniate dalla piaga islamica nella loro parte meridionale, ma anche Thailandia, Malesia, Bangladesh o Sri Lanka: il copione non cambia e l’ombra dei terroristi islamici è sempre più grande. La globalizzazione ha dato nuova verve a estremismi che si sono ben saldati a istanze indipendentiste e politiche. Di conseguenza, ci sono interi territori presto divenuti veri e propri serbatoi di terrorismo (basti pensare all’Afghanistan, allo stesso Pakistan o alle Filippine meridionali). I movimenti islamici più estremi presenti in Africa e Medio Oriente, grazie a narrazioni grondanti di rivendicazione e promesse di rinascita, riescono ad attirare moltissimi giovani asiatici, spesso poveri, non istruiti e disoccupati.

Il caso delle Filippine. Abbiamo più volte citato le Filippine. Stiamo parlando dello Stato con il numero più alto di cattolici dell’intero continente asiatico, che pure ospita una delle più ostiche minoranze islamiche esistenti in Oriente. La zona rossa è situata a cavallo tra Mindanao, un’isoletta collocata nella parte meridionale del Paese famosa per essere stata il “trampolino di lancio” del presidente filippino Rodrigo Duterte (è stato sindaco del capoluogo Mindanao), e Marawi, una città collocata all’interno della stessa regione di Mindanao. Il problema islamico, presente da decenni, si è aggravato nel 2014, quando prendono vita gruppi jihadisti salafiti come Abu Sayyaf, Ansar al Khilafa e Bangsamoro freedom fighters; in un primo momento, sono tutti affiliati ad al Qaeda, quindi sposano la causa dell’Isis. Impossibile, procedendo nella narrazione, non ricordare la famigerata “battaglia di Marawi“: in seguito all’attacco sferrato nel maggio 2017 da una coalizione jihadista all’indirizzo di Marawi, una cittadina di 175mila abitanti occupata dai terroristi, le forze di sicurezza del governo filippino hanno reagito con il pugno durissimo. Dopo cinque mesi la città, nel frattempo essa a ferro e fuoco, è stata liberata dai fanatici islamici. In quell’occasione, i jihadisti bruciarono la cattedrale di Santa Maria, la scuola Ninoy Aquino e il Dansalan College, entrambi gestiti dalla Chiesa unita di Cristo nelle Filippine (Uccp) e presero in ostaggio preti e fedeli.

I cristiani della Nigeria sotto il tallone jihadista. Daniele Bellocchio su Inside Over il 10 gennaio 2021. Nella biblioteca dell’American University a Yola, nord est della Nigeria, quattro ragazze parlano, si confidano. Hanno capelli raccolti, anelli, orecchini e sorrisi difficili da decifrare. Sono volti che a un primo sguardo appaiono rilassati e che sembrano rincorrere la speranza: ma non è così perché hanno qualcosa di recondito, un dolore profondo soppesato in silenzi improvvisi e in occhi che spesso si stagliano contro il vuoto. Si chiamano Marta, Glory, Mary e Grace: hanno dai 17 ai 19 anni e sono 4 studentesse che la notte del 14 aprile del 2014 erano nel collegio di Chibok. La notte in cui un commando di Boko Haram ha fatto irruzione nell’istituto e ha rapito 276 studentesse; loro sono tra le poche che sono riuscite a mettersi in salvo. La più grande del gruppo, Marta, ricorda così quel momento: “Era notte e a un certo punto abbiamo sentito delle urla; all’inizio non capivamo cosa stesse succedendo perché c’erano uomini armati che dicevano di essere dell’esercito e che erano venuti ad aiutarci”. Poi, dopo aver preso fiato prosegue: “Non avevano però delle divise, o meglio, solo alcuni indossavano delle divise; altri erano in abiti civili, altri ancora indossavano delle sciarpe che coprivano loro il volto. Ed è stato osservando queste figure che abbiamo iniziato a insospettirci e poi, quando abbiamo sentito le urla Allah u Akbar, non abbiamo più avuti dubbi: erano i terroristi di Boko Haram”. Quello che è accaduto quella notte è storia nota: le studentesse rapite, il villaggio isolato, la polizia senza le forze per reagire, le giovani portate nella foresta di Sambisa, i videomessaggi, le lacrime dei genitori e gli appelli del mondo intero che ha abbracciato la campagna mediatica lanciata da Michelle Obama, racchiusa nello slogan “bring back our girls”. Ma l’angoscia, il terrore puro, senza filtri, ritrova la sua violenza nelle parole delle ragazze: «Noi siamo riuscite a nasconderci e a salvarci, ma quella notte ce la ricorderemo sempre. E soprattutto non scordiamo le nostre amiche». Interrogate su che cosa vorrebbero dire a quegli uomini dal volto coperto e votati a un’eresia di morte, se avessero modo di mandare loro un messaggio, all’unisono rispondono: “Perché? Questo vogliamo chiedere: perché fanno tutto questo? Perché le donne, i bambini, la gente comune? Perché gli innocenti?” Le domande delle ragazze, a distanza ormai di quattro anni dall’incontro nell’ateneo statunitense nel nord est della Nigeria, sono tuttora orfane di risposte. Ciò che invece è evidente è stato l’affermarsi della violenza della setta jihadista Boko Haram nel nord della Nigeria. A metà dicembre 2020 gli islamisti africani hanno infatti rivendicato di essere loro gli autori di un’altra azione efferata: il rapimento di oltre 300 studenti nello Stato di Katsina, nel Nord-Ovest del Paese. “Siamo noi i responsabili di quanto successo a Katsina ha detto il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau -. Quanto successo è stato fatto per promuovere l’Islam e scoraggiare le pratiche non islamiche, poiché l’istruzione occidentale non è il tipo di educazione consentito da Allah e dal Suo Santo Profeta”. A distanza di poco più di un lustro dall’episodio di Chibok, l’incubo del rapimento di studenti innocenti è ritornato ad affacciarsi prepotentemente. E la formazione terroristica, nata nel 2009 a Maiduguri, ha dimostrato ancora una volta, con quest’azione, di non avere né scrupoli né pietà alcuna nei confronti di tutti coloro che non abbracciano il fondamentalismo islamico; in particolar modo gli islamici moderati, le forze armate governative e i cristiani, considerati da Shekau e dai suoi uomini dei nemici infedeli da combattere senza tregua. La setta jihadista, il cui significato in lingua hausa significa “l’educazione occidentale è proibita», è nata nel 2009 e già un anno dopo, con gli attentati compiuti il giorno di Natale nelle chiese di Maiduguri e Jos, ha dimostrato la volontà di colpire e perseguitare i cristiani. La formazione terroristica ha perfezionato di anno in anno la propria capacità militare, gli attentati si sono moltiplicati e Shekau ha pietrificato l’opinione pubblica internazionale lanciando messaggi dai contenuti esecrabili: “Mi piace uccidere chiunque Allah mi ordini di uccidere. Mi piace uccidere i nemici del mio Dio come mi piace uccidere i polli e i montoni”. A inizio 2015 si è verificata una recrudescenza delle azioni di Boko Haram e il gruppo ha incominciato a servirsi dei bambini come kamikaze. A Maiduguri e a Potiskum bimbe di 8-10 anni, imbottite di esplosivo, sono state obbligate a farsi saltare nei mercati. Il totalitarismo del dolore si è impossessato del nord della Nigeria e quando il 7 marzo 2015 Shekau ha dichiarato l’adesione al Califfato di Al Baghdadi dando così vita alla “Provincia Occidentale dello Stato Islamico”, il pensiero comune è stato che nel nord est del Paese si fosse ormai instaurato un fortilizio del terrore impossibile da espugnare. Negli anni, il governo di Abuja e gli esecutivi dei paesi confinanti hanno organizzato missioni militari per sconfiggere la formazione islamista, ma i mujaheddin di Boko Haram si sono rivelati in più occasioni dei professionisti della resurrezione capaci di organizzarsi e contrattaccare anche nei momenti più critici, tanto che il gruppo ora è operativo anche in tutto il bacino del Lago Ciad. Le azioni dei terroristi islamici ad oggi hanno causato 36mila morti e l’esodo di oltre 2 milioni di persone, numeri che da soli riescono a dare la dimensione della tragedia che si sta consumando nel nord del Paese più popoloso d’Africa.

L’anno di sangue della Nigeria: nel 2020 oltre 2.200 cristiani uccisi. Federico Giuliani su Inside Over il 5 gennaio 2021. Un vero e proprio anno di sangue: non ci sono parole migliori per descrivere il 2020 della Nigeria. Un Paese a due velocità e ricco di contraddizioni dove, nella parte settentrionale, la comunità cristiana deve fare i conti con i continui attentati dei vari gruppi islamici che controllano la zona. Lo scorso dicembre la International Society for Civil Liberties & the Rule of Law (Intersociety), una ong senza scopo di luco, ha diffuso un report agghiacciante sulla situazione religiosa in questa nazione africana. Ne esce fuori un quadro infernale. Nel corso dell’anno appena terminato, sono almeno 2.200 i cristiani uccisi in tutta la Nigeria da Boko Haram e dai militanti Fulani. Scendendo nel dettaglio, “di questa cifra – si legge nel rapporto – i Fulani Herdsmen sono responsabili di circa 1.300 morti, seguiti da Boko Haram e dai suoi gruppi scissionisti (ISWAP e Ansaru) con 500 morti”. A seguire troviamo 200 decessi provocati dall’esercito nigeriano e altri 100 da jihadisti definiti genericamente “banditi”. Calcolatrice alla mano, sempre considerando soltanto le morti registrate, la Nigeria nel 2020 ha perso in media sei cristiani al giorno, per un totale di 180 al mese.

Violenza e distruzione. Se la parte meridionale della Nigeria lascia trasparire interessanti segnali (e invitanti) segnali di sviluppo, a Nord la situazione è ben più complessa. Qui vivono per lo più musulmani, e sempre qui si registra la maggior parte degli assalti ad opera di integralisti islamici. È invece a Sud, abitato prevalentemente dai cristiani, che si concentrano invece le ricchezze più importanti del Paese. Va da sé che uno scenario del genere ha creato un’enorme spaccatura sociale. Non solo economica ma anche etnica e religiosa. E, proprio a causa della loro religione, negli ultimi 20 anni sono stati uccisi 100mila cristiani, la metà dei quali (per l’esattezza 43.242) in seguito ad attacchi terroristici di Boko Haram, Stato islamico e al Quaida. A seguire troviamo 18.834 vittime provocate dai soliti Fulani e 34.233 da altri gruppi armati. È vero che il governo nigeriano è riuscito, in qualche modo, a contenere Boko Haram nel nord-est. Ma è altrettanto vero che, nonostante qualche piccolo sforzo, la parte settentrionale del Paese continua a essere attraversata da violenza e devastazione. E a farne le spese, molto spesso, è la comunità cristiana.

L’ombra dei sequestri. C’è un’altra piaga che sta travolgendo la Nigeria: quella dei sequestri di vescovi e religiosi. Come ha sottolineato Tempi.it, il 27 dicembre monsignor Moses Chikwe, vescovo ausiliare di Owerri, è stato rapito nello stato di Immo. Nessuno sa che fine possa aver fatto, anche se negli ultimi giorni sono rimbalzate voci di una sua presunta morte. Voci prontamente smentite dall’arcidiocesi: “L’arcivescovo monsignor Antony Obinna chiede ai fedeli e alle persone di buona volontà di ignorare simili notizie. L’informazione è ingannevole e non confermata”. Resta il fatto che un rapimento del genere desta molte preoccupazioni. Patrick Alumuku, direttore della comunicazione della diocesi di Abuja, è stato chiaro: “Siamo molto preoccupati perché il rapimento di monsignor Chikwe è inusuale rispetto ad altri casi avvenuti anche di recente. Il sequestro è avvenuto molto vicino alla casa del vescovo, mentre questi stava tornando da una messa in una parrocchia”. “Inoltre – ha dichiarato ancora a Fides – vi sono segni di violenza, perché dentro la macchina sono stati ritrovati dei colpi esplosi ma non ci sono tracce di sangue. Ancora più strano è il fatto che l’auto del vescovo sia stata riportata indietro. Inoltre i rapitori hanno fatto ritrovare i suoi paramenti sacri dentro la macchina”. Finora non ci sono state richieste di riscatto.

La minaccia dei nazionalisti indù che spaventa i cristiani. Federico Giuliani su Inside Over il 4 gennaio 2021. Una persecuzione di cristiani “talmente vasta da far paura”, aumentata sensibilmente a partire dal 2014, in concomitanza con la salita al potere del Bharatiya Janata Party (BJP) di Narendra Modi. Questa era la situazione dell’India fotografata appena un anno fa da fonti autorevoli. Una situazione che, da allora, non è sostanzialmente cambiata di una virgola. Già, perché il potere degli ultra nazionalisti indù nel frattempo si è consolidato, con il premier Modi che si è aggiudicato un secondo mandato dopo la prima, convincente vittoria. Oltre a una burocrazia asfissiante, un sistema democratico arrugginito dal tempo, un’economia ricca di potenzialità ma affossata da enormi diseguaglianze, non possiamo ignorare uno dei principali problemi dell’India moderna: la presenza, all’interno della società, di profonde tensioni religiose. Calcolatrice alla mano, in India vivono poco più di un miliardo di persone, l’80% delle quali induista. I musulmani sono circa il 14% mentre i cristiani appena il 2,3%. Seguono altre religioni, tra le quali il Sikhismo (2% circa), Buddhismo (0,9%) e Giainismo (0,4%). Basta leggere uno degli ultimi report di Human Rights Watch per capire di cosa stiamo parlando. Nel periodo compreso tra il maggio 2015 e il dicembre 2018 sono state uccise 44 persone in 12 stati indiani a causa di episodi di intolleranza. Si sono inoltre verificati oltre 100 incidenti, tra quelli inseriti nel conteggio. Le stesse Nazioni Unite hanno constatato come in India via sia stato un evidente “aumento delle molestie nei confronti delle minoranze”, tra cui musulmani e cristiani.

Il nazionalismo indù. Dicevamo di Modi. Il premier non ha fatto niente per cambiare la situazione. Anzi: per unire ulteriormente i suoi elettori in vista del secondo mandato, ha alimentato a dismisura lo storico risentimento anti islamico presente nel Paese. Il leader è stato supportato in questa crociata contro le minoranze (non solo quella islamica) dal Rashtriya Swayamsevak Sang, conosciuto anche come Rss. Stiamo parlando di un’organizzazione di volontariato paramilitare che accoglie tra le sue fila quasi 4 milioni di induisti ultranazionalisti. Si dice che il Rss possa perfino influenzare la linea politica del Paese. Alcuni membri del gruppo, fondato nel 1925, ricoprono cariche istituzionali del governo in carica, tra cui lo stesso Modi, il presidente e il vicepresidente dell’India. Il ruolo del Rss è molto più di quello che dovrebbe avere una normale associazione; il gruppo è in realtà il mentore ideologico del Bjp in carica.

Anche i cristiani in pericolo. Nel mirino degli indù ci sono anche i cristiani. “Quello degli attacchi alle minoranze in India è un fenomeno che ha luogo su una scala talmente vasta da far paura”, spiegava appena un anno fa monsignor Theodore Mascarenhas, vescovo ausiliare di Ranchi e segretario generale della Conferenza episcopale indiana ad Aiuto alla Chiesa che Soffre. Uno degli episodi più gravi a danno della minoranza cristiana è avvenuto un anno fa, con l’attacco del 26 marzo scorso a Chinnasalem, nello Stato del Tamil Nadu, dove 200 fondamentalisti indù hanno attaccato una scuola cattolica e aggredito le suore che la gestivano. Tornando all’escalation della violenza contro le minoranze, è interessante ascoltare la testimonianza rilasciata a Églises d’Asie da padre Savarimuthu Sabkar, portavoce della diocesi di Delhi: “Dal 2014 abbiamo registrato numerosi attacchi, soprattutto nelle parrocchie delle zone rurali nel nord dell’India, 86 solo dal mese di gennaio di quest’anno. I grandi media, che sono tutti pro Bjp, però non ne parlano mai. I gruppi marginali dell’hindutva (che si basano sul principio della supremazia etnica della maggioranza indù, ndr) godono di una sorta di impunità e immunità: credono che non saranno mai arrestati o condannati” per le violenze che perpetrano. Abbiamo citato il Rashtriya Swayamsevak Sang. Ebbene, l’Organizzazione nazionale patriottica ritiene che l’India “sia una nazione indù e che cristiani e musulmani, se vogliono vivere in India, devono essere alla mercé della maggioranza indù”, ha aggiunto il sacerdote. Oltre alle persecuzioni, i cristiani devono spesso fare i conti con le conversioni forzate all’induismo, soprattutto in villaggi periferici e con la complicità di magistratura e autorità locali. E il clima, intanto, diventa sempre più incandescente.

·        Il Vaticano ed il Covid.

Da "la Stampa" il 3 dicembre 2021. È morto ieri nella clinica universitaria di Lowen, in Belgio, dove era ricoverato in terapia intensiva, monsignor Aldo Giordano, 67 anni, nunzio apostolico della Santa Sede presso l'Unione europea a Bruxelles. Aveva contratto il Covid un mese e mezzo fa, durante un viaggio in Slovacchia al fianco di Papa Francesco. Originario del Cuneese, per otto anni era stato nunzio in Venezuela. Ordinato sacerdote nel 1979, aveva ottenuto il Baccellierato presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di Milano e la Licenza in Filosofia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Era stato segretario generale del Consiglio delle conferenze episcopali d'Europa e, nel 2008, nominato osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa di Strasburgo.

"Chiese chiuse per il Covid? Un abuso di potere". Robert Sarah il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Il cardinale Sarah accusa: "Da certi vescovi misure più restrittive di quelle previste". I grandi difensori della laicità dello Stato si richiamano alla celebre espressione «Libera Chiesa in libero Stato». Solo in apparenza quest'espressione è una traduzione in altri termini del detto evangelico: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». In realtà, l'idea che soggiace a tale slogan è che la Chiesa è libera, ma all'interno (in) della libertà dello Stato. Lo Stato possiede, secondo questa visione, una libertà più ampia, in grado di garantire ma anche all'occorrenza di limitare la libertà della Chiesa. Costoro non dicono «libera Chiesa e libero Stato», bensì «libera Chiesa in libero Stato». Bisogna comunque ammettere che, nelle recenti vicende legate al Covid- 19, gli Stati hanno potuto facilmente commettere abusi di potere proibendo il culto divino, a causa dell'intiepidirsi della fede, della debolezza e acquiescenza soprattutto di noi vescovi. Nel mondo sono state numerose le situazioni in cui noi Pastori non abbiamo combattuto per preservare la libertà di culto del gregge di Cristo. In certi casi, i vescovi hanno preso decisioni ancor più restrittive dei governi civili, per esempio decidendo la chiusura delle chiese anche lì dove lo Stato non lo imponeva. Di tutto questo dovremo certamente rendere conto al giudice supremo. Oltre a trasmettere ai fedeli la falsa idea che «partecipare» a messa in streaming o anche non parteciparvi affatto è lo stesso che recarsi alla domenica in chiesa, questo atteggiamento di noi Pastori ha rafforzato la convinzione che, in fondo, pregare e dare culto a Dio sia qualcosa di meno importante della salute fisica. Quanti Pastori hanno affermato pubblicamente, durante la pandemia, che la Chiesa metteva al primo posto la salute dei cittadini! Ma Cristo è morto sulla croce per salvare la salute del corpo o per salvare le anime? È chiaro che la salute è un dono di Dio e la Chiesa da sempre la valorizza e se ne prende cura in molteplici modi. Ma più ancora della salute del corpo, per noi Pastori conta quella dell'anima, la quale è la «suprema lex», la legge suprema, nella Chiesa. Abbiamo permesso che i nostri fedeli restassero per lungo tempo senza la liturgia, senza la Comunione eucaristica e la Confessione, quando invece come si è visto bastava organizzarsi per offrire i Sacramenti in modo sicuro anche dal punto di vista sanitario. Avremmo potuto e dovuto protestare contro gli abusi dei governi, ma quasi mai lo abbiamo fatto. Molti fedeli sono rimasti scandalizzati da questa immediata e silenziosa sottomissione dei Pastori alle autorità civili, mentre queste compivano un vero abuso di potere, privando i cristiani della libertà religiosa. D'altro canto, va lodato l'esempio contrario di quei Pastori che hanno agito secondo il Cuore di Cristo, quale, per citarne solo uno, l'arcivescovo di San Francisco, mons. Salvatore Joseph Cordileone. La sua testimonianza dimostra che lottare per la giusta causa costa fatica e attira critiche ingiuste e persino calunnie o persecuzioni di vario tipo, ma che alla fine il Signore concede la vittoria. Robert Sarah

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 21 aprile 2021. Alla Domus Paolo VI in via della Scrofa, una grande struttura ricettiva di proprietà del Vaticano dove vivono stabilmente una sessantina di ecclesiastici, è apparsa in bacheca una comunicazione che ha fatto sobbalzare dalla sedia diversi ospiti. Il direttore, evidentemente stanco dell' andazzo, avvisava che non si sarebbe più alzato di notte per dare copertura a chi violava il lockdown. «Pur essendo spiacevole, sono costretto a richiamare i reverendi ospiti sulla necessità di rispettare coscienziosamente il coprifuoco imposto dalle autorità statali. Mi sembra oltremodo fuori luogo e pericoloso che vi siano rientri in Casa alle 0.30, 2.00 e 2.15 di notte». Stile asciutto e toni perentori: evidentemente non era la prima volta che monsignor Battista Ricca, prelato allo Ior e direttore di tutte le strutture ricettive vaticane (compresa Santa Marta dove abita il Papa) veniva chiamato nel cuore della notte per confermare che la residenza del sacerdote nottambulo di turno era davvero alla Domus fatta costruire da Wojtyla prima del Giubileo.

ORE PICCOLE Fare le ore piccole di questi tempi può essere piuttosto rischioso e trasformarsi in un episodio imbarazzante specie se si indossa un clergyman e si è officiali di curia. Ricca nell' avviso non ha voluto aggiungere altro: per esempio i motivi che hanno portato qualche sacerdote a rientrare tanto tardi. «Il sottoscritto pur essendo molto disponibile, non è tenuto ad alzarsi in piena notte per soccorrere qualche confratello incappato nei rigori delle Forze dell' Ordine. Pertanto a chi capita, spetterà l' onere di dimostrare chi sono, che cosa facevano in giro in piena notte o verso l' alba». Inutile dire che ieri nell' albergo vaticano dove Bergoglio alloggiava quando era arcivescovo di Buenos Aires, non si parlava d' altro. «Magari era qualcuno che ha avuto problemi durante un lungo viaggio di rientro, oppure ha fatto visite pastorali notturne per portare l' unzione degli infermi a qualcuno in fin di vita» ha azzardato un arcivescovo che vive lì da anni. «Insomma io non ci vedrei niente di male fino a prova contraria; non è detto che non vi sia una ragione fondata o pastorale». Come era facilmente prevedibile lo strano avviso dopo essere stato fotografato è subito rimbalzato all' esterno, aprendo un evidente problema al Vaticano visto che da mesi Papa Francesco continua a predicare che bisogna «obbedire alle regole» del governo, tra cui il rispetto del coprifuoco. Una misura che però sembra mettere a dura prova persino lui. Poco prima di partire per l' Iraq, parlando ad un gruppo di giornalisti americani, si è lasciato sfuggire che si sente in gabbia e domenica scorsa, affacciandosi dalla finestra per la recita del Regina Coeli, ha sospirato: «Mi mancava la piazza», facendo riferimento al fatto che tornava a predicare all' aperto e non più al chiuso, in biblioteca, davanti ad una telecamera. Ora è caccia aperta all' identità dei monsignori nottambuli e chissà se davvero hanno infranto le regole per portare l' unzione degli infermi a qualche moribondo alle 2 del mattino. I CONTROLLI Forse per loro era pure scontato che prima o poi venissero fermati per un controllo di routine magari mentre si avviavano a passo svelto verso via della Scrofa in zona extraterritoriale dove vivono a pensione completa una sessantina tra ex nunzi, arcivescovi, religiosi, officiali di curia, seminaristi. Anche se sembra un albergo a tutti gli effetti, con servizi di lavanderia e ristorazione interna, ci sono cinque cappelle per le celebrazioni, diverse sale riunioni (ora desolatamente vuote) e una terrazza (attrezzata) dalla quale si gode una bellissima veduta con vista sul Cupolone.

"Rispettate il coprifuoco". Cosa accade a casa del Papa. Ignazio Riccio il 20 Aprile 2021 su Il Giornale. Non è la prima volta che in tema di Covid-19 la Chiesa usa toni duri per richiamare all’ordine gli ospiti o i dipendenti. Due mesi fa un decreto punitivo per chi rifiuta il vaccino. “Pur essendo spiacevole, sono costretto a richiamare ai reverendi ospiti la necessità di rispettare coscienziosamente il coprifuoco imposto dalle autorità statali. Mi sembra oltremodo fuori luogo e pericoloso che vi siano rientri in casa alle ore 0.30, 2.00 e 2.15 di notte”. Lo scrive monsignor Battista Ricca, il direttore di Casa Santa Marta in Vaticano, in cui risiede anche Papa Francesco, in un avviso affisso fuori dalla residenza, pubblicato dal sito Dagospia. “Il sottoscritto – continua la nota – pur essendo molto disponibile, non è tenuto ad alzarsi in piena notte per soccorrere qualche confratello incappato nei rigori delle forze dell'ordine. Pertanto a chi capita, spetterà l'onere di dimostrare chi sono, che cosa facevano in giro in piena notte o verso l'alba”. Non è la prima volta che in tema di Covid-19 il Vaticano usa toni duri per richiamare all’ordine i confratelli o i dipendenti. Nei confronti di questi ultimi, due mesi fa, è stato pubblicato un decreto firmato dal presidente della Pontificia Commissione della Città del Vaticano, il cardinale Giuseppe Bertello. Il provvedimento prevede una serie di misure, che vanno dal demansionamento fino al licenziamento, per coloro che rifiutano il vaccino anti Coronavirus. Un atto che ha fatto discutere, dato che la vaccinazione non è obbligatoria. Il Vaticano ha evidenziato che “si ritiene il sottoporsi alla vaccinazione la presa di una decisione responsabile atteso che il rifiuto del vaccino può costituire anche un pericolo per gli altri e che tale rifiuto potrebbe aumentare seriamente i rischi per la salute pubblica”. Tra le altre norme da seguire si rammenta il “divieto di assembramenti, la necessità del distanziamento fisico, l'adozione di dispositivi di protezione personale, le norme igieniche, i protocolli terapeutici e i protocolli di vaccinazione”. Sono previste multe pari a 25 euro per chi non indossa la mascherina e fino a 1.500 euro per chi vìola la quarantena. Ma i provvedimenti vaticani sono stati già criticati da chi ritiene le misure "punitive”. Per tutta risposta, il Governatorato vaticano spiega che la linea adottata dalla Santa Sede non intende essere “una forma repressiva nei confronti del lavoratore”, ma una linea di protezione sanitaria della collettività. Si legge nella nota che “il decreto del Presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano dell'8 febbraio 2021 in materia di emergenza sanitaria è stato emanato per dare una risposta normativa urgente alla primaria esigenza di salvaguardare e garantire la salute ed il benessere della comunità di lavoro, dei cittadini e dei residenti nello Stato della Città del Vaticano”.

Coronavirus, la strage silenziosa è quella dei sacerdoti: "Uno su tre è finito al cimitero". Renato Farina su Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. Sono 269 i preti morti per il Covid tra il primo marzo del 2020 e analogo giorno del 2021. Sono conteggiati solo i sacerdoti diocesani, sono esclusi cioè i religiosi. Ricordo servizi televisivi dove si cercavano di sorprendere, facendo a gara con i carabinieri, curati che tenevano alto l'ostensorio per strada, e certe perquisizioni a telecamera accesa in qualche cappella, con tre fedeli in ginocchio e il parroco a benedirli, come se fosse un covo delle Brigate rosse. Ne conosco tanti che la sera correvano nelle case con il cesto della spesa e la comunione da dare al vecchio abbandonato dai figli disperati per non poter uscire, altrimenti erano guai. Eppure io stesso ho avuto il coraggio di rimproverare il loro dir le messe a distanza. E facevano bene, e qualcuno che si è ritratto per la paura c'è stato, ma quanto accorrevano passando da strade laterali per dar conforto la sera, contagiandosi e però senza lamentarsi, stando da soli, persino rinunciando a farsi trasportare in ospedale. Ora esce la statistica, ed è tremenda. I morti tra il clero sono stati in tutto 958, vuol dire che quasi uno su tre è finito al cimitero per il Coronavirus. L'anno precedente, in analogo periodo, il numero dei deceduti si era fermato a 742. In certe diocesi la falce ha mietuto le sue spighe, con una pervicacia e una mira infallibile, raccogliendo tonache a covoni. Le cifre fanno spavento, ma importante è che non si spaventino loro e soccorrano la nostra solitudine. Anche chi non crede è confortato da chi raccoglie il grido di aiuto anche di chi sta zitto, perché i preti conoscono gli indirizzi dei poveri silenti e dei malati d'anima e di corpo, sono ricettatori di peccati e di dolori. L'Agensir, che fa capo alla Conferenza episcopale e ha provveduto a raccogliere queste notizie, ha compilato una classifica. Sul gradino più alto del podio, in Italia ma di sicuro nel mondo, c'è Bergamo. Questa diocesi ha pagato il prezzo più amaro eppure misteriosamente fecondo con 27 preti caduti sul campo. Pari merito, al secondo posto, è la volta di Milano e Brescia (18 morti ciascuna), indi Trento (17), Bolzano (11), Cremona (9), Parma (8), Como (7), Padova (7), Piacenza (6), Lodi (6), Genova (6), Reggio Emilia (6) e Udine (6). Altri numeri? Ce n'è uno che colpisce. Scrive l'agenzia dei vescovi: «Il contagio ha quasi azzerato il pur modesto ricambio garantito dalle nuove ordinazioni, che sono state 299 nel 2020». Non è la Cei, ma Gesù nel Vangelo, a dire: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi». E allora perché suo Padre ha permesso questa falcidia? Giornate diocesane e mondiali, dedicate alla coltivazione di nuove vocazioni si susseguono, in molte chiese ogni mattina si prega perché Dio moltiplichi le chiamate in seminario. E che risposta è mai questa? Morti su morti. Certo, in quelle pagine è scritto anche che il chicco di grano che muore porta molto frutto, ma è tardi, e non lo vediamo ancora. Peraltro proprio oggi, venerdì santo, constatiamo che neanche con Lui, il buon Dio ha avuto mano leggera con quei chiodi. C'è qualcosa che si può capire di questo mistero, o se vogliamo garbuglio, solo guardando il Crocefisso, che dovrebbe essere oltre che icona del cristianesimo, segno di una civiltà il cui culmine è versare sangue per amore. Ma tutto è così difficile da dire, mentre ancora sale la marea gonfia di morti, a cinquecento al dì. E tra essi - io oso dire per fortuna - ci sono preti come agnelli. Uno che non è entrato in quel conto di 269 è un amico di tanti giovani del Politecnico di Milano e di vecchi arnesi conosciuti da studente. È trapassato nei giorni scorsi, si chiama don Antonio Anastasio, detto Anas. Presso il suo letto all'ospedale di Niguarda, per mesi e mesi, mentre questo prete della Fraternità San Carlo stava attaccato al respiratore, si è radunato grazie a quel maledetto-benedetto zoom, un popolo che cresceva ogni giorno, per pregare per lui ma in realtà perché lui pregasse per i miseri che siamo noi, in ogni tempo ma specialmente ora. Quindicimila al rosario! Pazzesco? Perché? C'è stato qualche miracolo? Oggi è Venerdì Santo, la Pasqua schiuderà un'alba nuova.

·        Il Papa Santo.

Quelle domande dagli Usa sulla morte di papa Luciani. Francesco Boezi il 12 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il Washington Post rilancia la questione della morte di papa Giovanni Paolo I. Per il giornale americano, esistono dei quesiti a cui il Vaticano non ha dato risposte. Le circostanze in cui è morto papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, sono ancora al centro di varie inchieste giornalistiche. Il pontefice italiano durato poche settimane sul soglio di Pietro non ha mai smesso di occupare il cuore dei fedeli. E il riconoscimento di un miracolo - una guarigione di una bimba sudamericana - ha peraltro aperto alla beatificazione.

Mentre il processo per confermare l'essere "beato" continua, le cronache hanno continuato ad occuparsi di come Giovanni Paolo I sia morto. Nel corso degli anni, sono emersi più retroscena. Il più delle volte frutto più di dietrologia e complottismi. Qualcuno si è soffermato anche su quali fossero le intenzioni di Luciani rispetto alla Compagnia di Gesù. Studi, in sintesi, che si occupano anche della visione dell'ultimo sovrano pontefice italiano.

L'articolo del Washington Post

A sollevare nuovamente alcune questioni legate alla morte di Giovanni Paolo, avvenuta il 28 settembre 1978, è stato il quotidiano americano Washington Post. Per l'autorevole testata Usa, esistono elementi sufficienti per dire che la vicenda legata alla scomparsa dell'ex patriarca di Venezia è "ancora in evoluzione". Si tratterebbe, insomma, di un caso irrisolto.

Vale la pena sottolineare come la nota ufficiale del Vaticano, ai tempi, parlò di cause naturali. Quindi per la Santa Sede, un vero e proprio "mistero", non è mai esistito. Ma non tutti - com'è noto - la pensano in questo modo. Una delle ipotesi più note è quella dell'avvelenamento: una suggestione che non ha mai trovato riscontro. Stando a quanto ripercorso dall'Agi, il quotidiano statunitense ha scritto quanto segue all'interno di un corposo approfondimento. "Un piccolo numero di persone si è tuffato nel caso, ognuno adottando approcci drasticamente diversi, e solo alcuni si sono avvicinati ai fatti. L'eredità di Giovanni Paolo I è stata definita non solo dal mistero e dalla cospirazione, ma dai tentativi in competizione di mettere le cose in chiaro", scrivono sul Wp.

Quindi, stando a quanto affermato dai giornalisti, ci sarebbero ancora elementi da chiarire non solo sulla morte, ma anche sul periodo successivo, che potrebbe essere stato influenzato dal come veniva giustificata e raccontato il decesso di Luciani. Un momento che ancora oggi rappresenta un episodio drammatico e doloroso nella storia della Chiesa. Con una premessa che tuttavia sentiamo doverosa: quando si ha a che fare con il Vaticano, vengono spesso disegnati scenari con "misteri" persistenti. E la circostanza del decesso dell'ultimo pontefice italiano si è spesso prestata a ricostruzioni condite da punti di domanda e anche da interpretazioni volutamente tese alla dietrologia.

Le domande del Washington Post su Luciani

Il Washington Post non si ferma alla semplice analisi, ma pone due domande. Entrambe possono essere ricondotte a un lavoro di ricostruzione del giallista David Yallop, che nella prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso ha dato alle stampe "Nel nome di Dio". "Perché il Vaticano riferì erroneamente l'identità di chi aveva trovato il corpo senza vita del papa? Perché venne frettolosamente imbalsamato senza un'autopsia?". Questi sono i due quesiti cui, secondo il Post, bisognerebbe rispondere. E forse a quel punto il "caso Luciani" sarebbe considerato risolto.

Il fatto che la grande stampa americana rilancia la faccenda, in ogni caso, costituisce già di suo una notizia di rilievo. Ed è un punto su cui vale la pena riflettere anche per quanto riguarda la visione che viene data Oltreoceano sia della Chiesa che del Vaticano.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle 

Così Luciani ispirò Francesco. Così Papa Luciani ha ispirato Francesco: accanto a poveri e operai. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 16 Ottobre 2021. “Humilitas” era il motto – una sola parola in realtà! – scelto da Albino Luciani (1912-1978) al momento della nomina a vescovo nel 1958. Una parola resa concreta dallo stile di vita: sobrio, ma soprattutto vicino alle persone e agli operai durante le vertenze degli operai a Venezia. Allora la notizia della prossima beatificazione di Papa Luciani, cioè Giovanni Paolo I, pontefice per appena 33 giorni, in realtà non colpisce più di tanto, perché era oramai attesa da tempo. Di Albino Luciani ricordiamo la simpatia, l’immediatezza, l’auto-ironia. Se uniamo queste caratteristiche allo stile di vita, non vediamo che esiste una correlazione tra lui e Papa Francesco? La continuità del papato non è anche in questo? E le “innovazioni” che all’epoca fecero scalpore? Mise in soffitta il plurale maiestatis, rivolgendosi ai fedeli in prima persona. Poi – grande scandalo per l’epoca! – rinunciò all’incoronazione e all’uso della tiara. E così stava iniziando, forse, il periodo che porta a Papa Francesco e a Casa Santa Marta come residenza papale. Albino Luciani era un vescovo solidamente formato nella teologia di prima del Vaticano II (come il gesuita Bergoglio). Aveva partecipato al Concilio e aveva maturato l’idea che al centro della Chiesa ci dovesse essere la “collegialità”. Un’idea appena più ristretta della “sinodalità” che è al centro di Papa Francesco. Era passato attraverso la dittatura italiana del Novecento, aveva delle idee se non “progressiste” quanto meno “reali” in campo morale e sociale, proprio perché era stato povero, frequentava gli operai, era al loro fianco nella vertenza a Marghera negli anni Sessanta. Negli anni in cui si discute della pillola anticoncezionale, si esprime in favore di un’apertura della Chiesa, avendo contatti e dialogo con le famiglie. Però dopo l’enciclica «Humanae vitae», con cui Paolo VI nel 1968 dichiara illecita la pillola (sul piano morale), l’allora vescovo di Vittorio Veneto si farà promotore del documento, senza riserve. Ma soprattutto era vicino alle persone. Lo disse nel suo stile all’udienza con i conterranei bellunesi: «È stato ricordato dai giornali, anche troppo forse, che la mia famiglia era povera. Posso confermarvi che (…) ho patito veramente la fame; almeno sarò capace di capire i problemi di chi ha fame!». Giovanni XXIII nel 1958 lo nomina vescovo di Vittorio Veneto, respingendo le perplessità riguardo alle cagionevoli condizioni di salute. In quell’ occasione, come riporta Mario Sgarbossa in un suo libro, il Papa commentò: “…vorrà dire che morirà vescovo”. Invece morì il 28 settembre 1978, 33 giorni dopo essere stato eletto Papa, inaugurando la serie dei doppi nomi papali, mai utilizzata prima di lui, in omaggio ai due predecessori: Giovanni XXIII, che appunto lo aveva nominato vescovo e Paolo VI che lo aveva creato cardinale. Ma pochi mesi prima dell’annuncio (il 5 marzo 1973), nella visita di Paolo VI a Venezia, era accaduto un episodio che fa ancora discutere. Il 16 settembre 1972 il patriarca Luciani ricevette Paolo VI in visita pastorale. Al termine della Messa in piazza San Marco Paolo VI si tolse la stola, la mostrò alla folla e davanti a ventimila persone la mise sulle spalle del patriarca Luciani, con un gesto che sembrava un’investitura, facendolo arrossire per l’imbarazzo. Da notare che, nonostante gli anni, non si spengono le voci malevole sulla sua morte. Voci nate da un equivoco di quelli tipici della Santa Sede. Sembrava non opportuno o disdicevole, all’epoca, dire che era stata suor Vincenza Taffarel, da sempre accanto a lui, a trovare per prima il papa deceduto nel suo letto. Così all’inizio si disse che era stato il segretario irlandese dell’epoca. Quando venne fuori il nome di suor Vincenza, si alimentarono speculazioni senza fondamento, che a volte ritornano oggi. Ed ora per salire all’onore degli altari, come si dice, è arrivata la certificazione del miracolo. Come ha reso noto la Congregazione delle cause dei santi per la beatificazione del venerabile servo di Dio Giovanni Paolo I la postulazione aveva presentato all’esame della Congregazione l’asserita guarigione miracolosa, attribuita alla sua intercessione, di una bambina affetta da “grave encefalopatia infiammatoria acuta, stato di male epilettico refrattario maligno, shock settico”. L’evento è accaduto il 23 luglio 2011 a Buenos Aires. E la storia di questo miracolo è sintetizzata dalla stessa Congregazione: «La bambina il 20 marzo 2011, all’età di undici anni, iniziò ad accusare un forte mal di testa che continuò sino al 27 marzo, quando si manifestarono febbre, vomito, disturbi comportamentali e della parola. Lo stesso giorno fu ricoverata d’urgenza a Paraná. Dopo gli esami e le cure del caso, fu formulata la diagnosi di encefalopatia epilettica ad insorgenza acuta, con stato epilettico refrattario ad eziologia sconosciuta. Il quadro clinico era grave, caratterizzato da numerose crisi epilettiche giornaliere, tanto che fu necessario intubarla. Non essendosi riscontrato alcun miglioramento, il 26 maggio 2011 la piccola venne trasferita, con prognosi riservata, nel reparto di terapia intensiva di un ospedale di Buenos Aires. Il 22 luglio 2011 il quadro clinico peggiorò ulteriormente per la comparsa di uno stato settico da broncopolmonite. I medici curanti convocarono i familiari, prospettando la possibilità di morte imminente. Il 23 luglio 2011, inaspettatamente, vi fu un rapido miglioramento dello shock settico, che continuò. Il 5 settembre la paziente venne dimessa riacquistando completa autonomia fisica e cognitiva. L’iniziativa di invocare Giovanni Paolo I venne presa dal parroco della parrocchia a cui apparteneva il complesso ospedaliero. E per i teologi della Congregazione per le cause dei Santi, si è dimostrato «il nesso causale tra l’invocazione a Giovanni Paolo I e il viraggio favorevole del decorso clinico e la guarigione della bambina». E poi l’altro mistero – si fa per dire – riguarda le “carte” nelle mani del papa al momento della morte. Qualcuno ha detto che erano gli appunti per l’udienza generale, altri riferiscono si trattasse di provvedimenti (verso i gesuiti?). Manie di complottismo, alimentate da una morte improvvisa e inaspettata. Ma forse, a risentire la voce di Papa Luciani, affannata, con toni accorati, incredulo della nomina, si può immaginare che l’emozione del nuovo ruolo lo abbia sopraffatto, in tutti i sensi. Però ha aperto una porta, che ora vediamo all’opera nel papato attuale: “humilitas” in un caso, “miserando atque eligendo” nell’altro: guardò con misericordia e scelse (dal Vangelo di Matteo). E un altro punto di contatto tra i due papi è nella richiesta ai fedeli di non dimenticarli nelle preghiere. Al “per favore, non dimenticatevi di pregare per me” di Francesco, c’è una eco di Luciani: «Io non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni e neanche la preparazione e la cultura di papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere». 

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Beatificazione papa Luciani, la nipote: «Lo zio era simile a Bergoglio. Mai creduto all’avvelenamento». Lina Petri, figlia della sorella di Giovanni Paolo I: «Avrebbe preso la decisione di Francesco con un’ironia un po’ imbarazzata. Direbbe: ma come vi è venuto in mente?». Silvia M. C. Senette su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. «Papa Giovanni Paolo I sarà beato: riconosciuta come miracolo la guarigione di una bambina in condizioni disperate avvenuta a Buenos Aires nel 2011». La notizia, comunicata da Papa Francesco, ha fatto il giro del mondo raggiungendo Canale d’Agordo, città natale di Giovanni Paolo I, e Levico Terme, in Trentino, dove vive la nipote Lina Petri, figlia della sorella di Albino Luciani, Antonia Luciani. «Il processo di beatificazione era in corso dal 2003 - racconta la nipote del Santo Padre, scomparso la notte del 28 settembre 1978 dopo soli trentatré giorni di pontificato - la notizia era attesa: mancava solo il riconoscimento del miracolo per sancire l’effettività della beatificazione. Era stato approvato dalla consulta medica e si attendeva l’esito del voto dei cardinali e la firma di Papa Francesco».

Che effetto le fa?

«È un’emozione grande, anche se in famiglia mio zio è sempre stato considerato un Santo. Per noi che lo conoscevamo era chiara la sua esemplarità di vita, la sua condotta e la sua testimonianza».

Dopo 43 anni come lo ricorda?

«Quando è mancato avevo 22 anni e l’ho conosciuto bene come tutti noi nipoti. L’ho avuto vicino soprattutto dall’adolescenza in poi con una frequentazione abbastanza intensa. La frequentazione domestica l’hanno avuta soprattutto i miei dieci cugini, perché la casa natale era nel bellunese. Noi abitavamo a Levico Terme. Lui trascorreva periodi di riposo in Veneto, ma è passato diverse volte a trovarci quando andava a Trento dal vescovo Gottardi. Ci piaceva andarlo a trovare a Venezia quando era patriarca, dal 1970 in poi».

Che persona era?

«Molto affettuoso, gioviale, sereno, amabile. Con lui si riusciva a parlare di ogni cosa: era curioso e si interessava alla nostra vita, agli studi, ai progressi, ai dubbi, alle sofferenze giovanili. Crescendo l’ho visto parecchio anche a Roma, dove studiavo e dove veniva per i suoi impegni in Vaticano. Noi nipoti vedevamo in lui una guida, il faro della nostra giovinezza».

Il papato come lo avevate accolto?

«Sapevamo delle grandi sofferenze a cui sarebbe andato incontro ma è stata una gioia palpabile seguita subito dal dolore della morte improvvisa. Non abbiamo visto l’onore ma il sacrificio, pur sapendo benissimo quello che avrebbe potuto fare».

È cambiato quando è diventato Papa Luciani?

«Lo abbiamo visto tutti insieme solo nella visita ufficiale dei familiari il 2 settembre 1978. A fratello e sorella ha detto: “State tranquilli voi come sono tranquillo io. Vi chiedo scusa per tutto il trambusto che vi ho causato”. Poi a noi nipoti: “Nulla cambia tra di noi, la porta è sempre aperta, venite quando volete”. Era tale e quale a prima».

Sulla sua morte sono circolate parecchie teorie.

«Nessuno di noi ha mai messo in dubbio il fatto che lui sia morto di morte naturale. Cosa suffragata dal libro della vice-postulatrice Stefania Falasca: ha studiato tutto, carta per carta, anche quello che era rimasto riservato, i rapporti e le cartelle cliniche di Venezia. Certo, per noi questi 43 anni sono stati una vera croce perché quando si parla di Luciani si parla della morte per avvelenamento. Non ha aiutato l’inesattezza comunicata in buona fede».

Quale inesattezza?

«La mattina suor Vincenza, essendosi accorta che lui non aveva preso il caffè che lei li lasciava sempre molto presto fuori dalla porta della sua stanza, si è allarmata. È entrata e lo ha trovato senza vita. Hanno voluto dire in maniera più poetica che era stato trovato dal segretario, ma la cosa è trapelata e si è pensato che si era mentito anche su altro».

Quale cifra avrebbe caratterizzato il papato di suo zio?

«Sarebbe stato un papa della semplicità, del favorire una visione della chiesa molto semplice e della fede per tutti. Con il suo sorriso snocciolava le grandi verità della fede in modo molto comprensibile».

Simile a Papa Francesco?

«Un sentire simile è stato evidente fin dalle prime parole di Bergoglio. Ma sarebbe una forzatura leggere tra le righe della coincidenza dei tempi tecnici. La causa è stata introdotta nel 2003, andava studiata, poi sono iniziati gli studi per la valutazione delle virtù ed eventuali miracoli».

Al plurale?

«Sono emerse parecchie situazioni in cui si poteva individuare un miracolo. Uno aveva superato la fase diocesana: un signore in Puglia era guarito da un linfoma, ma non si era certi che non sarebbe potuto guarire seguendo le terapie. La Chiesa è molto rigorosa: c’è una consulta medica spesso composta da medici agnostici e al contempo una consulta teologica che riconosce il rapporto causa-effetto. Ci fu anche un ragazzino guarito da una malattia inguaribile dopo che la mamma gli aveva messo l’immaginetta di mio zio sotto al cuscino e lui lo ha sognato».

Come commenterebbe Papa Luciani la sua beatificazione?

«Con un’ironia un po’ imbarazzata. Direbbe: ma come vi è venuto in mente? Noi parenti siamo emozionati e contenti, abbiamo dato il nostro aiuto nella testimonianza ma non abbiamo mai fatto pressioni per spingere la causa di beatificazione. Anzi, mio zio Edoardo, per tutti Berto, era abbastanza scettico. Diceva: con tutti i Santi che ci sono, non c’è bisogno anche di lui!».

Da "Oggi" il 20 ottobre 2021. «Della malattia non ricordo nulla», dice Candela Giarda, da Paraná, città a 500 chilometri da Buenos Aires, in Argentina, al settimanale OGGI in edicola da domani. Candela ora ha 21 anni: ne aveva 11 quando rischiò di morire per una grave encefalopatia infiammatoria acuta. La sua guarigione, considerata miracolosa, avvenuta il 23 luglio 2011, a Buenos Aires, porterà alla beatificazione Papa Luciani, la prossima primavera. Proprio a Giovanni Paolo I si era rivolta Roxana Sousa, la mamma di Candela, insieme con padre José Dabusti, sacerdote della parrocchia a cui apparteneva l’ospedale di Buenos Aires dove la sua bambina era ricoverata. «Mi hanno parlato tanto di Papa Luciani e vorrei conoscere un po’ di più la sua storia», spiega a OGGI Candela che ora sta bene e frequenta un corso di salute animale all’università. «Vorrei lavorare occupandomi degli animali e viaggiare. Mi piacerebbe vedere com’è il mondo al di fuori dell’Argentina», dice. E sicuramente il suo primo viaggio la porterà a Roma, in Vaticano, per partecipare alla beatificazione di Papa Luciani. Dal quartiere operaio di Paranà, dove Candela vive con la famiglia, mamma Roxana ricorda con OGGI il dramma della malattia e la disperazione vissuta la sera del 22 luglio 2011 quando le dissero che la sua bambina non avrebbe superato la notte. Roxana si aggrappò alla fede e andò a cercare padre José Dabusti nella chiesa vicina alla clinica dove aveva passato giorni a pregare e a piangere. Insieme imposero le mani sul corpo di Candela, invocando l’intercessione di Giovanni Paolo I e chiedendo il miracolo della guarigione. Il giorno successivo, il quadro clinico di Candela era completamente cambiato. «I miracoli esistono e io l’ho sperimentato con Candela», dice Roxana, che quella notte interminabile e oscura non sapeva nemmeno chi fosse Giovanni Paolo I. «Quella drammatica sera, quando Candela stava per morire, non so perché ho invocato l’intercessione di Papa Luciani: è stata come un’ispirazione. Mi è venuto alla mente il suo volto e ho deciso di pregare per chiedergli un miracolo» racconta a OGGI don José.

Vaticano, una beatificazione costa 750mila euro? Soldi, uno "strano" caso: cala la mannaia di Papa Francesco. Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. I costi delle beatificazioni e delle canonizzazioni sono saliti alle stelle. Alcune cause sono venute a costare anche oltre 750mila euro. Il sospetto che ha sempre aleggiato è che vi fossero dei rivoli di denaro impropri, frutto di conti gonfiati dovuti a scarsi controlli amministrativi. Alcuni di queste storture vennero fuori alla fine del pontificato di Benedetto XVI anche se la questione venne affrontata solo con l'arrivo di Papa Francesco. Da poco è stato reso noto il primo regolamento che limita i movimenti d'azione per queste tipo di operazioni. Al tariffario generale si sono aggiunte "le regole tassative alle quali dovranno attenersi per chi svolge un ruolo di cerniera tra il Vaticano e chi vuole promuovere la causa", rivela il Messaggero. Papa Francesco ha limitato il numero di cause che possono portare avanti. Il postulatore, cioè chi cura il processo per la beatificazione o canonizzazione, ha diritto a "un equo compenso proporzionato al lavoro effettivamente svolto ma non deve esigere né ricevere uno stipendio legato alla sua nomina per ogni singola causa, e comunque può lavorare anche a titolo gratuito", scrive sempre il Messaggero. Il Papa ha stabilito che i postulatori non sono dipendenti della Santa Sede e "non possono fruire del regime fiscale dell’articolo 17 del Trattato Lateranense". In pratica dovranno muoversi con assoluta trasparenza e senza alcuna eccezione. Quando il postulatore riceve l'incarico assume la "responsabilità morale e finanziaria promuovendo e coordinando tutte le attività per divulgare la conoscenza del servo di Dio. Spetta a lui provvedere alla raccolta dei materiali, dei documenti, scrivere e stampare la 'Positio', cioè la biografia che attesta la vita spesa all'insegna del Vangelo del candidato alla beatificazione", specifica il Pontefice. Durante il pontificato di Papa Francesco sono stati canonizzati e beatificati quasi mille campioni della fede.

Fabio Marchese Ragona per "il Giornale" il 14 ottobre 2021. «Uno ha detto: Coraggio! Se il Signore dà un peso, darà anche l'aiuto per portarlo». Era ancora incredulo, subito dopo l'elezione in quel caldo agosto del 1978. E raccontava di un confratello cardinale che nella Cappella Sistina lo aveva incoraggiato a non aver paura. Oltre 40 anni dopo la morte improvvisa di Giovanni Paolo I, avvenuta misteriosamente 33 giorni dopo l'elezione, il Pontefice argentino ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo attribuito all'intercessione di Albino Luciani, il Papa del sorriso. Un prodigio che gli apre le porte della santità: Giovanni Paolo I sarà infatti beato. Ancora da decidere la data della cerimonia, che potrebbe essere celebrata da Papa Francesco nella primavera prossima. Il Vaticano ha studiato per anni la guarigione inspiegabile, nel 2011, di una bambina di Buenos Aires. La piccola è guarita da una grave forma di encefalopatia, dopo le preghiere dei familiari e degli amici al Papa dei trentatrè giorni. La voce flebile, parole spesso considerate per quei tempi inconcepibili dagli alti prelati di Curia, come quando all'Angelus del 10 settembre del 1978 Luciani spiazzò tutti dicendo: Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. E' papà; più ancora è madre. Frasi che destarono scandalo e polemiche nei confronti di quel Papa «imprevedibile». In un documento inedito della diplomazia italiana a firma dell'allora ambasciatore presso la Santa Sede che ha potuto visionare il Giornale e che riporta la data dell'11 settembre 1978, all'indomani di quell'Angelus, si racconta ufficialmente che, durante un pranzo, don Virgilio Levi, all'epoca vicedirettore dell'Osservatore Romano, parla delle difficoltà nel trascrivere i discorsi del Papa «discorsi che ama pronunciare a braccio, spesso accantonando il testo predisposto dalla Segreteria di Stato. Un discorso improvvisato è cosa ben diversa di un testo scritto». E si sottolineano «le titubanze della Segreteria di Stato nell'eliminare i passaggi più originali' del Papa», che hanno su chi li ascolta a voce, «un effetto certamente meno stridente di quello che hanno prodotto su chi ha avuto la ventura di leggerli sull'Osservatore Romano, magari nella traduzione in inglese». Anche per queste vicende, la sua morte, avvenuta il 28 settembre del 1978, ha alimentato per anni speculazioni e voci di complotti in Vaticano, contro quel Papa veneto che avrebbe voluto ribaltare i poteri curiali di quegli anni oscuri, a partire dallo Ior, la banca vaticana, all'epoca guidata dall'arcivescovo americano Paul Marcinkus. Lo stesso prelato fu accusato dalla stampa di aver avvelenato il Papa, accusa infondata e smentita dalla documentazione clinica raccolta in questi anni. La causa della morte è stata infatti accertata definitivamente come infarto acuto del miocardio. È emerso, infatti, anche dai racconti di vari cardinali, che la salute di Albino Luciani al momento dell'elezione non era delle migliori e che al momento della morte si scatenò il panico su come comunicare la notizia all'esterno. Dalla testimonianza di suor Margherita Marin, una delle suore che trovò il Papa morto, resa pubblica nel 2017, emerge ad esempio che «il padre Magee (il secondo segretario di Luciani, ndr), ci disse di non dire che eravamo state noi suore, io e suor Vincenza, a trovarlo morto nella camera, perché avevano deciso di dire che erano stati i segretari a trovarlo per primi». Proprio le testimonianze e in particolare il miracolo sulla bimba argentina hanno portato oggi al via libera di Papa Francesco. Un lavoro scrupoloso compiuto dal postulatore della causa, il cardinale Beniamino Stella, Prefetto emerito della Congregazione per il Clero, che con i suoi collaboratori ha studiato per anni tutta la documentazione raccolta, ottenendo anche una testimonianza scritta di Benedetto XVI.

Papa Wojtyla, "la zingarata" segreta. La notte fuori in giro per Roma, il grosso imbarazzo in Vaticano. Libero Quotidiano l'11 novembre 2021. La zingarata di Karol Wojtyla, appena eletto Papa, finita male. Roberto D'Agostino su Vanity Fair racconta l'avventura picaresca del pontefice polacco in una notte romana, terminata davanti ai cancelli chiusi del Vaticano. Il 16 ottobre 1978 era salito al Soglio pontificio e subito Giovanni Paolo II si era mostrato al mondo come un nuovo modello di Santo padre: giovane, franco, ironico. Molto moderno. Talmente moderno da concedersi una "serata fuori", una pizza a tarda ora con l'amico Monsignor Stanislaw Dziwisz, alto prelato polacco suo collaboratore fin dai tempi in cui Wojtyla era arcivescovo di Cracovia. Al termine di una riunione amministrativa particolarmente noiosa, "i due decisero che era già scoccata l'ora di godersi l'ottobrata capitolina pappandosi una buona pizza - scrive D'Agostino -. Indossarono un discretissimo clergyman e saltando ogni protocollo di sicurezza decisero di uscire dal Vaticano". I due amici andarono a mangiare in una trattoria trasteverina. "Rimane il dubbio - suggerisce mister Dagospia - se si trattasse di 'Santino', in via S. Francesco a Ripa o 'La Piccola Montecarlo', in via Dandolo, angolo viale Glorioso". "Consumata con abbondanti libagioni di birra la gastro-bisboccia, la zingarata papale si complicò". Al ritorno nella Santa Sede, infatti, "i due trovarono tutti i varchi chiusi e persino alla carraia di Porta Sant'Anna – nonostante gli sforzi del Dziwisz nell'affermare che il sacerdote accanto a lui era Giovanni Paolo II - le guardie svizzere non riconobbero il neoeletto Pontefice e sbarrarono il passo ai due birbanti". La salvezza arrivò al Commissariato di Borgo, con il commissario che si prese la responsabilità di accompagnare il Papa e il monsignore alla Porta Sant'Anna.

L'avvertimento di Giovanni Paolo II sulle radici cristiane d'Europa. Andrea Muratore il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. In "Memoria e Identità" Giovanni Paolo II ricorda una profonda lezione: l'Europa non potrebbe mai dirsi tale senza la consapevolezza dell'importanza delle radici cristiane. Il discorso sulle radici cristiane dell'Europa è troppo spesso oggetto di opposte - e fuorvianti - strumentalizzazioni e mistificazioni. Da un lato, esso è stigmatizzato e criticato da un europeismo lirico, neo-illuminista, che pretende di trovare nell'autolegittimazione dell'idea, fideistica, di unità europea un fine in sé, pretendendo di costruire nel mondo contemporaneo un'istituzione secolare slegata da tutto ciò che l'Europa ha rappresentato e rappresenta tuttora per la civiltà umana. Dalla parte opposta, l'idea dell'Europa cristiana è troppo spesso vittima degli apologeti dell'occidentalismo più sfrenato, che non mancano di identificare le radici profonde del Vecchi Continente in senso esclusivo o, addirittura, fortemente connotato politicamente. Entrambi gli approcci scontano un forte limite concettuale, un legame di fondo con le analoghe trattazioni proprie del discorso politico statunitense la cui forma mentis ha pervaso oramai, profondamente, la cultura politica europea. E si distanziano profondamente dal serio dibattito sulle radici cristiane della civiltà del Vecchio Continente che è stato inaugurato negli ultimi decenni da figure profondamente influenti sul piano religioso, sociale, culturale, umano e politico come San Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla, primo pontefice non italiano dopo oltre quattro secoli, figlio della Polonia, parte di un'area d'Europa interessata dalle duplici mire espansioniste della Germania nazista e dell'Unione Sovietica nella prima metà del Novecento, uomo di profonda cultura colpito dalla necessità di rendere nuovamente il cattolicesimo forza vivificatrice per l'Europa, ha durante tutto il suo pontificato testimoniato la necessità per il Vecchio Continente e i suoi popoli di abbeverarsi alla fonte di una tradizione plurisecolare. Una tradizione che, inevitabilmente, non riguarda solo ed esclusivamente la comunità praticante ma coinvolge la vita quotidiana, gli approcci alla vita, la società, l'ordine morale. Nel contesto di un pluralismo culturale che al cattolicesimo ha, nei secoli, aggiunto l'ortodossia e le varie forme di protestantesimo alla variegata rosa del cristianesimo europeo.

Il libro di Giovanni Paolo II rilanciato da Benedetto XVI. In uno dei testi pubblicati per riflettere sul futuro dell'Europa e della cristianità, Giovanni Paolo II ha testimoniato la sua personale visione sulla natura con cui ha inteso e interpretato le radici cristiane: come il richiamo a un orizzonte valoriale in grado di riportare l'Europa al progresso materiale e morale dopo il secolo delle idee assassine, il Novecento che ha portato infiniti lutti ai Paesi del continente e messo sotto il fuoco delle invasioni e delle occupazioni la Polonia, "Cristo d'Europa" per eccellenza esposta alle mire e agli appetiti stranieri. Memoria e identità, il saggio in questione, è una riflessione profonda sul senso di dirsi cristiani nell'Europa del secondo dopoguerra, sulla necessità di una direzione morale di marcia e sulla natura più profonda di cosa voglia dire l'adesione alla Chiesa nei tempi segnati dal declino delle ideologie e dall'individualizzazione di massa. Giovanni Paolo II riflette sui limiti della ragione umana e sul senso profondo del bene e del male: le tragedie del Novecento non vanno viste, in tal senso, come l'eclissi definitiva dell'Europa ma come un'occasione in cui forme di coraggio e profonda umanità hanno potuto manifestarsi. "Il modo in cui il male cresce e si sviluppa sul terreno sano del bene costituisce un mistero. Mistero è anche quella parte di bene che il male non è riuscito a distruggere e che si propaga nonostante il male, avanzando sullo stesso terreno", nota nell'introduzione. L'Europa cristiana non è stata messa a terra dal proliferare delle ideologie totalitarie. La persecuzione nazista non ha impedito la rivolta dei vescovi contro le azioni e i programmi di eutanasia; non ha impedito la manifestazione dei fulgidi esempi di San Massimiliano Kolbe, Salvo d'Acquisto, Hans e Sophie Scholl; la persecuzione comunista non ha distrutto la Chiesa polacca o l'identità profonda del suo popolo e della nazione ungherese. Tutte queste manifestazioni dimostrano la presenza di un retroterra valoriale, di un richiamo identitario e profondo che nemmeno le tragedie della storia non hanno potuto spezzare. "Non si tagliano le radici dalle quali si è nati”, disse Giovanni Paolo II a poco più di un anno dalla morte, nell'Angelus del 20 giugno 2004. Pronunciato a poche settimane dalla conclusione delle discussioni sul progetto di Costituzione europea che avevano respinto l'inserimento delle fondamenta cristiane del Vecchio Continente nel progetto-cardine dell'Europa. Come se una lunga storia durata quasi due millenni a cui fanno riferimento l'etica e la morale politica, civile e sociale che plasmano tuttora, seppure con varie modifiche, i contesti nazionali odierni non fosse mai esistita. La preoccupazione di Giovanni Paolo II, che in Memoria e identità si percepisce chiaramente, è non considerare la critica e la dura condanna a nazionalsocialismo e comunismo come un'automatica benedizione a una terza, diversa ma non meno corrosiva forza che rischiava, come da lui intuito in anticipo, di corrodere l'essenza profonda della nostra cultura europea e di trasformarsi in nuovo ordinatore collettivo: l'ideologia di mercato, il neoliberismo divenuto pian piano mainstream politico economico negli anni precedenti la sua ascesa al pontificato. Utilitarismo, individualismo e mercificazione negano l'animo spirituale dell'uomo valorizzato dalla Chiesa, la natura dell'individuo come parte inscindibile dalla società e il ruolo delle collettività come agenti della volontà di Dio e della Provvidenza sostenuto dalla dottrina cattolica. La battaglia di Giovanni Paolo II contro le ideologie deviate e gli estremismi del capitalismo non è stata meno strenua di quella condotta contro le forze totalitarie dell'inizio del secolo. Il nazismo e il comunismo prima, il neoliberismo poi, con la loro pretesa di costruire la realizzazione totale della società attraverso progetti materialistici e la loro natura totalizzante in campo sociale hanno rappresentato in tal senso minacce altrettanto gravi alla difesa dell'identità cristiana d'Europa. Una visione che ha visto Giovanni Paolo II concorde con lo stratega del suo pontificato e successore al trono di Pietro, Benedetto XVI. San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono stati infatti gli ultimi profondi interpreti della cultura europea e delle lezioni della civiltà millenaria del Vecchio Continente. Non è un caso che Benedetto XVI abbia con coraggio rilanciato il messaggio di Giovanni Paolo II costruendo le fondamenta del nuovo umanesimo come dottrina religiosa, sociale ed economica capace di interpretare con originalità la lettura dei segni dei tempi operata dalla Chiesa cattolica. Pronta ad inserirsi in continuità con la storia millenaria d'Europa come forza vivificatrice e sorgente di speranza per la sua ricostruzione morale. Visitando il lager di Auschwitz nel 2006 Ratzinger sintetizzò in poche frasi cosa volesse dire aver chiara la consapevolezza del peso delle radici cristiane d'Europa: "Dietro queste lapidi", disse, "si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l'odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l'opera dell'odio. Vogliono portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all'orrore che la circonda: "Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare". Con la sua profondità teologica e morale, Benedetto XVI diede un'interpretazione del connubio tra memoria e identità, da rinsaldare anche di fronte alla presa di consapevolezza sui grandi orrori della storia, che Giovanni Paolo II aveva individuato come cruciale per capire l'essenza delle radici cristiane d'Europa.

L'Europa non ha compreso il messaggio. L'Unione Europea, organizzazione figlia di una commistione grezza tra un sottofondo di illuminismo francese e una base dominante di economicismo neoliberale, non ha capito questo messaggio. In cui spicca l’assenza di qualsiasi riferimento alle radici cristiane dell’Europa, assenti nel progetto di Costituzione europea prima e nello sviluppo del Trattato di Lisbona poi. Una mancanza che non ha solo valore ideologico e religioso, ma testimonia l’assenza di prospettive di un’Unione che è corpo estraneo rispetto alla tradizione europea. In cui continuità Giovanni Paolo II ha ricordato che ogni progetto che voglia rappresentare l'Europa deve posizionarsi. Confondere tali questioni con un mero afflato identitario sarebbe limitante: ogni progetto politico necessita di una doverosa spinta valoriale per performare al meglio. Gli Stati Uniti non hanno timore di rifarsi a una tradizione che attraverso i Padri Fondatori li narra come “democrazia di Dio”; l'attuale governo di Recep Tayyip Erdogan in Turchia coniuga nazionalismo turco, turanesimo e identitarismo islamico; in Cina Xi Jinping non lesina i riferimenti alla continuità millenaria del Paese da Confucio (e ancora prima) a oggi. La consapevolezza della memoria storica e un'autocoscienza della propria identità, da intendersi in termini non esclusivi nei confronti delle altre culture presenti sull'agone globale, potrebbe solo fare bene nell'aiutare l'Europa a capire stessa. I confini dell'Europa, in fin dei conti, sono quelli tracciati dall'evangelizzazione avvenuta nei primi secoli dopo Cristo nelle sue varie forme. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, suo continuatore, hanno letto la forza dei segnali della storia ribadendo una verità evidente. Negata da chi ritiene che l'Europa si possa costruire come prodotto di mercati e burocrazie anonime. 

Quarant'anni fa l'attentato a Papa Wojtyla. Ma movente e regia restano un mistero. Serena Sartini il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. Tante domande irrisolte: Ali Agca agì da solo? Quale pista è più credibile? Un giallo che dura da 40 anni, avvolto da misteri e intrighi. Sono le 17.17 del 13 maggio 1981; piazza San Pietro è gremita. Applausi, slogan, cartelli accompagnano l'arrivo di Giovanni Paolo II all'udienza generale. Il Papa saluta, sorride e benedice i pellegrini dalla Fiat Campagnola scoperta (oggi esposta ai Musei Vaticani) che attraversa due ali di folla. Due colpi di arma da fuoco e tutto sembra finito per il primo Papa straniero. La veste bianca si tinge di rosso, Wojtyla si accascia nella jeep: il primo proiettile lo colpisce all'addome, il secondo a una mano. La corsa al Gemelli, l'estrema unzione del segretario personale, don Stanislao. Il mondo è sconvolto, i fedeli piangono e pregano. Lo scatto del Pontefice polacco che lotta tra la vita e la morte fa il giro del mondo. Ma c'è un'altra fotografia a impressionare: è quella del giovane Alì Agca, allora 23enne, dei «Lupi Grigi» ultra nazionalisti turchi, bloccato e arrestato dagli angeli custodi del Papa, i gendarmi vaticani. Un momento immortalato da Giancarlo Giuliani, storico fotografo di Wojtyla. «Vidi tanta gente che scappava da piazza San Pietro - racconta - Piangevano e pregavano. E subito gridarono: Hanno preso l'assalitore. Riuscii a fare lo scatto più importante, quello dell'arresto. La mia era l'unica foto di quell'istante terribile». «La gente era incredula - prosegue Giuliani - di corsa mi recai al Gemelli. Ero disperato, perché con Giovanni Paolo II avevo un lungo rapporto di conoscenza, fin dal Concilio Vaticano II». Ancora oggi, dopo 40 anni, il mistero dell'attentato di Karol Wojtyla non è risolto. Chi voleva uccidere il Papa? Chi c'era dietro Ali Agca? Davvero agì da solo? Che legame ci fu con la pista bulgara, il Kgb di Mosca? Domande tuttora irrisolte. Il Papa si salva, Wojtyla si convince che a salvarlo fu un miracolo, che fu la mano della Madonna di Fatima a deviare la pallottola; Ali Agca viene arrestato, condannato all'ergastolo, poi perdonato da Giovanni Paolo II, ottenne la grazia dal presidente Ciampi, dopo la «non contrarietà» del Vaticano. La vicenda si chiuse così, ma i dubbi restano. Pochi mesi dopo l'attentato, lo stesso anno, venne rapita Emanuela Orlandi, la figlia di un funzionario vaticano per la cui liberazione i sedicenti rapitori chiedono proprio la libertà di Agca. La pista bulgara si intreccia a quella sovietica, poi a quella islamica. Infine la pista mafiosa, le dichiarazioni del pentito Vincenzo Calcara, secondo il quale Ali Agca venne ingaggiato da Cosa nostra: «Si erano riuniti elementi della Cupola palermitana, tra cui Riina - disse Calcara - ed elementi dell'ordine di Santo Sepolcro. Anche monsignor Marcinkus faceva parte di quest'ordine». Per Calcara, il Papa doveva essere ucciso perché «voleva fare dei cambiamenti che avrebbero danneggiato non solo ambienti del Vaticano, ma anche interessi di Cosa Nostra. Ambienti del Vaticano ovviamente corrotti e collusi con Cosa Nostra». Dichiarazioni su cui i magistrati palermitani non trovarono riscontri. Dopo 40 anni il lupo grigio Ali Agca resta l'unico colpevole di quel terribile attentato. 

Estratto dell’articolo di Orazio La Rocca per “la Repubblica” il 12 maggio 2021. «In quel momento pensai solo a salvarlo. Ero dietro di lui, sulla papamobile, quando sentii i due colpi provenienti dalla folla pochi attimi dopo aver benedetto e baciato una bambina. Nemmeno il tempo di capire che cosa stesse succedendo, vidi subito che si stava lasciando andare, privo di forze, ma con le mani strette sulla pancia e una improvvisa smorfia di dolore. Senza perdere mai i sensi indicava il punto dove era stato ferito, sulla veste bianca macchiata di rosso». L'attentato a Papa Giovanni Paolo II per mano del terrorista turco Alì Agca, il 13 maggio 1981, quarant' anni fa, rivive nel ricordo di chi in quegli attimi ha contribuito a salvargli la vita: don Stanislao Dziwisz, cardinale emerito di Cracovia, 82 anni compiuti il 27 aprile scorso, suo storico segretario personale dal 1963. (…) «Ogni volta che ci penso - confessa Dziwisz - rivivo tutto fin dall'inizio, attimo dopo attimo. Anche dopo tanto tempo lo ricordo come se fosse ora, una tragedia che mi ha segnato profondamente, che porto dentro di me, tutti i giorni, e mi chiedo sempre: ma perché volevano ucciderlo?».

Cardinale Stanislao Dziwisz, è indubbio che il suo immediato intervento è stato determinante nel salvare la vita al Papa.

«Non lo so. In quegli attimi convulsi, davanti alla gravità dell'accaduto ho pensato soltanto a non farlo cadere a terra. Il Papa era morente. Soffriva tanto, pur restando sempre lucido. Ma non mi sono scoraggiato. Ho pregato e ho pensato solamente a salvarlo. Il resto lo hanno fatto i medici con l'aiuto della Madonna».

Lei quindi temeva che Wojtyla non ce l'avrebbe fatta a sopravvivere?

«(...) Al momento degli spari, ero dietro di lui, che salutava e benediva tutti. Poco prima aveva preso in braccio una bambina bionda che aveva in mano un palloncino colorato. Il Papa la sollevò, poi la baciò e sorridendo la restituì alla mamma commossa. Una scena bellissima rotta improvvisamente da un primo sparo, mentre centinaia di piccioni volavano via come impazziti. Ad un secondo sparo vidi il Papa afflosciarsi su un fianco, addosso a me». (…)

13 maggio 1981, parola d’ordine: uccidere il Papa. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 10 maggio 2021. Un giorno come oggi, ma di quarant’anni or sono, un assassino professionista rispondente al nome di Mehmet Ali Ağca consumava l’attentato del secolo in piazza San Pietro, cuore pulsante della caput mundi e della Cristianità occidentale, cercando di uccidere l’allora pontefice regnante Giovanni Paolo II. Il temibile sicario, evaso due anni prima da un carcere di massima sicurezza in patria, era giunto in gran segreto a Roma con un solo obiettivo: eliminare in maniera spettacolare uno dei più potenti uomini del pianeta, nonché uno dei simboli viventi della civiltà occidentale. L’attentato non ebbe successo, perché, utilizzando le parole di Giovanni Paolo II, “Qualcuno o Qualcosa mandò all’aria il colpo”, ma quel giorno fu scritta la storia con l’inchiostro indelebile del sangue. Sangue di un anziano pontefice che, colpito al colon e all’intestino tenue, sarebbe dovuto morire e che, invece, sarebbe sopravvissuto contro ogni previsione, dimostrando la natura preternaturale della propria esistenza due volte: dapprima perdonando il proprio feritore e dipoi ponendo fine all’epopea dell’iperpotenza votata all’estirpazione di “Cristo dalla storia dell’Uomo”, l’Unione sovietica. Oggi, a quarant’anni esatti di distanza da quell’anniversario insanguinato della Madonna di Fatima, la verità non è ancora emersa – e, forse, mai emergerà – e l’attentato del secolo, musa ispiratrice di un coacervo di teorie di complotto, continua ad essere avvolto da un manto di mistero tanto cabalistico quanto impenetrabile.

I fatti. Ağca tentò di fare la storia alle 17.17 del 13 maggio 1981, anniversario dell’apparizione della Madonna di Fatima, esplodendo due sfere di piombo da una Browning HP 9mm Parabellum in direzione del Papa polacco. Ağca, il temibile sicario allevato al culto della morte dai Lupi grigi e giunto a Roma per eseguire il colpo dei colpi, quel 13 maggio di quarant’anni or sono avrebbe scoperto l’insignificanza delle trame umane dinanzi alla sconfinatezza intangibile e invisibile del Divino. Ağca l’infallibile fallì a causa di una celebre folata di vento – piegata a più interpretazioni a seconda dell’interlocutore: “Schiaffo della Vergine Maria”, semplice sfortuna, autosuggestione o tremore dovuto all’ansia – che gli avrebbe impedito di colpire il pontefice al cuore. Arrestato poco dopo l’attentato, non sarebbe mai divenuto il primo papicida dall’anno Mille, perché Wojtyła sopravvisse, né sarebbe diventato un eroe agli occhi dell’islam radicale, perché all’incontro privato con il papa nella cella di Rebibbia, avvenuto il 27 dicembre di due anni dopo, sarebbe seguita la conversione al cattolicesimo.

Tanti depistaggi, una sola verità. Due sono i custodi della verità dietro all’attentato del Novecento, di cui uno è morto: Wojtyła e Ağca. Tutti gli altri, inclusi noi, sono stati testimoni di quarant’anni di depistaggi e insabbiamenti, di un caso ante litteram di guerra disinformativa a base di bufale e intossicazioni ambientali. Perché del tentato assassinio di Giovanni Paolo II si è detto e scritto di tutto e di più, anche a causa della callida opera di manipolazione realizzata dal sicario dei Lupi grigi, senza che la verità sia mai emersa dalle tenebre della guerra fredda. Innumerevoli le piste vagliate dagli inquirenti vaticani e italiani, a loro volta supportati dalle indagini parallele di Cia e Mossad, ma nessuna che abbia mai condotto all’ottenimento di risultati anche solo lontanamente concreti. Convinzione generale è che suddette tracce investigative fossero false, da qui la mai avvenuta scoperta del mandante, ma se provassimo a cambiare prospettiva e seguissimo le briciole come in Hansel e Gretel, potremmo scoprire come, curiosamente ma non paradossalmente, contenessero più verità di quanta sia stata loro attribuita. Tutto falso (o quasi) e nessun colpevole, eppure tutto torna: la presenza di appoggi nell’entourage papalino, possibilmente all’interno dell’Entità, in grado di nascondere la trama papicida anche agli occhi più accorti, l’infiltrazione di agenti e cimici del Kgb nei corridoi vaticani, i timori del Cremlino di una rivoluzione spirituale in Polonia trainata dall’effetto Wojtyła e il coinvolgimento dei servizi segreti del blocco comunista, della mafia turca e del crimine organizzato italiano in funzione di supporto logistico ad Ağca (armi, documenti fasulli, copertura della latitanza). Tutti avevano un movente, e probabilmente alcuni erano all’oscuro del piano omicida, ma una cosa è certa: Ağca, il sicario venuto dall’Anatolia per uccidere il rappresentante di Dio in Terra, non avrebbe mai potuto agire da solo. E non è da escludere che lo stesso Ağca, giovane ed arrabbiato, ergo strumentalizzabile, abbia premuto quel grilletto non avendo piena consapevolezza delle dimensioni del gioco al quale aveva deciso di partecipare. Oggi, a quarant’anni di distanza dall’attentato del Novecento, Ağca vive la propria vita da uomo libero e onesto, ed ogni tanto viene visto sulla tomba di colui che avrebbe dovuto uccidere, Giovanni Paolo II è entrato nei libri di storia dopo aver fatto la storia e il proiettile che gli traversò il corpo si trova nel santuario di Fatima, dove giace incastonato nella corona della statua della Vergine Maria ad imperitura memoria del giorno in cui gli intrighi degli Uomini furono spezzati da un’aleteica teofania del Deus absconditus – per chi preferisce credere alla sovrannaturalità dell’evento, ovviamente.

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 13 maggio 2021. Alle 17,17 del 13 maggio 1981, in piazza San Pietro, quattro colpi di arma da fuoco esplosi in rapida successione ammutolirono di colpo la folla. Giovanni Paolo II in piedi sulla giardinetta bianca, fino a quel momento sorridente si accasciava con una smorfia di dolore, tra le urla, con la talare bianca imbrattata di sangue. A mezzo metro c' era il fotografo personale, Arturo Mari, una presenza familiare che lo ha seguito come un' ombra per tutto il resto del pontificato.

Cosa ricorda?

«Se chiudo gli occhi rivivo ogni istante. Nessuno avrebbe mai immaginato una cosa del genere. Sento ancora rimbombare i colpi d' arma da fuoco. Uno, due, tre quattro. Li risento nitidissimi».

Si disse che i colpi erano tre...

«No, furono quattro. Due per il Papa sparati da Agca e altri due sparati dall' altro terrorista, Oral Celik che era in piazza quel pomeriggio. Era sul lato opposto a dove si trovava Agca, tanto che i suoi colpi finirono per colpire due signore americane che erano sul lato sinistro e destro».

Da quel momento ha inizio un mistero su chi siano stati i veri mandanti per eliminare il primo papa polacco della storia che stava contribuendo a far cadere il comunismo. Lei si è fatto una idea?

«Nessuno si è mai capacitato del perché colpire una persona del genere. Wojtyla era uno che aiutava tutti. Ecco perché quell' attentato era (ed è) una cosa anomala. Giovani Paolo II non era un tiranno da eliminare, un capo partito o un lestofante. Era davvero un santo. Dava la sua vita per la gente. Io ne sono testimone privilegiato».

Wojtyla però faceva paura a Mosca, cosa che ammise persino il generale polacco Jaruzelski nella celebre intervista rilasciata a Jas Gawronski dicendo che svolse un ruolo enorme nella caduta dei regimi comunisti...

«Giovanni Paolo II ha fatto tantissime cose. Conosceva certamente il regime ma quando si dice che faceva cadere i muri dobbiamo pensare che chiedeva la libertà e difendeva la dignità umana.Non era come un politico. Solo un santo poteva fare queste cose con il dialogo».

Non avrà fatto politica direttamente ma di certo destabilizzava. Si disse che dietro l' attentato vi fosse il Kgb, i servizi bulgari, persino ad un certo punto Khomeini. L' inchiesta compiuta in sei Paesi diversi non è riuscita mai a stabilire chi architettò il piano. A lei il Papa non ha mai detto nulla?

«Forze occulte ma non riuscirono nell' obiettivo. Ci fu davvero l' intervento della Madonna. Ne era convinto anche San Giovanni Paolo II».

Quando rivide il Papa?

«Dopo 3 giorni mi mandò a chiamare. Si trovava al Gemelli. Gli feci le foto a letto, sorridente, per fare vedere che stava bene. Quelle immagini dovevano sfatare la narrazione del Papa morente. Quella mattina appena mi vide mi disse: Figlio mio lo vedi? La Madonna mi ha salvato».

Quando è arrivato il perdono al terrorista turco?

«Quando siamo rientrati al Palazzo Apostolico, dopo la degenza, ha voluto ricevere la mamma di Alì Agca. Quella donna si mise a piangere, non capiva come suo figlio avesse potuto arrivare a tanto. Giovanni Paolo II ebbe per lei parole di conforto. Quando feci le foto mi commossi».

Poi andò anche a Rebibbia a perdonare il suo attentatore...

«Io entrai e feci solo la foto che ritraeva il Papa e Alì Agca in un angolo, seduti su una sedia. Poi io uscii ma non rimasero loro due soli perché dentro restò un uomo della sicurezza pronto ad intervenire qualora Agca avesse avuto un raptus».

I magistrati che indagarono non ravvisarono in lui condizioni di natura psichiatrica. Fu appurato che nel 1979 evase per un omicidio, soggiornò in Iran e poi in Bulgaria contando su una rete protettiva. In un primo momento Agca disse di agire su richiesta dei bulgari che avrebbero versato come corrispettivo ai Lupi Grigi 3 milioni di marchi tedeschi. Poi nel 1985 ribaltò la versione urlando di essere Gesù Cristo, Dio incarnato. Wojtyla ha mai pensato che fosse uno squilibrato?

«Mai. Ha sempre avuto per lui parole di conforto e cercava di aiutarlo. Io penso che la verità non verrà mai fuori. In tanti anni non sono mai usciti elementi concreti».

·        Il Papa Emerito.

Nina Fabrizio per quotidiano.net il 17 Dicembre 2021. Con la sua stazza di omone alto quasi 2 metri, la veste rossa fino ai piedi, una vistosa croce d’oro al collo e una semplice mascherina chirurgica sul volto, aveva fatto il suo ritorno in pubblico dopo lungo ritiro dalla socialità solo una decina di giorni fa, alla presentazione dell’ultima biografia del suo Papa-mentore, Benedetto XVI-Joseph Ratzinger. Un evento-tributo partecipatissimo tra condanne del sinodo tedesco e della stretta imposta da Francesco alle messe in latino che ha radunato in una affollata sala della Capitale il gotha dei conservatori romani delle due sponde del Tevere (presenti anche Gianni Letta, Pierferdinando Casini, monsignor Georg Gaenswein), appuntamento riservato ai detentori di Green pass. In quella occasione – promossa con sgarbo istituzionale mentre il Papa ‘regnante’ Francesco era in missione tra i rifugiati di Lesbo – il cardinale tedesco Gerhard Mueller era rimasto silente. Per far sentire il suo pensiero sulla lunghezza d’onda dei filoni complottisti, ha atteso ieri quando ha rilasciato un’ampia intervista intrisa di retorica no vax all’Istituto austriaco San Bonifacio. La pandemia, a suo dire, è stata utilizzata da personaggi come George Soros e Bill Gates per creare "uno stato di sorveglianza globale". Per il cardinale che ha subito anni fa un brusco siluramento da parte di Bergoglio, le elite finanziarie mondiali stanno usando la pandemia e le misure adottate dai governi per contrastarla per sottoporre le persone al "controllo totale" consentendo così ai super ricchi di "cogliere un’occasione per mettere la gente in riga". Affermazioni che non si discostano molto da quelle di tanti vescovi e prelati no vax, soprattutto americani, campioni del tradizionalismo conservatore, come l’ex nunzio a New York monsignor Viganò, capofila degli oppositori di Francesco. L’ex nunzio mai creato cardinale è arrivato a negare l’esistenza del Covid e a incitare i fedeli a partecipare in massa alle manifestazioni e ai raduni no vax e no Green pass. Posizioni di totale imbarazzo per la Chiesa di Francesco, Papa che ha sposato la causa dell’immunizzazione dettando la linea contro il "suicidio negazionista" già dal Natale scorso. Una posizione poi continuamente reiterata, ribadita alla vigilia dell’introduzione del Super Green pass anche dal segretario di Stato vaticano, il cardinale Parolin e sposata dalla Cei che però, nei confronti dei sacerdoti non immunizzati, stante che per andare a messa non serve il Green pass, si è limitata a raccomandare la vaccinazione e semmai a non partecipare a celebrazioni con troppi fedeli.

"Codice Ratzinger": trovato il più clamoroso dei messaggi, in mondovisione da Castel Gandolfo. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 18 dicembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Abbiamo appena individuato il più clamoroso dei messaggi in “Codice Ratzinger”, il sistema di comunicazione sottile QUI con cui il vero papa, Benedetto XVI, comunica con l’esterno dalla sua sede impedita: è stato sotto gli occhi di tutti per otto anni, dato che non si trova sepolto in un libro, in un’intervista, o in una lettera privata, ma in un discorso pubblico seguito in mondovisione da centinaia di milioni di fedeli. 28 febbraio 2013: papa Benedetto prende l’elicottero e vola a Castel Gandolfo; come aveva annunciato nella Declaratio di 17 giorni prima, lascia la “Sede di San Pietro” vuota, libera (e non “vacante” come hanno tradotto). L’ora X in cui sarebbe dovuta entrare in vigore la sua rinuncia al ministerium, (l’esercizio pratico del potere) scocca alle 20.00, ma alle 17.30, Benedetto XVI si affaccia dal balcone e saluta la folla con queste testuali parole:

“Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più … pontefice sommo della Chiesa cattolica … fino alle otto di sera sono ancora, poi non più”.

Innanzitutto, come osserva il teologo Carlo Maria Pace nel suo libro “Il vero papa è ancora Benedetto XVI” QUI  , Ratzinger non confermerà mai, dopo le ore 20.00, questa affermazione, né verbalmente, né per iscritto. (Inconcepibile, perché restando papa dalle 17.30 fino alle 20.00, avrebbe potuto benissimo cambiare idea. Tuttavia, anche volendo, Ratzinger non avrebbe mai potuto dare conferma di valore giuridico alla rinuncia al ministerium, perché questo ente non può essere separato dal munus petrino. Ecco perché la sua Declaratio non era una rinuncia al papato, come ci hanno dato a bere da otto anni, ma un auto-esilio in sede impedita [canone 412] cosa che lo ha fatto rimanere papa a tutti gli effetti. Quell’unico papa di cui parla da otto anni senza mai spiegare quale.

“Ma allora Ratzinger ha mentito dicendo che non sarebbe più stato papa?”

Intanto, dopo 17 giorni in cui nessuno “si era accorto” che la sua Declaratio non era una rinuncia, mentre il mondo intero annunciava la sua abdicazione, egli poteva ben considerarsi formalmente impedito a tutti gli effetti, quindi non libero e sotto minaccia. Era quindi moralmente giustificato “a dover stare al gioco” e a dire e fare qualsiasi cosa, come una persona con una pistola puntata dietro la schiena.

Ma il Santo Padre NON HA MENTITO, come non mentì nella Declaratio, e sapete perché? Come in tutti i messaggi in Codice Ratzinger, c’è sempre un’apparente incoerenza significativa e rivelatrice. L’avete colta? Rileggete la frase.

Egli dice che non sarà più “pontefice sommo”, mentre il titolo papale è "SOMMO PONTEFICE" (Summus Pontifex): non ci sono discussioni. “Pontefice sommo” NON ESISTE.

“Vabbé, Sommo Pontefice … pontefice sommo, è la stessa cosa…”.

Ma zero proprio. Tale inversione è apparentemente insignificante per noi laici che non siamo addentro alle cose ecclesiastiche, ma cosa pensereste se il Gran Maestro dell’Ordine di Malta dichiarasse, dimettendosi dalla carica: “Da stasera non sarò più maestro-grande dell’Ordine di Malta”? O se il “Prime Minister” Boris Johnson dicesse: “From today I’ll no longer be Minister-prime”? O se un Tenente Colonnello dell’Esercito, promosso, annunciasse: “Da domani non sarò più colonnello-tenente”? Ridicolo e pazzesco, no? Soprattutto, la dichiarazione non avrebbe alcun valore legale e suonerebbe come una burla (come infatti è stata la Declaratio , un gigantesco scherzo di Carnevale).

L’inversione tra aggettivo e complemento ha quindi evitato a papa Benedetto - pur impedito già da 17 giorni - di mentire dicendo che dalle 20.00 avrebbe rinunciato al suo titolo canonico di papa, cosa che invece lui non ha mai fatto.

Ma attenzione: il costrutto della frase assume anche un altro significato, ancora più eloquente e coerente. Facciamo un esempio: immaginiamo un generale che, appena decorato Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica, dica: “Da domani non sarò più un Grand’Ufficiale”. Perfetto, benissimo. Ma se lui dicesse: “Da domani non sarò più un ufficiale grande”, il titolo cavalleresco si trasformerebbe nella descrizione di ben altra condizione. Il generale, in questo caso, ci direbbe NON che ha guadagnato una nuova placca al Merito della Repubblica, bensì che la sua carriera di ufficiale andrà in declino. Ci siamo?

Così, papa Benedetto fa capire che “non sarà  più un pontefice sommo”, ovvero non sarà più un pontefice collocato nel posto più alto e grande, ma rimarrà un pontefice nascosto, eremita, celato sotto l’inesistente istituto del papato emerito. Ci sarà qualcun altro che occuperà il posto più alto e grande. Per la precisione, un antipapa.

Ora, i bergogliani obietterano che sono “sottigliezze, complottismi” e via col solito disco rotto alla Avvenire. I tradizional-sedevacantisti osserveranno che Ratzinger, siccome “è modernista”, in 63 anni di vita ecclesiastica ancora non era riuscito a imparare il corretto titolo del papa. Va bene, certo, avete ragione voi.

(Lasciateli dire, ormai sono irrecuperabili). Il fatto oggettivo e immutabile è però che Benedetto XVI NON HA MAI DETTO che non sarebbe stato più “Sommo Pontefice”, TITOLO SPECIFICO DEL PAPA. Punto e basta. “Pontefice sommo” non esiste, come non esiste “Maestro Grande”, “Ministro Primo” o “Ufficiale Grande.

E non lo afferma lo scrivente, ma sapete chi? Lo stesso Vaticano che, nella trascrizione del discorso, infatti, CORREGGE LE PAROLE DI BENEDETTO XVI, riportando, guarda caso: “… Non sono più «Sommo Pontefice» della Chiesa cattolica…”. Controllate voi stessi QUI .

Ancora una volta, le parole di papa Ratzinger sono state manipolate in funzione della narrativa golpista sull’abdicazione, così come hanno mistificato la Declaratio abolendo, nelle traduzioni, la fondamentale dicotomia munus/minsterium QUI  e traducendo arbitrariamente il verbo “vacet” con “sede vacante” QUI

Quindi, nemmeno in una sede impedita conclamata da 17 giorni, situazione che, pure, gli avrebbe consentito di dire qualsiasi cosa giustificato da una situazione di confino, minaccia e privazione della libertà, IL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO XVI HA MAI MENTITO. Grazie alla sua straordinaria intelligenza logica egli non ha mai peccato e non ha mai indietreggiato di fronte ai lupi. Nemmeno nel momento più drammatico, di fronte a tutto il mondo che lo guardava. E commuove, oggi, leggere la frase seguente del suo saluto: “… Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, LAVORARE per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità”.

Voleva lavorare, ma non poteva perché era stato costretto ad autoesiliarsi in SEDE IMPEDITA. 

P.S.

Nota ad usum di quelli per cui: “E’ stata solo una distrazione perché è tedesco e non parla bene italiano”.

A parte che lui parla benissimo l’italiano e poteva leggere qualcosa di scritto, guardate che “pasticcione” papa Ratzinger: nella Declaratio, dove parla di un vero “Sommo Pontefice” (e non pontefice sommo), dice di voler rinunciare al ministerium, mentre per abdicare doveva rinunciare al munus; separa i due enti anche se sono inseparabili; differisce la “rinuncia” al soglio che invece doveva essere immediata; usa le espressioni “Sede di Roma” e “Sede di San Pietro” che non esistono (come rileva l’avv. Arthur Lambauer); commette due grossi errori di latino e altre 20 imperfezioni di sintassi rilevate dai maggiori latinisti; sbaglia l’orario scrivendo “dalle ore 29.00”. Eppure ci ha messo due settimane a comporre la Declaratio e il documento è passato al vaglio della Segreteria di Stato, sotto sigillo del segreto pontificio, per essere corretto da errori formali e giuridici.

Legittimisti di Bergoglio, decidetevi: uno o due papi? Risposta a Padre Cavalcoli. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 21 dicembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Il teologo domenicano Padre Giovanni Cavalcoli, difensore della legittimità di Bergoglio, ci ha risposto sul suo blog al nostro articolo di qualche giorno fa in cui esemplificavamo le assurde teorie dei legittimisti di Bergoglio.

Pur con il dovuto rispetto, rispondiamo al Padre senza sconti, dato che la posta in gioco è molto alta e le sue posizioni frenano la comprensione sull’antipapato in corso.

Padre Cavalcoli comincia subito affermando che noi staremmo seguendo dei “sedicenti cattolici”. A parte che noi seguiamo solo fatti e documenti, colpisce che per il teologo, “sedicenti cattolici” siano quelli fedeli a Benedetto XVI, che celebrano la messa in latino, che si consumano di rosari e non si discostano dal Cattolicesimo più ortodosso, senza aderire ai cambiamenti modernisti della liturgia, alla modifica del Padre nostro, ai patti col Partito comunista cinese, ai cambiamenti nel Catechismo (art. 2267) alle intronizzazioni in San Pietro di una divinità sanguinaria come Pachamama, alle benedizioni delle coppie gay, alla comunione ai turbo-abortisti o agli adulteri in Amoris laetitia, etc.

Il Padre Cavalcoli poteva definire semmai quei resistenti come “integralisti”, (a voler proprio denigrarli a tutti i costi), ma certo, qui, i “sedicenti cattolici” sono ben altri, proprio per una questione semantica. 

La pacifica accettazione dei cardinali

La posizione del teologo è un classico esempio di “presunzione di normalità”: Bergoglio è papa perché è stato accettato dai cardinali, quindi è cattolico, ergo, la Declaratio di Benedetto è una vera rinuncia”. Tutto va ben, madama la marchesa. Siamo alla conclamata negazione dell’evidenza, fondata su un’inversione canonica di cui parleremo più avanti.

Il fatto che i cardinali non abbiano avuto nulla da ridire sulle “dimissioni” di Benedetto non ha alcun senso. Lo stesso Padre Cavalcoli cita la Mafia di San Gallo che da anni tramava per far dimettere Benedetto ed eleggere Bergoglio. E’ quindi ovvio che papa Ratzinger, di fronte ad alcuni cardinali che volevano toglierlo di mezzo, abbia utilizzato un sottilissimo escamotage per “dimettersi senza  abdicare”, facendo in modo che TUTTI i cardinali, amici e nemici, sulle prime non se ne accorgessero e permettessero che i modernisti si antipapassero e scimassero da soli con un conclave nullo. Era esattamente nelle intenzioni del papa non essere capito, almeno sulle prime: quindi, i cardinali fedeli a Benedetto XVI sono DEL TUTTO GIUSTIFICATI se non hanno colto e denunciato il suo “Piano B” canonico.

Questo è infatti così sottile e “ipnotico” che si è cominciato a comprenderlo solo nel 2019 e, con un team di teologi, latinisti e canonisti, ci abbiamo messo altri DUE ANNI di lavoro per capire che la Declaratio non era una rinuncia, ma un annuncio di SEDE IMPEDITA. E se i Sigg.ri Cardinali oggi ancora non si sono pronunciati, dobbiamo ringraziare anche Padre Cavalcoli che contribuisce a mascherare la questione con il suo legittimismo per l’antipapa.

Ma c’è un argomento che demolisce del tutto l’”accettazione pacifica universale” della Chiesa (Universalis Ecclesiae Adhaesio) cui si riferisce il Padre Cavalcoli: questa non è applicabile a Bergoglio perché l'”errore sostanziale” (canone 126) è preesistente e la dottrina non potrebbe mai sanare la mancanza, nel 2013, della conditio sine qua non per convocare il conclave: papa morto, o abdicatario, mentre Benedetto era vivo, vegeto, e in sede impedita, come dimostreremo più avanti.

La proclamazione dell’antipapa

Padre Cavalcoli, poi, obietta: “Gli antipapi o si sono autoproclamati, o sono stati proclamati”.

Il fatto che Bergoglio non sia stato esplicitamente proclamato antipapa da Benedetto deriva dal fatto che il vero papa si trova in sede impedita e nelle mani dell’antipapa, non libero di esprimersi e costretto a dissimulare il suo status sotto l’insistente istituto del papa emerito.  Questa situazione insolita non toglie che Francesco sia antipapa. Peraltro, per quanto ancora nessun cardinale si sia pronunciato, ci sono vescovi, come i Monsignori Gracida e Lenga che hanno detto che Bergoglio non è il papa e diversi sacerdoti che lo hanno proclamato esplicitamente antipapa, facendosi sanzionare pesantemente, e senza processo canonico.

“Sono solo complottismi…”

Ma in realtà, pur dalla “prigionia”, papa Benedetto ci sta comunicando in modo INEQUIVOCABILE la sua sede impedita. E qui Padre Cavalcoli usa il solito sistema dialetticamente scorrettissimo dei bergogliani, cioè l’evitamento in blocco di tutto il fondamentale discorso sul “Codice Ratzinger”. Scrive: “Credere che Benedetto si ritenga ancora segretamente Papa in funzione e ritenga invalida l’elezione di Francesco, esprimendosi, come dice Cionci, mediante un linguaggio cifrato, è un teorema ridicolo, degno di chi legge troppi romanzi polizieschi o film di spionaggio, e fa una gravissima offesa anzitutto allo stesso Benedetto, che, ove venisse a conoscenza di una simile irriverente trama da romanzo di fantascienza, se non ne è già venuto, respingerebbe certamente con sdegno tale artificiosa supposizione”.

Comodo: eludere otto anni di testimonianze inequivocabili dello stesso papa Benedetto per poi mischiare le carte sul diritto canonico. Questa considerazione comporta una grave assunzione di responsabilità da parte di Padre Cavalcoli. Di fronte a messaggi studiati e certificati QUI da esperti anche di rango universitario, psicologi, psichiatri, linguisti, magistrati, scrittori, perfino da avvocati del calibro del Prof. Carlo Taormina (non proprio l’ultimo arrivato), don Cavalcoli avrebbe il dovere morale di indagare a fondo la questione, contestandola punto per punto, prima di cassarla con quattro parole sprezzanti. Invitiamo il Padre a fornire una risposta alternativa e “politicamente corretta” ai messaggi in codice Ratzinger individuati nell’inchiesta, nei capitoli dal 6 al 14 (QUI in fondo).

Il teologo risulta anche un poco offensivo, perché ci fa passare per degli sciocchi appassionati di polizieschi, ma subito dopo segna un clamoroso autogol quando dice che “Papa Benedetto respingerebbe con sdegno tali irriverenti trame da romanzo”. Verissimo. Proprio per verificare questo, in ottobre, abbiamo scritto a Papa Benedetto, presentandoci di tutto punto, e lui, invece di sdegnarsi e rimproverarci, spiegandoci che “il papa è uno ed è Francesco”, come avrebbe DOVUTO FARE nel caso di una vera rinuncia, ci ha risposto QUI gentilmente e bonariamente, che “pur con ogni buon intento non gli è proprio possibile riceverci”, con tanto di suo stemma da papa regnante. E a meno che qualcuno non voglia insinuare che Mons. Gaenswein stia mentendo affermando che parla “a nome del Santo Padre emerito”, la risposta di Benedetto XVI è l’unica che avrebbe potuto dare un papa in sede impedita: “Vorrei, ma non posso”.

Il giuramento mai avvenuto

Peraltro, il teologo sostiene anche che Benedetto ha giurato obbedienza a Bergoglio, scrivendo: ”Le dimissioni di Benedetto sono sostanzialmente valide, i suoi intenti sono chiari, altrimenti egli non avrebbe fatto professione di obbedienza al nuovo Papa subito dopo la sua elezione”.

Questo semplicemente NON E’ VERO dato che in “Ultime conversazioni” (del 2016!) Benedetto XVI risponde  così al giornalista Seewald : “Nel prendere congedo dalla curia, come poté allora giurare obbedienza assoluta al suo futuro successore?" Risposta di Benedetto XVI: “Il papa è il papa, non importa chi sia”.

Ratzinger, infatti, dichiarò PRIMA del falso conclave, congedandosi dai cardinali il 28 febbraio 2013: “E tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza”. QUI

In questo modo sottintendeva che un suo successore legittimo avrebbe potuto esserci SOLO fra quegli stessi VERI cardinali, nominati da lui o da Giovanni Paolo II e non da eventuali antipapi. Parlava, dunque, di un successore che lui sta ancora aspettando, in vista di una sua futura abdicazione, oppure di un prossimo vero papa che, dopo la sua morte, si pronuncerà sulla sua sede impedita e il cui responso, Ratzinger, fin da allora, era disponibile ad accettare docilmente. Con questa straordinaria mossa preventiva, papa Benedetto ha fatto ritenere a tutti di aver giurato obbedienza a Bergoglio senza averlo mai fatto … e ci è cascato anche Padre Cavalcoli.

Ma i papi sono uno o due?

Così, una volta schivato comodamente l’insormontabile scoglio del Codice Ratzinger, Padre Cavalcoli può prendere il largo tra i marosi delle sue insolite teorie canoniche legittimiste dell’antipapa. Qui la maggior parte dei lettori si perde, ovviamente, ma tutti possono notare una cosa: i bergogliani dovrebbero mettersi d’accordo su una versione univoca.  Padre Cavalcoli dice che ci sono due papi, uno è a riposo e l’altro è attivo,  ma il vescovo Mons. Sciacca, primo canonista del Vaticano, dice QUI che di papa ce ne è soltanto uno: "Non può esistere un papato condiviso". Insomma, decidetevi.

Perfino Benedetto XVI insiste da anni: “il papa E’ uno solo” (e non spiega quale).

Ora, tale risposta tendenziosa, è talmente intuitiva da essere alla portata di un bambino di otto anni. Non lo diciamo per offendere: abbiamo davvero chiesto conferma a un noto pedagogista facendo poi un esperimento con un bimbo di otto anni al quale abbiamo proposto il quesito: “Luigino – chiede la mamma – hai preso tu la marmellata o tuo fratello?” E Luigino risponde: “La marmellata l’ha presa uno di noi due”. Anche il bimbo intervistato ha capito che Luigino ha qualcosa da nascondere. Figuriamoci se Luigino ripetesse tale solfa fin dal 2013. Caro Padre Cavalcoli, “se non tornerete come bambini….”, com’era?  

L' esempio del Conte

Ora, per spiegare in due parole la questione munus/ministerium e la teoria pro-usurpazione di Padre Cavalcoli, useremo un parallelo comprensibile a tutti: c’è un Conte che, insieme al feudo e al titolo nobiliare, (il munus), ha ricevuto anche la facoltà di amministrare le sue terre, (il ministerium).

Se il Conte lasciasse governare le sue terre a un amministratore, lui resterebbe sempre conte, e l’amministratore non diventerebbe conte, ovvio. Se l’amministratore disonesto si prende, però, anche il titolo nobiliare, vuol dire che lo sta usurpando e se il vero Conte non protesta vuol dire che questi è imprigionato o minacciato. Così è avvenuto con la sede impedita di Benedetto XVI.

In questo caso, infatti, il Conte (Ratzinger), minacciato e pressato dall’Amministratore infedele (Bergoglio), ha solo rinunciato all’amministrazione delle terre. Così, per sua stessa bramosia, l’amministratore Bergoglio, facendosi nominare papa, si è reso colpevole di “nobiltà abusiva e usurpazione” ed è divenuto ANTIPAPA. Avverrà così lo scisma purificatorio e quella separazione dei credenti dai non credenti, di cui ha parlato pochi mesi fa papa Ratzinger all’Herder Korrespondenz.

La teoria di Padre Cavalcoli

Padre Cavalcoli invece, sostiene, in sostanza, che il titolo di Conte (munus) equivale all'Amministrazione delle terre (ministerium) e che quindi il conte-Ratzinger, rinunciando all'amministrazione, ha passato di buon grado all’amministratore Bergoglio anche il titolo di conte. Quindi per don Cavalcoli ci SONO due conti: uno coi pieni poteri e uno a riposo. Una assurdità, smentita anche dai bergogliani che confermano, come sopra: il papa E’ uno. Del resto, “Tu SEI Pietro”, ha detto Cristo, non “VOI SIETE Pietro”.

Un'inversione canonica inaudita, quella di Padre Cavalcoli, funzionale solo  a giustificare l’usurpazione e il fatto compiuto.

La sua teoria circa l’equivalenza munus-ministerium è smentita completamente dal fatto che è proprio il Codice di Diritto Canonico che usa il munus nel significato specifico di ESSERE papa (cfr. canoni 253 § 1, 333 § 1, 425 § 1, 494 § 2, 749 § 1), mentre il ministerium è usato sempre e solo nel senso di FARE il papa (cfr. canoni 41, 230 § 3, 232, 245 § 1, 385, 1384).

Quindi, Ratzinger, applicando la GIÀ ESISTENTE distinzione canonica tra i due enti (e nient’affatto introducendo ex novo questa distinzione, come sostiene Padre Cavalcoli), ha dichiarato che avrebbe solo rinunciato al ministerium, ma conserva di fatto il munus, il titolo di papa che è UNICO e non può essere condiviso con nessuno. Per non parlare del suo differimento della “rinuncia”, del tutto impensabile, dato che a Dio (che si riprende il munus) certo non si possono dare incarichi “a scadenza”.

In sintesi, non c’è alcuna sinonimia e/o transitività fra munus e ministerium: se il papa rinuncia al munus, decade automaticamente anche dal ministerium  e abbiamo l’ABDICAZIONE.

Ma se il papa rinuncia al ministerium, non  decade affatto dal munus e abbiamo la SEDE IMPEDITA.

E’ per questo che nel canone 332.2, per un’ABDICAZIONE del papa, si richiede la rinuncia, guarda caso, al MUNUS petrino, al titolo, e non al ministerium.

Ecco perché il Santo Padre Benedetto XVI scrive, nel 2016, in puro “Codice Ratzinger” circa le proprie “dimissioni”: “Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio è stata un’eccezione”. Si riferisce all’eccezione del papa medievale Benedetto VIII che, come lui, perse il ministerium, usurpatogli dall’antipapa Gregorio VI. Ma rimase papa, come lo è rimasto lui.

Questa situazione di sede impedita, Benedetto XVI la ribadisce infallibilmente in decine di altri messaggi in Codice Ratzinger che Padre Cavalcoli si guarda bene dal prendere in considerazione, bollandoli sprezzantemente come “complottismi”.

La realtà è questa. Poi fate come volete. Ognuno si prenderà le sue responsabilità davanti alla storia e, per chi è credente, davanti a Dio.

Monsignor Gaenswein in Codice Ratzinger: c'è un papa legittimo e uno illegittimo. Il vero significato di "papa emerito". Finalmente decrittato un misterioso discorso del 2016. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 22 dicembre 2021

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Semplicemente straordinario. Mentre Netflix e la tv sparano furiose cannonate propagandistiche per coprire l’antipapato di Bergoglio in affondamento, si avvicina Natale e tutto si svela (per chi crede) sotto i raggi della “Luce del Mondo”.  Oggi siamo in grado di interpretare correttamente un misterioso discorso (affidato, all'epoca, opportunamente, all’agenzia cattolica Acistampa) pronunciato da Mons. Gänswein il 21 maggio 2016. Il segretario del papa presentava un libro su Benedetto XVI di don Roberto Regoli il quale giustamente si chiedeva come mai non fosse stata prevista una normativa canonica per regolamentare l'istituzione del Papa emerito: “È una lacuna di non poco conto, soprattutto quando dalla teoria della dottrina canonistica si è passati a un caso concreto. Non riesco a trovare ragioni per una tale omissione, che sarebbe da colmare”.

Vi chiariremo anche questo, se avrete la pazienza di seguirci.

Ma torniamo a bomba: l'avv. Estefania Acosta ci manda il commento dello stesso Gaenswein  sul suo discorso di presentazione: “Quando le fonti sono accessibili L'INTERO MOSAICO diventerà sempre più CHIARO. PER ADESSO CI SONO DIVERSI PEZZI DEL MOSAICO che si possono vedere IN UN MODO O NELL'ALTRO”.

Ed è esattamente quello che ripetiamo da diversi mesi, l’uso di anfibolie nel "Codice Ratzinger", QUI cioè frasi che possono essere interpretate in un senso o in un altro e che compongono un MOSAICO, appunto, un puzzle che stiamo ricostruendo.

Eppure, il discorso di presentazione fatto da Mons. Gaenswein, con un chiarissimo intervento di Benedetto XVI, non è molto ambiguo, anzi, è fin troppo esplicito.

Si parla inequivocabilmente di due schieramenti: da un lato, quello della Mafia di San Gallo, che, come ricorda Gaenswein sfruttando la gaffe del 2015 del card. Danneels, era quello che spingeva Bergoglio e, dall’altro, quello del Sale della terra (pro-Ratzinger).

Lo stesso Gaenswein li individua CLAMOROSAMENTE: "Benedetto XVI eletto dopo solo quattro scrutini a seguito di una drammatica lotta tra il cosiddetto “Partito del sale della terra” (“Salt of Earth Party”) intorno ai cardinali López Trujíllo, Ruini, Herranz, Rouco Varela o Medina e il cosiddetto “Gruppo di San Gallo” intorno ai cardinali Danneels, Martini, Silvestrini o Murphy-O’Connor; gruppo che, di recente, lo stesso cardinal Danneels di Bruxelles in modo divertito ha definito come “una specie di mafia-club”. L’elezione era certamente l’esito anche di uno scontro, la cui chiave quasi aveva fornito lo stesso Ratzinger da cardinale decano, nella storica omelia del 18 aprile 2005 in San Pietro; e precisamente lì dove a “una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” (Mafia) aveva contrapposto un’altra misura: “il Figlio di Dio e vero uomo” come “la misura del vero umanesimo”.  (Sale della terra) Più chiaro di così...

Mons. Gaenswein afferma che per Benedetto XVI la decisione di essere papa è stata IRREVOCABILE. “Trentacinque anni dopo egli non ha abbandonato l’ufficio di Pietro – cosa che gli sarebbe stata del tutto impossibile a seguito della sua accettazione IRREVOCABILE dell’ufficio nell’aprile 2005”. 

Come vedete c’è un’incoerenza, a volerla interpretare in modo politicamente corretto: la sua accettazione dell’ufficio non era irrevocabile per il diritto canonico, dato che c’è l’art. 332.2 che prevede proprio una rinuncia, ma era irrevocabile perché Ratzinger aveva deciso così per se stesso.

C’è infatti grande enfasi sulla svolta storica di Benedetto, definita “di portata millenaria”. Ma dove sarebbe questa portata millenaria in un papa che, “troppo anziano, è andato in pensione”? Mah?

Ce lo spiega Gaenswein in modo INEQUIVOCABILE dicendo: “Come ai tempi di Pietro, anche oggi la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica continua ad avere un unico Papa legittimo. E tuttavia, da tre anni a questa parte, viviamo con due successori di Pietro viventi tra noi – che non sono in rapporto concorrenziale fra loro, e tuttavia entrambi con una presenza straordinaria”.

Che vuol dire? C’è un solo papa legittimo ... ma ci sono due papi. Uhm… Com’è possibile? Ovvio, lo capirebbe anche un bambino: C'E' UN PAPA LEGITTIMO E UN PAPA ILLEGITTIMO! Non sono in concorrenza perché uno è papa e l’altro no.

E il segretario rincara la dose: “Dall’elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo”. Non vi SONO due papi, cioè uno solo E’ il papa. C’è un MEMBRO che FA il papa senza esserlo (Bergoglio) e uno che lo E’ ed è il solo legittimo papa. Per questo usa la parola indistinta “membro” e usa perfettamente gli ausiliari. Ecco spiegato il mistero del ministero allargato. Non è una questione canonica, ma storico-teologica-escatologica. 

Può usare il termine “successore” perché formalmente Francesco è il successore di Benedetto, ma non è un papa legittimo, è un antipapa non dichiarato (ancora), un membro di questo ministero allargato con papa legittimo e papa illegittimo.

C’è poi un clamoroso “aiutino” canonico di Gaenswein-Ratzinger: “La parola chiave di quella Declaratio è munus petrinum, tradotto – come accade il più delle volte – con “ministero petrino”. E tuttavia, munus, in latino, HA UNA MOLTEPLICITÀ DI SIGNIFICATI: può voler dire servizio, compito, guida o dono, persino prodigio”. Si fa riferimento proprio al fatto che il munus, che è stato tradotto con la parola ministero (così come anche ministerium) è la chiave per capire la sua sede impedita. Come abbiamo già scritto ieri QUI, se munus può avere vari significati, tra cui quello di dono, incarico, titolo, e non solo di esercizio pratico, il ministerium è usato nel diritto canonico SOLO come esercizio pratico. Quindi distinguendo i due enti, Ratzinger ha escluso ogni sinonimia e ha rinunciato solo all’esercizio pratico, non al titolo, ergo si è autoesiliato in sede impedita. Non ci sono santi.  

Incredibile come prosegue Gaenswein: “Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune, secondo il suo motto: “cooperatores veritatis”, che significa appunto “cooperatori della verità”. Infatti è tratto dalla Terza Lettera di Giovanni, nella quale al versetto 8 è scritto: “Noi dobbiamo accogliere queste persone per diventare cooperatori della verità”.

Qui si capisce, oltre all’affabile gentilezza che Ratzinger riserva a Bergoglio, tutto il gigantesco, millenario disegno escatologico di cui Benedetto XVI è protagonista: Il suo" ministero allargato è in comune con l’antipapa usurpatore, con il papa illegittimo, e Benedetto lo accoglie perché anche Bergoglio ha un ruolo (inconsapevole) nel cooperare alla verità. Così come Giuda, potremmo dire, è stato compartecipe del sacrificio di Cristo.

Si aggiunge, infatti, in merito alla scelta: “Dio poteva, perciò la fece”. Benedetto si è sacrificato come il Salvatore, ha sacrificato il suo potere “per non anteporre nulla a Cristo”.

Solo infatti dalla rivelazione di questa clamorosa realtà, solo dal crollo dell’impostura di quella dittatura del relativismo di cui sopra, si affermerà la verità di Gesù. 

Ed ecco il mondo nuovo che apre papa Benedetto: quando dice di trovarsi alla fine del vecchio mondo e all’inizio del nuovo. Una nuova era in cui si affermerà la verità di Cristo contro l’impostura anticristica.

Ecco perché, si chiede Mons Gaenswein: "Ma è già il momento per fare un bilancio del pontificato di Benedetto XVI? In generale, nella storia della Chiesa, solo ex post i papi possono essere giudicati e inquadrati correttamente."

Vale a dire: la partita non è finita. Piano col giudicare il pontificato di Benedetto XVI senza aver prima “capito”).

Vi gira la testa? Ne siamo consapevoli.

Prima di lasciarvi, vi diciamo quale è IL VERO SENSO DI “PAPA EMERITO”, come abbiamo capito grazie a un input del latinista Gianluca Arca.

Emerito non va inteso in senso giuridico, come “vescovo a riposo”. Sia perché lo status canonico non esiste, come sottolineato da don Regoli, sia perché è un ossimoro: il papa non potrebbe mai essere emerito, come già affermato dai canonisti Boni, Fantappié, Margiotta-Broglio etc.

L’aggettivo va inteso per forza come letterario-storico-qualificativo, nel senso etimologico originario, cioè di meritevole da “emereo”: qualcuno che mantiene una carica o un titolo perché ne ha diritto anche se non è attivo dato che, in questo caso, è stato privato del suo potere e costretto alla sede impedita.

Siccome l’antipapa non è stato dichiarato, dato che Benedetto si trova “nelle sue mani”, egli E’ per forza il PRIMO PAPA EMERITO DELLA STORIA ovvero il papa che resta tale per diritto acquisito anche se privo del ministerium in quanto impedito. Anche stavolta, Benedetto non ha MENTITO. Siamo NOI che non abbiamo capito per otto anni. Così come non mente in questa meravigliosa risposta al giornalista Seewald in “Ultime conversazioni”:

Domanda “Anche un papa emerito ha paura della morte?”

Ratzinger: “Per certi versi sì. In primo luogo c’è il timore di esser di peso agli altri a causa di UNA LUNGA INVALIDITÀ”. L’invalidità non è quella sua, ma “per un altro verso” è l’invalidità di Bergoglio come papa.

Questa è sottile: vedrete, i bergogliani ci si attaccheranno come naufraghi su un pezzo di legno e parleranno di “complottismo”, state pronti. Ma è Natale e facciamo un regalino anche a loro.  

Di seguito, tutto il discorso di Mons. Gaenswein: Fra parentesi, le nostre “decrittazioni”.

21 maggio, 2016 / 11:30 AM (ACI Stampa).- 

"In una delle ultime conversazioni che il biografo del Papa, Peter Seewald di Monaco di Baviera, poté avere con Benedetto XVI, nel congedarsi gli chiese: “Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?”. La risposta del Papa fu breve e sicura: “L’una e l’altro” rispose.

Il registratore era già spento; ecco perché quest’ultimo scambio di battute non si trova in nessuno dei libri-intervista di Peter Seewald, neanche nel famoso Luce del mondo. Si rinvengono solo in un’intervista, che egli concesse al Corriere della Sera all’indomani della Dichiarazione di rinuncia di Benedetto XVI, nella quale il biografo si ricordò di quelle parole chiave che figurano in certo qual modo come massima sul libro di Roberto Regoli.

In effetti devo ammettere che forse è impossibile riassumere più concisamente il pontificato di Benedetto XVI. E lo afferma chi in tutti questi anni ha avuto il privilegio di fare da vicino esperienza di questo Papa come un classico “homo historicus”, l’uomo occidentale per eccellenza che ha incarnato la ricchezza della tradizione cattolica come nessun altro; e che – nello stesso tempo – è stato talmente AUDACE da aprire la porta a una nuova fase, per quella SVOLTA STORICA che nessuno cinque anni fa si sarebbe potuto immaginare. Da allora viviamo in un’epoca storica che nella bimillenaria storia della Chiesa è senza precedenti. (Come potrebbe essere stato audace andando in pensione? Lo spiega poco dopo).

Come ai tempi di Pietro, anche oggi la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica continua ad avere UN UNICO PAPA LEGITTIMO. E tuttavia, da tre anni a questa parte, viviamo con DUE SUCCESSORI DI PIETRO viventi tra noi – che non sono in rapporto concorrenziale fra loro, e tuttavia entrambi con una presenza straordinaria! (Un papa legittimo e uno illegittimo, antipapa non dichiarato).

 Potremmo aggiungere che lo spirito di Joseph Ratzinger in precedenza ha già segnato in modo decisivo il lungo pontificato di san Giovanni Paolo II, che egli fedelmente servì per quasi un quarto di secolo come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Molti continuano a percepire ancor oggi questa situazione nuova come una sorta di stato d’eccezione voluto dal Cielo.

(Chissà quale sarà mai questo stato di eccezione se non il “Piano B”?).

Ma è già il momento per fare un bilancio del pontificato di Benedetto XVI? In generale, nella storia della Chiesa, solo ex post i papi possono essere giudicati e inquadrati correttamente.

(La partita non è finita. Piano col giudicare il pontificato di Benedetto XVI senza aver prima “capito” il Piano B).

E a riprova di questo, Regoli stesso menziona il caso di Gregorio VII, il grande papa riformatore del Medioevo, che alla fine della sua vita morì in esilio a Salerno – da fallito, a giudizio di tanti suoi contemporanei. E tuttavia, proprio Gregorio VII fu colui che, in mezzo alle controversie del suo tempo, plasmò in modo decisivo il volto della Chiesa per le generazioni che seguirono.

(Gregorio VII fu infatti fautore della Riforma gregoriana, che ebbe un tale impatto da far parlare de “Il Rinascimento del XII secolo”).

 Tanto più audace, perciò, sembra oggi essere il professor Regoli nel tentare di tracciare già un bilancio del pontificato di Benedetto XVI ancora vivente.

(Piano col trinciare giudizi, la partita non è finita affatto: vedrete quando si svelerà la sede impedita).

La quantità di materiale critico che a questo scopo egli ha visionato e analizzato è poderosa e impressionante. Infatti Benedetto XVI è e resta straordinariamente presente anche con i suoi scritti: sia quelli prodotti da papa – i tre libri su Gesù di Nazaret e sedici (!) volumi di Insegnamenti che ci ha consegnato nel suo pontificato – sia come professor Ratzinger o cardinale Ratzinger, le cui opere potrebbero riempire una piccola biblioteca.

E così, quest’opera di Regoli non manca di note a piè di pagina, numerose quanti sono i ricordi che essa risveglia in me. Perché ero presente quando Benedetto XVI, alla fine del suo mandato, depose l’anello piscatorio, (depose il potere pratico, ma senza spezzare l'anello come da prassi) come è d’uso all’indomani della morte di un papa, anche se in questo caso egli viveva ancora! Ero presente quando egli, invece, decise di non rinunciare al nome che aveva scelto, come invece aveva fatto papa Celestino V quando il 13 dicembre 1294, a pochi mesi dall’inizio del suo ministero, era ridiventato Pietro dal Morrone.

(Appunto, all'opposto di Celestino V, che abdicò e scappando fu fatto prigioniero, Benedetto XVI è rimasto papa e si è autoimprigionato in sede impedita)

Perciò, dall’undici febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. (è dimezzato) È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d’eccezione (Ausnahmepontifikat), (chissà che sarà questo pontificato d’eccezione?) rispetto al quale il sobrio cardinale Sodano, reagendo con immediatezza e semplicità subito dopo la sorprendente Dichiarazione di rinuncia, profondamente emozionato e quasi preso dallo smarrimento, aveva esclamato che quella notizia era risuonata fra i cardinali riuniti “come un fulmine a ciel sereno”.

(Sodano leggeva un biglietto, scritto probabilmente dal papa. Non reagì affatto con immediatezza, vedere il video. Chiaro input a controllare).

Era la mattina di quello stesso giorno in cui, di sera, un fulmine chilometrico con un incredibile fragore colpì la punta della cupola di San Pietro posta sopra la tomba del Principe degli apostoli. Di rado il cosmo ha accompagnato in modo più drammatico una svolta storica. Ma la mattina di quell’undici febbraio il decano del Collegio cardinalizio Angelo Sodano concluse la sua replica alla Dichiarazione di Benedetto XVI con una prima e analogamente cosmica valutazione del pontificato, quando alla fine disse: “Certo, le stelle nel cielo continueranno sempre a brillare e così brillerà sempre in mezzo a noi la stella del suo pontificato”.

(Come dicevamo: il suo pontificato resta come una stella)

Ugualmente brillante e illuminante è l’esposizione approfondita e ben documentata di don Regoli delle diverse fasi del pontificato. Soprattutto dell’inizio di esso nel conclave dell’aprile del 2005, dal quale Joseph Ratzinger, dopo una delle elezioni più brevi della storia della Chiesa, uscì eletto dopo solo quattro scrutini a seguito di una drammatica lotta tra il cosiddetto “Partito del sale della terra” (“Salt of Earth Party”) intorno ai cardinali López Trujíllo, Ruini, Herranz, Rouco Varela o Medina e il cosiddetto “Gruppo di San Gallo” intorno ai cardinali Danneels, Martini, Silvestrini o Murphy-O’Connor; gruppo che, di recente, lo stesso cardinal Danneels di Bruxelles in modo divertito ha definito come “una specie di mafia-club”. L’elezione era certamente l’esito anche di uno scontro, la cui chiave quasi aveva fornito lo stesso Ratzinger da cardinale decano, nella storica omelia del 18 aprile 2005 in San Pietro; e precisamente lì dove a “una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” aveva contrapposto un’altra misura: “il Figlio di Dio e vero uomo” come “la misura del vero umanesimo”.

(Qui definisce gli schieramenti, cristiano contro non cristiano).

Questa parte dell’intelligente analisi di Regoli oggi si legge quasi come un giallo mozzafiato di non troppo tempo fa; mentre invece la “dittatura del relativismo” da tempo si esprime in modo travolgente attraverso i molti canali dei nuovi mezzi di comunicazione che, nel 2005, a stento si potevano immaginare. (Allusione chiara alla potente macchina propagandista dello schieramento bergogliano della Mafia di San Gallo Cfr. dittatura relativista).

L’esposizione di questi avvenimenti da parte di Regoli merita considerazione anche perché egli non avanza la pretesa di sondare e spiegare completamente quest’ultimo, misterioso passo; (misterioso?) non arricchendo così ulteriormente quel pullulare di leggende con ulteriori supposizioni che nulla o quasi hanno a che vedere con la realtà. (nessuno ha capito niente)  E io pure, testimone immediato di quel passo spettacolare e inaspettato di Benedetto XVI, devo ammettere che per esso mi viene sempre di nuovo in mente il noto e geniale assioma con il quale nel Medioevo Giovanni Duns Scoto giustificò il divino decreto per l’immacolata concezione della Madre di Dio:

“Decuit, potuit, fecit”.

Vale a dire: era cosa conveniente, perché era ragionevole. Dio poteva, perciò la fece. (Dio si è sacrificato quindi posso farlo anche io) Io applico l’assioma alla decisione delle dimissioni nel modo seguente: era conveniente, perché Benedetto XVI era consapevole che gli veniva meno la forza necessaria per il gravosissimo ufficio. Poteva farlo, perché già da tempo aveva riflettuto a fondo, dal punto di vista teologico, sulla possibilità di papi emeriti per il futuro. Così lo fece.

Le dimissioni epocali del Papa teologo hanno rappresentato un passo in avanti essenzialmente per il fatto che l’undici febbraio 2013, parlando in latino di fronte ai cardinali sorpresi, egli introdusse nella Chiesa cattolica la nuova istituzione del “Papa emerito”, dichiarando che le sue forze non erano più sufficienti “per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”. La parola chiave di quella Dichiarazione è munus petrinum, tradotto – come accade il più delle volte – con “ministero petrino”. E tuttavia, munus, in latino, ha una molteplicità di significati: può voler dire servizio, compito, guida o dono, persino prodigio. Prima e dopo le sue dimissioni Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione a un tale “ministero petrino”. Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell’11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato QUESTO MINISTERO. Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune, come se con questo volesse ribadire ancora una volta l’invito contenuto in quel motto che l’allora Joseph Ratzinger si diede quale arcivescovo di Monaco e Frisinga e che poi ha naturalmente mantenuto quale vescovo di Roma: “cooperatores veritatis”, che significa appunto “cooperatori della verità”. Infatti non è un singolare, ma un plurale, tratto dalla Terza Lettera di Giovanni, nella quale al versetto 8 è scritto: “Noi dobbiamo accogliere queste persone per diventare cooperatori della verità”. (Accoglie l’antipapa usurpatore perché sia testimone con lui della verità).

Dall’elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. (un antipapa che fa e un papa che sta a guardare) Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è “Santità”;  e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore (un vero successore, non Bergoglio, al quale fa spazio liberandogli la chiesa dai nemici) e a una nuova tappa nella storia del papato che egli, con quel passo, ha arricchito con la “centrale” della sua preghiera e della sua compassione posta nei Giardini vaticani.

È stato “il passo meno atteso nel cattolicesimo contemporaneo”, scrive Regoli, e tuttavia una possibilità sulla quale il cardinale Ratzinger aveva riflettuto pubblicamente già il 10 agosto 1978 a Monaco di Baviera in un’omelia in occasione della morte di Paolo VI.

«Quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Giovanni, 21, 18). Era un accenno alla croce che attendeva Pietro alla fine del suo cammino. Era, in generale, un accenno alla natura di questo servizio. (Il clou non è quando sarai vecchio ma sarai portato dove tu non vuoi)

Trentacinque anni dopo egli non ha abbandonato l’ufficio di Pietro – cosa che gli sarebbe stata del tutto impossibile a seguito della sua accettazione irrevocabile dell’ufficio nell’aprile 2005.  (dice che nel 2005 aveva accettato irrevocabilmente, quindi siccome la rinuncia è possibile vuol dire che lui non avrebbe mai rinunciato al papato)

Con un atto di straordinaria audacia egli ha invece rinnovato quest’ufficio (anche contro l’opinione di consiglieri ben intenzionati e senza dubbio competenti) e con un ultimo sforzo lo ha potenziato (come spero). Questo certo lo potrà dimostrare unicamente la storia. Ma nella storia della Chiesa resterà che nell’anno 2013 il celebre Teologo sul Soglio di Pietro è diventato il primo “Papa emeritus” della storia.

Da allora il suo ruolo – mi permetto ripeterlo ancora una volta – è del tutto diverso da quello, ad esempio, del santo papa Celestino V, che dopo le sue dimissioni nel 1294 avrebbe voluto ritornare eremita, divenendo invece prigioniero del suo successore Bonifacio VIII (al quale oggi dobbiamo nella Chiesa l’istituzione degli anni giubilari). Un passo come quello compiuto da Benedetto XVI fino ad oggi non c’era appunto mai stato. (appunto non un’abdicazione come Celestino V ma un auto esilio in sede impedita)

 Per questo non è sorprendente che da taluni sia stato percepito come rivoluzionario, o al contrario come assolutamente conforme al Vangelo; (il sacrificio di sé, come Gesù)  mentre altri ancora vedono in questo modo il papato secolarizzato come mai prima, e con ciò più collegiale e funzionale o anche semplicemente più umano e meno sacrale. E altri ancora sono dell’opinione che Benedetto XVI, con questo passo, abbia quasi – parlando in termini teologici e storico-critici – demitizzato il papato. (hanno torto i tradizionalisti che vedono una mossa modernista in senso collegiali stico)

... Potrebbero ancora venirmi le lacrime agli occhi, e tanto più per avere io visto di persona e da vicino quanto incondizionata, per sé e per il suo ministero, sia stata l’adesione di Papa Benedetto alle parole di san Benedetto, per cui “nulla è da anteporre all’amore di Cristo”, nihil amori Christi praeponere, come è detto nella regola tramandataci da Papa Gregorio Magno. (nulla, nemmeno il potere papale, può essere anteposto a Cristo).

Ne fui allora testimone, ma tuttora rimango affascinato dalla precisione di quell’ultima analisi in Piazza San Pietro che suonava così poetica, ma era nient’altro che profetica. Infatti sono parole che oggi anche Papa Francesco immediatamente potrebbe sottoscrivere e sottoscriverebbe senz’altro. (se sapesse, se si convertisse) Non ai papi ma a Cristo, al Signore stesso e a nessun altro appartiene la navicella di Pietro frustata dalle onde del mare in tempesta, quando sempre di nuovo temiamo che il Signore dorma e che non gli importi delle nostre necessità, mentre gli basta una sola parola ("sede impedita") per far cessare ogni tempesta; quando invece a farci cadere di continuo nel panico, più che le alte onde e l’ululato del vento, sono la nostra incredulità, la nostra poca fede e la nostra impazienza. (non temete che tutto si risolverà)

Così questo libro getta ancora una volta uno sguardo consolante sulla pacifica imperturbabilità e serenità di Benedetto XVI, al timone della barca di Pietro negli anni drammatici 2005-2013. (al timone, appunto con ruolo attivo fino al 2013, oggi con ruolo contemplativo da papa autoesiliatosi in sede impedita).

Come Papa Ratzinger ha detto sempre la Verità e perché aprirà un mondo nuovo. Bergoglio potrebbe divenire il Grande Penitente. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Alla Vigilia di Natale, vogliamo darvi un messaggio di speranza: la quadratura del cerchio sulla nostra inchiesta che dura, ormai, da due anni. E che troverete riordinata in modo completo in fondo a questo articolo.

Partendo da quegli errori di latino e da quella frase di papa Benedetto “il papa è uno” (senza specificare quale) , abbiamo immerso le mani in un viluppo inestricabile di fatti, dichiarazioni, contraddizioni e diatribe canoniche su questa incomprensibile vicenda dei due papi. Piano piano, con la pazienza di un pescatore che si trovi a dipanare una lenza aggrovigliata, si è sciolto tutto. Noi non abbiamo fatto nulla, ma è come se il “tarlo logico” inconscio presente nella mente di ognuno di noi avesse lavorato, notte dopo notte, riorganizzando i fatti, ricomponendo, con il metodo di un restauratore, quel “mosaico” di cui parla Mons. Gaenswein.

La bella notizia è che il Vicario di Cristo, il vero papa Benedetto XVI non ha mai abbandonato il suo popolo. Anzi, sta per rivelare qualcosa di portata storica, "sta per aprire un mondo nuovo" come dice lui stesso.

Nel corso di questa inchiesta, ci è sembrato a volte come papa Benedetto avesse potuto ricorrere a dei “trucchi”, sebbene per legittima difesa, aggredito nel suo diritto di esercitare il suo pontificato.

MA IL PAPA NON HA MAI MENTITO.

Vediamo come ci è riuscito: nel 2013 ha candidamente dichiarato di rinunciare al ministerium, l’esercizio pratico del suo potere, senza rinunciare al munus, il titolo papale. Così ha lasciato “libera, vuota” la sede di San Pietro (non “vacante” come hanno tradotto) QUI lasciandola a disposizione degli usurpatori.

In tal modo è entrato de facto in sede impedita, secondo il Diritto canonico, a partire dalle ore 20.00 del 28 febbraio 2013. E infatti, poco prima, aveva candidamente specificato dal balcone di Castel Gandolfo che non sarebbe stato più “pontefice sommo” QUI - (e non “Sommo Pontefice” come hanno trascritto) - ovvero non sarebbe stato più il papa “al primo e più alto posto”, ma avrebbe condiviso una sorta di “ministero allargato”, composto – come ha spiegato Mons. Gaenswein - da un solo papa legittimo (lui) e da uno illegittimo (Francesco). Altro che “collegialismo modernista”, come insinuano certi tradizionalisti…

Per questo, papa Ratzinger dice di non aver nulla a che vedere con Celestino V che abdicò e, scappando, fu imprigionato. Al contrario, Benedetto XVI non ha abdicato e non è scappato davanti ai lupi: si è autoimprigionato liberamente, con scelta libera e consapevole, in sede impedita, con un sacrificio di sé come quello compiuto da Cristo di cui è il Vicario.

Così, egli può scrivere in modo perfettamente coerente che, come lui, “nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio è stata un’eccezione”. QUI Non sbaglia: si riferisce a quel papa medievale che aveva perso il potere pratico restando papa, Benedetto VIII.

Non è un caso che Ratzinger porti il suo nome, come quello di San Benedetto, salvatore della cultura e dell’identità europea, e di Benedetto XV, il papa inascoltato e incompreso di quella Grande Guerra che dilaniò la stessa Europa.

Bergoglio è quindi, inconsapevolmente - come antipapa usurpatore - un cooperatore della Verità, secondo il motto di Benedetto XVI: “cooperatores veritatis”. QUI

Con la rivelazione della sua illegittimità, si svelerà l’impostura della dittatura anticristica del relativismo di cui il Gruppo di San Gallo era l’alfiere QUI. Così, saranno “separati i credenti dai non credenti” e si compirà quella necessaria, escatologica intenzione del vero pontefice di “purificare l’intera Chiesa” come Benedetto dichiarò all’Herder Korrespondenz e al giornalista Seewald.

Chi lo sa, forse Bergoglio potrebbe pentirsi in tempo utile, confessando tutto e rinnegando i suoi progetti mondialisti, demolitori del Cattolicesimo, e la sua pseudospiritualità massonico-anticristica. Oltre a salvarsi l’anima, passerebbe alla storia come il “Grande penitente”, quel “Giuda salvato” che lo ossessiona da decenni e che vuole a tutti i costi riconoscere nel becchino del capitello di Vezelay QUI. Bergoglio diverrebbe così un - tardivamente consapevole - cooperatore della Verità. Ma se non si inginocchia mai davanti al Santissimo, difficile che possa farlo ai piedi del Suo Vicario.

In ogni caso, Benedetto XVI che, pure, non gli ha mai giurato obbedienza, prega per lui e per il suo “episcopato”, che in tedesco si dice “Pontifikat”, dato che l’argentino è rimasto vescovo. Questo scrisse Benedetto al suo principale nemico, il super-modernista filomassone Hans Küng . QUI

Dunque, Benedetto XVI è davvero “il primo Papa emerito della storia”: un titolo non canonico, dato che non esiste alcuna giurisprudenza in proposito, QUI ma è un titolo semplicemente qualificativo-fattuale: egli è emerito, da emereo, perché è l’unico degno, L’UNICO CHE HA DIRITTO di mantenere il titolo di papa, anche se ha dovuto rinunciare al potere pratico in quanto, per l’ingravescente aetate, non aveva più le forze di opporsi ai suoi nemici e al loro ammutinamento. Ha detto sempre la verità, come vediamo. 

Se San Giovanni Paolo II è stato detto Il Grande, Benedetto XVI passerà alla storia come il Papa Emerito, il Meritevole, l’Insigne, l’Eroe autosacrificatosi per vincere una guerra escatologica. Grazie a lui terminerà il Diluvio, il castigo, per la Chiesa e non solo. Forse così si spiegherebbe quel “de gloriae olivae”, la gloria dell’ulivo, che lo pseudo-San Malachia gli affibbiò come motto. Chissà. (Ora guardate i bergogliani come si serviranno di questa considerazione per attaccarci. Classic).

Così, mentre Benedetto XVI diceva semplicemente la verità, nel modo più candido e profondamente, intelligentemente ESATTO, i suoi nemici, dominati dalla brama di potere, hanno pensato superficialmente il contrario e si sono distrutti da soli, scismandosi dalla Chiesa e creando un antipapato. In effetti, si può dire che è stata una “burla divina”: il più grande scherzo di Carnevale della storia e Ratzinger scelse non a caso il Lunedì grasso per la Declaratio. QUI

Per sua stessa volontà, Benedetto XVI accettò il papato in modo irrevocabile, anche se il diritto canonico consente la rinuncia. Lo disse lui stesso: “La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi (la sua elezione n.d.r.) ero impegnato SEMPRE E PER SEMPRE dal Signore”. QUI

Ci ha sempre detto la più pura verità, ma noi siamo stati ciechi e sordi.

Per questo, oggi Benedetto ha la talare bianca in quanto “era la veste più pratica”; per simboleggiare un papa impedito infatti non sono previsti “altri abiti”, ma egli oggi è comunque del tutto riconoscibile dato che veste “in modo diverso” da un papa normale.  

Per questo motivo “il prossimo (vero) Sommo Pontefice”, scrive nella Declaratio, dovrà essere nominato da “coloro a cui compete”, cioè i veri cardinali nominati da lui e non dal papa illegittimo Francesco il quale, come dice Benedetto XVI, “ha SCELTO di vestirsi di bianco” non volendo accontentarsi della veste rossa da cardinale che gli spettava QUI.

Papa Ratzinger non può parlare più direttamente, perché la sua sede impedita non glielo consente e per questo motivo, quando gli abbiamo chiesto un’intervista, ci ha scritto che “pur con ogni buon intento di riceverci, proprio non è possibile” QUI corredando la lettera del suo stemma da papa regnante, al quale non ha mai rinunciato QUI. Ma c’è anche un motivo teologico, dato che Iddio parla nel silenzio e nella purezza delle intenzioni. Così, allo stesso modo, lui con il Codice Ratzinger parla sottovoce, QUI ma chiaramente e ci raccomanda di aspettare a giudicare il suo pontificato, che avrà portata millenaria e che aprirà "un nuovo mondo".

E’ ancora fra noi uno dei più giganteschi papi della storia della Chiesa: un genio della Fede che ci ha rivelato, con il sacrificio di se stesso, come la Verità sia piccola, semplice, nascosta eppure luminosa come un certo Bimbo nato in una grotta. Ci ha dimostrato come questa Verità si possa scoprire con la Logica, dal Logos, il Verbo che si è incarnato. Dio lo aveva fatto  "era cosa conveniente, perché era ragionevole". QUI E così lo ha fatto anche lui. 

Il suo gesto storico è però un messaggio pratico, una dimostrazione empirica rivolta anche ai laici, col rispetto che papa Benedetto ha sempre avuto per chi non crede: questa rivelazione parla infatti di una sorta di Spirito Logico della Verità, di una sorta di darwiniano “Tempo Galantuomo” che respira nella storia, insieme all’umanità.

Il finale ve lo abbiamo anticipato, dunque e, anche se questo piccolo articolo, su un piccolo blog, sarà ignorato o sbeffeggiato con la solita estenuante accusa di “complottismo” (termine coniato dalla CIA per emarginare gli increduli alla narrativa su JFK) niente potrà fermare l’avanzata della Verità.

Questo giorno in particolare ci ricorda come tutte le grandi cose abbiano sempre avuto piccoli inizi.

Papa Ratzinger: scoperto il perché degli errori di latino nella Declaratio. Altro che complottismi. Spunta un'udienza del 2008 che spiega tutto. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 27 dicembre 2021

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.  C’era una volta il giornalismo d’inchiesta: si indagavano fatti, documenti, e testimonianze e, non di rado, si scopriva che la versione ammannita dall’alto, non rispondeva al vero.

Oggi, invece, secondo alcuni, sarebbe professionalmente più apprezzabile chi dà retta in modo acritico alla vulgata ufficiale.

Eppure, senza alcuni giornalisti un po’ pedanti e sospettosi, ancora non sapremmo nulla dello scandalo Standard Oil, dei crimini di Stalin o del Watergate. Chissà se anche quegli inarrivabili colleghi dovevano fare i conti con contestatori che usavano - in modalità “idrante” - l’espressione “complottista”, una forma di recinzione socio-psicologica che sarebbe stata messa a punto dalla CIA nei primi anni ‘60 per ghettizzare gli scettici sulla ricostruzione dell’assassinio di Kennedy offerta dalla Commissione Warren.  

Comunque, veniamo al sodo: vi sveliamo quale può essere stata, con ogni probabilità, la fonte di ispirazione che ha condotto papa Ratzinger a inserire due clamorosi errori di latino nella sua Declaratio di sede impedita dell’11 febbraio 2013 e a usare, per tutto il documento, un latino dozzinale, corredato di almeno 20 imperfezioni linguistiche rilevate da filologi di fama mondiale come Wilfried Stroh e Luciano Canfora. (Sempre se costoro, complottisticamente, non abbiano voluto vedere errori di sintassi dove non ce ne sono).

L’email codiceratzinger@libero.it funziona: ci arrivano tante segnalazioni validissime e, fra queste, quella del sig. Sergio Modenese che cita un’udienza generale del 20 Febbraio 2008, dove papa Benedetto XVI, parlando a proposito di S. Agostino, spiegava come il Santo di Ippona, pure essendo un eccellente latinista, (come lui) avesse deciso di utilizzare un latino gergale, con errori, per COMUNICARE CON IL POPOLO. In particolare nel “Salmo contro il partito di Donato”, un vescovo scismatico africano. Queste le parole di papa Ratzinger: 

"E PER FARSI CAPIRE DAI SEMPLICI, che non potevano comprendere il grande latino del retore, Agostino ha deciso: devo scrivere, anche con errori grammaticali, in un latino molto semplificato." […] "E lo ha fatto soprattutto in questo Salmo, una specie di poesia semplice contro i donatisti, per aiutare tutta la gente a capire che solo nell’unità della Chiesa si realizza per tutti realmente la nostra relazione con Dio e cresce la pace nel mondo." Il documento ufficiale lo troverete QUI, sul sito vaticano (e non su quello dei terrapiattisti). 

Ora, fin dal 2021 avevamo compreso (secondo il desueto, ma ancora efficiente metodo logico-deduttivo) che la Declaratio fosse stata scritta APPOSTA dal papa in un latino mediocre, visto che la fretta non avrebbe mai potuto essere stata corresponsabile di quegli errori. Benedetto XVI scrive in “Ein Leben” (2020) che, ci aveva impiegato due settimane a comporre quelle 1700 battute, poi passate al vaglio della Segreteria di Stato per correzioni formali e giuridiche (!), sotto il sigillo del Segreto pontificio, (chissà perché?).

Questi errori inseriti opportunamente dovevano quindi essere per forza volti ad attirare l’attenzione sul reale contenuto giuridico del documento.

Abbiamo scoperto, infatti, sulla base del Diritto canonico indagato da giuristi universitari (e non tramite proiezioni fantasiose) che la Declaratio annunciava non un’abdicazione, ma una sede impedita.

Se il pontefice rinuncia simultaneamente al munus, il titolo di papa, c’è l’abdicazione, e il papa non è più papa (canone 332.2).

Se rinuncia, come ha fatto Ratzinger, fattualmente e in modo differito al ministerium, l’esercizio pratico del potere, non può esserci che una sede impedita e il papa resta IL papa, anche se confinato. Nessuna sinonimia o transitività fra i due termini, come spiega Mons. Gaenswein QUI Ecco perché “il papa è uno”: Benedetto XVI, mentre Francesco, simpatico, o meno che sia, è un antipapa.

Ora, il discorso su S. Agostino spiega perfettamente come papa Ratzinger abbia VOLUTAMENTE inserito errori e imperfezioni di latino proprio per AIUTARE LA GENTE A CAPIRE, anche in questo caso, la situazione di un vescovo scismatico, (il futuro antipapa) proprio come fu quella del vescovo Donato.

Infatti, tali discrasie avrebbero richiamato l’attenzione solo di filologi e latinisti, ma i giornali avrebbero poi sicuramente titolato “Il papa ha sbagliato il latino!”, come infatti avvenne.

Anche se qualche tempo dopo le nostre prime indagini del 2020, il Corriere della Sera ha fatto sparire dalla pagina nazionale del suo sito l’articolo del prof. Luciano Canfora, tuttavia, ne è rimasta una traccia sulla cronaca di Bari (Canfora è barese): QUI 

E infatti, proprio grazie a quei titoli di giornale ci siamo incuriositi e abbiamo scoperto lo straordinario, incredibile progetto escatologico di papa Benedetto da noi denominato “Piano B” che oggi sta circolando per il mondo tradotto in sette lingue.

Viene confermata ancora la raccomandazione di Mons. Gaenswein: “Quando le fonti sono accessibili L'INTERO MOSAICO diventerà sempre più CHIARO” QUI: infatti, grazie a un lettore attento, siamo potuti risalire alla fonte di ispirazione di quegli stranissimi errori di latino e chiudere il cerchio.  

Vi sembra un discorso espresso in modo coerente? Avete letto qualcosa di men che oggettivo e/o logico?

Ora, qualsiasi collega voglia contestare l’inchiesta è il benvenuto: un contraddittorio, serio e documentato, è il miglior servizio che si possa fare ai lettori. ONORE a Libero che – davvero liberalmente – ospita posizioni di vario orientamento per uno scambio proficuo.

QUI in fondo ci sono i 52 articoli in cui tutto il lavoro è stato riordinato: da leggere soprattutto i capitoli 1,2,5,6-14. Buon lavoro. Se è la verità quella che interessa, si discute volentieri nel merito, con garbo professionale e raziocinio.

Ma non è un gioco: si tratta di una faccenda tremendamente seria che riguarda un miliardo e 285 milioni di persone; un lavoro condotto investendo centinaia di ore di lavoro su un blog (gratis, quindi), per due anni e con il coinvolgimento di decine di professionisti e religiosi che ci hanno messo la faccia.

Quindi, la parola un tantino offensiva e abusata “complottismo”, gentilmente, lasciamola alla CIA.

Papa Ratzinger: l'intervista di Henry Sire e le incomprensioni dei tradizionalisti sul "Piano B" di Benedetto XVI. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 13 dicembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

In fotografia vedete il Santo Padre Benedetto XVI fotografato pochi giorni fa con un vero presepe, ben diverso da quello pachamamico-sincretista-antipapale allestito in Piazza San Pietro QUI proveniente dal villaggio degli ultimi adoratori dell’Anti-Madonna, la Pachamama. La foto NON può essere considerata un esplicito messaggio in Codice Ratzinger QUI perché non c’è alcuna incoerenza palese, (è normale che Benedetto si possa far riprendere con un simbolo natalizio) ma chi ha occhi per vedere, vede benissimo.

La vera incoerenza, perdonateci, oggi è costituita da coloro che, pur di fronte a evidenze macroscopiche, si ostinano a lamentarsi di Bergoglio, considerandolo papa e dicendogliene di tutti i colori, senza voler documentarsi sull’ormai definitivamente chiarito “Piano B” di papa Ratzinger  e/o senza volerne NEMMENO DISCUTERE, come se temessero di affrontare una questione "troppo bella per essere vera".

Il neo-dogma depressivo “Ratzinger-modernista-ci-ha-infilati-in-questo-macello” è come la rasputitsa, il terribile fango del disgelo della steppa russa. Una volta che ci si è impantanati, non se ne esce più, se non, forse, dopo mezzo secolo, tirati fuori da una gru, come quei carri armati T 34 sovietici che ogni tanto vengono riesumati dagli appassionati di cimeli bellici.

Il “Piano B” non è una teoria, o una suggestione, è una realtà oggettiva scaturita da un’INDAGINE accuratissima, svolta grazie a tanti stimati e coraggiosi professionisti, sacerdoti, studiosi (e anche tanti lettori), verificata sotto tutti i profili: canonico, indiziario, testimoniale, storico, teologico, documentale, giornalistico. C’è una questione canonica che è stata definita a fondo, in modo coerente, persino utilizzando le stesse affermazioni dei più noti canonisti bergogliani, e dimostra che la Declaratio non fu affatto una rinuncia, ma l’annuncio informale, da parte del papa, di un particolarissimo e inedito AUTO-ESILIO IN SEDE IMPEDITA. Chi non vi crede, confuso da fumogene contestazioni canoniche, può riferirsi al Codice Ratzinger, il sistema di comunicazione certificato QUI da psicologi, psichiatri, latinisti, giuristi, linguisti, con cui lo stesso Benedetto XVI conferma esattamente la situazione canonica citata. Chi, al contrario, pensa che il Codice Ratzinger sia solo un insieme incoerente di distrazioni senili e casuali, deve poi fare i conti con la completa sovrapponibilità di questi messaggi alla situazione canonica della sede impedita. Non se ne esce, ci dispiace.

Scusate se siamo un po' assertivi, ma nemmeno distillando la creatività di un milione di Dan Brown, un Premio Nobel per la letteratura riuscirebbe a tessere un simile romanzo fanta-religioso unendo centinaia di elementi storici, canonici, indiziari, documentali afferenti tutti, in modo coerente e univoco, allo stesso panorama e alla stessa geniale strategia. Ecco perché bisogna leggere - e bene - TUTTA l’inchiesta, che troverete ordinata in fondo a questo articolo QUI soprattutto i capitoli 1,2,5,6-14.

Solo da una consapevolezza espansa e generale la verità può affermarsi senza incertezze.

Ora, non sappiamo se Henry Sire, un ex cavaliere di Malta espulso dal Sovrano Ordine per un suo  coraggioso libro dal titolo eloquente: “The Pope dictator” dedicato all’antipapa Francesco, abbia mai affrontato l’argomento. Cogliamo l’occasione per segnalarglielo.

Certo è che dalla sua intervista concessa a Gloria TV e ripresa dall’amico Aldo Maria Valli QUI, Benedetto XVI esce come un pover’uomo che non aveva capito nulla, una visione comune a parte significativa del mondo tradizionalista: un papa che, dopo avere insensatamente nominato cardinali degli inveterati modernisti,  nel 2013, aveva preparato un piano molto ingenuo: abdicare puntando sul cardinale Scola, uno pseudo-conservatore che, poi, invece si è rivelato un devoto suddito di Bergoglio. Un terribile abbaglio, secondo Sire, dovuto al fatto che Benedetto si fidava del Card. Bertone che poi, naturalmente, lo ha tradito.  Ratzinger – secondo l’ex-cavaliere - aveva anche scordato l’esistenza della Mafia di San Gallo, presuntamente dormiente dal 2005 e poi, inspiegabilmente, avrebbe abdicato proprio nel febbraio 2013, dimenticando che bastava aspettare pochi mesi perché Bergoglio e gli altri mafiosi di San Gallo andassero in pensione. E tutto questo deriva, secondo l’ex cavaliere, dai danni del Concilio Vaticano II (perché Ratzinger è mezzo modernista).

Praticamente, se sul soglio di Pietro, dal 2005 al 2013, ci fosse stato Mr. Magoo, questi sarebbe stato più vigile e, certamente, meno sfortunato.

Bisogna ammettere che il discorso di Sire sarebbe certamente condivisibile a condizione di dare per scontato che la narrativa ufficiale sull’abdicazione sia vera. MA NON LO È. 

Ratzinger non ha affatto abdicato, ma, come abbiamo stra-dimostrato in 45 capitoli di inchiesta, si è ritirato volontariamente in sede impedita (canone 412), l’unico modo che gli ha consentito di operare una serie di apparenti assurdità:  dichiarare di rinunciare al solo ministerium (contro il can. 332.2) in una Declaratio piena di errori, differire il provvedimento, non ratificarlo con alcuna conferma dopo le ore 20.00 del 28 febbraio e soprattutto MANTENERE IL MUNUS PETRINO separandolo, solo di fatto, ma non giuridicamente, dall’inseparabile ministerium. In questo status, sottolineato da segni ben visibili come la veste bianca e la residenza in Vaticano, mascherato da un inesistente papato emerito, Ratzinger ha evitato che potesse essere legittimamente eletto un papa modernista ed è, allo stesso tempo, potuto rimanere quell’unico papa di cui parla da otto anni – persino battendo la mano sul bracciolo - ma senza specificare quale sia, e svolgendo piena ed efficiente funzione di Katechon.

Il conclave del 2013, invalido perché convocato a papa vivo e NON ABDICATARIO, ha permesso che Bergoglio e i suoi si antipapassero e scismassero da soli grazie alla loro bramosia di potere. Un piano anti-usurpazione geniale, messo a punto fin dal 1983, quando l’ufficio papale fu scomposto sotto la supervisione di Ratzinger, in due enti, di cui uno era proprio il falso bersaglio da dare in pasto ai nemici: il ministerium. Ricordiamo che nell’art. 675 del Catechismo scritto dal card. Ratzinger, si paventava esplicitamente un’aggressione interna al papato. Per non parlare del Terzo Segreto di Fatima: Benedetto XVI SAPEVA TUTTO, da decenni, e aveva preso le sue precauzioni.

“Perché allora non lo dice chiaramente?” è l’ovvia domanda che risuona. Dato che lo status di sede impedita presuppone l’impossibilità di comunicare con l’esterno, se Benedetto XVI dicesse oggi “Il papa sono io” darebbe modo ai bergogliani di contestare: “Ma allora dove saresti impedito se puoi dire tutte le enormità che vuoi?”.

Quindi, c'è da aspettare ancora un po'. Altro che studioso imbranato, come lo vorrebbe far passare Henry Sire. Piuttosto, un guerriero spirituale, un papa gigantesco che ha fatto in modo che i non credenti si separassero dai credenti, come recentemente da lui ribadito all’Herder Korrespondenz. Peraltro, sempre parlando di evidenze clamorose, è patente che se Ratzinger avesse voluto abdicare realmente, vista la signorilità, la correttezza formale e la mite discrezione dell’uomo, certo non avrebbe combinato tutti questi pasticci canonici, non sarebbe rimasto in Vaticano, vestito di bianco, continuando ad avvalersi di tutte le prerogative papali possibili e immaginabili e infarcendo le poche “libere uscite” che gli vengono concesse (libri, interviste) di sottili, ma clamorosi messaggi in Codice Ratzinger oggi riconosciuti persino dai comuni lettori. 

Il Vicario ha, quindi, già vinto ed è nella logica delle cose (anche da un punto di vista teologico) che arriverà il momento della verità, della rivelazione finale, ma lasciamo a voi immaginare, prevedibilmente,  quando sarà.

Quanto all’elezione dei cardinali modernisti, sappiamo che sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI, debilitati nel loro potere, potevano gestire ben poco di queste dinamiche. Peraltro, nell’ottica del Piano B, l’elevazione al rango cardinalizio dei suoi nemici modernisti semmai equivarrebbe proprio a caricarli sulla rampa di lancio per essere scismati.

In merito alla fiducia di Ratzinger in Bertone, essa è smentita dai contrasti avuti su Fatima già dal 2010, dal siluramento di Gotti Tedeschi all’insaputa di Benedetto e dalle lettere di lamentela sul Segretario di Stato emerse con Vatileaks, il più grande assist provenuto al vero papa. Quanto alla Mafia di San Gallo, essa non ha mai cessato le sue attività, anzi, ha organizzato continui boicottaggi, soprattutto dal 2010. Bergoglio è sempre stato in attesa.

Sul prossimo conclave, si dibatte quindi sul nulla. Benedetto non ha abdicato, è il vero papa, e un conclave che dovesse comprendere come elettori “coloro a cui NON compete” (vedi Declaratio), cioè i cardinali di nomina bergogliana, eleggerà un altro antipapa, modernista o tradizionalista che sia. Peraltro, non si capisce in base a quale legge politica un conclave con 80 cardinali di nomina bergogliana dovrebbe eleggere un papa conservatore. Mah? Bergoglio ha, per giunta, già scelto il nome dell’antipapa suo successore, Giovanni XXIV, crasso riferimento al nome di un antipapa e del papa del Concilio: avrà i suoi motivi.

La cosa veramente importante è arrivare al momento topico della morte di uno dei due biancovestiti, con un’opinione pubblica PRONTA. Però questo processo di maturazione viene osteggiato non solo dai media bergogliani, ormai venduti in blocco ai poteri forti, ma anche da certi tradizionalisti auto-impediti nel vicolo cieco disperante della rinuncia valida di Benedetto.

Visti i chiari di luna, azzardiamo quindi una previsione, così a fiuto, da prendere, beninteso, con le molle. Bergoglio non festeggerà il nono anno di pontificato, come non lo raggiunse l’antipapa Anacleto II nel 1138. Dopo di lui, anche grazie anche ai tradizionalisti che oppongono resistenza alla comprensione del Piano B, si farà un frettoloso conclave che eleggerà un altro terrificante antipapa modernista, un Tagle, uno Zuppi, o un Maradiaga, ad esempio, come quando ad Anacleto II succedette Vittore IV. Questi dovrà dare il colpo di grazia al Cattolicesimo sulla Transustanziazione (Bergoglio non ce la farà, non ne avrà il tempo) ma durerà poco perché, finalmente, dopo tanta esasperazione, arriverà un prelato dotato di una certa virile energia, come lo fu San Bernardo di Chiaravalle, che rimetterà le cose a posto. La storia sovente si ripete secondo blocchi simmetrici.

Ora, questa è solo una previsione senza alcuna pretesa, ma nei fatti oggettivi, se i modernisti hanno preparato il primo antipapa, certi tradizionalisti stanno – attualmente - preparando il secondo.

Vittorio Messori: non rivelerò mai cosa mi ha detto papa Ratzinger. Sappiate che è tenuto all'oscuro.

Parla il più grande giornalista cattolico. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 09 dicembre 2021 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Come abbiamo già detto, questa sul golpe antipapale subìto da Benedetto XVI è la prima, straordinaria “inchiesta partecipata” della storia del giornalismo. Cominciano a essere davvero tanti gli input, le segnalazioni, le informazioni, i documenti giunti da semplici lettori, buoni cattolici che non accettano di vedere distrutta la loro fede e la loro Chiesa sotto l’agenda globalista, senza fare niente.

Il sig. Alessandro Quatela ci ha inviato ieri la registrazione completa, effettuata da uno spettatore, di un incontro pubblico avvenuto nel giugno 2016 presso il Centro Francescano Rosetum di Milano. Protagonista, il più autorevole e famoso dei giornalisti cattolici, Vittorio Messori, che presentava il suo ultimo libro “Ipotesi su Maria”. QUI troverete la registrazione ufficiale dell’evento da cui però è stata tagliata la parte finale, con le domande del pubblico, durante la quale lo scrittore torinese ha rilasciato dichiarazioni sconvolgenti che solo ora trovano una collocazione ben precisa. Mettiamo a disposizione dei colleghi interessati il materiale  e intanto riportiamo le esatte parole di Vittorio Messori:

“In settembre ebbi un incontro privato con il “papa emerito”, come ha voluto essere chiamato. Con Ratzinger era nata un’amicizia davvero forte con quel libro “Rapporto sulla fede” (1984) che facemmo assieme. Lui, con la sua tipica generosità, ha voluto ripagarmi con la sua amicizia tanto che, a volte, andavamo a cenare insieme in una trattoria a Trastevere. Questo rapporto personale è andato avanti, ma da quell’11 febbraio 2013 (data delle presunte dimissioni n.d.r.) non mi sono fatto più vivo perché volevo rispettare il suo ritiro. E’ stato il suo segretario (Mons. Gaenswein n.d.r.) che mi ha telefonato dicendo: “Sua Santità sarebbe lieto di rivederLa in nome dei vecchi trascorsi, venga a trovarlo nel suo ritiro, però resta inteso che Sua Santità la aspetta come amico e non come giornalista. Il vostro sarà un incontro privato e quindi non ci saranno cose pubbliche da propalare”.

Io mi sono attenuto rigorosamente a questo anche se, certo, da vecchio giornalista, se avessi detto al Corriere alcune delle cose che Ratzinger mi ha detto, beh … avrei riempito le cronache per parecchio tempo.  Però mi sono violentato, e nessuno, neanche con le tenaglie, mi tirerà mai fuori quello che Ratzinger mi ha davvero detto.  La sola cosa che ho potuto dire - che però è significativa - è che quando Ratzinger mi ha chiesto il mio parere sulla situazione attuale della Chiesa, io gli ho espresso, con sincerità, questo clima di perplessità (per usare un eufemismo), di inquieta curiosità su come andrà a finire, di fronte a certi esperimenti. Comunque, gli ho detto come la pensavo ed è abbastanza significativo come, dopo avermi ascoltato, lui abbia aperto le mani, alzato gli occhi al cielo e abbia detto: “Io posso solo pregare”. Sappiate però che a lui arrivano soltanto le notizie che decidono gli altri. Ho scoperto, ad esempio, che lui riceve soltanto due giornali: il Corriere della Sera e la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Cioè, quando vengono a dire: “…ma c’è Ratzinger che è entusiasta del suo successore!”, non vedo di cosa potrebbe essere entusiasta, o indignato, visto che a lui le notizie non arrivano. Lui non vede la tv, non ascolta la radio, gli arriva solo il Corriere che è schierato pro-papa (Bergoglio n.d.r.). PAPA RATZINGER È COMPLETAMENTE DISINFORMATO. Comunque, chi vivrà vedrà”.

Anche se siamo immersi in una realtà distopica, riuscite per un attimo a rendervi conto? Un papa, sebbene “emerito”, che riceve soltanto due giornali ed è completamente disinformato. Normale, no? Soprattutto, i giornalisti amici che vengono a visitarlo non devono pubblicare nulla, mentre possono farlo i giornalisti pro-“papa Francesco” come Massimo Franco, del bergoglianissimo Corriere della Sera. Il più grande giornalista cattolico che dice: “Non mi toglierete nemmeno con le pinze quello che Ratzinger mi ha detto, altrimenti avrei riempito le cronache per settimane”.

Ora, cerchiamo di essere onesti: vogliamo dire che anche Vittorio Messori è un complottista?

Avete capito perché diciamo la pura verità scrivendo ogni giorno che il vero papa è solo Benedetto XVI, e si trova in una situazione di SEDE IMPEDITA?

Come ripetiamo per l’ennesima volta, egli, l’11 febbraio 2013 ha pronunciato una Declaratio che solo a chi era in malafede e voleva toglierlo di mezzo poteva sembrare una rinuncia. Infatti, nonostante le manipolazioni operate sulle traduzioni, la Declaratio come rinuncia è canonicamente invalida e implosiva, mentre è del tutto coerente come dichiarazione - non giuridica - di auto-esilio in Sede impedita (canone 412). Per questo “il papa è uno solo”, come ripete Benedetto XVI da otto anni, senza mai specificare quale, e per questo ci invia tutti i messaggi nell’ormai noto “Codice Ratzinger” QUI che configurano esattamente, costantemente questa situazione canonica grazie alla quale il vescovo Bergoglio si è autoscismato ed è divenuto un antipapa usurpatore. Troverete tutta l’inchiesta riordinata dall’inizio, per capitoli, in fondo a questo articolo QUI .

Ora, lo diciamo con affettuosa premura agli altri colleghi e ai membri del clero che continuano a evitare accuratamente queste macroscopiche, inaudite evidenze canoniche, indiziarie, teologiche, storiche, documentali, testimoniali, rifiutandosi perfino di discuterle: quanto pensate che si possa tenere ancora in piedi la favoletta dell’abdicazione, “del vecchio papa retrogrado che, troppo vecchio e con un piede nella fossa (da otto anni), accetta di farsi da parte per lasciare spazio al buon papa Francesco, misericordioso e rivoluzionario”? La storia insegna che, darwinianamente, le imposture non resistono al tempo, ed è nella logica del Piano B  QUI che si arrivi senz’altro a un momento rivelatore. Allora, molte carriere saranno combuste in un lampo.

Per giunta, in un’epoca come questa dove tutto è controllato, ripreso, registrato, trascritto e a portata di click, è del tutto folle e anacronistico ritenere che si possa mantenere un qualsiasi segreto, a maggior ragione uno del genere, peraltro con un’inchiesta in corso, conosciutissima, portata avanti su Libero e ByoBlu, alla quale possono potenzialmente partecipare migliaia di lettori in tutto il mondo.

Ricordate cosa disse qualcuno: “Se quelli taceranno, grideranno le pietre”.

Il cardinale Montezemolo svela: Benedetto XVI rifiutò lo stemma da "emerito" e continua a usare quello da papa regnante. Documentato in nuovi documenti l'uso istituzionale dello stemma pontificio. Andrea Cionci il 7 dicembre 2021 su Libero Quotidiano.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

L’araldica è un linguaggio ufficiale molto chiaro e preciso, con una ricchissima tradizione non solo nel mondo civile, ma anche in quello ecclesiastico. Persino questo splendido codice simbolico ci ripete, per l’ennesima volta: “il papa è solo Benedetto XVI”, poiché, come ormai ben sapete – per il diritto canonico e per le sue stesse logiche, sottili ammissioni dette “Codice Ratzinger” – il vero papa non ha mai abdicato, ma si è auto-esiliato in sede impedita. In fondo a questo articolo QUI troverete riordinata tutta l'inchiesta di 43 articoli che lo dimostra fino allo sfinimento, sotto il punto di vista canonico, storico, telogico, indiziario, testimoniale, documentale. Comunque, un altro pezzetto di questo incredibile puzzle è tornato a posto anche grazie al contributo di Voi lettori, facendo della presente la prima "inchiesta partecipata" della storia del giornalismo. 

La signora Anna Maria Conti ci ha infatti segnalato una video-intervista di Franco Mariani al cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, (1925-2017) autorevole studioso di stemmi ecclesiastici e “araldista vaticano”. Fu lui stesso a disegnare, nel 2005, per il neoeletto Benedetto XVI, il nuovo blasone, rimodulando quello suo vecchio da arcivescovo di Monaco e Frisinga con la conchiglia, l'orso affardellato e la testa di moro. Come apprendiamo dal minuto 5.56 dell’intervista, nel febbraio 2013, dopo le presunte dimissioni di papa Ratzinger, il cardinale Lanza scrisse a Benedetto XVI offrendosi di modificargli lo stemma per ADATTARLO al nuovo status di “papa emerito” (che, come abbiamo visto QUI è un istituto giuridico inesistente). Spiegava il cardinale: “Il papa, diventando emerito, non può più utilizzare quei simboli che indicano la giurisdizione effettiva”. Le ben motivate proposte del porporato araldista erano innovative, ma coerenti: un galero cardinalizio, ma bianco, a “timbrare lo stemma” oppure le chiavi decussate di San Pietro poste in un “capo” (fascia superiore) dentro lo scudo, a ricordo della passata autorità, o altre soluzioni, difficili in quanto, come commentava l’intervistato, mai nella storia della Chiesa si è avuto un papa emerito.

Tuttavia, il card. Lanza racconta che, dopo qualche tempo, ricevette un bigliettino, firmato “B. XVI” scritto con una calligrafia “piccolissima”, (sottovoce?) in cui papa Ratzinger gli comunicava che “PREFERIVA NON ASSUMERE ALCUN NUOVO STEMMA”.

PERCHÉ?

Don Antonio Pompili, araldista e collaboratore del card. Lanza, ci ha detto che Benedetto XVI rifiutò la modifica perché, da lì in poi, egli avrebbe smesso di utilizzare il suo stemma.

Questo però è smentito non solo dalla lettera del 27 ottobre 2021 da noi ricevuta da Mons. Gaenswein “a nome del Santo Padre emerito” , ma anche da ALTRE SUE DUE LETTERE, del 2018, che ci hanno appena fornito un lettore e una lettrice. Confrontate nella foto di testata, troverete QUI tutta la documentazione.

Ora, dovete sapere che Mons. Gaenswein non è solo il segretario di papa Benedetto, ma è anche il Prefetto della Casa Pontificia e il titolare di questo ruolo prestigioso, tradizionalmente, unisce il proprio stemma con quello del PONTEFICE REGNANTE. 

Infatti, leggiamo che, fin dal 2017, Mons. Gaenswein ha UFFICIALMENTE aggiornato il proprio stemma dove il suo scudo (d’azzurro, al drago d’oro, sormontato da una stella) è stato “inquartato” con lo scudo di Bergoglio, azzurro, col fiore di nardo, la stella e il sole gesuita. Coerente, visto che il Vaticano ritiene ancora Francesco il papa regnante.

E invece, come vedete sopra, sia le lettere del 2018, che quella da noi ricevuta qualche giorno fa, recano il VECCHIO STEMMA di Mons. Gaenswein, inquartato con lo scudo del papa REGNANTE Benedetto XVI, con tanto di testa di moro, conchiglia e orso.

Quindi, si tratta di un uso araldico abituale di Mons. Gaenswein, documentato fin dal 2018, peraltro quando ancora non aveva subito il ridimensionamento dei suoi incarichi da Prefetto della Casa pontificia per volontà di Bergoglio.

Ora, perché il Prefetto della Casa pontificia, pur avendo dal 2017 un nuovo stemma bergogliano, e riconoscendo formalmente Francesco come papa regnante, usa, almeno da tre anni, quello relativo al papa regnante Benedetto XVI? E’ una questione di gusti, di affezione?

Ciò che conta é questo, però: siccome Mons. Gaesnwein è la persona più vicina al mondo a papa Ratzinger, è pacifico, (a meno di non considerare la sua posta gestita da altri, alle sue spalle, come avverrebbe sempre in sede impedita), che l’utilizzo di questo preciso stemma da parte del Prefetto della Casa Pontificia sia, al minimo, conosciuto, tollerato, se non addirittura richiesto esplicitamente da Benedetto XVI il quale non può ignorare il suo dirompente significato: che il papa regnante è lui stesso.

Gli stemmi non sono meri motivi decorativi, ma, come specificava il card. Montezemolo, sono il simbolo di una ben precisa autorità e ruolo. L’uso dello stemma, per un regnante, non è da considerarsi solo personale, ma anche in concessione a terzi autorizzati per specifico motivo.

Si potrebbe anche ricordare, a margine, come papa Benedetto continui ancor oggi, ad esempio, a inviare ai suoi aficionados, sue cartoline STEMMATE del 2013 QUI che lo ritraggono nel pieno fulgore delle vesti pontificali. (E nessuno si fa una domanda).

Considerando che sui due papi si dibatte ferocemente fin dal 2013, con grande scandalo e inquietudine nella Chiesa, se Ratzinger fosse davvero un ex-papa, per modestia, opportunità politica e riguardo verso il vero papa Francesco, non dovrebbe semmai mandare nuove cartoline di se stesso in semplice veste bianca, priva di cingolo e mozzetta e senza stemma? In Vaticano non hanno i soldini per stampare delle nuove cartoline per il presunto “emerito”? Inoltre, se Benedetto avesse abbandonato l’uso del proprio stemma, come dice don Pompili, non dovrebbe, tanto più, imporre a Mons. Gaenswein l’utilizzo del suo nuovo, aggiornato stemma bergogliano in segno di sottomissione al legittimo pontefice? L’eleganza, la mitezza evangelica e la signorilità dell’uomo Joseph Ratzinger lo richiederebbero con ogni certezza, SE EGLI FOSSE DAVVERO L’EX PAPA.

E’ quindi del tutto ovvio che Benedetto XVI, nel 2013, non ha voluto farsi cambiare lo stemma pontificale dal cardinale Lanza Cordero di Montezemolo, NON perché non lo avrebbe mai più usato, (cosa smentita dai fatti), ma perché il papato emerito non esiste, come sappiamo, e perché Benedetto E’ ANCORA, A TUTTI GLI EFFETTI, L’UNICO VERO PAPA autoesiliatosi in SEDE IMPEDITA, come già stra-dimostrato, fino alla nausea, nei 42 articoli della nostra inchiesta. Per questo, nel 2013, Benedetto XVI si tenne ben stretto il suo stemma papale COSI’ COM’ERA e non accettò alcuna modifica araldica dal card. Cordero Lanza di Montezemolo.

(A questo punto, si potrebbe azzardare anche un’ipotesi sul perché Benedetto non volle la TIARA sul suo stemma. Un low profile in vista di un Piano B, che, come abbiamo visto, era stato già pianificato dal 1983? Certo, da "emerito" difficilmente avrebbe potuto conservare l’ingombrante tiara, mentre una mitra da vescovo non avrebbe destato sospetti. Ma questa è solo un’ipotesi).

Siamo quindi ancora in presenza di un classico input in “Codice Ratzinger”, stavolta attraverso simboli istituzionali: Benedetto ha consentito o richiesto al Prefetto della Casa pontificia, suo segretario, di usare il proprio stemma da papa regnante, nonostante questi ne possieda uno nuovo bergogliano, DI FATTO inviando a tutti quelli che gli scrivono, (compresi noi) un chiaro messaggio: “IL PAPA REGNANTE E’ UNO SOLO E SONO IO”. 

(Ora i contestatori ripeteranno che i nostri sono complottismi, fantasie, che tali evenienze si devono solo a sbadataggini, distrazioni e che papa Benedetto continua a usare la veste bianca e tutte le prerogative pontificali possibili e immaginabili solo per sciatteria, svagatezza, vanesia nostalgia, per fare dispetto al legittimo successore, divertendosi a gettare nel panico 1 mld e 285 mln di fedeli, o anche perché è “modernista”, come dicono alcuni, e non conosce né la storia, né il latino, né il diritto canonico, né tantomeno l’araldica ecclesiastica. Va bene, d’accordo, non insistiamo: avete ragione Voi).

Benedetto XVI ci risponde per lettera dalla sua sede impedita: confermate le nostre affermazioni. Il Santo Padre ha colto perfettamente l'"assist". Andrea Cionci Libero Quotidiano il 4 dicembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Finalmente è arrivata la risposta del Santo Padre, Benedetto XVI, a una nostra lettera del 19 ottobre scorso. Fin dal 2019, abbiamo ricostruito e dimostrato, senza essere smentiti ufficialmente, in una quarantina di articoli di inchiesta, riordinata in fondo a questo, come papa Ratzinger, nel 2013, non abbia affatto abdicato, ma, di fronte all’ammutinamento della fronda modernista si sia auto-esiliato in SEDE IMPEDITA (Canone 412), uno status giuridico in cui il vescovo (e il papa) è confinato causa forza maggiore e non può comunicare liberamente.  La sede impedita, è, infatti l'unica situazione canonica nella quale un papa può rinunciare di fatto al ministerium (l’esercizio pratico del potere) differendo l’entrata in vigore del provvedimento, senza poi ratificarlo, ma soprattutto, senza rinunciare al munus (il titolo divino di papa) e quindi restando a tutti gli effetti pontefice. Così come egli ha fatto. Ecco perché "il papa è uno", come ripete Benedetto XVI da otto anni senza mai specificare quale: è lui stesso. Tuttavia, essendo l'unico vero pontefice celato apposta dietro l’inesistente e impossibile istituto del papato emerito, non può rivelare apertamente la sua situazione perché è, appunto, IMPEDITO: o è controllato, e/o egli stesso si autolimita per mantenersi nei margini giuridici dello status di sede impedita (impossibilità di comunicare liberamente) con il quale ha "antipapato" e scismato i modernisti suoi nemici. Per questo motivo, papa Benedetto ci fa capire la sua situazione canonica in modo sottilmente logico, da otto anni, con un sistema di comunicazione (riconosciuto e certificato QUI da avvocati, linguisti, giuristi, latinisti teologi, psichiatri, psicologi) che abbiamo denominato “Codice Ratzinger”. (E’ inutile che certi si spazientiscano sbottando:”Ma perché non parla chiaro?” Non PUÒ farlo, ma soprattutto non DEVE. E’ questo meccanismo giuridico che va capito). Così, in considerazione delle necessarie (e salvifiche) limitazioni che vive il Santo Padre, gli abbiamo scritto proprio nel suo stesso Codice Ratzinger, e lui ha risposto meravigliosamente a tono. Ecco il testo della lettera con la quale si è presentato lo scrivente: “Santo Padre, sono un giornalista e, da due anni, scrivo assiduamente di Lei su Libero e su ByoBlu. Lei immagina quanto sarei onorato se potessi intervistarLa, ma so che non avrebbe il tempo né soprattutto IL MODO di ricevermi…”. Come avrete capito, il riferimento al fatto che il papa possa non aver “modo” di riceverci è, ovviamente, al suo impedimento. Così, il Papa ci risponde tramite il suo segretario personale, Mons. Gaenswein, offrendo quella risposta che, appunto, ci aspettavamo: l’unica che può fornire dalla sua sede impedita, il cui senso è: “Sì, sono l'unico papa regnante, vorrei darLe udienza, ma proprio non posso”. E vediamo come lo dice. Innanzitutto con il grosso stemma sulla carta da lettere di Mons. Gaenswein che è il Prefetto della Casa Pontificia: il titolare di questo ruolo, tradizionalmente, inquarta (ovvero unisce) il proprio stemma con quello del PONTEFICE REGNANTE. Sappiamo da che, fin dal 2017, Mons. Gaenswein ha UFFICIALMENTE cambiato il proprio stemma inquartandolo con quello di Bergoglio: E invece la lettera da noi ricevuta reca il VECCHIO STEMMA di Mons. Gaenswein, inquartato con quello del papa regnante Benedetto XVI. Confrontate pure nella foto di testata.

Dunque, Mons. Gaenswein, pur dovendo rispondere a centinaia di lettere al mese, da quattro anni, non ha ancora richiesto alla tipografia vaticana una risma di carta da lettere aggiornata col nuovo stemma? Oppure si è distratto e ha fatto confusione fra i fogli di vecchio e nuovo tipo? Possiamo pensarla anche così, come certo obietteranno, sotto la greve e ipnotica “potenza d’inganno”, i contestatori bergogliani o sedevacantisti, ma, certo, sarebbe una distrazione imperdonabile per Mons. Gaenswein mandare un simile, palese input a un giornalista cacciatore dei più sottili dettagli il quale, soprattutto, documenta e ribadisce da due anni sui media nazionali e internazionali COSE DI UNA GRAVITÀ INAUDITA. Ovvero, che Benedetto XVI non ha mai abdicato, che il papa è uno ed è lui stesso, che Ratzinger comunica la verità con un codice sottile e che Bergoglio è un antipapa usurpatore con l’obiettivo di demolire il Cattolicesimo. Eppure, papa Benedetto XVI e Mons. Gaenswein sanno esattamente chi sia il giornalista, cosa sostenga e su quali quotidiani, dato che scrivono: “…non si è mancato di prendere in ATTENTA considerazione la sua richiesta”. Ora, SE papa Benedetto fosse veramente il papa abdicatario, e Francesco il vero pontefice, di fronte alle “atroci assurdità calunniose” dello scrivente, un vero ex papa, o papa emerito doveva: o non rispondere, o farsi negare, o diffidarci apertamente dal proseguire con i nostri articoli, magari scrivendo: “Dottore, per favore, la smetta: il papa è uno ed è Francesco”, oppure, ancor meglio, poteva ricevere il sottoscritto e smentire di persona tutte le nostre affermazioni facendoci paternamente capire che lui ha abdicato davvero e che “il papa è Francesco”, tranquillizzando così un miliardo e più di cattolici. Ovvio, no? E invece non l’ha fatto. Papa Ratzinger ha fornito, di persona, l’unica risposta che poteva darci dalla sede impedita: “ …PUR CON OGNI BUON INTENTO, non è PROPRIO POSSIBILE venire favorevolmente incontro al Suo desiderio”. Vi rendete conto? Cioè: “Vorrei, ma PROPRIO non posso”. Papa Benedetto XVI nutre “ogni buon intento” verso la richiesta di un giornalista che martella continuamente a mezzo stampa, da due anni, sul fatto che il papa è solo lui e Francesco un antipapa. Il rifiuto dell’udienza era già messo in conto nella nostra lettera, come avete letto: Papa Ratzinger non PUÒ ricevere un giornalista sgradito all’usurpatore Bergoglio, e non DEVE ricevere uno che gli porrebbe domande sulla sede impedita, una condizione che, al momento, Benedetto XVI non può ancora svelare. Infatti, gli unici giornalisti che Benedetto ha avuto il permesso di ricevere o che lui stesso ha voluto accogliere, sono quelli pro-Bergoglio, ai quali lui ha potuto appioppare le sue perfette “anfibolie”, ovvero risposte che possono essere interpretate in due modi diversi e opposti. Sono, ad esempio, i Massimo Franco e gli Andrea Tornielli (oggi capo ufficio stampa di Bergoglio) ai quali ha potuto tranquillamente dichiarare che indossava la veste bianca perché “non aveva altri abiti” QUI e che “il papa è uno solo” (senza dire quale), che "la sua scelta (lasciare il ministerium, restando papa) è stata fatta liberamente”,  e altre gustose risposte che i colleghi hanno recepito e diffuso in modo ovviamente prono alla narrativa politicamente corretta. Obiettivo raggiunto, dunque. Grazie, Santo Padre. Adesso preparatevi: forse Sua Eccellenza Bergoglio imporrà a Mons. Gaenswein qualche rettifica, ma ormai è troppo tardi, la straordinaria risposta del vero papa è già arrivata e - ci potete giurare - verrà divulgata in diverse lingue. In ogni caso, sarà ignorata dai grandi media o, al massimo, qualche contestatore, coprendoci – al solito - di insulti, ci darà molto originalmente dei “complottisti” accusandoci di voler vedere fantasiose dietrologie dietro un banale - o addirittura mortificante - rifiuto. Tranquilli, non preoccupatevi: fa tutto parte di questo grande gioco escatologico che separa, come il grano dal loglio, coloro che amano la Logica e la Verità da quelli che sguazzano nella menzogna.  Non manca molto alla chiusura della partita, tenete duro.

Benedetto XVI, gli specialisti: "Il Codice Ratzinger è reale", decodificate le lettere al cardinal Brandmüller. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 12 novembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

In quasi due anni di inchiesta abbiamo indagato le decine di messaggi in “Codice Ratzinger” che il papa, Benedetto XVI, ci invia in libri, lettere e interviste fin dal 2013 per spiegarci che non ha mai abdicato e che, come abbiamo compreso di recente, si è ritirato in sede impedita (canone 412).

Una lettrice ha invitato la nostra inchiesta a tutti e 226 i vescovi italiani: hanno risposto solo in sette, QUI con parole sprezzanti o derisorie. Il refrain è sempre quello: “favole, complottismi, fantasie…”. Dato che i colleghi vaticanisti, invitati a un cordiale confronto sul tema, fanno scena muta, abbiamo chiesto il parere di vari specialisti: psicologi, linguisti, psichiatri, latinisti, giuristi, storici. Non è stato facile trovare dei professionisti con la schiena dritta pronti a “metterci la faccia”: in tanti, sollecitati, si sono sfilati senza dire né sì né no. Comprensibile: se si scopre che Benedetto XVI è il solo vero papa ed è in sede impedita, viene giù tutto (e non solo l’antipapato di Bergoglio, ma tutto-tutto). Già in marzo, il prof. Carlo Taormina, il giurista più famoso d’Italia, aveva dichiarato a Libero QUI: “Colpisce l’ambivalenza continua e studiata, nell’arco di otto anni, attribuita alle dichiarazioni di Ratzinger che, nella sostanza, pare ribadire sempre la stessa cosa, ovvero che il papa è lui, Benedetto, e non altri”. Oggi, il Prof. Rocco Quaglia, ordinario di Psicologia dinamica all’Università di Torino, spiega: “Libero ha fatto un raffinatissimo lavoro di decrittazione degli scritti e dei comportamenti di papa Benedetto; le interpretazioni fornite danno senso a quel che in apparenza appare privo di logica. Le vostre conclusioni riguardo lo stato in cui versa la Chiesa oggi sono più che condivisibili e perciò inquietanti. Cosa ancora più grave sono i silenzi di quanti dovrebbero parlare, e sono silenzi di paura e di cortigianeria”. Il prof. Quaglia ha, dunque, sottoscritto quanto segue, insieme agli altri professionisti: “Le oggettive e strane ambiguità del linguaggio di Benedetto XVI individuate come “Codice Ratzinger”, riscontrate anche da altri giornalisti, o persino lettori, non sono casuali, e non sono dovute all’età dell’autore o, men che mai, a sua impreparazione. Esse sono messaggi sottili, ma inequivocabili, che riconducono alla situazione canonica descritta nell’inchiesta. Papa Benedetto comunica in modo sottile perché è in sede impedita e quindi è impossibilitato a esprimersi liberamente. Il “Codice Ratzinger” è una sua forma di comunicazione logica e indiretta che si avvale di apparenti incoerenze le quali non sfuggono all’occhio delle persone preparate. Tali frasi, “decodificate” con i dovuti approfondimenti nei rimandi che il Papa fa alla storia, all’attualità, al diritto canonico, nascondono un sottotesto logico perfettamente individuabile, con significati precisi e univoci. Altre volte, Benedetto XVI opta per delle “anfibolie” frasi – non prive di spunti umoristici – che possono essere interpretate in due modi diversi. Queste tecniche di comunicazione gli danno modo di far capire, “a chi ha orecchie per intendere”, che egli è ancora il papa e che è in una situazione di impedimento. Pertanto, chiunque sostenga che i messaggi del Codice Ratzinger sono fantasiose interpretazioni o non ha capito, o nega l’evidenza”.

Prof. Antonio Sànchez Sàez, ordinario di Diritto presso l’Università di Siviglia

Prof. Gian Matteo Corrias, docente di materie letterarie e saggista storico-religioso

Prof. Alessandro Scali, docente di Lettere classiche, scrittore e saggista.

Prof. Gianluca Arca, docente di Latino e Greco, filologo, ricercatore, saggista.

Dott. Giuseppe Magnarapa, psichiatra, saggista e scrittore. 

E ora passiamo a proporvi due straordinari esempi di "Codice Ratzinger", con la lettura, per la prima volta “decodificata” in modo completo, di due importantissime lettere che, nel novembre 2017, il papa, Benedetto XVI, scrisse al suo amico card. Walter Brandmüller, uno dei quattro porporati dei “Dubia”. Il porporato, coltissimo storico ecclesiastico e, da lunga data, amico di Joseph Ratzinger, non ha mai accolto con favore quella che oggi il mainstream continua a considerare come la sua rinuncia al papato.

A una lettura “normale”, le due lettere appaiono sfaldate, inconcludenti e vuote di significato. 

Ecco la prima del 9 novembre 2017:

“Eminenza! Nella Sua recente intervista con la Frankfurter Allgemeine Zeitung, Lei dice che ho creato, con la costruzione del Papa emerito, una figura che non esiste nella totalità della storia della Chiesa. Certo, sa benissimo che i papi si sono ritirati, anche se molto raramente. Cosa erano dopo? Papa emerito? O cosa invece? Come sa, Pio XII ha lasciato istruzioni nel caso fosse stato catturato dai nazisti, che dal momento della sua cattura non sarebbe più stato papa ma cardinale. Se questo semplice ritorno al Cardinalato sarebbe stato possibile, non lo sappiamo. Nel mio caso, sicuramente non avrebbe avuto senso semplicemente reclamare un ritorno al Cardinalato. Allora sarei stato costantemente esposto al pubblico nel modo in cui un cardinale è – anzi ancora di più – perché in quel cardinale si sarebbe visto l’ex papa. Ciò avrebbe potuto portare, intenzionalmente o meno, a conseguenze difficili, in particolare nel contesto della situazione attuale. Con il Papa emerito ho cercato di creare una situazione in cui sono assolutamente inaccessibile ai media e in cui è del tutto chiaro che esiste un solo Papa. Se Lei conosce un modo migliore e quindi ritiene di poter censurare quello che ho scelto, La prego di parlarmene. Ti saluto nel Signore, Tuo,

Benedikt XVI

In questa lettera Benedetto XVI rivela al cardinale – con un sottotesto infallibile – che egli è sempre rimasto il pontefice dietro l’inesistente istituto del papa emerito, e non ha mai abbandonato la sua Chiesa. Ecco la lettera “anatomizzata” in paragrafi subito dopo “tradotti” fra parentesi quadre. Abbiate pazienza, occorre leggere con un po’ di concentrazione: stiamo parlando di una delle più grandi menti del secolo, che parla in codice perché la sua sede è stata usurpata.

“Eminenza! Nella Sua recente intervista con la Frankfurter Allgemeine Zeitung Lei dice che ho creato, con la costruzione del papa emerito, UNA FIGURA CHE NON ESISTE nella totalità della storia della Chiesa. Certo, SA BENISSIMO CHE I PAPI SI SONO RITIRATI, anche se molto raramente. Cosa erano dopo? Papa emerito? O COSA INVECE?”.

[Benedetto non nega che il papa emerito non esista e rimanda il card. Brandmüller, storico della Chiesa, a quei pochissimi papi che nel I millennio “si ritirarono” scacciati da antipapi, ma che non abdicarono. Il riferimento è, fra i pochi, al papa Benedetto VIII, di cui abbiamo già scritto QUI. Ed ecco le domande retoriche: “E questi papi che si ritirarono, come rimasero? Forse erano papi emeriti? O cosa invece? … NO, RIMASERO PAPI, appunto, come lo sono rimasto io”].

“…Come sa, Pio XII ha lasciato istruzioni nel caso fosse stato catturato dai nazisti, che dal momento della sua cattura non sarebbe più stato papa ma cardinale. Se questo semplice ritorno al Cardinalato sarebbe stato possibile, non lo sappiamo. Nel mio caso, sicuramente NON AVREBBE AVUTO SENSO SEMPLICEMENTE RECLAMARE UN RITORNO AL CARDINALATO. Allora sarei stato costantemente esposto al pubblico nel modo in cui un cardinale è – anzi ancora di più – perché in quel cardinale si sarebbe visto l’EX-PAPA. Ciò avrebbe potuto portare, intenzionalmente o meno, a conseguenze difficili, in particolare nel contesto della situazione attuale.“…

[Se fosse stato catturato, come noto, Pio XII avrebbe ABDICATO in modo da lasciare i nazisti con un pugno di mosche. Ratzinger prende però decisamente le distanze dalla soluzione di Pio XII perché questa avrebbe fatto di lui UN EX PAPA, un cardinale, mentre egli, appunto, VOLEVA RESTARE ANCORA PAPA. Se Benedetto XVI avesse abdicato davvero, aggiunge poi, la Chiesa sarebbe finita legalmente nelle mani dei modernisti, con conseguenze difficili].“…Con il Papa emerito ho cercato di creare una situazione in cui sono assolutamente INACCESSIBILE AI MEDIA e in cui È DEL TUTTO CHIARO CHE ESISTE UN SOLO PAPA. SE LEI CONOSCE UN MODO MIGLIORE e quindi ritiene di poter censurare quello che ho scelto, La prego di parlarmene. Ti saluto nel Signore, Benedikt XVI

[“Con l’escamotage del papato emerito inesistente ho creato una situazione incomprensibile dai media, ma che rendesse chiaro – dal punto di vista canonico – che il papa rimanevo solo io. (Infatti, ho dichiarato di rinunciare al solo ministerium lasciando la sede “vuota” e non “vacante”). C’era forse un modo migliore con cui potessi trarmi di impaccio?”].

Vi è chiaro? Nel caso rileggete con calma, pezzo per pezzo. Di seguito, la seconda lettera di ratzinger, del 23 Novembre 2017. Come per la precedente, leggendo la lettera per intero, a prima vista, si capisce poco o nulla.

“Eminenza! Dalla tua gentile lettera del 15 novembre suppongo di poter concludere che in futuro non farai più commenti pubblici sulla questione delle mie dimissioni, e per questo ti ringrazio. Il dolore profondamente radicato che la fine del mio pontificato ha causato in te, come in molti altri, posso capirlo molto bene. Ma il dolore in alcuni – e mi sembra anche in te – si è trasformato in rabbia, che non riguarda più solo la rassegnazione, ma si sta espandendo sempre più verso la mia persona e il mio pontificato nel suo insieme. In questo modo un pontificato viene svalutato e sciolto nella tristezza per la situazione della Chiesa oggi. Da questa fusione emerge gradualmente un nuovo tipo di agitazione, per il quale il piccolo libro di Fabrizio Grasso, La Rinuncia (Algra Editore, Viagrande / Catania 2017), potrebbe diventare emblematico. Tutto questo mi riempie di preoccupazione e, proprio per questo motivo, la fine della tua intervista alla FAZ [Frankfurter Allgemeine Zeitung ndr] mi ha lasciato molto turbato, perché alla fine può solo promuovere lo stesso tipo di atmosfera. Preghiamo, come hai fatto alla fine della tua lettera, che il Signore possa venire in aiuto della sua Chiesa.

Con la mia benedizione apostolica, sono Tuo Benedikt XVI”

Ed ecco la traduzione: “Eminenza! Dalla tua gentile lettera del 15 novembre suppongo di poter concludere che in futuro non farai più commenti pubblici sulla questione delle mie dimissioni, e per questo ti ringrazio. Il dolore profondamente radicato che LA FINE DEL MIO PONTIFICATO HA CAUSATO IN TE, come in molti altri, posso capirlo molto bene. Ma il dolore in alcuni – e mi sembra anche in te – si è trasformato in rabbia, che non riguarda più solo la rassegnazione, ma si sta espandendo sempre più verso la mia persona e il mio pontificato nel suo insieme. in questo modo un pontificato viene svalutato e sciolto nella tristezza per la situazione della chiesa oggi.” …

[“Grazie per non parlare più in pubblico di mia «rinuncia». Il tuo dolore per quella che, insieme ad altri, tu credi la fine del mio pontificato si è trasformato, in te, ADESSO in rabbia non solo per la mia persona, MA ANCHE PER IL MIO PONTIFICATO NEL SUO INSIEME”. Ora, attenzione: se papa Benedetto si riferisse a un proprio pontificato ormai passato (2005-2013), come potrebbe la rabbia del cardinale appuntarsi sull’ex-pontificato, visto che il cardinale lo apprezzava molto, tanto da addolorarsi per la sua presunta fine? A rigor di logica, l’ira del card. Brandmueller dovrebbe appuntarsi solo sulla PERSONA di Ratzinger, la quale avrebbe fatto terminare un ottimo pontificato. Papa Benedetto, invece sta svelando al cardinale che il suo pontificato STA PROSEGUENDO, è in corso, sebbene in una forma diversa, nascosta, perché egli è rimasto IL PAPA. Lo conferma subito dopo: “Con la vostra rabbia, OGGI state svalutando e considerando “sciolto” il mio pontificato che invece continua, anche se mi sono dovuto ritirare dal governo della Chiesa lasciandola tristemente in mano agli usurpatori”].

 … “Da questa fusione emerge gradualmente un nuovo TIPO DI AGITAZIONE, per il quale il piccolo LIBRO DI FABRIZIO GRASSO, La Rinuncia (Algra Editore, Viagrande / Catania 2017), POTREBBE DIVENTARE EMBLEMATICO”…

[“State sciogliendo il mio pontificato e questo produce una nuova agitazione”. Ora, il contenuto del libro di Grasso è dirimente: l’ “agitazione” espressa nel libro è che i cattolici possano essere disorientati con due papi ritenuti entrambi validi. Ma il papa è rimasto, ed è uno solo: Benedetto XVI. Peraltro, il sottotitolo “emblematico” sulla copertina del libro di Grasso è: “DIO E’ STATO SCONFITTO?” la stessa domanda che si pongono molti cattolici angosciati. “No, Dio non è stato sconfitto – tranquillizza Benedetto XVI – perché io sono rimasto IL PAPA”].

…  “Tutto questo mi riempie di preoccupazione e, proprio per questo motivo, la fine della tua intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung mi ha lasciato MOLTO TURBATO, perché alla fine può solo promuovere LO STESSO TIPO DI ATMOSFERA. Preghiamo, come hai fatto alla fine della tua lettera, CHE IL SIGNORE POSSA VENIRE IN AIUTO DELLA SUA CHIESA. Con la mia BENEDIZIONE APOSTOLICA SONO TUO Benedikt XVI”

[“Mi preoccupa che voi consideriate sciolto il mio pontificato”. Ma andiamo a vedere cosa dice il card. Brandmülle alla fine dell’intervista citata, 

Il giornalista della Frankfurter domanda: “Crede davvero che sia concepibile uno scisma?

Il card. Brandmüller risponde: “Che Dio lo impedisca”

La risposta del cardinale turba Benedetto XVI perché Dio ha consentito diversi scismi nella storia per purificare la Chiesa dall’eresia, mantenerla fedele all’insegnamento di Cristo e integra nella successione petrina. Papa Ratzinger, infatti, non ha abdicato appositamente per produrre uno scisma in questo senso, come abbiamo illustrato QUI.

Il concetto è stato da lui ribadito anche nella citata intervista rilasciata alla Herder Korrespondenz: “Non è quindi questione di separare il buono dal cattivo, ma di dividere i credenti dai non credenti”. 

Ergo, il timore del cardinale per uno scisma turba Benedetto perché non fa altro che promuovere e perpetuare “quella stessa atmosfera di agitazione” del libro di Grasso, secondo la quale “Dio sarebbe stato sconfitto”, con due papi considerati entrambi validi. Ecco perché, riallacciandosi a quanto scrive il cardinale nella sua lettera, Benedetto si augura che il Signore possa venire in aiuto alla Sua chiesa, alla vera Chiesa di cui egli stesso è e resta il papa. IN PRATICA, BENEDETTO XVI STA CHIEDENDO AIUTO.

Se non bastasse, papa Ratzinger si congeda dal card. Brandmüller impartendogli la SUA BENEDIZIONE APOSTOLICA, prerogativa assoluta del pontefice regnante come si spiega. In conclusione, lo saluta con quel “SONO TUO Benedetto XVI”. Facile supporre che intenda: “sono il tuo PAPA Benedetto XVI”, dato che questo è il suo nome pontificale che egli ha voluto mantenere”].

Ora, per chi volesse riesaminare tutta l'inchiesta prodotta su Libero, la potrà trovare integrata e riordinata in fondo a questo articolo, fin dall'inizio.

Comunque, i bergogliani stiano tranquilli, non succederà niente. E' in corso una specie di incantesimo psicologico di massa che l'apostolo Paolo aveva già previsto e individuato come "Potenza d'inganno" QUI. Nessuno farà nulla: i conservatori continueranno a parlare di vaccini e a scandalizzarsi per le demolizioni esplosive di Bergoglio, ma nessuno affronterà la MAGNA QUAESTIO: troppa fatica, troppo rischio, troppa paura.

Papa Ratzinger e le dimissioni, "Giorgio Napolitano sapeva". Nomi e date, la pista che porta al Quirinale. Libero Quotidiano il 7 ottobre 2021. Nuove pesanti rivelazioni su Papa Ratzinger e la sua storica decisione di dimettersi. A rilanciarle è il blog StanzeVaticane di Tgcom24, curato dal vaticanista Fabio Marchese Ragona. Come rivela anche Francesco Antonio Grana, altro vaticanista di vaglia per il Fattoquotidiano.it, nel suo libro Cosa resta del papato, a essere a conoscenza dell'addio anticipato di Benedetto XVI, comunicato al mondo l'11 febbraio 2013, era anche l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La fuga di notizie in realtà parte un anno prima, il 30 aprile 2012, quando Ratzinger ne parlò per la prima volta con il cardinale Tarcisio Bertone, suo segretario di Stato. Quindi lo rivelò "ad altre tre persone a lui vicinissime: il suo confessore, un sacerdote polacco della Penitenzieria Apostolica; suo fratello maggiore, monsignor Georg Ratzinger; e il suo segretario particolare, monsignor Georg Gänswein". Si arriva dunque al 4 febbraio 2013, pochi giorni prima della "bomba", quando Ratzinger comunicò la svolta imminente sia al Quirinale sia a monsignor Alfred Xuereb, per 5 anni e mezzo suo segretario in seconda. La sera del 10 febbraio, le cose iniziano a "precipitare" anche se solo una manciata di persone è davvero a conoscenza di quanto annuncerà Ratzinger poche ore dopo. L'allora sostituto della Segreteria di Stato, il futuro cardinale Angelo Becciu, secondo quanto ricostruito da Grana, telefona all'allora advisor della comunicazione in Vaticano Greg Burke (futuro direttore della Sala Stampa della Santa Sede) "chiedendogli di arrivare un po’ prima del solito in ufficio la mattina successiva". Motivo, anche per lui, off limits, per evitare che la notizia potesse in qualche modo arrivare nelle redazioni dei giornali prima dell'annuncio formale di Papa Benedetto XVI. Un clima di diffidenza comprensibile, forse, vista la portata epocale della notizia. "Il giorno prima del concistoro - sottolinea Grana -, il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, in modo del tutto inusuale, telefonò a casa di ciascun cerimoniere pontificio per assicurarsi la loro presenza a quell’appuntamento". Il clima di attesa spasmodica, dunque, monta di ora in ora. Il 10 febbraio, si rivede in maniera definitiva il testo delle dimissioni che ancora oggi tante polemiche e "interpretazioni" sta provocato. "L'autografo del Papa - ha spiegato il cardinale Bertone - porta in un primo testo la data del 7 febbraio e, successivamente ad una piccola correzione ortografica nel testo latino, considerata anche la necessità di una precisa traduzione in italiano e nelle altre lingue, il testo definitivo porta la data del 10 febbraio". Un dettaglio per certi versi sconvolgente è il fatto che a essere tenuto all'oscuro di tutto è stato anche l’allora direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita padre Federico Lombardi, che "apprese della decisione di Benedetto XVI soltanto pochi minuti prima dell’inizio del concistoro, quando dall’Ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato gli arrivò sotto embargo il testo delle dimissioni". Non a caso, la conferenza stampa venne di fatto "improvvisata" e la Sala Stampa vaticana, "deserta fino a pochi minuti prima, fu letteralmente presa d’assalto".

Ratzinger, siluro sulle nozze gay: "Contro le culture dell'umanità". Siluro anche contro Papa Francesco? Maurizio Zottarelli su Libero Quotidiano il 15 settembre 2021. La notizia forse non troverà molta eco sulla stampa progressista. Ma quella che è uscita ieri dalle stanze vaticane è un'esplosione che risuona fragorosa sul dibattito di fine estate che sonnecchia ancora intorno al ddl Zan e sull'europarlamento che chiede che le nozze gay siano riconosciute in tutta Europa. «Il concetto di matrimonio omosessuale è in contraddizione con tutte le culture dell'umanità che si sono succedute sino a oggi, e significa dunque una rivoluzione culturale che si contrappone a tutta la tradizione dell'umanità sino a oggi». A scriverlo è il Papa emerito Benedetto XVI che torna a far sentire la sua voce, proprio sul tema delle nozze gay, con un testo inedito, consegnato lo scorso aprile e intitolato "Rendere giustizia di fronte a Dio del compito affidatoci per l'uomo", inserito in un volume pubblicato da Edizioni Cantagalli, La vera Europa Identità e Missione, in uscita domani.

BERGOGLIO CONFERMA - Parole che più nette non potrebbero essere, proprio mentre in molti forse auspicavano, tra una tiratina di tonaca pontificia e l'altra, che il Papa sostenesse in qualche modo la battaglia dei diritti omosessuali. Invece, va detto che il volume, curato e tradotto dal professor Pierluca Azzaro (curatore dell'opera omnia di Ratzinger), a scanso di equivoci, vede anche la prefazione di Francesco. Un messaggio chiaro e forte, quindi, dal ritiro di Mater Ecclesiae, con Benedetto XVI lancia un ultimo accorato appello affinché l'Europa riscopra e riaffermi la sua vera origine e identità che l'hanno resa modello di bellezza e umanità. «Il tema matrimonio e famiglia ha assunto una nuova dimensione che non si può certo ignorare», scrive Benedetto XVI. «Si assiste a una deformazione della coscienza che evidentemente è penetrata profondamente in settori del popolo cattolico». Benedetto XVI sottolinea che nei secoli anche nelle diverse culture non è mai stato messo in dubbio il «fatto che l'esistenza dell'uomo - nel modo di maschio e femmina - è ordinata alla procreazione» e che «la comunità di maschio e femmina e l'apertura alla trasmissione della vita determinano l'essenza di quello che è chiamato matrimonio». Proprio nel giorno in cui gli eurodeputati chiedono l'accettazione da parte di tutti gli Stati membri di ogni tipo di matrimonio e di famiglia, Ratzinger riporta la questione nei confini originari del rapporto tra uomo e donna e di procreazione. Anzi, secondo Benedetto XVI, la frattura si è verificata con l'introduzione della pillola anticoncezionale che ha reso «possibile in termini di principio la separazione tra fecondità e sessualità». Un passaggio che ha trasformato la coscienza degli uomini, aprendo la via alla equiparazione di ogni forma di sessualità, a una fecondità senza sessualità e, di conseguenza alla «creazione dell'uomo razionalmente». Una posizione strumentale, secondo il Papa emerito, che minaccia di mettere a rischio l'uomo stesso. Al punto da indurre Benedetto XVI a parlare della necessità di una «ecologia» che protegga l'umanità. In un'epoca di massima attenzione al pianeta e ai suoi abitanti, l'unica natura che rischia di essere travolta, paradossalmente, è proprio quella dell'uomo. «Anche l'uomo possiede una natura che gli è stata data, e il violentarla oil negarla conduce all'autodistruzione» scrive Ratzinger. «Proprio di questo si tratta anche nel caso della creazione dell'uomo come maschio e femmina, che viene ignorata nel postulato del matrimonio omosessuale». 

DALL'INIZIO ALLA FINE - Un pericolo autodistruttivo che Benedetto XVI rileva lucidamente anche nel perseguimento di una morte pianificata e calcolata. «In questo senso, la crescente tendenza al suicidio come fine pianificata della propria vita è parte integrante del trend descritto». Insomma, o l'uomo è creatura di Dio, è immagine di Dio, è dono di Dio, oppure l'uomo è un prodotto che egli stesso crea. Ma in questa «autocreazione» e, di conseguenza, in questa rinuncia all'idea della creazione, c'è anche la perdita della grandezza dell'uomo, della sua dignità «che è al di sopra di ogni pianificazione». Una rinuncia alla propria natura di «figli di Dio», che, in qualche modo, ricorda la rinuncia da parte dell'Europa delle proprie radici cristiane, a suo tempo così duramente condannata da Benedetto XVI. E ora, dopo aver ridotto i propri popoli a pura espressione economica, Bruxelles sembra puntare ad appiattire i propri cittadini alla semplice dimensione di prodotto commerciale, dalla culla alla tomba.

Papa Ratzinger, scovato un altro messaggio da una lettrice: inutile rispondere ai Dubia, il Papa sono io. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 27 agosto 2021.  

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Dunque, qualcosa finalmente sulla stampa sta uscendo. Dagospia e RomaIT   hanno rotto l’embargo. Iieri, anche il collega Francesco Antonio Grana de Il Fatto Quotidiano ha accennato all’inevitabile fiorire di teorie su un “papa occulto”. Caro Collega, se avrai la bontà di leggere, vedrai che si è un pezzo avanti oltre le vociferazioni e le teorie: ci sono docenti universitari, avvocati, magistrati, teologi, latinisti canonisti, giuristi che hanno analizzato la presunta rinuncia di papa Benedetto e hanno confermato, recentemente utilizzando le stesse categorie dei canonisti pro-Bergoglio, che la Declaratio del 2013, interpretata come rinuncia, è inesistente e che invece si attaglia precisamente a una dichiarazione di “SEDE IMPEDITA”. Tali affermazioni non vengono smentite da nessuno a partire dal marzo scorso. Sarebbe interessante e utile per i nostri lettori affrontare il discorso nel merito canonico invece di sfiorarlo appena, facendo intendere che si tratti solo di “pettegolezzi”. Siamo a disposizione per un cordiale confronto. Nel frattempo tanti lettori sono andati già oltre e, partecipando all’inchiesta, ci segnalano altri fatti e documenti che confermano ulteriormente come Benedetto XVI abbia rinunciato fattualmente – e non giuridicamente, perché impossibile - SOLO all’esercizio pratico del potere, a causa del fatto che nessuno più gli obbediva e che non poteva più usare la posta, intercettata e trafugata (Vatileaks). In questo modo, egli è rimasto quell’unico papa legittimo di cui parla da otto anni senza mai spiegare quale. Una lettrice - che tiene a restate anonima - ci ha segnalato oggi un passo dell’intervista rilasciata dal Papa a Peter Seewald nel volume “Ein Leben” del 2020. Un altro messaggio decisamente chiaro. Infatti, quando Seewald chiede a Benedetto di commentare la mancata risposta di Bergoglio ai quattro Dubia dei cardinali sull’enciclica Amoris laetitia, (circa la comunione ai divorziati risposati) Benedetto non risponde direttamente, ma rimanda alla sua ultima udienza pubblica del 27 febbraio 2013, un giorno prima dell’entrata in vigore della sede impedita annunciata nella Declaratio. Nel testo dell’udienza QUI non c’è, infatti, ALCUNA RISPOSTA NEL MERITO DEI DUBIA dei cardinali: non si fa cenno né a divorziati né all’Eucaristia, ma c’è un messaggio chiarissimo sul fatto che lui non abbia MAI ABDICATO. Ecco perché si può trovare una risposta in quell'udienza: tutte le questioni nate successivamente intorno a Bergoglio, compresa la faccenda dei Dubia, non contano nulla, in quanto Francesco non è il papa, perché Benedetto è rimasto IL papa. Non ci credete? Copiamo integralmente. Attenzione alle frasi in neretto che spiegheremo di seguito. Seewald: “Il cardinale Raymond Burke – uno dei quattro autori dei Dubia, lo scritto in cui si formulavano alcuni dubbi sull’esortazione apostolica del pontefice Amoris laetitia – nel novembre 2016 ha dichiarato che Amoris laetitia aveva creato confusione: «Nella Chiesa è in atto una divisione tremenda e non è questa la via che la Chiesa è solita percorrere». Papa Francesco non ha risposto ai Dubia. Sarebbe meglio che lo facesse Lei? Benedetto XVI: “Preferisco non prendere direttamente posizione su quest’ultima domanda, perché ciò vorrebbe dire addentrarsi nelle concrete questioni del governo della Chiesa e abbandonare la dimensione spirituale alla quale esclusivamente attiene il mio mandato. Se rispondessi, suppongo che tutti coloro che mi attaccano continuamente per le mie dichiarazioni pubbliche vedrebbero confermate le loro maldicenze. Posso quindi limitarmi a fare riferimento a ciò che ho detto il 27 febbraio 2013 nella mia ultima udienza generale pubblica. In mezzo a tutti i tormenti che affliggono l’umanità e alla forza inquietante e distruttiva dello spirito malvagio, nella Chiesa si riuscirà sempre a riconoscere la forza silenziosa della bontà di Dio. Le oscurità delle epoche storiche che si succedono certamente non consentiranno mai di poter godere del tutto indisturbati della pura gioia di essere cristiano […] Ma nella Chiesa e nella vita dei singoli cristiani ci sono sempre momenti in cui si può avvertire nel profondo che il Signore ci ama, e questo amore significa gioia, è «felicità»". Allora, come già visto,  il governo della Chiesa, il ministerium, non è più suo, egli lo ha abbandonato a se stesso lasciando la sede LIBERA, VUOTA (e non vacante come il Vaticano ha tradotto il verbo "vacet": è canonicamente impossibile che la sede resti vacante con la rinuncia al ministerium). Quindi, il governo della Chiesa è ora in mano ad altri. Di recente, il collega Mirko Ciminiello ha scoperto che Benedetto ci fa capire QUI che non riconosce Francesco come legittimo papa, dato che non lo considera come suo successore nella lista dei papi di San Malachia. La dimensione spirituale è appunto il munus petrino, il titolo di papa concesso direttamente da Dio che lui CONSERVA. Le maldicenze sono quelle di chi critica sempre Benedetto, perché “pur essendosi dimesso da papa continua a intervenire con ingerenze nel pontificato di Francesco”. Sono maldicenze semplicemente perché LUI NON HA ABDICATO e continua a essere il papa, nel pieno diritto di intervenire. La forza silenziosa e l’avvertire nel profondo sono un chiaro rimando al fatto che chi ha orecchie per intendere e occhi per vedere capisce la situazione. E ora passiamo al clou, quando Ratzinger rimanda l’intervistatore a cercare le risposte ai Dubia dei cardinali nella sua ultima udienza generale - “pubblica” - specifica, forse perché dopo a continuato a dare udienze private, sempre come pontefice?. Ed ecco cosa dichiarò nell’ultima udienza, riportata integralmente dal sito vaticano.  Come potrete leggere, non si riesce a trovare il minimo cenno che possa rispondere ai Dubia su divorzio ed Eucaristia, se non in un senso più generale, più alto soprattutto definitivo. “Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo”. Che novità? Hanno abdicato ben 10 papi nella storia, quindi la sua non sarebbe affatto una novità. A meno che lui non si riferisca a quanto dichiarato: “(Come me n.d.r.), nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel I millennio è stata un’eccezione”. Abbiamo visto, che il suo riferimento è all’unico papa che nel I millennio fu scacciato da un antipapa, perdendo il ministerium, come lui, ma rimanendo papa a tutti gli effetti. La NOVITÀ, dunque, è nel fatto che lui ha abbandonato volontariamente e liberamente a se stesso il governo della Chiesa, per impossibilità nel gestirlo. “La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore […] Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro”. Piuttosto esplicito, diremmo: lui resta papa per sempre, perché non ha rinunciato al titolo di papa, il munus. E’ divenuto un “papa eremita” e non emerito, dato che l’istituto non esiste, come abbiamo visto. “Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito”. Anche qui, papa Ratzinger non si riferisce affatto al conclave del 2013, illegittimo in quanto lui non aveva abdicato, ma al PROSSIMO VERO CONCLAVE che alla sua morte, o valida rinuncia, dovrà eleggere il prossimo vero papa. Abbiamo già visto questa specificazione analizzando la Declaratio come “sede impedita”. I soliti continueranno a dire che si tratta di letture tendenziose, forzature etc. Il problema è che queste letture tendenziose contano ormai una trentina di casi, logicamente ineccepibili, non vengono smentite da nessuno e hanno precise rispondenze canoniche. Presto pubblicheremo un elenco completo con il parere di specialisti. Ma tanto, chi rinuncia a priori al PENSIERO LOGICO non vorrà e non riuscirà mai capire nulla di questa faccenda.

Papa Ratzinger, "la mia autorità finisce a quella soglia": perché poteva dichiarare "sede impedita". Andrea Cionci Libero Quotidiano il  24 agosto 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Ormai si è messo in moto un “chiarimento logico condiviso” per cui l’indagine sulla Declaratio di Papa Benedetto si nutre di contributi che arrivano dai lettori, sui social, in modo disparato: domande, contestazioni, commenti, post che a volte contengono vere e proprie illuminazioni. Come avrete letto, nell’inchiesta c’è stata una svolta quando alcuni latinisti, interpretando appena diversamente la parola “vacet”, (in modo lecito) hanno consentito di leggere la Declaratio del 2013 non più come una rinuncia che i giuristi Acosta e Sànchez hanno spiegato essere giuridicamente invalida. Entrambi hanno utilizzato le stesse argomentazioni dei canonisti pro-Bergoglio Sciacca e Boni (che, pur sollecitati, non smentiscono) configurando questo schema:

1)  non esistono due papi, né il “papato allargato”

2)  il papa è uno solo,

3)  il papa emerito non esiste, (infatti stanno provvedendo ora, dopo 8 anni a dargli una giurisprudenza

4)  munus e ministerium non sono sinonimi in senso giuridico.

5)  Ratzinger ha usato munus in senso giuridico, senza mai aver rinunciato a questo

6) ha separato i due enti che però sono indivisibili nel caso del Papa,

7) ha rinunciato pure all’ente sbagliato, cioè il ministerium.

Tutto quello che era canonicamente possibile per rendere nulla una rinuncia è stato fatto, senza citare il differimento con mancata ratifica. Viceversa, la Declaratio può essere letta come una coerente dichiarazione di SEDE IMPEDITA: il canone 412 del Codice di Diritto Canonico recita infatti: “La sede episcopale si intende “impedita” se il Vescovo diocesano è totalmente impedito di esercitare l'ufficio pastorale nella diocesi a motivo di prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in grado di comunicare nemmeno per LETTERA con i suoi diocesani”. In pratica, da quanto abbiamo ricostruito, papa Benedetto, vescovo di Roma, non riusciva più a farsi obbedire e così ha rinunciato all’esercizio pratico del potere, il ministerium, lasciando la sede “libera”, “vuota” – e non “vacante”, come tradotto in senso giuridico dal Vaticano - restando l’unico papa. Proprio ieri, il latinista Prof. Alessandro Scali ci ha mandato uno studio, in supporto della tesi di sede impedita, dove si evince che DANTE, (quest’anno sono i 700 dalla morte) importa nell’italiano della Commedia, dal latino, il verbo vacare nel senso di sede “lasciata vuota” dal vero papa perché usurpata dal papa “indegno” Bonifacio VIII (nota 1). Così, su Twitter, un utente ha chiesto: “Ma quale era il presupposto secondo cui Benedetto poteva dichiarare sede impedita? Io non lo ravviso”. Intanto ricordiamo cosa Ratzinger confidò nel 2005 a Mons. Fellay della Comunità S. Pio X, il quale, durante un'udienza, ricordava al Papa di essere in possesso dell'autorità per rimettere le cose in ordine nella Chiesa su tutti i fronti. E Benedetto rispose così: «La mia autorità finisce a quella porta». E questo avveniva a Castel Gandolfo già nell’agosto 2005. Il mite, anziano Joseph Ratzinger fin dall’inizio del suo pontificato ha avuto enormi problemi nel farsi obbedire, tanto che non poté neppure imporre la frase “versato per noi e per molti” nel canone della Messa, versione filologica dal latino “pro multis”, più corretta anche dal punto di vista teologico. Sembrava essere largamente impedito già allora ad ESERCITARE l’ufficio pastorale e questo dipendeva anche da una fragilità dovuta ai suoi 86 anni. Non lo diciamo noi, ma lui stesso nella Declaratio del 2013: “… sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per ESERCITARE in modo adeguato il ministero petrino […] per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministerium (esercizio pratico) a me affidato”. “Del resto - spiega il Prof. Antonio Sànchez, ordinario di diritto dell’Università di Siviglia - l'inabilità fisica non è un motivo per rinunciare al mantenimento del papato: Giovanni Paolo II governò fino agli ultimi stadi della sua malattia”. Ovvero: un papa anche se debole e anziano, purché obbedito disciplinatamente dai suoi vescovi, può continuare tranquillamente ad essere papa. Invece, una debolezza fisica, o nervosa può essere un problema per esercitare il ministerium ed evitare di “farsi impedire”. Si potrebbe parlare anche di una inabilità giuridica nel senso che il collegialismo che, da dopo il Concilio Vaticano II ha distrutto l’impianto monarchico-piramidale della Chiesa, ha investito il Segretario di Stato, in qualità di Primo Ministro della Chiesa legislativa, del controllo quasi totale sul flusso della legislazione e di altre informazioni provenienti dal Vaticano, compresi gli atti stessi del Papa stesso. Ma un FATTO CHIARISSIMO risale al maggio 2012, quando scoppiò lo scandalo Vatileaks: il maggiordomo del papa, Paolo Gabriele (poi graziato in dicembre e lasciato a piede libero) aveva trafugato e fotocopiato LETTERE segrete e riservate di Benedetto XVI con cardinali, giornalisti, politici, vip etc. Tra quelle ecclesiastiche, una del card. Tettamanzi dove accusava il card. Bertone di dare ordini a nome di Benedetto senza che il Papa ne fosse neppure informato, poi quella inviata dal card. Nicora al Presidente dello Ior Gotti Tedeschi dove lo informava del cambio legge antiriciclaggio operato dal card. Bertone e quella di Mons. Viganò a Benedetto dove l’arcivescovo faceva duri riferimenti al card. Bertone. Tutti documenti che parlavano di uno strapotere del Segretario di Stato, come sopra, e quindi forse della inabilità giuridisdizionale di cui sopra. Fatto sta che molti di questi carteggi furono poi pubblicati da Gianluigi Nuzzi in un libro. Ed ecco che rientra in pieno il quarto motivo secondo cui la sede può essere dichiarata impedita: QUANDO IL VESCOVO NON È IN GRADO DI COMUNICARE NEMMENO PER LETTERA CON I SUOI DIOCESANI, in questo caso tutto il cattolicesimo universale. Considerato che la sua posta non era più privata, ma era stata trafugata, fotocopiata, divulgata, poi data alle stampe, il Papa avrebbe ben potuto dichiarare la sede impedita pur non essendo prigioniero, o esiliato, ma probabilmente inabile (fisicamente e quanto all’esercizio della sua giurisdizione) e soprattutto impossibilitato a comunicare, anche per lettera. Poi, se c’è altro, bisognerebbe chiederlo al Santo Padre.

(Nota 1). Sul significato del termine "VACET" nella "Declaratio" di papa Benedetto XVI.

Dall'articolo del dott. Andrea Cionci, pubblicato sul suo blog il 18/VIII/2021, apprendiamo che un team di professori - i cui nomi egli cita -  ha approfondito lo studio della 'strana' (per sequenze di improbabili errori) DECLARATIO di Benedetto XVI, giungendo alla convinzione che, in sede di storia linguistica, il significato della voce latina VACET (congiuntivo presente del verbo VACARE) in quel documento deve essere interpretato nel senso non di una rinuncia del Pontefice al Suo mandato, ma come dichiarazione di "SEDE IMPEDITA", sia pure espressa in un linguaggio capzioso e allusivo. Gli studiosi sono giunti a siffatta interpretazione risalendo al significato proprio ed originale del latino VACARE, da intendere come "esser vuoto, esser libero," in genere riferito a una carica o ufficio che è, o si è reso, libero, -'vuoto'-, e perciò di un potere non operativo. Dall' "essere vuoto" si perviene alla nozione di "SEDE IMPEDITA" in virtù di una rigorosa ricostruzione storico-biografica, messa a punto dai medesimi studiosi, sulla fattuale situazione in cui Benedetto XVI si venne a trovare, trafitto da scandali e accuse infamanti, mentre nel tempo venivano a luce dubbi sull'elezione di Bergoglio, a cura di Antonio Socci, e, contestualmente, emergevano presso altri professionisti acute osservazioni sul testo della Declaratio. Ad avallare codesta nuova interpretazione e il clamoroso risultato oggi raggiunto da quel team, che mette una parola ultimativa sulla vexata quaestio imperniata su rinuncia vera o fittizia e, nella scia, chi sia il vero papa e chi il facente funzione (parziale), non sarà inutile  introdurre una convalida di quella lettura attraverso alcune testimonianze dantesche, sapendo peraltro che il verbo VACARE è un latinismo introdotto da Dante nella lingua volgare con forte continuità semantica, come emerge dall'uso che il Poeta ne fa sia nelle sue opere latine che nella Commedia, dove appare quattro volte. Fatto presente che -in ciascun caso- se ne conferma il preciso uso dantesco all'interno della detta area semantica, i luoghi che meglio si propongono, per evidenze analogiche, con le circostanze della DECLARATIO, muovono dal XXVII e dal XVI del Paradiso (rispettivamente versi 22/24 e 112/114):

Quelli che usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio, che VACA nella presenza del Figliuol di Dio...Dall'ottavo Cielo s. Pietro lancia una sanguinosa invettiva con obiettivo specifico Bonifacio VIII, per la quale detto papa viene informato con parole di fuoco dal Primo Vicario che "il luogo mio", il soglio di Pietro, è "vuoto" agl'occhi del Figlio Dio, in quanto quel papa si è auto-destituito per indegnità. Balza agl'occhi la forte simmetria tra le due situazioni: da una parte c'è la completa ASSENZA -agl'occhi di Dio- di un Ufficio (in realtà: dell'intero vicariato di Christus Sacerdos) conseguente ad un'involontaria auto-destituzione per colpa grave; dall'altra, l'ASSENZA viene agita come effetto di un'auto-destituzione - volontaria sì, ma sub cultro - estorta attraverso il forzato impedimento del libero esercizio dell'Ufficio (nella fattispecie, del Ministerium: si ricordi in tal senso anche il paralizzante blocco dei movimenti finanziari inflitto al Vaticano). E ancora: nel primo caso, per l'infernale devianza di un papa; nel secondo, per l'infernale pressione, anche curiale, SUL papa. In ambedue le contingenze, il valore da attribuire a quel verbo è limpido. L'altra occorrenza offerta da Dante, forse ancora più diretta della prima, ci proietta nel marziale quinto Cielo, nel quale il trisavolo del Poeta, Cacciaguida, nel ricordare al nipote le virtù civili in cui l'antica Fiorenza fioriva, trova il modo di censurare le più recenti cattive abitudini dei nuovi chierici del vescovado cittadino: (Pd.XVI, 112 / 114) Così facieno i padri di coloro che, sempre che la vostra chiesa vaca, si fanno grassi stando a consistoro. Chiarito che con "i padri" Cacciaguida allude alla generazione del suo tempo e alla di lei correttezza (l'antica abstinentia), e che con "coloro" indica i figli e nipoti degeneri, ne viene che in ASSENZA del vescovo legittimo, si costituisce pro tempore in quella città un consesso di ecclesiastici assai più versati nel bene privato che in quello pubblico: in quell'ASSENZA, che bene in italiano si dice vacanza, si compendia quel vuoto di potere....mal vicariato, e perciò sanzionato. Alla luce di tali evidenze, il cui valore risiede nel fatto che ci troviamo in presenza, come sopra osservato, del primo ingresso nella nostra lingua di un termine che mantiene identico significante e significato nelle due aree, trova conferma la rigorosa ricostruzione eseguita dagli studiosi, autori della brillante ricerca.

PROF. ALESSANDRO SCALI. Docente (ora a riposo) nei licei, formatosi a Roma al S. Maria e poi alla scuola di Paratore, Pagliaro, Brelich. Autore di ‘Dante, pietra d'inciampo, Ed. Il Cinabro, Catania 2008’, ha curato e commentato l’edizione degli scritti sull’Alighieri, di Guido de Giorgio, dal titolo ‘Studi danteschi’, pubblicato nel 2017sempre per i tipi de ‘Il Cinabro’. Aggregato del Sodalitium equitum deiparae miseris succurrentis

Papa Ratzinger e le dimissioni, cambia tutto: "La sede resti libera", l'errore di traduzione che cambia tutto. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 20 agosto 2021. Sotto la coltre di silenzio dei media generalisti, si sta consumando una vera "guerra antipapale", portata avanti da canonisti, teologi e giuristi di vari paesi, fedeli unicamente a Benedetto XVI. «Il papa è uno solo» ripete da otto anni Ratzinger, senza spiegare mai quale dei due, come ha da poco confermato (involontariamente) Mons. Gaenswein. La tesi dell'avvocatessa Acosta, pubblicata a marzo nel volume "Benedetto XVI: papa emerito?", non è stata smentita: il canone 332.2 impone per l'abdicazione del papa la rinuncia al munus (titolo divino) mentre Ratzinger, nella sua Declaratio dell'11 febbraio 2013, dichiarò di rinunciare al solo ministerium, l'esercizio attivo. «Benedetto XVI - affermano Acosta e il giurista Sànchez (Univ. Siviglia) - non ha mai abdicato, è rimasto il solo papa. Francesco è un antipapa i cardinali nominati da lui, non validi, eleggeranno un altro antipapa». Ma ora lo scontro finale è fra latinisti, su un unico verbo: "vacet". Il Vaticano, che già nelle traduzioni della Declaratio aveva eliminato la dicotomia munus/ministerium, riportandoli solo con "ministero", ha tradotto "vacet" come "sede vacante". Legittimo, ma il latinista Gianluca Arca spiega che, in senso letterale, significa "la sede resti libera". Confermano due latinisti ("neutrali") de La Sapienza, i prof. Ursini e Piras, tanto che Cicerone scrive: "Ego filosophiae semper vaco" - "ho sempre tempo libero per la filosofia". Così, restano tre concetti chiave della Declaratio di Benedetto: 1) Dato che non ho più le forze per esercitare il potere pratico (ministerium) dichiaro di rinunciarvi, 2) così che la sede di San Pietro resti LIBERA (non "vacante" in senso giuridico) a partire dalle ore 20,00 del 28 febbraio. 3) E dichiaro che il prossimo nuovo Pontefice dovrà essere eletto da un conclave convocato "da coloro a cui compete". Letta così, la Declaratio, da "rinuncia" canonicamente problematica, si trasforma in una dichiarazione - non giuridica - ma coerente, di "Sede impedita", secondo il canone 412, quando "il Vescovo è totalmente impedito di esercitare l'ufficio pastorale nella diocesi a motivo di prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in grado di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani". Plausibile? Vatileaks e il licenziamento in tronco di Gotti Tedeschi raccontano di come, alla fine del pontificato, Benedetto avesse grossi problemi nel farsi obbedire. Di fatto, il 28 febbraio 2013, prese l'elicottero, lasciò fisicamente libera, vuota, la sede di San Pietro per Castel Gandolfo. Da lì, salutò il mondo alle 17.30, ma allo scoccare delle ore 20.00, non firmò alcuna rinuncia al ministerium, come spiega il teologo Pace: forse perché sarebbe stato un atto giuridico invalido? Da quel momento, sarebbe partita la Sede impedita e i nemici di Ratzinger avrebbero potuto fare ciò che volevano della sede di S. Pietro. «Si spiega così - concordano Arca e Sànchez - quella strana frase "il conclave dovrà essere convocato da coloro a cui compete". Perché non ha detto semplicemente "dai cardinali"? Consapevole del fatto che la sede sarebbe stata usurpata, Ratzinger specificava che, in ogni caso, il prossimo vero papa dovrà essere eletto solo dai veri cardinali, cioè quelli nominati da veri papi, lui e Giovanni Paolo II, e non da eventuali usurpatori». Ancora nessuna risposta dal Vaticano che, da due anni, ha scelto di non commentare la questione, limitandosi a scomunicare senza processo canonico i sacerdoti fedeli a Benedetto. La "sede impedita" spiegherebbe però una quantità di stranezze, come quando Ratzinger scrisse in "Ultime conversazioni": «Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel I millennio è stata un'eccezione». Dato che nel I millennio hanno abdicato sei papi e quattro nel II, egli si assimila, come conferma lo storico Mores (univ. Milano) all'"eccezione" del papa medievale Benedetto VIII che, nel I millennio, fu mandato in esilio da un antipapa e che quindi ebbe guarda caso- la sede impedita. Significativo poi che l'istituto del papa emerito sia ormai dato per inesistente, tanto che - riferisce IlGiornale.it - in Vaticano si sta lavorando (adesso) per trovargli una giurisprudenza. E allora cosa è stato per otto anni Ratzinger? Si spiegherebbero la sua veste bianca, le altre prerogative papali di cui continua a godere e quella strana ambiguità che perdura nelle sue dichiarazioni e interviste, che suggerisce un'impossibilità di comunicare chiaramente, causa appunto, sede impedita. Una sola parola cambierà la storia?

“Sede impedita”: nuovo messaggio di papa Ratzinger nel suo libro. La scoperta di Mirko Ciminiello. Andrea Cionci su  Libero Quotidiano il il 21 agosto 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il collega di RomaIT, Mirko Ciminiello, ci ha segnalato un nuovo, sottile, ma chiarissimo messaggio del Santo Padre Benedetto XVI che parla di usurpazione del suo trono e di SEDE IMPEDITA. Abbiamo infatti illustrato QUI proprio due giorni fa – senza essere smentiti - perché la Declaratio del 2013 non fu una rinuncia (come tale, sarebbe un atto giuridicamente nullo) bensì un annuncio di sede impedita, secondo il canone 412. Il passo individuato da Ciminiello si trova nel libro-intervista “Ultime conversazioni” pubblicato da Benedetto XVI con il giornalista Peter Seewald nel 2016, quando Bergoglio sedeva sul trono di Pietro GIÀ DA TRE ANNI e Ratzinger era presuntamente “papa emerito”. Domanda di Seewald: “Lei conosce la profezia di Malachia, che nel medioevo compilò una lista di futuri pontefici prevedendo anche la fine del mondo, o almeno la fine della Chiesa. Secondo tale lista il papato TERMINEREBBE CON IL SUO PONTIFICATO. E se lei fosse effettivamente l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora?” Risposta di Benedetto XVI: “TUTTO PUO' ESSERE. Probabilmente questa profezia è nata nei circoli intorno a Filippo Neri. A quell’epoca i protestanti sostenevano che il papato fosse finito, e lui voleva solo dimostrare, con una lista lunghissima di papi, che invece non era così. Non per questo, però, si deve dedurre che finirà davvero. Piuttosto che la sua lista non era ancora abbastanza lunga!”. La lista di 111 papi trasmessa come “Profezia di San Malachia”, autentica o meno che sia (non ci interessa) in effetti, prevede dopo l’ultimo pontefice, Benedetto XVI, un personaggio detto “Pietro romano”, il quale non è definito papa, ma un uomo che, secondo il motto assegnatogli, “regnerà durante l’ultima persecuzione di Santa Romana Chiesa. Farà pascolare le sue pecore tra molte tribolazioni”. Quindi, non è specificato se questo Pietro romano sarà un reggente, oppure se sarà un capo spirituale eletto dai cattolici di Roma, regnante su una Chiesa cattolica perseguitata e rinata “nelle catacombe”, oppure se ci sarà un periodo di vacatio, magari per una linea antipapale. In tutti i casi, appunto, PIETRO ROMANO NON È UN PAPA CANONICO. Ma la cosa choccante è che Ratzinger ammette con Seewald che la serie dei papi canonici, “per come li conosciamo”, potrebbe terminare con lui. E Francesco, allora? Non è forse il 266° papa canonico, successore di Benedetto XVI? (nota 1). E allora chi è, forse un reggente? No: si fa chiamare “papa”. Forse è il capo spirituale clandestino eletto dai romani? No, è stato eletto in modo apparentemente canonico, da veri cardinali. Ergo, resta solo la possibilità che sia un antipapa. In questo caso, infatti, tutta la sua linea successoria sarebbe antipapale e la Chiesa, per come la conosciamo, sarebbe finita. Ecco spiegato logicamente perché Benedetto ammette di poter essere quell’ultimo papa “per come l’abbiamo conosciuto finora”. Ratzinger però aggiunge una postilla: non è detto, che secondo San Malachia, i papi canonici finiranno davvero, la lista potrebbe essere ancora lunga. Visto che proprio non calcola Francesco come vero papa, deve riferirsi per forza al fatto che se lui stesso, vero pontefice, riacquistasse il potere pratico, (il ministerium cui ha di fatto rinunciato) e sedesse nuovamente sul trono, la Chiesa potrebbe andare tranquillamente avanti con i papi canonici. Abbiamo chiesto un commento al prof. Antonio Sànchez, ordinario di Diritto presso l’Università di Siviglia: “È evidente da queste frasi come Benedetto XVI si consideri il papa regnante, (come emerge dalle sue azioni, abbigliamento e dichiarazioni) e l'ultimo papa «normale», il che esclude Bergoglio e lascia fuori da quella "normalità" Pietro Romano, perché questi sarebbe eletto in esilio e nella persecuzione catacombale, dal resto dei fedeli o direttamente da Dio, come fu il primo Pietro. Penso che le conseguenze tratte da Voi su queste affermazioni siano molto logiche e corrette”. Con questo messaggio, Benedetto XVI pone, quindi, la Chiesa di fronte al solito bivio: o ritrova se stessa, restaura il suo vero papa - oggi “impedito” - recuperando la sede usurpata, oppure la vera Chiesa dovrà rinascere fuori dalla sede, in modo catacombale, con nuove, inedite figure di capi spirituali. Ne abbiamo scritto : con l’esempio naturalistico del “cuculo”. Tornano i conti anche per la Declaratio, che, come abbiamo visto, non può essere una rinuncia, ma, al più, una dichiarazione di “sede impedita”. Il prossimo vero papa, che sia una figura canonica, come nell’ipotesi della restaurazione di Benedetto XVI, o del tutto inedita, come nel possibile “ritorno alle catacombe”, dovrà, comunque essere eletto “da coloro a cui compete”, cioè, o dai cardinali validi, di nomina pre-2013, o dai cattolici di Roma. Come dimostra l’intuizione del collega Ciminiello, basta capire una volta per tutte il “modus comunicandi” di papa Ratzinger e leggere con un po’ di attenzione i suoi libri e interviste per cogliere ovunque un sottotesto infallibilmente logico. Perché usa questo linguaggio sottile? Lo ripetiamo per la terza volta: avendo la sede impedita NON PUÒ PARLARE LIBERAMENTE. Sono otto anni che sta chiedendo aiuto e – tragicamente - nessuno lo ascolta. Ma sia chiaro: ormai la Declaratio del 2013 è affidata PER SEMPRE ALLA STORIA E AL DIRITTO CANONICO, e sopravvivrà alla sua morte. Anche se lui dovesse dichiarare, oggi che il papa è Francesco, come spiega il prof. Sànchez , non cambierebbe nulla:   la nullità della sua Declaratio interpretata come RINUNCIA AGISCE DA SOLA, indipendentemente da ciò che lui potrebbe dichiarare oggi.  

(Nota 1) Alcuni commentatori hanno individuato un 112° papa nella lista di San Malachia, posto tra Benedetto e Pietro romano con il motto “regnerà durante l’estrema persecuzione della Chiesa” che dovrebbe essere Francesco. Fanno notare che, nell'originale a stampa del Lignum Vitae, il libro dove fu pubblicata la profezia, la presenza di un punto fermo separa il motto citato dalla frase “Pietro Romano, che pascerà il gregge fra molte tribolazioni; passate queste, la città dai sette colli sarà distrutta e il tremendo Giudice giudicherà il suo popolo. Fine”. Cambia poco: Ratzinger accetta la versione proposta da Seewald, in cui la lista termina con lui, infatti, se egli contemplasse un 112° papa canonico, avrebbe risposto: “No, dopo di me è previsto almeno un altro pontefice. Dopo di lui forse la lista sarà ancora lunga”. Ma non l’ha detto.

Ratzinger "è il vero Papa. Dopo Bergoglio saranno tutti antipapi": il parere del giurista. Il professor Antonio Sànchez Sàez illustra uno scenario drammatico. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 12 agosto 2021. 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Qualche giorno fa, abbiamo pubblicato un’intervista al prof. Antonio Sànchez Sàez, ordinario di Diritto presso l’Università di Siviglia (fondata nel 1505) il quale ha spiegato, insieme all’avvocatessa Estefania Acosta, come e perché la Declaratio del 2013, come atto di rinuncia al papato di Benedetto XVI, è invalida. Questo è stato possibile grazie alle affermazioni incrociate di due canonisti pro-Bergoglio, Mons. Giuseppe Sciacca (Segretario della Segnatura apostolica) e della Prof. Geraldina Boni (Università di Bologna). Non solo non sono provenute smentite, ma è dell’altro ieri la notizia che il Vaticano ha messo mano all’istituto inesistente del papa emerito. Questo pare proprio confermare quanto asserito pochi giorni fa dal prof. Sànchez: il presunto “papato emerito” è stato uno schermo dietro al quale Benedetto XVI ha continuato, per otto anni, ad essere il papa regnante e a svolgere il ruolo di “Katechon”. Ora abbiamo chiesto al giurista quali scenari si profilano per il dopo Ratzinger e/o il dopo Bergoglio. Lo scenario è drammatico. Se volete leggere una sintesi, potete saltare subito alle conclusioni in fondo all’articolo. 

D. Professor Sànchez, da Mons. Sciacca e dalla Prof. Boni non si è avuta nessuna risposta: è normale?

R. “In ambito accademico, di solito, è previsto un tempo ragionevole per la risposta della controparte, tenuto conto che le riviste giuridiche hanno termini piuttosto lunghi per l'ammissione degli originali. Ma nel caso dei media non accademici (come in questo caso) normalmente una risposta sarebbe già arrivata. Quello che è stabilito comunemente tra noi universitari è che «chi tace, concede»”.

D. Ma entriamo subito nel vivo: cosa succederebbe se Francesco ci lasciasse o si dimettesse prima della dipartita di Benedetto XVI?

R. “Come abbiamo illustrato QUI, senza essere smentiti, le dimissioni di Benedetto XVI sono nulle e lui resta l’unico papa regnante. Attualmente c’è la situazione di "SEDE IMPEDITA”, prevista dal Codice di diritto canonico (art. 412 e seguenti), che fa riferimento ai casi in cui, "per prigionia, retrocessione, esilio o incapacità" il papa è totalmente incapace di esercitare le sue funzioni, come, appunto, Benedetto XVI oggi. (Basti pensare che, nel 2012, licenziarono il presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi senza che papa Ratzinger lo sapesse. Lo apprese dalla tv, come riportato dai media n.d.r.). Secondo il Codice, devono essere osservate le prescrizioni delle «leggi speciali date per questi casi».  In ogni modo, l’uscita di scena di Bergoglio non darebbe origine alla sede vacante o alla convocazione del conclave, perchè il papa (Benedetto XVI) é ancora vivo e non ha mai abdicato (can. 153). Non credo che Bergoglio si dimetterà, ma se questo avvenisse non cambierebbe il suo status di antipapa e usurpatore, né quello di Benedetto, papa regnante”.

D. E se invece Benedetto lasciasse questo mondo prima di Francesco?

R. “In questo caso, la sede rimarrebbe vacante (can. 335) e un «piccolo resto fedele» dovrebbe eleggere un nuovo papa, in esilio, forse già a quel punto molto perseguitato dalla falsa Chiesa ufficiale, caduta nell'apostasia.

Il successore di Benedetto XVI sarebbe contemporaneo dell’antipapa Bergoglio, il quale guiderà la falsa Chiesa ecumenica mondiale, una chiesa senza dogmi, senza transustanziazione, dove sarà stato abolito il sacrificio perpetuo, unita al mondo e al resto delle confessioni religiose, (la messa in latino è già stata abolita n.d.r.). Dall’altra parte, solo il piccolo resto fedele che seguirà il nuovo vero papa sarà l'autentica Chiesa cattolica”.

D. In molti pensano che si tratti solo di aspettare l’uscita di scena di Francesco per poter "sistemare le cose" ed eleggere un papa che rimetta le cose a posto. E’ davvero così?

R: “UN ERRORE MADORNALE, di portata storica, che proseguirà la linea successoria antipapale di Bergoglio. Infatti, se si va al conclave nullo (poiché per il can. 126 vi è stato un errore sostanziale nella rinuncia del 2013 e nella successiva sede vacante) con circa 80 cardinali invalidi nominati dall’antipapa, si eleggerà solamente un altro antipapa, e poi ancora, e un altro ancora. (Canone 174 § 2: se i cardinali presenti non fossero validamente eletti, il voto (Conclave) è nullo).

L'intero processo di elezione papale è regolato nella Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, approvata da Giovanni Paolo II. Leggetela”.

D. Ma perché, allora, una larga parte del mondo tradizionalista critica ferocemente Bergoglio continuando a riconoscerlo come legittimo papa?

R. “E’ IL MIGLIOR FAVORE CHE POSSANO FARGLI: dimostrano al mondo che anche i più acerrimi oppositori di Bergoglio lo riconoscono come papa e che quindi la sua legittimità non è in discussione. A riprova, Bergoglio è del tutto impermeabile a tali attacchi, ma reagisce furibondo, scomunicando senza processo canonico solo gli ecclesiastici che non lo riconoscono come papa, quelli che mettono il dito nella piaga: la sua illegittimità. Chi critica Bergoglio, ma lo considera papa, non solo dà scandalo (se fosse il papa gli si dovrebbe obbedienza perché sarebbe assistito dallo Spirito Santo anche nell’attività ordinaria, come recita l’art. 892 del Catechismo), ma soprattutto LAVORA INCONSAPEVOLMENTE PER GARANTIRNE LA SUCCESSIONE ANTIPAPALE. Molti di questi critici, laici e religiosi, in perfetta buona fede, si illudono che criticando così ferocemente Bergoglio possano convincere il prossimo (falso) conclave a eleggere un papa della Tradizione. La cosa è già del tutto improbabile vista la maggioranza assoluta dei cardinali bergogliani, ma anche se, per un puro caso, venisse eletto un tradizionalista, (come, per esempio, il card. Burke o l’arcivescovo Viganò), costui sarebbe comunque un antipapa, eletto da un conclave invalido e privo quindi dell’assistenza dello Spirito Santo.

D. Un  po’ come nel 1138 quando all’antipapa Anacleto II dopo otto anni di regno succedette l’antipapa Vittore IV?

R. “Certamente: l´antipapa Anacleto II regnò come presunto papa in Vaticano per diversi anni, fino alla sua morte, con l'assenso del popolo romano. Proprio come succede adesso. Ma l’azione decisiva di San Bernardo di Chiaravalle, che sostenne fermamente il papa legittimo, Innocenzo II, e denunciò l'usurpazione del papato da parte di Anacleto II, fece sì che, dopo la morte di questo, il suo successore, l’antipapa Vittore IV, deponesse la sua tiara davanti a papa Innocenzo II. Questo scisma é durato 8 anni.

Qualcosa di simile accadde nel Trecento quando Santa Caterina da Siena sostenne Urbano VI, contro l'antipapa Clemente VII, che fu eletto non canonicamente, come adesso Bergoglio. L'intervento dei santi è stato decisivo per chiarire chi fosse il vero papa, quando questo era oggetto di controversia. Anche oggi abbiamo dei preti coraggiosi che denunciano la questione, ma non vengono ascoltati”.

D. Quindi, in pratica, Benedetto ha separato per sempre le linee successorie: quella sua è papale e quella di Bergoglio è antipapale. Adesso il Vaticano ammette QUI che l’istituto del papa emerito non esiste e sta lavorando per aggiustare le cose. Potrebbero convincere il 94enne Benedetto a dichiarare qualcosa per sanare la sua rinuncia invalida?

R. “No. Poiché le dimissioni di Benedetto XVI erano nulle, il suo atteggiamento attuale o futuro è quasi irrilevante, nel senso che l'atto inteso come rinuncia è nullo indipendentemente dal fatto che Benedetto riconosca o meno di essere il papa regnante e non Bergoglio. Vale a dire, in questo momento BENEDETTO XVI È IL PAPA, CHE LO VOGLIA O NO. E Bergoglio è un antipapa. Punto. Questo resterà anche dopo la morte di Benedetto e nulla potrà cambiarlo a posteriori.

Oggi, papa Ratzinger potrebbe rilasciare alcune dichiarazioni dicendo che lui è il papa, oppure che il papa è Bergoglio. In entrambi i casi continuerebbe ad essere il papa, perché LA NULLITÀ DELLA RINUNCIA AGISCE DA SOLA, INDIPENDENTEMENTE DA CIÒ CHE LUI POTREBBE DIRE ADESSO. La stessa autorità del papa è sottoposta al Diritto canonico, se questi non lo cambia preventivamente. Certo, una dichiarazione di papa Ratzinger in una pubblica e aperta conferenza stampa che confermasse una rinuncia appositamente invalida QUI aiuterebbe molto, ma non so se alla fine lo farà. Comunque sia, sarebbero nulli quasi tutti gli atti ecclesiastici emanati da Bergoglio in questi 8 anni, come la creazione o la nomina di cardinali, così come nulle sarebbero le sue Encicliche, le modifiche del Catechismo, le modifiche del Magistero, etc. Sarebbero validi solo atti di ordinaria amministrazione, in cui "Ecclesia supplet". Benedetto XVI potrebbe sanare la nullità di alcuni atti nulli di Bergoglio se li volesse confermare, ma solo lui potrebbe dire quali. Per fare un esempio, potrebbe confermare il cardinalato invalido conferito da Bergoglio solo a quei vescovi che gli si mostreranno fedeli contribuendo a denunciare l’antipapa”.

D. Una buona exit strategy, a questo punto, per Bergoglio, potrebbe essere quella di dimettersi, in modo da far cadere le contestazioni sulla rinuncia di Ratzinger e far proseguire la sua linea antipapale con un conclave di 80 cardinali invalidi “suoi”, giusto?

R. “Una volta messo alle strette, sarebbe l’unica cosa da fare per salvare almeno la sua linea successoria antipapale e completare la sua opera. Ma come ho detto sopra, non credo che Bergoglio si dimetterà, perché non ha mai rinunciato a esercitare il potere. Se leggete "La Chiesa tradita" di Antonio Caponnetto o "Il vero Francisco", del suo amico giornalista Omar Bello, capirete fino a che punto ciò sia vero.

Ma sempre più persone si rendono conto che Benedetto XVI ha subìto un colpo di stato da parte della Massoneria ecclesiastica e civile e che lui ha dichiarato una rinuncia invalida e nulla, per rimanere effettivamente papa. E’ rimasto il Katechon, lasciando il seggio impedito, ma esercitando il papato, non solo attraverso la preghiera e la sofferenza, ma anche bloccando l'usurpatore attraverso interviste e libri, come quello che ha scritto di recente con il card. Sarah e che ha impedito a Bergoglio di approvare l'ordinazione dei viri probati al Sinodo dell'Amazzonia. In altri discorsi ha difeso la presenza reale e sostanziale di Cristo nell'Eucaristia, ha detto che il dialogo non può mai sostituire la missione, ha difeso Veritatis splendor di papa Wojtyla contro la situazione morale di Amoris laetitia o ha affermato che la crisi dell'abuso sessuale sui minori deriva dall'apostasia dalla Verità, etc”.

D. Alcuni ecclesiastici hanno capito che la rinuncia è invalida e che Benedetto resta il solo papa, ma disperano che si possa fare qualcosa. E’ davvero così?

R. “A parte alcuni cardinali, vescovi e sacerdoti che non hanno ancora capito, altri tacciono per rispetto umano e altri per codardia. Una volta che però sono stati informati e rifiutano la realtà oggettiva si assumono un’enorme responsabilità spirituale. Non c'è infatti scandalo più grande che acconsentire alla menzogna - in questo caso esiziale per la Chiesa canonica - né carità più grande del dire sempre la Verità, (veritas summa charitas est). Ma se i cardinali continuano a tacere, parleranno le pietre, ovvero i laici che amano la Verità sopra ogni cosa. Infatti, il dibattito è già iniziato e non può più essere nascosto. Bergoglio ha passato 8 anni a distruggere la fede e la morale della Chiesa, scandalizzando i piccoli e unendovi il Nuovo Ordine Mondiale massonico e anticristiano. Questo fa sì che tantissimi, ormai, si chiedano se sia il vero papa o meno, soprattutto quando vedono Benedetto XVI vestito da papa, firmare P.P., dare la benedizione apostolica e, soprattutto, correggere Bergoglio”.

D. Chi dovrebbe prendere l’iniziativa, un cardinale qualsiasi?

R. “Quando un antipapa ha occupato il seggio di Pietro o il vero papa è stato messo in discussione, le cose non sono mai state facili da risolvere. La soluzione è stata talvolta promossa da re e imperatori che hanno sostenuto, con la forza delle armi, l'autentico papa. Oppure, la soluzione è giunta attraverso un Concilio ecumenico, come quello di Costanza, che chiuse lo scisma d'Occidente. A volte sono bastati sinodi, come quelli di Reims e di Piacenza, che riaffermarono il vero papa, Innocenzo II contro l’antipapa Anacleto II.

Naturalmente, ora non abbiamo re cattolici o imperatori romano-germanici che possano intervenire in armi. L'unica soluzione sarebbe un Concilio Ecumenico. Altrimenti, i porporati di oggi dovranno accettare una dopo l’altra le tappe del processo di disgregazione e mutazione del Cattolicesimo fino a dover farsi scomunicare, pena il ritrovarsi non più cattolici” (vedasi l’esempio del “cuculo” n.d.r.).

D. Senza un sinodo, la Chiesa cattolica dovrebbe risorgere dal nulla, in modo catacombale e clandestino, proprio come profetizzava papa Ratzinger, abbandonando la sede del Vaticano come il guscio secco di una crisalide…

R. “Sì. Quel pusillus grex (piccolo gregge) sarà perseguitato dal mondo e dalla falsa Chiesa cattolica che segue il falso papa. Lo stesso accadde con i cristiani al tempo di Cristo e degli imperatori romani, perseguitati dall'impero pagano e, allo stesso tempo, dagli ebrei, che consideravano eretici i cristiani. Ciò accadrà di nuovo ora, quando i veri cattolici saranno espulsi dalle Chiese per essersi opposti all'unione della Chiesa con il mondo e il resto delle religioni. Saranno anche perseguitati come scismatici (per aver seguito Benedetto XVI o il suo successore) o fondamentalisti cattolici”.

D. Quindi, oggi i cardinali vicini alla tradizione che non intervengono, stanno segnando il proprio destino: difficilmente l’opera riformatrice di Bergoglio si fermerà, già si parla di intercomunione coi protestanti, pare stia per saltare il dogma della transustanziazione…

R. “Vero. Il 4 agosto, il vaticnista Marco Tosatti ha riferito QUI di voci circa il fatto che Bergoglio vuole promuovere l'intercomunione, e che per questo ha incaricato il nuovo Segretario del Culto Divino, l'arcivescovo francescano Vittorio Francesco Viola di organizzare una commissione riservata nel mese di settembre, in modo che, entro due mesi, lo informi direttamente sui risultati dei lavori. Come si vede, l'intenzione finale sarebbe quella di creare una nuova liturgia ecumenica, dove si accolga la dottrina protestante (per la quale l'Eucaristia è un mero pasto o ricordo dell'Ultima Cena), e le parole della consacrazione saranno drammaticamente cambiate IN MODO CHE LA TRANSUSTANZIAZIONE SCOMPAIA, (già è stata inserita una strana rugiada massonicheggiante nella II preghiera di consacrazione  n.d.r.). Tutto ampiamente preannunciato fin dai tempi del profeta Daniele: la cessazione del sacrificio perpetuo. Questo dimostra ancora una volta che siamo in tempi escatologici e chi è realmente Jorge Mario Bergoglio”.

CONCLUSIONI: Ormai la Declaratio di papa Ratzinger è consegnata definitivamente alla storia e al diritto canonico e come rinuncia al papato è invalida. Volente o nolente, Benedetto XVI resta il solo papa regnante, anche se con “sede impedita”. Lui oggi può fare solo due cose: o una rinuncia valida, aprendo un nuovo conclave legittimo con cardinali di nomina pre-2013, oppure riprendere l’esercizio pratico del potere. Bergoglio è un antipapa, (perché eletto da un conclave invalido in quanto la sede non era vacante perché Benedetto non aveva abdicato) e non potrà fare mai nulla per sanare questa situazione. Tutti gli atti importanti da lui fatti non sono validi, a meno che non li riconfermi, a sua scelta, Benedetto XVI, una volta ripreso il potere effettivo. Se si andrà a un conclave per eleggere un successore di Bergoglio, si eleggerà un altro antipapa: tutta la sua linea successoria è antipapale. La Chiesa si trasformerà definitivamente in una nuova chiesa non-cattolica e mondialista. Molti cardinali legati alla tradizione saranno via via estromessi o dovranno uscirne. Il prossimo vero papa sarà solo il successore di Benedetto XVI e potrà essere eletto da un conclave composto solo da cardinali validi nominati da Benedetto XVI o Giovanni Paolo II. Anche ai cardinali invalidi nominati da Bergoglio, conviene accettare la verità e passare subito dalla parte di Benedetto, ripristinandolo sul trono. Costoro saranno molto probabilmente poi riconfermati cardinali per la loro fedeltà al legittimo successore di Pietro. E la Chiesa canonica (quella che conosciamo) sarà salva.

Altrimenti, il prossimo vero papa dovrà essere eletto, in situazione di esilio, dal piccolo resto fedele a papa Benedetto XVI e la vera Chiesa cattolica, purificata, dovrà risorgere piano piano, come nei primi secoli del Cristianesimo. 

Vaticano al lavoro perché il "papa emerito" non esiste: e allora Ratzinger cosa è stato per otto anni? E' evidente che è rimasto sempre il papa e lui stesso lo sa. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 10 agosto 2021. 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Dopo appena otto anni, in Vaticano si sono accorti che IL PAPA EMERITO NON ESISTE, tanto che “una normativa pare oramai urgente e indilazionabile”. Lo riporta un articolo del bravo Francesco Boezi su Il Giornale. Citiamo: “Prima della scelta di Benedetto XVI, checché se ne dica, la presenza contemporanea di un regnante e un emerito non era prevista. Mentre oggi è lo stesso Francesco ad avere aperto alla possibilità che il modello attuale sia replicabile. In Vaticano si starebbe così lavorando a una riforma per disciplinare la materia”. Quindi non è solo un’opinione di Mons. Giuseppe Sciacca, (Segretario della Segnatura Apostolica), e anche dei canonisti Boni, Fantappié, Margiotta-Broglio: IL PAPA EMERITO GIURIDICAMENTE NON ESISTE tanto che oggi in Vaticano si lavora per cercare di rendere reale questo istituto.

E, scusate, la domanda nasce spontanea: quindi, in questi otto anni, Benedetto XVI cosa sarebbe stato?

Un "cripto-cardinale", un “vescovo di ritorno”, un "monsignore in tenuta estiva"? No: non si è mai fatta menzione di altri titoli.

Sono otto anni che tutti dicono che il papa può essere uno solo.

Allora se il papa è uno e il papa emerito non può essere emerito, come ammette il Vaticano, quell’unico papa è rimasto sempre Benedetto XVI.

Visto che prima della Declaratio era già IL papa, e poi ha cercato un nuovo status che NON ESISTE, cosa ci fa supporre, infatti, che per tutto questo tempo possa essere stato qualcosa di diverso – e non giuridicamente codificato - dall’ essere l’unico papa?

Scusate, ma la logica va da sé.

E allora se il papa è rimasto Benedetto XVI e se il papa può essere solo uno, Francesco è un antipapa e non ha alcun potere per sanare o disciplinare qualsivoglia situazione.

Si potrebbe ricordare, a margine, che Benedetto XVI sembra proprio essere consapevole di essere sempre rimasto l’unico papa, dato che continua a firmarsi col nome pontificale, seguito da P.P. (Pater Patrum), impartisce la benedizione apostolica, veste di bianco, vive in Vaticano, usa il plurale maiestatico e continua a godere di altre prerogative da papa regnante.

Peraltro, pochi giorni fa, il suo segretario Mons. Gaenswein, ha ammesso QUI che Papa Benedetto ripete da otto anni “il papa è uno solo” senza MAI spiegare quale dei due. Ora, che in otto anni non gli sia mai sfuggito “il papa è Francesco” non è un tantino strano? Diciamo pure che dal punto di vista del calcolo delle probabilità è impossibile che sia casuale e continuare a far finta di niente su tale questione è abbastanza ridicolo.

Si potrebbe anche citare il fatto che, giusto una settimana fa, i due giuristi Estefania Acosta (autrice del volume “Benedetto XVI: papa emerito?”) e Antonio Sànchez, ordinario di diritto presso l’Università di Siviglia, utilizzando le stesse affermazioni di Mons. Sciacca, , e della Prof. Boni, dell’università di Bologna, entrambi legittimisti di Bergoglio, erano addivenuti a queste ferree conclusioni circa la totale invalidità della rinuncia di Benedetto XVI: 

1)  non esistono due papi, né il “papato allargato”

2)  il papa è uno solo,

3)  il papa emerito non esiste,

4)  munus e ministerium non sono sinonimi in senso giuridico.

5)  Ratzinger ha usato munus in senso giuridico, senza mai aver rinunciato a questo

6) ha separato i due enti che però sono indivisibili nel caso del Papa,

7) ha rinunciato pure all’ente sbagliato, cioè il ministerium.

8) Ha differito una rinuncia che doveva essere simultanea e non l’ha mai confermata

Dai due illustri canonisti Sciacca e Boni NON SONO PROVENUTE SMENTITE, quindi si ha motivo di ritenere che le conclusioni sopra riportate su una tale gravissima questione siano corrette. E a riprova, oggi, in Vaticano ci si sta rimboccando le maniche per mettere a posto le cose, almeno sul papato emerito. Ma sembra proprio il classico “chiudere il cancello quando i buoi sono scappati” nel possibile tentativo, come ipotizza Il Giornale, di silenziare Benedetto XVI. Il collega Boezi poi intervista un giurista esperto in simili questioni, il prof. Valerio Gigliotti, che commenta: “La dichiarazione di papa Benedetto XVI che annunciava la propria volontà di «rinunciare all’ufficio»  ha sicuramente segnato un tournant nella storia del diritto canonico in relazione ad un istituto che si pensava ormai sepolto tra i tomi polverosi della normativa medievale: la rinuncia". Specifichiamo: con la Declaratio, Benedetto ANNUNCIAVA SOLAMENTE la propria volontà di rinunciare, ma al MINISTERIUM, solo all’esercizio pratico del potere. Come abbiamo visto sopra, non poteva farlo, dato che i due enti sono inseparabili e per giunta non ha mai ratificato questa volontà annunciata. Chiediamo pubblicamente al Prof. Gigliotti una conferma su questo dato. Si può aggiungere un altro fatto: Benedetto non ha MAI giurato obbedienza a Francesco. Prima del conclave del 2013 aveva detto che avrebbe giurato obbedienza al suo successore, ma nel 2016 risponde così al giornalista Seewald:

Domanda: “Nel prendere congedo dalla curia, come poté allora giurare obbedienza assoluta al suo futuro successore? Benedetto XVI: “Il papa è il papa, non importa chi sia”.

Sembra dunque evidente che Benedetto stia ancora aspettando un conclave valido, che potrà avvenire solo dopo una sua rinuncia valida. E non potrà imporglielo nessuno, dato che il conclave del 2013 era invalido perché lui non ha abdicato (cosa non smentita da alcuno) e lui resta ancora il papa. L’impressione è in Vaticano si continui a utilizzare con grande disinvoltura il diritto canonico e, in particolare, una carica che viene concessa (o ritirata, in caso di abdicazione) direttamente da Dio: il Munus petrino. Secondo i legittimisti di Bergoglio che ritengono valida la rinuncia di Benedetto XVI, Domineddio sarebbe stato trattato come un maggiordomo: prima, l’11 febbraio 2013, gli si è dato l’incarico, in un latino pieno di errori, di far scadere il papato il 28 febbraio alle ore 29.00, anzi no, scusate, le 20.00. Poi arriva il 28 febbraio, lo si rimanda ancora alle ore 20.00, poi alle 20.00 non Gli si conferma niente. E il Signore sarebbe rimasto incerto sul da farsi: “Lo riprendo o non lo riprendo il munus, che poi non è neanche il munus, ma è il ministerium che, pure, non può essere separato dal munus? Ma il mio Vicario cosa diventa, visto che non può essere papa emerito?”. Come evidenziato dal teologo Pace QUI  e dal giurista Patruno,   nulla di tutto ciò sarebbe stato – ovviamente -  possibile e quindi la rinuncia – impossibile e per giunta proposta per l’ente sbagliato - è invalida, per  differimento, mancata simultaneità e mancata conferma. In sintesi: secondo i bergogliani, Benedetto sarebbe completamente digiuno di diritto canonico e ha scelto uno status giuridico che non esiste, annunciando una volontà di rinuncia invalida, differita e mai ratificata, per poi rimanere non si sa cosa per otto anni. Adesso ci si rende conto che non è papa emerito e non lo è mai stato.  Non si risponde alle contestazioni sulla validità della rinuncia e ora Francesco, come antipapa, dovrebbe poter sanare una situazione di otto anni fa senza averne alcun potere? Insomma, è un po’ come nelle sabbie mobili: più ci si agita, più si cercano rimedi, più si affonda.

Adesso si riapre il "caso Ratzinger". Francesco Boezi il 9 Agosto 2021 su Il Giornale. La scelta compiuta da Benedetto XVI potrebbe essere normalizzata e sembra tutto pronto per la riforma. Una questione che può essere sempre più all'ordine del giorno. Quando Joseph Ratzinger ha scelto di rinunciare al soglio di Pietro, ha creato un precedente, oltre che un istituto, che è quello del papato emerito. Con quel gesto, Benedetto XVI ha in qualche modo rivoluzionato la Chiesa cattolica e le sue istituzioni, ponendo un tema che è anche giuridico. Qualcosa che non è ancora stato risolto. Nel mondo contemporaneo, pronosticare che un vescovo di Roma preferisca rinunciare invece che affrontare processi ingestibili per via dell'età che avanza è possibile. Almeno lo è diventato dalla mossa del teologo tedesco in poi. Il che ha delle conseguenze rispetto a una tradizione millenaria di papati cristallizzati (con qualche eccezione) fino al momento della morte del sovrano. Siamo in un'epoca singolare: la modernità impone cambiamenti persino a un'istituzione apparentemente immutabile come la Chiesa. Prima della scelta di Benedetto XVI, checché se ne dica, la presenza contemporanea di un regnante e un emerito non era prevista. Mentre oggi è lo stesso Francesco ad avere aperto alla possibilità che il modello attuale sia replicabile. In Vaticano si starebbe così lavorando a una riforma per disciplinare la materia. Ratzinger, quel "problema", lo ha posto in maniera indiretta, ma c'è chi tenta di affrontare la questione in modo completo. La domanda che circola dalle parti della Santa Sede è questa: cosa fare quando un pontefice non può più esercitare il suo ruolo? Come procedere, inoltre, dinanzi a una rinuncia del Papa? Sono due quesiti simili, che possono essere concatenati o no. Poi c'è la "convivenza" tra due vescovi di Roma: un altro punto delicato. Uno in carica e uno no, certo, ma pur sempre due. Un intervento normativo costituirebbe pure uno strumento per evitare sovrapposizioni tra due "uomini vestiti di bianco". Quante volte, in questi otto anni, Bergoglio e Ratzinger hanno creato, certo in modo non voluto, assist a narrative su una separazione in casa? Il professor Valerio Gigliotti, accademico universitario che si occupa da tempo di pontificato emerito, premette, interpellato da IlGiornale.it, che "il papa può ammalarsi, può invecchiare (e molto!), può sentire venir meno le proprie forze fisiche e psichiche, ma può anche trovarsi in condizione di inabilità a esercitare il proprio ufficio, temporanea o permanente, dovuta a impedimenti fisici e improvvisi - un incidente o la sopravvenuta 'follia' ad esempio - o a coercizioni esterne: una minaccia, una prigionia (sono i casi di cosiddetta Sede Apostolica impedita)…". Insomma, esistono numerose fattispecie da analizzare. Ma il Papa, e questo è il punto focale, rimane un essere umano che può, per impedimenti o cause di vario genere, essere costretto a scendere dal soglio di Pietro. Un Papa, però, deve esistere. E su questo non c'è possibilità di discussione. Gigliotti, nella sua disamina, tiene a mente un adagio latino: "papa fluit, papatus stabilis est", ossia il Papa passa, mentre il papato resta. Sul resto si può ragionare. Tornando alla rinuncia di Ratzinger, Gigliotti nota come quel passaggio abbia rappresentato uno spartiacque per la storia della Chiesa cattolica: "La dichiarazione di papa Benedetto XVI che annunciava la propria volontà di 'rinunciare all’ufficio' - prosegue il professore - ha sicuramente segnato un tournant nella storia del diritto canonico in relazione ad un istituto che si pensava ormai sepolto tra i tomi polverosi della normativa medievale: la rinuncia". Il momento sembra maturo per procedere con delle disposizioni capaci di regolare ogni eventualità. Iniziano anche a esistere alcune che possono tracciare la rotta. Come quella di"Geraldina Boni, su "Stato, Chiese e pluralismo confessionale" . Il professor Gigliotti ci ha detto che "l’autrice sottolinea come emerga 'sempre più nettamente l’esigenza che proprio dagli esiti cui la dottrina è approdata […] il legislatore supremo possa attingere spunti ragionati e ben argomentati per la promulgazione di una normativa su questi temi: una normativa che pare oramai urgente e indilazionabile'". Ogni giorno può essere quello buono per la riforma. Cosa accadrà? Tra chi pronostica che Ratzinger possa essere "silenziato" dalla nuova normativa e chi pensa banalmente che si vada verso la regolarizzazione del pontificato emerito, è comunque lecito immaginare che di vescovi di Roma emeriti, di qui in avanti, possano essercene altri. 

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato

Joseph Ratzinger, ciò che scriveva D'Arcais: “La sua Reconquista della modernità si dissolverà come i vampiri all'alba”. Siamo sicuri? Antonio Cionci su Libero Quotidiano il 04 agosto 2021.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Ha riscosso un certo interesse il nostro pezzo sull’”assist” provenuto a Sua Santità papa Benedetto XVI, da uno dei suoi maggiori oppositori, il giornalista e filosofo di sinistra Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista di geopolitica Micromega. E’ stato ripreso da Il Tempo e altri giornali online, e pensiamo di fare cosa gradita proponendovi la versione estesa dell’articolo.  Intanto, per darvi una caratura della simpatia che Flores nutre per il Santo Padre Benedetto, leggete cosa scrive in “La sfida oscurantista di Ratzinger” (Ponte alle Grazie 2010): “Contro lo sfondo di virile austerità di Giovanni Paolo II assumono pesantissimo rilievo le svenevoli attenzioni dell’arcigno teologo tedesco per estenuanti frivolezze estetiche, dagli elaborati e sontuosi berretti, alle babbucce rosse, a un segretario che sembra uscito da Beverly Hills”. Considerazioni di un gusto che non ci si aspetterebbe dal marchese d’Arcais, (al quale il card. Ratzinger aveva pure accordato leale, aperto dibattito pubblico) e che sorprendono ancor più nel filosofo: invece di capire che papa Benedetto recuperava le vesti antiche di Pio IX, Giovanni XXIII e di altri pontefici, - come il camauro, le scarpe e la mozzetta rosse o gli stupendi paramenti sacri - per dimostrare al mondo una continuità con la Tradizione della Chiesa, (elemento fondamentale tanto quanto la Parola), Flores tira gomitate sulla presunta, ambigua, vanità personale del pontefice. A voi i commenti. Comunque, tutto il libro è viziato da una incomprensione teologica di fondo, che l’essere atei non giustifica: il papa non è un politico come gli altri, è un capo religioso ed è il custode del depositum fidei, per statuto. Quindi non ha alcun senso che Flores lo critichi perché porta avanti ciò che gli ha affidato il suo Dio da 2000 anni. Sarebbe come contestare il Dalai Lama perché, tanto per dire, “si ostina a proporre un’ottica dell’esistenza profondamente demeritocratica e deresponsabilizzante” dato che, secondo il suo credo, dopo la morte non ci sarà un giudizio divino, ma la reincarnazione in altri esseri viventi. Anzi, quello che secca l’autore è proprio il fatto che papa Ratzinger usi la ragione (dovrebbe essere esclusivo appannaggio dei laici, secondo lui?) per indagare il presente e dialogare col mondo attraverso una razionalità chirurgica. Lo ha fatto anche pochi giorni fa QUI   (ma quasi nessun giornale, tranne Libero – come obbedendo a una sorta di telepatico accordo - ha riportato una sua frase-bomba: “separare i credenti dai non credenti”. Troppo “divisiva”?).

In pratica, Benedetto XVI sarebbe “oscurantista” perché, alla fine, non la pensa come Flores d’Arcais e non ha tradito la fede cattolica adeguandosi ad aborto, eutanasia, gender, omosessualismo, ecologismo spinto, insomma: la lista della spesa del mondialismo ateo-massonico-malthusiano. A parte queste incomprensioni, non si può dire che l’autore non conosca la politica internazionale e quindi dipinge un panorama molto efficace su come Benedetto costituisse l’ostacolo principale al progredire di travolgenti e inarrestabili dinamiche globaliste. Ecco cosa scrive Flores: “I suoi primi anni di pontificato possono riassumersi in una restaurazione costantiniana che rovescia nell’espressione e nei fatti la stagione e la vocazione del Concilio Vaticano II […] Il suo modello è sempre più esplicitamente il Concilio di Trento, integralismo del dogma e tentativo di pulizia morale nella Chiesa. Benedetto XVI è perfettamente consapevole della marcia trionfale che sociologicamente parlando continua a compiere la globalizzazione dello spirito, secolare, edonistica, consumistica […]  Il Pastore tedesco ha deciso invece che la modernità può essere attaccata su tutti i fronti […] Ha progettato il suo papato come una vera Reconquista della modernità attraverso un sistematico attacco ai capisaldi culturali e politici da cui è nata […] Vuole una restaurazione cristiana nella scienza e nella democrazia, che rovesci l’autonomia dell’uomo in un ritorno alla sua obbedienza a Dio, per salvare la democrazia e la scienza da se stesse prima che l’avventura moderna si concluda con l’apocalissi […] Il papa detesta il Grande Satana, ovvero l’Occidente secolarizzato, sfrenatamente consumista, che nel primato del piacere banalizza e giustifica persino la strage quella degli innocenti, il genocidio che è l’aborto". Nel libro si trovano illustrati, quindi, tutti i fronti di questa guerra “intollerabile” (per Flores) condotta da Ratzinger contro la civiltà moderna. Innanzitutto, la restaurazione della dottrina, che lascia intendere una revisione del Vaticano II (che Bergoglio ha invece “dogmatizzato”), soprattutto con l’ecumenismo e la ripresa dell’evangelizzazione (poi cassata da Bergoglio coi suoi discorsi contro il proselitismo). Ancora, Flores ben descrive l’attacco di Ratzinger a relativismo, neomalthusianesimo, modernismo, nichilismo, illuminismo. Inoltre, fa comprendere tutta la sua volontà di riconfermare le radici cristiane dell’Europa e i diritti non negoziabili, la difesa della famiglia tradizionale con la condanna dei disordini sessuali e la negazione ad aborto ed eutanasia. Altri cavalli di battaglia scrupolosamente citati (e criticati), le considerazioni contro la scienza “fine a sè stessa” e contro un certo ambientalismo che potrebbe portare a ignorare la dignità umana (mentre Bergoglio ha divinizzato l’ecologia addirittura intronizzando l’idolo pagano Pachamama). Si capisce quindi benissimo, proprio grazie al suo acerrimo avversario perché, vista la guerra che il papa conduceva contro tutto il mondo-mondano, la massoneria, la sinistra internazionale, le varie lobby che contano e i cosiddetti poteri forti, Ratzinger doveva essere per forza tolto di mezzo. “Braccio armato” per questa rimozione, il Gruppo (o “Mafia”) di San Gallo, di cui, guarda caso, il campione era proprio il card. Bergoglio (CARTA CANTA: lo scrive nella sua autobiografia il mai smentito card. Godfried Danneels, primate del Belgio e appartenente alla detta lobby di cardinali modernisti). In proposito è appena stato pubblicato un documentario importante). Inoltre, oggi Flores d’Arcais risulta - de facto - il migliore alleato e difensore di Ratzinger contro il fuoco amico di taluni ambienti tradizionalisti che dipingono il papa tedesco come un “modernista”: una chiusura emotiva che impedisce, come un blocco robotico, di cogliere le clamorose contingenze che parlano dell’invalidità della sua rinuncia, alle quali nessuno riesce a dare una spiegazione alternativa al cosiddetto “Piano B”. (Peraltro, in ottica spirituale, c’è anche la remota possibilità secondo cui tali incredibili coincidenze possano essere frutto dell’azione dello Spirito Santo, oltre la volontà del “modernista Ratzinger”, quindi non si capisce perché detti ambienti tradizionalisti non possano fare mente locale su quei fatti oggettivi). Come chicca finale, Flores ci ricorda anche due clamorose profezie di Papa Benedetto per il quale: “Solo Dio ci può salvare, nel senso di salvare la democrazia che senza la fede si riduce a un guscio vuoto e sarà annientata” e ancora: “Ben presto non si potrà più affermare che l’omosessualità come insegna la chiesa è un obiettivo disordine dell’esistenza umana”. Così, oggi, per una beffa del destino, tutto si è avverato: non si fa che parlare - a torto o a ragione -  dei rischi per la democrazia derivanti da quella che viene individuata come una “dittatura sanitaria” (Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e altri) e della prevaricazione sulla libertà di pensiero che il ddl Zan, da poco rimandato a ottobre, otterrebbe se venisse approvato. Sentenzia, alla fine, il dubbio profeta Flores d’Arcais con una frase ad effetto: “La reconquista di Ratzinger si dissolverà come, all’alba, i sogni e i vampiri”. Siamo sicuri? Siamo certi che il guerriero “oscurantista” Benedetto XVI, il “papa inquisitore” come lo descrive il direttore di Micromega, possa aver lasciato il campo senza colpo ferire, sotto le pressioni dei poteri internazionali mondialisti e della fronda modernista, da lui combattuti sempre all’arma bianca?  Dopo tutte le profezie che annunciavano esattamente un avvenimento del genere? Come mai, improvvisamente, tutta questa arrendevolezza per un Cerbero della tradizione, come viene descritto? E’ possibile che, fra qualche tempo, per Flores d’Arcais arrivi una brutta delusione. Per prepararlo psicologicamente all’eventuale trauma, confidando nell’apertura al “dubbio” propria degli illuministi, gli sottoponiamo gli interrogativi che abbiamo posto a Massimo Franco (lasciati senza risposta). Abbiamo infatti, oggettivamente, una rinuncia che è un cocktail di invalidità giuridiche, errori di sintassi latina rivendicati orgogliosamente, cui si aggiungono una sfilza di messaggi colti e inequivocabili che rivelano come lui non abbia mai abdicato, per giunta con il divertente indovinello che dura da otto anni: “Il papa è uno solo” senza che Benedetto XVI spieghi mai quale dei due. E’ molto realistico, dunque, che per la Reconquista totale di Benedetto, prima o dopo la sua dipartita, (non importa), possano bastare un paio di cardinali i quali si decidano finalmente ad alzare il dito e a chiedere una verifica canonica sulla sua rinuncia che, come appurato pochi giorni fa dai giuristi Estefania Acosta e Antonio Sànchez (senza essere smentiti) è una specie di bomba innescata. E allora vedremo chi si dissolverà, se la Reconquista di Benedetto o il - pur utile - libello di Flores d’Arcais.

"Ratzinger è il vero Papa": i giuristi Sànchez e Acosta smontano la difesa dei pro-Bergoglio. Una sintesi a portata di tutti, anche dei non addetti ai lavori. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 02 agosto 2021. 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il Diritto canonico spaventa tutti, ma state tranquilli: a parte qualche passaggio un po’ più “tecnico”, abbiamo organizzato sintesi e riepiloghi semplicissimi, alla portata di chiunque. Vale la pena di leggere con un po’ di attenzione: la questione riguarda un miliardo e 285 milioni di cattolici ed è di una gravità incommensurabile, perché se papa Benedetto non ha abdicato validamente, Francesco è un antipapa: se non si risolve la “Magna quaestio” sulla rinuncia, dopo di lui, nella sua linea successoria, saranno tutti antipapi e la Chiesa cattolica non sarà più quella visibile, canonica, che conosciamo. Dopo aver indagato gli aspetti indiziari della vicenda, siamo stati costretti dalla logica, per esclusione, ad addivenire alla tesi del cosiddetto "Piano B", secondo la quale, papa Benedetto non ha mai abdicato avendo organizzato una rinuncia appositamente invalida per poter annullare una “falsa chiesa” modernista dandole modo di svelarsi nel tempo. Troverete tutto. Visto che l’ipotesi è estremamente plausibile a livello indiziario, l’ultimo confronto, la “battaglia finale”, si svolge sul Diritto canonico.

Il prof. Antonio Sànchez Sàez, ordinario di Diritto presso l’Università di Siviglia e l’avvocatessa colombiana Estefania Acosta, già autrice del libro “Benedict XVI: Pope emeritus?”, in questo articolo travolgono le ultime difese di due famosi canonisti legittimisti di Bergoglio, utilizzando le loro stesse affermazioni. Parliamo di Mons. Giuseppe Sciacca (Segretario della Segnatura Apostolica e Revisore Generale della Camera Apostolica) e della Prof. Geraldina Boni dell’Università di Bologna, due “big”, dietro i cui studi si trincerano tutti coloro che sostengono la legittimità di Francesco come pontefice. Come ben sapete, il nodo del contendere deriva dal fatto che l’ufficio papale, nel 1983, sotto papa Wojtyla, (con il card. Ratzinger già suo “braccio destro”), venne individuato in due enti: il munus, il titolo divino di papa, e il ministerium, l’esercizio pratico del potere. Abbiamo fatto un’ipotesi su quel provvedimento: un “falso bersaglio” preparato da lungo tempo contro una prevedibile aggressione interna al papato.

Infatti, secondo il diritto canonico, (can. 332 § 2) il papa deve rinunciare al munus, affinché sia valida la sua abdicazione, e invece Benedetto XVI ha rinunciato al ministerium. Ma andiamo con ordine. 

1) IL “PAPA EMERITO” NON ESISTE

“Ho letto – spiega il prof. Sànchez - un'intervista rilasciata ad Andrea Tornielli da Mons. Giuseppe Sciacca.

Innanzitutto, lo stesso Monsignor Sciacca, ammette che l’istituto del “papa emerito” non esiste: «E’ un esercizio non individuato mai definito in alcun documento dottrinale», e ancora: «(L’emeritato) non può essere riferito all’ufficio del Pontefice». Su questo sono tutti d’accordo, anche i canonisti Boni, Fantappié, Margiotta-Broglio, lo storico de Mattei e altri”. 

2) IL “PAPATO ALLARGATO” NON ESISTE E IL PAPA PUO’ ESSERE SOLO UNO

“Ammette poi Mons. Sciacca – prosegue Sànchez - che non c’è nemmeno un “papato allargato” dove Benedetto XVI potrebbe mantenere il munus e Francesco il ministerium. Solo UNO può essere papa, mai due contemporaneamente: è vero ed è conforme al diritto canonico e alla tradizione. Non ci sono, quindi, due papi: uno attivo e l'altro passivo, non esiste un “papato allargato”, a due teste”. Infatti, aggiungiamo noi, anche papa Benedetto XVI ripete da otto anni che IL PAPA È SOLO UNO (senza però mai spiegare quale dei due) come ammette il suo segretario, Mons. Gaenswein. 

3) IL PAPA NON PUO’ SEPARARE MUNUS E MINISTERIUM

“Eppure – commenta Sànchez - la conclusione che il vescovo Sciacca ne trae è che il papa sia, quindi, soltanto Jorge Mario Bergoglio, eletto papa nel conclave del 13 marzo 2013.

Questo è un ERRORE drammatico: affinché un pontefice sia eletto validamente, il papa precedente deve essere MORTO o aver ABDICATO validamente. E Benedetto non ha abdicato ESATTAMENTE per quanto dichiarato da Mons. Sciacca a Tornielli, ovvero che (per il papa) il munus e il ministerium sono inseparabili: «Il fatto che il Codice di diritto canonico, al canone 332, parli di munus petrinum – scrive Mons. Sciacca - non può in alcun modo essere interpretato come una volontà del legislatore di introdurre, in materia di diritto divino, una distinzione tra munus e ministerium petrino. Distinzione che peraltro è impossibile». 

4) BENEDETTO HA INVECE SEPARATO E DISTINTO MUNUS E MINISTERIUM

“Monsignor Sciacca ha ragione – prosegue Sànchez - quando dice che il papato non può essere diviso in munus e ministerium. Una sola persona può mantenere entrambi in una volta: il papa. E allora, come è possibile che Ratzinger li abbia invece distinti e separati, rinunciando al ministerium e non al munus? Pertanto, la rinuncia di Benedetto XVI a una presunta parte del papato (il ministerium) e non dell'intero ufficio papale (il munus) NON È VALIDA perché la "Declaratio" della rinuncia commette un errore sostanziale, in quanto influisce sulla condizione “sine qua non” anteriore all’elezione papale: la costituzione di sede vacante. Lo dice il canone 126: «L'atto posto per ignoranza o per errore, che verta intorno a ciò che ne costituisce la sostanza, o che ricada nella condizione sine qua non, è nullo». IN SINTESI: la rinuncia era invalida a causa di un errore sostanziale (separazione munus/ministerium) che non poteva produrre una sede vacante e quindi, di conseguenza, il conclave del 2013 non poteva avere luogo e pertanto l’elezione di Jorge Mario Bergoglio è nulla. 

5) MUNUS E MINISTERIUM SAREBBERO, DUNQUE, SINONIMI?

L’unica “scappatoia” che resta è che questo uso disinvolto di munus e ministerium da parte di Benedetto risponda a una questione puramente linguistica. Ovvero, Ratzinger avrebbe citato questi due enti “per non ripetere la stessa parola”, per un vezzo letterario, nonostante la catastrofe giuridica che avrebbe comportato. Ricordiamo che lui stesso spiega nel libro-intervista “Ein Leben” (2020), che il suo testo fu scritto in due settimane e passò al vaglio della Segreteria di Stato affinché fossero corretti errori giuridici e formali, ma SOTTO IL SIGILLO DEL SEGRETO PONTIFICIO: leggete. Tuttavia, ammettiamo pure che munus e ministerium possano essere sinonimi e che quindi uno possa valere l’altro. Vediamo se è vero. 

6) BONI SPIEGA CHE NON SONO SINONIMI IN SENSO GIURIDICO

“La prof. Geraldina Boni – spiega l’avvocatessa Estefania Acosta - sostiene, infatti, nel suo libro “Sopra una rinuncia” (2015), che a volte munus e ministerium sono stati indicati come sinonimi, per esempio nell’esortazione “Pastor Gregis” di Giovanni Paolo II del 2003. Tuttavia, ammette lei stessa, questa sinonimia si verifica SOLO IN SENSO NON-GIURIDICO, cioè quando la parola munus è intesa nel senso di "funzione", "compito", "servizio" o "attività", legata a una certa (indelebile) "qualificazione ontologica" determinata dal sacramento dell'Ordine. Invece, come ammette la stessa Boni (pp. 180-181), c'è un SECONDO SIGNIFICATO ATTRIBUIBILE ALLA PAROLA MUNUS, un significato non più ontologico o sacramentale ma piuttosto "GIURIDICO", equivalente a "carica" e "pressoché equipollente a officium", che risulta dal canone 145 del Codice di Diritto Canonico, che indica come ogni munus (o "carica") stabilmente istituito per uno scopo spirituale dalla legge divina o ecclesiastica sia anche un "ufficio ecclesiastico" - naturalmente, il munus petrino, essendo stato stabilmente istituito per uno scopo spirituale dalla legge divina (Mt 16,18-19 e Gv 21,15-17), è anche un ufficio ecclesiastico. Stando così le cose, si vede che, anche per Boni, QUESTO SECONDO SIGNIFICATO DELLA PAROLA MUNUS ROMPE OGNI POSSIBILE SINONIMIA CON LA PAROLA MINISTERIUM. Finora, niente da obiettare al professore”. 

7) DUNQUE, PERCHE’ BONI DIFENDE LA LEGITTIMITA’ DI BERGOGLIO? L’ERRORE FINALE

“L'errore (grossolano) di Boni – prosegue Acosta - sta nell'affermare gratuitamente ed erroneamente che Benedetto XVI ha rinunciato al MUNUS proprio nel secondo significato giuridico, mentre il testo della Declaratio non afferma mai una cosa del genere. Scrive infatti la Prof. Boni: «Insomma, alla luce di QUESTA DUPLICE ACCEZIONE DI MUNUS, Ratzinger, con la sua Declaratio, potrebbe avere voluto solo rammentare, e non già ben’inteso determinare, come, DEPONENDO IL MUNUS QUALE UFFICIO, egli non si spogliasse del munus sacramentale (quello non giuridico n.d.r.): ciò che d’altronde non sarebbe in alcun modo rientrato nella sua facoltà di disposizione, a riprova che quello del pontefice non è un potere assolutistico o totalitario , fluendo anzitutto entro gli argini delimitati dallo ius divinum». E INVECE IL PAPA SI È PROPRIO ACCURATAMENTE ASTENUTO DAL RINUNCIARE AL MUNUS PETRINUM, rinunciando invece al MINISTERIUM: «…declaro me MINISTERIO Episcopi Romae … commisso renuntiare»! [Inoltre, Boni suggerisce che con la Declaratio, Papa Benedetto ha voluto sottolineare che non si è staccato dal munus sacramentale (cioè episcopale, non giuridico), e aggiunge il fatto ovvio che questo munus è indisponibile e irrinunciabile, anche per il Papa. Tuttavia, notiamo che nell'udienza generale del 27 febbraio 2013, Sua Santità Benedetto XVI afferma che è stato proprio il 19 aprile 2005, accettando la sua elezione all'ufficio di Romano Pontefice, che si è impegnato "sempre e per sempre per il Signore". Come possiamo comprendere una tale frase del Papa, che suggerisce una indelebilità del pontificato, nonostante non costituisca un sacramento e quindi manchi di un carattere "ontologico" indelebile? Si noti che il Papa collega il suo impegno definitivo o "per sempre", non con la sua ordinazione episcopale (cioè, non con il suo munus sacramentale), ma con la sua assunzione del primato. Questa affermazione da sola demolisce l'affermazione di Boni che l'unica cosa che Benedetto XVI ha conservato "per sempre" dopo la Dichiarazione è il munus episcopale, non il munus petrino. Così, la frase in questione può essere compresa solo se si assume, come crediamo di aver dimostrato, che LA DECLARATIO NON CONTIENE ALTRO CHE UNA INESISTENTE O INVALIDA RINUNCIA AL MUNUS PETRINUM]”. IN SINTESI: la prof. Boni ammette che munus e ministerium non sono affatto sinonimi in senso giuridico. Ammette che Ratzinger cita il munus in senso giuridico. Boni dice che Ratzinger ha rinunciato al munus giuridico, mantenendo il munus non giuridico, E NON E’ VERO perché egli ha rinunciato al ministerium. 

8) RATZINGER NON HA MAI ABDICATO. RIEPILOGANDO:

proprio dagli studi di Scaccia e Boni, “legittimisti” di Bergoglio, abbiamo dunque che:

1)  non esistono due papi, né il “papato allargato”

2)  il papa è uno solo,

3)  il papa emerito non esiste,

4)  munus e ministerium non sono sinonimi in senso giuridico.

5)  Ratzinger ha usato munus in senso giuridico, senza mai aver rinunciato a questo

6) ha separato i due enti che però sono indivisibili nel caso del Papa,

7) ha rinunciato pure all’ente sbagliato, cioè il ministerium.

Come si è visto, papa Ratzinger, tutto quello che poteva fare, per rendere invalida una rinuncia, lo ha fatto, per giunta corredandolo di due gravi errori di latino nonostante sia un eccellente latinista, probabilmente per tenere desta l’attenzione sul documento QUI

“Si può anche aggiungere – commenta Sànchez – la sottomissione a condizione risolutoria temporale di un atto come la rinuncia che, di per sé, è di diritto divino”, ovvero la rinuncia differita da Ratzinger al 28 febbraio 2013 e mai confermata dopo le ore 20.00 di cui hanno parlato il teologo Carlo Maria Pace e il giurista Francesco Patruno che ancora una volta, secondo gli autori rende invalida la rinuncia.

Tutto questo, papa Ratzinger potrebbe averlo fatto in modo del tutto consapevole secondo il PIANO B od anche inconsapevolmente, per una serie di particolarissime e fortuitissime coincidenze e distrazioni (magari “guidate” dallo Spirito Santo?), ma cambia poco.

9) L’”ULTIMA TRINCEA” CANONICA: “L’UNIVERSALIS ECCLESIAE ADHAESIO”

L’ultima obiezione dei bergogliani riguarda la dottrina della cosiddetta "Universalis Ecclesiae Adhaesio” secondo la quale, visto che nessun cardinale che ha partecipato al conclave del 2013 protesta o solleva dubbi sull’elezione di Francesco, la si intende data per buona e quindi valida. “Tale dottrina – spiega il prof. Sànchez - non è mai stata intesa a salvare, sanare o considerare soddisfatta la “CONDITIO SINE QUA NON" senza la quale un provvedimento non potrebbe mai essere avviato. Nel caso del papato, questa condizione è che LA SEDE SIA VACANTE, ovvero che il papa regnante sia morto o abbia validamente abdicato. L'Universalis Ecclesiae Adhaesio potrebbe sanare a posteriori un errore o una lacuna del provvedimento canonico dell'elezione del Papa, una volta cominciato, ma mai la condizione precedente per l'avvio di quel provvedimento”. Qui i dettagli: 

10) IN SINTESI: Acosta e Sànchez dicono che il conclave di cui parla la Universalis Ecclesiase Adhesio DOVEVA ESSERE UN CONCLAVE LEGITTIMO, cioè fatto a papa morto o abdicatario. Ma siccome Benedetto non ha abdicato, il conclave del 2013 non è mai esistito.Il papa emerito è il solo PAPA esistente,  il papa è uno ed è solo Benedetto XVI. Ergo, FRANCESCO È UN ANTIPAPA.

 Vaticano, Joseph Ratzinger doveva essere fatto fuori: da uno dei suoi maggiori nemici, l'ultima drammatica conferma. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 31 luglio 2021. Dopo 11 anni, il migliore assist a papa Benedetto XVI, arriva da uno dei suoi maggiori nemici, Paolo Flores d'Arcais, direttore di Micromega che, in La sfida oscurantista di Ratzinger (2010), dipinge un panorama su come Ratzinger costituisse l'ostacolo principale a inarrestabili dinamiche globaliste. Cita, così, tutti i fronti della guerra "intollerabile" condotta dal papa tedesco contro la modernità: restaurazione della dottrina, revisione del Vaticano II, attacco al relativismo. Inoltre, tutta la sua volontà di riconfermare le radici cristiane dell'Europa e i diritti non negoziabili. Si capisce perché, vista la guerra che conduceva contro tutto il mondo-mondano, la massoneria, le lobby e i cosiddetti poteri forti, Ratzinger doveva essere per forza tolto di mezzo. L'autore risulta anche oggi il migliore difensore di Ratzinger contro il fuoco amico di taluni ambienti tradizionalisti che dipingono il papa tedesco come un "modernista". Flores ricorda anche due clamorose profezie di Papa Benedetto per il quale «La democrazia senza la fede si riduce a guscio vuoto e sarà annientata» e ancora: «Ben presto non si potrà più affermare che l'omosessualità è un obiettivo disordine». E tutti, oggi, a torto o a ragione, non fanno che parlare di "dittatura sanitaria" e del bavaglio-ddl Zan. Qualcuno direbbe che «Dio si serve anche dei Suoi nemici».

Lorenzo Bertocchi per “La Verità” il 27 luglio 2021. La chiesa deve essere «demondanizzata», ma non nel senso di essere una specie di disincarnata realtà spiritualizzata, oppure fuori dalle beghe della mondanità. E nemmeno solo deve «continuamente prendere le distanze dal suo ambiente» per compiere la sua missione, come aveva detto proprio ai fedeli tedeschi nel 2015. C'è di più, dice oggi il papa emerito Benedetto XVI, si tratta di cogliere anche il positivo di quel movimento necessario, quello del divincolarsi della chiesa dalle pastoie del tempo per vivere davvero la «libertà della fede». Si alza ancora la voce del papa emerito Benedetto XVI, questa volta lo fa con un'intervista rilasciata rispondendo per iscritto alle domande della rivista tedesca Herder Korrespondenz in occasione del 70° anniversario della sua ordinazione sacerdotale. E lo fa alla sua maniera, andando in profondo e arando così il campo in un modo che lascia il solco. Perché «demondanizzarsi» per vivere la «libertà della fede» significa ad esempio, come scrive, che «nelle istituzioni ecclesiali - ospedali, scuole, Caritas - partecipano molte persone in posizioni decisive che non condividono la missione interiore della Chiesa e quindi in molti casi oscurano la testimonianza di questa istituzione». Si nota subito lo sguardo che conduce al cuore, senza fronzoli: uomini che si impegnano come cattolici che in fondo non condividono la stessa fede, quella che finemente il Papa emerito chiama «missione interiore della Chiesa». E così c'è controtestimonianza. Possibile forse sentire qui anche un eco del dibattito sulla «coerenza eucaristica» che ha animato i vescovi statunitensi a proposito delle condizioni degne con cui avvicinarsi all'eucaristia, anche per quei politici sedicenti cattolici che nel frattempo promuovono scelte pubbliche a favore dell'aborto (come il presidente Joe Biden). La loro, par di capire dalle parole di Ratzinger, è appunto una contro testimonianza che, in fondo, non è «libertà delle fede» nel tempo presente. Se del dibattito negli Stati Uniti si sente solo l'eco, le parole di Benedetto XVI rimbombano invece dentro al «cammino sinodale» della chiesa tedesca, impegnatissima a spingere il rinnovamento verso le benedizioni di coppie gay in chiesa, l'ordinazione sacerdotale femminile, l'intercomunione con i luterani e via liberalizzando. Arriva così la fine bordata del Papa emerito per la sua amata chiesa tedesca: «finché nei testi ufficiali della Chiesa parleranno le funzioni, ma non il cuore e lo Spirito, il mondo continuerà ad allontanarsi dalla fede». Non si cerchino quindi soluzioni «funzionali», magari per stare al passo con i tempi, ma si abbia il coraggio di dare testimonianza. Inoltre papa Ratzinger critica la parola «Chiesa ufficiale» utilizzata spesso come spartiacque «tra ciò che è richiesto ufficialmente e ciò che si crede personalmente». Ha suggerito quindi che molti testi pubblicati dalla Chiesa tedesca sono stati realizzati da persone per le quali la fede era in gran parte istituzionale, ma che poi a livello personale procedevano, come si dice, con una fede a la carte. Mette il dito nella piaga come al solito il Papa emerito, che rompe ancora il silenzio e come un anziano monaco distilla le sue parole perché tutti possano trarne linfa vitale e fare un robusto esame di coscienza.

Nuova intervista di Benedetto: “Separare credenti da non credenti”. Non sono un po' troppe conferme al "Piano B"? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 27 luglio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Eccola qui. La attendevamo ed è arrivata – immancabile - la scure di papa Benedetto XVI dopo la prevedibilissima abolizione bergogliana del suo Summorum Pontificum, il motu proprio con cui liberalizzava l’unica messa a “totale garanzia di cattolicità”: quella antica, in latino.  Ieri il giornale cattolico tedesco Herder Korrespondenz ha pubblicato una lunga intervista dove Ratzinger ricorda il suo tempo come parroco in una parrocchia di Monaco, ma a margine – come suo solito - fa dichiarazioni notevolissime:  “Finché solo l'ufficio, ma non il cuore e lo spirito, parlerà nei testi ufficiali della chiesa, l'esodo della fede dal mondo durerà". Nelle istituzioni ecclesiali - ospedali, scuole, Caritas - molte persone sono coinvolte in posizioni decisive che non supportano la missione interna della chiesa e quindi spesso oscurano la testimonianza di questa istituzione". “Grano e pula, pesci buoni e cattivi appartengono alla chiesa. Non potrebbe essere questione di separare i buoni dai cattivi, ma potrebbe essere questione di separare i credenti dai miscredenti. Da allora, questo problema è diventato ancora più evidente”. Mah? Chissà cosa avrà voluto dire. Il succo – potremmo riassumere obiettivamente - è che se i cattolici continuano a dare retta a chi ha solo un’autorità nominale, apparente, e non ha la Grazia, il cuore, lo spirito del Cattolicesimo, la fede continuerà a mancare nel mondo.  Oggi, la necessità di separare i credenti dai miscredenti si è accentuata. Per una stranissima coincidenza, questi contenuti sembrano proprio essere sovrapponibili con la cosiddetta teoria del "Piano B", QUI  che stiamo sviluppando da mesi, con sempre maggiori e continue acquisizioni. Secondo questa teoria, papa Ratzinger, pressato a dimettersi e ormai esautorato, nel 2013 ha firmato una Declaratio di rinuncia invalida per il diritto canonico che gli ha consentito di rimanere papa, sotto l’istituto di un inesistente “papato emerito”. Da otto anni, continua a inviare sottili (ma neanche troppo) messaggi per far capire questa realtà e annullare la chiesa modernista che, tramite la Mafia di San Gallo, lo ha spinto a lasciare. Il suo obiettivo è quello di separare il grano dal loglio, i credenti dai non credenti con uno scisma purificatorio, espellendo massoni, modernisti, omosessualisti, eretici. Per far questo, basta che i cardinali vadano a “controllare le carte” per capire che lui non ha MAI ABDICATO. Fine della Chiesa bergogliana, annullata in un soffio, fine del modernismo, passato, presente e futuro. Si apre un “mondo nuovo” di riscoperta della fede, come scrive lui stesso in “Ultime conversazioni”. Si spiegherebbe quindi, perché Ratzinger continui a intervenire “ a gamba tesa” con questi interventi, guastando ognuna delle riforme demolitorie di Bergoglio: come unico papa, non può tacere. Altrimenti dobbiamo pensare, come fanno in Germania, che è uomo da non mantenere le promesse, come quella di “restare nascosto al mondo”.

Il Piano B è una follia? Intanto cerchiamo di dare una spiegazione a questa serie di fatti, che vi riassumiamo in modo telegrafico:

- A fine 2012, Vatileaks porta alla luce una feroce guerra intestina nella Chiesa e parla di un piano per far fuori Benedetto.

- A maggio 2012 il presidente dello Ior Gotti Tedeschi viene licenziato senza che Benedetto ne sappia nulla. Ergo, il papa ormai non aveva più alcun potere nella Chiesa.

- Nel 2015, l’autobiografia del card. Danneels confermerà che esisteva una lobby di cardinali modernisti che voleva far dimettere Ratzinger e il cui campione era Bergoglio 

- A febbraio 2013 Benedetto scrive una  Declaratio di rinuncia in latino con due grossi errori di sintassi e decine di imperfezioni, denunciati subito sulla stampa da noti latinisti. Tre anni dopo, in “Ultime conversazioni”, Ratzinger dichiara che ha scritto il documento in ben due settimane, in latino, per non fare errori dato che è un ottimo latinista. Il documento, pure, era passato al vaglio della Segreteria di Stato per correggere errori formali e giuridici (sotto segreto pontificio) .

- La sua rinuncia coinvolge cinque canoni che pare proprio la rendano invalida: 124, 332 § 2, 188, 41, 17 .

- La rinuncia è però sicuramente dubbia, viste le interpretazioni, e pertanto invalida per il diritto canonico. 

- Per “distrazione”,  Ratzinger ha invertito gli enti munus e ministerium,  che, pure, lui stesso insieme a Wojtyla aveva elaborato negli anni ’80 per scomporre in due l’ufficio papale.  Alla lettera, lui si è dimesso solo dalle funzioni pratiche, il ministerium, ma conserva il munus, il titolo divino di papa. Quindi diventa un papa eremita, ma resta il solo e unico papa. Dice infatti che egli è “rimasto nel recinto di san Pietro”.

- Per otto anni – non a caso . ripete che IL PAPA E' UNO SOLO, senza mai dire, nemmeno per sbaglio che è Francesco, cosa appena confermata da Mons. Gaenswein. 

- Insolitamente, differisce l’entrata in vigore della rinuncia al 28 febbraio, alle 29.00 (poi corretto con le 20.00). Saluta il mondo alle 17.30 e poi alle 20.00 non la ratifica. Guarda caso, questo rende la rinuncia invalida perché differita, non simultanea e non ratificata 

- In “Ultime conversazioni” scrive che si è dimesso come i papi che non hanno mai abdicato QUI   con un chiaro riferimento al papa Benedetto VIII che fu scacciato da un antipapa, e rinunciò al ministerium come lui, ma restando IL papa.

- Scrive in “Ultime conversazioni” che le sue dimissioni non hanno nulla a che vedere con l’abdicazione di Celestino V.

- L’istituto del papato emerito non esiste, a detta di tutti i maggiori canonisti: il papa emerito resta sempre IL papa. QUI

- Continua a vestire di bianco, giustificandosi col fatto che non aveva altri abiti. 

- Continua a usare il titolo Pater Patrum, del Pontefice regnante, a impartire la benedizione apostolica, a usare il plurale maiestatico, a regalare cartoline e medaglie da papa regnante 

- Dichiara sottilmente, ma precisamente, che ha scelto la data della Declaratio con un nesso interiore anche col primo lunedi di Carnevale.  

- Continua a intervenire da otto anni in questioni cruciali per la vita della Chiesa.

- Nel libro intervista “Ein Leben”, ha scritto: “La mia intenzione non era semplicemente e primariamente fare pulizia nel piccolo mondo della Curia, bensì nella Chiesa nel suo insieme”.  

E infine, last but not least, ieri ha dichiarato che se i cattolici continuano a dare retta a chi ha solo un’autorità nominale, apparente, e non ha la Grazia, il cuore, lo spirito del Cattolicesimo, la fede continuerà a mancare nel mondo.  C’è oggi la necessità di separare i credenti dai miscredenti.

Ora, onestamente, non pensate che sia un PO’ TROPPO? Non credete che vi sia una certa quantità di indizi tale da dover far prendere moderatamente in considerazione anche lo choccante Piano B?   Se siete riusciti a risolvere i misteri di cui sopra,  (E NON PRIMA, SIATE GENTILI) e avete delle ulteriori obiezioni da porre, potrete leggere le risposte ad alcuni contestatori. Buona lettura.

C'è davvero una guerra tra i due Papi? Francesco Boezi il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Si parla sempre di uno scontro tra Papa Francesco e Benedetto XVI. Una narrazione che nasconde verità, ma anche molte semplificazioni. L'ultimo capitolo è quello della Messa antica: Ratzinger l'ha difesa, Bergoglio l'ha ridimensionata. La saga prosegue da quasi otto anni. E forse il perché andrebbe ricercato nella situazione che è del tutto atipica: la Chiesa cattolica vanta un Papa regnante, ma pure un Papa emerito. Gli ottimisti si aspettavano la calma piatta, la convivenza pacifica nel solco di un unico grande sistema. Solo gli ottimisti però. Perché era chiaro che una certa tensione narrativa, con "due Papi" all'attivo, diviene quasi fisiologica. E spesso si arriva a parlare di "guerra" tra i pontefici, nonostante la versione ufficiale verta sulla concordia totale. Il Papa è uno: è un fatto noto. Benedetto XVI lo ha ribadito più volte, ma ai ratzingeriani sembra non bastare. Ecco, i ratzingeriani e i bergogliani: forse, più che alla Curia e al duo vestito di bianco, la contesa interessa ai fedeli e ai seguaci dei due pontefici. Forse: perché neppure questo schema regge del tutto. Almeno non dal punto di vista della sintesi legata agli "schieramenti". Per facilità, ad esempio, vengono considerati "ratzingeriani" tutti coloro che si scagliano contro il Motu proprio Traditionis Custodes. Ma la questione non è affatto così semplice. In difesa della Messa antica si è mosso un esercito composito di fedeli che non può essere riassunto esclusivamente attorno alla figura dell'Emerito. Se non altro perché, tra i "tradizionalisti", risiede pure chi Ratzinger lo critica eccome. Per le cronache, erano ratzingeriani pure i cardinali dei "Dubia", i critici di Amoris Laetitia, quelli in contrasto con l'esito del Sinodo amazzonico, i cattolici filo-Trump, coloro che guardano con favore al sovranismo, gli anti-Sinodo tedesco e così via: troppo facile metterla così. Certo, esistono ambienti dottrinali, con tanto di cardinali, che richiamano gli insegnamenti di Benedetto come fossero monoliti teologici. Ma non tutti i cosiddetti ratzingeriani si oppongono a Francesco. E di certo l'ex vescovo di Roma non è in contrasto con il Papa regnante. A leggere certe dichiarazioni qualche dubbio viene. I porporati Gherard Ludwig Mueller e Raymond Leo Burke non si sono risparmiati sulla Messa tridentina. Il secondo, stando al blog di Aldo Maria Valli, ha indicato di pregare affinché i fedeli "non cedano allo scoraggiamento che tale durezza necessariamente genera, ma che, con l’aiuto della grazia divina, perseverino nel loro amore per la Chiesa e per i suoi pastori". Il secondo, come racconta il blog di Sabino Paciolla, ha dichiarato che "invece di apprezzare l’odore delle pecore, il pastore qui le colpisce duramente con il suo bastone". Se non sono critiche provenienti dalla destra ecclesiastica, ratzingeriana per definizione, allora cosa sono? I "fronti" sono un fatto noto, ma non sono soltanto due né si riferisce espressamente al pontefice regnante e al suo predecessore. Poniamo il caso del Summorum Pontificum: la ratio di Benedetto XVI poteva essere quella di evitare la fuga di massa verso la Fraternità San Pio X. Siamo così sicuri che il Motu proprio di Bergoglio parta da un presupposto contrario? Forse i tempi sono cambiati. Forse le priorità della Chiesa cattolica sono diventate altre. Forse il pontefice argentino deve porre rimedi a questioni nuove. Forse, quella che viene chiamata "guerra", è solo la reazione del basso a scelte diverse, per tempistiche difformi, in un contesto differente. La vera "guerra", se c'è, è tra coloro che pensano ad un'evoluzione di un tipo e coloro che invece preferirebbero una marcia indietro. E quindi la sfida sarebbe per la Chiesa cattolica del domani. C'è chi vorrebbe un cattolicesimo aperto alle benedizioni per le coppie omosessuali, alla sovrapposizione liturgica con il protestantesimo, alle diaconesse. C'è anche vi vorrebbe una Chiesa aperta alla gestione ecclesiologica del laicato, all'assoluta parità dei sessi, all'estensione del diritto ai sacramenti, all'abbraccio al mondo in chiave culturale, all'accoglienza erga omnes, allo spostamento del baricentro cattolico verso continenti diversi dall'Europa. Altri puntano agli ecologismi, all'abolizione del celibato, al dialogo serrato con l'islam e così via. Battaglie che Bergoglio può condividere, non condividere o condividere solo in parte, a seconda del singolo caso. C'è, di rimando, chi vorrebbe la strenua difesa della Messa tradizionale, la chiusura verso l'ambientalismo, il "no" secco all'abolizione del celibato e ad altre aperture dottrinali. Una parte di quel mondo critica gli istituti sovranazionali come l'Unione europea, la centralità cattolica europea, la priorità gerarchica della bioetica e delle questioni spirituali, il contrasto con il mondo contemporaneo. Molti propongono una critica all'accoglienza indiscriminata, la segnalazione dei pericoli apportati dal multiculturalismo, il ritiro strategico in attesa di tempi migliori e così via. In questo caso si parla di battaglie che Ratzinger, come prima Bergoglio, può condividere, non condividere o condividere in parte. Non esiste dunque un blocco unitario ideologico totalmente aderente al pensiero dell'uno o l'altro successore di Pietro. Come premesso, non si tratta per forza di bergogliani "contro" ratzingeriani o di gruppi circoscritti e definiti, ma di sensibilità, anche non riassumibili e non per forza unite in materia d'indirizzo, che partono dal piano fideistico per sfociare in quello filosofico-culturale. Tensioni, spinte e volontà (si pensi al Sinodo tedesco ed alle contromosse del "fronte tradizionale") che si confrontano con le scelte che furono di Ratzinger e con quelle che sono di Francesco. E con la maggioranza silenziosa che osserva e aspetta di vedere il finale.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento… 

Ratzinger, dagli Usa tre obiezioni alla tesi del "Piano B". Rispondiamo punto per punto. Non si può partire dal giudicare i moventi prima di indagare gli indizi. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 25 luglio 2021. 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Mentre Bergoglio fa piazza pulita del “ceto intellettuale” all’interno della Chiesa decapitando i movimenti ecclesiali più vivaci e procede a quella che a molti appare come una “schedatura del personale” vaticano, abbiamo ricevuto un articolo da un signore americano, Steven O’Reilly, in contestazione della teoria dell’ormai noto Piano B. Tuttavia, i suoi toni sprezzanti (definisce il nostro lavoro “ridicolo”) non sono molto dialogici e pertanto ci limiteremo a una sola risposta. Egli, pur criticando in modo asperrimo Francesco, lo riconosce assolutamente come pontefice.  Legittimo, però, alla base di tutta la sua contestazione, c’è un errore di metodo, perché l’interlocutore non parte da dove siamo partiti noi, ovvero dalla constatazione di alcuni DATI DI FATTO OGGETTIVI QUANTO INSPIEGABILI. Noi siamo stati “COSTRETTI” DALLA LOGICA a dover configurare l’ipotesi scomodissima e choccante del Piano B che è l’unica a fornire un inquadramento coerente a una serie di fatti che questo signore evita di analizzare in blocco. (Credeteci, avremmo preferito di no, visto che questo “uno contro tutti” è solo fonte di seccature, un vero calice amaro). I principali motivi che hanno portato a questa tesi li abbiamo elencati QUI e infatti hanno sortito solo un silenzio incuriosito da parte di un giornalista del livello di Massimo Franco che, come unica risposta, ci ha invitato a scrivere un libro. Non è che noi siamo partiti da un obiettivo e poi abbiamo rabberciato una teoria cercando qui e là qualche pezza d’appoggio per “disarcionare” qualcuno, come sostiene il dott. Riccardo Petroni nella sua contestazione-kamikaze. (Tra l’altro, il fatto che Petroni, negatore della divinità di Cristo, si sia “massacrato” da solo in quel modo grazie proprio a un antico omaggio del Santo Padre Benedetto XVI è un evento molto suggestivo, che fa pensare). E’ esattamente il contrario: la teoria del Piano B si è montata da sola mano a mano, in modo organico e ordinato, come avesse vita propria, sulla base di alcuni “mattoni” costituiti da documenti e dati di fatto indagati nel dettaglio. Invece, il nostro interlocutore americano cosa fa? Parte dalla fine, dicendo: “come è possibile che Ratzinger abbia voluto fare questo o questo”? E’ come negare che Luigino abbia rubato la marmellata perché “sa che la mamma si arrabbia”. Il problema è che abbiamo sorpreso Luigino in dispensa con le dita sporche di una materia dolce e appiccicosa dal gusto di frutta… E stiamo cercando di capire cosa mai sarà avvenuto...Non si può escludere che un fatto si sia verificato, a prescindere, giudicando se le eventuali motivazioni del responsabile possano essere più o meno realistiche. Il movente si scopre alla fine. Intanto si indaghi quello che è stato fatto: il cosa, il come e il quando. Poi si scoprirà il perché. Tuttavia, nel deserto intellettuale in cui il Piano B – per ora, almeno - troneggia senza valide contestazioni, raccogliamo golosamente anche le obiezioni di questo signore.  Obiezione 1: “Se Benedetto XVI intendesse fingere le sue dimissioni, ciò significherebbe che ha permesso a un modernista di essere "apparentemente" eletto papa, nel qual caso questo papa sarebbe certamente un vero antipapa, potenzialmente portando milioni e milioni di cattolici in perdizione attraverso le sue false dottrine. Come potrebbe Benedetto giustificarlo per qualsiasi motivo? Il fine non giustifica i mezzi! Benedetto sarebbe moralmente responsabile per aver permesso ai lupi di devastare le pecore senza la protezione del loro capo pastore qui sulla terra, Benedetto stesso! Una cosa è suggerire che un pastore possa stare in agguato, apparentemente abbandonando le pecore per nascondersi nell'oscurità e tendere un'imboscata a un lupo quando si aggira tra il gregge prima che il lupo attacchi. Tuttavia, è ben altra cosa da suggerire che un buon pastore possa permettere libero sfogo lupo - e poi per otto anni! Impossibile. Benedetto non è un mostro del genere”.

Risposta 1: A questa affermazione ha già risposto il più noto filosofo italiano, il Prof. Giorgio Agamben citato da Peter Seewald: la vera ragione delle dimissioni di Benedetto è stata la volontà di risvegliare la coscienza escatologica (riguardante i destini ultimi dell'uomo) dei credenti: “Nel piano divino della salvezza, la Chiesa avrebbe anche la funzione di essere insieme «Chiesa di Cristo e Chiesa dell’Anticristo». Le dimissioni sarebbero una prefigurazione della SEPARAZIONE tra «Babilonia» e «Gerusalemme» nella Chiesa. Invece di impegnarsi nella logica del mantenimento del potere, con la sua rinuncia all’incarico Ratzinger ne ha enfatizzato l’autorità spirituale, contribuendo in tal modo al suo rafforzamento”. A conferma del concetto, nel libro intervista “Ein Leben”, dichiara lo stesso Ratzinger: “La mia intenzione non era semplicemente e primariamente fare pulizia nel piccolo mondo della Curia, bensì nella Chiesa nel suo insieme”.  What else, caro signore? Nel Piano B, Ratzinger ha scelto una strategia che contempla cedere del terreno all’avversario. Come si può giudicare un generale (che peraltro dovrebbe essere assistito dallo Spirito Santo) che opti per una ritirata strategica dicendo “ma è pazzo quell’uomo a cedere tanto terreno al nemico?”. Lasciate fare: se è vero il Piano B, esso è progettato per essere una specie di bomba nucleare per il modernismo passato, presente e futuro. La sua durata non dipende da Ratzinger, che ancor oggi continua a inviare input, ma dalla svogliatezza dei cattolici e del clero che non prendono in esame i fatti misteriosi che sono stati pazientemente illustrati. Certe cose avrebbero potuto essere comprese subito dato che già nel 2013 qualcuno si era accorto che la rinuncia non andava. Ma evidentemente era necessario arrivare alla Pachamama e alla abolizione della messa in latino perché qualcuno cominciasse ad avvitare le prime lampadine. Probabilmente servirà qualche altra tappa del treno modernista, e i cattolici ortodossi dovranno subire qualche altro pizzicotto prima di svegliarsi dall’incubo e provare a cambiare paradigma ponendosi la domanda ferale: “Forse Bergoglio non ha le carte in regola per essere il papa?”. Inoltre, da un punto di vista teologico, bisogna ricordare che il pontefice non è il “baby sitter dell’umanità”. Ogni uomo ha il libero arbitrio per scegliere la verità a seconda delle contingenze, e Dio riconosce infallibilmente chi, consapevolmente, ha imboccato la via larga, quella del mondo, e chi inconsapevolmente, guidato da cattivi maestri, in buona fede ha preso la strada sbagliata. Dio vede nel cuore dell’uomo e darà a ognuno il suo, secondo una giustizia perfetta. Peraltro, il nostro interlocutore ha parole durissime per Francesco, lo definisce un lupo divoratore del gregge, e ben difficilmente un vero papa potrebbe essere un lupo per le proprie pecore, poiché questo andrebbe contro le parole di Cristo: “l’inferno non prevarrà”. Quindi o Cristo aveva torto, o l’interlocutore si sta contraddicendo da solo e Bergoglio non è il papa.

Obiezione 2) Se Benedetto XVI avesse voluto fingere le sue dimissioni, sarebbe stato molto presuntuoso da parte sua. Benedetto non avrebbe avuto modo di sapere in anticipo che sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo, data la sua età avanzata, anche per lanciare la sua "trappola" sull'antipapa e sui suoi scagnozzi modernisti. E se fosse morto prima di far scattare la trappola? In tal caso, consegnerebbe il gregge incontrastato al nemico. Sono passati otto lunghi anni e Benedetto diventa sempre più debole fisicamente e mentalmente. Perché ormai non ha fatto scattare la sua trappola?  Non esiste una risposta buona o ragionevole.

Risposta 2) Non c’entra nulla quanto Ratzinger possa restare in vita. Peraltro non sappiamo se alla sua morte non verrà fuori qualche sorpresa, come valvola di sicurezza. Benedetto, secondo il Piano B, ha consegnato alla storia e al diritto canonico una rinuncia invalida che ha SEPARATO PER SEMPRE LE LINEE SUCCESSORIE: una papale la sua, e una antipapale, quella di Bergoglio, come due famiglie, due Dna diversi. Che la vera Chiesa recuperi la sede o debba risorgere nelle catacombe, come profetizzato dallo stesso Ratzinger, ancora non sappiamo.  Il munus petrino, il titolo di papa conferito da Dio, a quanto pare, Benedetto se lo porterà nella tomba (il più tardi possibile, gli auguriamo) e quindi una Chiesa cattolica riorganizzata forse in modo clandestino, come annunciato da diverse profezie, dovrà eleggere autonomamente un nuovo vero papa, successore di Benedetto, (non di Bergoglio) come nei primi tempi del Cristianesimo. Quindi, il suo Piano B è fatto per resistere nei secoli, è progettato per separare il grano dal loglio sulla lunga distanza con un documento che ormai è scolpito nella storia, corredato dai suoi fantastici errori di sintassi.

Obiezione 3) Se Benedetto XVI intendeva fingere le sue dimissioni, come poteva davvero aspettarsi che un tale piano funzionasse? Anche se debole al potere, prima del suo apparente annuncio di dimissioni, certamente era più forte in quel momento di quanto lo sia ora, otto anni dopo. Cioè, ha dato al suo successore otto anni per nominare più cardinali - oltre il 50% dell'intero collegio cardinalizio, e più vescovi e arcivescovi, ecc. Inoltre, gli alleati di Benedetto nelle posizioni chiave della curia sono stati gradualmente eliminati (ad es. , Burke, Mueller, Sarah, ecc.). Pertanto, Benedetto si trova oggi in una posizione di potere più debole per lanciare un contrattacco, rispetto a quando si è apparentemente dimesso.

Risposta 3) Per questo ha inserito gli errori di latino nella Declaratio, per tenere desta l’attenzione su quel documento per i secoli a venire. E il suo piano STA FUNZIONANDO, infatti, per quanto con un ritardo di sei anni, qualcuno se n’è accorto e altri hanno divulgato e sviluppato la scoperta, individuando sempre nuovi elementi indiziari, ad esempio che l’interlocutore non considera minimamente. Benedetto ha consentito che l’antipapa nominasse circa 80 cardinali che rendono invalido il prossimo conclave, per l’appunto: un gioco da maestro. Se Bergoglio non ne avesse nominato nessuno, paradossalmente, il prossimo conclave potrebbe essere valido. Il pensare che il 94enne Benedetto possa tornare a gestire anche il ministerium, ovvero le funzioni pratiche alle quali ha dichiarato di voler rinunciare, è solo una delle opzioni. Nel momento in cui l’alto clero esaminasse la rinuncia, certificasse che è invalida, e Bergoglio fosse messo alla porta, Benedetto potrebbe, o tornare a governare fino alla fine, come fece anche Giovanni Paolo II, o firmare una rinuncia valida, o nominare un vescovo vicario per il ministerium. Il Piano B scatterà più realisticamente dopo la sua morte, (se proprio si vuole, potrebbe essere l’annunciata uscita di scena del Katechon, il trattenitore dell’Anticristo) quando con l’elezione di un nuovo antipapa, la Chiesa modernista prenderà una tale accelerazione verso il burrone che, per forza, alcuni cattolici (quelli interessati a restare tali) si dovranno svegliare. Le prossime tappe saranno con ogni probabilità l’abolizione della Transustanziazione e la creazione di una conferenza interreligiosa internazionale, o qualcosa di simile verso la religione universale per il nuovo ordine mondiale che Bergoglio si è auspicato apertamente in un’intervista a La Stampa del 15 marzo 2021. E allora molto probabilmente, visto che qui le profezie si avverano una dopo l’altra, giungerà un grande prelato, un uomo di fede, ma soprattutto di carattere e di polso.

Ricordiamo che San Bernardo di Chiaravalle, riuscì a spodestare l’antipapa Vittore IV succeduto nel 1138 all’antipapa Anacleto II dopo ben otto anni di antipapato. Quindi, nihil sub sole novum. Per ora, dunque, secondo noi, la teoria del Piano B tiene ancora. Avanti il prossimo.

“L'enigma Benedetto”. Lettera a Massimo Franco (Corriere) sulla strana rinuncia di papa Ratzinger. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 22 luglio 2021

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Gentile e stimato Massimo Franco, l’anno scorso hai pubblicato un interessante e documentato volume intitolato “L’enigma Bergoglio” (ed. Solferino). Permettimi di sottoporre alla Tua valutazione alcuni fatti inspiegabili che potrebbero essere ben raccolti in un altro libro intitolato, magari, “L’enigma Benedetto”. Per brevità, riporto questi dati oggettivi in modo sintetico, quasi come in un indice, rimandandoTi ai link collegati per ogni eventuale approfondimento. Sulla Declaratio di rinuncia di papa Ratzinger si scontrano, fin dal 2013, diversi canonisti con opposte interpretazioni. Ti sembra normale che un atto giuridico di tale portata possa dare spazio a simili dubbiosità, cosa che, già di per sé, lo renderebbe nullo? Stranamente, infatti, questa rinuncia è stata scritta così “maldestramente” da consentire di chiamare in causa tutti gli articoli possibili del Codice di Diritto canonico: 124, 332 § 2, 188, 41, 17. Per una curiosa distrazione, Benedetto XVI ha invertito gli enti munus e ministerium, rinunciando al ministerium (esercizio pratico) e non al munus petrino (titolo di origine divina) come invece richiesto dal Codice di Diritto canonico all’art. 332.2: “Si contingat ut Romanus Pontifex MUNERI suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur” . Questo, a detta di una quantità di canonisti, rende clamorosamente nulla la sua abdicazione. Per un’altra stranezza, Ratzinger decide di differire l’entrata in vigore della sua rinuncia alle ore 20.00 del 28 febbraio 2013. Saluta il mondo alle 17.30 di quel giorno, da Castel Gandolfo, ma pur potendo cambiare idea fino alle 20.00 (in quanto ancora papa nei pieni poteri), dopo quell’ora non ratifica o conferma nulla. Secondo alcuni, fra teologi e canonisti, il differimento, la non-simultaneità dell’atto e la mancata conferma della Declaratio rendono, ancora una volta, invalida la rinuncia.  Oltre ad essere oggettivamente un vero “cocktail di trappole giuridiche”, la Declaratio annovera due grossolani errori di latino e altre 20 imperfezioni linguistiche che furono   denunciate, “a caldo” dai latinisti Luciano Canfora (sul Corriere) e Wilfried Stroh sulla stampa tedesca: secondo alcune interpretazioni, tali errori sarebbero stati inseriti da Benedetto per attirare l’attenzione su un atto giuridicamente invalido. Tre anni dopo, nel 2016, sul Corriere, Ratzinger ripete inspiegabilmente quanto pubblicato nel libro-intervista di Peter Seewald “Ultime conversazioni”: “Il testo della rinuncia l'ho scritto io. Non posso dire con precisione quando, ma al massimo due settimane prima. L’ho scritto in latino perché una cosa così importante si fa in latino. Inoltre il latino è una lingua che conosco così bene da poter scrivere in modo decoroso. Avrei potuto scriverlo anche in italiano, naturalmente, ma c’era il pericolo che facessi qualche errore”. Non è un po’ strano? Considera che lo stesso Ratzinger ammette in “Ein Leben” di Seewald che la Declaratio (di appena 1700 battute) è stata da lui scritta in ben due settimane ed è passata al vaglio della Segreteria di Stato (sotto il sigillo del segreto pontificio) per la correzione di eventuali errori giuridici e formali. 

Non è anche molto curioso come Benedetto ripeta da otto anni che “il papa è uno solo” senza mai spiegare esplicitamente chi sia dei due? Lo conferma lo stesso Mons. Gaenswein   Nemmeno una volta, in otto anni, casualmente, gli è scappato: “Il papa è uno ed è Francesco”. Ratzinger è ritenuto uno dei più colti uomini di Chiesa contemporanei, eppure, sembra che, oltre a non conoscere bene la lingua latina e il diritto canonico, abbia grosse lacune anche in storia ecclesiastica. In “Ultime conversazioni” afferma, in merito alle proprie dimissioni: “Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nell’ultimo millennio è stata un’eccezione”. Dato che nel I millennio si sono dimessi sei papi e quattro nel II, Ratzinger, o non ricorda bene, oppure, come conferma lo storico della Chiesa dell’Università di Milano Francesco Mores, si riferisce al papa Benedetto VIII che nel I millennio fu costretto a rinunciare al ministerium, (proprio come ha fatto Ratzinger), in quanto cacciato da un antipapa. In sostanza, Benedetto ci sta dicendo che si è “dimesso” rinunciando alle funzioni pratiche come quei pochissimi papi che nel I millennio non hanno mai abdicato. Infatti in “Ein Leben”, Ratzinger conferma ancora il dato affermando che la rinuncia di Celestino V, l’abdicatario per eccellenza, non poteva essere in alcun modo associata a lui come precedente. Inoltre, incuriosisce come nello stesso volume si parli sempre e solo di “dimissioni” (Ruecktritt) per lui e di abdicazione (Abdankung) solo per i papi che rinunciarono davvero, come Celestino V. Non è strano, dunque, che Benedetto continui a vestirsi da papa, a impartire la benedizione apostolica, a firmarsi P.P. - Pater Patrum e a godere di prerogative tipicamente papali tanto da frastornare milioni di fedeli e da sollevare le critiche del card. Pell? Come mai l’istituto del papa emerito viene contestato da tutti i maggiori canonisti (Boni, Fantappiè, Margiotta-Broglio, de Mattei) e sembra davvero fondato sul nulla? In sostanza, tutti dicono che non esiste un papa emerito, ma che questi resta sempre IL papa. E che dire del fatto che prima del conclave, Benedetto XVI promise di giurare obbedienza a un non identificato “suo successore” e poi non lo ha mai fatto per Francesco? Infatti, nel 2016 risponde così alla domanda Seewald:   “Nel prendere congedo dalla curia, come poté allora giurare obbedienza assoluta al suo futuro successore? Risposta di Benedetto XVI: “Il papa è il papa, non importa chi sia”. In sintesi, possibile che il grande latinista Joseph Ratzinger QUI , tra gli intellettuali più colti e significativi del ‘900, teologo adamantino, scrupoloso e teutonicamente razionale, dal 2013 in poi, nonostante la lucidità delle sue successive pubblicazioni, si sia trasformato di colpo - e a tratti - in un ecclesiastico stravagante, impreparato in latino, diritto canonico, storia della Chiesa, “dispettoso” e ambiguo al punto da gettare nell’angoscia e nell’incertezza milioni di fedeli? Dall’altro lato, Tu stesso hai individuato in “L’enigma Bergoglio” enormi criticità nel pontificato di Francesco, culminanti in questi giorni in un atto che ha sollevato enormi polemiche, come l’abolizione della messa in latino attraverso un motu proprio che abroga il Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Ecco, noi abbiamo provato a riordinare i pezzi di questo difficile puzzle in una possibile ricostruzione generale QUI per quanto choccante, in linea teorica risponde a tutti questi interrogativi componendoli in un quadro unitario e logicamente coerente. Nel cosiddetto “Piano B” si confermerebbe quanto ventilato, in termini astrattamente generali, dal più importante filosofo italiano, Giorgio Agamben, ovvero che, “le dimissioni di Ratzinger sarebbero una prefigurazione della separazione tra «Babilonia» e «Gerusalemme» nella Chiesa: invece di impegnarsi nella logica del mantenimento del potere, con la sua rinuncia all’incarico, Benedetto XVI ne avrebbe enfatizzato l’autorità spirituale, contribuendo in tal modo al suo rafforzamento”. La ricostruzione del cosiddetto “Piano B” è stata ripresa e commentata anche dai più autorevoli vaticanisti italiani come Marco Tosatti e Aldo Maria Valli e tradotta in cinque lingue per autonoma iniziativa di siti e blog stranieri. Recentemente è stata confermata in pieno anche dal docente Antonio Sànchez Saez, ordinario di Diritto presso l’Università di Siviglia. Mi stupisce molto che questi temi così importanti vengano accuratamente evitati da colleghi, ecclesiastici e intellettuali cui è stato proposto un cordiale confronto tanto da far supporre che si tratti di un vero e proprio tabù. Il che è abbastanza inquietante. Pertanto sarei davvero lieto se Tu avessi la curiosità di esaminare questo materiale e di fornirci il Tuo autorevole commento per contribuire a fare luce su una questione che, oltre a coinvolgere un miliardo e 285 milioni di cattolici, se non chiarita, potrebbe avere conseguenze catastrofiche per la Chiesa. Ti invierò la bibliografia citata, in modo che Tu stesso possa verificare ogni affermazione.

Grazie davvero, con un cordialissimo saluto, Andrea Cionci

Massimo Franco risponde su rinuncia di Ratzinger: "Scrivi un libro". Ma cercavamo un confronto. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 23 luglio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il collega Massimo Franco del Corriere della Sera è stato molto cortese. Appena poche ore dopo l’invio della nostra lettera aperta con cui gli chiedevamo lumi sulle assurde stranezze della rinuncia di papa Benedetto, ci ha risposto, in modo telegrafico, ma gentile, invitandoci a scrivere un libro sul tema che lui stesso leggerà con interesse. La sua curiosità verso la questione è un chiaro segno che prende sul serio la faccenda (e non potrebbe essere altrimenti) e il suo incoraggiamento ci onora davvero anche se, a dirla tutta, eravamo in cerca di qualche risposta, o quantomeno di un confronto dialettico. Comprensibile: i fatti oggettivi che abbiamo elencato sono così strani e inspiegabili – tranne, per ora, che con l’ipotesi del cosiddetto “Piano B” QUI – che perfino Massimo Franco, tra i più noti e stimati giornalisti italiani, che ha scritto un libro su Bergoglio e ha avuto il grande privilegio di intervistare il Santo Padre Benedetto XVI per ben due volte, non ha potuto esserci d’aiuto offrendoci un’interpretazione alternativa. Sembra proprio che il Piano B, appena tradotto, per iniziativa altrui, anche in polacco (la sesta lingua), sia l’unica spiegazione: dopo mesi di scene mute da parte degli interlocutori sollecitati, e dopo le conferme di autorevoli giuristi, da ultimo l’ordinario di Diritto Antonio Sànchez dell’Università di Siviglia QUI ormai possiamo dirlo: papa Ratzinger, con ottime possibilità, ha organizzato una rinuncia del tutto invalida dal punto di vista giuridico per poter annullare, a distanza di tempo, una chiesa modernista che avrebbe dimostrato di non aver più nulla a che vedere col Cattolicesimo autentico, tanto da annullare la messa antica, l’unica ad offrire assolute “garanzie di cattolicità”. Si potrebbe aggiungere che dopo 90 giorni dalla pubblicazione del Piano B, (7 aprile 2021) se il Vaticano non lo ha esplicitamente smentito, canonicamente si potrebbe presumere il consenso tacito a tutti i fatti e alle tutte le interpretazioni: “ex silentio consensum presumat”, ma tanto ormai, sulle regole, scritte o di prassi, nella Chiesa c'è grande libertà. Comunque, come sostiene il più noto filosofo italiano Giorgio Agamben, Benedetto mirava a una “separazione fra Gerusalemme e Babilonia”, ovvero, detta in parole povere, uno scisma purificatorio per espellere dalla Chiesa cattolica eretici, neoariani, neoluterani, catto-omosessualisti, massoni etc. Ecco perché inseguire a tutti i costi l’unità della Chiesa porterebbe inevitabilmente a un tremendo autogol. Nella storia, gli eretici sono sempre utilmente fuoriusciti, “drenati” come una scoria dal corpo sano della Chiesa. Quindi, perché questo non dovrebbe verificarsi ancor oggi? Il rischio è, piuttosto che sia la Chiesa cattolica ortodossa a dover uscire da se stessa, lasciando la sede a quella modernista, come avevamo illustrato con il cosiddetto Esempio del Cuculo. Certo, l’idea di scrivere un libro sul Piano B sarebbe allettante, ma molto difficile da realizzarsi perché – come abbiamo sperimentato - le case editrici sono estremamente timorose di affrontare questo argomento che, come già detto, si configura come un vero e proprio tabù. Tutti hanno il terrore di Francesco “il misericordioso” … ma perché? Quando c’era Benedetto XVI gliene dicevano di tutti i colori, hanno ventilato spaventose calunnie persino sul fratello, e oggi non si può affrontare un rispettoso dibattito canonistico di importanza fondamentale su Bergoglio? Da dove viene questo nuovo reato di “lesa maestà pontificia”? Abbiamo già scritto di come la paura faccia 90 e metta letteralmente in fuga gli interlocutori o li cristallizzi in un silenzio da sfingi. Eppure, questa STRATEGIA DELL’EVITAMENTO di fatti oggettivi e incontestabili, che vede protagonisti i principali media italiani, intellettuali, ecclesiastici, non solo ha le gambe corte - dato che “la verità si impone da sola”, come diceva San Giovanni Paolo II - ma è anche del tutto paradossale. Sì, perché, scusate, chi parteggia per Francesco DOVREBBE DIFENDERLO A SPADA TRATTA da sospetti così pesanti e pressanti sul fatto che possa essere un antipapa. Dovrebbe essere un imperativo difendere la legittimità del papa, soprattutto perché qui non si tratta di attacchi beceri o scandalistici, semplicemente da ignorare, ma di un dibattito colto e ben condotto sui binari della ragione e del Diritto canonico da teologi, latinisti, canonisti, giuristi, intellettuali di prim’ordine. Il sospetto è che l’impresa sia troppo difficile, poiché CONTRA FACTUM NON VALET ARGUMENTUM, come dicevano i latini. Anche gli amici di Ratzinger, dal canto loro, di fronte alla possibilità quasi certa che il presunto papa emerito possa essere l’unico papa in circolazione, magari perfino “confinato” in Vaticano, non dovrebbero drizzare le antenne? Non dovrebbero saltare sulla sedia? Peraltro, il Vicario di Cristo sulla terra è solo uno, dato che Francesco ha volontariamente rinunciato al titolo l’anno scorso. Ubi Petrus, ibi ecclesia: la Chiesa è là dove c’è Pietro, ovvero il papa legittimo. Insomma, la questione non può essere lasciata da parte, in una mortifera IGNAVIA, perché come abbiamo già scritto diverse volte, se Benedetto conserva il munus, se non ha abdicato, Bergoglio è un antipapa e, defunto o dimessosi lui, il PROSSIMO CONCLAVE NON ELEGGERÀ UN VERO PAPA, ma un altro antipapa. La Chiesa dunque sarà finita per come la conosciamo e i veri cattolici dovranno tornare nelle catacombe, come aveva profetizzato Ratzinger e come STA GIÀ SUCCEDENDO con i preti che continuano a celebrare clandestinamente la messa vetus ordo, in latino, per giunta anche in comunione “cum papa Benedicto”. 

Benedetto XVI: la genialità di una trappola da far scattare a seconda del successore. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 20 luglio 2021.  

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. Abbiamo già parlato approfonditamente del cosiddetto “Piano B” di Papa Benedetto XVI. L’ipotesi è quella - mai smentita da nessuno e sempre più plausibile - di una rinuncia scritta APPOSTA giuridicamente invalida per dare modo ai suoi avversari modernisti di prendere il potere in modo illegale, rivelarsi al mondo cattolico scandalizzandolo - forse proprio fino al punto di abolire la messa antica - per poi essere annullati di un soffio, in una specie di “combustione escatologica”. Ma la questione sembra essere ancora più raffinata di quanto avevamo compreso: in sostanza, Ratzinger si riservava la scelta di consacrare il suo successore, una volta eletto. Ma andiamo con ordine. Se Benedetto non ha mai abdicato, infatti, nel 2013 la sede non era vacante e il conclave che elesse Bergoglio non era valido: quindi Francesco è antipapa come confermava ieri il prof. Sànchez. Non stupisce, quindi, che Benedetto abbia scelto quella data – ammette lui stesso - con un nesso interiore tra la Madonna di Lourdes, il suo compleanno e il primo lunedi di Carnevale. Quindi, non solo il “papa Francesco” non sarebbe mai esistito, ma anche tutte le sue nomine, atti, insegnamenti etc. sarebbero carta straccia. Tuttavia, un lettore sul blog Stilum Curiae di Marco Tosatti, ha fatto un’obiezione logica (l'unica, fino ad oggi) dicendo: “Ma come poteva sapere Ratzinger che, dopo la trappola da lui predisposta, sarebbe stato eletto sicuramente il card. Bergoglio, o un altro modernista? E se fosse stato eletto un tradizionalista?”. Ottima osservazione, che ci dà modo di capire quanto potesse essere perfettamente congegnato il piano di Benedetto XVI. Come emerso sulla stampa, nel 2013 Ratzinger era ormai talmente pressato ed esautorato tanto che il presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi fu silurato dal card. Bertone a sua insaputa: Benedetto lo apprese dalla tv. (Vi rendete conto?). Così il Santo Padre poteva essere ormai pressoché ragionevolmente certo che, una volta dimessosi, sarebbe stato eletto un modernista legato alla Mafia di San Gallo, al 99% il card. Bergoglio (come attestato dall’autobiografia del card. Danneels). Tuttavia, nei conclavi non si sa mai: possono sempre spuntare delle sorprese. Ma PAPA BENEDETTO AVEVA PREVISTO TUTTO. Infatti, quand’anche, per una stranissima evenienza, fosse stato eletto un cardinale fedele alla Tradizione, ci sono due considerazioni da fare:

1) Il neo-eletto, pur ignaro in buona fede dei problemi giuridici antecedenti, alle prime contestazioni sulla Declaratio di rinuncia, se fosse stato, non diciamo un sant’uomo, ma almeno un buon cattolico, sarebbe andato da Benedetto a sottoporgli la questione chiedendogli di RIPARARE SUBITO la sua rinuncia e/o di CONFERMARE LA PROPRIA ELEZIONE. Il neoeletto buon cardinale, non si sarebbe certo dimostrato attaccato al potere, magari snobbando la rinuncia invalida come un mero “legalismo clericale”. Qualsiasi persona corretta ci tiene a che la propria carica sia legittima e al di là di ogni contestazione. Quindi, già questo sarebbe stato un banco di prova per testare l’onestà – al minimo sindacale - di un eventuale successore.

2) In questo caso, se il neoeletto papa in pectore per primo fosse venuto a chiedere una “sanatio” a papa Ratzinger, egli stesso avrebbe riparato alla sua Declaratio invalida: o con un nuovo documento, o con delle dichiarazioni inequivocabili, spiegando che egli aveva sbagliato per una svista, ma voleva effettivamente abdicare (e non “dimettersi” solo dalle funzioni pratiche, come ha detto fino ad oggi). Avrebbe così dichiarato al mondo: “Tranquilli: IL PAPA E’ UNO ED E’ SOLO PIO XIII” (per dire un nome papale qualsiasi). Probabilmente, in quel caso, Ratzinger avrebbe anche abbandonato la veste bianca, il Vaticano e tutte le altre prerogative di cui oggi, invece, continua a godere in quanto detentore fattuale del munus petrino, cioè il titolo di papa conferito direttamente da Dio. (Ecco perché ha creato il titolo posticcio -  a detta di tutti i maggiori canonisti - di “papa emerito”: una scusa per restare papa a tutti gli effetti, in caso di elezione modernista, gabbando i suoi avversari). Ratzinger avrebbe potuto anche cedere formalmente il munus petrino al successore da lui approvato, con un atto ad hoc. Potrebbe farlo anche oggi, forse, se Bergoglio glielo chiedesse, ma questo equivarrebbe ad ammettere che Francesco fino ad oggi è stato un antipapa e renderebbe nulla, in un soffio, tutta la sua attività degli ultimi otto anni. Bisognerebbe ricominciare tutto da capo per il “neo-papa Francesco”.

La sottile invalidità della rinuncia si prestava ottimamente, quindi, per sfuggire sull’immediato all’avvento dei modernisti e lasciarli cuocere per anni nel brodo della loro invalidità: una bomba a orologeria. Tuttavia, in caso di elezione di un cardinale non modernista la Declaratio invalida avrebbe potuto essere sanata subito dopo il conclave. Ecco perché Ratzinger disse PRIMA DEL CONCLAVE che avrebbe giurato fedeltà al suo successore: SI’, MA QUALE? Avrebbe giurato obbedienza solo a un bravo cardinale da lui approvato, quello della Tradizione che, neo-eletto papa, per quanto in un conclave invalido, si sarebbe per primo occupato di fugare ogni dubbio sulla propria legittimità. Così questi sarebbe stato premiato. Papa Ratzinger, ad oggi, invece, NON HA MAI GIURATO OBBEDIENZA DIRETTAMENTE A FRANCESCO e lo dimostra il fatto che nel libro “Ultime conversazioni” del 2016 Benedetto XVI risponde così al giornalista Seewald : “Nel prendere congedo dalla curia, come poté allora giurare obbedienza assoluta al suo futuro successore? Risposta di Benedetto XVI: “Il papa è il papa, non importa chi sia”. Ratzinger, quindi, con la sua rinuncia sottilmente invalida, e col titolo inutile di “papa emerito”, in sostanza si riservava la facoltà di scegliere il suo legittimo successore a conclave avvenuto. E Benedetto, fino ad OGGI NON HA BENEDETTO PROPRIO NESSUNO, tantomeno Bergoglio. Non ha sanato proprio niente della sua rinuncia e infatti – da otto anni - ripete che "il papa è uno solo" senza spiegare quale dei due sia. Non lo diciamo noi: la questione è stata clamorosamente confermata, involontariamente o cripto-volontariamente, nientemeno che dal suo segretario particolare Mons. Gaenswein, quando ha risposto QUI al sacerdote don Enrico Bernasconi fedele a Ratzinger: “Lo stesso papa Benedetto ha dichiarato più volte che vi è un solo papa ed E' CHIARO che è Francesco. Altre interpretazioni sono strumentali”. "E’ chiaro"? Ah. Quindi esplicitamente non lo ha MAI DETTO.       

"Benedetto non ha abdicato, Bergoglio è antipapa", parla il prof. Sanchez, giurista dell'Università di Siviglia. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 19 luglio 2021

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il 29 giugno, proprio nel giorno del 70° di sacerdozio di Joseph Ratzinger, peraltro ricorrenza dei S.S. Pietro e Paolo, ci sono giunte le risposte del prof. Antonio José Sánchez Sáez, docente di Diritto presso l'Università di Siviglia (fondata nel 1505). Dopo la drastica demolizione da parte di Bergoglio del Summorum Pontificum - l’atto più importante del pontificato di Papa Benedetto XVI con cui si liberalizzava (doverosamente) la messa in latino - la messa per eccellenza, dotata di “assolute garanzie di cattolicità” – è arrivato il momento per proporre questa intervista su un tema che – fateci caso – tutti i media tendono ad evitare come la peste. Inspiegabilmente, così fa anche larga parte del mondo tradizional-conservatore, che probabilmente si illude di poter combinare accordi per il post-Bergoglio ignorando l’inevitabile spada di Damocle di una naturale successione antipapale, nel caso di rinuncia invalida di Ratzinger. Eppure, in un Paese civile, si parla, si discute, anche aspramente, ma ci si confronta: dialogo, ponti, non muri. Sarebbe auspicabile che qualcuno riuscisse a demolire questa nostra completa ricostruzione, ma finora nessuno ci è riuscito, (e nemmeno ci prova): 

Con 80 pubblicazioni, vari soggiorni di ricerca nelle Università di Harvard, Bologna, Firenze, Francoforte, Sorbona e 5 premi accademici, il professor Sànchez da anni scrive sul sito cattolico comovaradealmendro.es". Attualmente, è l’universitario con il curriculum più autorevole ad aver avuto il coraggio di “metterci la faccia”.

D. Professore, Lei da tempo dice di seguire la nostra inchiesta sulla rinuncia di Benedetto XVI…

R. “Per molti anni, quelli che pensavano che l'unico papa regnante fosse Benedetto XVI, sono stati soli, incompresi dalla Chiesa. Conforta vedere come un importante quotidiano italiano abbia scelto di discutere questo tema, fondamentale non solo per i cattolici.

D. Nessun altro organo di informazione ne parla, eppure dovrebbe essere il caso giornalistico del millennio…

R. “La stragrande maggioranza pensa che il card. Bergoglio sia un cattivo papa, ma in fondo il papa. Criticano i suoi deliri, ma lo considerano un padre. E questo lo rafforza di più. Altri sono semplicemente cattolici mondani, contenti delle sue innovazioni. Infine, altri sospettano che Francesco sia un impostore, ma non osano parlarne in pubblico”.

D. Dal suo sito, lei sostiene che la massoneria ecclesiastica ha posto forzatamente Bergoglio sul trono di Pietro. Quali evidenze?

R. “Dagli apprezzamenti delle logge internazionali, all’inserimento di elementi massonici nella liturgia e nella devozione, alla retorica sulla Fratellanza Universale... Basti dire, per ora, che padre Malachi Martin, coltissimo gesuita consigliere del card. Bea, che lesse l'intero Terzo Segreto di Fatima (comprese le parole della Madonna non ancora rivelate), scrisse un libro intitolato “ Windswept House” dove spiegava il piano della massoneria ecclesiastica: costringere il papa alle dimissioni per imporre un falso papa che, sfruttando l'obbedienza del clero e dei fedeli, porterà la Chiesa alla grande apostasia profetizzata da San Paolo. Quello che Malachi Martin non sapeva è che Benedetto XVI era da tempo preparato e non si è dimesso validamente, rimanendo papa: un gioco da maestro”.

D. Per quali motivi principali la sua rinuncia sarebbe invalida?

R. “Sono rimasto sorpreso, quando ho letto con calma la sua Declaratio di rinuncia in latino: papa Benedetto non ha rinunciato al munus, come disposto dal canone 332.2 del Codice di Diritto Canonico, ma al ministerium. Come se un professore si dimettesse dall'insegnamento senza lasciare la sua cattedra, rimanendo docente dell'Università. Inoltre, Benedetto XVI ci ha dato un altro indizio diventando "papa emerito", un titolo canonicamente impossibile poiché per essere emerito è necessario aver cessato dall'ufficio per età o per dimissioni accettate... e nessuna di queste due condizioni è soddisfatta nelle dimissioni di un papa (can. 185)”.

D. Secondo Lei lo ha fatto apposta? Magari, come ventila il noto filosofo Giorgio Agamben, per “rafforzare il papato”?

R. “Ho letto il libro di Agamben “Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi”. Concordo sul fatto che Benedetto XVI attualmente agisca come “katejon”, un “potere che frena” la rivelazione dell'Anticristo (di questo ne ha parlato anche Massimo Cacciari). Sappiamo che Benedetto XVI conosce perfettamente i messaggi mariani di Fatima, Garabandal, Akita. Lui ha agito volutamente in questo modo, sapendo che i lupi sarebbero venuti a prenderlo (perché lo avevano già fatto contro Giovanni Paolo II). Così ha finto di dimettersi, ma senza farlo, rimanendo papa”.

D. I canonisti bergogliani come contro-argomentano?

R. “In sostanza dicono che anche se la rinuncia fosse errata, è convalidata dall'accettazione unanime e pacifica di Francesco da parte della Chiesa ("Universalis Ecclesiae Adhaesio"). Un tragico errore, perché tale dottrina non è mai stata intesa a salvare, sanare o considerare soddisfatta la condizione senza la quale un procedimento non potrebbe mai essere avviato. Nel caso dell'elezione papale, la sede deve essere vacante: il papa regnante deve essere morto o deve aver abdicato validamente. Per il can. 126 (dottrina dell'errore sostanziale) la rinuncia di Benedetto era nulla, la sede non era vacante ed è impossibile sanare a posteriori questo errore sostanziale. Non conta che la stragrande maggioranza della Chiesa ritenga che il Papa sia Francesco: anche i giudei preferirono Barabba a Gesù, ma si sbagliavano”.

D. Nel libro intervista “Ultime conversazioni” Ratzinger dice di essersi dimesso come i papi che, nella storia, non hanno abdicato. QUI Se lui è ancora il papa, Bergoglio chi è?

R. “Almeno un ANTIPAPA. Molti credono che, inoltre, sia il Falso profeta dell'Apocalisse”.

D. Tanti pensano che dopo Francesco un nuovo conclave possa mettere le cose a posto. E’ così?

R. “Assolutamente NO. Un conclave con 80 cardinali nominati da un antipapa può eleggere solo un altro antipapa. Tutta la linea successoria di Bergoglio è antipapale. Non ci sarà più una restaurazione ecclesiale, ma una discesa verso la grande apostasia della Chiesa cattolica visibile, che perseguiterà il “piccolo resto” fedele, la vera Chiesa”.

D. A proposito, il canale di don Minutella, il prete più seguito d’Italia e fedele a Benedetto, è stato chiuso da Youtube o hackerato… QUI

R. “Appunto. Hanno bisogno di mettere a tacere il dissenso e si servono della complicità dei social”.

D. I cattolici che si scandalizzano per le “riforme” di Bergoglio ed evitano di chiedersi se sia il vero papa… eludono la “magna quaestio”?

R. “Sì. Purtroppo su questa linea di pensiero ci sono principi della Chiesa come i card. Sarah e Müller, l’arcivescovo Viganó, etc. che confondono molte persone”.

D. Francesco in una recente intervista ha raccomandato di non sprecare la crisi, ma di impiegarla per instaurare un “nuovo ordine mondiale”. C’è da preoccuparsi anche per i laici?  

R. “Ovviamente: questo progetto riguarda tutti. In particolare, l'ONU da decenni promuove quelli che per i cattolici sono “peccati che gridano al Cielo” come l'aborto, l'eutanasia o l'ideologia di genere. Lo denunciavano già Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E ora Bergoglio è perfettamente unito al Nuovo Ordine Mondiale, ateo, anticristiano e chiede obbedienza all'ONU”.

D. Perché vescovi e cardinali non affrontano la questione? E’ un’enorme responsabilità storica e spirituale…

R. “Gli architetti del Nuovo Ordine Mondiale ora dominano il mondo e la Chiesa. Cardinali e vescovi informati temono di provocare uno scisma se parlano apertamente. Ma è assurdo pensare che Cristo possa volere l'unità nella menzogna, per questo, nella storia, gli eretici hanno lasciato la Chiesa, purificandola. Ora lo scisma si invertirà: saranno quelli che professano la Verità Cattolica ad essere espulsi dalla Chiesa”.

Di questa eventualità avevamo già accennato con la metafora del "cuculo". Per ora la questione continua ad essere messa sotto al tappeto, in modo davvero curioso. C'è un'enorme difficoltà nel fare mente locale provando a cambiare punto di vista, Probabilmente bisognerà attendere la prossima fermata del treno modernista, quando anche la Messa del rito nuovo, già manomessa, subirà i prossimi cambiamenti, prevedibilmente, nell'ottica di eliminare il dogma della Transustanziazione come spiega lo storico Massimo Viglione QUI

Quando arriverà l'intercomunione coi protestanti o anche una Conferenza interreligiosa internazionale, o qualcosa di simile per creare la religione del Nuovo Ordine mondiale, allora forse, si comincerà a prendere in esame la più ovvia delle spiegazioni possibili.

ENGLISH VERSION  

On 29 June, precisely on the day of the 70th anniversary of the priesthood of Joseph Ratzinger, which is also the anniversary of Saints Peter and Paul, we received the answers of prof. Antonio José Sánchez Sáez , Professor of Law at the University of Seville (founded in 1505). After Bergoglio’s drastic demolition of Summorum Pontificum – the most important act of Pope Benedict XVI’s pontificate which liberalized (dutifully) the Latin Mass – the mass par excellence, endowed with “absolute guarantees of catholicity” – is The time has come to propose this interview on a subject that – take note – all the media tend to avoid like the plague . Inexplicably, so too does a large part of the traditional-conservative world, which probably deludes itself into being able to combine agreements for the post-Bergoglio while ignoring the inevitable sword of Damocles of a natural anti-papal succession, in the case of Ratzinger’s invalid renunciation. Yet, in a civilized country, there is talk, discussion, even harshly, but one confronts each other : dialogue, bridges, not walls. It would be desirable that someone could demolish this complete reconstruction of ours, but so far no one has succeeded, (and not even try): 

With 80 publications, various research stays at the Universities of Harvard, Bologna, Florence, Frankfurt, Sorbonne and 5 academic awards, Professor Sànchez has been writing for years on the Catholic website comovaradealmendro.es “. Currently, he is the university with the most authoritative curriculum. to have had the courage to “put his face to it”.

Professor, you have been saying for some time that you are following our investigation into the resignation of Benedict XVI …

R . “For many years, those who thought that the only reigning pope was Benedict XVI were alone, misunderstood by the Church. It is comforting to see how an important Italian newspaper has chosen to discuss this issue, which is fundamental not only for Catholics.

No other news organization talks about it, yet it should be the journalistic case of the millennium …

R . “The overwhelming majority think that card. Bergoglio is a bad pope, but ultimately the pope. They criticize his delusions, but consider him a father. And this strengthens it more. Others are simply worldly Catholics, happy with his innovations. Finally, others suspect that Francis is an impostor, but they don’t dare to talk about it in public ”.

From your website, you claim that ecclesiastical Freemasonry forcibly placed Bergoglio on the throne of Peter. What evidence?

R . “From the appreciation of the international lodges, to the inclusion of Masonic elements in the liturgy and devotion, to the rhetoric on the Universal Brotherhood … Suffice it to say, for now, that Father Malachi Martin, a highly cultivated Jesuit advisor to Card. Bea, who read the entire Third Secret of Fatima (including the words of Our Lady not yet revealed), wrote a book called “Windswept House” where she explained the plan of ecclesiastical Freemasonry: to force the pope to resign to impose a false pope who, exploiting the obedience of the clergy and the faithful, it will lead the Church to the great apostasy prophesied by St. Paul. What Malachi Martin did not know is that Benedict XVI had been prepared for some time and did not resign validly, remaining pope: a master’s game ”.

For what main reasons would your waiver be invalid?

R. “I was surprised when I calmly read your Declaratio di Renouncement in Latin: Pope Benedict did not renounce the munus, as required by canon 332.2 of the Code of Canon Law, but the ministerium. As if a professor resigned from teaching without leaving his chair, remaining a professor at the University. Furthermore, Benedict XVI has given us another clue by becoming “pope emeritus”, a canonically impossible title since to be emeritus it is necessary to have ceased from office by age or by accepted resignation … and neither of these conditions is met in resignation. of a pope (can. 185) “.

Do you think he did it on purpose? Perhaps, how does the well-known philosopher Giorgio Agamben ventilate to “strengthen the papacy”?

R. “I have read Agamben’s book“ The mystery of evil. Benedict XVI and the end of time “. I agree that Benedict XVI currently acts as a “katejon”, a “power that holds back” the revelation of the Antichrist (Massimo Cacciari also spoke of this). We know that Benedict XVI is perfectly familiar with the Marian messages of Fatima, Garabandal, Akita. He deliberately acted in this way, knowing that the wolves would come for him (because they had already done so against John Paul II). So he pretended to resign, but without doing so, remaining pope ”.

How do the Bergoglian canonists counter-argue?

R. “Basically they say that even if the renunciation were wrong, it is validated by the unanimous and peaceful acceptance of Francis by the Church (” Universalis Ecclesiae Adhaesio “). A tragic mistake, because this doctrine was never intended to save, heal or consider satisfied the condition without which a proceeding could never be initiated. In the case of papal election, the see must be vacant: the reigning pope must have died or must have validly abdicated. For can. 126 (doctrine of substantial error) Benedict’s resignation was void, the seat was not vacant and it is impossible to remedy this substantial error a posteriori. It does not matter that the overwhelming majority of the Church believes that the Pope is Francis: even the Jews preferred Barabbas to Jesus,but they were wrong ”.

In the interview book “Latest Conversations” Ratzinger says he resigned like the popes who, in history, have not abdicated. WHO If he is still the pope, who is Bergoglio?

R . “At least one ANTIPAPA . Moreover, many believe that he is the False prophet of the Apocalypse ”.

Many think that after Francis a new conclave can put things right. Is that so?

R. “Absolutely NOT . A conclave with 80 cardinals appointed by an antipope can elect only one other antipope. Bergoglio’s entire succession line is anti-papal. There will no longer be an ecclesial restoration, but a descent towards the great apostasy of the visible Catholic Church, which will persecute the faithful “little remnant”, the true Church ”.

By the way, Don Minutella’s channel, the most followed priest in Italy and loyal to Benedict, has been closed by Youtube or hacked … HERE

R. “Exactly. They need to silence dissent and make use of the complicity of social networks “.

The Catholics who are scandalized by Bergoglio’s “reforms” and avoid asking themselves if he is the real pope … do they evade the “magna quaestio”?

R. “Yes. Unfortunately, on this line of thought there are principles of the Church such as card. Sarah and Müller, Archbishop Viganó, etc. that confuse many people ”.

In a recent interview Fr Francesco recommended not to waste the crisis, but to use it to establish a “new world order”. Should we also worry about the laity?  

R . “Obviously: this project concerns everyone. In particular, the UN for decades has been promoting what Catholics think are “sins that cry to Heaven” such as abortion, euthanasia or gender ideology. John Paul II and Benedict XVI already denounced it. And now Bergoglio is perfectly united with the New World Order, atheist, anti-Christian and asks for obedience to the UN ”.

Why don’t bishops and cardinals address this issue? It is an enormous historical and spiritual responsibility …

R. “The architects of the New World Order now dominate the world and the Church. Informed cardinals and bishops fear causing a schism if they speak out. But it is absurd to think that Christ can want unity in lies, for this reason, in history, the heretics have left the Church, purifying it. Now the schism will reverse: it will be those who profess the Catholic Truth who will be expelled from the Church ”.

Cionci: We had already mentioned this possibility with the metaphor of the “cuckoo” HERE  For now the question continues to be swept under the rug, in a really curious way. There is an enormous difficulty in making a local mind trying to change point of view.Probably we will have to wait for the next stop of the modernist train, when also the Mass of the new rite, already tampered with, will undergo the next changes, predictably, with a view to eliminate the dogma of Transubstantiation as the historian Massimo Viglione explains HERE

When intercommunion with Protestants or even an international interfaith conference or something similar arrives to create the religion of the New World Order, then perhaps the most obvious of possible explanations will begin to be considered.

Jospeh Ratzinger e la minaccia del "gruppo di San Gallo", retroscena: la trappola contro Benedetto XVI, ora tutto torna. Caterina Maniaci su Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Falsità, incomprensioni, lotte intestine, ostilità: non sono certo queste le "parole-chiave" per descrivere un pontificato complesso e importante come quello di Joseph Ratzinger. Però sembrano essere le coordinate con le quali molti - troppi - lo hanno affrontato, giudicato, osteggiato. È per questo che alla fine papa Benedetto XVI ha deciso di dimettersi? Per le etichette ridicole e offensive, quali "il Papa inquisitore", "il Pastore tedesco"? No, non è certo per questo. Lui, a queste provocazioni, non ha mai risposto, le accuse non lo scomponevano. Ma il capitolo delle aperte ostilità contro il pontificato di Benedetto, la portata e il significato reale di queste vicende, permette di approfondire la storia affascinante dello stesso pontificato. Joseph Ratzinger ha celebrato, proprio in questi giorni, i 70 anni di sacerdozio. Un percorso lungo e intenso, nel segno della fede, in cui appunto si inserisce la vicenda dell'elezione al soglio pontificio e i successivi straordinari anni di governo della Chiesa. Alcuni libri appena pubblicati alzano il velo sui retroscena della vita di Ratzinger, sui molti amici ma anche dei tanti nemici - o perlomeno avversari- che hanno tentato, spesso e volentieri, di metterlo in difficoltà.

Benedetto XVI. La vita e le sfide è il saggio scritto da Luca Caruso, responsabile della comunicazione istituzionale della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, (editore Sanpino-Fondazione Joseph Ratzinger, pp.172, euro 14) con la prefazione dell'arcivescovo Georg Gänswein. Il quale sottolinea che «ogni volta che si cerca di comprendere e inquadrare Benedetto XVI, sorgono immediatamente divisioni e liti. È considerato uno dei pensatori più intelligenti dei nostri tempi e al tempo stesso una figura affascinante. Ma anche un personaggio scomodo per i suoi avversari, che non mancano». Al riguardo, prosegue l'arcivescovo, «un intellettuale francese una volta ha notato che non appena si menzionava il nome di Ratzinger «pregiudizi, falsità e persino disinformazione regolare dominavano ogni discussione». In tal modo, non raramente, è stata costruita un'immagine che non è in grado di mostrare la realtà né della persona né dell'operato, ma solo una rappresentazione fittizia che doveva servire a uno scopo specifico». Nell'elenco dei più autorevoli biografi di Benedetto XVI figura un sacerdote romano che è anche storico, don Roberto Regoli, direttore del Dipartimento di Storia della Chiesa dell'Università Gregoriana e direttore della rivista Archivum Historiae Pontificiae. Ha appena pubblicato un nuovo saggio dal titolo Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto XVI, (Edizioni Lindau, pp.382, euro 29,50), in cui entrano in scena anche gli avversari "conclamati", prima di tutto il cosiddetto "gruppo di San Gallo", ben incardinato dentro la Chiesa. È noto che si tratta di alcuni ecclesiastici di alto rango invitati dal vescovo di San Gallo in Svizzera (tra cui cardinali Martini, Silvestrini, Murphy-O' Connor e Danneels) a riunirsi, di tanto in tanto, presso la bellissima abbazia di San Gallo, per secoli uno dei più importanti centri monastici d'Europa, per verificare la loro agenda approntata per il progetto di costruire una Chiesa "aperta", in evidente contrasto con l'ultima fase del pontificato di Giovanni Paolo II. Il loro bersaglio, prima di ogni altro, è stato proprio il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cioè Ratzinger, perché, secondo loro, esercitava un'influenza centralizzante e conservatrice. Come se non bastasse anche nella sua patria tanti cattolici e vescovi tedeschi a lungo hanno criticato apertamente il Papa («In Germania alcune persone cercano da sempre di distruggermi», ha dichiarato lo stesso papa emerito in un libro-intervista). Regoli spiega che papa Benedetto a tutto questo ha sempre reagito con compostezza, continuando per la propria strada, non ha mai avuto una sua rete/struttura, né si è preoccupato di crearsene. Naturalmente è sempre stato a conoscenza delle critiche, consapevole degli attacchi e la sua risposta «era a livello delle argomentazioni e non di una politica di repressione. Lui voleva convincere e non imporre» ed è proprio questa, secondo l'autore, la caratteristica dello stesso Ratzinger, «al tempo stesso la forza e la debolezza del suo pontificato». Clemenza e soprattutto il desiderio di creare dentro la Chiesa divisioni o, peggio, disgregazioni. Proprio le accuse che una propaganda avversa ha rivoltato contro di lui. In realtà gli autori cercano di rispondere alla domanda su chi è stato veramente Joseph Ratzinger e la sua testimonianza, raccontando le sue origini e le caratteristiche personali, le sfide epocali e anche i momenti drammatici e le vicissitudini delicate e complicate che hanno segnato l'esistenza di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Tentativo compiuto anche dallo storico della Chiesa Roberto Rusconi, nel suo saggio Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, teologo, cardinale, Papa (Morcelliana editrice, pp.192, euro 17) si concentra soprattutto sulla svolta impressa con le dimissioni nel 2013. Secondo Rusconi, infatti, la decisione di procedere alla rinuncia al pontificato ha fatto «intravedere risvolti inediti nella gestione del supremo magistero ecclesiastico, gli avvenimenti degli anni successivi hanno ingenerato crescenti perplessità». Rusconi, a conclusione del libro, cita poi la famosa e inquietante profezia di Malachia di Armagh, abate irlandese morto nel 1148, sulla fine della Chiesa sulla quale si staglia l'ombra fatale dell'ultimo Pontefice, Petrus Romanus. 

Dal “Giornale” il 6 luglio 2021. L'intervento «segreto» di Papa Ratzinger. Mentre la notizia del ricovero di Bergoglio è in prima pagina sui giornali di tutto il mondo, circa tre mesi prima di rinunciare al soglio pontificio Papa Benedetto XVI venne operato al cuore nella massima riservatezza. Forse proprio perché non trapelasse la notizia dell'intervento Ratzinger fu operato non al Policlinico Gemelli ma nella clinica romana Pio XI. Un intervento semplice, la sostituzione del pacemaker, ma qualsiasi notizia di salute che riguardi il Santo Padre finisce sempre in primo piano. In quella occasione però si riuscì a mantenere il riserbo. Fino a quando l'11 febbraio del 2013 Ratzinger annunciò la sua decisione di lasciare il pontificato. Pochi giorni dopo la notizia dell'operazione al cuore divenne di dominio pubblico.

Per Benedetto XVI, la data delle sue "dimissioni" ha un nesso anche col primo lunedì di Carnevale.  Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 29 giugno 2021.  

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Pensate che sia un titolo ad effetto? No. E’ esattamente così: testuale. E’ solo una delle tante frasi di papa Ratzinger sottili, umoristiche, ma di logica implacabile, contenute in “Ultime conversazioni”, libro intervista di Peter Seewald, uscito nel 2016. Copiamo integralmente:

Seewald: “Originariamente lei voleva dimettersi già in dicembre, poi però ha deciso per l’11 febbraio, lunedì di Carnevale, festa della Madonna di Lourdes. HA un significato simbolico?”

Benedetto XVI: “Che fosse il lunedì di carnevale non ne ERO consapevole. In Germania mi ha causato anche qualche problema. Era il giorno della Madonna di Lourdes. La festa di Bernadette di Lourdes, a sua volta, coincide con il giorno del mio compleanno. Per questo mi SEMBRAVA giusto scegliere proprio quel giorno”.

Seewald: “La data dunque HA... “

Benedetto XVI: “...un nesso interiore, sì”.

Ha: presente indicativo (in tedesco “hat”). Perché non “aveva”?

Visto che papa Ratzinger non ha corretto il giornalista, logicamente, se l’italiano non è un’opinione, la data da lui scelta HA (nel 2016) un nesso interiore con:

1) la Madonna di Lourdes,

 2) la festa di S. Bernadette,

3) il suo compleanno

4) e anche il primo lunedi di Carnevale.

Della festa tedesca – dice lui stesso - si era infatti consapevolizzato SUBITO DOPO la Declaratio dell’11 febbraio, a causa dei problemi nati in Germania: qualcuno aveva infatti pensato a uno scherzo.

Per escludere il Carnevale, la domanda doveva essere posta così: “La data dunque AVEVA…”.

La data poteva avere un nesso interiore fra i soli primi tre fattori solo SE posta all’imperfetto, cioè prima che lui si consapevolizzasse della coincidenza col Carnevale.

Quasi incredibile, peraltro, che Benedetto non sapesse che l’11 febbraio 2013 sarebbe stato il primo lunedi di Carnevale, il famosissimo “ROSENMONTAG” tedesco che cade sempre il lunedi precedente a quello di Quaresima.

Lo scambio col giornalista, pare dunque essere costruito attentamente per mandare un messaggio sottile, velato, ma molto preciso. Lo stesso Benedetto non manca di farci sapere che, siccome in Germania qualcuno aveva pensato a uno scherzo alla notizia delle sue “dimissioni” (come abbiamo verificato dalle cronache), egli si era consapevolizzato subito dopo di aver scelto – inopportunamente - quel giorno carnevalizio. Così, a livello logico, la data HA oggi, cioè tre anni dopo, quando scrive col senno di poi, un nesso ANCHE col primo lunedi di Carnevale. Non ci sono santi.

In molti sorrideranno: “Ma sì… sono sottigliezze… Solo un caso, una distrazione…”. Sicuro: una delle tante di sbadataggini di questo strano papa che prima era ritenuto un teologo adamantino e teutonicamente scrupoloso nel linguaggio e che, invece, dal 2013 in poi, divenuto “modernista” come dicono alcuni, si è lasciato andare a tante distrazioni che, per pura coincidenza, conducono tutte verso l’invalidità della sua rinuncia al papato. Una distrazione, come quando Ratzinger ha CASUALMENTE confuso nella Declaratio per sbaglio munus e ministerium, invertendoli e coinvolgendo così – alla grande -  i canoni 124, 332 § 2, 188, 17 del Diritto canonico che, stando a vari canonisti, rendono nulla la sua rinuncia; una distrazione come quando ha salutato il mondo da Castel Gandolfo alle 17.30 “dimenticandosi” di confermare alle 20.00 la sua rinuncia, rendendola nulla, secondo altri studiosi; così come si è dimenticato di aver commesso due grossi errori di latino nella Declaratio tanto da dichiarare tre anni dopo al Corriere di aver scritto le dimissioni in latino perché è un ottimo latinista. Così come per dimenticanza non ricorda di aver visitato nel 2009 la tomba di Celestino V (che abdicò nel 1294) dicendo che “nessun papa si è dimesso negli ultimi mille anni e anche nel primo millennio è stata un’”eccezione” (6 papi dimessi nel I millennio e 4 nel II)  e lasciando inequivocabilmente intendere che si è dimesso solo dalle funzioni pratiche, ma non ha affatto abdicato da papa. Che senso avrebbe questo ennesimo messaggio “criptico”, come ce ne sono tantissimi in “Ultime conversazioni”? Diversi studiosi ripetono, sulla base di contingenze MOLTO PIU’ ESPLICITE di questo messaggio, che la sua rinuncia è del tutto nulla, un gigantesco “scherzo”, e con ottima probabilità papa Ratzinger l’ha costruita appositamente invalida per difendersi dai modernisti che lo costrinsero a dimettersi, dato che non aveva più alcun potere. Questo è dimostrato dal fatto, ripreso dai media, che il Segretario di Stato aveva silurato il Presidente dello IOR Gotti Tedeschi senza che Benedetto ne sapesse niente. La Declaratio invalida – secondi tali studiosi - ormai definitivamente consegnata alla storia e al diritto canonico, sarebbe dunque una trappola per lasciare tempo alla Chiesa modernista di svelarsi, finché un giorno non si scoprirà che il conclave del 2013 era del tutto invalido.

Oscurata “Radio Domina Nostra”: il canale Youtube di Don Minutella, il prete più seguito d'Italia. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 28 giugno 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il canale di Don Alessandro Minutella, “Radio Domina Nostra”, è stato CHIUSO da Youtube il 22 giugno. Si dice per un attacco hacker, ma, visto che già ByoBlu era stato oscurato in aprile dal social network, chi può sapere se si sia trattato di un attacco esterno, o di una censura operata magari in base a qualche “richiesta particolare”? Il teologo palermitano, scomunicato due volte (una in più di Lutero) nel 2018 dal cardinale bergogliano Beniamino Stella - senza alcun processo canonico - è, in assoluto, IL PRETE PIU’ MEDIATICO E SEGUITO D’ITALIA, ma i grandi giornali fanno finta che non esista, secondo una specie di “tacito accordo”. Stranamente, anche molti commentatori del mondo conservatore cattolico fingono di ignorarlo: che si sia pro o contro il sacerdote, questa finta indifferenza è un teatrino davvero avvilente per il mondo dell’informazione, laica e cattolica. Solo i vaticanisti Marco Tosatti e Aldo Maria Valli gli hanno dato lealmente la parola, in passato, affinché potesse argomentare le proprie affermazioni, pur senza condividerle. Radio Domina aveva totalizzato, fino ad oggi, oltre due milioni di visualizzazioni, aveva oltre 50.000 iscritti e proponeva catechesi – spesso infuocate – rubriche sulla storia dei Santi, adorazioni eucaristiche, la Messa in latino “vetus ordo”, seguitissima, tanto che in alcuni casi gli spettatori in diretta doppiavano persino le celebrazioni di Bergoglio proposte da Vatican News. Quello che dice don Minutella fa molta paura: ripete dal 2015 che Francesco non è il vero papa, ma un usurpatore messo sul trono di Pietro dalla massoneria ecclesiastica, argomentando le sue affermazioni in articoli, catechesi e libri come l’ultimo “Pietro dove sei?” richiestissimo persino dalle librerie di Via della Conciliazione. Peraltro non è l’unico a sostenere tali tesi: con lui c'è il frate latinista Alexis Bugnolo e altri vescovi, teologi, sacerdoti, giuristi. La sua fedeltà a Benedetto XVI, che per Don Minutella non ha mai abdicato e resta il solo papa, è granitica, così come quella ai dogmi della Chiesa. Porta infatti una guerra continua al modernismo: fra i suoi bersagli, il neoariano Enzo Bianchi, da poco malamente silurato, e il mariologo don Alberto Maggi il quale nutre dubbi sulla verginità della Madonna, sostenendo anche che Radio Maria di padre Livio Fanzaga “raccoglie tutto il MARCIUME di una teologia che si pensava seppellita”. L’hackeraggio di Radio Domina Nostra si rivelerà probabilmente un boomerang, come già successo per i tentativi di screditamento operati dalla Rai e dalle Iene, che non hanno fatto altro che dare pubblicità a Don Minutella. “Tutto il materiale video era stato salvato – spiega il sacerdote – e sarà presto riproposto su altre piattaforme. Questo attacco, come tanti altri, non farà che dare ancora più slancio e motivazione alla nostra missione, unicamente per la salvezza delle anime e della Chiesa cattolica, in comunione col vero papa Benedetto XVI. Un imprenditore del Nord si è già detto disponibile a finanziarci una web tv”. Sono in molti che criticano aspramente Francesco, ma le reazioni più severe giungono SOLO per coloro che mettono in dubbio la sua legittimità come pontefice riconoscendo unicamente papa Benedetto che, secondo diversi giuristi, non ha affatto abdicato. Quello è il tasto veramente dolente, chirurgicamente evitato dai media. Noi di Libero abbiamo individuato una dichiarazione choc di papa Ratzinger contenuta nel libro-intervista di Peter Seewald “Ultime conversazioni”. Con questa frase, Benedetto XVI dice esplicitamente di essersi “dimesso” dalle funzioni pratiche come i papi che, nella storia NON HANNO ABDICATO. La scoperta ha fatto il giro del mondo, ripresa in almeno cinque lingue da siti e blog stranieri. La questione è di una gravità epocale anche se in pochi lo hanno compreso, perché se Benedetto non si è dimesso, Francesco è un antipapa. Eppure, la maggioranza del clero e dei fedeli continuano a ignorare la faccenda, come se seguire un vero papa o un antipapa, alla fin fine, fosse la stessa cosa. Come se lo Spirito Santo assistesse il primo che si prende la poltrona. Tanti pensano che dopo Bergoglio un nuovo conclave possa rimettere le cose a posto, ma con 80 nuovi cardinali nominati da un possibile antipapa, verrebbe eletto solo un nuovo antipapa, così come all’antipapa Anacleto II nel 1138, succedette un altro antipapa, Vittore IV. La Chiesa cattolica dunque potrebbe essere finita per sempre se non si fa luce sulla presunta abdicazione di Ratzinger. Il primo a gridare al mondo questa impellente necessità è stato fino ad oggi don Minutella, pagando duramente di persona e perdendo tutto: parrocchia e stipendio, in primis. Che si sia d’accordo o meno con lui, non si può che riconoscergli un coraggio da leone e una “vocazione al martirio” decisamente non comuni in questi tempi di mediocrità diffusa. Se Don Minutella avesse ragione, la sua figura passerà alla storia.  Che Bergoglio sia un vero papa o no dovranno deciderlo i canonisti e i cardinali dopo una approfondita inchiesta, ma una cosa è certa: LA QUESTIONE NON PUO’ ESSERE LASCIATA DA PARTE.

Benedetto XVI, "la paura fa 90": sanzioni lavorative, censure e silenzi sul tabù della rinuncia. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 26 giugno 2021.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

La stessa Chiesa che qualche settimana fa ha permesso a 100 preti tedeschi di benedire le coppie gay, quindi di consacrare il 2° dei “quattro peccati che gridano vendetta al Cielo” (subito dopo l’omicidio, secondo la dottrina) oggi chiede “modifiche” al ddl Zan, in un documento riservato poi fatto uscire apposta, in modo che - secondo alcuni – questo ne affretterà l’iter di approvazione; il tutto mentre l’arcivescovo Vincenzo Paglia, già noto per essersi fatto ritrarre nudo nell’affresco omoerotico della cattedrale di Terni, protesta coi suoi stessi vertici professandosi a favore del ddl Zan, iniziativa omosessualista già sponsorizzata da Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, il cui ex segretario, Mons. Galantino, sosteneva qualche tempo fa che Sodoma “era stata salvata dal Signore”. Siete un attimo disorientati? Vi torna in mente quella “falsa chiesa stravagante” profetizzata nel 1820 dalla beata Katharina Emmerik? Non sappiamo che rispondervi, certamente l’unico modo per capirci qualcosa è continuare a insistere sull’UNICA QUESTIONE veramente dirimente di tutto: CAPIRE SE BENEDETTO XVI E’, O NON E’ ANCORA IL PAPA, se ha abdicato davvero oppure no. Se Ratzinger non ha abdicato, le “originalità” di cui sopra sarebbero infatti la OVVIA conseguenza, la cartina al tornasole, del fatto che lo Spirito Santo (per i credenti) o il Logos (per i laici) da otto anni sono in ferie con lui, il vero papa. Quindi, cari Lettori che seguite l’inchiesta “carsica” sulla rinuncia di papa Benedetto XVI, vi possiamo dare qualche importante aggiornamento: i segnali sono incoraggianti. In primis, una notizia: il canale Youtube di Don Alessandro Minutella, “Radio Domina Nostra”, con due milioni di visualizzazioni e 50.000 iscritti, il 22 giugno è stato hackerato da esterni o censurato da Youtube (non si sa), comunque è stato chiuso. Un bell'autogol da parte dei suoi nemici, dato che è un’implicita ammissione del fatto che Don Minutella, teologo super-ortodosso che per primo ha dichiarato che il papa è Benedetto e Bergoglio è un usurpatore, dice cose che scottano, argomentandole anche nel libro “Pietro dove sei”.  Nonostante i grandi media fingano di ignorarlo, il prete più seguito d’Italia non va sottovalutato: se avesse ragione lui, passerebbe alla storia come l’unico ecclesiastico che aveva detto la verità, per primo, e pagando più di tutti, con ben due scomuniche (che però sarebbero invalide in quanto comminate da un antipapato). Don Minutella tornerà presto, come spiega: “Tutto il materiale video era stato salvato e sarà presto riproposto su altre piattaforme. Questo attacco, come tanti altri, non farà che dare ancora più slancio e motivazione alla nostra missione per la salvezza delle anime e della Chiesa cattolica, in comunione col vero papa Benedetto XVI. Un imprenditore del Nord si è già detto disponibile a finanziarci una web tv”. Nel nostro piccolo, invece, possiamo confermare che quando un qualsiasi giornalista comincia a essere sanzionato sul lavoro perché solleva dei legittimi interrogativi, portando fatti e documenti, vuol dire che è sulla PISTA GIUSTA. Lo scrivente ha infatti appena perso due collaborazioni con testate giornalistiche proprio per aver toccato il tasto dolente. Abbiamo la prova del fatto che la rinuncia di Ratzinger sia un vero TABU’: non può essere indagata, anche di fronte a problematiche giuridiche grosse come una casa, perché ne va della legittimità di Francesco come pontefice. Certo, lo capiamo, ma non è colpa nostra se papa Ratzinger ha rinunciato al ministerium invece che al munus come sarebbe richiesto dal canone 332 § 2 , se ha differito la rinuncia senza ratificarla, se dice che “il papa è uno” senza spiegare quale, se si veste di bianco, firma e benedice come un papa, se scrive che si è dimesso come i papi che non hanno abdicato QUI . Non è colpa nostra se l’avvocato Taormina il giudice antimafia Giorgianni nutrono pesanti sospetti sulla rinuncia o la reputano del tutto nulla, né se i giuristi Estefania Acosta e Francesco Patruno, il teologo Carlo Maria Pace, il frate latinista Alexis Bugnolo affermano  la rinuncia è invalida QUI , né se l'arcivescovo Viganò la definisce irrituale, né se oltre a don Minutella e a don Bernasconi che si sono fatti scomunicare, anche vescovi come Mons. Lenga e Mons. Gracida hanno dichiarato che Francesco non è il vero papa.

SCUSATE: MA VI SEMBRA NORMALE TUTTO QUESTO?

Vi ricordate fenomeni analoghi ai tempi di Giovanni Paolo II? Cosa dovremmo fare, tacere e fingere che si tratti di ordinarie divergenze d'opinione? Molti laici pensano che siano “beghe interne dei cattolici”, dimenticando che i papi hanno fatto e disfatto la politica del mondo: basti citare S. Giovanni Paolo II il quale, ad esempio, fece crollare il comunismo. Quindi, il fatto che Bergoglio, sesta persona più influente del mondo secondo Forbes, avendo candidamente ammesso di lavorare per un Nuovo Ordine Mondiale e un Great, possa essere o meno il vero papa, forse dovrebbe un poco interessare anche i non credenti. Molti cattolici pensano, invece, che, anche se Francesco non avesse proprio tutte “le carte in regola” come pontefice, alla sua successione, un nuovo conclave potrebbe rimettere tutto a posto. Costoro non hanno ancora messo a fuoco che se Benedetto non ha abdicato, se conserva il munus petrino, Francesco è un antipapa e un conclave con 80 cardinali invalidi nominati da un antipapa può nominare solo un altro antipapa, così come all’antipapa Anacleto II, nel 1138, succedette l’antipapa Vittore IV. Molti cattolici si illudono, infatti, che anche se c’è stata qualche irregolarità, lo Spirito Santo si possa prestare alle macchinazioni umane e adattarsi ad assistere un antipapa perché “vabbé, tanto, ormai, è andata”.  No, non funziona così. Altri, di fronte alle “insolite” dichiarazioni e iniziative di Francesco, pensano che un papa, quando non parla ex cathedra, possa dire quello che gli pare e che non debba essere, invece, assistito anche in via ordinaria dallo Spirito Santo, come recita l’art. 892 del Catechismo: “L'assistenza divina è inoltre data ai successori degli Apostoli, e, in modo speciale, al vescovo di Roma, pastore di tutta la Chiesa, quando, pur senza arrivare ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in "maniera definitiva", propongono, nell'esercizio del Magistero ordinario, un insegnamento che porta ad una migliore intelligenza della Rivelazione in materia di fede e di costumi”.   Ne segue logicamente che, o Francesco non è il vero papa, oppure lo Spirito Santo accetta di buon grado l’intronizzazione dell’idolo pagano Pachamama in San Pietro ed è d’accordo con Bergoglio – “a livello personale” – sulla bontà delle unioni civili. Magari la terza Persona trinitaria darebbe anche volentieri la comunione a Biden, come si legge in questi giorni, nonostante il presidente Usa sia un fattivo promotore dell’aborto al nono mese. Quindi, o si fa chiarezza e si appura se Benedetto ha abdicato davvero o no, oppure non ci dovremo stupire se, con il Nuovo Ordine Mondiale, la Chiesa potrebbe essere finita per sempre. Certamente un alone di dubbio graverà non solo su Francesco, ma anche su tutti i suoi successori. Eppure, non dovrebbe essere in primis interesse di Bergoglio definire la questione, chiarendo che è tutto in regola? Perché non ha mai fatto o detto nulla in tal senso e, semmai cita – disapprovandoli - certi “LEGALISMI CLERICALI”? A cosa si riferisce? La validità della rinuncia di un papa certo non è un legalismo clericale: fa la differenza tra l’assistenza divina a un vero pontefice e un antipapato di dubbie provenienza e finalità. In ogni caso, continuare a eludere la Magna Quaestio, ovvero chi sia il legittimo papa, comporta, per chi è consapevole della questione, il prendersi una enorme responsabilità di fronte alla storia e di fronte a Dio (per chi crede): ci sono molti ecclesiastici, anche importanti, che hanno letto tutto e che, ugualmente, lasciano la questione irrisolta. Come se seguire un papa o un antipapa, alla fine, faccia poca differenza. Ci scuserete, ma noi, giornalisticamente parlando, la RESPONSABILITA’ STORICA di tacere certe clamorose evidenze, magari per conservare questa o quella piccola rendita di posizione, non ce la prendiamo. La cosa che più impressiona, per ora, è l’atteggiamento di alcuni interlocutori: messi di fronte a questioni fattuali… semplicemente non rispondono. Circa dieci giorni fa, abbiamo replicato al più importante quotidiano cattolico di Germania, il Die Tagespost, che ci aveva tirato in causa in un articolo del 28 maggio, proprio sulla frase rivelatrice di papa Benedetto che avevamo scoperto pubblicata in “Ultime conversazioni” di Peter Seewald: “Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio è stata un’eccezione”. Così, per fare una cortesia ai colleghi d’Oltralpe, illudendoci che un quotidiano cattolico tedesco avrebbe accolto con interesse quanto dichiarato da un papa bavarese a un giornalista della Vestaflia, abbiamo tradotto nella loro lingua la documentata ricostruzione definita “Piano B” . In tale ricerca si riportano fatti oggettivi e incontestabili che possono essere spiegati, al momento, solo con l’ipotesi per cui Benedetto XVI abbia preparato consapevolmente una rinuncia giuridicamente invalida per dar modo ai suoi nemici di rivelarsi e di essere annullati. Avete sentito qualcuno dal Die Tagespost che abbia replicato, contestando, discutendo, obiettando di fronte a simili argomentazioni? Zero. Cespugli rotolanti nel deserto. Qualche giorno fa abbiamo scritto a un vaticanista di un altro giornale, per un cordiale scambio di idee: non ha nemmeno risposto. Altri colleghi, più dialogici e cortesi, di fronte alla questione si dicono “non convinti”, ma non spiegano per quale motivo, inaugurando così un nuovo tipo di “dialettica”.  Ci consola un nostro lettore che, su Twitter, ha ben esemplificato: “Le vostre domande sono tremendamente serie e meritano risposte altrettanto serie”. La cosa che davvero colpisce è che addì 26 giugno 2021, in un mondo liquido, ipertecnologico, dove tutti sanno tutto di tutto e dove un contenuto messo in rete gira e rigira all’infinito, replicandosi ormai facilmente in tante lingue diverse, grazie anche ai traduttori automatici, vi sia ancora qualcuno che ritiene possibile arginare la verità eludendo fatti oggettivi e domande logiche. Tempus omnia revelat, lo dicevano già i latini, e oggi, con il web, tutto è accelerato all’inverosimile. La verità ha una potenza inarrestabile, si impone da sola, come diceva papa Wojtyla: se qualcuno dovesse spiegarvi il trucco del gioco delle tre carte, o di un gioco di prestigio, anche volendo, nessuno di voi potrebbe più cascarci.  Le incongruenze ormai sono venute a galla, sono state “spoilerate”, documentate, ordinate e circolano ora in tutto il mondo come scintille incendiarie: arriverà il momento in cui bisognerà per forza farci i conti.

Ratzinger scrive ancora: la sua lettera scuote la Chiesa. Francesco Boezi il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Joseph Ratzinger, scrivendo ad un seminario polacco, pronuncia una sentenza sulla Chiesa europea. Forte critica alla Germania contemporanea nelle parole del papa emerito. É passata in sordina la lettera che Joseph Ratzinger, il papa emerito, ha scritto di recente, per salutare il seminario di Czestochowa, in Polonia. Quando Benedetto XVI scrive, lascia sempre il segno: c'è poco da fare. L'ultimo testo a firma del teologo tedesco, almeno tra quelli che sono stati resi pubblici, sentenzia sulla situazione della Chiesa europea. Le parole sono poche. Il messaggio è cristallino. Benedetto XVI opera un paragone, che qualcuno potrebbe ritenere ingombrante, ma che delimita il campo. Non solo: quelle poche righe sono in grado di creare un distinguo che, per via della spinta ultraprogressista proveniente dalla Germania, rischia di far capire da che "parte" si sarebbe "collocato" il penultimo vescovo di Roma all'interno di una fase così complessa per il cattolicesimo e le sue istituzioni. Una fase che lo vede comunque protagonista da dietro le quinte. Andiamo per gradi. Intanto la missiva è stata pubblicata dal ratzingeriano Die Tagespost, come riportato da Aci Stampa. Il contenuto è quasi sibillino, ma nasconde (sempre ipotizzando che la critica non fosse volutamente diretta) un giudizio netto: "Che meraviglia - scrive l'ex pontefice - vedere in Polonia ciò che invece sta appassendo in Germania". La Chiesa polacca ha fatto del conservatorismo un punto fermo. Le istituzioni ecclesiastiche dell'Est Europa sono le più lontane dalle rivendicazioni degli episcopati che invece vorrebbero apportare tutta una serie di sconvolgimenti dottrinali: dalla approvazione dei viri probati alle sacerdotesse, alla liberalizzazione, per così dire, delle benedizioni per le coppie omossessuali, passando dall'ingresso della ecologia in senso assolutista nella dottrina ufficiale, dall'abolizione del celibato sacerdotale, dalla laicizzazione della gestione dei sacramenti e delle parrocchie e così via. La Chiesa polacca - utilizzando categorie utili alla semplificazione - è "anti-modernista". E si oppone, quantomeno in buona parte, a tutte queste novità. Certo, in Polonia è percepibile un'assoluta venerazione per San Giovanni Paolo II, che su patria e dottrina aveva idee chiarissime. Ma in generale la Chiesa polacca non ha mai mollato un centimetro sull'ortodossia dottrinale. E questo va dalla bioetica alla critica al multiculturalismo e la difesa, in certe circostanze in maniera plateale, della propria identità, compresi i confini nazionali. Qualcuno si ricorderà del rosario polacco che ha fatto scalpore. A mobilitarsi, in quella specifica circostanza è stato per lo più il "basso" dei fedeli, e certo Ratzinger, quando parla di "meraviglia", non si riferisce alle iniziative contro l'accoglienza dei migranti. Però è comunque significativo che l'Emerito contrapponga la Polonia alla Germania del Sinodo biennale. Sappiamo del resto cosa stia accadendo in Germania di questi tempi, con il "Concilio interno" che, secondo le aspettative, vorrebbe prendere decisioni vincolanti a prescindere dal parere - e che parere - di Roma, facendo un passo in avanti verso il ritorno delle Chiese nazionali. Ratzinger ha messo nero su bianco quella riga su Polonia e Germania in questo clima dialettico. E vale la pena sottolinearlo. La Chiesa europea non è quella dei tempi ratzingeriani e nemmeno quella del Papa polacco. La secolarizzazione ha preso il sopravvento dalle nostre parti, e forse la scelta di eleggere un pontefice argentino è stata anche un segnale di resa per la sopravvivenza del concetto di homo religiosus europeo. Che Ratzinger avesse previsto la crisi di fede del Vecchio continente non è un mistero. La "strategia" di Francesco può piacere o no, ma che il pontefice dei nostri tempi guardi anche, se non soprattutto, al di fuori dai confini europei è un fatto naturale. L'Europa del resto sembra aver smesso di guardare in alto, mentre chi abita nelle "periferie economico-esistenziali" può ancora concepire Dio e la religione come prioritari. Inutile negarlo. Ma la lettera di Benedetto XVI non analizza il cattolicesimo nella sua universalità, bensì lo stato di salute delle istituzioni ecclesiastiche europee, contrapponendo le positività che provengono dalla Polonia a quello che la Germania, con tutta evidenza, non esprime più. Nelle parole del Papa emerito, forse, abita pure un po' di delusione per la "sua" Germania, che sembra essersi allontanata di netto dall'impostazione ratzingeriana della teologia e dell'interpretazione dottrinale. "Sebbene una mia visita non sia più possibile a causa della età e della salute - ha fatto presente Benedetto XVI nella lettera - sono ospite del vostro seminario con tutto il cuore". Qualcosa di più di un segno di vicinanza. Inutile intravedere una "adesione" di Benedetto XVI all'impostazione polacca. Inutile, a ben vedere, qualunque logica politica traslata sulla Chiesa cattolica. La critica alla Chiesa tedesca odierna da parte di Ratzinger è però lapalissiana.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento...

Perché oggi tutti riscoprono la grandezza di Ratzinger. Francesco Boezi il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Oggi in molti rileggono e reinterpretano gli scritti ed i pensieri di Benedetto XVI. Il perché è nella crisi d'identità dell'Occidente. Farne una questione di paragoni serve a poco. La riscoperta del pensiero e delle opere di Joseph Ratzinger però è incontrovertibile. Forse sta contribuendo la parabola che la storia ha intrapreso, con l'uomo posto dinanzi a domande nuove. É fisiologico: chi cerca risposte esaustive ma di stampo umanistico si rifugia tra i pensieri dei grandi interpreti del tempo che è stato e dei tempi che saranno. La fede c'entra, ma la visione di Benedetto XVI non è riservata solo ai cattolici. L'attenzione universale per il novantaquattresimo compleanno dell'emerito è solo l'ennesimo segnale. Non solo un dato mediatico, ma una considerazione generale, che è arrivata da più parti. Anzi dal punto di vista dei media, quasi un bagno d'umiltà, dopo i continui attacchi sferrati contro il "pastore tedesco". Dalla critica al relativismo alla necessaria mitigazione delle logiche economiche con criteri di giustizia sociale, passando per la strenua difesa della dottrina cattolica e dalla battaglia culturale mossa in direzione della proliferazione dei "nuovi diritti": Oggi, Ratzinger viene riscoperto perché ha anticipato i temi che per il mondo sarebbero diventati focali. Anche durante l'era ratzingeriana si affrontava la questione del riconoscimento di alcuni diritti per la comunità Lgbt ma non con questa continuità e con questa enfasi militante. Non era ancora comparso il ruolo di "influencer", per dirne una. Qualcuno ritiene che con papa Ratzinger la Chiesa cattolica non avrebbe esitato nel prendere posizione sul Ddl Zan, ma questo è solo un esempio delle aspettative riposte verso l'odierno, che certo è diverso dal passato, ma che non ha prestato il fianco alla "colonizzazione ideologica", come la chiama papa Francesco. Sono stili comunicativi diversi, per messaggi che possono a loro volta differire. Per quanto la retorica sull'effettiva "continuità" tra regnante e predecessore sia più un esercizio di stile che altro. La Chiesa, pure in questi tempi pandemici, resta una delle poche istituzioni immutabili cui fare affidamento. Di scritti ratzingeriani ne abbiamo a bizzeffe, ma non è detto che sia finita qua. Il cardinale Marc Ouellet, qualche tempo fa, aveva parlato di "sorprese". Così è stato, in ultimo con "Dal Profondo del Nostro Cuore", il testo tramite cui la matrice ratzingeriana, espressa pure dal cardinal Robert Sarah, prende posizione contro l'abolizione del celibato sacerdotale, che non è nei piani di Jorge Mario Bergoglio ma in quelli di certi ambienti ecclesiastici progressisti sì. Ed è inutile nasconderlo. Tensioni e tendenze sempre culturali che provengono da quella Germania che ratzingeriana non è mai stata, almeno non nelle sue gerarchie ecclesiastiche. Perché Benedetto XVI, se abbiamo capito qualcosa del suo modus operandi, non ha mai agito in funzione di uno "spoil system" che fosse in grado di garantire continuità alla sua impronta. E la Chiesa cattolica è evoluta, con naturalità, a prescindere dalle intenzioni del professore che ha deciso di rinunciare al soglio di Pietro. Buona parte di questa riscoperta ruota attorno al bisogno d'identità che tutti rivendichiamo e che il dirsi ratzingeriani forse riempie. Ma Benedetto XVI non ha mai sposato le ideologie, preferendo la complessità delle ramificazioni dottrinali. Ora poi le grandi domande sono tornate d'attualità, con la pandemia che costringe tutti a questioni di senso. Nel pensiero ratzingeriano trova posto, com'è ovvio che sia, pure la parola libertà, che certo oggi viene spesso definita senza Dio. Varrà la pena ripetere che per l'emerito non esiste verità senza libertà e viceversa. E forse dalla Verità intesa alla maniera di Benedetto XVI, il mondo, in specie l'Occidente, si sta allontanando sempre più.

Esiste, però, anche tra le giovani generazioni, una sacca di resistenza ratzingeriana. Gente che non si rassegna ad un Occidente senza sacro e senza bussola. Persone che non hanno rinunciato ad una visione verticale dell'esistenza. Il bisogno di un centro per un luogo che ha perso il suo è forse la chiave migliore per comprendere come mai il ratzingerismo stia subendo un processo di valutazione. Ma non diciamo niente di nuovo. Con la medesima evidenza, però, il processo in questione è ormai consolidato.

Ratzinger modernista? “No – dice Fontana – ma incompiuto”. Sicuri che la partita sia finita? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 28 maggio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

“Panzer Kardinal”, “Pastore tedesco”, “Ratzweiler” sono solo alcuni dei nomignoli irrispettosi che la superficialità dei media e la malignità degli avversari affibbiò a papa Benedetto XVI, dipinto in tutto il mondo, durante otto anni di pontificato (attivo), come una sorta di pontefice medievale, reazionario e oscurantista. Uno dei più grandi intellettuali cattolici del secolo è stato osteggiato al punto tale che 67 docenti de “La Sapienza”, capitanati dal prof. Marcello Cini, gli impedirono di inaugurare l’anno accademico 2007 (una macchia indelebile nella storia dell’università romana fondata nel 1303, peraltro, proprio da un papa, Bonifacio VIII). Oggi siamo all’opposto: Benedetto XVI viene accusato da certo “fuoco amico” conservatore di essere addirittura un “modernista”: il papa del Summorum Pontificum con cui “liberalizzava” la messa in latino e che oggi - ovviamente -  sta per essere smantellato da Bergoglio; il papa del camauro, del fanone, del trono e della croce pastorale di Pio IX; il pontefice dei paramenti splendidi indossati non per vanità o amore del lusso, come scioccamente gli è stato contestato, (anche perché erano quasi sempre accessori antichi usati dai predecessori) ma per esplicitare al mondo la continuità della Chiesa attraverso la Tradizione. Insomma, oggi Benedetto XVI, da ultrareazionario viene fatto passare per modernista, soprattutto secondo i cosiddetti “sedevacanatisti” che non riconoscono alcun papa valido dopo Pio XII, vale a dire dal 1958. Comprensibile: otto anni di amministrazione bergogliana, pesantissimi per i conservatori, hanno inacidito gli animi e il rancore di alcuni si è appuntato inevitabilmente anche sul papa dalla cui (presunta) rinuncia tutto è partito. E’ pur vero che in gioventù, all’epoca del Concilio Vaticano II, il teologo Ratzinger subì le influenze moderniste della temperie culturale dell’epoca, ma se ne emendò presto e pubblicamente; a riportarlo sulla strada della Tradizione fu “il grande teologo” (come da lui definito) Hans Urs von Balthasar, arcinemico del gesuita modernista Karl Rahner, vero vincitore del Concilio. Su von Balthasar, poi cardinalato da Giovanni Paolo II (anche se morì pochi giorni prima di ricevere la berretta) grava ancor oggi (anche per lui) l’accusa di modernismo e la trita attribuzione della frase “l’inferno è vuoto”: una sentenza mai proferita, che gli venne strategicamente attribuita da Rahner e dai suoi sodali per “farlo fuori”. E così avvenne, infatti, tanto che von Balthasar fu il grande escluso del Concilio. Per trovare la “giusta temperatura” sulla figura di Joseph Ratzinger consigliamo il recente libro “Capire Benedetto XVI. Tradizione e modernità ultimo appuntamento”, (Cantagalli) del prof. Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla dottrina sociale della Chiesa. Un saggio di agile lettura che esclude l’ipotesi di un Ratzinger modernista, evidenziando piuttosto la complementarietà o circolarità del suo rapporto tra fede e ragione, che si aiutano e sostengono a vicenda: la contrarietà di Ratzinger a ogni demitizzazione del Cattolicesimo, propria dei modernisti, lo mette al riparo da questa accusa insieme a varie altre questioni sostanziali. Tuttavia, secondo il prof. Fontana, Benedetto XVI ha lasciato dei “cerchi non chiusi”, anche con le sue dimissioni, concedendo troppo spazio all’azione disgregatrice del modernismo. Ma siamo sicuri che Benedetto abbia già esaurito la sua missione? O siamo solo all’inizio? Spiega, intanto, l’autore sulle pagine de La Nuova Bussola Quotidiana: “Capire Benedetto XVI è un’esigenza del pensiero e della fede. In lui tradizione e modernità si sono date come un ultimo appuntamento. Egli ha trattenuto (come un Katéchon) la dissoluzione della fede cattolica, difendendo quanto andava difeso e ribadendo quanto andava ribadito, ma non è riuscito a chiudere il cerchio e a mettere in sicurezza la nave dalla tempesta. Chi dice che è stato sconfitto su tutti i fronti e che il modernismo (con Bergoglio n.d.r.) alla fine ha prevalso, chi dice che l’esito era inevitabile dato che anche il suo pensiero, in fondo, anche se non in tutto, dipendeva dalle res novae di una modernità negatrice della tradizione. C’è chi pensa invece - come il sottoscritto - che Benedetto XVI abbia indicato molti punti fermi in chiaro contrasto con la tendenza del modernismo a sciogliere la Chiesa nel mondo e la trascendenza nella storia, ma che non abbia completato l’opera che quegli stessi punti fermi da lui posti richiedevano per coerenza interna. Ha detto molto, ma non ha detto tutto. Il suo pontificato è rimasto INCONCLUSO non solo per le dimissioni, ma anche dal punto di vista del pensiero teologico. Ha illuminato molti problemi ma non è arrivato ad indicarne la soluzione”. Bisogna ammettere che il processo iniziato da papa Ratzinger sembra aver completamente fallito, dato che il modernismo ha dilagato come uno tsunami: oggi in Germania i preti benedicono disinvoltamente uno dei quattro “peccati che gridano vendetta al Cielo”; si intronizzano migranti e idoli pagani; il culto mariano è ai minimi storici; viene osannato Lutero; Giuda è andato in Paradiso; non ci si inginocchia più davanti all’Eucaristia, si auspica apertamente il Nuovo Ordine Mondiale e il quotidiano dei vescovi appoggia il ddl Zan. E’ oggettivamente in corso un’inversione totale dei principi base della fede cattolica, con situazioni surreali che paiono tratte dal mondo alla rovescia della Coena Cypriani o da una tela di Hjeronymus Bosch. Ma – ripetiamo  - siamo sicuri che la partita sia finita e che Benedetto XVI abbia davvero fallito? Il prof. Fontana, come molti altri intellettuali, purtroppo, non prende in considerazione un’ipotesi nata già nel 2013, ripresa poi due anni fa e denominata "Piano B", poggiante su dati oggettivi e consolidata da diversi studi giuridici, secondo la quale Benedetto XVI non ha mai rinunciato validamente al trono di Pietro. Sono tanti gli indizi che hanno consentito una ricostruzione completa e coerente che nessuno ha saputo finora mettere in discussione. Perché Benedetto XVI si sarebbe dimesso invalidamente? In breve: ormai esautorato e privo di potere effettivo, (avevano perfino silurato il presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi a sua insaputa), pressato da fronde intere e poteri esterni, per salvare la Chiesa avrebbe accontentato i suoi nemici con un “falso bersaglio”, dimettendosi solo dalle funzioni pratiche, ma senza abbandonare il munus petrino, il titolo di papa. In questo modo avrebbe consentito che la Chiesa modernista, per alcuni una “falsa chiesa”, si palesasse appieno, scandalizzando larga parte di quegli stessi cattolici che nel 2012 erano all’oscuro di quanto covava mentre oggi, consapevoli, sono invece sull’orlo di una crisi di nervi. Come si legge, quanto sarebbe stato verosimilmente preparato da Benedetto XVI non è semplicissimo, immediato, anche se logico. Per essere ben compreso richiede due risorse: molta fede e molta ragione. Solo avendo fiducia nel papa e nell’assistenza soprannaturale a lui accordata dallo Spirito Santo questo disegno può svelarsi, emergendo dalle nebbie di un caos apparente, come logico e credibile. Da un punto di vista razionale fila tanto che nessuno fino ad oggi è stato in grado di proporre un’interpretazione alternativa e completa che sappia coniugare tutti i dati di fatto, le coincidenze e le incongruenze. Se non si ha stima di papa Ratzinger e fiducia in lui non si potrà mai comprendere il suo “Piano B”. Non è solo una questione psicologica, ma anche teologica, dato che, per i credenti, lo Spirito Santo avrebbe dovuto assistere Benedetto XVI in una scelta così difficile. Chi considera Benedetto un modernista è portato, naturalmente, a giudicarlo uno sciattone, un approssimativo, uno che ha commesso tanti errori nella Declaratio di dimissioni e, casualmente, altrettanti negli otto anni successivi, compresa la sua “scientifica” ambiguità. I più possibilisti ritengono che in buona fede volesse dimettersi, ma lo abbia fatto maldestramente. Non si spiega allora, perché dopo gli errori giuridici non abbia MAI rimediato verbalmente chiarendo che il papa è uno ed è Francesco, ma invece abbia continuato a seminare il panico indossando la veste bianca e a godere di altre prerogative pontificie. Questi stessi critici non sono in grado di fornire una risposta nemmeno leggendo le abbacinanti parole di Ratzinger “Nessun papa si è dimesso negli ultimi mille anni e anche nel primo millennio è stata un’eccezione”. Una frase patente che indica come lui si sia dimesso dall’esercizio pratico, ma non abbia mai abdicato, visto che in duemila anni si sono dimessi ben 10 papi. Eppure, anche gli antiratzingeriani – di solito, intellettuali di alta caratura - riconoscono che le sue dimissioni sono dubbie e irrituali, e qualcuno si spinge a ravvisare un “disegno intelligente” (ma casuale) che ha coordinato magicamente una serie di coincidenze per otto anni di “emeritato” tanto da non far mai dire a Ratzinger che “il papa è uno ed è Francesco”. Ma siccome manca la fiducia e l’apertura emotiva verso Ratzinger, siccome viene considerato un pasticcione e un incompetente di diritto canonico, nessuno si applica, nessuno si concentra con attenzione, nessuno cerca di capire il suo “piano B”. Citando il prof. Fontana, è il caso in cui la mancata tensione verso la verità autolimita la ragione, inibisce la fede, e viceversa: il “mito” di un Ratzinger modernista impedisce di cogliere il suo geniale sistema di riscatto della Chiesa anche perché questa agnizione condurrebbe inevitabilmente a una difficilissima marcia indietro sui propri giudizi. C’era un film di avventura dove il protagonista, sul ciglio di un burrone, ripeteva a se stesso: “Solo l’uomo penitente potrà passare”. In questo caso, solo l’uomo che ha fede e ragione fino in fondo potrà comprendere l’ultima grande opera di Benedetto XVI. Chi lo detesta non vorrà e non potrà capire mai nulla. Se qualcuno un giorno avrà il  coraggio e la lucidità di applicarsi alla questione, la chiesa “turbomodernista” di Bergoglio potrebbe essere completamente annullata. Svanirebbe tutto in un soffio, secondo una prospettiva che da secoli prevede un’ultima prova, una annunciatissima fase di apostasia e di aggressione al Papato dall’interno. Si compirebbe, allora, quanto già intuito dal filosofo Giorgio Agamben che si dice convinto del fatto che la vera ragione delle sue dimissioni sia stata la volontà di risvegliare la coscienza escatologica  (riguardante i destini ultimi dell'uomo n.d.r.): “Nel piano divino della salvezza, la Chiesa avrebbe anche la funzione di essere insieme «Chiesa di Cristo e Chiesa dell’Anticristo». Le dimissioni sarebbero una prefigurazione della separazione tra «Babilonia» e «Gerusalemme» nella Chiesa. Invece di impegnarsi nella logica del mantenimento del potere, con la sua rinuncia all’incarico Ratzinger ne avrebbe enfatizzato l’autorità spirituale, contribuendo in tal modo al suo rafforzamento”. In sintesi, il volume del prof. Fontana offre un ritratto di Joseph Ratzinger lucido ed equilibrato, che fa piazza pulita delle accuse di oscurantismo quanto di quelle di modernismo, ma la storia potrebbe radicalmente ribaltare i suoi giudizi circa l’incompiutezza dell’azione del papa teologo. Lo ripetiamo per la millesima volta: LA CHIAVE DI TUTTO E' NELLA VALIDITA' DELLA RINUNCIA. Staremo a vedere, o forse, vista la disperante indifferenza per la questione, vedranno i nostri nipoti.

Il magistrato Giorgianni: “Benedetto XVI non ha mai abdicato. Bergoglio è un cardinale vestito di bianco”. Ormai si parla apertamente di Nuovo Ordine Mondiale: il concetto è sdoganato. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 17 giugno 2021 

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“C’è un solo papa, Benedetto XVI. Bergoglio è un cardinale vestito di bianco, complice del Nuovo Ordine Mondiale”: non è andato molto per il sottile, in un discorso pubblico a Messina, due giorni fa,  il noto magistrato antimafia Angelo Giorgianni, già Sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi.

Naturalmente, ha fatto tali dichiarazioni non nelle sue vesti istituzionali, ma come presidente dell’Organizzazione Mondiale per la Vita, un’associazione su base volontaria da lui fondata, che si occupa della difesa della vita umana e di tutti i diritti che afferiscono alla sua tutela e dignità   riservando particolare attenzione alle varie libertà individuali non sempre assicurate, come quella di opinione, libertà, pensiero, culto e alla sacralità della vita umana dal momento del concepimento sino alla fine naturale.

D. Dottore, dopo l’avvocato Taormina QUI, lei è il secondo uomo di legge laico e italiano a sollevare dubbi sull’abdicazione di papa Ratzinger…

R. Ho seguito questa vicenda e sono assolutamente convinto che Benedetto XVI abbia stilato un atto di rinuncia al papato completamente nullo: un vero “cocktail” di invalidità giuridiche fatto per essere scoperto nel corso del tempo. Tanto per citare la più nota: nella Declaratio del 2013, la rinuncia, invece che al munus petrino, è al ministerium - ovvero all’esercizio pratico del potere – che non comporta rinunciare al papato: al massimo potrebbe significare la delega a qualche vescovo di alcune funzioni pratiche. I banali errori di latino nel documento, provenienti da un latinista raffinato come lui, sono ovviamente un sistema per tenere desta l’attenzione sull’atto giuridico.

Per non parlare della sua condotta nei successivi otto anni, basti solo ricordare come ripeta sempre “il papa è uno” senza mai dichiarare quale dei due sia, o alle frasi inequivocabili che sono emerse recentemente dai suoi libri-intervista come quella “Nessun papa si è dimesso negli ultimi mille anni”.

D. Non teme di passare per “complottista”?

R. “Guardi, io - per lavoro - i complotti li svento da una vita. Complottismo è quando si costruiscono ardite teorie senza che queste poggino su dati di fatto. In ambito giudiziario, invece, una serie univoca di indizi costituiscono una prova e qui, di indizi evidenti, verificabili da chiunque, ce n’è una quantità perfino eccessiva”.

D. Perché dice che Bergoglio è un cardinale vestito di bianco?

R. “Perché se papa Ratzinger non ha abdicato al soglio, come evidente, il conclave del 2013 era del tutto invalido ed ha eletto “papa” un cardinale che resta cardinale. Quindi Bergoglio è un antipapa, come tanti ce ne sono stati nella storia della Chiesa”.

D. Una questione scottante, ma sembra che non turbi più di tanto il clero…

R. “E’ gravissimo infatti. Alcuni ecclesiastici temono di essere scomunicati (ma la scomunica di un antipapa non vale nulla), altri pensano che, alle dimissioni o alla morte del card. Bergoglio, un nuovo conclave possa rimettere le cose a posto. Ma se il collegio cardinalizio ha 80 nuovi cardinali nominati da Bergoglio, essi non sono veri cardinali e quindi non hanno titolo per eleggere un nuovo papa. Quindi la linea successoria dopo Francesco sarebbe tutta composta da antipapi. Lo dimostra la storia: nella prima metà del XII secolo, l’antipapa Anacleto II regnò otto anni e, alla sua morte, gli succedette Vittore IV, un altro antipapa, finché San Bernardo di Chiaravalle non spodestò quest’ultimo restaurando una linea successoria papale legittima”.

D. I cattolici ortodossi si lamentano continuamente delle riforme di Francesco. Ora temono per la messa in latino (“vetus ordo”), dato che Bergoglio pare voglia limitare la sua celebrazione revocando il motu proprio “Summorum Pontificum” di Benedetto XVI.

R. “E di che si stupiscono? Lo Spirito Santo assiste il papa non solo quelle rare volte in cui si pronuncia ex cathedra su importanti dogmi di fede. C’è uno specifico articolo del Catechismo, l’892, che parla della Sua assistenza ordinaria: “L'assistenza divina è inoltre data in modo speciale, al Vescovo di Roma, quando, pur senza arrivare ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in maniera definitiva, propone, nell'esercizio del Magistero ordinario, un insegnamento che porta ad una migliore intelligenza della Rivelazione in materia di fede e di costumi”.

Come si fa a pensare che Bergoglio sia il vero papa se sta demolendo l’identità cattolica fin dalle sue basi? E, paradossalmente, i cattolici ortodossi si disperano sui suoi provvedimenti invece di controllare se ha le carte in regola per essere pontefice: come preoccuparsi degli effetti senza indagare le cause”.

 D. Anche i laici paiono abbastanza indifferenti alla questione...

R. “Un grosso errore: un papa ha un ruolo fondamentale nella politica del mondo intero. Pensiamo solo al ruolo avuto da Giovanni Paolo II nel crollo del comunismo. Il papa è un capo politico con influenza su oltre un miliardo di persone: condiziona pesantemente la politica internazionale”.

D. A tal proposito, Lei sostiene che Bergoglio sia una sorta di sponsor morale del Nuovo Ordine Mondiale.

R. “Lo ha dichiarato lui stesso, recentemente, a un grosso quotidiano (La Stampa del 15/3/’21 n.d.r.): «Non bisogna sprecare la pandemia, ma impiegarla per costruire un nuovo ordine mondiale». Più chiaro di così? Ormai il concetto è sdoganato, se ne parla tranquillamente, senza pudore. Infatti Bergoglio insiste continuamente con questo “dialogo interreligioso”. Anche io sono favorevole al dialogo, ma qui lo si prende come scusa per annichilire l’identità cattolica e fare della chiesa il contenitore di una nuova religione mondialista. Un processo del tutto inverso rispetto all’unicità della Rivelazione di Cristo. Ma basta guardare alla posizione tenuta dalla Chiesa durante la pandemia…”.

D: A proposito: voi siete molto critici sulla gestione della crisi sanitaria…

R. “Certo. Noi siamo per i vaccini, a condizione che siano sicuri ed efficaci, ma non ci spieghiamo allora perché affrettare la somministrazione di un farmaco sperimentale se ci sono le terapie efficaci, invece completamente trascurate. Una follia. Anche Bergoglio non parla mai delle terapie, come mai? Piuttosto, ha dimostrato una sudditanza al potere civile contro ogni accordo concordatario e costituzionale, privando tante persone dei conforti minimi della fede, chiudendo le chiese e negando i sacramenti anche ai moribondi. In troppi tentano di cavalcare questa emergenza sanitaria per instaurare nuovi progetti politici e/o finanziari. 

Ma noi porteremo in tutte le piazze queste verità: noi crediamo nello stato di diritto e nel rispetto delle regole”. 

ENGLISH VERSION:

“There is only one pope, Benedict XVI. Bergoglio is a cardinal dressed in white, an accomplice of the New World Order” — the well-known anti-Mafia magistrate Angelo Giorgianni, former Under-Secretary of Ministry of Justice & Pardon of the Prodi government, said briefly in a public speech in Messina two days ago.

Naturally, he made these statements not in his institutional capacity, but as president of the “World Life Organization,” a voluntary association he founded, which is concerned with the defense of human life and all the rights that pertain to his. protection and dignity paying particular attention to the various individual freedoms not always guaranteed, such as that of opinion, freedom, thought, worship and the sacredness of human life from the moment of conception to the natural end.

Question: Dear Doctor, after the lawyer Taormina HERE, you are the second secular and Italian lawyer to raise doubts about the abdication of Pope Ratzinger …

Giorgianni: I have followed this story and I am absolutely convinced that Benedict XVI has drawn up an act of renunciation of the papacy that is completely null and void: a real “cocktail” of legal invalidity made to be discovered over time. Just to quote the best known: in the Declaratio of 2013 he renounces, instead of the Petrine munus, it is the ministerium – or the practical exercise of power – which does not involve renouncing the papacy: at most it could mean the delegation to some bishop of some functions practices. The trivial Latin errors in the document, coming from a refined Latinist like him, are obviously a way to keep attention on the legal act.

Not to mention his conduct over the next eight years; just remember how he always repeats “the pope is one” without ever declaring which of the two he is, or the unequivocal phrases that have recently emerged from his interview books such as ” has been discharged in the last thousand years ”.

Q. : Aren’t you afraid of being considered a “conspiracy theorist”?

Giorgianni. : Look, I – for work – have foiled conspiracies for a lifetime. Conspiracy is when bold theories are built without these being based on facts. In the judicial field, on the other hand, a unique series of clues constitute proof and here, there is an even excessive amount of clear clues, verifiable by anyone.

Q. : Why do you say that Bergoglio is a cardinal dressed in white?

Giorgianni: Because if pope Ratzinger did not abdicate the throne, as evident, the conclave of 2013 was completely invalid and elected a cardinal who remains a cardinal. So Bergoglio is an anti-pope, as there have been so many in the history of the Church.

Q. : A burning issue, but it doesn’t seem to upset the clergy too much …

Giorgianni: It is very serious in fact. Some clergymen fear being excommunicated (but the excommunication of an anti-pope is worth nothing), others think that, at the resignation or death of card. Bergoglio, a new conclave can put things right. But if the college of cardinals has 80 new cardinals appointed by Bergoglio, they are not true cardinals and therefore do not have the right to elect a new pope. Therefore the succession line after Francis would be all composed of anti-popes. History demonstrates this: in the first half of the 12th century, the anti-pope Anacleto II reigned for eight years and, upon his death, he was succeeded by Victor IV, another anti-pope, until Saint Bernard of Clairvaux ousted the latter by restoring a papal succession line legitimate.

Q. : Orthodox Catholics continually complain about Francis’ reforms. Now they fear for the Latin Mass (“vetus ordo”), given that Bergoglio seems to want to limit his celebration by revoking Benedict XVI’s motu proprio “Summorum Pontificum”.

Giorgianni: And what are they astonished at? The Holy Spirit assists the pope not only on those rare times when he pronounces ex-cathedra on important dogmas of faith. There is a specific article in the Catechism, 892, which speaks of his ordinary assistance:

“Divine assistance is also given in a special way, to the Bishop of Rome, when, even without arriving at an infallible definition and without making a definitive pronouncement, he proposes, in the exercise of the ordinary Magisterium, a teaching that leads to a better understanding of Revelation in matters of faith and morals ”.

How do you think that Bergoglio is the real pope if he is demolishing the Catholic identity from its very foundations? And, paradoxically, Orthodox Catholics despair over his measures instead of checking if he has what it takes to be pope: how to worry about the effects without investigating the causes.

Q. : Even the laity seem quite indifferent to the question …

Giorgianni: A big mistake! A pope has a fundamental role in the politics of the whole world. Let us think only of the role played by John Paul II in the collapse of communism. The pope is a political leader with influence on over a billion people: he heavily conditions international politics.

Q. : In this regard, you argue that Bergoglio is a sort of moral sponsor of the New World Order?

Giorgianni: He himself recently declared to a major newspaper (La Stampa of 3 /15/ 21): “We must not waste the pandemic, but use it to build a new world order”. Clearer than that? By now the concept is cleared through customs, we talk about it quietly, without shame. In fact, Bergoglio continually insists on this “interreligious dialogue” … I too am in favor of dialogue, but here it is taken as an excuse to annihilate the Catholic identity and make the church the container of a new globalist religion. A completely reverse process with respect to the uniqueness of Christ’s Revelation. But just look at the position held by the Church during the pandemic…

Q. : By the way: you are very critical of the management of the health crisis …

Giorgianni: Sure. We are for vaccines, provided they are safe and effective, but we do not explain why rushing the administration of an experimental drug if there are effective therapies, instead completely neglected. A madness. Bergoglio also never talks about therapies, why? Rather, he demonstrated a subjection to civil power against any concordat and constitutional agreement, depriving many people of the minimum comforts of faith, closing churches and denying the sacraments even to the dying. Too many try to ride this health emergency to establish new political and / or financial projects. — But we will bring these truths to every public square: we believe in the rule of law and respect for the rules.

Benedetto XVI, la rinuncia è invalida: il parere del giurista Patruno. E in tal caso l'elezione di Bergoglio non sarebbe mai esistita. Il blog di Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 27 maggio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Da due anni abbiamo cominciato ad occuparci di una questione che, nonostante rimanga pressoché ignorata da media laici e cattolici, costituisce il nodo chiave e ineludibile di tutto ciò che riguarda le turbolenze in seno alla Chiesa cattolica. Capire se papa Benedetto XVI abbia abdicato oppure no, non è esattamente una questione secondaria: E’ TUTTO. Se le sue “dimissioni” non sono valide, il conclave che ha eletto nel 2013 il card. Bergoglio era invalido, quindi “il papa Francesco” non sarebbe mai esistito, sarebbe un antipapa, come tale non assistito dallo Spirito Santo. Nulla di quanto fatto da lui in otto anni di pontificato sarebbe valido e tutti i pontefici eletti nella sua linea successoria sarebbero altrettanti antipapi. Quindi, la Chiesa cattolica sarebbe finita, almeno per come la conosciamo, a meno che non venga riconosciuta l’invalidità dell’abdicazione di Ratzinger. Ecco perché varrebbe la pena applicarsi alla questione almeno un poco e appare abbastanza curioso come molti cattolici legati all'ortodossia continuino a contestare Francesco senza domandarsi se sia o non sia legalmente il papa, e quindi se sia o meno assistito dallo Spirito Santo. Dopo tutto, qualche indizio per farsi venire un dubbio è emerso: lo stesso Benedetto XVI nel libro intervista di Peter Seewald “Ultime conversazioni” (Garzanti 2016), ha scritto qualcosa di chiarissimo in merito alla propria presunta rinuncia: “Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel I millennio è stata un’eccezione”. Ora, siccome nel I millennio si sono dimessi sei papi e nel II millennio se ne sono dimessi quattro, Ratzinger non può che riferirsi a quei pochissimi che, nel I millennio, cacciati dagli antipapi, furono costretti a rinunciare solo alle funzioni pratiche, al ministerium, restando papi a tutti gli effetti come avvenne per Benedetto VIII. Del resto, stando alla Declaratio del 2013, Benedetto XVI conserva ancora il munus petrino, il titolo di papa. Quindi, se lui, come dice nel libro di Seewald, si è dimesso solo quanto alle funzioni pratiche, non ha abdicato e il papa è uno solo: lui. Abbiamo già ricostruito l’ipotesi, tracciata da vari autori, secondo cui tutto questo potrebbe essere stato fatto apposta. Pare proprio che queste dimissioni facciano acqua da tutte le parti: praticamente tutti gli aspetti canonici che potevano invalidarle sono stati coinvolti e, sicuramente, Benedetto XVI nei suoi anni successivi da “papa emerito” non ha aiutato a fare chiarezza, dichiarando sempre “il papa è uno”, senza mai specificare quale nonostante le forzature della stampa mainstream. Avevamo chiesto a 20 canonisti della Sacra Rota qualche delucidazione, ma nessuno di loro ha risposto. Un segnale non incoraggiante. Finalmente un esperto di diritto canonico ha accettato di rispondere ad alcuni quesiti. Si tratta dell’avvocato Francesco Patruno, Dottore di ricerca in scienze canonistiche ed ecclesiastiche, autore di diverse pubblicazioni in ambito giuridico.

D. Avvocato, parliamo innanzitutto di quegli strani errori di latino nella Declaratio, già individuati da famosi filologi, nel 2013. Ratzinger tre anni dopo dichiarò al Corriere di aver scritto in due settimane la Declaratio in latino perché conosce perfettamente quella lingua e temeva di fare errori.  Se non bastasse, il documento passò anche al vaglio della Segreteria di Stato. Questi sbagli rendono la Declaratio di rinuncia scritta non “rite manifestetur”, ovvero debitamente?

R. “Il “rite manifestetur” del can. 332 § 2 C.I.C., a mio avviso, non intende riferirsi alla circostanza che una dichiarazione di rinuncia sia manifestata senza alcun errore sintattico o grammaticale: la canonistica, in effetti, l’ha sempre inteso nel senso che la grave decisione assunta da un Papa sia manifestata, esternata debitamente affinché, dal punto di vista del diritto, sia potenzialmente conoscibile dalla Chiesa, allo scopo di poter determinare la vacanza della Sede Apostolica e, perciò, l’inizio della procedura di elezione del successore nell’ufficio. Insomma, la rinuncia perché sia valida non deve essere formalizzata in un certo modo: l’importante è che sia esternalizzata e la modalità sia idonea a tale scopo.

Non saprei se la presenza di errori grammaticali o sintattici sia tale da far pensare ad una scarsa lucidità. Forse dovrei pensare che un soggetto abbia potuto scrivere di getto, senza rileggere e rivedere la forma. Se, comunque, dovesse provarsi la scarsa lucidità del soggetto – cosa difficilissima da provare –si potrebbe ravvisare, a mio modo di vedere, un difetto di libertà interna del soggetto dichiarante, con conseguente invalidità del suo atto”.

D. Quindi al limite, quegli errori potrebbero essere stati inseriti solo per richiamare l’attenzione sugli aspetti giuridici del documento. Entrando più nel merito, cosa pensa della dibattuta questione sull’inversione fra rinuncia al ministerium, (esercizio pratico) piuttosto che al munus (titolo divino)?

R. “Magari, assieme ad altri argomenti, può assumere un significato, sebbene per me non sia decisivo. A volte i due termini sono stati usati come sinonimi e forse Ratzinger ha usato l’uno o l’altro per evitare una ripetizione. Personalmente, piuttosto che parlare di ministerium e munus, preferisco parlare di papato attivo e passivo, usando la stessa terminologia adoperata da Benedetto XVI nella sua ultima udienza generale nel febbraio 2013”.

D. E il fatto che Benedetto scriva “dichiaro di rinunciare”, al posto di “rinuncio”, ha delle valenze giuridiche?

R. “Potrei rimarcare che dire “dichiaro di rinunciare” sia un mero annuncio, mentre usare l’espressione “rinuncio” sia la concretizzazione di quanto annunciato. Nel gergo avvocatesco talora si ritrovano queste sottigliezze negli atti quando si legge “Tizio intende proporre, come propone” o “Caio dichiara di accettare, siccome accetta ….” o espressioni similari proprio per evitare che un annuncio rimanga tale senza l’efficacia”.

D. Ma il nodo che Lei contesta – come il teologo Carlo Maria Pace – è soprattutto la posticipazione della rinuncia. Infatti, Benedetto XVI l’11 febbraio 2013 dichiarò che le sue dimissioni sarebbero entrate in vigore il 28 febbraio, dalle ore 20.00.

R. “La mia posizione- da giurista, non da teologo - è che l’atto di rinuncia, come anche l’accettazione al papato, appartengano al novero dei cosiddetti atti giuridici puri, ovverosia a quella categoria di atti che non ammettono l’apposizione di un termine e/o di una condizione. Insomma, si tratta di atti che esplicano i loro effetti immediatamente e non tollerano differimenti di sorta ad una certa ora futura o il verificarsi di eventi futuri ed incerti. Un cardinale che accetta l’elezione papale non può dire “Io accetto l’elezione, però questa avrà efficacia tra trenta giorni” o a partire da una certa data. Analogamente la rinuncia”.

D. Anche l’istituto del PAPA EMERITO, secondo Lei non ha alcun motivo di esistere, come mai?

R. “Non lo dico solo io, ma anche autori canonisti molto più autorevoli di me. Penso – tanto per citare dei nomi – ai professori Carlo Fantappiè dell’Università di Roma Tre e Geraldina Boni dell’Università di Bologna che, nei loro scritti, hanno più volte posto in evidenza come l’istituto dell’emeritato non possa applicarsi al papa. Anche l’insigne prof. Francesco Margiotta Broglio, professore emerito di diritto ecclesiastico, intervistato da Radio Radicale all’inizio dell’anno scorso, pose in evidenza questo “pasticcio”, sottolineando come «Questa storia del papa emerito non è prevista dai sacri canoni che prevedono i vescovi emeriti, non i papi. E il secondo sbaglio è stato di averli messi entrambi nel recinto vaticano: se uno fosse andato a Castel Gandolfo e l'altro in Vaticano era diverso, ma a meno di un chilometro di distanza è stato un errore fondamentale»”.

D. Dimissioni così confuse possono essere considerate dubbie e quindi invalide?

R. “Farei riferimento al can. 124 - §1: “Per la validità dell'atto giuridico, si richiede che sia posto da una persona abile, e che in esso ci sia ciò che costituisce essenzialmente l'atto stesso, come pure le formalità e i requisiti imposti dal diritto per la validità dell'atto”. Comunque, se la rinuncia è dubbia o parziale – come nel caso di Benedetto XVI (parlo di rinuncia parziale perché egli si è riservato alcuni profili dell’ufficio papale) – essa è senz’altro invalida, in quanto l’ufficio papale, per sua natura, non è divisibile. È un “pacchetto” che si accetta o si rifiuta così com’è, non potendosi dire “io rinuncio a questa facoltà, ma mi trattengo quest’altra”. O si rinuncia in toto, o non si rinuncia. Rinunce parziali non sono concepibili. Certo, però, il tema è ancora da studiare ed approfondire da parte dei canonisti e degli storici”.

D. Benedetto XVI potrebbe legittimamente continuare a indossare la veste bianca a vivere in Vaticano, a usare il plurale maiestatico, a firmarsi P.P.-Pater Patrum, a impartire la benedizione apostolica? Già il Card. Pell ha espresso varie perplessità in merito. Perché lo fa?

R. “Perché si è trattenuto alcune facoltà, benché non avesse potuto. Questo fa sì che la rinuncia sia parziale e, dunque, dubbia e, perciò, invalida. Beninteso ci sono stati casi nella storia della Chiesa di papi rinunciatari, che, pur dopo la rinuncia, conservavano alcune prerogative particolari (ad es., l’uso dell’anello piscatorio, dell’ombrello papale, ecc.). Penso ai casi di Gregorio XII o dell’antipapa Felice V. Ma si trattava di concessioni accordate o dal Concilio (di Costanza, nel caso di Gregorio XII) o da un pontefice (di Niccolò V, nel caso dell’antipapa Felice). E comunque pure in questi casi non era mantenuta né la veste papale né il nome da papa né altri appellativi che inducessero a qualche confusione, giacché era chiaro chi dovesse essere il papa e quelli che avevano rinunciato non potevano esserlo più”.

D. Quindi, in sostanza, Lei nega che papa Ratzinger abbia rinunciato validamente al papato, pensa però che lo abbia fatto in modo inconsapevole, quindi chiedere un parere a lui sarebbe inutile?

R. “In buona sostanza sì, ritengo che la rinuncia di Benedetto XVI presenti molte criticità dal punto di vista giuridico. Del resto, egli è un teologo, non un giurista o un canonista e quindi è più che naturale che abbiano delle forme mentali differenti. D’altronde non penso sia utile chiedere a lui un parere, anche perché i papi quando si sono pronunciati sulla propria o altrui legittimità hanno sempre errato. Per es., Martino V si riteneva successore di Giovanni XXIII Cossa, che era in realtà un antipapa, ed al contrario reputava che Gregorio XII – il papa legittimo – fosse, invece, l’antipapa”.

D. Ma non le sembra che, statisticamente, siano un po’ troppe queste criticità giuridiche, unite alle dichiarazioni di papa Ratzinger che, in otto anni, mai ha fornito una certezza su chi sia il papa?

R. “E’ plausibile, parlando da credente, che vi sia una sorta di “intelligenza” dietro tutto ciò volta a rendere invalide le dimissioni di Benedetto XVI. Non sono in grado di dire se questa strategia provenga dal puro caso, dalla mente di Benedetto XVI oppure da una forma di “intelligenza superiore”. Questo lo lascio valutare ad altri”.

L'esempio del cuculo: perché “morto un Papa non se ne fa un altro”. Un papa non validamente eletto non gode dell'assistenza dello Spirito Santo. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 maggio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Mentre si consuma lo scisma fattuale con la Chiesa tedesca – per via delle benedizioni alle coppie gay da parte di cento sacerdoti finora non sanzionati - ci sarebbe da mettere a fuoco una questione sostanziale: se un papa non abdica, chi prende il suo posto non è assistito dallo Spirito Santo. Qualche giorno fa è emerso come papa Benedetto abbia scritto nel libro “Ultime conversazioni” di Peter Seewald, in riferimento alla propria rinuncia: “Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio è stata un’eccezione”. Siccome si sono dimessi 6 papi nel primo millennio e 4 nel secondo, evidentemente la parola “dimissioni”, per Ratzinger, non si può intendere come “abdicazione”. Infatti lui stesso ha dichiarato di rinunciare solo al ministerium, alle funzioni pratiche, (cosa arcinota, che viene fatta passare come un refuso) ma conserva il munus, il titolo di papa. Il confronto storico torna: nel primo millennio solo il papa Benedetto VIII rinunciò al ministerium e non al munus, a causa di un antipapa. Per ora nessuno è stato capace di fornire spiegazioni alternative. Comunque sia, un’affermazione-chiave come questa, per ora, è scivolata via, così, insieme a tante altre inaudite discrasie che abbiamo indagato. “Ma, alla fin fine, che importanza ha?” si chiedono in molti, portati a ritenere che il tema della validità della rinuncia sia una questione “di lana caprina”, una sterile disquisizione accademico-giuridica per inguaribili fan di papa Ratzinger che non vogliono accettare le “riforme” di Francesco. Purtroppo è necessario ribadire un concetto sgradevole: al di là del fatto che Francesco possa piacere più o meno, a seconda delle propensioni, se Benedetto XVI non ha abdicato, il papa è ancora Ratzinger (per quanto privo delle funzioni pratiche) e il conclave del 2013 è invalido. Quindi, Francesco è un antipapa e – teologicamente – NON PUO’ ESSERE ASSISTITO DALLO SPIRITO SANTO. Ergo, un miliardo e 285 milioni di cattolici se ne stanno andando tranquillamente “per prati”, seguendo un cardinale che non è il papa. Non dovrebbe essere una situazione un po’ preoccupante per coloro che sono i “pastori delle anime”? Eppure, c’è stato qualche ecclesiastico che ha dato segni di curiosità, soprattutto di fronte alle ultime acquisizioni? E’ nato un dibattito? No. Silenzio. Cespugli rotolanti nel deserto. Come se non fosse successo nulla. Eppure tali questioni sono state riprese dal top dei vaticanisti italiani come Aldo Maria Valli e Marco Tosatti, molto seguiti in ambito religioso. Ignorare la questione non è fruttuoso, non solo perché il silenzio è, anch’esso, una forma di comunicazione, ma anche perché si rischia di non individuare il destino esiziale verso cui è proiettato il clero che vorrà mantenersi appena un po’ cattolico. Proveremo a esemplificarlo con un paragone tratto dal mondo naturale. Tutti conoscono il cuculo, quell’uccello grigiastro che ha l’abitudine di deporre un proprio uovo nel nido di altri uccelli, per esempio, dei passeri. Quando l’uovo del cuculo si schiude, il pulcino getta fuori dal nido le altre uova, si spaccia per il regolare figlio dei passeri facendosi nutrire dagli ignari genitori adottivi. Ma è un uccello di un’altra specie: da quel nido non uscirà un passero, bensì un cuculo, che metterà al mondo altri cuculi. Allora, (il discorso vale per i credenti) se papa Benedetto non ha abdicato, la successione papale è stata interrotta per sempre (per come la conosciamo). Ovvero, un conclave invalido, quello del 2013, ha messo sul trono un “cuculo”, un estraneo alla “specie petrina” eletto SENZA l’assistenza dello Spirito Santo. Non ci sarà mai più un altro papa cattolico in Vaticano. Circa 80 cardinali invalidi, nominati da un papa invalido, non potranno eleggere un vero papa; tutta la linea successoria di Bergoglio sarà di antipapi che NON SARANNO INFALLIBILI ex cathedra, NE’ ordinariamente ASSISTITI DALLO SPIRITO SANTO. A un antipapa manca, infatti, questa speciale “garanzia di qualità” che viene dal Cielo, (almeno questo dice la dottrina cattolica). Del resto, la strada intrapresa da Bergoglio non è esattamente quella del più stretto tradizionalismo e l’ultimo episodio, in Germania, delle benedizioni a quello che la dottrina riporta come uno dei “quattro peccati che gridano vendetta al Cielo” dimostra come arriveranno istanze e questioni sempre più strangolatorie per il clero cattolico ortodosso che sarà posto di fronte a scelte ineludibili. La dinamica riformista-modernista è, come si vede, spiraloidea, implosiva: se lo Spirito Santo non “fa la guardia”, arriverà un momento in cui le innovazioni dottrinali - o le omissioni – della nuova Chiesa imporranno a sacerdoti, vescovi e cardinali una scelta di campo definitiva. Presto, molti ecclesiastici saranno messi all’angolo: per loro, oltre una certa soglia di compromessi non sarà possibile scendere e non potranno più rimanere in comunione con Francesco. E allora – paradossalmente - saranno costoro ad essere espulsi dalla Chiesa, scomunicati, scaraventati nel vuoto come le uova dei passeri spinte fuori dal cuculo. Un “piccolo resto cattolico” dovrà così riorganizzarsi “nelle catacombe”, come preconizzato da papa Ratzinger, abbandonando il Vaticano, basiliche, chiese, palazzi, conventi, musei e tesori. Ecco perché non conviene mettere la testa sotto la sabbia e ignorare la questione. L’unico modo per salvarsi? Quello di individuare per tempo il cuculo come estraneo alla “nidiata petrina”, ovvero riconoscere che il potenziale scomunicatore non ha alcun titolo per scomunicare perché non è il vero papa. E Il NODO FONDAMENTALE E’ VERIFICARE SE PAPA BENEDETTO HA ABDICATO O NO. La chiave di tutto è racchiusa in quell’atto giuridico. Quindi, è inutile fare finta di niente, girare intorno alle questioni: se il clero realmente cattolico non vorrà essere definitivamente espulso dal “Nido di San Pietro”, dovrà chiedere SUBITO a Papa Benedetto un pubblico chiarimento - con una conferenza stampa al di sopra di ogni sospetto - prima che sia troppo tardi. Altrimenti, sarà meglio cominciare a ritinteggiare le catacombe.

"Nessun papa si è dimesso per 1000 anni...". Benedetto XVI spiega che non ha mai abdicato. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 4 maggio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. “Il papa è uno solo” ripete Benedetto XVI da otto anni, senza mai spiegare quale sia dei due. In merito alle sue dibattute dimissioni, in molti si chiedono, spazientiti: “Se è ancora lui il papa, perché non lo dice apertamente?”. Forse non può, ma abbiamo individuato un testo dove Ratzinger spiega che, sebbene con la Declaratio del 2013 si sia dimesso rinunciando al “ministerium”, alle funzioni pratiche, di converso non ha affatto abdicato al “munus”, il titolo divino di papa. (Le parole sono importanti: dimettersi è rinunciare a delle funzioni, abdicare è rinunciare al titolo di sovrano). Noiosi “legalismi clericali”, come dice Bergoglio? No. Si tratta di un problema enorme – che viene accuratamente evitato nel pubblico dibattito - perché se un papa vivente non abdica al munus decadendo completamente, non si può indire un altro conclave. Anche dal punto di vista teologico, lo Spirito Santo non orienta l’elezione del papa in un conclave illegittimo, né lo assiste. Il “papa Francesco” quindi, non sarebbe mai esistito, sarebbe solo un “vescovo vestito di bianco”, come nel Terzo segreto di Fatima e nessuno più, nella sua linea successoria, sarebbe un vero papa. Vale quindi la pena di applicarsi alla questione. Ma veniamo al documento: a pag. 26 di “Ultime conversazioni” (Garzanti 2016), libro-intervista di Peter Seewald, il giornalista chiede a Benedetto XVI:  “Con lei, per la prima volta nella storia della Chiesa, un pontefice nel pieno ed effettivo esercizio delle sue funzioni si è dimesso dal suo “ufficio”. C’è stato un conflitto interiore per la decisione?”. Risposta di papa Ratzinger: “Non è così semplice, naturalmente. Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio ciò ha costituito un’eccezione: perciò una decisione simile la si deve ponderare a lungo. Per me, tuttavia, è apparsa talmente evidente che non c’è stato un doloroso conflitto interiore”. UN'AFFERMAZIONE ASSURDA, per come immaginiamo comunemente la parola “dimissioni”: negli ultimi mille anni (1016-2016) ci sono stati ben quattro papi che hanno rinunciato al trono, (tra cui il famoso Celestino V, nel 1294) e, nel primo millennio del papato (33-1033), ce ne sono stati altri sei. Forse Ratzinger non conosce bene la storia della Chiesa? La sua frase ha, invece, un senso perfettamente coerente se comprendiamo che “dimettersi“ dal ministerium - come ha fatto Ratzinger - non comporta affatto “abdicare” al munus. Semmai può essere il contrario. La distinzione – vagamente (e forse intenzionalmente) ipnotica QUI  - fra munus e ministerium è stata formalizzata a livello canonico nel 1983, ma è utile a Benedetto XVI per far passare un messaggio chiarissimo: egli, infatti,  non ci sta parlando dei papi che hanno abdicato, ma di quelli che si sono dimessi come lui, cioè quelli che hanno perso il ministerium, le funzioni, SENZA ABDICARE. Tutto torna:   l’”eccezione” del primo millennio di cui parla Ratzinger è quella di BENEDETTO VIII, TEOFILATTO DEI CONTI DI TUSCOLO che, spodestato nel 1012 dall’antipapa Gregorio VI, in fuga, dovette rinunciare per alcuni mesi al ministerium,  ma non perse affatto il munus di papa, tanto che fu poi reinsediato sul trono dall’imperatore santo Enrico II. Nel secondo millennio, invece, nessun papa ha mai rinunciato al solo ministerium, mentre ben quattro pontefici hanno, invece, abdicato, rinunciando al munus. Consultato sulla questione storica, il Prof. Francesco Mores, docente di Storia della Chiesa all’Università degli Studi di Milano, conferma: “Esiste effettivamente questa differenza tra il I e il II millennio. Lo snodo decisivo è la riforma “gregoriana” (del 1073). Per quanto in conflitto coi poteri secolari, i papi del II millennio mantennero sempre un minimo di esercizio pratico del loro potere (quindi non rinunciarono al ministerium n.d.r.), a differenza di pochissimi casi nel I millennio: Ponziano, Silverio, ma, soprattutto, Benedetto VIII”. Benedetto XVI ci sta dicendo chiaramente che lui ha dovuto rinunciare al ministerium come quel suo antico, omonimo predecessore e che nessuno di loro due ha mai abdicato al munus. Se non fosse così, Ratzinger come potrebbe dire che dimettendosi come lui, nessun papa si è dimesso nel II millennio e che nel I millennio è stata un’eccezione”? Non si scappa. Ulteriore conferma viene dall’altro libro intervista di Seewald, “Ein Leben”, dove, a pag. 1204, Benedetto XVI prende le distanze da Celestino V, che abdicò legalmente nel II millennio (1294): “La situazione di Celestino V era estremamente peculiare e non poteva in alcun modo essere invocata come (mio) precedente”. Sempre in Ein Leben,  la parola “abdicazione” compare otto volte - nove  nell’edizione tedesca (“Abdankung”) - e mai riferita a Ratzinger, ma solo a papi che abdicarono per davvero, come Celestino, o che volevano farlo sul serio, come Pio XII per sfuggire ai nazisti. Per Ratzinger, invece, si parla solo di dimissioni (“Ruecktritt”). Oggi, quindi, non avremmo “due papi”, bensì “mezzo” papa: solo Benedetto XVI, privo del potere pratico. Per questo, egli continua a vestire di bianco (pur senza mantelletta e fascia), a firmarsi P.P. (Pontifex Pontificum), a vivere in Vaticano e a godere inspiegabilmente di altre prerogative pontificie. Ci sono altre spiegazioni? La questione non può passare in cavalleria: un miliardo e 285 milioni di cattolici hanno diritto di sapere chi è il papa. Forse una conferenza stampa di papa Benedetto, per esempio, oppure un sinodo con discussione pubblica fra vescovi e cardinali nominati prima del 2013: fare chiarezza - in modo assolutamente trasparente - non è più differibile.

APPROFONDIMENTO. (Il seguente paragrafo, ripreso sul blog Stilum Curiae dell’autorevole vaticanista Marco Tosatti QUI è riservato a chi voglia ricostruire con maggiori dettagli, ma la lettura può anche proseguire direttamente passando all’ultima "nota a margine" sulle profezie della Beata Katharina Emmerick ). Rispondendo a Seewald, circa le dimissioni dal suo ufficio, subito Ratzinger specifica, infatti: “Non è così «semplice»”, cioè “, l’ufficio papale non è “in un solo pezzo” perché nel 1983 si operò la distinzione, nel diritto canonico, fra munus e ministerium, ovvero tra titolo divino ed esercizio pratico. Alcuni canonisti bergogliani sostengono che Benedetto XVI si sia dimesso perché il ministerium e il munus sono inscindibili. Certo: questi sono inscindibili solo come “diritto iniziale” del pontefice, nel senso che un papa neoeletto ha, oltre al titolo, per forza di cose, il diritto di esercitare anche il ministerium, il potere pratico. Tuttavia, i due enti non sono equivalenti, né inseparabili dato che un papa se rinunciando al munus perde ovviamente anche il ministerium, viceversa può benissimo rinunciare al ministerium mantenendo il munus e restando papa. Un esempio? Un neo-padre ha certamente l’inscindibile diritto di educare il figlioletto, ma se non può farlo per vari motivi, può delegare ad altri questo compito. Ma egli resta sempre il padre. Lo stesso Ratzinger in “Ultime conversazioni” a pag. 33 cita l’esempio: “Anche un padre smette di fare il padre. Non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua a essere padre in un senso più profondo, più intimo, con un rapporto e una responsabilità particolari, ma senza i compiti del padre”. Torniamo al riferimento storico e vedremo che i conti tornano. Ratzinger ha quindi sintetizzato nella sua frase come nessun papa abbia abbandonato il ministerium (quindi restando papa a tutti gli effetti) in mille anni (tra 1016 e 2016) mentre, nel primo millennio (33-1033) ciò ha costituito un’eccezione. E’ vero. Lui rinuncia al solo ministerium come quei pochi papi del I millennio, con la differenza che lo fa volontariamente. Lo specifica la stessa domanda di Seewald: “Con lei, per la prima volta nella storia della Chiesa, un pontefice nel pieno ed effettivo esercizio delle sue funzioni si è dimesso dal suo ufficio”. Ed ecco la spiegazione completa del Prof. Francesco Mores, docente di Storia della Chiesa all’Università degli Studi di Milano: «Esiste effettivamente questa differenza tra il primo e il secondo millennio circa il funzionamento dell’istituzione papale. Lo snodo decisivo è la riforma dell’XI secolo, che chiamiamo anche “gregoriana” (da papa Gregorio VII, vescovo della Chiesa di Roma dal 1073 al 1085): un rafforzamento in senso ierocratico del ruolo del papa. Con l’istituzione di una prima forma di “clero cardinale”, dal 1059, i pontefici riuscirono a strutturare e controllare determinati uffici, anche grazie alla creazione di una gerarchia funzionariale. Per quanto in conflitto con i poteri secolari, i vescovi della Chiesa di Roma mantennero sempre un minimo di esercizio pratico del loro potere, a differenza di pochissimi casi nel primo millennio: quelli dei papi Ponziano e Silverio –che furono forse deposti per iniziativa del potere imperiale–e di papa Benedetto VIII, chefu appoggiato da Enrico IIcontro l’“antipapa” Gregorio, sostenuto dalla famiglia romana dei Crescenzi. Eletto forse nel 1012, Benedetto VIII si colloca non per caso sulla soglia della trasformazione dell’istituzione papale avvenuta tra il primo e il secondo millennio». A ulteriore conferma, scrive il medievista Roberto Rusconi, nel suo volume “Il Gran rifiuto” (Morcelliana 2013): “Nei primi secoli le rinunce dei papi erano state causate in modo forzoso nel contesto delle persecuzioni imperiali […] A volte si era trattato di rinunce esplicite, a volte di rimozioni di fatto”. Aggiunge il Prof. Agostino Paravicini Baragliani, tra i massimi studiosi del papato: “[Per i papi dal 1016 in poi] non mi sembra che si possa porre il problema della perdita della loro funzione, non certo per i papi che sono risultati vincenti”. Quindi l’affermazione di Benedetto XVI è perfettamente corretta solo se si intendono le sue ”dimissioni” come rinuncia al ministerium, senza abdicazione al munus, come infatti ha scritto nella Declaratio. E veniamo a quelle “eccezioni” di papi che si sono “dimessi” come Benedetto XVI:  Papa Ponziano (?-235), che fu deportato in Sardegna e per qualche mese rinunciò al ministerium prima di abdicare spontaneamente e legalmente, abbandonando l’ufficio. Papa Silverio, (480-537), deportato nell’isola di Patara che fu privato del ministerium dall’11 marzo all’11 novembre del 537, finché abdicò  volontariamente. Il caso più significativo riguarda invece un altro Benedetto, l’VIII, nato Teofilatto II dei conti di Tuscolo. Nel 1012, fu spodestato dall’antipapa Gregorio VI e costretto a fuggire da Roma lasciando per alcuni mesi il ministerium nelle mani dell’avversario, finché l’imperatore santo Enrico II fece giustizia cacciando l’antipapa Gregorio e reinsediandolo sul trono di Pietro. Benedetto VIII rimase quindi SEMPRE IL PAPA e, anche se per alcuni mesi fu costretto a rinunciare al ministerium, mai abdicò. Con la sua risposta a Seewald, Benedetto XVI ha messo nero su bianco, con un inequivocabile riferimento storico, sebbene legato a una distinctio del 1983, che lui ha annunciato di  rinunciare al solo ministerium e che, non avendo abdicato, egli è ancora l’unico e solo papa. Per questo continua a dire che il papa è uno solo senza spiegare quale. Se si fosse dimesso nel senso di “abdicare”, Ratzinger non avrebbe mai potuto affermare che “negli ultimi mille anni nessun papa si è dimesso”, dato che c’è il notissimo caso del rifiuto di Celestino V (1294). Ed ecco, infatti, a ulteriore prova, cosa dichiara Ratzinger nel libro intervista “Ein Leben” di Peter Seewald (2020). Domanda di Seewald: “Nel 2009 visitò la tomba di papa Celestino V, l’unico papa prima di lei a rassegnare le dimissioni; ancora oggi ci s’interroga sul significato di quella visita. Che cosa c’era dietro?” Risposta di Benedetto XVI: “La visita alla tomba di papa Celestino V fu in realtà un evento casuale; in ogni caso ero ben consapevole del fatto che la situazione di Celestino V era estremamente peculiare e che quindi non poteva in alcun modo essere invocata come precedente”. Celestino infatti abdicò scrivendo: “…abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta”.

Ratzinger ha invece dichiarato “di rinunciare al minister(ium)o di Vescovo di Roma”. Così, mantiene veste bianca e varie altre prerogative pontificie perché non ha mai abdicato.

Un’ultima considerazione sulle profezie della Beata K. Emmerick. A margine, una nota da prendere col beneficio di inventario sempre necessario quando si parla di profezie, anche di santi e mistici riconosciuti dalla Chiesa. Il linguaggio immaginifico di questi messaggi non è suscettibile di interpretazioni letterali, tuttavia non possiamo non registrare come nelle profezie della mistica Katharina Emmerick, beatificata da Giovanni Paolo II, vi siano dei riferimenti che si possono adattare alla storia e alla figura del pontefice Benedetto VIII di Tuscolo, la cui “riscoperta”, come abbiamo visto, potrebbe avere conseguenze dirompenti. La Emmerick annota: "Ebbi una visione del santo Imperatore Enrico II. Lo vidi di notte, da solo, in ginocchio ai piedi dell’altare principale in una grande e bellissima chiesa... e vidi la Beata Vergine venire giù da sola. Ella stese sull’altare un panno rosso coperto con lino bianco, vi pose un libro intarsiato con pietre preziose e accese le candele e la lampada perpetua”. La mistica fa inoltre riferimento a una sorta di grande pontefice che verrà a rimettere le cose a posto nella Chiesa: “Vidi un nuovo Papa che sarà molto rigoroso. Egli si alienerà i vescovi freddi e tiepidi. Non è un romano, ma è italiano. Proviene da un luogo che non è lontano da Roma, e credo che venga da una famiglia devota e di sangue reale. Ma per qualche tempo dovranno esserci ancora molte lotte e agitazioni". (27 gennaio 1822). La figura di un papa forte e salvifico si ritrova anche nel messaggio della Madonna del Buon Successo, riconosciuta dalla Chiesa, (apparizione del 1594 a Quito). “Molti saranno i fattori che cooperano alla rivincita di Maria e alla restaurazione della Chiesa e della Cristianità, ma uno solo, determinante, viene enunciato dalla Madonna: il ruolo che avrà un uomo privilegiato, un "gran prelato". Ora, l’imperatore Enrico II fu colui che rimise sul trono il vero papa Benedetto VIII, Teofilatto dei conti di Tuscolo, feudatari di Tusculum, a pochi km da Roma. Teofilatto era discendente di un altro papa, Giovanni XII di Tuscolo ed era imparentato con Ugo di Provenza re d’Italia dal 926 al 947: quindi forse di sangue “reale”? Benedetto VIII fu un papa molto fermo: si impegnò nel Tirreno contro i saraceni, sostenne le rivolte antibizantine in Italia meridionale, condannò la simonia e… riaffermò il celibato del clero. (Vi ricorda qualcuno?). Si potrebbe anche fantasticare sul fatto che la Madonna che giunge “nella notte della Chiesa” a esaudire le preghiere di Enrico II voglia mostrare un cardinale abusivamente vestito di bianco, (il panno rosso coperto dal lino bianco) e che il libro prezioso sia il Codice di Diritto Canonico e la lampada, la luce della ragione o la devozione per un papa defunto. L’”arrivo” di questo “grande prelato salvifico” potrebbe essere, dunque, nella riscoperta di questo riferimento nodale a Benedetto VIII? Altre profezie fanno riferimento a una chiesa che, come un’aquila bendata e legata aspetta di essere sciolta in volo. E nello stemma di Benedetto VIII figura giusto un’aquila (animale di S. Giovanni) nera in campo d’oro. Del resto, vi sembra realistico che nei prossimi anni spunti fuori un vescovo di sangue reale da Bracciano, da Marino, da Monteporzio o da qualche altro paese nei dintorni di Roma? Ovviamente, sono solo supposizioni, e non potrebbe essere altrimenti trattandosi di profezie. Certo, la riscoperta del caso eccezionale di papa Benedetto VIII citato da Ratzinger potrebbe ingenerare una serie di fenomeni a catena. Se il grande prelato è Teofilatto, ce lo dirà la storia.

Perché giova a cardinali e vescovi un'operazione verità sulle dimissioni di Ratzinger. Una verifica, o stornerà tutti i sospetti da Francesco, o sventerà un golpe. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 25 aprile 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Nello schieramento dei cattolici ortodossi contrari a Bergoglio coesistono varie posizioni: molti ritengono che papa Ratzinger non si sia mai dimesso, secondo alcuni perché non conosce il diritto canonico. Altri dicono che abbia organizzato tutto apposta,  e altri ancora che l’elezione di Francesco sia stata favorita dallo stesso "modernista Ratzinger" dopo un lento e oscuro processo in atto fin dal 1962, senza spiegare però, come mai avrebbe messo nei pasticci il "collega" con dimissioni così problematiche. Su Cose dell’altro mondo abbiamo proposto un’ipotesi circa l’eventuale “Piano B” di Benedetto XVI che prevederebbe una sua specifica volontà di creare un “piano con falso bersaglio e finta ritirata”. La ricostruzione, basata su testi di teologi, latinisti, giuristi e indizi significativi, finora non è stata smentita da solide argomentazioni. Comunque, tutti questi discorsi sulle motivazioni che avrebbero spinto Benedetto XVI a presunte dimissioni, compreso il nostro sul “Piano B”, NON CONTANO NULLA ai fini della validità delle dimissioni di Ratzinger. Infatti, l’atto può essere valido o no, in modo del tutto indipendente dalle intenzionalità di chi lo ha prodotto. Esempio: se vostro zio buonanima vi avesse lasciato un testamento duro da digerire, poco importa che lo abbia fatto apposta per castigarvi, per dimenticanza, per pietà verso un cugino sfortunato … Se manca la firma originale in calce (per dirne una) il testamento è COMUNQUE invalido.  Il resto sono elucubrazioni di contorno. Magari, se scoprite degli importanti indizi per cui vostro zio avrebbe appositamente reso invalido l’atto, questo dovrebbe fornirvi un ulteriore incoraggiamento a impugnare il testamento, ma cambia poco ai fini della questione tecnico-giuridica che dovrà essere discussa in sede legale. Non ha quindi alcuna importanza che Benedetto sia stato forzato, che lo abbia fatto volentieri, che quel giorno fosse distratto o avesse il mal di testa. Non conta nemmeno se Bergoglio sia un papa santo, o il Falso Profeta dell’Apocalisse. Se le dimissioni di Ratzinger non sono valide dal punto di vista canonico, punto. E a  capo. In questo caso il “papa Francesco” e tutto quello che lui ha fatto in otto anni non sarebbe mai esistito: un sogno, bellisimo per alcuni, un incubo per altri. Se Ratzinger non si è dimesso, bisogna rimettere le lancette al 28 febbraio 2013, e capire oggi cosa vuol fare il Santo Padre Benedetto. Le opzioni per lui sarebbero tre.

1. Se, come da Declaratio del 2013, conferma che intende rinunciare al ministerium (esercizio pratico del potere), allora deve nominare un cardinale o un vescovo vicario che eserciti per lui il potere pratico. Ma lui resta comunque il papa detentore del munus. Avremo così un papa eremita - e non emerito - perché il titolo non esiste. Il cardinal Tizio, suo vicario, andrà in giro per il mondo ad annunciare il Vangelo ed eserciterà le funzioni amministrative.

2. Benedetto decide di tornare papa in piena operatività e di riprendersi fattualmente l’esercizio del ministerium. Ipotesi un po’ difficile, vista la sua età e le sue forze, ma non bisogna dimenticare che Giovanni Paolo II rimase sul trono fino all’ultimo, con tanto di munus e ministerium.

3.  Oppure, Benedetto stavolta SI DIMETTE DAVVERO, ratifica una RINUNCIA AL MUNUS PETRINO, e TORNA CARDINALE, perdendo ogni prerogativa papale, come ha sottolineato giustamente il card. Pell. Via il nome pontificale, via la sigla P.P. (Pontifex Pontificum), né benedizione apostolica, né residenza in Vaticano, né veste bianca. Il card. Ratzinger torna in talare nera bordata di rosso.

Se Benedetto sceglie la terza opzione, ovviamente non è che Bergoglio può restare, ma va indetto un NUOVO CONCLAVE VALIDO con un collegio di cardinali elettori nominati ovviamente prima del 2013, cioè nominati solo da papa Ratzinger o da Giovanni Paolo II. Chi lo sa, magari un nuovo conclave riconfermerà il card. Bergoglio, il quale a sua volta, poi riconfermerà tutti i suoi atti e le sue nomine. Tuttavia, la questione non può passare liscia, al grido di “tanto ormai è andata così…”. No. Nella Chiesa non c’è l’usucapione, non funziona in tal modo. Altrimenti, l’antipapa Anacleto II che governò la Chiesa giusto per otto anni (1130-1138) non sarebbe mai stato deposto da San Bernardo di Chiaravalle.  All’epoca non c’erano nemmeno le regole stringenti che ci sono oggi per la validità di un conclave e di una rinuncia. Ciò che va chiarito improrogabilmente è la questione delle dimissioni di Ratzinger, altrimenti non ci sarà mai nessun papa dopo Bergoglio che sarà esente dal sospetto di essere invalido. Anche da un punto di vista spirituale, se Ratzinger non si fosse dimesso, nemmeno nel prossimo conclave interverrebbe lo Spirito Santo e anche se venisse eletto un cardinale super-tradizionalista e ortodosso, ugualmente non sarebbe il vero papa perché eletto da 80 cardinali invalidi nominati da un papa invalido (Francesco). Quindi, la verifica sulle dimissioni è fondamentale anche per Francesco, dato che questo sospetto delegittima lui e i suoi futuri successori in modo grave. Dovrebbe essere lui stesso a istituire una commissione d’inchiesta per fare luce sulla rinuncia di Benedetto, dimostrare che è tutto in regola e che lui è papa a tutti gli effetti. Invece ignora la questione e, anzi, nelle omelie disapprova i “legalismi clericali”, come se fossero quisquilie farisaiche di nessun conto: un atteggiamento certamente non utile a dissipare i sospetti. E qui alcuni maligni contesteranno: figuriamoci, è assurdo che le dimissioni di Ratzinger possano essere messe in discussione dai cardinali e dai vescovi, sarebbe per loro come segare il ramo sul quale sono seduti. Questa è, però una grave forma di sfiducia: comunque, a parte il fatto che un giorno si potrebbero trovare a dover spiegare a Domineddio come mai hanno consentito un golpe esiziale per la Chiesa al fine di conservare una poltrona,  quand’anche fossero porporati pro-Bergoglio, l’operazione-verità sarebbe un ATTO DI FEDELTA’ VERSO FRANCESCO volto a chiarire la legittimità del suo pontificato, per fare tabula rasa di ogni sospetto e tacitare per sempre i tradizionalisti, almeno sull’aspetto dell’elezione. Tutti i cardinali e vescovi, pro Bergoglio o pro Ratzinger devono seguire la Verità come unica guida, e questo li protegge come uno scudo infallibile. Se, infatti, dalla verifica canonica risulta che Bergoglio è il vero papa, i cardinali e i vescovi promotori della verifica avrebbero il merito di AVER SALVATO FRANCESCO da tutti i sospetti e da tutte le insinuazioni: lo Spirito Santo è con lui, punto e basta. Lode a loro e W Francesco. Se invece risultasse che Ratzinger è ancora il papa, è vero che i cardinali e i vescovi nominati da Bergoglio automaticamente perderebbero la porpora, ma solo temporaneamente, perché sicuramente verrebbero riconfermati - o addirittura promossi - per il loro coraggio e per aver salvato il vero papa. Il reintegro o la promozione proverrebbe o  dallo stesso Benedetto XVI, reintegrato nel ministerium, o dal suo successore legittimo. Addirittura, il promotore dell’operazione-verità avrebbe tutti i titoli per aspirare al ruolo di PROSSIMO PONTEFICE, sia nel caso in cui resti Francesco (lo ha legittimato in pieno) sia nel caso torni Benedetto (lo ha salvato dal golpe). Insomma, il coraggio per la verità di questi porporati  sarebbe premiato IN OGNI CASO, sia da un legittimo papa Francesco, che da un legittimo papa Benedetto o dai loro legittimi successori perché “Veritas summa charitas est”. Non c’è nulla da temere: infatti, se oggi uno di questi prendesse l’iniziativa per far obiettivamente luce sulle dimissioni, in puro spirito di verità e senza per forza avere una posizione pregiudiziale, con quale faccia Francesco potrebbe scomunicarlo o punirlo? SAREBBE UNA ESPLICITA AMMISSIONE DI ILLEGITTIMITA'. Se Bergoglio non ha niente da nascondere dovrebbe sicuramente BENEDIRE una commissione d’inchiesta che lo liberi da ogni angoscioso sospetto. Viceversa, il silenzio dei porporati li danneggia molto a livello di immagine. Ma ATTENZIONE: se Bergoglio, per ipotesi, non fosse il vero papa, a questo punto, l’unica exit strategy per lui sarebbe quella di dare le dimissioni subito prima che venga esaminata la questione delle dimissioni di Ratzinger, facendola “passare in cavalleria”. In tal modo verrebbe eletto uno dei suoi cardinali da un conclave invalido e il suo disegno, qualunque esso sia, proseguirebbe nei “suoi” successori. Bergoglio potrebbe dire che si dimette per il bene della Chiesa, per evitare divisioni etc. In quel caso la Chiesa cattolica sarebbe ugualmente fatta fuori. Insomma: l’unica strada obbligata è quella della verità, per tutti, per  Francesco, per Benedetto XVI, per i loro successori futuri e per tutti i cardinali e vescovi, bergogliani o ratzingeriani, nominati prima e dopo il 2013. Altrimenti, quale autorità avrebbe la Chiesa del futuro senza aver fatto luce una questione così essenziale?

Antwort auf die Tagespost: arrivano in Germania le stranezze sulle "dimissioni" di Benedetto XVI. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 giugno 2021.  

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il più importante quotidiano cattolico tedesco, il Die Tagespost, ha ripreso alcuni nostri articoli circa le problematiche giuridiche della rinuncia di papa Benedetto XVI e le strane incongruenze degli otto anni successivi. Abbiamo così fornito loro un resoconto dei fatti e una ricostruzione che li collega (il cosiddetto “Piano B”), tradotti in tedesco. Finora nessuno è riuscito a proporre un’alternativa. Cari Colleghi del Die Tagespost, il giorno 28 maggio avete ripreso sulle vostre pagine un articolo pubblicato dal blog del sottoscritto sul quotidiano italiano Libero. Il Vostro titolo parlava di “strane speculzioni" a Roma. Se avrete la bontà di leggere, vi dimostreremo che ad essere molto strani sono, piuttosto, alcuni fatti oggettivi. Quanto alla nostra ricostruzione chiamata “Piano B”, essa tenta di offrire una possibile spiegazione logica riordinando fatti e documenti. E’ stata ripresa dai più autorevoli vaticanisti italiani e tradotta in quattro lingue da siti e blog internazionali (oggi anche in tedesco, per Voi). Saremmo lieti se qualcuno si dimostrasse capace di metterla in discussione in modo coerente e completo dopo aver verificato tutti gli approfondimenti.

Ed ecco i fatti.

La Declaratio di dimissioni nasconde una serie di problematiche giuridiche che coinvolgono i canoni 124, 332 § 2, 188, 17 del Codice di Diritto canonico.

Dall’inversione fra munus e ministerium, al differimento della data e dell’ora della rinuncia, alla dubbiosità generale: a detta di vari canonisti la rinuncia è un atto completamente nullo. Il solo fatto che possano fiorire tali querelle, rende l’atto dubbio e come tale, ancora una volta, nullo.

Per non parlare dell’istituto del cosiddetto “papa emerito”, radicalmente contestato - all’unanimità - da studiosi di fama internazionale (Boni, Fantappié, Margiotta-Broglio, de Mattei…).

Benedetto XVI ripete da otto anni che “il papa è uno” senza mai spiegare quale. Ho dimostrato che Vatican News ha attribuito il virgolettato “il papa è uno ed è Francesco” a Benedetto XVI mentre le parole erano del giornalista Massimo Franco del Corriere della Sera.

Benedetto XVI mantiene la veste bianca e si è giustificato nel libro di Seewald Ultime conversazioni dicendo che era “una soluzione pratica perché non aveva altri abiti”. Mantiene altre prerogative pontificie come il P.P. dopo il nome pontificio (Pater Patrum, o Pontifex Pontificum) e la possibilità di impartire la benedizione apostolica. Usa nei suoi libri-intervista il plurale maiestatico. Vive in Vaticano ed interviene su gravi questioni dottrinali.

Ho evidenziato come nelle sue dichiarazioni degli ultimi otto anni vi sia un’ambiguità scientifica e studiata: ogni sua frase può essere interpretata in due modi diversi e speculari.  Come quando dice: “I miei fan sono dispiaciuti per la mia scelta, ma io sono sereno e in pace con me stesso”.

Una frase che può essere interpretata in due modi diversi, anche secondo l’ipotesi di cui scriverò di seguito.

Nella Declaratio di dimissioni figurano due gravi errori di latino e altre circa 20 imperfezioni che vennero subito denunciati sulla stampa da illustri latinisti come Luciano Canfora e Wilfried Stroh.

Nel 2016, papa Ratzinger dichiara al Corriere della Sera quanto già scritto in Ultime conversazioni di Peter Seewald, ovvero che lui stesso ha scritto in due settimane la Declaratio in latino perché egli è “conosce molto bene il latino e non voleva fare errori scrivendo in italiano”. Il documento è passato attraverso la Segreteria di Stato sotto segreto pontificio – scrive Ratzinger - che ha anche “perfezionato lo stile”.

L’ultima scoperta è quella citata anche dal Vostro giornale, sempre in “Ultime conversazioni” di Peter Seewald:

Domanda. “C’è stato un conflitto interiore per la sua decisione (di dimettersi)?”.

Risposta di papa Ratzinger: “Non è così semplice, naturalmente. Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio ciò ha costituito un’eccezione: perciò una decisione simile la si deve ponderare a lungo. Per me, tuttavia, è apparsa talmente evidente che non c’è stato un doloroso conflitto interiore”.

Ora, nel I millennio hanno abdicato sei papi, e quattro nel II millennio. Come è possibile? Benedetto XVI non può quindi che riferirsi con la parola “dimissioni” solo a quei pochi papi che nel I millennio furono costretti a rinunciare non al munus petrino, ma al solo ministerium, l’esercizio pratico del potere, per essere stati cacciati dagli antipapi. Nella fattispecie, uno di questi potrebbe essere Benedetto VIII, scacciato dall’antipapa Gregorio VI e pertanto temporaneamente costretto a rinunciare al ministerium prima di essere reinsediato sul trono come legittimo papa. Infatti papa Ratzinger nella Declaratio rinuncia solo al ministerium, e non al munus, come sarebbe richiesto dal canone 332.2. Quindi, lui ci starebbe dicendo che è ancora il papa, per quanto privo dell’esercizio pratico del potere. Non sono emerse spiegazioni alternative.

Questi sono solo alcuni fatti, e avreste ragione a ben definirli strani. Come spiegarli?

Ci sono solo due ipotesi:

1) Papa Ratzinger non conosce bene il latino, non ricorda nulla della Storia della Chiesa ed è pressoché digiuno di Diritto canonico, nonostante fosse certamente a conoscenza del fatto che nel 1983 Giovanni Paolo II avesse inserito la dicotomia tra munus e ministerium nel Diritto canonico. Per pura vanità personale, Benedetto si ostina a indossare la veste bianca e ad atteggiarsi da papa, non essendolo più, rimanendo del tutto indifferente all’angoscia e al dubbio che attanagliano tantissimi fedeli su chi sia il papa. Bisogna ammettere anche che papa Ratzinger sia anche un poco dispettoso e si “diverta” a lasciare un’ombra di dubbio su chi sia il papa, intralciando il suo successore.  

2) Come già ventilato dalla giurista Estefania Acosta nel suo trattato “Benedict XVI: pope emeritus?” e dal frate Alexis Bugnolo, lo strano  e illogico comportamento di Benedetto XVI nell’arco dei successivi otto anni è da lui tenuto appositamente per farci capire che il papa è uno ed è solo lui, dato che lui stesso ha predisposto volontariamente la sua rinuncia come giuridicamente invalida. Questo per consentire alla Chiesa modernista di rivelarsi, di farsi conoscere, ma poi di essere annullata di un soffio, non appena scoperta l’invalidità della sua rinuncia.  E’ noto come egli nel 2012 fosse ormai esautorato (tanto che il presidente dello IOR Ettore Gotti Tedeschi fu cacciato all’insaputa del papa), è noto dalla biografia del card. Danneels che i suoi nemici fossero i cardinali della Mafia di San Gallo di cui il card. Bergoglio era il campione. Secondo la teoria del cosiddetto “Piano B”, Benedetto XVI ha consegnato alla storia e al diritto canonico una rinuncia invalida per separare “il grano dal loglio” e condurre a uno scisma purificatorio per la Chiesa. Il filosofo italiano Giorgio Agamben si dice convinto del fatto che la vera ragione delle sue dimissioni sia stata la volontà di risvegliare la coscienza escatologica. Le dimissioni sarebbero una prefigurazione della separazione tra «Babilonia» e «Gerusalemme» nella Chiesa. Invece di impegnarsi nella logica del mantenimento del potere, con la sua rinuncia all’incarico, Ratzinger ne avrebbe enfatizzato l’autorità spirituale, contribuendo in tal modo al suo rafforzamento. Ora bisogna solo vedere chi uscirà dalla sede.

Una tesi choc, ci rendiamo conto. Di seguito abbiamo ordinato tutti i pezzi del puzzle fin dal principio. Ogni paragrafo ha un articolo di approfondimento per verificare ogni questione. Aspettiamo che qualcuno sappia riordinarli in un modo diverso, ma i pezzi dovranno incastrarsi per bene. E’ infatti molto difficile sostenere che tutte le apparenti goffaggini, sbadataggini, incongruenze di Ratzinger, che - guarda caso - conducono tutte verso lo stesso punto, (cioè che lui sia rimasto ancora papa a tutti gli effetti) siano solo frutto del caso. E’ una questione di calcolo delle probabilità.

Noi non abbiamo posizioni preconcette, ci limitiamo a riordinare i fatti secondo logica. A voi giudicare e, in caso, a contestare utilmente.

Tuttavia, non si può continuare a far finta che la questione non esista. Se fosse verificato che Benedetto non ha rinunciato validamente, il conclave del 2013 sarebbe invalido, Francesco sarebbe un antipapa e tutta la sua linea successoria sarebbe di antipapi, così come all’antipapa Anacleto II succedette un altro antipapa, Vittore IV, finché non giunse san Bernardo di Chiaravalle a rimettere le cose a posto. Quindi la Chiesa cattolica sarebbe finita per sempre, almeno per come la conosciamo. La questione è scomoda, ci rendiamo conto, infatti tutti scappano appena se ne accenna, ma quale giornalista serio può prendersi la responsabilità di tacere davanti a tali clamorose, inspiegabili evidenze? I cattolici ancora meno, e gli ecclesiastici sono tenuti da un esplicito canone a ricercare la verità e a dichiararla.

Riteniamo che valga la pena affrontare il discorso e fare chiarezza, anche per tutelare la legittimità di Francesco e dei suoi successori. Del resto, cosa c’è da temere se tutto è in regola?

La possibile ricostruzione del “piano B” di papa Benedetto XVI. Dimissioni invalide apposta: indaghiamo la tesi dell'avvocatessa Acosta e di vari teologi. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 07 aprile 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

La questione dei “due papi” e delle dimissioni di Benedetto XVI è molto ampia, inafferrabile, stesa su otto anni e piena di episodi difficili da interpretare. In questi mesi abbiamo analizzato molti singoli fatti e documenti senza ricevere alcuna risposta ai nostri – pur leciti - interrogativi. Eppure, la tesi che è stata proposta dall’avvocatessa Estefania Acosta e da altri autorevoli giornalisti, giuristi, teologi, ecclesiastici (molti dei quali hanno pagato duramente il prezzo delle loro posizioni*), è scioccante: papa Ratzinger avrebbe VOLUTAMENTE predisposto dimissioni del tutto invalide per lasciare campo libero ai suoi avversari, far nominare un antipapa e far sì che nel tempo si scoprisse la verità circa gli obiettivi anticristici della “deep Church” e circa il fatto che lui sia ancora l’unico papa. Questo porterebbe a un annullamento definitivo della “falsa Chiesa”, con una grande purificazione dall’eresia e dalla corruzione, aprendo una nuova epoca di rinnovamento cristiano.

E’ PLAUSIBILE? Avevamo già indagato come le ipotesi su un Benedetto XVI poco preparato in latino e diritto canonico, o addirittura entusiastico fautore della svolta modernista di Francesco  fossero poco credibili. Resta dunque da vagliare l’ipotesi del cosiddetto “Reset cattolico” sopra accennato: abbiamo quindi provato a ordinare fatti, documenti e personaggi secondo questa ottica. A Voi giudicare: ben vengano spiegazioni alternative, purché capaci di trovare una diversa collocazione a ciascuno dei “pezzi del puzzle” in un quadro coerente.

1. Un papa scomodo. “Pregate perché io non fugga davanti ai lupi”, così Benedetto XVI esortò il popolo cattolico all’inizio del suo difficile pontificato, nel 2005. Il mondo, infatti, si mise subito contro di lui: la Chiesa cattolica di 16 anni fa, con la sua fede bimillenaria, la sua identità e le sue regole morali, costituiva l’ultimo ostacolo per la realizzazione di una serie di istanze mondialiste-progressiste sponsorizzate dalla sinistra internazionale e massonica. Dopo il contestatissimo discorso di Ratisbona (2006) che chiudeva la porta a ogni sincretismo religioso, e dopo il motu proprio  Summorum Pontificum (2007), con cui Ratzinger “ripristinava” la messa in latino dando una vitale boccata d’ossigeno alla Tradizione, l’opposizione interna del clero modernista - coagulata intorno alla lobby di cardinali detta “Mafia di San Gallo” - era ormai inferocita e decisa a ostacolarlo fino a condurlo alle dimissioni, come sarà ampiamente descritto dal Card. Danneels (uno dei membri della “Mafia”) nella sua autobiografia del 2015.

2. L’annus horribilis. Nel 2012, la situazione si fa insostenibile: ormai in troppi,  in Vaticano, boicottano il papa senza obbedirgli, il mite papa-teologo non può fidarsi di nessuno tanto che perfino il maggiordomo ruba documenti nei suoi cassetti, col famoso scandalo Vatileaks che metterà in luce una feroce guerra tra fazioni in seno alla Chiesa e ventilerà addirittura un progetto per eliminarlo fisicamente. Ma queste rivelazioni faranno il gioco di Ratzinger, come vedremo, esplicitando il contesto in cui dovrà optare per la sua extrema ratio. I media, del resto, sono tutti contro di lui, lo dipingono come un arcigno oscurantista, lo massacrano tirando fuori veri o presunti scandali di pedofilia (oggi magicamente spariti) e, verso la fine di dicembre,  arriva l’ultimo giro di vite: gli Usa del duo Obama-Clinton bloccano i conti del Vaticano attraverso il codice Swift. Lo sbloccheranno subito dopo le “dimissioni” di Ratzinger.

3. Arriva il momento del “Piano B”

Con una Chiesa completamente metastatizzata dal modernismo mondialista e sottoposto a pressioni internazionali, Benedetto si decide per una mossa definitiva volta a “fare pulizia non solo nel piccolo mondo della Curia, bensì nella Chiesa nel suo insieme” come spiegherà lui stesso al giornalista Peter Seewald. Un “piano B” pianificato forse da molti anni proprio in vista di un’aggressione al papato dall’interno della Chiesa, peraltro annunciata da molte profezie e dal terzo Segreto di Fatima, di cui Ratzinger fu uno dei pochi ad essere messo a parte. Il papa organizza così quello che strategicamente si potrebbe definire un “piano d’inganno”, con “falso bersaglio” e “finta ritirata” per recuperare lo slancio motivazionale del popolo autenticamente cattolico ed annichilire definitivamente le forze anticristiche in seno alla Chiesa. 

4. Il “falso bersaglio”: il ministerium. Il piano si fonda su un provvedimento attuato nel 1983, quando l’incarico papale fu diviso in contenitore e contenuto, munus e ministerium, ovvero, titolo divino ed esercizio pratico del potere. Ed è proprio quest’ultimo il vero “falso bersaglio” giuridico  da offrire ai suoi nemici: rinunciare al ministerium, e non al munus, sarebbe come far credere che un nobile, un conte, decadesse dal proprio titolo solo perché rinuncia ad amministrare i suoi possedimenti. Nient’affatto: un conte resta sempre conte anche senza terre e, viceversa, un amministratore non può diventare conte solo amministrando poderi. Munus e ministerium non sono equivalenti. Così, dopo due settimane di lavoro, nel gennaio 2013, Ratzinger mette a punto una Declaratio, una dichiarazione in latino di appena 1.700 battute, dove inverte questi fattori, secondo una  “tecnica a specchio”: invece di rinunciare al munus, l’incarico da papa, perché il ministerium (esercizio pratico) gli è divenuto faticoso, annuncia di voler fare il contrario: rinunciare al ministerium perché l’esercizio del munus gli è diventato faticoso. Un vero gioco di parole, ma, giuridicamente questo potrebbe consentirgli, al più, di nominare un vescovo vicario, ma non certo di dimettersi da papa, ruolo di cui conserva il fondamentale munus. (Sono almeno 5 le pubblicazioni su questo tema). 

5. Appuntamento al 28 febbraio, ore 29.00. Inoltre, Benedetto differisce la rinuncia al ministerium  fissandola al 28 febbraio, ecco perché fa in modo che il card. Sodano, subito dopo la sua Declaratio, chiarisca molto bene ai cardinali, quasi ossessivamente, che lui rimarrà papa fino al 28*. Ma non basta: Ratzinger specifica anche l’”ora X” a partire dalla quale non sarà più papa, le ore 29.00. E’ un refuso, ovviamente: voleva scrivere le 20.00, e infatti sarà corretto, ma i giornali citeranno l’errore con il quale lui sottolinea quanto sarà importante quello scomodo orario, in cui la gente, solitamente, sta a cena.

6. Il papa emerito è il papa. Tornerà cardinale? No: specificherà successivamente che diventerà “papa emerito” riferendosi al fatto che, dagli anni ’70, il diritto canonico consente ai vescovi in pensione di restare vescovi - a livello sacramentale - diventando “emeriti”, ovvero lasciando solamente le funzioni pratiche. Nel caso del Papa, invece, non esiste la dimensione sacramentale, ma esiste una dimensione sopra-sacramentale che riguarda un incarico che nessuno sulla terra ha potere di modificare o condividere. Quindi, chi si dimette dall'incarico papale non può restare in alcun modo papa, e un papa che si dimette solo in parte, rinunciando al solo ministerium, in realtà, rimane papa a tutti gli effetti. Benedetto lo sa, ma i suoi avversari no. Ratzinger ha quindi usato apposta questo escamotage del “papa emerito”, espressione mai citata dal Diritto canonico, per mantenersi papa e, nel frattempo, lasciare campo libero ai suoi nemici. 

7. Mantiene la veste bianca. Ecco perché, coerentemente, Benedetto mantiene la veste bianca, seppur privata di mozzetta e cingolo, simbolo delle due funzioni pratiche alle quali ha solo fattualmente rinunciato: amministrare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo. Al vaticanista Tornielli, che gli chiederà come mai non indossa la talare nera da cardinale, risponderà giustificandosi col dire che era “una soluzione eminentemente pratica, dato che non aveva altri abiti disponibili“. Questo fatto desterà in tempi recenti anche la pubblica stigmatizzazione del card. George Pell: “Un papa dimissionario non dovrebbe vestire di bianco e non dovrebbe insegnare pubblicamente". Forse non è dimissionario? 

8. L’avidità della Mafia di San Gallo. Ratzinger conosce  bene i suoi avversari, sa che sono  bramosi del potere fin dagli anni ’90 quando brigavano nelle loro riunioni segrete presso la città di San Gallo, in Svizzera. Non a caso, proprio in quegli anni, papa Wojtyla aveva emanato la costituzione apostolica Universi dominici gregis che scomunicava automaticamente qualsiasi cardinale reo di manovre preconclave. Ratzinger sa che la conoscenza del latino e del diritto canonico dei suoi nemici è inferiore alla propria e che, di fronte alla sua apparente resa, non sarebbero andati troppo per il sottile. Avrebbero preso per buono qualsiasi documento che parlasse di dimissioni. Infatti, dopo la Declaratio, la Mafia di San Gallo è alle stelle e fa annunciare subito dall’ufficio stampa vaticano che “il papa si è dimesso”. Comincia a realizzarsi quanto “profetizzato” da Ratzinger, in chiusura della Declaratio dove dichiara di rinunciare al ministerium AFFINCHE’ (“ut”) “dal 28 febbraio la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”. (“Coloro a cui compete”, non “i cardinali”: ovvero solo alcuni cardinali, quelli a lui infedeli).

9. Gli errori di latino. Tuttavia, il gioco è sottile: il rischio è che la questione giuridica, su cui si impernia tutto il piano B venga presto dimenticata. Ecco perché nella Declaratio Benedetto ha inserito delle incongruenze che terranno viva nel tempo l’attenzione sull’invalidità del documento: innanzitutto due grossolani errori di latino: “pro ecclesiae vitae” (poi corretto dal Vaticano) e uno pronunciato anche a voce proprio sulla parola chiave: “ministerio” collegato a “commissum”, mentre avrebbe dovuto esserci il dativo “commisso”. Ancora, il refuso, sull’orario: le 29.00 invece che le 20.00. Errori fatti apposta, oltre che per invalidare ulteriormente le dimissioni in quanto non scritte “rite manifestetur”, cioè “debitamente” come vuole il Codice di diritto canonico (Can. 332, § 2) soprattutto per far concentrare l’attenzione sui due principali nodi giuridici delle false dimissioni: la rinuncia al ministerium e il differimento della rinuncia. Il piano riesce: gli errori di sintassi verranno subito giudicati “intollerabili” da latinisti come Luciano Canfora e Wilfried Stroh, oltre che dal card. Ravasi, e avranno una certa eco sulla stampa, insieme al refuso sull’orario. Errori dovuti alla fretta? Impossibile: Ratzinger ci ha messo due settimane per scrivere la Declaratio che è stata anche verificata con pieno agio dalla Segreteria di Stato sotto il sigillo del segreto pontificio.  

10. Il commiato alle 17.30. Arriva dunque il 28 febbraio, Benedetto fa un teatrale volo in elicottero, (dirà a Seewald che faceva parte della “sceneggiatura”) in modo che tutti lo vedano abbandonare il Vaticano e, alle 17.30, si affaccia dal balcone di Castel Gandolfo per salutare il mondo. Aveva scelto non casualmente le ore 20.00, orario in cui tutti stanno a cena, cosa che gli dà la motivazione per anticipare alle 17.30 il commiato. Da Castel Gandolfo, infatti, specifica: “sarò pontefice ancora fino alle 20.00, poi non più”. Poi si ritira, arrivano le 20.00 , ma lui non firma nessun documento, né dichiara altro in pubblico. Si giustifica dicendo che ormai già non è più papa dalle 17.30, a partire dal suo commiato pubblico. Sbagliato: essendo ancora il papa dalle 17.30 alle 20.00, avrebbe potuto benissimo cambiare idea, ergo, la sua rinuncia al ministerium, già inutile ai fini delle dimissioni da papa, avrebbe dovuto essere per forza ratificata o da una firma, o da un’altra dichiarazione pubblica. Ma questo non succede. 

11. Un concentrato di invalidità giuridica. In sintesi, la sua Declaratio di rinuncia non vale assolutamente nulla come dimissioni, perché non si può rinunciare al titolo di papa, di origine divina, rinunciando all’amministrazione e, per giunta, tale rinuncia, scritta non debitamente, non viene nemmeno ratificata. Un gigantesco scherzo. Infatti, Benedetto ammetterà con Seewald che la scelta dell’11 febbraio per la Declaratio collegava, con un “nesso interiore”, la ricorrenza della Madonna di Lourdes, la festa di S. Bernadette, il suo compleanno e… il primo lunedì di Carnevale. 

12. La Mafia di San Gallo elegge l’antipapa. Solo in pochi si avvedono delle incongruenze e la Mafia di San Gallo va avanti come un treno. Finalmente, il 13 marzo, a spintoni, con una sesta votazione irregolare, riesce a far eleggere il proprio campione, il gesuita card. Bergoglio, già molto inviso in Argentina per i suoi metodi e le sue stravaganze dottrinali. Così, viene annunciato al mondo il nuovo papa. Francesco esce, senza mozzetta rossa, accompagnato proprio dal card. Danneels: il suo stile è molto alla mano e in men che non si dica, complici i media sponsorizzati dai noti poteri, cattura subito il favore entusiastico dalle folle. 

13. Inizia l’aggressione al Cattolicesimo. Comincia subito il graduale smantellamento della dottrina cattolica per adattarla a contenitore di una nuova religione universale eco-massonico-modernista per il Nuovo Ordine Mondiale, apertamente auspicato da Bergoglio in una intervista La Stampa del 15 marzo 2021. “Sprecheremmo la crisi chiudendoci in noi stessi. Invece, edificando un nuovo ordine mondiale basato sulla solidarietà…”. Del resto, nulla di cui stupirsi: se Ratzinger non si è mai dimesso, Bergoglio è un antipapa.

14. Benedetto prosegue a fare il papa. Mentre una parte dei cattolici normali (sprezzantemente definiti dal mainstream come “tradizionalisti”) comincia a reagire contro Bergoglio (e qualcuno anche a maledire Ratzinger), papa Benedetto XVI continua a comportarsi come un papa a tutti gli effetti, sebbene privo di alcune funzioni pratiche del suo potere. Oltre a mantenere la veste bianca,  continua a vivere in Vaticano, a usare il plurale maiestatico, a firmarsi Pontifex Pontificum, a impartire la benedizione apostolica etc...Infatti, sebbene Ratzinger abbia di fatto rinunciato ad amministrare la barca di Pietro, ogni tanto si fa vivo, firma qualche libro, scrive, prega, rilascia interviste, corregge Bergoglio sul celibato dei preti, (anche se, subito dopo, gli espianteranno la vigna prediletta). 

15. L’ambiguità “scientifica”. In tutte le interviste, Ratzinger mantiene un basso profilo e soprattutto un’assoluta, scientifica ambivalenza delle sue parole. Non dice mai che si è dimesso da papa, né dice che il papa è Francesco, ma per otto anni, graniticamente, ripete che il papa è uno solo. 

16. Le forzature della stampa mainstream. Il pensiero unico vuole a tutti i costi sostenere che questo unico papa esistente di cui parla Benedetto sia Francesco, così i giornali allineati si affannano a costruire una narrativa sui suoi virgolettati, cercando di manipolarli. Addirittura, Vatican News il 27 giugno 2019 si spinge a titolare: ”Benedetto XVI: il papa è uno, Francesco”, riportando invece solo un pensiero personale di Massimo Franco del Corriere della Sera.  

17. La Mafia di San Gallo si svela. Mentre Bergoglio dilaga con la sua nuova chiesa massonicheggiante e ultramodernista-mondialista (svelandosi sempre di più), nel 2015 l’”anti-Chiesa”, come la definirà Mons. Viganò, fa un grosso passo falso: il cardinale Godfried Danneels, primate del Belgio e colonna portante della Mafia di San Gallo, (tanto da affacciarsi con Bergoglio il giorno dell’elezione), confessa candidamente in una sua autobiografia come la lobby modernista mirasse a far dimettere Benedetto e a proporre, in sostituzione, il card. Bergoglio. Le dichiarazioni confermano quanto già affermato dal giornalista Austen Ivereigh, creano enorme imbarazzo, ma non vengono smentite. Il libro di Danneels va a ruba, (l’ultima copia usata verrà venduta su Amazon a 206 euro) ma non viene ristampato, né tradotto in italiano. Il cardinale belga sparisce di scena e morirà quattro anni dopo.  

18. La difesa di Mons. Sciacca. Nell’agosto 2016, Mons. Giuseppe Sciacca, il primo canonista del Vaticano, intervistato da Andrea Tornielli, sostiene che le dimissioni di Ratzinger sono valide perché munus e ministerium, per il papa, sono indivisibili. Un autogol che dimostra appunto come Ratzinger non si può essere dimesso rinunciando solo al ministerium. Infatti, la storia dei papi nel primo millennio dimostra che essi possono talvolta rinunciare a esercitare il potere restando papi, soprattutto a causa di un antipapa.

19. La risposta di Benedetto al Corriere. Tre settimane dopo, in velata risposta, Ratzinger pubblica sul Corriere una lettera, sunto di un recente libro intervista con Peter Seewald,  “Ultime conversazioni”, in cui esordisce dicendo che egli stesso è un ottimo latinista e che ha scritto di proprio pugno la Declaratio in latino per non fare errori (!). Assurdo, dato che gli errori erano stati corretti pubblicamente da famosi latinisti subito dopo la Declaratio. E’ uno dei tanti segnali di apparente incoerenza che Benedetto manda all’esterno apposta per richiamare l’attenzione sui nodi giuridici delle “dimissioni”. Ma tutta l’intervista al Corriere può essere interpretata a rovescio. 20. Primi risultati del "Piano B". Tuttavia, solo due anni dopo, nel 2018, i sottili input di Benedetto XVI riscuotono un primo risultato: il francescano italoamericano Fra’ Alexis Bugnolo, insigne latinista ed esperto di diritto canonico, comprende che gli errori di latino nella Declaratio, erano stati inseriti apposta per attirare l’attenzione su un documento canonicamente  invalido. Libero offre in esclusiva questa interpretazione che fa il giro del mondo, ma, in risposta, dal Vaticano arrivano solo silenzio e gli insulti del quotidiano Avvenire. 

21. Bergoglio tira troppo la corda. I tempi maturano, Francesco nel frattempo si espone sempre di più: intronizza la Pachamama in San Pietro, inaugura le nuove litanie lauretane con Maria “sollievo dei migranti”, si dichiara a favore delle unioni civili, cambia il Padre Nostro, inserisce la rugiada massonica nel messale, allestisce in  P.za S. Pietro uno strano presepe esoterico, insomma, tira troppo la corda, tanto che il noto vaticanista Aldo Maria Valli pubblica un articolo choc intitolato “Roma è senza papa” . 

22. Si corre ai ripari col Corriere. Panico a Santa Marta: accorre Massimo Franco del Corriere per intervistare Ratzinger e tamponare la falla. Benedetto XVI offre una serie di ulteriori risposte perfettamente double face: dice che i suoi amici un po’ fanatici non hanno accettato la sua scelta, da lui compiuta liberamente, lui è in pace con se stesso e il papa è uno solo”. Franco  interpreta le sue dichiarazioni nel senso: “Mi sono dimesso volentieri da papa; i miei fan sbagliano a considerarmi il pontefice; il papa è uno solo ed è Francesco”.

23. Il chiaro sottotesto di Benedetto. In realtà, il vero significato delle parole di Ratzinger è: “I miei amici non hanno capito che sto gabbando i modernisti e l’ho fatto in piena consapevolezza, per questo sono in pace con la mia coscienza. Il papa è uno e sono io”. Questa storia del papa che è solo uno, ma non si sa mai quale, ormai sta diventando troppo ripetitiva e ci spinge a controllare le passate interviste. Emerge l’ambiguità  meticolosissima e “scientifica” che dura da anni.   

24. La nomina dell’”ambasciatore”. Così, per reagire ai consueti fraintendimenti del Corriere, e incoraggiare coloro che  seguono la pista giusta, papa Benedetto, pochi giorni dopo, riceve il presidente di un’associazione benefica e lo nomina “ambasciatore”, (anche se spiritualmente). Sebbene a livello simbolico, è comunque  un atto da papa regnante. Un altro chiaro segnale ai “suoi”. 

25. Si capisce il sistema "a specchio". Dalle interviste al Corriere, passiamo a leggere anche i libri-intervista di Peter Seewald e scopriamo che sono tutti venati da un sottotesto opposto e coerente. Ogni frase è costruita con scientifica abilità per rivelare - spesso con gustosa ironia - la realtà delle dimissioni invalide a chi la vuol capire. 

26. Si scopre il chiarissimo riferimento storico a Benedetto VIII. Un dettaglio fondamentale emerge quando in Ultime conversazioni” del 2016, Benedetto XVI, dietro un velato, ma precisissimo riferimento storico, dichiara di essersi dimesso come il papa Benedetto VIII, Teofilatto dei conti di Tuscolo che, nel 1012 fu costretto a rinunciare al ministerium a causa dell’antipapa Gregorio VI: un segnale inequivocabile. A poco a poco, emergono altri dettagli dai suoi libri-intervista e su Libero evidenziamo anche dove avrebbe potuto ispirarsi Ratzinger per la sua strategia “a specchio”. 

27. La dinamica prevista. Benedetto sa che il suo gioco è estremamente sottile, ma ha lasciato dei campanelli d’allarme molto evidenti. Sapeva che i pezzi del puzzle si sarebbero ricomposti piano piano e che la falsa chiesa si sarebbe svelata, rovinandosi da sola, annegando in scandali, contraddizioni dottrinali e feroci conflitti interni. Ratzinger sapeva in anticipo che l’antipapa modernista, con le sue stravaganze eco-massonico-mondialiste avrebbe riempito di sgomento il popolo cattolico.  Sapeva che non sarebbe stato assistito dallo Spirito Santo, né dalla logica del Logos. 

28. Ciò che Benedetto attende. Benedetto aspetta, ancora, tranquillo, nella preghiera e nella contemplazione, comunicando con l’esterno attraverso le sue parole  precisissime e chirurgiche: attende che i cardinali e i vescovi aprano gli occhi. Lui non parla apertamente: anche se riuscisse a dire la verità pubblicamente, oggi, verrebbe presto zittito con la scusa di un vaneggiamento senile. No: è il popolo cattolico che, in questa Apocalisse, intesa come Rivelazione, si deve convertire, deve CAPIRE  e AGIRE. E’ il clero che deve scrollarsi di dosso l’inerzia, riscoprendo il coraggio, la fortezza, l’eroismo della fede. 

29. La soluzione di tutto: un SINODO chiarificatore. La soluzione, alla fine, è semplice: basta che i vescovi indicano un sinodo, come quelli già indetti nella storia  (Sutri, Melfi V) per stabilire con certezza tra due o più papi quale fosse quello vero. Ratzinger sa che durante tale incontro verrà facilmente fuori la realtà: l’antipapa e tutte le sue azioni, nomine, cambiamenti dottrinali e liturgici svaniranno nel nulla. Sarà come se non fossero mai esistiti. La morte non lo preoccupa: le sue dimissioni resteranno invalide per sempre creando una cesura storica nella successione papale. Bergoglio, nel frattempo, da parte sua, ha già segnato il futuro della neo-Chiesa nominando una valanga di “suoi” 80 cardinali che, in maggioranza, blinderanno il prossimo conclave. Dopo l’antipapa Francesco, non ci sarebbe certo un altro papa, come si illudono alcuni tradizionalisti. Piuttosto, un conclave invalido, composto da cardinali invalidi, eleggerebbe un altro antipapa modernista – o fintamente ortodosso - e la Chiesa cattolica, per come la conosciamo, sarebbe finita per sempre. Il sinodo, invece, sarà il grande Contro-reset cattolico, il bottone rosso che consentirà di purificare la Chiesa - nelle intenzioni di Ratzinger -  dalla corruzione e dall’eresia una volta per tutte, riconciliando l’Europa e l’Occidente con le proprie radici cristiane. E’ il passaggio tra due epoche, e come dirà lui stesso a Seewald: “Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo, in realtà, non è ancora incominciato”. 

30. I “piccoli” saranno i protagonisti. Benedetto XVI, il solo Vicario di Cristo (Bergoglio ha rinunciato al titolo) sa che la salvezza, molto prima che dai prelati e dai grandi media, verrà dai piccoli, dai puri di cuore, di mente e di corpo: piccoli frati e preti coraggiosi che si fanno scomunicare per rimanergli fedeli, piccoli giornalisti, piccoli youtuber e blogger, piccoli traduttori, grafici e tipografi, semplici lettori che condividono gli articoli sui social, ognuno nella propria infinitesimale piccolezza porta il proprio contributo: tutta gente senza mezzi e senza appoggi, che si sacrifica e ci rimette di persona per diffondere la verità come un fuoco. Un’ultima “Crociata dei poveri” per salvare la Chiesa stessa, questa volta, non più il Santo Sepolcro. No. Benedetto XVI non è fuggito davanti ai lupi. Nemmeno di fronte a quelli travestiti da agnelli.

Antwort auf die Tagespost. Liebe Kolleginnen und Kollegen von der Tagespost, Am 28. Mai haben Sie auf Ihren Seiten einen Artikel aufgegriffen, der im Blog des Unterzeichners in der italienischen Zeitung Libero veröffentlicht wurde. Ihr Titel HIER sprach von "seltsamen Spekulationen" in Rom, und der Text neigte dazu, die Angelegenheit fast als Verschwörungstheorie zu behandeln (eine defensive Kategorie, die jetzt für fast alles verwendet wird). Wenn Sie die Güte haben, es zu lesen, werden wir Ihnen zeigen, dass das, was sehr seltsam ist, eher einige objektive Fakten sind. Was unsere Rekonstruktion, genannt "Plan B", betrifft, so versucht sie, eine mögliche logische Erklärung anzubieten, indem sie Fakten und Dokumente neu anordnet. Sie wurde von den maßgeblichen italienischen Vatikanisten aufgegriffen und von internationalen Websites und Blogs in vier Sprachen übersetzt (heute auch auf Deutsch, für Sie). Wir würden uns freuen, wenn jemand in der Lage wäre, sie nach Überprüfung aller eingehenden Studien in einer kohärenten und vollständigen Weise in Frage zu stellen.

Die Declaratio des Rücktritts verbirgt eine Reihe von juristischen Problemen, die die Canones 124, 332 § 2, 188, 17 des Codex des kanonischen Rechts betreffen.

Von der Umkehrung zwischen munus und ministerium, über die Verschiebung des Datums und der Uhrzeit des Verzichts, bis hin zum allgemeinen Zweifel: Nach Ansicht verschiedener Kanonisten ist der Verzicht ein völlig nichtiger Akt. Die bloße Tatsache, dass eine solche Querelle gedeihen könnte, würde das Gesetz zweifelhaft und als solches wiederum nichtig machen.

 Ganz zu schweigen von der Institution des so genannten "Papst Emeritus", die von Gelehrten von internationalem Ruf (Boni, Fantappié, Margiotta-Broglio, de Mattei...) radikal angefochten wird - einstimmig.

Benedikt XVI. wiederholt seit acht Jahren, dass "es einen Papst gibt", ohne jemals zu erklären, welchen. Ich habe gezeigt, dass Vatican News das Anführungszeichen "der Papst ist einer und es ist Franziskus" Benedikt XVI. zugeschrieben hat, während die Worte die des Journalisten Massimo Franco vom Corriere della Sera waren.

Benedikt XVI. behält das weiße Gewand bei und rechtfertigt sich in Seewalds Buch “Leszte Gespraeche” damit, dass es "eine praktische Lösung war, weil er keine anderen Kleider hatte". Er behält andere päpstliche Vorrechte wie das P.P. nach dem Pontifikalnamen (Pater Patrum) und die Möglichkeit, den apostolischen Segen zu erteilen. In seinen Bücher-Interviews verwendet er den majestätischen Plural. Er lebt im Vatikan und spricht über ernste Lehrfragen.

Ich habe darauf hingewiesen, dass in seinen Äußerungen der letzten acht Jahre eine wissenschaftliche und studierte Zweideutigkeit herrscht: Jeder Satz von ihm kann auf zwei verschiedene und spekulative Arten interpretiert werden.  Wie wenn er sagt: "Meine Fans bedauern meine Entscheidung, aber ich bin gelassen und mit mir im Reinen".

Ein Satz, der auf zwei verschiedene Arten interpretiert werden kann, sogar gemäß der Hypothese, über die ich weiter unten schreiben werde.

In der Declaratio des Rücktritts finden sich zwei schwere lateinische Fehler und etwa 20 weitere Unvollkommenheiten, die sofort von angesehenen Latinisten wie Luciano Canfora und Wilfried Stroh in der Presse angeprangert wurden.

Im Jahr 2016 erklärte Papst Ratzinger gegenüber dem Corriere della Sera, was er bereits in Peter Seewalds Ultime conversazioni geschrieben hatte, nämlich dass er selbst die Declaratio in zwei Wochen auf Latein geschrieben habe, weil er "mit dem Lateinischen sehr vertraut ist und keine Fehler beim Schreiben auf Italienisch machen wollte." Das Dokument durchlief das Staatssekretariat unter päpstlicher Geheimhaltung - Ratzinger schreibt -, das auch "den Stil perfektionierte".

Die letzte Entdeckung ist die, die in Ihrer Zeitung erwähnt wird, wiederum in "Last Conversations":

Frage: " Gab es dennoch ein heftiges inneres Ringen um diese Entscheidung? (zurückzutreten)?".

Die Antwort von Papst Ratzinger: "(Tiefes Luftholen.) Das ist natürlich nicht ganz leicht. Nachdem tausend Jahre kein Papst zurückgetreten ist und es auch im ersten Jahrtausend eine Ausnahme war, ist es eine Entscheidung, die man nicht leicht fällt und die man immer wieder herumwälzen muss. Andererseits war für mich die Evidenz dann doch so groß, dass kein ganz schweres inneres Ringen da war”. 

Nun, im ersten Jahrtausend haben sechs Päpste abgedankt, und vier im zweiten Jahrtausend. Wie ist das möglich? Benedikt XVI. kann sich also mit dem Wort "Rücktritt" nur auf jene wenigen Päpste beziehen, die im ersten Jahrtausend nicht auf das munus petrinum, sondern nur auf das ministerium, die praktische Machtausübung, verzichten mussten, weil sie von den Gegenpäpsten vertrieben wurden. Im vorliegenden Fall könnte es sich um Benedikt VIII. handeln, der vom Gegenpapst Gregor VI. vertrieben wurde und deshalb vorübergehend auf das Ministeramt verzichten musste, bevor er wieder als legitimer Papst auf den Thron gesetzt wurde. Tatsächlich verzichtet Papst Ratzinger in der Declaratio nur auf das ministerium, nicht aber auf das munus, wie es nach can. 332.2 erforderlich wäre. Er würde uns also sagen, dass er immer noch der Papst ist, wenn auch ohne die praktische Ausübung der Macht. Es haben sich keine alternativen Erklärungen ergeben.

Dies sind nur ein paar Fakten, und Sie hätten Recht, wenn Sie sie als seltsam bezeichnen würden. Wie kann man sie erklären?

Es gibt nur zwei Hypothesen:

1) Papst Ratzinger kann nicht gut Latein, erinnert sich an nichts aus der Kirchengeschichte und ist fast ein absoluter Ignorant des Kirchenrechts, obwohl ihm sicher bewusst war, dass Johannes Paul II. 1983 die Dichotomie zwischen munus und ministerium in das Kirchenrecht einführte. Aus reiner persönlicher Eitelkeit besteht Benedikt darauf, das weiße Gewand zu tragen und sich als Papst auszugeben, ohne selbst Papst zu sein, und bleibt völlig gleichgültig gegenüber der Angst und den Zweifeln, die so viele der Gläubigen darüber ergreifen, wer der Papst ist. Man muss auch zugeben, dass Papst Ratzinger auch ein wenig gehässig ist und es "genießt", einen Schatten des Zweifels zu hinterlassen, wer der Papst ist, indem er seinen Nachfolger behindert.

2) Wie bereits die Juristin Estefania Acosta in ihrer Abhandlung "Benedikt XVI.: Papst Emeritus? " und von Fr. Alexis Bugnolo wird das seltsame und unlogische Verhalten von Benedikt XVI. in den folgenden acht Jahren absichtlich von ihm festgehalten, um uns zu verstehen zu geben, dass der Papst ein und derselbe ist, da er selbst freiwillig dafür gesorgt hat, dass seine Verzichtserklärung rechtlich ungültig ist. Das heißt, der modernistischen Kirche zu erlauben, sich zu offenbaren, sich bekannt zu machen, aber dann um ein Haar annulliert zu werden, sobald die Ungültigkeit seines Verzichts entdeckt wurde.  Es ist bekannt, dass er bereits 2012 entmachtet wurde (so sehr, dass der Präsident des IOR, Gotti Tedeschi, ohne das Wissen des Papstes rausgeschmissen wurde). Danneels, dass seine Feinde die Kardinäle der St. Galler Mafia waren, von denen Card. Bergoglio war der Meister. Nach der Theorie des sogenannten "Plan B" hat Benedikt XVI. der Geschichte und dem Kirchenrecht einen ungültigen Verzicht übergeben, um "die Spreu vom Weizen" zu trennen und ein reinigendes Schisma für die Kirche herbeizuführen. Der italienische Philosoph Giorgio Agamben ist überzeugt, dass der wahre Grund für seinen Rücktritt der Wunsch war, das eschatologische Bewusstsein zu wecken . “Der Austritt wäre ein Vorzeichen für die Trennung von "Babylon" und "Jerusalem" in der Kirche. Statt sich auf die Logik des Machterhalts einzulassen, hätte Ratzingers Rücktritt die geistliche Autorität der Kirche betont und damit zu ihrer Stärkung beigetragen”. Jetzt bleibt nur noch abzuwarten, wer den See verlassen wird.

Eine schockierende These, wie wir feststellen. Nachfolgend haben wir alle Teile des Puzzles von Anfang an geordnet. Zu jedem Absatz gibt es einen Folgeartikel, der den jeweiligen Sachverhalt verifiziert. Wir warten darauf, dass jemand in der Lage ist, sie anders anzuordnen, aber die Teile müssen gut zusammenpassen. In der Tat ist es sehr schwierig zu argumentieren, dass all die offensichtlichen Ungeschicklichkeiten, Nachlässigkeiten und Ungereimtheiten Ratzingers, die - wie es der Zufall will - alle auf denselben Punkt hinauslaufen (dass er im Grunde immer noch Papst war...), lediglich das Ergebnis eines Zufalls sind. Es ist eine Frage der Berechnung von Wahrscheinlichkeiten.

Wir haben keine vorgefassten Meinungen, wir beschränken uns darauf, die Fakten nach der Logik neu zu ordnen. Für Sie zu beurteilen und, wenn ja, sinnvoll zu hinterfragen.

Man kann jedoch nicht weiterhin so tun, als gäbe es das Problem nicht. Wenn sich herausstellen sollte, dass Benedikt nicht gültig verzichtet hat, wäre das Konklave von 2013 ungültig, Franziskus wäre ein Anti-Papst und seine gesamte Nachfolge würde aus Anti-Päpsten bestehen, so wie der Anti-Papst Anacletus II. nach acht Jahren von einem anderen Anti-Papst, Victor IV., abgelöst wurde, bis der Heilige Bernhard von Clairvaux kam, um die Dinge richtig zu stellen.

Das Thema ist unbequem, das ist uns klar, in der Tat rennt jeder weg, sobald es erwähnt wird, aber welcher seriöse Journalist kann die Verantwortung auf sich nehmen, angesichts solch sensationeller, unerklärlicher Beweise zu schweigen? Katholiken noch weniger, und die Geistlichen sind durch einen ausdrücklichen Kanon verpflichtet, die Wahrheit zu suchen und sie zu verkünden.

Wir glauben, es lohnt sich, diese Frage anzusprechen und zu klären, auch um die Glaubwürdigkeit von Franziskus und seinen Nachfolgern zu schützen. Denn was gibt es zu befürchten, wenn alles in Ordnung ist? 

Die mögliche Rekonstruktion des "Plan B" von Papst Benedikt XVI.

Ungültiger Rücktritt mit Absicht. Ist das Argument von Estefania Acosta plausibel? 

1.            Ein unbequemer Papst

"Betet, dass ich nicht vor den Wölfen fliehe", so ermahnte Benedikt XVI. das katholische Volk zu Beginn seines schwierigen Pontifikats im Jahr 2005. Tatsächlich wandte sich die Welt sofort gegen ihn: Die katholische Kirche von vor 16 Jahren, mit ihrem bimillennialen Glauben, ihrer Identität und ihren moralischen Regeln, stellte das letzte Hindernis für die Verwirklichung einer Reihe von globalistisch-progressiven Forderungen dar.

Nach der heftig umstrittenen Regensburger Rede (2006), die die Tür zu jeglichem religiösen Synkretismus schloss, und nach dem Motu proprio Summorum Pontificum (2007), mit dem Ratzinger die lateinische Messe "wiederherstellte" und der Tradition einen lebenswichtigen frischen Wind verlieh, war die interne Opposition des modernistischen Klerus - geronnen um die Lobby der Kardinäle, die als "Mafia von St. Gallen" bekannt ist - nun wütend und entschlossen, ihn zu behindern, bis er zurücktrat, wie Card ausführlich beschreiben wird. Danneels (eines der Mitglieder der "Mafia") in seiner Autobiografie von 2015. 

2.            Das Annus Horribilis

Im Jahr 2012 wird die Situation unhaltbar: Inzwischen boykottieren zu viele Leute im Vatikan den Papst, ohne ihm zu gehorchen, der milde Papst-Theologe kann niemandem so sehr vertrauen, dass sogar der Butler Dokumente in seinen Schubladen stiehlt, mit dem berühmten Vatileaks-Skandal, der die übermäßige Macht des Staatssekretärs aufzeigt, einem heftigen Krieg zwischen den Fraktionen innerhalb der Kirche und sogar einem Plan, ihn physisch zu beseitigen, wird ventiliert. Der Präsident des IOR, Gotti Tedeschi, wird ohne Razingers Wissen abgesetzt, wie aus der Presse zu erfahren war. Aber diese Enthüllungen werden Ratzinger in die Hände spielen, wie wir sehen werden, indem sie den Kontext deutlich machen, in dem er sich für seine extreme Ratio entscheiden muss.

Die Medien sind schließlich alle gegen ihn, stellen ihn als mürrischen Obskurantisten dar und massakrieren ihn, indem sie echte oder angebliche Pädophilie-Skandale aufdecken (die jetzt auf magische Weise verschwunden sind). 

3.            Die Zeit für "Plan B" ist gekommen

Angesichts einer vom globalistischen Modernismus völlig metastasierten Kirche, die unter internationalem Druck steht, entschied sich Benedikt zu einem endgültigen Schritt, der darauf abzielte, "nicht nur in der kleinen Welt der Kurie aufzuräumen, sondern in der Kirche als Ganzes", wie er selbst dem Journalisten Peter Seewald erklärte. 

Ein seit vielen Jahren geplanter "Plan B" gerade im Hinblick auf einen Angriff auf das Papsttum aus dem Inneren der Kirche, angekündigt durch viele Prophezeiungen und durch das dritte Geheimnis von Fatima, über das Ratzinger als einer der wenigen informiert war.

Der Papst organisiert also das, was man strategisch als "Plan der Täuschung" bezeichnen könnte, mit einem "falschen Ziel" und einem "falschen Rückzug", um den Motivationsimpuls des authentisch katholischen Volkes zurückzugewinnen und die feindlichen Kräfte innerhalb der Kirche endgültig auszulöschen.  

4.            Das "falsche Ziel": das Ministerium

Der Plan basiert auf einer Maßnahme aus dem Jahr 1983, als das päpstliche Amt von Johannes Paul II. und Card geteilt wurde. Ratzinger in Behälter und Inhalt, munus und ministerium, also göttlicher Titel und praktische Machtausübung.

Und gerade letzteres ist die wahre juristische "falsche Zielscheibe", die man seinen Feinden anbietet: auf das ministerium zu verzichten und nicht auf den munus, wäre so, als würde man glauben machen, dass ein Adliger, ein Graf, seinen Titel nur deshalb verwirkt, weil er auf die Verwaltung seiner Güter verzichtet. Keineswegs: Ein Graf bleibt immer ein Graf, auch ohne Ländereien, und umgekehrt kann ein Verwalter nicht nur durch die Verwaltung von Ländereien ein Graf werden. Munus und Ministerium sind nicht gleichwertig, auch wenn der Vatikan es in Fremdsprachen mit einem Wort übersetzt. Also verfasste Ratzinger nach zwei Wochen Arbeit im Januar 2013 eine Declaratio, eine nur 1.700 Zeichen umfassende Erklärung in Latein, in der er diese Faktoren nach einer "Spiegeltechnik" umkehrte: Statt auf das munus, das Papstamt, zu verzichten, weil ihm das ministerium (die praktische Ausübung) ermüdend geworden war, verkündete er, dass er das Gegenteil tun wolle: auf das ministerium verzichten, weil ihm die Ausübung des munus ermüdend geworden war. Ein echtes Wortspiel, aber rechtlich könnte ihm das höchstens erlauben, einen Bischofsvikar zu ernennen, aber sicher nicht, als Papst zurückzutreten, eine Rolle, von der er den fundamentalen munus behält. (Es gibt mindestens 5 Veröffentlichungen zu diesem Thema). 

6.            Der emeritierte Papst ist der Papst

Wird er wieder Kardinal werden? Nein: er wird später präzisieren, dass er "Papst emeritus" werden wird, was sich auf die Tatsache bezieht, dass das Kirchenrecht seit den 1970er Jahren den pensionierten Bischöfen erlaubt, Bischöfe zu bleiben - auf sakramentaler Ebene - indem sie "emeriti" werden, das heißt, indem sie nur ihre praktischen Funktionen verlassen. Im Fall des Papstes gibt es jedoch keine sakramentale Dimension, sondern eine supra-sakramentale Dimension, die ein Amt betrifft, das niemand auf Erden verändern oder teilen kann. So kann einer, der vom päpstlichen Amt zurücktritt, in keiner Weise Papst bleiben, und ein Papst, der nur teilweise zurücktritt, bleibt tatsächlich Papst für alle Belange. Benedikt weiß das, aber seine Gegner nicht. Ratzinger hat also absichtlich diesen Trick des "Papst Emeritus", ein Ausdruck, der im Kirchenrecht nie erwähnt wird, benutzt, um sich selbst als Papst zu behalten und in der Zwischenzeit seinen Gegnern das Feld zu überlassen.  

7.            Er behält das weiße Gewand

Deshalb behält Benedikt konsequenterweise das weiße Gewand bei, wenn auch beraubt von Mozzetta und Zingulum, dem Symbol der beiden praktischen Funktionen, auf die er nur faktisch verzichtet hat: die Verwaltung des Petrusbootes und die Verkündigung des Evangeliums. Dem Vatikan-Journalisten Tornielli, der ihn fragte, warum er als Kardinal nicht die schwarze Soutane trage, antwortete er rechtfertigend, dass dies "eine eminent praktische Lösung sei, da er keine andere Kleidung zur Verfügung habe". Diese Tatsache wird auch in jüngster Zeit die öffentliche Stigmatisierung von Card hervorrufen. George Pell: "Ein Papst, der zurückgetreten ist, sollte kein Weiß tragen und nicht öffentlich lehren. Vielleicht ist er nicht resigniert?  

8.            Die Gier der St. Galler Mafia

Ratzinger kennt seine Gegner gut, er weiß, dass sie machtgierig sind, seit sie in den 90er Jahren in der Stadt St. Gallen in der Schweiz ihre geheimen Treffen abhielten. Es ist kein Zufall, dass Papst Wojtyla genau in diesen Jahren die apostolische Konstitution Universi dominici gregis erließ, die automatisch jeden Kardinal exkommunizierte, der sich eines Manövers vor dem Konklave schuldig machte. Ratzinger weiß, dass die Latein- und Kirchenrechtskenntnisse seiner Gegner den seinen unterlegen sind und dass sie angesichts seiner offensichtlichen Kapitulation nicht zu weit gegangen wären. Sie hätten jedes Dokument, in dem von Rücktritt die Rede war, für bare Münze genommen.

Tatsächlich hat die St. Galler Mafia nach der Declaratio einen Lauf und lässt die vatikanische Pressestelle sofort verkünden, "der Papst ist zurückgetreten". Ratzinger begann zu realisieren, was er am Ende der Declaratio "prophezeit" hatte, wo er erklärte, dass er auf das Amt verzichte, WEIL ("ut") "ab dem 28. Februar der Stuhl des heiligen Petrus vakant sein wird und ein Konklave zur Wahl des neuen Papstes von denen einberufen werden muss, in deren Zuständigkeit es liegt.   

9.            Lateinische Fehler

Das Spiel ist jedoch raffiniert: Es besteht die Gefahr, dass die juristische Frage, an der der ganze Plan B hängt, bald vergessen wird. Deshalb hat Benedikt in der Declaratio einige Ungereimtheiten eingebaut, die mit der Zeit die Aufmerksamkeit auf die Ungültigkeit des Dokuments lenken werden: erstens zwei grobe Fehler im Lateinischen: "pro ecclesiae vitae" (dann vom Vatikan korrigiert) und ein sogar verbal ausgesprochenes Schlüsselwort: "ministerio" in Verbindung mit "commissum", während es der Dativ "commisso" hätte sein müssen. Nochmals der Tippfehler bei der Uhrzeit: 29.00 Uhr statt 20.00 Uhr. Absichtlich gemachte Fehler sowie die weitere Ungültigkeit des Rücktritts als nicht "rite manifestetur", also "ordnungsgemäß", wie es der Codex des kanonischen Rechts will (Can. 332, § 2), lenken die Aufmerksamkeit vor allem auf die beiden wichtigsten Rechtsfragen des falschen Rücktritts: den Verzicht auf das Amt und den Aufschub des Verzichts.  Der Plan gelingt: Die Fehler in der Syntax werden von Latinisten wie Luciano Canfora und Wilfried Stroh, aber auch von Card sofort als "untragbar" beurteilt. Ravasi, und wird ein gewisses Echo in der Presse haben, zusammen mit dem Tippfehler bei der Uhrzeit. Fehler durch Eile? Unmöglich: Ratzinger brauchte zwei Wochen, um die Declaratio zu verfassen, die zudem vom Staatssekretariat unter dem Siegel der päpstlichen Verschwiegenheit mit großer Leichtigkeit verifiziert wurde. 

10.         Die Verabschiedung um 17.30 Uhr

So kam der 28. Februar, Benedikt machte einen theatralischen Flug in einem Hubschrauber (er sollte Seewald sagen, dass dies Teil des "Drehbuchs" war), damit jeder sehen konnte, wie er den Vatikan verließ, und um 17.30 Uhr erschien er vom Balkon des Castel Gandolfo, um sich von der Welt zu verabschieden. Es war kein Zufall, dass er 20 Uhr gewählt hatte, die Zeit, in der alle zu Abend aßen, was ihm die Motivation gab, seinen Abschied um 17:30 Uhr vorwegzunehmen. Von Castel Gandolfo aus legt er nämlich fest: "Bis 20.00 Uhr bin ich noch Pontifex, dann nicht mehr".Dann zog er sich zurück, es war 20:00 Uhr, aber er unterschrieb kein Dokument und gab auch sonst keine öffentliche Erklärung ab. Er rechtfertigt sich damit, dass er seit 17.30 Uhr nicht mehr Papst ist, und beginnt mit seiner öffentlichen Verabschiedung. Falsch: da er von 17:30 Uhr bis 20:00 Uhr immer noch Papst ist, könnte er es sich sehr wohl anders überlegt haben, ergo hätte sein Verzicht auf das Ministeramt, der ohnehin für den Zweck des Rücktritts als Papst nutzlos ist, notwendigerweise entweder durch eine Unterschrift oder durch eine andere öffentliche Erklärung ratifiziert werden müssen. Aber das passiert nicht.  

11.         Ein Konzentrat der Rechtsunwirksamkeit

Zusammenfassend ist seine Verzichtserklärung als Rücktritt absolut nichts wert, denn man kann nicht auf den Titel göttlichen Ursprungs verzichten, indem man auf die Verwaltung verzichtet, und außerdem wird ein solcher Verzicht, nicht ordnungsgemäß geschrieben, nicht einmal ratifiziert. Einigen Kanonisten zufolge muss die Entsagung ebenso gleichzeitig erfolgen wie die Erwählung. Ein gigantischer Scherz. In der Tat wird Benedikt mit Seewald zugeben, dass die Wahl des 11. Februar für die Declaratio in einem "inneren Zusammenhang" mit dem Fest Unserer Lieben Frau von Lourdes, dem Fest der heiligen Bernadette, ihrem Geburtstag und... dem ersten Montag des Karnevals steht. 

12.         Die St. Galler Mafia wählt den Anti-Papst

Nur wenige bemerken die Ungereimtheiten und die St. Galler Mafia fährt weiter wie ein Zug. Schließlich, am 13. März, gelang es ihnen durch Drängeln, mit einer fünften irregulären Stimme, ihren Champion, den Jesuiten Kardinal Bergoglio, wählen zu lassen. Bergoglio, der in Argentinien wegen seiner Methoden und lehrmäßigen Extravaganzen bereits sehr unbeliebt ist. So wird der neue Papst der Welt verkündet. Francis kam heraus, ohne eine rote Mozzetta, begleitet von Card. Danneels: Sein Stil ist sehr lässig und in kürzester Zeit erobert er dank der von den bekannten Mächten gesponserten Medien sofort die begeisterte Gunst der Massen.  

13.         Die Transformation des Katholizismus beginnt

Es beginnt sofort die schrittweise Demontage der katholischen Lehre, um sie an den Container einer neuen Universalreligion für die Neue Weltordnung anzupassen, ein Projekt, das Bergoglio in einem La Stampa-Interview am 15. März 2021 offen befürwortet. "Wir würden die Krise vergeuden, indem wir uns selbst einschließen. Stattdessen, indem wir eine neue Weltordnung aufbauen, die auf Solidarität basiert...".

Schließlich muss man sich nicht wundern: Wenn Ratzinger nicht zurückgetreten ist, ist Bergoglio ein Gegenpapst.  

14.         Benedikt ist weiterhin Papst

Während ein Teil der gewöhnlichen Katholiken (vom Mainstream verächtlich als "Traditionalisten" bezeichnet) beginnt, gegen Bergoglio zu reagieren (und einige sogar Ratzinger verfluchen), verhält sich Papst Benedikt XVI. weiterhin wie ein Papst in seinem eigenen Recht, wenn auch ohne einige der praktischen Funktionen seiner Macht. Neben der Beibehaltung des weißen Gewandes lebt er weiterhin im Vatikan, verwendet den majestätischen Plural, unterschreibt als Pontifex Pontificum und erteilt den apostolischen Segen. In der Tat, obwohl Ratzinger effektiv aufgegeben hat, das Boot des Petrus zu verwalten, taucht er hin und wieder auf, signiert ein paar Bücher, schreibt, betet, gibt Interviews, korrigiert Bergoglio in Bezug auf den Zölibat der Priester (auch wenn sie bald darauf seinen Lieblingsweinberg entwurzeln werden).  

15.         Die "wissenschaftliche" Zweideutigkeit

In allen Interviews hält sich Ratzinger bedeckt und bewahrt vor allem eine absolute, wissenschaftliche Ambivalenz in seinen Worten. Er sagt nie, dass er als Papst zurückgetreten ist, er sagt auch nicht, dass der Papst Franziskus ist, aber er wiederholt acht Jahre lang granitisch, dass es nur einen Papst gibt. 

16.         Der Zwang der Mainstream-Presse

Das Mainstream-Denken will um jeden Preis behaupten, dass dieser eine existierende Papst, von dem Benedikt spricht, Franziskus ist, also drängeln sich die gleichgeschalteten Zeitungen, um eine Erzählung auf seinen Zitaten aufzubauen, und versuchen, sie zu manipulieren. Vatican News vom 27. Juni 2019 titelt sogar: "Benedikt XVI: Der Papst ist einer, Franziskus" und berichtet stattdessen nur über einen persönlichen Gedanken von Massimo Franco vom Corriere della Sera. 

17.         Die St. Galler Mafia entlarvt sich selbst

Während Bergoglio sich mit seiner neuen ultramodernistisch-weltlichen Kirche ausbreitet, macht die "deep Church", wie Bischof Viganò sie nennen würde, 2015 einen großen Fehltritt: Kardinal Godfried Danneels, Primas von Belgien und Stütze der St. Galler Mafia (so sehr, dass er am Tag der Wahl mit Bergoglio auftrat), bekennt in einer Autobiographie freimütig, wie die modernistische Lobby darauf abzielte, Benedikt zum Rücktritt zu bewegen und als Ersatz Kardinal Bergoglio vorzuschlagen. Die Aussagen bestätigen, was der Journalist Austen Ivereigh bereits behauptet hatte, sorgen für enorme Verlegenheit, werden aber nicht dementiert. Danneels' Buch verkaufte sich wie warme Semmeln (das letzte gebrauchte Exemplar wurde auf Amazon für 206 Euro verkauft), aber es wurde weder nachgedruckt noch ins Italienische übersetzt. Der belgische Kardinal verschwand von der Bildfläche und starb vier Jahre später. 

18.         Die Verteidigung von Bischof Sciacca

Im August 2016 argumentierte Msgr. Giuseppe Sciacca, der oberste Kanonist des Vatikans, im Interview mit Andrea Tornielli, dass Ratzingers Rücktritt gültig sei, weil munus und ministerium für den Papst unteilbar seien. Nach Ansicht anderer Kanonisten ist dies nicht wahr und wenn überhaupt, dann ist es ein Eigentor, das genau zeigt, dass Ratzinger nicht abgedankt haben kann, indem er nur auf das Ministeramt verzichtete. Tatsächlich zeigt die Geschichte der Päpste im ersten Jahrtausend, dass sie manchmal auf ihre Macht verzichten können, indem sie Päpste bleiben, besonders wegen eines Gegenpapstes. 

19.              Benedikts Antwort an Il Corriere

Drei Wochen später veröffentlichte Ratzinger in einer verschleierten Antwort einen Brief im Corriere, eine Zusammenfassung eines kürzlich erschienenen Buchinterviews mit Peter Seewald, "Last Conversations", in dem er damit begann, dass er selbst ein ausgezeichneter Latinist sei und die Declaratio in seiner eigenen Handschrift auf Latein geschrieben habe, um keine Fehler zu machen. Absurd, denn die Fehler wurden unmittelbar nach der Declaratio von berühmten Latinisten öffentlich korrigiert. Es ist eines der vielen Zeichen scheinbarer Inkonsequenz, die Benedikt absichtlich aussendet, um auf die rechtlichen Knoten des "Rücktritts" aufmerksam zu machen. Aber das gesamte Corriere-Interview kann auch umgekehrt interpretiert werden.  

20.         Erste Ergebnisse von “Plan B”

Doch nur drei Jahre später, im Jahr 2019, ernten die subtilen Eingaben von Benedikt XVI. ein erstes Ergebnis: Der italienisch-amerikanische Franziskanermönch Alexis Bugnolo, angesehener Latinist und Experte für Kirchenrecht, versteht, dass die lateinischen Fehler in der Declaratio absichtlich eingefügt wurden, um auf ein kanonisch ungültiges Dokument aufmerksam zu machen. Libero bietet exklusiv diese Interpretation an, die um die Welt geht, aber als Antwort kommen nur Schweigen und Beleidigungen aus dem Vatikan und der Tageszeitung der italienischen Bischöfe Avvenire, die uns "Schwachköpfe" nennt.  

21.         Bergoglio zieht das Seil zu sehr

In der Zwischenzeit entlarvt sich Franziskus immer mehr: er inthronisiert die Pachamama im Petersdom, er weiht die neuen Loreto-Litaneien mit Maria "Erleichterung der Migranten" ein, er spricht sich für die zivile Ehe aus, er ändert das Vaterunser, er fügt das von der esoterisch-freimaurerischen Kultur geteilte Tau in das Messbuch ein, er stellt eine seltsame esoterische Krippe auf dem Petersplatz auf, mit einer gehörnten Figur mit einem Totenkopf auf seinem Helm. Petersplatz eine seltsame esoterische Krippe, mit einer gehörnten Figur mit einem Totenkopf auf dem Helm, kurzum, er schleppt sich zu sehr, so sehr, dass der bekannte Vatikanist Aldo Maria Valli einen schockierenden Artikel mit dem Titel "Rom ist ohne Papst" veröffentlichte. 

22.         Der Corriere della Sera wird aktiv

Panik in Santa Marta: Massimo Franco von Il Corriere della Sera eilt herbei, um Ratzinger zu interviewen und das Leck zu stopfen. Benedikt XVI. bietet eine Reihe weiterer perfekt doppelzüngiger Antworten: Er sagt, dass "seine etwas fanatischen Freunde seine Wahl, die er aus freien Stücken getroffen hat, nicht akzeptiert haben, er mit sich im Reinen ist und es nur einen Papst gibt". Franco interpretiert seine Aussagen so: "Ich bin freiwillig als Papst zurückgetreten; meine Fans irren sich, wenn sie mich für den Pontifex halten; der Papst ist nur einer und der ist Franziskus". 

23.         Benedikts expliziter Subtext

In Wirklichkeit könnte die Bedeutung von Ratzingers Worten auch lauten: "Meine Freunde haben nicht verstanden, dass ich die Modernisten einlullen will, und ich habe es in vollem Bewusstsein getan, so dass ich mit meinem Gewissen im Reinen bin. Der Papst ist einer und ich bin es". Diese Geschichte, dass der Papst nur einer ist, aber man nie weiß, welcher, wird jetzt zu repetitiv und veranlasst uns, vergangene Interviews zu überprüfen. Die akribische und "wissenschaftliche" Zweideutigkeit, die jahrelang anhielt, kommt zum Vorschein.   

24.         Die Ernennung des "Botschafters”

Um also auf die üblichen Missverständnisse des Corriere zu reagieren und diejenigen zu ermutigen, die den richtigen Weg gehen, empfängt Papst Benedikt ein paar Tage später den Präsidenten eines Hilfswerks und ernennt ihn zum "Botschafter" (wenn auch in geistlicher Hinsicht). Obwohl auf symbolischer Ebene, ist es immer noch ein Akt eines regierenden Papstes. Ein weiteres klares Signal an "sein". 

25.         Sie verstehen das Spiel des Spiegels

Von den Corriere-Interviews ausgehend, lesen wir weiter die Interviewbücher von Peter Seewald und entdecken, dass sie alle von einem gegensätzlichen und konsistenten Subtext durchzogen sind. Jeder Satz ist mit wissenschaftlichem Geschick konstruiert, um - oft mit köstlicher Ironie - die Realität der ungültigen Resignation für diejenigen zu enthüllen, die sie verstehen wollen.    

26.         Man entdeckt den ganz klaren historischen Bezug: Benedikt VIII.

Ein wesentliches Detail wird deutlich, wenn Benedikt XVI. 2016 in den "Letzten Gesprächen" hinter einem verschleierten, aber sehr präzisen historischen Verweis erklärt, dass er als Papst Benedikt VIII. Theophilatus von den Grafen von Tusculum abgesetzt hat, der 1012 wegen des Gegenpapstes Gregor VI. auf das Ministeramt verzichten musste: ein unmissverständliches Signal. Nach und nach tauchen weitere Details aus seinen Buch-Interviews auf und auf Libero wird auch beleuchtet, wo sich Ratzinger für seine "Spiegel"-Strategie inspirieren lassen könnte. 

27.         Die erwartete Dynamik

Benedict weiß, dass sein Spiel extrem subtil ist, aber er hat einige sehr offensichtliche Warnglocken hinterlassen. Er wusste, dass sich die Teile des Puzzles langsam zusammenfügen würden und dass die Tiefe Kirche sich auflösen würde, sich selbst ruinieren, in Skandalen, lehrmäßigen Widersprüchen und heftigen internen Konflikten ertrinken würde. In dieser Hypothese wusste Ratzinger im Voraus, dass der modernistische Anti-Papst mit seinen globalistischen und nicht mehr katholischen Reformen das katholische Volk mit Bestürzung erfüllen würde.  Er wusste, dass er weder vom Heiligen Geist noch von der Logik des Logos unterstützt werden würde.  

28.         Worauf Benedikt wartet

Benedikt wartet, still, leise, in Gebet und Kontemplation, und kommuniziert mit der Außenwelt durch seine sehr präzisen und chirurgischen Worte: Er wartet darauf, dass die Kardinäle und Bischöfe ihre Augen öffnen.

Er spricht nicht offen: Selbst wenn es ihm gelänge, die Wahrheit öffentlich zu sagen, würde man ihn heute mit der Ausrede des senilen Deliriums bald zum Schweigen bringen. Er hat nicht einmal das Recht zu sagen, ob der Verzicht gültig ist oder nicht, das müssen die Kardinäle und Kanonisten prüfen. Er hat lediglich ein ungültiges Dokument in die Geschichte eingehen lassen. Es ist das katholische Volk, das sich bekehren muss, das VERSTEHEN und HANDELN muss. Es ist der Klerus, der die Trägheit abschütteln und den Mut, die Tapferkeit, den Heroismus des Glaubens wiederentdecken muss. Aus diesem Grund wird es niemals direkt sprechen. Es ist sinnlos, dies zu hoffen.

29. Die mögliche Lösung: eine klärende Synode

Die Lösung liegt also nur in den Händen der Bischöfe. In der Geschichte sind schon Synoden einberufen worden (Sutri, Melfi V), um zwischen zwei oder mehreren Päpsten mit Sicherheit festzustellen, welcher der wahre war.

Ratzinger weiß, dass bei einem solchen Treffen die Realität ans Licht kommen wird: der Gegenpapst und alle seine Handlungen, Ernennungen, lehrmäßigen und liturgischen Veränderungen werden sich in Luft auflösen. Es wird so sein, als hätte es sie nie gegeben. Der Tod beunruhigt ihn nicht: Sein Rücktritt wird für immer ungültig bleiben und eine historische Zäsur in der päpstlichen Nachfolge schaffen.

Bergoglio seinerseits hat die Zukunft der neuen Kirche bereits vorgezeichnet, indem er eine Lawine von "seinen" 80 Kardinälen ernannte, die das nächste Konklave größtenteils ausrüsten werden. Nach dem Anti-Papst Franziskus würde es sicher keinen weiteren Papst geben, wie sich manche Traditionalisten einbilden. Vielmehr würde ein ungültiges Konklave, bestehend aus ungültigen Kardinälen, einen weiteren Gegenpapst wählen. In der Geschichte wird der Gegenpapst Anacletus II. erwähnt, der in der Tat von einem anderen Gegenpapst, Victor IV. Bis der heilige Bernhard von Clairvaux kam, um die Dinge richtig zu stellen.

Wenn also kein Licht auf Benedikts Verzicht geworfen wird, wäre die katholische Kirche, wie wir sie kennen, für immer erledigt.

Die Synode hingegen wird der große katholische Gegenentwurf sein, der rote Knopf, der es erlaubt, die Kirche zu reinigen - in Ratzingers Absicht -, indem er den katholischen Modernismus von der Kirche trennt und Europa und den Westen mit ihren christlichen Wurzeln versöhnt. Es ist der Übergang zwischen zwei Epochen, und wie er selbst zu Seewald sagen wird: "Ich gehöre nicht mehr zur alten Welt, aber die neue hat in Wirklichkeit noch nicht begonnen". 

30.         Die "Kleinen" werden die Protagonisten sein

Benedikt XVI, der einzige Stellvertreter Christi (Bergoglio hat auf den Titel verzichtet), weiß, dass das Heil, viel eher als von Prälaten und großen Medien, von den Kleinen, den Reinen in Herz, Geist und Körper, kommen wird: kleine Brüder und mutige Priester, die sich exkommunizieren lassen, um ihm treu zu bleiben, kleine Journalisten, kleine Juristen und Theologen, die auf eigene Faust publizieren, kleine Youtuber und Blogger, kleine Übersetzer, Grafiker und Typographen, einfache Leser, die Artikel in den sozialen Netzwerken teilen, jeder bringt in seiner winzigen Kleinheit seinen Beitrag: alle Menschen ohne Mittel und ohne Unterstützung, die sich aufopfern und persönlich verlieren, um die Wahrheit wie ein Feuer zu verbreiten. Ein letzter "Kreuzzug der Armen", um die Kirche selbst zu retten.

Nein. Benedikt XVI. ist nicht vor den Wölfen geflohen. Nicht einmal vor denen, die sich als Lämmer verkleidet haben.

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Dies ist eine mögliche Rekonstruktion. Ob es plausibel ist oder nicht, müssen Sie selbst beurteilen. Bisher hat noch niemand einen anderen Faden für all diese Fakten finden können. Hoffentlich ist jemand dazu in der Lage. Gute Arbeit.

Can. 748 - §1. Alle Menschen sind verpflichtet, die Wahrheit über Gott und seine Kirche zu suchen, und, nachdem sie sie erkannt haben, sind sie durch das göttliche Gesetz gebunden und haben das Recht, sie anzunehmen und zu beachten.

Si ringraziano Marco Tosatti e il suo blog "Stilum Curiae" per la pubblicazione della versione inglese.

English version: HERE 

Cionci: The Possible Reconstruction of Benedict XVI’s “Plan B”. 11 Aprile 2021 Pubblicato da Marco Tosatti. Dear friends and enemies of Stilum Curiae, our friend Andrea Cionci has sent us the English translation of his article on the renunciation of Pope Benedict XVI, which has aroused great interest, and a heated debate. We thank him, and we make it available to the English-speaking readers of Stilum. Enjoy reading it.

A Reconstruction of Ratzinger’s possible Plan B  to cancel the church of Bergoglio with a complete purification of the Church 

A Purposefully invalid Resignation? — We investigation the thesis of Attorny Acosta and various theologians 

The question of the “two Pope” and of the resignation of Benedict XVI is a very broad one, not to be discounted, spreading over 8 years and events difficult to interpret.  In these moths, we have analyzed many individual facts and documents without receiving any response to our questions, legitimate through they be.

And yet, the thesis that has been proposed by the attorney Estefania Acosta and by other authorative journalists, jurists, theologians and ecclesiastics (many of whom have paid a dear price for their positions), is shocking:  Pope Benedict XVI might have WILLINGLY prearranged an entirely invalid resignation to open a new front against his adversaries, causing them to nominate an antipope and arranging that in time the truth above the antichrist objectives of the “Deep Church” and the fact that he is still the sole Pope, be discovered.  This would bring about the definitive cancellation of the “false Church”, along with great purification from heresy and corruption, to open up a new epoch of Christian renewal. Is this plausible? We have already investigated how the hypothesis of a Benedict XVI who is little prepared in Latin and canon law, or even an enthusiastic promoter of the modernist revolution of Francis, are hardly credible. Therefore, there remains that we sift through the hypothesis of the so-called “Catholic Reset”, cited above: this we have attempted to do by putting in order, according to this point of view, the facts, documents, persons. To allow you to link to all of it, at once, we propose here a summary, a synthesis, from which you can investigate each argument further by clicking the links under the word, “Here”.

1, An inconvenient Pope

“Pray for me so that I do not flee before the wolves”: thus did Benedict XVI exhort the Catholic people at the beginning of his difficult pontificate, in 2005.  The world, in fact, immediately turned upon him: 16 years ago, the Catholic Church, with Her two-thousand-year-old Faith, identity and moral laws, constituted the last obstacle in the path of various globalist-progressive objectives sponsored by the international Left and Lodges.

After the hotly opposed discourse at Ratisbon (2006), which had shut the doors to all religious syncretism, after the Motu Proprio, “Summorum Pontificum” (2007), with which Ratzinger “restored” the Mass in Latin, invigorating Tradition with a fresh breath of oxygen, the internal clerical opposition of the Modernists — which had coagulated around the lobby of Cardinals, called “the Mafira of St. Gall” — there was then enkindled and decided to foster such opposition to him that he would resign, as has been amply described by Cardinal Daneels (one of the members of the “Mafia”) in his Autobiography of 2015.

The Year of Horrors (Annus orribilis)

In 2012, the situation became unsustainable: at the Vatican large numbers boycotted the Pope by refusign to obey him; the meek Pope-theology could not trust in anyone, so much so that even his private butler robbed documents from his mailboxes, in that famous scandal of Vatileaks which put in clear light the ferocious factional war in the bosom of the Church and gave breath, at last, to a plan to eliminate him physically.  But these revelations played into the hands of Ratzinger, as we will see, by making clear the context in which he would have to opt for his extrema ratio (last reckoning).

The Media, for their part, were all against him: they depicted him as a sullen obscruantist, they massacered him by pulilng out true and presumed scandals of pedophilia (which today magically have disappeared) and, toward the end of December there arrived the last thumbscre: The Obama-Clinton administration blocked the accounts of the Vatican by means of the SWIFT system.  They would only be unblocked in the days immediately following the “resignation” of Ratzinger:

The Moment arrives for “Plan B”

With a Church completely infected with the metastasizing globalist modernism subject to and placed under international pressure, Benedict decided upon a definitive maneuver, undertaken “to clean out not only the small world of the Curia, but rather the Church in Her totality”, as he will explain to the journalist Peter Seewarld in 2016.

A “Plan B” worked out over many years precisely in view of an aggression against the Papacy from within the Church, and announced in many prophecies and in the Third Secret of Fatima, according to which Ratzinger was one of the few to be set apart by God for a special mission.

The Pope assembled in this way what could strategically be defined as a “planned ruse”, with a “false target” and a “feigned retreat” to cause the morale of the authentic Catholic population to be recharged  and to definitively annihilate the antichristic forces in the bosom of the Church.

The “false target”: the ministerium 

The plan was founded upon a provision put into act in 1983, when the papal charge was divided into architecture and decoration, munus and ministerium, or rather, the divine office and the practical exercise of its power.

And it is precisely this last which is the tru juridical “false target” which he offered to his enemies: to renounce the ministerium, and not the munus, would be to make one think that a noble, a count, had lost his title of  nobility  solely because he had renounced the administration of his possessions.  Nothing of the kind: a count remains always a count even without lands, and contrariwise, an administer cannot become a count solely by administering the holdings.  Munus and ministerium are not equivalents.

In this way, after two weeks of work, in January of 2013, Ratzinger formulated a Declaratio, a declaration in Latin of hardly 1700 key-strokes, where the terms were inverted, according to a “mirror trick”: instead of renouncing the munus, the charge of the Pope because the ministerium (the practical exercise) had already become burdensome, he announces to want to do the opposite: to renounce the ministerium because the exercise of the munus has become burdensome!  A true trick of words, but, which juridically would only have allowed, at the most, the nomination of a bishop-vicar, certainly not the resignation of a pope, the dignity of which is conserved in the foundational munus. (Of this speak at least 5 publications). An Appointment at 29 o’clock on February 28th. Moreover, Benedict deferred the renunciation of ministerium, fixing it for February 28th, and in such a clear manner that Cardinal Sodano, immediately after His Declaratio, clarified very well to the Cardinals, almost obsessively, that He would remain Pope until the 28th.  But not only that: Ratzinger specified even the hour X after which he would be no longer the Pope, the 29th hour.. It was obviously a typographical error: He wanted to write 20:00 hours (8 P. M.), and in fact, it was corrected afterwards, but the newspapers cited the error with which He underlined how important that inconvenient hour would be, in which the people, as is their custom, would be at dinner in Italy.

The Pope Emeritus is the Pope

Would he return to being a Cardinal? No: He specified afterwards (in 2016) that He will become a “pope emeritus” , making reference to the fact that, from the 70’s onwards, in Canon Law there was permitted to diocesan Bishops in retirement to remain on the sacramental level Bishops, but emeriti for having resigned only from the practical functions. In the case of the Pope, however, there exists no sacramental dimension, but only a super-sacramental dimension which regards a charge which no man on earth has the power to modify or share.  Hence, he who resigns from the papal charge cannot remain in any sense the Pope, and a pope who resigns solely in part, does in truth remain in every way the Pope. Benedict knows this, but his adversaries do not. Ratzinger, therefore, has purposefully used this camouflage of a “pope emeritus” — an expression which is inexistent in Canon Law, — to maintain himself as the Pope and, in the meantime, to leave the playing field to his enemies.  

That white garment which He keeps wearing

Behold the reason why Benedict consistently maintains the white cassock, while omitting the mozzetta (white mantle) and sash, symbols of the practical functions which He alone has in fact renounced: the administering of the Barque of Peter and announcing the Gospel.  To Tornielli, the Vaticanista, who will ask him why He would not wear the cassock of a mere Cardinal, He will reply, justifying himself with the phrase that it was “an eminently practical solution, give that he had no other changes of clothing available”.  This fact will resist all opposition for years, even the most recent stigmitizzation of it by Cardinal George Pell, who said in Dec. 2020: “A pope after his resignation should not dress in white and should not teach in public”.  Yes, but perhaps there is no “after” here?

The wantonness of the Mafia of St. Gall.

Ratzinger knows well his adversaries, he knows that they have longed for power since the 90’s when they cohorted together in secret meetings in the city of St. Gallen, Switzerland.  Not by chance, was it precisely in those years, that Pope Wojtyla published the apostolic constitution, Universi dominici gregis which automatically excommunicates any Cardinal guilty of a pre-Conclve plot to elect a pope.  Ratzinger knows that his enemies’ level of knowledge of Latin and Canon Law is inferior to his own and that, in the face of an apparent surrender, they would not have paid attention to details.  They would, rather, presume the validity of any document which spoke of a resignation.

In fact, after the Declaratio, the Mafia of St. Gall is dancing with the stars and causes there to be announced from the Vatican Press Office that “the Pope has resigned”.  Their desires appear to them fulfilled quasi “prophetically” by Ratzinger, at the end of his Declaratio where he eclairs to renounce the ministerium SO THAT (“ut”) “from February 28th, at the hour of Rome, the See of St. Peter will be vacant and that there is to be convoked, by those who are competent, a Conclave to elect a new Supreme Pontiff” (“by those who are competent”, that is, not “you Cardinals”, or at least not all of “you Cardinals”, a reference to those who were unfaithful to him). 

The errors in the Latin

Moreover, the game played was a subtle one:  the risk is that the juriical questoin, upon which the entire plan B is based, is forgotten.  This is why in the Declaratio Benedict inserted anomalies which would in time attract attention to the invalidity of the document, most of all two gross errors in the Latin: “pro ecclesiae vitae” (afterwards corrected by the Vatican) and one pronounced by his own voice — “commissum” — alongside the key word: “ministerium”, which should have been the dative form, “commisso”. Moreover, the typo on the hour of 29:00 instead of 20:00:  errors purposefully introduced, in addition to invalidating even more the resignation inasmuch as it was not “rite manifestetur”, that is “duly” expressed, as the Code of Canon Law requires (in Canon 332, §2); most of all to concentrate the attention of future readers on the two principle juridical problems of his fake resignation: the renunciation of “ministerium” and the deferment of the renunciation.  The plan succeeded:  the errors of syntax in the Latin were immediately judged to be “intollerable” by Latinists such as Luciano Canfora and Wilfried Stroh, not to mention Cardinal Ravasi, and made a certain sort of splash in the press, together with the typographical error on the hour it would take effect.

The Farewell at 5:30 P. M.

And so, February 28th arrived and Benedict makes his dramatic helicopter flight (he will say to Seewald in 2016 that this was part of the “stage scenery”) such that everyone will see him abandon the Vatican and, at 5:30 P. M., come out upon the balcony of the papal palace at Castel Gandolfo to bid the world a farewell.  He had not casually chosen the hour of 8 P. M. (20:00 hours), the hour in which Italians are all at dinner (in front of the TV), a thing which required him to anticipate the farewell at 5:30 P. M..  There, at Castel Gandolfo, in fact, he speaks precisely: “I will be the pope until 8 P. M. and then no more”.

But then he goes inside, and 8 P. M. arrives, but he signs no document nor makes any public declaration.  Some justify this by saying that since at 5:30 P. M. he said that he would no longer be the pope, that sufficed.  But they are in error:  because by affirming that he would be pope until 8 P. M., he could have very well changed his mind, therefore, his renunciation of ministerium, already in effective from the hour he read his Declaratio, should have been ratified by another signed or public declaration.  But this never happened.

A concentrate of juridical invalidity

In summary, his Declaratio of a renunciation is absolutely worthless as a resignation, because one cannot renounce an office which has a divine origin by renouncing its administration and, in addition, such a renunciation not duly written, has no juridical value.  It’s all a big joke.  In fact, Benedict will admit to Seewald that the choice of February 11th for his Declaratio was connected, with an “interior connection”, to the Feast of Our Lady of Lourdes, a feast of St. Bernadette, the patron saint of his own birthday and with the Mardi Gra Monday.

The Mafia of St. Gall elects an Anti-Pope

The anomalies were seen only by a few and the Mafia of St. Gall went ahead full steam.  Finally, on March 13th, elbowing itself forward with a fifth and irregular balloting, it succeeds in electing its own champion, the Jesuit cardinal, Bergoglio, already looked down upon in Argentina for his methods and his doctrinal extravagances.  In this way, there comes to be announced to the world a new pope.  Francis comes out, without the red mozzetta (cape), accompanied by Cardinal Daneel: his style is very off the cuff and, in no time, with the complicity of the Main Stream Media, he succeeds in capturing the enthusiastic favor of the crowds.

The attack on Catholicism begins

Immediately, he begins a gradual dismantling of Catholic doctrine to adapt it to the container of the new universalist masonic-environmental-modernist religion of the New World Order, openly augered by Bergoglio in his interview with La Stampa on March 15, 2021:  “We are wasting this crisis when we close in on ourselves.  Instead, by building a new world order based on solidarity …”.

Consequently, it would not surprise if Ratzinger never actually resigned, Bergoglio is an anti-pope.

Benedict goes ahead as the Pope

While a portion of normal Catholics (insultingly defined by the Main Stream Media as “traditionalists”) began to react against Bergoglio (and not a few even to speak ill of Ratzinger), Pope Benedict XVI continued to comport himself as a pope in every detail, though without some of the practical offices of his power.  In addition to maintaining the white cassock, he continues to live in the Vatican, to use the royal “We”, to sign as the Pontifex Pontificum (Pontiff of Pontiffs), and to impart the Apostolic benediction.

Indeed, even if Ratzinger had made a renunciation of administering the Barque of Peter, every now and then he comes back, signing some book, writing, prayer, or granting an interview, to correct Bergoglio on the celibacy of priests (even if, immediately afterwards, they uproot his favorite vineyard at Castel Gandolfo).

The “scientific” ambiguity of the thing

In all his interviews, Ratzinger maintains a low profile and most of all an absolute, scientific double entendre in his words.  He never says that he has resigned from the papacy, nor does he say that Francis is the Pope, but throughout 8 years, he has like a standing stone, repeated that “the Pope is only one”.

The Main Stream Media’s forced narrative

The Narrative would at all costs have it that the one existing pope of which Benedict speaks is Francis, so much that the newspapers of this party exhausting themselves to construct a narrative upon every cited word, seeking to manipulate the context.  In fact, Vatican News on June 27, 2019, opened with the leader, “Benedict XVI: the pope is one, Francis”, reporting however only the personal thoughts of Massimo Franco of the Corriere della Sera.

The Mafia of St. Gall unmasks itself

While Bergoglio is devoting himself to his new giant masonic and ultramodernist-globalist church (by daily unmasking himself), in 2015 the “anti-Church” as Mons. Viganò will call it, made a faux paux:  Cardinal Godfried Danneels, the primate of Belgium and the central column of the Mafia of St. Gall (so much so that he flanked Bergoglio, when he came out on the Loggia of St. Peter’s, on the day of his election), confessed candidly in his one autobiography how the modernist lobby aimed to cause Benedict to resign and to propose in his place cardinal Bergoglio.  His admissions, confirmed by what was already admitted by the journalist Austen Ivereigh, created an enormous embarrassment and have never been denied.  The book of Danneels was sold out (the last used copy for sale on Amazon went for 206 euro!) but has never been republished, nor translated into Italian.  The Belgian Cardinal exited the stage and died a year later.

The defense attempted by Mons. Sciacca

In the August of 2016, Mons. Giuseppe Sciacca, the top canonist at the Vatican, in an interview with Andrea Tornielli, sustained that the resignation of Ratzinger was valid because munus and ministerium are, for a pope, indivisible. A self-contradicting argument which shows precisely how Ratzinger could not have resigned by resigning only the ministerium.  In fact, the history of popes in the first millennium of the Church shows that they have at times resigned from the exercise of papal power while remaining popes, especially in the case of rival anti-popes.

Benedict’s reply to Mons. Sciacca

Three weeks later, Ratzinger, publishes a veiled response in his letter to the Corriere della Sera, taking occasion from the recent book of his interviews by Seewald, entitle, “Last Conversations”, in which he exhorts the readers by saying that he himself is an optimum latinist and that he wrote with his own hand the Declaration in Latin so as not to make any errors.

An absurdity, given that there are errors which have been publicly corrected by famous Latinists immediately after his Declaratio.  This is one of those many signals of apparent incoherence which Benedict sends to the outside world precisely to recall attention to the juridical problems in his “resignation”.  And so the entire interview with the Corriere can be interpreted in the exact opposite sense.

The first results of Plan B

Moreover, only two years after, in 2019, the subtle input of Benedict XVI obtained its first result: the Italian-American Franciscan, Br. Alexis Bugnolo, an outstanding latinist and expert in canon law, takes note of the errors in the Latin of the Declaration and declares that they were inserted precisely to attract attention to the canonical invalidity of the document.

The Libero had the exclusive report on his study and news of it went viral world wide, but in reply, from the Vatican there was only silence and from the Avvenire ( the national Catholic newspaper published by the Italian Bishops’ Conference) only insults.

Bergoglio goes full throttle, too much

The seasons change, and Francis in the meantime exposes himself every the more: he enthrones Pachamama in St. Peter’s, he inaugurates a new Litany of Loreto with Mary as “support of migrants”, he declares himself in favor of civil unions, he changes the Our Father, he inserts the masonic “dew” into the Canon of the Mass, he decorates the Piazza of St. Peter’s with a strange esoteric Christmas creche, in sum, he goes excessively full throttle, so much so that the noted Vaticanista, Aldo Maria Valli, publishes a shocking article entitled, “Rome is without a pope”. 

Bergoglio runs for cover at the Corriere della Sera

At Santa Marta there is a panic:  Massimo Franco of the Corriere della Sera rushes to interview Ratzinger and clean up the mess.  Benedict XVI offers a series of further replies which are perfectly double faced: he says that “his friends, a little fanatic, did not accept his decision, made completely freely by him, he is in peace with himself and the pope is one alone”.  Franco interprets his declarations in this sense: “I willingly resigned as the Pope; my fans err in considering me the Pontiff; the pope is one alone and is Francis”

The explicit subtext of Benedict

In reality, the true significance of the words of Ratzinger is: “My friends have not understood what I am fooling the modernists and that I have done this in full self awareness, on which account I am in peace with my conscience.  the Pope is one alone and I am he”.  This story of the pope who is one alone, but which is never specified, has already become too repetitive and urges us to examine past interviews.  By doing so there emerges a meticulous and “scientific” equivocation which has lasted years.

The nomination of the “ambassador” to Benin

Thus, in reply to the customary misunderstandings by the Corriere della Sera, and to encourage those who follow the right interpretation, Pope Benedict, a few days after, received the president of a charitable organization and names him, “ambassador” (even if only spiritually).  Even on the symbolic level, this is indeed the act of a reigning pope.  Another clear signal to his “own”:

The mirror trick is understood

From the interviews with the Corriere della Sera, we pass to read also the book interviews by Peter Seewald and we discover that all of them have been arranged according to a coherent and opposite subtext.  Every phrase has been constructed with a scientific ability to reveal — often with a tasteful irony — the reality of the invalid resignation to whomsoever wants to grasp it.

The discovery of a clear historical precedent: Pope Benedict VIII

One fundamental detail merges when Benedict XVI declares in his “Last Conversations”, published in 2016, under a veiled by most precious historical reference, that he has resigned as Pope Benedict VIII, Theophylactus of the Counts of Tuscolo,  in 1012, was constrained to renounce the ministerium on account of the antipope Gregory VI:  an unequivocable signal.  Little by little, there emerges other details in his book length interview and here at the Libero we have even cited the passage from which we were able to be inspired by Ratzinger to understand his strategy “of mirrors”.

A foreseen battle

Benedict knows that his game is an extremely subtle one, but he has left alarm bells which are very evident.  He knew that the pieces of the puzzle would be put back together little by little and that the false church would reveal itself, crumbling on its own, annihilating itself in scandals, doctrinal contradictions and ferocious internal conflicts.  Ratzinger knew beforehand that the modernist antipope, with his masonic-environmental-globalist extravagances would fill the Catholic people with dismay.  He knew that this one would not be assisted by the Holy Spirit, nor by the logic of the Logos (the Divine Word).

What is Benedict waiting for?

Benedict is still waiting, tranquil in his prayer and contemplation, and communicating with the outside world by means of precise and surgical terms:  he awaits the Cardinals and Bishops to open their eyes.

He does not speak openly: even if he would succeed in speaking the truth in public, today, he would be immediately silence with the excuse of senile ramblings.  No:  it is rather the Catholic people who, in this Apocalypse, in the sense of a Revelation, have to convert, have to UNDERSTAND, and ACT.  And it is the clergy who have to shake off their inertia, by rediscovering the course, the strength, and the heroism of the Faith. 

The solution to the whole problem: a declaratory Synod

The solution, in the end, is a simple one:  let the Bishops convoke a synod, like that which was convoked historically (such as Sutri or Melfi V) to establish with certainty which of the due or pore popes is the true one.

Ratzinger knows that during such an encounter the reality will easily come forth:  the anti-pope and all of his actions, nominations, doctrinal and liturgical changes, will vanish into nothingness.  It will be as if he never exited.  Death does not preoccupy Benedict: his resignation will remain invalid for ever by creating a historic rupture in the papal succession.

Bergoglio, in the mean time, for his own part, has already signaled the future of his new-Church by nominating an avalanche of his “own” 80 cardinals, who, being in the majority, will shut the doors to the new Conclave.  After the antipope, Francis, there would be no valid successor, as some traditionalists are pointing out.  Moreover, an invalid conclave, composed by invalid cardinals, might elect another modernists antipope — o a fake orthodox one — and the Catholic Church, as we know Her, would be finished forever.

The synod, on the other hand, will be the great Catholic Counter-Reset, the red restart-button which will enable the Church to be purified — according to the intentions of Ratzinger — from corruption and heresy once and for all, by reconciling Europe and the West with their own Christian roots.  And in the passage from one epoch to another, as he himself said to Seewald:  “I belong no longer to the old world, but to the new, which in reality has not yet begun”.

The “little ones” will be the protagonists

Benedict XVI, the sole Vicar of Christ (Bergoglio having renounced the title) knows that salvation comes from little ones, from the pure of heart, mind and body, much sooner than from prelates and the great ones of the press:  from courageous priests and friars who are excommunicated for remaining faithful, from little journalists, youtubers and bloggers, translators, artists  and publishers, simple readers who share articles on social media, each one of which in his own infinitesimal littleness adds his own contribution:  a whole people without means and support, who sacrifice themselves and risk themselves to spread the truth as a fire, as a last “Crusade of the poor” to save the Church Herself.

No, Benedict XVI has not fled at the sight of the wolves.  Nor in the face of those dressed up as lambs.

Si ringrazia Adoracion y Liberacion per la pubblicazione in spagnolo

INICIO › COLABORADORES › DEFINITIVO: ANDREA CIONCI, DE LIBERO, PROFUNDIZA EN EL TRABAJO DE AÑOS DE FRAY ALEXIS BUGNOLO, DON MINUTELLA, ESTEFANIA ACOSTA, MARCO TOSATTI, ALDO MARIA VALLI, VICENTE MONTESINOS Y OTROS: EL «PLAN B» DE BENEDICTO XVI, EL VERDADERO PAPA

DEFINITIVO: ANDREA CIONCI, DE LIBERO, PROFUNDIZA EN EL TRABAJO DE AÑOS DE FRAY ALEXIS BUGNOLO, DON MINUTELLA, ESTEFANIA ACOSTA, MARCO TOSATTI, ALDO MARIA VALLI, VICENTE MONTESINOS Y OTROS: EL «PLAN B» DE BENEDICTO XVI, EL VERDADERO PAPA

POR ADORACIÓN Y LIBERACIÓN el 11/04/2021 • ( 1 )

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DEFINITIVO: ANDREA CIONCI, PRESTIGIOSO PERIODISTA ITALIANO DEL LIBERO, RECOPILA EL TRABAJO DE AÑOS DE ADORACIÓN Y LIBERACIÓN, FRAY ALEXIS BUGNOLO, DON MINUTELLA, ESTEFANIA ACOSTA, MARCO TOSATTI, ALDO MARIA VALLI, VICENTE MONTESINOS,  Y OTROS, EN UN HISTÓRICO REPORTAJE DE INVESTIGACIÓN PERIODÍSTICA DE 3O PUNTOS: EL PLAN B DE BENEDICTO XVI, EL VARDADERO PAPA.

ESTE ARTÍCULO DEBE SER DIFUNDIDO DE FORMA PRECEPTIVA ENTRE TODOS AQUELLOS CATÓLICOS PREOCUPADOS POR LA DERIVA DE LA IGLESIA CATÓLICA HACIA SU DESTRUCCIÓN, CONDUCIDA POR BERGOGLIO.

DEBE DE LLEGAR A TODOS LOS SACERDOTES, OBISPOS, CARDENALES… ES NECESARIO.

DIOS LES BENDIGA Y LES GUARDE, EN ESTOS MOMENTOS DECISIVOS.

Vicente Montesinos. Director de Adoración y Liberación. El Remanente Fiel Católico.

Andrea Cionci Libero Quotidiano. Reconstrucción del posible Plan B de Ratzinger para cancelar la iglesia de Bergoglio en una purificación completa de la Iglesia. Una posible reconstrucción del «Plan B»   del Papa Benedicto XVI. Renuncia inválida a propósito: investigamos la tesis de la abogado Acosta y varios teólogos. La cuestión de los «dos Papas» y la renuncia de Benedicto XVI es muy amplia, esquiva, repartida a lo largo de ocho años y llena de episodios difíciles de interpretar. En los últimos meses, hemos analizado muchos hechos y documentos individuales sin recibir respuestas a nuestras preguntas, aunque legítimas.

Sin embargo, la tesis que ha presentado la abogada Estefanía Acosta y otros periodistas autorizados, Juristas, teólogos, clérigos (muchos de los cuales han pagado duro por el precio de sus posiciones), es chocante: el Papa Ratzinger habría preparado deliberadamente renuncias completamente inválidas para  dejar el campo abierto a sus oponentes, tener un anti-pope designado y asegurarse de que con el tiempo se descubra la verdad sobre los objetivos anticristianos de la «Iglesia profunda» y sobre el hecho de que él sigue siendo el único Papa. Esto conduciría a una anulación definitiva de la «Iglesia falsa», con una gran purificación de la herejía y la corrupción, abriendo una nueva era de renovación cristiana.

¿Es eso plausible? Ya habíamos investigado cómo las hipótesis sobre un Benedicto XVI poco preparado en el derecho latino y canónico, o incluso las de los entusiastas partidarios del giro modernista de Francisco, eran increíbles.

Por lo tanto,  queda por examinar la hipótesis del llamado «restablecimiento católico» antes mencionado: por lo que hemos  tratado de ordenar hechos, documentos y caracteres de acuerdo con esta perspectiva.

Para permitirles conectarlo todo junto, le proponemos una historia, un resumen, donde puede profundizar cada tema haciendo clic en la palabra «AQUÍ».

Así puede usted juzgar: y explicaciones alternativas son bienvenidas, siempre y cuando puedan encontrar un lugar diferente para cada una de las «piezas del rompecabezas» en un marco coherente.

Un Papa incómodo

«Oren para que no huya ante los lobos», por lo que Benedicto XVI instó al pueblo católico al comienzo de su difícil pontificado, en 2005. El mundo, de hecho, inmediatamente se volvió en su contra: la Iglesia Católica de hace 16 años, con su fe de 2.000 años de antigüedad, su identidad y sus reglas morales, fue el último obstáculo para la realización de una serie de organismos globalistas-progresistas patrocinados por la izquierda internacional y masónica.

Después del muy disputado discurso de Ratisbona (2006) que cerró la puerta a todo sincretismo religioso, y después del motu proprio Summorum Pontificum (2007), con el que Ratzinger «restauró» la misa latina dando un aliento vital de oxígeno a la tradición, la oposición interna del clero modernista – coagulada alrededor de la llamada «Mafia di San Gallo» – estaba ahora enojada y decidida a obstaculizarlo hasta que se vio obligado a renunciar, como será ampliamente descrito por Card. Danneels (uno de los miembros de la «Mafia») en su autobiografía de 2015. 

L’annus horribilis

En 2012, la situación se vuelve    insostenible: ahora demasiados,  en el Vaticano, boicotean  al Papa sin obedecerlo, elsuave papa-teólogo no puede confiar en nadie e incluso el mayordomo roba documentos en sus cajones, con el famoso escándalo Vatileaks que pondrá de relieve una feroz guerra entre facciones dentro de la Iglesia e incluso ventilará un proyecto para eliminarlo físicamente. Pero estas revelaciones jugarán para Ratzinger, como veremos, explicando el contexto en el que tendrá que optar por su decisión extrema.

Los medios de comunicación, además, están todos en su contra, lo pintan como un arco oscurantista, lo masacran sacando escándalos reales o de presunta pederastia (ahora mágicamente desaparecida) y, hacia finales de diciembre, llega la última represión: los Estados Unidos del dúo Obama-Clinton bloquean las cuentas del Vaticano a través del código Swift. Lo desbloquearán inmediatamente después de la «dimisión» de Ratzinger:

Es hora de «PlanB»

Con una Iglesia completamente en metástasis por el modernismo mundial y bajo presión internacional, Benedicto  pide una medida definitiva destinada a «limpiar no sólo en el pequeño mundo de la Curia, sino en la Iglesia en su conjunto», como él mismo explica al periodista Peter Seewald.

Un «plan B» planeado durante muchos años precisamente en vista de un ataque al papado desde dentro de la Iglesia, además anunciado por muchas profecías y por el tercer secreto de Fátima, del que Ratzinger fue uno de los pocos a quién se dejó de lado.

Así, el  Papa organiza lo que estratégicamente podría llamarse un «plan de engaño», con «falso objetivo» y «retirada falsa» para recuperar el impulso motivacional del pueblo auténticamente católico y aniquilar definitivamente a las fuerzas anticristianas dentro de la Iglesia.

El «falso objetivo»: el ministro

El plan se basa en una medida implementada en 1983, cuando la oficina papal se dividió en contenedor y contenido, munus y ministerium, es decir, título divino y ejercicio práctico del poder.

Y es precisamente este último el verdadero «falso objetivo» legal que ofrecer a sus enemigos: renunciar al ministerio, y no al munus, sería como hacer creer a uno que un noble, un conde, caería de su título sólo porque renuncia a administrar sus posesiones. No en absoluto: un recuento siempre sigue siendo contado incluso sin tierra y, viceversa, un administrador no puede ser contado sólo mediante la administración de granjas.  Munus y Ministerium no son equivalentes.

Así, después de dos semanas de trabajo, en enero de 2013, Ratzinger desarrolló una Declaratio, unadeclaración latina de sólo 1.700 palabras, donde revierte estos factores, según una «técnica espejo»: en lugar de renunciar al munus, el cargo de Papa, porque el ministerium (ejercicio práctico) se ha vuelto agotador, anuncia que quiere hacer lo contrario: renunciar al ministerio porque el ejercicio del munus se ha vuelto agotador. Un verdadero juego de palabras, pero, legalmente, esto podría permitirle, a lo sumo, nombrar a un vicario obispo, pero ciertamente no  renunciar como Papa, un papel del que conserva el munus fundamental. (Hay al menos 5 publicaciones sobre este tema.)

Cita el 28 de febrero, 9:00 pm

Además, Benedicto difiere la renuncia del ministerio al fijarlo el 28 de febrero, por eso se asegura de esa cita. Sodano, inmediatamente después de su Declaratio, dejó muy claro a los cardenales, casi obsesivamente, que seguirá siendo Papa hasta el 28. Pero eso no es suficiente: Ratzinger también especifica la «hora X» en  la que ya no será Papa, a las 9:00 p.m. Es un error tipográfico, por supuesto: quería escribir a las 8:00 p.m., y de hecho será correcto, pero los periódicos citarán el error por el cual enfatiza lo importante que será ese momento incómodo, cuando la gente, por lo general, se vaya a cenar.

El Papa emérito es el Papa

¿Volverá a ser cardenal? No: más tarde especificará que se convertirá en «papa emérito» refiriéndose al hecho de que, desde la década de 1970, el derecho canónico permite a los obispos retirados seguir siendo obispos – a nivel sacramental – convirtiéndose en «eméritos», es decir, dejando sólo funciones prácticas. En el caso del Papa, por otro lado, no hay dimensión sacramental, pero hay una dimensión súper sacramental que se refiere a una asignación que nadie en la tierra tiene el poder de modificar o compartir. Por lo tanto, los que renuncian a su cargo papal no pueden seguir siendo papas de ninguna manera,    y un Papa que renuncia sólo en parte, en realidad, sigue siendo Papa en todos los aspectos. Benedicto lo sabe, pero sus oponentes no. Ratzinger utilizó entonces a propósito este señuelo del  «Papa emérito», expresión nunca mencionada por el derecho canónico, para apoyarse a sí mismo papa y, mientras tanto, dejar el campo libre a sus enemigos. 

Mantiene la túnica blanca

Por eso, constantemente, Benedicto mantiene su túnica blanca, aunque privada de mozzetta y cíngulo, símbolo de las dos funciones prácticas a las que sólo ha renunciado plenamente:  administrar el barco de Pedro y proclamar el Evangelio. Para el vaticanista Tornielli, que le preguntará por qué no usa la farsa negra como cardenal, responderá justificándose diciendo que era «una solución eminentemente práctica, ya que no tenía otra ropa disponible». Este hecho también provocará en los últimos tiempos la estigmatización pública del Cardenal George Pell: «Un papa dimisionado no debe vestirse de blanco y no debe enseñar públicamente». ¿Tal vez no dimitió?

La codicia de la mafia de St. Gallen

Ratzinger conoce bien a sus oponentes, sabe que han anhelado el poder desde la década de 1990, cuando celebraron sus reuniones secretas en la ciudad de St. Gallen, Suiza. No es casualidad que, en aquellos años, el Papa Wojtyla hubiera emitido la Constitución Apostólica Universi dominici gregis que excomulgó automáticamente a cualquier cardenal que estuviera involucrado en maniobras preconclavales. Ratzinger sabe que el conocimiento de sus enemigos sobre el latín y el derecho canónico es inferior al suyo y que, ante su aparente rendición, no habrían ido demasiado lejos para los sutiles. Tomarían cualquier documento que hablara de renunciar para siempre.

De hecho, después de la Declaratio,la mafia de San Galen se está disparando e inmediatamente anuncia por la oficina de prensa del Vaticano que «el Papa ha dimitido». Comienza a darse cuenta de lo que Ratzinger «profetizó», al final de la Declaratio  donde declara renunciar al ministerio «ut» «; a partir del 28 de febrero la sede de San Pedro, quedará vacante y deberá ser convocada, por aquellos a quienes pertenece, el Cónclave para la elección del nuevo Sumo Pontífice». («Aquellos a los que pertenece», no «los cardenales», es decir, sólo algunos cardenales, esos infieles a él). 

Errores en el latín

Sin embargo, el juego es sutil: el riesgo es que el tema legal, en el que se basa todo el plan B, pronto será olvidado. Es por eso que en la Declaratio Benedetto ha insertado inconsistencias que se mantendrán vivas en el tiempo la atención sobre la discapacidad del documento: los dos primeros errores graves del latín: «proecclesiae vitae»(luego corregido por el Vaticano) y uno pronunciado también por voz precisamente en la palabra clave: «ministerio» vinculado al «comisario», mientras que debería haber habido el dativo «commisso». Ahora, el error tipográfico, en el tiempo: 21.00 en lugar de 20.00. Errores cometidos a propósito, así como invalidar aún más la renuncia como «rito manifiesto» no escrito,es decir, «debidamente» como el Código de Derecho Canónico (Can. 332, § 2) sobre todo centrar la atención en las dos principales cuestiones jurídicas de la renuncia falsa: la renuncia del ministro y el aplazamiento de la exención. El plan tiene éxito: los errores de sintaxis serán inmediatamente juzgados «intolerables» por latinistas como Luciano Canfora y Wilfried Stroh, así como por el Cardenal Ravasi, y tendrán cierto eco en la prensa, junto con el error tipográfico en el tiempo. 

La llamada a las 17.30 horas

Llega el 28 de febrero, Benedetto hace un vuelo en helicóptero teatral, (le dirá a Seewald que era parte del «guión») para que todo el mundo lo vea salir del Vaticano y, a las 5:30 pm,   sale al balcón de Castel Gandolfo para saludar al mundo. No había elegido por casualidad las 20.00 horas, el momento en el que todo el mundo está cenando, lo que le da la motivación para adelantar la salida a las 17.30 horas. Desde Castel Gandolfo, de hecho, especifica: «Seré pontífice de nuevo hasta las 20.00 horas y no más».

Luego se retira, llegan las 8:00 p.m., pero no firma ningún documento, ni declara nada más en público. Se justifica diciendo que ya no es Papa a partir de las 17:30 horas, a partir de su mensaje público. Estaba preparado: y todavía siendo el Papa de 17.30 a 20.00 horas,   muy bien podría haber cambiado de opinión, ergo, su renuncia al ministerio, ya inútil a los efectos de la renuncia como Papa, debería haber sido necesariamente ratificada ya sea por una firma, o por otra declaración pública. Pero eso no sucede.

Una concentración de discapacidad jurídica

En resumen, su Declaración de Renuncia no vale absolutamente nada como renuncia, porque no se puede renunciar al título de origen divino renunciando a la administración y, además, esta renuncia, escrita indebidamente, ni siquiera se ratifica. Una broma gigante. De hecho, Benedicto admitirá con Seewald que la elección del 11 de febrero para declaratio conectó, con una «conexión interior», el aniversario de nuestra Señora de Lourdes, la fiesta de Santa Bernadette, su cumpleaños y… el primer lunes de Carnaval.

La mafia de St. Gallen elige al antipapa

Sólo unos pocos ven inconsistencias y la mafia de St. Gallen sigue como un tren. Finalmente, el 13 de marzo, en una sexta votación irregular, logró que su campeón, el cardenal jesuita, fuera elegido: Bergoglio, ya muy impopular en Argentina por sus métodos doctrinales y extravagancias. Así, el nuevo Papa se anuncia al mundo. Francesco sale, sin alfombra roja, acompañado del Cardenal Danneels: su estilo es muy accesible y en poco tiempo, cómplice de los medios de comunicación patrocinados por los poderes conocidos, inmediatamente captura el favor entusiasta de las multitudes.

Comienza el ataque al catolicismo

El desmantelamiento gradual de  la doctrina católica comienza inmediatamente a adaptarla como un contenedor de una nueva religión eco-masónica-modernista universal para el Nuevo Orden Mundial, abiertamente deseada por Bergoglio en una entrevista en La Stampa el 15 de marzo de 2021. «Estaríamos reforzando la crisis y encerrándonos en nosotros mismos. En cambio, construyendo un nuevo orden mundial basado en la solidaridad…».

Además, nada de lo que sorprenderse: si Ratzinger nunca ha dimitido, Bergoglio es un antipapa. 

Benedicto sigue siendo Papa

Mientras que algunos católicos comunes y corrientes (referidos despectivamente por la corriente principal como «tradicionalistas») comienzan a reaccionar contra Bergoglio (y algunos incluso hablan mal de Ratzinger), el Papa Benedicto XVI sigue comportándose como un Papa en plena función, aunque carente de algunas funciones prácticas de su poder. Además de mantener su túnica blanca, sigue viviendo en el Vaticano, utilizando un plural majestático, para firmar Pontifex Pontificum, para impartir la bendición apostólica…

De hecho, aunque Ratzinger de facto ha renunciado a administrar el barco de Pedro, de vez en cuando aparece, firma algunos libros, escribe, reza, da entrevistas, corrige a Bergoglio sobre el celibato de los sacerdotes, (aunque, inmediatamente después, arrancan su viñedo favorito en Castel Gandolfo). 

Ambigüedad «científica»

En todas las entrevistas, Ratzinger mantiene un perfil bajo y sobre todo una ambivalencia absoluta y científica de sus palabras. Nunca dice que renunció como Papa, ni dice que el Papa es Francisco, pero durante ocho años, firme, repite que el Papa es sólo uno.

El esfuerzo de la prensa convencional

El pensamiento único quiere a toda costa argumentar que este papa existente del que habla Benedicto es Francisco, por lo que los periódicos alineados se apresuran a construir una narrativa sobre sus comillas, tratando de manipularlas. De hecho, Vatican News el 27 de junio de 2019 se fuerza a sí mismo para titular: «Benedicto XVI: el Papa es uno, Francisco», en lugar de informar sólo un pensamiento personal de Massimo Franco del Corriere della Sera

La mafia de St. Gallen se desmorona

Mientras Bergoglio está desenfrenado con su nueva iglesia masónica y ultramodernista-globalista (desvelándose cada vez más), en 2015 la «anti-Iglesia», como la llama Mons. Viganò, da un gran paso en falso: el cardenal Godfried Danneels, primado de Bélgica y columna vertebral de la mafia de San Galen, (tanto que se enfrenta a Bergoglio el día de las elecciones), confiesa con franqueza en su autobiografía cómo el lobby modernista pretendía que Benedicto fuera despedido y propusiera,en cambio, al Cardenal Bergoglio. Las declaraciones confirman lo que el periodista Austen Ivereigh ya ha dicho, son extremadamente embarazosas, pero no se niegan. El libro de Danneels se roba (la última copia usada se venderá en Amazon por 206 euros) y no se reimprime, ni se traduce al italiano. El cardenal belga desaparece de la escena y muere cuatro años después.

La defensa de Mons. Sciacca

En agosto de 2016, monseñor Giuseppe Sciacca, el primer canónigo del Vaticano, entrevistado por Andrea Tornielli, sostiene que la renuncia de Ratzinger es válida porque munus y ministerium para el Papa son indivisibles. Un auto contradictorio argumento que demuestra precisamente cómo Ratzinger no puede ser destituido renunciando sólo al ministerio. De hecho, la historia de los papas en el primer milenio muestra que a veces pueden renunciar a ejercer el poder mientras son papas, especialmente en caso de rivales  antipapas. 

La respuesta de Benedetto al Corriere

Tres semanas más tarde, en una respuesta velada, Ratzinger publicó en el Corriere una carta, resumida en una reciente entrevista con Peter Seewald, «Últimas conversaciones», en la que comienza diciendo que él mismo es un excelente latinista y que escribió la Declaratio en latín por su propia mano para no cometer errores.

Absurdo, ya que los errores habían sido corregidos públicamente por los latinistas más famosos inmediatamente después de la Declaratio. Es uno de los muchos signos de aparente incoherencia que Benedetto envía fuera a propósito para llamar la atención sobre los nudos legales de la «resignación».  Pero la entrevista con Il Corriere puede interpretarse al revés. 

Primeros resultados del Plan B

Sin embargo, sólo dos años más tarde, en 2018, las sutiles aportaciones de Benedicto XVI recogen un primer resultado: el franciscano italoamericano Alexis Bugnolo, distinguido latinista y experto en derecho canónico, entiende que los errores del latín en la Declaratio, habían sido insertados específicamente para llamar la atención sobre un documento canónicamente inválido.

Libero ofrece exclusivamente esta interpretación que da la vuelta al mundo, pero, en respuesta, sólo silencio y los insultos diarios provienentes del Vaticano.

Bergoglio tira demasiado de la cuerda

Los tiempos están maduros, Francisco mientras tanto se expone cada vez más: introniza pachamama en St. Peter’s, inaugura la nueva letanía lauretana con María «alivio de los migrantes», se declara a favor de las uniones civiles, cambia el Padre Nuestro, inserta el rocío masónico en las Cartas, instala en Pza. S. Pietro una extraña escena de natividad esotérica, en resumen, tira demasiado de la cuerda, tanto que el conocido vaticanista Aldo Maria Valli publica un artículo de choque titulado «Roma no tiene papa».

Corriendo a cubrirse con “Il Corriere”

Pánico en Santa Marta: Massimo Franco del Corriere se apresura a entrevistar a Ratzinger y tapar el agujero. Benedicto XVI ofrece una serie de respuestas con una perfecta doble cara: dice que»sus amigos un tanto fanáticos no han aceptado su elección, que él hizo libremente, está en paz consigo mismo y el Papa es uno».

Franco interpreta sus declaraciones en el sentido: «Con mucho gusto renuncié como Papa;   mis fans se equivocan al considerarme el pontífice; el Papa es uno y es Francisco».

El subtexto explícito de Benedicto

De hecho, el verdadero significado de las palabras de Ratzinger es: «Mis amigos no entendían que estoy engañando a los modernistas y lo hice con plena conciencia, así que estoy en paz con mi conciencia. El Papa es uno y soy yo.» Esta historia del Papa que es sólo uno, pero nunca se sabe cuál, ahora se está volviendo demasiado repetitiva y nos empuja a comprobar las entrevistas pasadas.

Surge la ambigüedad muy meticulosa y «científica» que ha durado años.

El nombramiento del «embajador»

Así, en respuesta a los habituales malentendidos del Corriere, y para animar a los que siguen la pista verdadera ,el Papa Benedicto, unos días después, recibe al presidente de una organización benéfica y lo nombra «embajador», (aunque espiritualmente).  Aunque simbólicamente, sigue siendo un acto reinante del Papa. Otra señal clara para «los suyos».

Entiendes el juego del espejo

A partir de entrevistas con Il corriere, también leemos los libros entrevista de Peter Seewald y encontramos que todos  están  traídos por un subtexto opuesto y coherente. Cada frase está construida con habilidad científica para revelar -a menudo con sabrosa ironía- la realidad de la renuncia inválida para aquellos que quieren entenderla.

Se descubre la referencia histórica muy clara: Benedicto VIII

Un detalle fundamental surge cuando en “Últimas conversaciones» de 2016, Benedicto XVI, detrás de una referencia histórica velada, pero muy precisa, declara que ha dimitido como el Papa Benedicto VIII, Teophylact de los Condes de Tuscoloque, en 1012, que se vio obligado a renunciar al ministerio debido al antipapa Gregorio VI: una señal inequívoca.

Poco a poco, surgen más detalles de sus libros de entrevistas y en Libero también destacamos dónde Ratzinger podría haberse inspirado en su estrategia  «espejo».

La dinámica esperada

Benedetto sabe que su juego es extremadamente fino, pero ha dejado las campanas de alarma muy evidentes. Sabía que las piezas del rompecabezas se recomponían lentamente y que la iglesia falsa se revelaría, arruinándose a sí misma, ahogándose en escándalos, contradicciones doctrinales y feroces conflictos internos. Ratzinger sabía de antemano que el antipapa modernista, con sus extravagancias eco-masónicas-globalistas, llenaría al pueblo católico de consternación.  Sabía que no sería asistido por el Espíritu Santo, ni por la lógica del Logos (la Divina Palabra). 

Lo que Benedicto espera

Benedicto espera, de nuevo, pacíficamente, en la pre-noche y la contemplación, comunicándose con el exterior a través de sus palabras muy precisas y quirúrgicas: espera a que los cardenales y obispos abran los ojos.

No  habla abiertamente: incluso si pudiera decir la verdad públicamente, hoy, pronto sería silenciado con el pretexto de tomarlo por senil. No: es el pueblo católico quien, en este Apocalipsis, entendido como Apocalipsis, debe ser convertido, debe ENTENDER y ACTUAR. Son los clérigos los que deben sacudirse la inercia, redescubriendo el valor, la fortaleza, el heroísmo de la fe. 

La solución a todo: un sínodo clarificador

La solución, al final, es simple: basta con que los obispos indiquen un sínodo, como los ya llamados en la historia (Sutri, Melfi V) para establecer con certeza entre dos o más papas cual era el verdadero.

Ratzinger sabe que durante este encuentro la realidad saldrá fácilmente a la calle: el antipapa y todas sus acciones, nombramientos, cambios doctrinales y litúrgicos desaparecerán en la nada. Parece que nunca existieron. La muerte no le preocupa: su renuncia seguirá siendo inválida para siempre creando una ruptura histórica en la sucesión papal.

Bergoglio, por su parte, ya ha marcado el futuro de la nueva Iglesia al nombrar una avalancha de «sus» 80 cardenales que, en su mayoría, blindarán el próximo cónclave. Después del aperitivo del Papa, ciertamente no habría otro Papa, como dicen algunos tradicionalistas. Más bien, un cónclave inválido, compuesto por cardenales inválidos, elegiría a otro antipapa modernista -o pretendido ortodoxo-, y la Iglesia Católica, tal como la conocemos, terminaría para siempre.

El sínodo, por otro lado, será el gran contra-reset católico, el botón rojo que permitirá purificar la Iglesia -en las intenciones de Ratzinger- de la corrupción y la herejía de una vez por todas, reconciliando Europa y Occidente con sus raíces cristianas. Es la transición entre dos épocas, y como él mismo le dirá a Seewald: «Ya no pertenezco al viejo mundo, pero el nuevo -de hecho- aún no ha comenzado». 

Los «pequeños» serán los protagonistas

Benedicto XVI, el único Vicario de Cristo (Bergoglio renunció al título) sabe que la salvación, mucho antes que de los prelados y de los grandes medios de comunicación, vendrá de los más pequeños, de lo puro del corazón, de la mente y del cuerpo: pequeños frailes y valientes sacerdotes que se dejan excomulgar para permanecer fieles, pequeños periodistas, pequeños youtubers y blogueros, pequeños traductores, diseñadores gráficos e impresores, lectores sencillos que comparten artículos en las redes sociales, cada uno en su infinita pequeñez aporta su propia contribución: todas las personas sin medios y sin apoyo, que se sacrifican y pierden en persona para difundir la verdad como un fuego.  Una última «Cruzada de los Pobres» para salvar a la iglesia misma.

Benedicto XVI no escapó frente a los lobos. Ni siquiera delante de los disfrazados de corderos.

Vaticano, Joseph Ratzinger nomina un ambasciatore: "Come un Papa regnante", il caso ignorato dai media. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 18 marzo 2021. Totalmente ignorata dai grandi media, una rara visita è stata concessa lunedi scorso da Benedetto XVI a Lorenzo Festicini, presidente di un'unione umanitaria chiamata Istituto Nazionale Azzurro, vicina al cardinal Comastri, conservatore, appena pensionato insieme al cardinale Sarah. Il giornale Reggio Today ha pubblicato foto autorizzate dell'incontro, previamente diffuse dall'Istituto. Stupisce che il Corriere della Sera, il 21 marzo, non ne avesse pubblicate di proprie, relative all'ultima intervista di Massimo Franco, come fatto, invece, in quella del 2019. Un'insolita scelta editoriale del Corriere, o una mancata concessione da parte dell'intervistato? Comunque, Ratzinger appare in ottima forma: sorridente e ben lontano da quell'«agonia» di cui si scriveva in agosto, fasciato dalla talare bianca che porta fin dal 2013 giustificandosi col dire che all'atto della rinuncia non aveva altri abiti.

IL MUNUS SPIRITUALE. Ma la sorpresa è che Benedetto ha nominato Festicini «Ambasciatore di Pace»: come confermato dall'interessato, si tratta di «una nomina puramente spirituale, di una benedizione per la sua attività umanitaria in Benin». Tuttavia, il gesto di nominare un ambasciatore (prerogativa del papa regnante) sebbene simbolico, arriva in un momento bollente: è appena uscito «Benedict XVI: pope emeritus?» un testo giuridico della giurista Estefania Acosta che afferma come Benedetto sia l'unico papa proprio perché ha mantenuto il munus spirituale, l'incarico divino, e che la sua rinuncia (con gravi errori di latino) sia stata scritta volutamente invalida per svelare e annullare i «golpisti» a tempo debito. È la tesi anche di giornalisti come Antonio Socci e di altri autorevoli teologi e latinisti. Benedetto, nella Declaratio del 2013, ha infatti rinunciato ad alcune funzioni pratiche (ministerium) ma non all'incarico spirituale (munus), tuttavia siccome, per il papa, questi sono indivisibili, le dimissioni sarebbero nulle. Venerdì scorso abbiamo anche chiesto a 20 canonisti della Sacra Rota, se un atto di rinuncia così dubbio possa essere valido ai sensi del Canone 14, ma nessuno di loro ha risposto. Un segnale? La nomina dell'«ambasciatore» rientrerebbe dunque in quella velata ambivalenza mantenuta per otto anni da Ratzinger, tanto che incrollabilmente ha sempre dichiarato che «il papa è uno solo», senza mai spiegare quale dei due. Se, infatti, a un primo sguardo, l'incontro con Festicini può risultare solo un'innocua benedizione per un fedele benemerito, a una lettura più approfondita - e soprattutto di questi giorni - può sottolineare ancora una volta come lui nomini (spiritualmente) ambasciatori appunto perché detiene il munus spirituale. Ma se munus e ministerium sono indivisibili e il papa è uno solo, questi sarebbe Ratzinger.

STRANA AMBIGUITÀ. Alcuni conservatori si innervosiscono per la costante ambiguità di Benedetto XVI che, se da un lato, per precisione chirurgica non può essere frutto di approssimazione o senilità, dall'altro contrasta con l'adamantina chiarezza del teologo tedesco. A pochi viene in mente che potrebbe essere una velata «richiesta di intervento» da comprendere attraverso il diritto canonico. Se infatti - puta caso - Benedetto non si fosse dimesso, la Chiesa cattolica sarebbe finita per sempre perché Bergoglio sarebbe un antipapa (come sostiene la Acosta) e il prossimo conclave, con una maggioranza di 80 «anti-cardinali» da lui nominati, sarebbe invalido. Francesco, da parte sua, non rassicura molto: ha appena dichiarato a un grande quotidiano che «la crisi non va sprecata, ma usata per creare un nuovo ordine mondiale», cosa che potrebbe condurre ad un'unica religione sincretista e pertanto anticristica.

IL PRECEDENTE. Ecco perché, dati i rischi non da poco, i vescovi dovrebbero convocare alla svelta un sinodo per controllare chi ci sia «al timone», e tranquillizzare 1.285.000.000 cattolici. Del resto, nulla di nuovo sotto il sole: già nel 1046 fu convocato a Sutri (RM) un concilio per stabilire quale, fra ben tre papi, fosse quello legittimo. E uno dei tre si chiamava pure Benedetto (IX).

“Il Papa sono solo io”: la lettura velata - e alternativa - di un testo di Benedetto XVI. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 19 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. In Vaticano si dice che vi sia da decenni una guerra sotterranea tra fazioni opposte, dove l’arma principale è un accortissimo uso del linguaggio e delle sue conseguenze logiche. Il seguente scritto è stato pubblicato il 7 settembre 2016 a firma di Benedetto XVI sul Corriere della Sera. Abbiamo provato a controllare se nel testo Benedetto dica chiaramente che il papa è Francesco, ma, oggettivamente, non troviamo nulla del genere. Anzi: un sottile linguaggio identifica Bergoglio, al più, come un cardinale. Sarà un caso fortuito, ma tant’è. Come molti di voi già sapranno, secondo teologi, latinisti e, più di recente, secondo la giurista Estefania Acosta,  Benedetto XVI avrebbe scritto una Declaratio di dimissioni con – oggettivi - gravi errori di latino per tenere desta l’attenzione sulla sua invalidità giuridica. Infatti, in essa lui rinuncia solo a due funzioni dell’esercizio pratico del potere (ministerium), ma conserva il munus spirituale, l’incarico divino. Ora per il diritto canonico, munus e ministerium papali sono indivisibili, quindi separarli non può comportare l’abdicazione del papa, ma solo una sospensione temporanea del suo esercizio del potere pratico. Il papa resta solo chi detiene il munus. Non è un caso che da otto anni, Benedetto ripeta insistentemente “Il papa è uno solo”, senza mai spiegare quale. Un’ipotesi emersa successivamente è quella del “Reset cattolico”, ovvero che Benedetto abbia predisposto questo meccanismo affinché col tempo si comprenda l’invalidità delle sue dimissioni consentendo alla vera Chiesa di annullare completamente una “deep Church” modernista. Abbiamo provato a leggere lo scritto come se il sottotesto fosse quello suggerito da queste tesi per vedere se si possono riscontrare corrispondenze. E’ un esperimento: giudicate voi, ricordando però che l’italiano è una lingua molto precisa. Confrontate le letture “alternative” con l’originale più volte, verificando se il testo non possa essere costruito in modo sottilmente, “scientificamente” ambivalente, partendo da presupposti completamente diversi a quelli che si possono immaginare.

Benedetto XVI si racconta «Nessuno mi ha ricattato» - Corriere.it 7 sett 2016. Ho scritto io la rinuncia. Originale: “Il testo della rinuncia l’ho scritto io. Non posso dire con precisione quando, ma al massimo due settimane prima. L’ho scritto in latino perché una cosa così importante si fa in latino. Inoltre il latino è una lingua che conosco così bene da poter scrivere in modo decoroso. Avrei potuto scriverlo anche in italiano, naturalmente, ma c’era il pericolo che facessi qualche errore”.

Possibile sottotesto: Il testo della rinuncia (al ministerium) l’ho scritto io, al massimo due settimane prima, proprio nei giorni in cui gli Usa bloccavano il codice Swift del Vaticano. Controllate la versione latina, è quella importante. Vi assicuro che conosco benissimo il latino, quindi, se individuate errori nella Declaratio capirete che c’è qualcosa che non va. Se l’avessi scritta in italiano, avrei potuto trasferire l’errore, come poi è stato fatto, di tradurre la parola munus con ministero. Sappiate che la chiave di tutto è proprio nella dicotomia fra munus-incarico divino e ministerium-esercizio pratico del potere. 

Non ero ricattato. Originale: “Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte. Nessuno ha cercato di ricattarmi. Non l’avrei nemmeno permesso. Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione. E non è nemmeno vero che ero deluso o cose simili. Anzi, grazie a Dio, ero nello stato d’animo pacifico di chi ha superato la difficoltà. Lo stato d’animo in cui si può passare tranquillamente il timone a chi viene dopo”. Possibile lettura: Non si è trattato di una ritirata (strategica) dal ministerium  fatta sotto la pressione degli eventi, o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte. Nessuno (dei tradizionalisti) ha cercato di ricattarmi per spingermi a un tale escamotage. Non l’avrei nemmeno permesso. Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato dall’esercizio pratico perché non bisogna lasciare (il ministerium) quando si è sotto pressione. Non è nemmeno vero che ero deluso di come avevo approntato le cose. Ero in pace con me stesso perché avevo risolto le difficoltà e potevo lasciare  tranquillamente il timone della barca di Pietro, cioè una delle due funzioni pratiche alle quali rinunciavo nella Declaratio, sapendo che le cose avrebbero fatto il loro corso.

Felice del successore. Originale: "Il mio successore non ha voluto la mozzetta rossa. La cosa non mi ha minimamente toccato. Quello che mi ha toccato, invece, è che già prima di uscire sulla loggia abbia voluto telefonarmi, ma non mi ha trovato perché eravamo appunto davanti al televisore. Il modo in cui ha pregato per me, il momento di raccoglimento, poi la cordialità con cui ha salutato le persone tanto che la scintilla è, per così dire, scoccata immediatamente. Nessuno si aspettava lui. Io lo conoscevo, naturalmente, ma non ho pensato a lui. In questo senso è stata una grossa sorpresa. Non ho pensato che fosse nel gruppo ristretto dei candidati. Quando ho sentito il nome, dapprima ero insicuro. Ma quando ho visto come parlava da una parte con Dio, dall’altra con gli uomini, sono stato davvero contento. E felice."

Possibile lettura: Il mio successore alla guida dell’esercizio pratico (ministerium), non ha voluto indossare la mozzetta rossa da cardinale - che gli spettava - ma ha preferito vestirsi di bianco. La cosa non mi ha minimamente urtato. Ciò che mi ha urtato, (ripetizione toccato-toccato? n.d.r.), invece, è che mi abbia telefonato prima di essere ufficialmente annunciato al mondo (come vicario per il ministerium), ma non gli ho risposto. Poi, mi ha urtato (?) quel modo con cui ha pregato per me, il momento di raccoglimento e quella cordialità con cui ha salutato le persone tanto da far scoccare subito in loro una scintilla di simpatia. Io lo conoscevo, naturalmente, ma non ho pensato a lui. In questo senso è stata una grossa sorpresa. Non ho pensato che fosse nel gruppo ristretto dei candidati. Quando ho sentito il nome, dapprima ero insicuro. Ma quando ho visto come parlava da una parte con Dio, dall’altra con gli uomini, (non bene) sono stato davvero contento. E felice, perché tutto si sarebbe svolto secondo quanto avevo stabilito. 

La Chiesa è viva. Originale: "L’elezione di un cardinale latino-americano significa che la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi. Che non è congelata in schemi: accade sempre qualcosa di sorprendente, che possiede una dinamica intrinseca capace di rinnovarla costantemente. Ciò che è bello e incoraggiante è che proprio nella nostra epoca accadono cose che nessuno si aspettava e mostrano che la Chiesa è viva e trabocca di nuove possibilità". Possibile sottotesto: L’elezione da me predisposta a gestore del ministerium di un cardinale latino americano, (che resta cardinale, appunto), significa che la Chiesa è in movimento, sta per svilupparsi, che non è congelata in schemi (tradizionalisti contro modernisti). Accade sempre qualcosa di sorprendente, che possiede una dinamica intrinseca capace di rinnovarla costantemente. Ciò che è bello e incoraggiante è che proprio nella nostra epoca accadono cose che nessuno si aspettava, (come ad esempio le mie dimissioni scritte invalide), e mostrano che la Chiesa è viva e trabocca di nuove possibilità (per salvarsi).

Riforme: non sono forte. Originale: "Ognuno ha il proprio carisma. Francesco è l’uomo della riforma pratica. È stato a lungo arcivescovo, conosce il mestiere, è stato superiore dei gesuiti e ha anche l’animo per mettere mano ad azioni di carattere organizzativo. Io sapevo che questo non è il mio punto di forza". Possibile sottotesto: Ognuno ha il proprio carisma. Francesco è l’uomo scelto per mettere in pratica la riforma (luterana?) della Chiesa. E’ stato a lungo arcivescovo, dal ‘97 al 2001, (quattro anni) prima di diventare cardinale, come infatti è ancor oggi (e da ben 15 anni).  Conosce il mestiere, è stato superiore dei gesuiti ed ha l’intenzione di mettere mano alla Chiesa con capacità organizzative che io non possiedo.

Sulla lobby gay vaticana. Originale: "Effettivamente mi fu indicato un gruppo, che nel frattempo abbiamo sciolto. Era appunto segnalato nel rapporto della commissione di tre cardinali che si poteva individuare un piccolo gruppo di quattro, forse cinque persone. L’abbiamo sciolto. Se ne formeranno altri? Non lo so. Comunque il Vaticano non pullula certo di casi simili". Possibile sottotesto: La lobby gay non è il problema principale. Non concentratevi su di loro. Il problema sono i modernisti della Mafia di San Gallo (di cui si parla da anni).

La Chiesa cambi. Originale: "È evidente che la Chiesa sta abbandonando sempre più le vecchie strutture tradizionali della vita europea e quindi muta aspetto e in lei vivono nuove forme. È chiaro soprattutto che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi. Sono in corso capovolgimenti epocali, ma non si sa ancora a che punto si potrà dire con esattezza che comincia uno oppure l’altro". Possibile lettura: E’ evidente che la Chiesa sta abbandonando le sue antiche strutture tradizionali europee e in essa vivono nuove forme che la stanno snaturando. Proprio in conseguenza di ciò, l’Europa si sta scristianizzando. Pertanto, la Chiesa deve cambiare il suo modo di presentarsi tornando proprio a quella tradizione europea che ha abbandonato. Sono in corso capovolgimenti epocali, come il Reset da me preparato, ma non si sa quando questo verrà attivato poiché la sua comprensione –noto-  è molto lenta e graduale.

Non sono un fallito. Originale: "Un mio punto debole è forse la poca risolutezza nel governare e prendere decisioni. Qui in realtà sono più professore, uno che riflette e medita sulle questioni spirituali. Il governo pratico non è il mio forte e questa è certo una debolezza. Ma non riesco a vedermi come un fallito. Per otto anni ho svolto il mio servizio.  Ci sono stati momenti difficili, basti pensare, per esempio, allo scandalo della pedofilia e al caso Williamson o anche allo scandalo Vatileaks; ma in generale è stato anche un periodo in cui molte persone hanno trovato una nuova via alla fede e c’è stato anche un grande movimento positivo". Possibile lettura: Un mio punto debole è forse la poca risolutezza nel governare e prendere decisioni, per quello ho rinunciato al ministerium. Qui, in questa nuova situazione dove resto il papa, sebbene privo dell’esercizio pratico del potere, mi occupo di questioni spirituali. Non ho fallito perché ho organizzato le cose per bene. Per otto anni ho esercitato il potere pratico, e nonostante i momenti difficili, gli attacchi e gli scandali da parte, molte persone hanno saputo reagire positivamente trovando una nuova via di sopravvivenza per la fede.

Mi preparo alla morte. Originale: "Bisogna prepararsi alla morte. Non nel senso di compiere certi atti, ma di vivere preparandosi a superare l’ultimo esame di fronte a Dio.  Ad abbandonare questo mondo e trovarsi davanti a Lui e ai santi, agli amici e ai nemici. A, diciamo, accettare la finitezza di questa vita e mettersi in cammino per giungere al cospetto di Dio. Cerco di farlo pensando sempre che la fine si avvicina. Cercando di prepararmi a quel momento e soprattutto tenendolo sempre presente. L’importante non è immaginarselo, ma vivere nella consapevolezza che tutta la vita tende a questo incontro". Possibile sottotesto: Ora devo prepararmi alla morte. Non devo fare o dire altre cose, bensì lasciare solo che tutto faccia il suo corso per superare il mio ultimo esame di fronte a Dio".

Come si vede, la lingua italiana e logica elementare sembrano condurre coerentemente ANCHE a una lettura diversa e opposta. Non vogliamo fornire risposte definitive perché non ne abbiamo alcuna autorità, e ci limitiamo solo registrare alcune circostanze fattuali. La prima, del tutto OGGETTIVA, è che  da nessuna parte in questo scritto di 8.500 battute si può evincere inequivocabilmente come Benedetto XVI consideri Bergoglio UN papa. Lo individua come successore nell’esercizio del potere pratico, ma per come scrive, potrebbe considerarlo anche a tutt’oggi solo un cardinale. Viceversa, di se stesso Benedetto non ha mai scritto “io non sono più IL papa”, anzi, in altre sedi ha ribadito che continua a “restare nel recinto di Pietro”, sebbene abbia liberamente rinunciato al potere pratico, come da lui più volte sottolineato. E siccome continua a dire da otto anni che IL PAPA E’-UNO-SOLO, senza spiegare quale, è legittimo supporre che Benedetto ritenga di essere solo lui il papa in quanto detentore del munus spirituale. L’aggettivo “EMERITO” significa infatti: “Chi, non esercitando più il proprio ufficio, ne gode tuttavia il grado e gli onori”. Quindi se lui, come emerito, gode ancora del grado e degli onori di papa (infatti indossa la veste bianca, si firma P.P., “nomina” ambasciatori e dice che il papa E’ solo uno, questi E’ lui e non Francesco). In sostanza, in attesa di una spiegazione logica alternativa, tale quadro configurerebbe una situazione NON CON DUE PAPI, ma con UN SOLO PAPA  che ha rinunciato (temporaneamente?) all’esercizio pratico del potere, decisione presa – liberamente e consapevolmente - per grosse difficoltà nel gestirlo. Una rinuncia da parte del papa al solo potere pratico è giuridicamente impossibile e quindi viene annullata qualsiasi ipotesi di abdicazione effettiva, ergo, il conclave del 2013 era invalido. Il papa è ancora e solo lui. E l’altro un cardinale-antipapa. Quindi semmai, più che chiedersi: "Perché Benedetto continua a portare la veste bianca?", ci si potrebbe anche chiedere: "Perché il cardinale Bergoglio, che si dovrebbe occupare dell’esercizio pratico del potere del Papa, non porta la veste rossa?". E' un caso che Francesco non si firmi Pontifex Pontificum e che abbia rinunciato al titolo di Vicario di Cristo? La seconda circostanza oggettiva, quanto al Reset e alla costruzione volontaria dell’invalidità delle dimissioni, l’interpretazione del possibile sottotesto, resta comunque costantemente e logicamente plausibile, pur velata da un linguaggio sottile. Colpisce  soprattutto la prima parte, dove l’excusatio non petita sulla sua ottima conoscenza del latino, contrasta con l’effettiva presenza di grossolani errori nel testo della Declaratio. Non c’è quindi nulla che contraddica esplicitamente una seconda lettura, più sottile, del testo, ma antitetica alla prima. Ora, abbiamo riscontrato questa ambivalenza di significato, con le medesime possibilità di sottotesto, anche nei virgolettati delle maggiori interviste concesse da Ratzinger ai giornali più importanti. Non è un esempio isolato, magari ci torneremo sopra nei prossimi appuntamenti. I casi sono due: o si tratta solo di una serie di sfortunatissime coincidenze nell’uso di frasi maldestre, che si ripetono costantemente da otto anni, oppure c’è dell’altro.

Perché Benedetto “salutò” il mondo alle 17.30: dimissioni annunciate, mai confermate. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 20 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

SINTESI

Crolla l’ultimo caposaldo che faceva ritenere valide le dimissioni di Benedetto XVI: parliamo della sua dichiarazione pubblica dal balcone di Castel Gandolfo svoltasi il 28 febbraio 2013 – non per caso - alle ORE 17.30. Nella Declaratio pubblicata l’ 11 febbraio 2013, Ratzinger annunciava una data e un’ora a partire dalle quali non sarebbe stato più papa: LE ORE 20.00 DEL 28 FEBBRAIO 2013.

Ma era solo la comunicazione di una rinuncia che avrebbe dovuto essere fatta ai sensi del Canone 332 § 2:

”Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la RINUNCIA sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”.

Tuttavia, dalle 20.00 del 28 febbraio 2013, ad oggi, non è MAI stata firmata o manifestata alcuna RINUNCIA, come confermato dalle più autorevoli fonti vaticane. E’ come se l’Amministratore delegato della Fiat dichiarasse: “Fra due ore e mezza mi dimetto”, e poi non formalizza nulla, non firma nulla, non conferma niente nemmeno a voce. Vi sembra accettabile?

Una ratifica finale era indispensabile perché Benedetto XVI, come papa, avrebbe avuto piena FACOLTA’ DI CAMBIARE IDEA, rispetto a quanto annunciato, almeno fino alle 19.59 del 28 febbraio 2013. Ergo, le dichiarazioni “intenzionali” non hanno alcuna validità giuridica se non vengono confermate dopo la scadenza con una rinuncia.

I DETTAGLI DELLA QUESTIONE

Tutto ciò è illustrato sinteticamente in un piccolo libro dal titolo esplicito: “Il vero papa è ancora Benedetto XVI”, del 2017, passato quasi inosservato anche a molti attenti studiosi della vicenda. L’autore è Carlo Maria Pace, una laurea in Fisica, due in Teologia e un dottorato in Teologia dogmatica, ma non occorrono tutti questi titoli per capire di cosa parla.

Ora vi mostriamo i dettagli, anche e soprattutto illustrando come questo presunto “errore” non sia mai stato smentito dalla condotta di Benedetto XVI nei successivi otto anni, rafforzando enormemente l’ipotesi di un escamotage volontario per battere i suoi nemici, i modernisti della Mafia di San Gallo, che aveva come proprio "campione" Jorge Mario Bergoglio, come scrisse ampiamente uno dei suoi membri, il card. Godfried Danneels, nell’autobiografia del 2015 (mai smentita dal Vaticano).  

Nella sua Declaratio del 10 febbraio, Ratzinger scrive: “Dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, in modo che, DAL 28 FEBBRAIO 2013, ALLE ORE 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante”. Già è una cosa strana, quella di fissare una data e un’ora per le proprie dimissioni, ma tant’è.

Per 17 giorni, dopo la Declaratio, Benedetto è stato ancora papa, (cosa da tutti riconosciuta) così come lo era anche quel 28 febbraio 2013, quando ALLE 17.30, due ore e mezza prima dell’Ora X”, si affacciò dal balcone di Castel Gandolfo, dichiarando al mondo: «Voi sapete che questo giorno mio è diverso da quelli precedenti. Non sono più Pontefice Sommo della Chiesa Cattolica, fino alle otto di sera lo sono ancora, poi non più» .

In quest’ultima frase, la voce gli trema, e la proferisce in modo affrettato. QUI il video, al minuto 3.30

Scrive Carlo Maria Pace : “Papa Benedetto XVI pensava erroneamente che sarebbe automaticamente decaduto dal Papato senza dimettersi in alcun modo, infatti in tale occasione non ha parlato di alcun atto di dimissioni da parte sua da effettuarsi alle 20:00 del 28/02/2013 e ha fatto cenno solo a tale data e ora come termine del suo Pontificato.

Proprio perché pensava di decadere in modo automatico dal Papato, ha fatto l’errore di pensare di essere già decaduto dal Pontificato prima di tale data e ora (anche se si è corretto subito).

Ovviamente, come abbiamo già osservato, un Papa in carica a tutti gli effetti (come era Benedetto XVI prima delle 20:00 del 28/02/’13), se non si dimette, rimane in carica a tutti gli effetti, per cui Benedetto XVI, non essendosi dimesso, è ancor oggi il Papa in carica a tutti gli effetti!.

Inoltre, dalle sue stesse dichiarazioni nel libro-intervista di Peter Seewald “Ultime conversazioni”, (pp. 21-49, 217-226) sappiamo che non si è dimesso in alcun modo dopo tale data e ora, pensando erroneamente di averlo già fatto in modo automatico il 28/02/’13 alle 20.00 e quindi di non potersi dimettere dopo tale data e ora”.

Prosegue il teologo: “Inoltre, non si può invocare, in questo caso, l’infallibilità del sensus fidei omnium fidelium (cioè del senso della fede di tutti i fedeli) per proclamare che Benedetto XVI non è più Papa dalle ore 20:00 del 28/02/2013, in quanto, non tutti i fedeli (compreso io stesso) hanno creduto contemporaneamente che Benedetto XVI non era più Papa dalle ore 20:00 del 28/02/2013. Io stesso lo ritengo il legittimo Papa fin da allora”.

Che le dimissioni “ a scadenza prefissata” non fossero un “errore” ma un escamotage attentamente preparato, diventa palese confrontando il nodo giuridico irrisolto con il fatto che Ratzinger nei successivi otto anni, non abbia MAI RIMEDIATO dicendo “io non sono più il papa”, né affermando “il papa è Francesco”. Lui ripete UNICAMENTE che IL PAPA E’ UNO SOLO.

Se fosse stato un errore involontario, perché mantenere tale perfetta, scientifica ambiguità nelle sue dichiarazioni?

Prosegue Pace: “D’altra parte il fatto di essere inattivo (in quanto emerito n.d.r.) non fa decadere automaticamente un Papa, in carica a tutti gli effetti, dal Papato, per cui l’inattività di Benedetto XVI non è un argomento contro il fatto incontrovertibile che Benedetto XVI è ancora il vero Papa”.

In aggiunta alla già auto-invalidante Declaratio in cui Benedetto annunciava che avrebbe rinunciato al ministerium (esercizio pratico), ma non al munus (incarico divino) - due elementi indivisibili di cui abbiamo già scritto - questo di Castel Gandolfo pare proprio essere il colpo di grazia alla validità delle dimissioni di Benedetto XVI e, di conseguenza, alla validità dell’elezione di Jorge Mario Bergoglio. “Benedetto è il papa e Bergoglio un cardinale-antipapa”, afferma Estefania Acosta, almeno finché qualche bravo canonista non dimostrerà il contrario.

COSA E’ AVVENUTO SECONDO LA GIURISTA.

Il quadro completo di ciò che ha fatto Benedetto è stato spiegato dalla giurista Estefania Acosta nel suo recente volume giuridico: “Il testo della Declaratio scritto da Ratzinger è stato preparato con cura, in modo che, sulle prime, non si notasse che Benedetto non si stava affatto dimettendo dall'incarico di Pontefice. Infatti, vediamo come nelle dichiarazioni successive alle sue dimissioni, Benedetto fornirà vari indizi affinché questa realtà possa essere scoperta attraverso un'attenta analisi del testo, che - non a caso - è pieno di errori di latino per attirare l’attenzione. Gli ulteriori indizi sono anche il fatto che Benedetto continua a vestire di bianco (giustificandosi con la frase apparentemente surreale che “non ha più talari nere nell’armadio” n.d.r.); poi ha voluto mantenere la residenza in Vaticano,  il nome, la benedizione apostolica e continua a ripetere insistentemente che “il papa è uno solo” senza MAI dichiarare quale dei due sia”. La chiave dell'invalidità delle dimissioni non risiede nel fatto che Benedetto sia stato "forzato". Benedetto ha agito liberamente nel senso che sapeva bene quello che stava facendo, sapeva che avrebbe continuato ad essere il Papa perché non si stava dimettendo dall’ESSERE il Papa (munus) ma semplicemente dichiarava di rinunciare al FARE il papa (ministerium) ovvero a svolgere (peraltro solo alcune) delle azioni pratiche che svolge il pontefice. E questo invalida le sue dimissioni, come vedremo, poiché “essere” e “fare” sono indivisibili per il papa”.

ATTENZIONE. Questa vicenda è un PUZZLE, come uno di quei giochi in cui bisogna “unire i puntini”. Bisogna mettersi con calma, aprire la mente e ordinare i pezzi alla luce della logica e del diritto canonico, altrimenti ci sarà sempre qualcosa che sfugge, qualche obiezione irrisolta che rimane a ronzare in mente rendendo inaccettabile una situazione che è effettivamente pazzesca, anche perché ognuno di noi è stato sottoposto al martellamento psicologico da parte dei media mainstream che hanno imposto la figura di Bergoglio come papa facendo passare in cavalleria questioni sostanziali.

APPROFONDIMENTI:

Qui di seguito vi riportiamo tutti gli approfondimenti alle diverse questioni citate. Speriamo che qualcuno  possa offrire una spiegazione logica e alternativa A TUTTO, (ma 20 canonisti della Sacra Rota non ci hanno nemmeno risposto a domande elementari) oppure che si faccia rapidamente qualcosa, per esempio convocare un SINODO.

Bergoglio si è appena augurato, in un’intervista a un grande quotidiano, che “questa crisi non venga sprecata, ma che venga utilizzata per creare un nuovo ordine mondiale”. Non proprio rassicurante, anche per i laici, dato che il ruolo politico del “papa Francesco” ha rilevanza mondiale in dinamiche sovranazionali ancora poco chiare.

Se Bergoglio non è il legittimo papa, non lo sarà più nessuno dopo di lui e la Chiesa cattolica sarà finita per sempre perché il prossimo conclave avrà una maggioranza di 80 cardinali invalidi, in quanto nominati da un antipapa.

Quindi, che ne dite, varrebbe la pena approfondire la questione?

I “PUNTINI” DA UNIRE

1) Perché secondo Acosta la Declaratio è stata scritta volontariamente invalida: QUI 

2)    Nell’ultima intervista al Corriere, Benedetto ripete “il papa è solo uno”, ma non dice quale. Tutti i suoi virgolettati interpretabili diversamente dal mainstream: QUI

3)     Tutti gli indizi per ricostruire il puzzle ponendosi 50 domande: QUI

4)    I dubbi espressi anche dell’avvocato Taormina: QUI

5)    Benedetto è poco lucido, approssimativo, modernista o, piuttosto, ha organizzato un grande Reset?  QUI

6)    Come i media hanno tentato, invano, di far dire a Benedetto la frase-chiave “il papa è Francesco”: QUI

7)    “Un atto papale dubbio e incerto è valido?”  20 canonisti della Sacra Rota non rispondono: QUI

8)    La perfetta ambiguità “scientifica” di un testo di Benedetto, secondo un uso che si ripete da 8 anni. QUI

Beppe ci ricasca: torna alle origini e firma un nuovo editto sull’informazione

Perché Benedetto XVI continua a indossare la veste bianca, pur senza fascia e mantella. Plausibilmente perché non si è mai dimesso da papa. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 21 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Oggi Bergoglio ha dichiarato che “bisogna seminare semi di amore e che i LEGALISMI CLERICALI sono terreno arido”. Colpisce un po’ che questo invito arrivi proprio nei giorni in cui vengono messe in dubbio - a livello giuridico - le dimissioni di Ratzinger e pertanto la sua elezione come “papa Francesco”. Peccando di una certa aridità, o confidando nel fatto che, come ripete la Chiesa da 2000 anni, “Veritas summa charitas est”, cerchiamo di esaminare una vicenda in cui parecchi conti non tornano. Il mondo non si è mai spiegato perché Benedetto XVI non abbia abbandonato la veste bianca dopo la sua Declaratio di dimissioni - ormai presunte (visto che nessuno risponde alle numerose contestazioni giuridiche) – in cui annunciava una rinuncia al soglio di Pietro che non venne mai ratificata, QUI e che, peraltro, pare fosse costruita in modo invalido. Un’ipotesi potrebbe essere quella per cui lui continua a vestire di bianco perché non si è mai dimesso. Ha rinunciato solamente a due accessori della veste da papa, la mantella e la fascia, come simbolo della rinuncia fattuale a due funzioni pratiche: governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo, come scritto nella Declaratio. Per il resto mantiene la veste è bianca perché continua ad essere l’unico legittimo papa.

DETTAGLI. La questione della veste bianca ha destato anche la pubblica stigmatizzazione, in dicembre, del Card. Pell: “Un papa dimissionario dovrebbe essere reinserito nel collegio cardinalizio in modo da essere conosciuto come «Cardinale X, papa emerito» NON DOVREBBE INVECE VESTIRE DI BIANCO e non dovrebbe insegnare pubblicamente". Fino ad oggi, l’unica spiegazione ufficiale per questa “mise” è stata quella che Ratzinger stesso ha inviato, nel 2014, al vaticanista Andrea Tornielli (in seguito capo ufficio stampa vaticano nominato da Bergoglio).  “Nella lettera che ci ha inviato – riporta Tornielli - il Papa emerito risponde anche alle domande sul significato dell'abito bianco e del nome papale. «Il mantenimento dell’abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti. Del resto porto l’abito bianco in modo chiaramente distinto da quello del Papa»”. Cosa pensereste? Dato che il titolo dell’articolo è: “Ratzinger: la mia rinuncia è valida, assurdo fare speculazioni”, per quanto surreale la risposta, si è portati, sulle prime, a immaginare che, dopo l’abdicazione, Benedetto non si fosse rimesso la veste NERA bordata di rosso da cardinale perché nel suo armadio aveva solo abiti bianchi. Eppure, leggendo nel libro intervista di Peter Seewald “Ein Leben” del 2016, Ratzinger racconta di come la sua scelta fosse stata programmata da vari mesi e, come da sue dichiarazioni del 2016 inviate al Corriere della Sera, pensò di scrivere la Declaratio ben due settimane prima. Possibile che con tutto questo anticipo Benedetto non si fosse provveduto di una veste nera da cardinale? Non aveva conservato nessuna talare nera dei vecchi tempi? Non c’era un fornitore ecclesiastico che potesse noleggiarne una al Papa? E negli  otto anni successivi non ha trovato un sarto all’altezza? Allora una domanda da porre a S.E. il Card. Pell è lecita: “Possibile che Benedetto XVI continui a vestire di bianco proprio perché NON E’ DIMISSIONARIO, in quanto non si è mai dimesso validamente?”. Su questo tema sono stati scritti diversi libri: Allora, proviamo a cambiare prospettiva e a fare un’ipotesi: Benedetto ha rinunciato a fascia e mantelletta solo perché ha rinunciato fattualmente a due funzioni pratiche del suo incarico, ma resta sempre il papa e pertanto la veste rimane bianca. Di fatto è vero che lui ha rinunciato al ministero, ma inteso come ministerium (esercizio).  Infatti lui è inattivo da otto anni dal punto di vista pratico-amministrativo, come negarlo?

ATTENZIONE: Come già spiegato in passato, il diritto canonico divide il ruolo del papa in munus (incarico divino) e ministerium (esercizio pratico), ma in italiano entrambi sono tradotti con la parola ministero. Quindi, che Benedetto abbia rinunciato a uno dei due “ministero” (il ministerium, non il munus)  e che non amministri praticamente la Chiesa, né annunci il Vangelo (funzioni pratiche) è assodato. Ecco perché scrive a  Tornielli:  «Non c'è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino. Le speculazioni in proposito sono semplicemente assurde». No, infatti, non c'è dubbio. E’ tuttavia diverso dall’interpretare questa frase come: “La mia Declaratio è stata un atto ratificato con piena validità giuridica di rinuncia al ministero inteso come munus, e quindi era una rinuncia al papato”. Esempio: immaginiamo un Tizio a cui abbiano rubato l’automobile. Se egli dice: “Non c’è alcun dubbio che io sia oggi appiedato” è vero, ma questo non può essere interpretato tout court come: “Ho venduto la macchina, e per questo sono appiedato”. Nel primo caso, un accidente subìto conduce Tizio a non poter usare la macchina, nel secondo caso è un atto giuridicamente valido da lui firmato a farlo restare a piedi. E’ vero che Ratzinger ha voluto liberamente  rinunciare all’esercizio pratico, come dice egli stesso, ma questo non comporta il fatto che lui lo abbia ratificato, né tantomeno che questo lo abbia fatto dimettere da papa. IN SINTESI: una spiegazione logica per cui Benedetto XVI  oggi continua a vestire di bianco, con una talare priva di due accessori, potrebbe essere perché lui ha fattualmente rinunciato a due funzioni dell’esercizio pratico , ma  SENZA DIMETTERSI DA PAPA. E’ prassi comune dei prelati che quando stanno al chiuso non indossino mantelletta e fascia. Non a caso il papa emerito Ratzinger indossa la talare menomata perché sta sempre al chiuso, pur restando  sempre il papa. “Una soluzione pratica”, come, appunto, sottolinea. Spiegazioni alternative, ne abbiamo?

L'errore storico di Benedetto XVI si rivela un messaggio: oggi c'è il papa e l'antipapa. Un solo papa si dimise nel primo millennio del papato come Ratzinger: Benedetto VIII. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 27 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Dopo cinque anni abbiamo compreso un messaggio velato, ma inequivocabile, di papa Benedetto XVI. Avevamo già scritto dei suoi  strani, inspiegabili errori di latino nella Declaratio di “dimissioni” dell’11 febbraio 2013, QUI , con tanto di refuso nell’orario (ore 29.00). Errori poi corretti di fronte al mondo intero da illustri filologi, ma con Ratzinger che tre anni dopo dice di essere un ottimo latinista  sul Corriere della Sera. Incongruenze troppo gravi tanto che secondo vari studiosi, fra teologi, latinisti e giuristi QUI e QUI , si tratta di ERRORI NON CASUALI, ma fatti apposta per convogliare l’attenzione su dimissioni invalide, peraltro solo annunciate e mai ratificate. Tuttavia, se gli errori di latino lasciano ancora qualche margine di incertezza, l’errore in storia pare proprio di no. Il 22 febbraio, lo scrivente, sfogliando “Ultime conversazioni” (Garzanti 2016) libro-intervista di Peter Seewald a Benedetto XVI, nota alcune righe. Il giornalista chiede al Santo Padre:  “Con lei, per la prima volta nella storia della Chiesa, un pontefice nel pieno ed effettivo esercizio delle sue funzioni si è dimesso dal suo “ufficio”. C’è stato un conflitto interiore per la decisione?”. Benedetto risponde, sibillino: “Non è così semplice, naturalmente. Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio ciò ha costituito un’eccezione”. Incuriositi dalla risposta, siamo andati a controllare nei testi di storia della Chiesa...

ERRORE GRAVISSIMO! Infatti, negli ultimi “mille anni” (tornando indietro fino al 1016) ci sono stati ben sei papi che si sono dimessi (nel 1406, 1298, 1048, 1046, 1045, 1044) e “nel primo millennio” del papato (dal 33 fino al 1033) ce ne sono stati altri sei (negli anni 235, 304, 366, 537, 964  e 1008). Quindi, l’affermazione di Ratzinger “Nessun papa si è dimesso per mille anni” non ha alcun senso. Almeno, se intendiamo “dimettersi” come “dimettersi dall’ufficio papale (munus)”, abbandonando legalmente il trono di Pietro. Infatti, Benedetto si era invece deciso per un tipo tutto particolare di “dimissioni” e lo specifica subito a Seewald: “Non è così semplice, naturalmente”. Ovvero: nella natura delle cose, l’ufficio papale non è ”semplice”, cioè non è costituito da un elemento unico e inseparabile. Nel 1983, Giovanni Paolo II presumibilmente insieme al card. Ratzinger (dato che era già da due anni prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede  e molto vicino a Wojtyla), specificarono che l’ufficio ecclesiastico del papa era costituito dal  munus (incarico divino) che conteneva il ministerium (esercizio pratico). Prima, per dimettersi bastava dire: “rinuncio all’ufficio”. Dall’83 in poi, bisogna invece rinunciare al munus per far decadere, ovviamente, anche il ministerium.  E Ratzinger ha dichiarato di voler fare l'OPPOSTO: nella Declaratio di dimissioni dell’11 febbraio 2013, riccamente corredata di refusi ed errori di latino, annunciò che avrebbe rinunciato, addì 28 febbraio, a decorrere dalle ore 20.00, al ministerium, solo all’esercizio pratico del potere, (a fare il papa, quindi), ma non al munus (l’ufficio, appunto, non all’essere il papa), QUI . E peraltro, alle 20.00, non firmò né dichiarò nulla in proposito per ratificare il suo annuncio. Che Ratzinger, oggi, resti ancora l’unico papa (“Il papa è uno solo” ripete da otto anni), ce lo spiega lui stesso con un dotto e preciso riferimento storico. Quando dice a  Seewald “nel primo millennio (del papato) ciò ha costituito un’eccezione”, ha ragione. Dal 33 al 1033, c’è stata davvero “un’eccezione” in tal senso: un papa che, oppresso da un antipapa, per qualche tempo dovette rinunciare a fare il papa, rinunciando cioè al ministerium, senza perdere il munus, ovvero restando il papa. Noi avevamo pensato prima a papa Silverio, (480-537), ma il pontefice più significativo ci viene proposto dall’esperto latinista frà Alexis Bugnolo e – sorpresa - E' UN ALTRO BENEDETTO, l’VIII, nato Teofilatto dei conti di Tuscolo. Nel 1012, quindi, come dice Ratzinger - non “1000 anni prima”, ma nel “primo millennio” della Chiesa, - secondo l’accortissimo uso delle sue parole nel riferimento temporale - Benedetto VIII di Tuscolo, appena eletto papa, fu spodestato dall’antipapa Gregorio VI e costretto a fuggire da Roma lasciando per alcuni mesi il ministerium nelle mani dell’avversario, finché l’imperatore Enrico II fece giustizia cacciando l’antipapa Gregorio. Benedetto VIII rimase SEMPRE il papa. In sostanza, Benedetto XVI ci sta dicendo: nel 2013 io mi sono “dimesso” proprio come fece il papa Benedetto VIII, smettendo per un periodo di esercitare il potere pratico, a causa dell’antipapa. Ma così come Benedetto VIII restò sempre papa, anche io lo sono ancora. Quindi, se oggi qualcun altro esercita il potere pratico al mio posto e si proclama papa, è un … ? Ditelo voi.

Si è dimesso da solo, nessuno lo ha costretto. Ma va? Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista l'1 Marzo 2021. Ecco la scoperta del giorno: l’1 marzo 2021 scopriamo dal Corriere della Sera che Ratzinger si è dimesso di sua volontà. Ci volevano due pagine di colloquio con l’Emerito per farcelo sapere una volta di più, due pagine firmate dal noto collega editorialista politico ed editorialista di “cose” vaticane. Ineffabili le affermazioni: “non ci sono due papi, ce n’è uno solo”. Davvero? Non sembrava (tono ironico…). E ancora dice Ratzinger: ” fu una decisione sofferta, ma credo di aver fatto bene. La mia coscienza è a posto”. Assolutamente d’accordo. Ma le domande sono altre. Prima di tutto quale utilità hanno articoli di questo genere che nell’insieme rimestano temi già visti e sentiti. Certo che Ratzinger si è dimesso di sua volontà e senza dietrologie o complotti. Se non si fosse dimesso oggi sarebbe il Papa regnante, a 93 anni, 94 ad aprile. Ma davvero qualcuno sano di mente pensa che si possa governare una struttura complessa a quell’età? Certamente per chi crede è sempre all’opera l’assistenza dello Spirito Santo, tuttavia ci saranno pure dei limiti a una “certa età”. O no? O la realtà non la dobbiamo chiamare per nome? Eppure nell’articolo le condizioni fisiche vengono descritte bene. Stupisce l’incapacità di non voler vedere a tutti i costi una realtà sotto gli occhi di tutti e cioè che le strutture complesse hanno bisogno di leaders in forze, attivi, propositivi, capaci di viaggiare per il mondo cattolico di persona o in video per motivare i fedeli e tenere alta la fiamma spirituale. Il nodo vero, invece, nessuno lo affronta. E sarebbe una carenza piuttosto vistosa nel Diritto canonico, cioè decidersi finalmente a contemplare la figura del papa emerito, di un papa che decida di dimettersi. Non averlo fatto finora ha alimentato voci sui complotti dietro le dimissioni e ha avallato fiumi di parole sulla dicotomia tra due papi. Qui fa capolino un reale problema della Chiesa del Terzo Millennio: la scarsa capacità a chiamare per nome ed affrontare i problemi reali.

Dimissioni di Benedetto XVI, forti dubbi anche dall'avvocato Carlo Taormina. “Sarebbe necessario fare chiarezza nelle opportune sedi ecclesiastiche”. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 09 marzo 2021

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

L'avv. Carlo Taormina, giurista e professore ordinario di Procedura Penale all'Università di "Tor Vergata”, commenta la questione sollevata dal testo giuridico “Benedict XVI: pope emeritus?” dell’avvocatessa colombiana Estefania Acosta*. Il volume afferma, sulla pista già segnata da Antonio Socci nel 2018 con il libro-inchiesta “Il segreto di Benedetto XVI”, (Rizzoli), che l’unico papa è ancora e solo Ratzinger il quale, di fatto, non si è mai dimesso con la sua “Declaratio”, tanto da conservare nome, titolo, veste bianca, benedizione apostolica, residenza in Vaticano. Siccome “il papa è solo uno”, come ripete lo stesso Benedetto, il papa è ancora lui e, conseguentemente, Bergoglio è un antipapa. Rileva il prof. Taormina, (che già aveva espresso alcune perplessità sul pontificato di Francesco): “La situazione prospettata dall’avvocatessa Acosta - come da altri giornalisti e studiosi prima di lei –  e la collana di fatti ricostruita su Libero impongono sicuramente un’indagine più approfondita sui documenti e un confronto fra canonisti nelle opportune sedi ecclesiastiche. Sin dal momento della «scelta» (presunte dimissioni n.d.r.) fu affermato, presso le più accreditate posizioni curiali, che Ratzinger stava realizzando una situazione che, sul piano delle volontà Petrine, lo manteneva su quello che gli spettava (restare papa n.d.r.) , lasciando ad altri la mera materialità del potere (funzioni pratiche-“ministerium” n.d.r.)”. Come sostiene la tesi dell’avv. Acosta, oltre a essere “invalide le dimissioni”, quindi, è  soprattutto invalido il modo con cui taluni ecclesiastici hanno voluto interpretare come “DIMISSIONI DA PAPA”, una libera, consapevole (ma invalida) dichiarazione  di  “RINUNCIA DEL PAPA A DUE FUNZIONI PRATICHE”: un “inganno” studiato da Ratzinger per gabbare la “Mafia di San Gallo” (la lobby di cardinali modernisti a lui ostile), ma allo stesso tempo un auto-inganno dei modernisti che ha prodotto la loro abusiva appropriazione della sede di Pietro. Resta che quel documento, secondo Acosta e altri, letto come “dimissioni”, giuridicamente, non sta in piedi. Per semplificare, sarebbe come se l‘anziano proprietario di una villa dichiarasse: “Siccome comincio a soffrire il freddo, rinuncio ad andare nella mia villa nei mesi invernali". I suoi vicini interpretano quella dichiarazione come “abbandono della villa e rinuncia alla proprietà” e la occupano. Il mite e indifeso proprietario lascia fare, ma ogni tanto ricorda: il proprietario è uno solo (io), nell’attesa che qualcuno cacci gli abusivi. Benedetto avrebbe scelto, così, di non reagire, di non accusare apertamente Bergoglio di essere un antipapa: per questo usa un linguaggio velato, sottilmente logico, ma con cui ripete “il papa sono io” in attesa che il clero lo capisca e che prema il “bottone rosso” dichiarando l’invalidità delle sue presunte dimissioni e, conseguentemente, della chiesa di Bergoglio. Conferma l’avv. Taormina: “Colpisce, infatti, l’ambivalenza continua e studiata, nell’arco di otto anni, attribuita alle dichiarazioni di Ratzinger che, nella sostanza, pare ribadire sempre la stessa cosa, ovvero che il papa è lui, Benedetto, e non altri”. E’ assodato, in effetti, come gli unici pronunciamenti di Benedetto presentati dai media come inequivocabilmente a favore di un legittimo papa Francesco non siano mai fonte diretta e “certificata” di Ratzinger, ma sempre, immancabilmente  titoli di giornali, ricostruzioni giornalistiche su  “relata refero”, citazioni di altre persone che dicono di “aver sentito” quelle sue parole, o di “averle lette” in missive mai presentate in originale. Considerata la precisione chirurgica del linguaggio di Ratzinger, si renderebbe, a questo punto, indispensabile esaminare gli originali di tali documenti. “In un personaggio del rigore letterario e scientifico di Benedetto  – conferma l’avv. Taormina - una affermazione così tagliente (“il papa è solo uno” n.d.r.) non può che intendersi nel senso della volontà di lanciare un messaggio preciso ed ineludibile, per cui Bergoglio non è al posto suo”. E se “non è al posto suo”, Francesco è un antipapa, quindi finché non si chiarisce la questione nessun papa dopo di lui sarà il vero papa e la vera Chiesa cattolica sarebbe finita.   “Proprio le forzature della narrativa mainstream – continua Taormina - che vuole a tutti i costi far dichiarare a Benedetto XVI che il papa è Francesco, costituiscono un elemento che aggrava ulteriormente il quadro nel senso di rendere, viceversa, sempre più plausibile la ricostruzione del cosiddetto “Reset cattolico”. Del resto, questa stranissima situazione di contemporaneità dei due papi, ha accumulato una quantità di dubbi la cui risoluzione non è più differibile. Inoltre, l’accurato evitamento della questione - dimissioni da parte dei media e del Vaticano aggiunge un elemento che dovrebbe allarmare ancor più”. In sintesi: Ratzinger avrebbe scritto liberamente e consapevolmente una Dichiarazione per delegare le funzioni più faticose proprie del suo incarico (a cardinali o vescovi, presumibilmente) ma che, essendo invalida, di fatto NON rendeva la sede vacante. Sono stati altri a interpretare abusivamente come “valide dimissioni da papa” quel documento che non lo è, o che è troppo ambiguo per essere considerato valido. Si profilerebbe quindi la strada proposta da Sergio Russo e Rosanna Iacobacci nel libro “Cuori chiusi, cieli aperti”:  “Non c’è un papa da deporre, ma un cardinale (antipapa) da rimuovere” e, semmai, bisognerebbe finalmente scegliere uno, o più vicari, tra vescovi e cardinali, da affiancare al papa Benedetto per l’espletamento di due funzioni pratiche a cui lui voleva rinunciare: governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo. Alcuni lettori si perderanno un poco in tale questione, ma del resto, se, come si ipotizza, si tratta di un trucco sottile elaborato da uno dei più importanti intellettuali della contemporaneità, per evitare un golpe da parte di astuti e determinatissimi cardinali, come pretendere di capirlo su due piedi, a una prima lettura? Il lettore dovrà leggere e rileggere con calma per capire. Ecco perché fare chiarezza nelle sedi opportune sarebbe tanto di guadagnato per tutti. 

Articolo su Libero (cartaceo) di sabato 11/3/2021. Un libro rimette Ratzinger sul soglio. E’ appena uscito il primo testo giuridico che conferma: il papa è uno solo, Benedetto XVI, in quanto la Declaratio di dimissioni è stata da lui costruita in modo giuridicamente invalido. L’avvocatessa colombiana Estefania Acosta, autrice di “Benedict XVI: pope emeritus?“ spiega come la Declaratio sia stata preparata con cura da Ratzinger in modo che, sulle prime, non si notasse che non si stava affatto dimettendo. Gli errori di latino avrebbero poi attirato l’attenzione anche sul meccanismo giuridico auto-invalidante. Non essendo giuristi dobbiamo rimanere ai dati di cronaca oggettivi, come gli ambigui comportamenti di Benedetto stigmatizzati dal card. Pell: egli veste ancora di bianco (giustificandosi col dire che “non ha più talari nere nell’armadio”), risiede in Vaticano, mantiene il nome, la benedizione apostolica e, da otto anni, ripete - sibillino - che “il papa è uno solo”, senza mai specificare quale. Ci hanno provato a farglielo dire, nel 2019, quando Vatican News titolò: “Per Benedetto il papa è uno, Francesco”, citando (un giorno prima) un’intervista di Massimo Franco sul Corriere. Ma il virgolettato era di Franco, non di Benedetto. Una svista? La Acosta, nelle sue 300 pagine, analizza anche altre questioni, come le dichiarazioni del cardinale Danneels, primate del Belgio e membro della “Mafia di San Gallo” che, nell’autobiografia andata a ruba e mai smentita dal Vaticano, dichiarava che la stessa lobby di cardinali modernisti mirava a far dimettere Ratzinger avendo come campione Bergoglio. Roba da scomunica automatica, secondo la costituzione Universi Dominici Gregis promanata da Wojtyla nel ’96. Ma per la Acosta, dirimente è solo la Declaratio: «Attenzione, le dimissioni non sono invalide perché Benedetto è stato "forzato": egli ha agito consapevolmente, sapeva che non si stava dimettendo dall’ESSERE il Papa (cedendo il munus petrino), ma semplicemente dichiarava di rinunciare al FARE il papa (il ministerium), a svolgerne - solo alcune - azioni pratiche. Ciò invalida le sue dimissioni, poiché munus e ministerium, per il papa, sono INDIVISIBILI, come conferma (pur in difesa di Bergoglio)  il canonista Mons. Sciacca. Si spiega così l’ultima battuta di Ratzinger al Corriere: “Otto anni fa ho compiuto la mia scelta in piena consapevolezza e ho la coscienza a posto”. Il mainstream non ha capito». Altro fatto strano: perché nelle versioni della Declaratio dal latino in italiano e altre lingue il Vaticano ha tradotto il munus sempre come ministerium? Perché essi sono indivisibili, o per celare la “trappola” di Benedetto? A “guadagnarci”, in entrambi i casi, è il Benedetto-stratega. Ancora più strano come la gravissima questione venga evitata in modo surreale non solo dai vescovi, ma anche dai media laici. Eppure, l’hanno già denunciata giornalisti, teologi, latinisti.  Ora c’è finalmente un testo giuridico: si apra il dibattito. Indifferenze, attacchi personali e accuse di complottismo, in reazione, avvalorerebbero la tesi per cui Benedetto, nel 2013, isolato e impotente, seguì tale strategia per lasciare che la “deep Church”, al servizio del mondialismo, si svelasse. “Ambiguo per non mentire”, avrebbe così mantenuto quanto da lui scritto nella Declaratio, anche se essa è giuridicamente invalida. Del resto, sotto attacco dall’interno, cosa avrebbe potuto fare per difendere la Chiesa? Solo usare la Logica e il Diritto canonico,  attendendo che i vescovi, “vedendo davvero” la Declaratio, uno ad uno, dicano semplicemente la verità: che l’unico papa è Benedetto. Il resto verrebbe da sé.

Il testo giuridico dell'avvocatessa Acosta: dimissioni rese invalide – apposta - da Benedetto XVI. “Il papa è uno ed è Benedetto, non Francesco”: la ricostruzione. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 03 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. AVVERTENZA: quanto segue, sulle prime, vi sembrerà una sorta di romanzo alla Dan Brown, oppure un guazzabuglio tecnico-giuridico. Se non siete lettori già prevenuti e ostili, che ci relegheranno subito fra i terrapiattisti, seguiteci con un po’ di apertura mentale. Ne vale davvero la pena. Da parte nostra cercheremo di semplificare all’estremo la questione, anche con esempi “terra-terra”. 

Un papa emerito davvero irritante…“Il papa è solo uno”, dice Ratzinger da otto anni, ma non spiega quale dei due sia. I media mainstream cercano di fargli dire a tutti i costi che il papa è Francesco, ma non ci riescono. Qui. Insomma, fa proprio venire i nervi questo “papa emerito”: continua a vestirsi di bianco, a fregiarsi del titolo di Pontifex pontificum, a impartire la benedizione apostolica, a scrivere libri, a rilasciare interviste, a intervenire su questioni morali e di vita ecclesiastica. In breve, continua fastidiosamente a comportarsi come se fosse rimasto papa,  sebbene in ritiro spirituale. E non ammette MAI che il solo papa è Francesco. Dice semplicemente e sibillinamente che di papa CE N’E’ SOLO UNO, come nell’ultima intervista al Corriere: Qui. Provocazioni capricciose e inutili, dunque, tanto per il gusto di mandare dallo psicanalista un miliardo di cattolici? Perfino il card. Pell si è accorto che Benedetto non può continuare con queste ambigue “stramberie”. Tuttavia, cerchiamo di ricordare chi era Ratzinger: per alcuni troppo tradizionalista, per altri cripto-modernista, ma umanamente tutti lo riconoscevano come uomo mite e umile, filosofo rigoroso, teologo sapiente. Ora, dunque, si sarebbe trasformato in un anziano stravagante, dispettoso e vanesio? Riflettiamoci.

La tesi choc, ma non troppo. C’è una sola ipotesi che fa quadrare tutti i conti e ve la riassumiamo secca secca: la chiave del mistero dei due papi è da ricercare nel modo strategico e intelligente con cui Benedetto ha scritto dimissioni appositamente invalide e in come si è comportato dopo le dimissioni. SCAVARE LI’! Concentratevi su questo: anche se, sulle prime, vi sembrerà un rompicapo, c’è una logica e la scopriremo con chi è del mestiere.

Il “movente”. Ma subito uscirà l’obiezione: perché Benedetto avrebbe dovuto architettare tutto questo? Magari, come sostengono in molti, perché assediato da una fronda interna (l’arcinota Mafia di San Gallo) e/o da pressioni internazionali, come quando Obama bloccò il codice Swift dei conti vaticani: qui. Secondo alcuni, la Chiesa cattolica “vecchio stile” era l’ultimo ostacolo a disegni mondialisti e sovranazionali volti a creare, oltre al resto, una nuova religione sincretista ed eco-massonica. Qui. Quindi, l’escamotage delle dimissioni invalide era l’unica cosa che Ratzinger, rimasto ormai solo e accerchiato, soverchiato da media ostili, potesse fare per salvare la Chiesa.

Da otto anni, col suo comportamento, Benedetto sta cercando di farci capire che il papa è LUI e SOLO LUI, con azioni e parole. Fantasie? Parliamone.

Esce il primo testo giuridico che conferma tutto. Questa tesi era stata in parte già avanzata da noi qui in un articolo dove ci si concentrava sugli strani errori di latino nella Declaratio di dimissioni di Ratzinger: servivano ad attirare l’attenzione su un documento scritto appositamente  invalido. Stavolta a confermare l’ipotesi esce il primo TESTO GIURIDICO dedicato alla questione: “Benedict XVI: Pope "Emeritus"?,  un volume di quasi 300 pagine  edito in inglese, spagnolo e portoghese, disponibile anche in ebook, opera dell’avvocatessa colombiana e già docente universitaria di diritto civile e commerciale Estefania Acosta qui.

Cosa conta davvero fra le varie questioni. Il libro affronta tecnicamente, tutte le obiezioni che sono state portate avanti fino ad oggi contro l’elezione di Bergoglio del 2013: dall’intervento della Mafia di San Gallo - con le clamorose dichiarazioni del card. Danneels - al possibile stato di scomunica di Bergoglio, fino alla sua ventilata appartenenza alla massoneria etc. etc. L’avvocato Acosta ne scarta parecchie, ne ridimensiona alcune e altre ancora le riconosce come vere, ma non dirimenti dal punto di vista giuridico. La presentazione del libro spiega COSA CONTA davvero per la Acosta: “Questo è il primo libro ad offrire, con rigore accademico e in modo sistematico, la prova canonica che Benedetto XVI non ha mai validamente rinunciato all'ufficio di Romano Pontefice per cui rimane l'unico e vero Papa della Chiesa cattolica, alla quale tutti i cattolici devono fedeltà e obbedienza sotto pena di scisma. In conseguenza di questa e di altre irregolarità precedenti e concomitanti all'elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio nel conclave del 2013, "Francesco" è davvero un anti-Papa, cioè occupa illegittimamente la Cattedra di Pietro e, quindi, riconoscerlo come Papa è, per lo meno, una oggettiva negazione della verità”.

Indagine su come sono  “costruite” le dimissioni. L’avvocato Acosta spiega la faccenda così: “Nel libro si dimostra come il testo della Declaratio scritto da Ratzinger sia stato preparato con cura, in modo che, sulle prime, non si notasse che Benedetto non si stava affatto dimettendo dall'incarico di Pontefice. Infatti, vediamo come nelle dichiarazioni successive alle sue dimissioni, Benedetto fornirà vari indizi affinché questa realtà possa essere scoperta attraverso un'attenta analisi del testo, che - non a caso - è pieno di errori di latino per attirare l’attenzione. Gli ulteriori indizi sono anche il fatto che Benedetto continua a vestire di bianco (giustificandosi con la frase surreale che “non ha più talari nere nell’armadio” n.d.r.); poi ha voluto mantenere la residenza in Vaticano,  il nome, la benedizione apostolica e continua a ripetere insistentemente che “il papa è uno solo” senza dichiarare quale dei due sia”...   (… battendo la mano sul bracciolo, come a dirci “Zucconi!”, n.d.r.). “Attenzione, – continua la Acosta - la chiave dell'invalidità delle dimissioni non risiede nel fatto che Benedetto sia stato "forzato". Benedetto ha agito liberamente nel senso che sapeva bene quello che stava facendo, sapeva che avrebbe continuato ad essere il Papa perché non si stava dimettendo dall’ESSERE il Papa (munus) ma semplicemente dichiarava di rinunciare al FARE il papa (ministerium) ovvero a svolgere (peraltro solo alcune) delle azioni pratiche che svolge il pontefice. E questo invalida le sue dimissioni, come vedremo, poiché “essere” e “fare” sono indivisibili per il papa. Per questo Ratzinger ha, coerentemente, appena dichiarato al Corriere della Sera: “Otto anni fa ho compiuto la mia scelta IN PIENA CONSAPEVOLEZZA E HO LA COSCIENZA A POSTO”. Tutto programmato, dunque, ma non nel senso in cui lo vogliono vedere i media conformisti.  Probabilmente, Benedetto ha seguito tale strategia per lasciare che la “deep Church”, come la chiama Mons. Viganò, si rivelasse per quella che è, e per le sue intenzioni. Ha adottato la tattica di Bergoglio, “aprendo processi e non occupando spazi”: lascia che le cose si evolvano da sole e sulla progressiva consapevolizzazione dei fedeli, non essendogli possibile proclamare autonomamente una verità che verrebbe zittita dai guardiani del politicamente corretto.

Il nodo-chiave giuridico evidenziato dalla Acosta. Il punto fondamentale è che non si può ESSERE papa SENZA ANCHE FARE COMPLETAMENTE il papa perché munus (essere) e ministerium (fare) sono indivisibili, cosa ribadita anche dal Segretario della Nunziatura apostolica Mons. Sciacca nel 2019, (n.d.r.). Ratzinger dichiara nelle sue dimissioni – che, siccome l’esercizio pratico (ministerium) che comporta ESSERE il papa (munus) gli è divenuto gravoso, allora lui rinuncia  A FARE alcune cose da papa(come “annunciare il Vangelo e governare la barca di Pietro”). Non gli è mai pesato ESSERE il papa. Gli pesavano solo alcune delle cose pratiche che fa il papa. Ma questa sua dichiarazione NON comporta che egli NON SIA PIU’ il papa. Siccome Munus e ministerium sono indivisibili, per non essere papa, non deve nemmeno fare niente da papa. Capite? Se il papa vuol dimettersi non può tenere il munus (l’ESSERE) e rinunciare solo alle cose gravose del ministerium (il FARE). Troppo comodo. Per questo le dimissioni di Ratzinger  sono abilmente e consapevolmente costruite come un NONSENSE GIURIDICO. Quindi Benedetto NON SI E’ MAI DIMESSO perché le dimissioni sono INVALIDE e il papa E’ ANCORA LUI, e SOLO LUI dato che, come continuano a ripetere tutti: il papa E’– SOLO - UNO”. E infatti, a riprova, Benedetto XVI continua “fastidiosamente” a vestirsi di bianco, a firmarsi Pontifex pontificum, etc. Il card. Pell protesta per la sua condotta e i media mainstream tentano di metterci una pezza, come sopra.

Una metafora banale. Vi gira la testa? Comprensibile, ma proviamo con un esempio terra-terra, per non stressarci troppo. Immaginiamo un tizio di nome  Carlo che dice: “Sapete: le cose da fare che comporta ESSERE IL MARITO di Lucia mi sono diventate molto gravose, per cui dichiaro di rinunciare a farle, ergo non SONO più il marito di Lucia”. Questa frase non autorizza Carlo a non ESSERE  più il marito di Lucia anche se non FA più alcune cose da marito, le più gravose. Finché non si fa un divorzio legale con la perdita di tutti i diritti e doveri maritali,  Carlo è marito di Lucia e la stessa non può sposarsi con Franco il suo nuovo amante. Se Franco dichiara di essere legittimo marito di Lucia, senza che il divorzio con Carlo sia avvenuto, Franco mente ed è perseguibile per legge. E’ sottile, ma provatevi ad andare in tribunale con vostra moglie e a dichiararvi già divorziati come propone Carlo: vediamo cosa vi risponde il giudice.

Conclusioni. In soldoni, Ratzinger, non ha "sbagliato casualmente" a scrivere le dimissioni perché queste sono costruite secondo una logica giuridica non casuale;  lui continua coerentemente a essere il papa e a farlo “a mezzo servizio”, cosa legalmente impossibile. Quindi se lui dice che il papa è uno, implicitamente ci dice che le sue dimissioni sono invalide e che è stato costretto a questo escamotage. Adesso, al di là dell’aspetto tecnico, dove ci si può anche smarrire un attimo se non si è giuristi, lo scenario tratteggiato, per quanto incredibile, fa sì  che tutti i pezzi del puzzle trovino il loro incastro e infatti, il mite Benedetto – unico Vicario del Logos incarnato rimasto in terra - a parte velare il suo linguaggio, ha sempre detto la verità, comportandosi coerentemente con la sua dichiarazione e col suo stile di uomo e di religioso. Un trucco? No. Del resto, doveva pur fare, o no, qualcosa per difendere la Chiesa da chi lo pressava per mandarlo via? Colpa degli “altri” se, accecati dalla smania di potere, non si sono accorti che la Declaratio non era giuridicamente valida e costituisce, oggi, per loro una sorta di bomba atomica a orologeria. Conclude Acosta: “Ratzinger è ambiguo per non mentire, sapendo che in certi casi e a certe condizioni l'ambiguità è moralmente giustificata. Ecco perché non risponde mai chiaramente, ecco perché le sue risposte sono enigmatiche, ecco perché le sue "dimissioni" sono altrettanto "codificate": sembrava che avesse rassegnato le dimissioni dall’essere il papa ma in realtà, quello che fa è "rinunciare" ad alcune funzioni pratiche che secondo lui corrispondono al papa. E quella "rinuncia" frazionaria, incompleta o parziale non è valida perché contrasta con la legge divina: va contro l'istituzione del Papato che poggia su un solo capo, cosa che Gesù ha fatto scegliendo come papa solo Pietro, e va contro la pienezza dei poteri di cui, per diritto divino, gode il pontificato”. Adesso vediamo se qualcuno dei conservatori raccoglierà l’input, magari anche  recedendo (con un pizzico di buona volontà) da qualche granitica posizione e rischiando qualcosa, e vediamo se i modernisti bergogliani sapranno rispondere a tono e smontare questa ricostruzione. Probabilmente arriveranno le solite accuse sprezzanti di complottismo, i muri di indifferenza, gli attacchi personali, o magari risposte inutili del tipo: “Il papa è il papa”. Purtroppo, proprio questo è il dubbio. Tali reazioni sarebbero ancora più controproducenti rispetto ai già pesanti, ultimi autogol del pensiero mainstream, tutto dalla parte di Bergoglio. Non c’è bisogno di attaccare, noi siamo aperti. Vi sia un dibattito e vinca il migliore su base tecnico-giuridica, purché lo scambio sia fra persone corrette, lucide, intellettualmente oneste e interessate alla Verità.

P.S. Copiamo integralmente il testo della Declaratio in latino e poi in italiano. Attenzione, come già segnalato nello scorso articolo linkato all’inizio, il Vaticano ha tradotto nelle lingue, compreso l’italiano, la parola munus sempre con ministero. Confrontate con la versione latina. A voler pensare bene, perché per il Papa, munus e ministerium sono indivisibili. A pensar male, per tentare di nascondere il meccanismo giuridico innescato da Benedetto. Ma in entrambi i casi “a guadagnarci” è lui.  

Fratres carissimi Versione originale latina di Benedetto XVI: Qui.

Fratres carissimi. Non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad MUNUS Petrinum aeque administrandum. Bene conscius sum hoc MUNUS  secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo exsequi debere, sed non minus patiendo et orando. Attamen in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam. Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me MINISTERIO Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso renuntiare ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse. Fratres carissimi, ex toto corde gratias ago vobis pro omni amore et labore, quo mecum pondus ministerii mei portastis et veniam peto pro omnibus defectibus meis. Nunc autem Sanctam Dei Ecclesiam curae Summi eius Pastoris, Domini nostri Iesu Christi confidimus sanctamque eius Matrem Mariam imploramus, ut patribus Cardinalibus in eligendo novo Summo Pontifice materna sua bonitate assistat. Quod ad me attinet etiam in futuro vita orationi dedicata Sanctae Ecclesiae Dei toto ex corde servire velim.

Traduzione italiana, proposta dal sito ufficiale vaticano.

Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare  in modo adeguato il MINISTERO (Munus!) petrino.  Sono ben consapevole che questo ministero (munus!), per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al MINISTERO di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Traduzione inglese proposta dal sito ufficiale vaticano.

Dear Brothers, I have convoked you to this Consistory, not only for the three canonizations, but also to communicate to you a decision of great importance for the life of the Church. After having repeatedly examined my conscience before God, I have come to the certainty that my strengths, due to an advanced age, are no longer suited to an adequate exercise of the Petrine MINISTRY (Munus!). I am well aware that this ministry, (munus!) due to its essential spiritual nature, must be carried out not only with words and deeds, but no less with prayer and suffering. However, in today’s world, subject to so many rapid changes and shaken by questions of deep relevance for the life of faith, in order to govern the barque of Saint Peter and proclaim the Gospel, both strength of mind and body are necessary, strength which in the last few months, has deteriorated in me to the extent that I have had to recognize my incapacity to adequately fulfill the MINISTRY   entrusted to me. For this reason, and well aware of the seriousness of this act, with full freedom I declare that I renounce the ministry of Bishop of Rome, Successor of Saint Peter, entrusted to me by the Cardinals on 19 April 2005, in such a way, that as from 28 February 2013, at 20:00 hours, the See of Rome, the See of Saint Peter, will be vacant and a Conclave to elect the new Supreme Pontiff will have to be convoked by those whose competence it is. Dear Brothers, I thank you most sincerely for all the love and work with which you have supported me in my ministry and I ask pardon for all my defects.  And now, let us entrust the Holy Church to the care of Our Supreme Pastor, Our Lord Jesus Christ, and implore his holy Mother Mary, so that she may assist the Cardinal Fathers with her maternal solicitude, in electing a new Supreme Pontiff. With regard to myself, I wish to also devotedly serve the Holy Church of God in the future through a life dedicated to prayer.

Benedetto XVI, unico vero Papa e il “Reset cattolico”: 50 domande per capire la tesi. Andrea Cionci Libero Quotidiano l'08 marzo 2021. Se le dimissioni fossero riconosciute invalide, la chiesa di Bergoglio sarebbe annullata d'un tratto.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Cari Lettori, dopo Libero e il quotidiano “La Verità”, altre testate italiane e straniere stanno riprendendo la notizia circa la pubblicazione del testo giuridico dell’avvocatessa Estefania Acosta che afferma con certezza nel libro appena uscito “Benedict XVI: pope emeritus?” come l’unico vero papa sia Benedetto XVI. Qui l’approfondimento: Per stimolare un necessario dibattito Vi offriamo una griglia di domande per comporre un quadro di fatti oggettivi e verificare se quanto ricostruito dalla giurista colombiana, come da altri in passato (fra giornalisti, teologi e latinisti), possa essere plausibile o, quantomeno, degno di un’analisi approfondita.   

La tesi sostenuta: il  “Reset cattolico” predisposto da Benedetto XVI. Nel 2013, papa Benedetto XVI,  ormai isolato e pressato a dimettersi da fronde interne (Mafia di San Gallo) e da poteri mondialisti esterni, preparò con cura una Declaratio (riportiamo in fondo i testi) in modo che, sulle prime, sembrasse che egli si stesse dimettendo dall'incarico di Pontefice. (Da nostra verifica, il documento si chiama solo “Dichiarazione”, non “Dichiarazione di dimissioni”, o, meglio “Renuntiatio”). Infatti, Ratzinger scrive che, poiché l’”esercizio” del Munus (la carica di origine divina) gli è diventato faticoso, “dichiara di rinunciare” solo ad alcune delle funzioni pratiche (Ministerium), le più gravose. Ma secondo il diritto canonico - e solo per il papa - Munus e Ministerium sono indivisibili. Per fare un esempio facile, sarebbe come se un uomo sposato affermasse: “Siccome alcune cose da fare che comporta l’ESSERE IL MARITO di Lucia mi sono diventate molto gravose, dichiaro di rinunciare a farle, ergo non SONO più il marito di Lucia”. (Naturalmente, lui resta marito finché non divorzia legalmente rinunciando esplicitamente a ESSERE suo marito). Siccome il papa può essere uno solo, come certificato da tutti, il papa è quindi, solo Benedetto e Francesco è un antipapa. Nelle dichiarazioni e nei comportamenti successivi alle “dimissioni”, Ratzinger fornirà vari indizi affinché questa realtà possa essere scoperta attraverso un'attenta analisi della Declaratio, che - non a caso - è piena di errori grammaticali di latino per attirare l’attenzione. Gli ulteriori indizi sono anche il fatto che Benedetto continua a vestire di bianco, a mantenere la residenza in Vaticano,  il nome, la benedizione apostolica – fatti recentemente stigmatizzati dal card. Pell - e continua a ripetere insistentemente che “il papa è uno solo” senza mai dichiarare, in otto anni, quale dei due sia. Secondo la ricostruzione della giurista, l’unica difesa che Ratzinger, costretto a farsi da parte, poteva mettere in pratica era usare con intelligenza il Diritto canonico. In tal modo avrebbe fornito ai veri cattolici un “bottone rosso” con cui, al momento opportuno, annullare, insieme all’antipapa, tutta la "falsa chiesa", ma non prima che essa si fosse svelata al mondo. Un sistema, dunque, che presupponesse una lenta consapevolizzazione aspettando il conseguente intervento diretto e salvifico dei cattolici e del clero. Un sistema che sfruttasse a proprio  favore la cieca bramosia dei nemici di Benedetto (che non si sarebbero accorti dell’invalidità di ciò che loro interpretavano come dimissioni) lasciando che si tradissero da soli nel corso degli anni. Una strategia che, allo stesso tempo, consentisse a Ratzinger di non mentire mai, di non peccare, di essere coerente, mite e umile, ma autentico. Un sistema completamente risolutivo che comportasse la “combustione” di tutta la parte modernista della Chiesa. Invalide le dimissioni di Benedetto, infatti, invalido Bergoglio e tutti i suoi cambiamenti dottrinali, tutte le nomine degli 80 cardinali elettori modernisti che, ormai in maggioranza, blinderebbero il prossimo conclave piazzando un altro antipapa sul trono di Pietro. Basterebbe così ai vescovi riconoscere l’invalidità delle dimissioni di papa Benedetto dando il via, appunto, a un grande, purificatorio “Reset cattolico”. Fantapolitica? Ragioniamo insieme e cerchiamo di capire. Innanzitutto…

1) Pensate che - a prescindere - una tesi di tale gravità meriterebbe di essere smentita pubblicamente dal Vaticano, dopo un’accurata inchiesta presso le sedi ecclesiastiche opportune?

2) Credete che, riordinando logicamente i fatti, in genere, si possa fare luce su questioni intricate e confuse?

3) Come mai i media generalisti non affrontano mai la questione delle dubbie dimissioni e invece danno grande enfasi a presunti endorsement che Benedetto avrebbe espresso verso Francesco? Perché sono sempre gli stessi giornali pro-Bergoglio a poter intervistare Benedetto?

4) Pensate che, se fosse vera l’ipotesi, si potrebbero meglio comprendere e collocare anche altre questioni di politica internazionale e di attualità?

Sull’oggettiva ambiguità di Benedetto

5) In otto anni, ci sono mai state dichiarazioni esplicite e “certificate” di Benedetto sul fatto che il solo e unico papa sia Francesco?

6) Se no, (come abbiamo dimostrato qui: ) per quale motivo Benedetto non ha mai concesso a 1.285.000.000 cattolici questa semplicissima dichiarazione, nell’arco di otto anni, per tranquillizzarli?

7) Se Ratzinger fosse stato un “neo-modernista sodale di Bergoglio”, tanto da “avergli preparato il terreno”, come ventilato da alcuni, perché fa desiderare così tanto la parola definitiva “il papa è Francesco”, continuando a gettare ombre sul suo legittimo successore?

8) E’ credibile che Benedetto continui a ripetere “il papa è uno” senza mai specificare quale, solo per il “gusto del dispetto” e che non preveda gli effetti destabilizzanti delle sue dichiarazioni?

9) Se Benedetto non fosse lucido, come avrebbe potuto scrivere libri e rilasciare interviste fino a poco tempo fa e, soprattutto, conservare per otto anni quella che pare una “perfetta, logica ambiguità”?

10) Ad esempio, quando Benedetto, oltre a “il papa è solo uno”, dichiara al Corriere: “Alcuni miei amici un po’ “fanatici” sono ancora arrabbiati, non hanno voluto accettare la mia SCELTA” equivale forse a dire:  “I miei fan sbagliano a dire che io sono il vero papa e/o che ho fatto male a dimettermi”? Se fosse così, perché allora Benedetto non rimprovera esplicitamente i suoi fan per le loro gravi e peccaminose affermazioni? Perché, nonostante il titolo scritto dal Corriere, nel virgolettato di Benedetto non compare mai la parola “rinuncia” o “dimissioni”, ma solo “scelta”? Qui:

11) La prima frase potrebbe, quindi, essere interpretata anche nel senso: “alcuni miei fan sono arrabbiati per la mia SCELTA che è parsa loro come dimissioni, anche se non hanno capito che non mi sono affatto dimesso e stavo preparando il Grande Reset Cattolico”?

12) Benedetto prosegue: “Penso alle teorie cospirative che l’hanno seguita: chi ha detto che è stato per colpa dello scandalo di Vatileaks, chi di un complotto della lobby gay, chi del caso del teologo conservatore lefebvriano Richard Williamson. Non vogliono credere a una SCELTA compiuta consapevolmente”. Come mai riporta questi attori raramente citati, se i commentatori parlano piuttosto, da vari anni e insistentemente, soprattutto di “Mafia di San Gallo” e massoneria internazionale?

13) La sua frase potrebbe essere interpretata, quindi, come una “affermazione attraverso la negazione di un oggetto fuori tema”? (Esempio: la Mamma chiede a Luigino se ha rubato la marmellata. E lui risponde: “Non ho rubato né il pane, né il burro”).

14) Quindi, la frase di Benedetto potrebbe essere letta come “in effetti mi sono dimesso proprio per le pressioni da parte della Mafia di San Gallo e della Massoneria internazionale” (associazione storicamente anticattolica che da varie logge internazionali ha tributato a Bergoglio circa 70 lettere di apprezzamento)?

15) Secondo voi, la frase di Benedetto: “Ho fatto la mia scelta otto anni fa in piena consapevolezza e ho la coscienza a posto” esclude un possibile sottotesto del tipo “sono sereno perché non mi sono mai dimesso e, aspettando la scoperta della verità, ho consapevolmente  preparato il Reset di tutti i nemici della vera Chiesa”?

16) Viceversa, se non ci fosse questo sottotesto, Ratzinger come potrebbe dichiarare candidamente al Corriere: “Ho la coscienza a posto”,  visti tutti i problemi che, con le sue ambiguità, avrebbe procurato all’unico, vero pontefice, Francesco?

17) Quante probabilità matematiche ci sono quindi che, in otto anni, in ogni sua dichiarazione diretta, Benedetto abbia mantenuto sempre una perfetta e coerente reversibilità “double face” del significato delle sue parole, interpretabili, a una più attenta lettura, ancor meglio a tratti, come l”“unico papa sono io”?

18) E se volessimo considerare Ratzinger debole, confuso, o semi-modernista, ha mai fatto, al contrario, una dichiarazione che possa smentire del tutto l’ipotesi circa le sue “dimissioni” appositamente invalide?

19) Tale presunta comunicazione velata e indiretta, sarebbe compatibile anche con il linguaggio giuridico auto-invalidante ravvisato nella Declaratio da alcuni latinisti, giornalisti, teologi e ora anche da giuristi?

20) Forse Benedetto non può, o non vuole per motivi spirituali e/o strategici parlare liberamente?

Sulla “Declaratio”

21) Perché l’atto ritenuto di dimissioni, si chiama solo “Declaratio”, “Dichiarazione”, e non “Renuntiatio”, “Rinuncia” come infatti prescrive il canone 332.2 del Codice di diritto canonico“? (Riportiamo in fondo).

22) Vi sembra normale che il documento di abdicazione di un sovrano come il papa contenga due grossolani errori grammaticali (di latino) e varie altre imperfezioni linguistiche? Qui: Soprattutto se il Codice di diritto canonico specifica come l’atto debba essere scritto “rite manifestetur”, ovvero debitamente*?

23) Secondo voi, Ratzinger conosce bene il latino,  lingua ufficiale della Chiesa, considerando che comunicava con porporati stranieri in tale idioma?

24) Perché nessuno dei funzionari gli ha segnalato, nel 2013, quegli errori grammaticali e i possibili empasse giuridici nel testo della Declaratio?

25) E’ plausibile che alcuni abbiano capito e taciuto, mentre gli eventuali nemici di Benedetto, accecati dalla bramosia di raccogliere le sue “dimissioni”, non abbiano controllato se nel sottile dettaglio giuridico se quella Declaratio corrispondesse a effettive, legali dimissioni e che i media abbiano fatto il resto?

26) Perché Benedetto, teologo tedesco da sempre abituato a un linguaggio chiarissimo, non ha scritto nelle presunte dimissioni la cosa più semplice, ovvero che rinunciava al Munus petrino (l’incarico di origine divina), così come pretende il Codice di Diritto canonico per la rinuncia al soglio pontificio?

27) E perché in una “Dichiarazione” ha rinunciato solo all’esercizio pratico, il Ministerium - e nemmeno a tutte le sue funzioni - se Munus e Ministerium per il papa sono assolutamente indivisibili? Viceversa, perché il Vaticano, nelle versioni in italiano e lingue straniere, ha tradotto Munus sempre con la parola Ministerium? (Cfr. in fondo all’articolo).

28) Secondo voi, Ratzinger non conosceva bene il diritto canonico, pur essendo dal 1981 prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e quindi vicino a Giovanni Paolo II quando lo stesso papa santo, nell’83, inserì nel Canone 332.2 del relativo Codice questa – forse non inutile - distinzione tra Munus e Ministerium? Possibile che il sistema fosse stato messo a punto da anni, magari insieme a Wojtyla, come “piano B di ritirata strategica” per il caso già ventilato dall’art. 675 del Catechismo, circa un possibile “golpe”, con l’avvento di una “falsa chiesa” apostata, prospettiva annunciata anche dal terzo Segreto di Fatima, dalle Scritture, da santi, beati e mistici?

29) Perché Benedetto ripete ancor oggi che “il papa è uno”, ma invece di tornare cardinale si è ritagliato questo ambiguo ruolo da “papa emerito” che non è mai esistito?

30) Vi sembra accettabile che alla domanda del giornalista Tornielli: “Perché non torna a vestirsi da cardinale?” Ratziger abbia risposto: “Perché ho solo vesti bianche nel mio armadio” e che questa sia rimasta l’unica sua risposta ufficiale sulla questione della veste bianca,uso  peraltro stigmatizzato in tempi recenti anche dal card. Pell? Qui:

31) Vi pare plausibile che Benedetto abbia giustificato le proprie dimissioni dicendo che “gli pesava il fuso orario dei viaggi” sapendo benissimo che a un papa non è richiesto per forza viaggiare?

32) Secondo voi, il fatto che il canonista Mons. Sciacca, Segretario della Nunziatura apostolica, su un quotidiano nazionale, abbia ribadito nel 2016 come Munus e Ministerium siano – appunto - indivisibili, (nodo dell’invalidità delle dimissioni secondo la giurista Acosta) potrebbe andare a confermare proprio l’ipotesi delle dimissioni invalide?

33) Vi risulta che ci siano state altre risposte ufficiali dal Vaticano alle contestazioni giuridiche sulla Declaratio, espresse già in libri giornalistici o teologici?

34) E’ vero che il papa ha il potere di cambiare il Diritto canonico (purché rispettando i dogmi), ma se non lo cambia, un atto da lui emanato deve sottostare all’ultima versione ufficiale del Codice?

35) Se sì, in teoria, quindi, un papa potrebbe anche – in seguito a errori o a volontaria intenzionalità - firmare documenti non validi secondo il diritto canonico?

36) Perché Benedetto, pur dopo aver certamente saputo dai media che le sue dimissioni potevano sembrare invalide non ha mai rimediato verbalmente, magari dichiarando a voce quello che molti vogliono sentire, cioè che “il papa è solo Francesco?

37) Se Benedetto ha scritto in modo approssimativo la Declaratio, senza intenzionalità velate, quante probabilità ci sono che il documento, se interpretato come dimissioni offra “casualmente” vari meccanismi giuridici autoinvalidanti individuati chiaramente nell’ultimo libro di diritto della Acosta?

38) E, nella stessa ipotesi, come mai, altrettanto casualmente, non sono state ravvisate frasi nella Declaratio che invece escludono del tutto – almeno finora - l’interpretazione delle false dimissioni?

39) Quali garanzie e certezze abbiamo, dunque, che una Declaratio “zoppicante” sia stata scritta da Benedetto del tutto inconsapevolmente, per ignoranza e/o approssimazione, e non sia stata invece da lui scritta apposta in modo autoinvalidante?

40) Che senso ha per Benedetto dire, oggi, che nel 2013 era pienamente consapevole e con la coscienza a posto  se la Declaratio era giuridicamente ambigua e “mal fatta” causando tante polemiche? 

Eventuali pressioni subite da Benedetto

41) Perché Ratzinger ha detto anni fa: “Pregate affinché io non fugga davanti ai lupi” e perché ha dichiarato nel libro-intervista  di Peter Seewald che non voleva rinunciare alla parte spirituale del suo incarico?

42) Perché gli Usa di Obama, nel 2013, bloccarono il codice bancario Swift del Vaticano (“strangolandolo” economicamente) e questo fu sbloccato poche ore dopo le dimissioni di papa Benedetto?

43) Perché subito dopo che Ratzinger, da “papa emerito” si pronunciò a favore del celibato dei preti, contro le intenzioni di Bergoglio, venne sradicata la sua vigna di Castelfusano, quella che gli avevano regalato gli agricoltori e alla quale teneva particolarmente in quanto alla sua elezione disse “Sono l’umile servo nella vigna del Signore”?

44) Perché ha dichiarato più di recente: “Non vogliono che io parli”?

45) Perché il cardinale Godfried Danneels, primate del Belgio e “grande elettore” di Bergoglio, (tanto da affacciarsi con lui al balcone alla sua prima apparizione) nella sua autobiografia del 2015 mette nero su bianco date, nomi e fatti sulla “Mafia di San Gallo”, la lobby di porporati modernisti  che, come si riporta nel testo, miravano a far dimettere Ratzinger, puntando su Jorge Mario Bergoglio?

46) Perché il libro di Danneels non è mai ristampato, né tradotto in italiano e perché è  andato a ruba in Francia e Belgio tanto che l’ultima copia (usata) è stata appena venduta su Amazon a 206 euro? Ma soprattutto, perché le dichiarazioni di Danneels non sono mai state smentite dal Vaticano?

47) Perché l’esistenza di un  “team Bergoglio” è stata confermata dal card. Murphy O’Connor e la cosa non ha avuto seguito nonostante la costituzione apostolica Universi Domici Gregis del ‘96 scomunichi all’istante tutti i cardinali autori di manovre preconclave?

48) Perché alcuni tra arcivescovi, vescovi, monsignori, teologi, preti sono stati sanzionati, ostracizzati, costretti all’esilio, sospesi a divinis  o addirittura scomunicati per aver dichiarato che solo Benedetto è il papa? Qui:   Perché, allo stesso modo, giornalisti e docenti sono stati mobbizzati nella loro carriera per posizioni analoghe?

49) Secondo voi, l’attuale direzione presa dalla Chiesa di Bergoglio e il suo oggettivo  allontanamento dalla Tradizione, giustificherebbero la tesi del “golpe” e del Reset cattolico, con un papa Benedetto che ristabilisce la “vera chiesa” in modo pacifico e legale, con la semplice scoperta della verità sulle sue “dimissioni” da parte dei vescovi?

50) In un’eventualità del genere, Benedetto avrebbe forse commesso peccato o mentito per proteggere la vera Chiesa attraverso un linguaggio velato? Si sarebbe comportato in modo incoerente rispetto a quanto da lui dichiarato in un documento che, difatti, si chiama solo “Declaratio”ma non “Renuntiatio”? 

Domande impegnative, a tratti, ci rendiamo conto, ma se la realtà effettiva è diversa dall’ipotesi, non sarà difficile, con un po’ di pazienza, rispondere a OGNUNA di queste configurando un quadro logico, coerente e del tutto alternativo. Non sarebbe però una valida strategia, per i difensori di Bergoglio, continuare a rispondere a questa serie di fatti oggettivi e quesiti razionali con indifferenza, attacchi ad personam, risposte tipo “il papa è il papa”, o con frettolose accuse di “complottismo .

Qui: Buona riflessione e – ci si augura – buon dibattito pubblico, anche su altre testate, in attesa che, sperabilmente, la questione approdi in Vaticano per essere finalmente chiarita. Del resto, fare luce sarebbe un atto d’amore per il popolo cattolico dato che, insegna la Chiesa: “Veritas summa charitas est”._____________________________________

*Qui il Canone 332, par. 2 del Codice di Diritto Canonico

« Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut RENUNTIATIO libere fiat et RITE MANIFESTETUR, non vero ut a quopiam acceptetur».

« Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la RINUNCIA sia fatta liberamente e che venga DEBITAMENTE manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti ».

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Copiamo integralmente anche il testo della Declaratio in latino e poi in italiano. Attenzione, come già segnalato nello scorso articolo linkato all’inizio, il Vaticano ha tradotto nelle lingue, compreso l’italiano, la parola Munus sempre con Ministerium. Confrontate con la versione latina. A voler pensare bene, perché per il Papa, Munus e Ministerium sono indivisibili. A pensar male, per tentare di nascondere il meccanismo giuridico innescato da Benedetto. Ma in entrambi i casi “a guadagnarci” sarebbe il Benedetto "stratega".  

Versione originale latina di Benedetto XVI: Qui DECLARATIO

Fratres carissimi. Non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem magni momenti pro Ecclesiae vita communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam aptas esse ad MUNUS Petrinum aeque administrandum. Bene conscius sum hoc MUNUS  secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo exsequi debere, sed non minus patiendo et orando. Attamen in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam. Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me MINISTERIO Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso renuntiare ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse. Fratres carissimi, ex toto corde gratias ago vobis pro omni amore et labore, quo mecum pondus ministerii mei portastis et veniam peto pro omnibus defectibus meis. Nunc autem Sanctam Dei Ecclesiam curae Summi eius Pastoris, Domini nostri Iesu Christi confidimus sanctamque eius Matrem Mariam imploramus, ut patribus Cardinalibus in eligendo novo Summo Pontifice materna sua bonitate assistat. Quod ad me attinet etiam in futuro vita orationi dedicata Sanctae Ecclesiae Dei toto ex corde servire velim. 

Traduzione italiana, proposta dal sito ufficiale vaticano DECLARATIO

Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare  in modo adeguato il MINISTERO (Munus!) petrino.  Sono ben consapevole che questo ministero (munus!), per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al MINISTERO di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Traduzione inglese proposta dal sito ufficiale vaticano. DECLARATIO

Dear Brothers, I have convoked you to this Consistory, not only for the three canonizations, but also to communicate to you a decision of great importance for the life of the Church. After having repeatedly examined my conscience before God, I have come to the certainty that my strengths, due to an advanced age, are no longer suited to an adequate exercise of the Petrine MINISTRY (Munus!). I am well aware that this ministry, (munus!) due to its essential spiritual nature, must be carried out not only with words and deeds, but no less with prayer and suffering. However, in today’s world, subject to so many rapid changes and shaken by questions of deep relevance for the life of faith, in order to govern the barque of Saint Peter and proclaim the Gospel, both strength of mind and body are necessary, strength which in the last few months, has deteriorated in me to the extent that I have had to recognize my incapacity to adequately fulfill the MINISTRY   entrusted to me. For this reason, and well aware of the seriousness of this act, with full freedom I declare that I renounce the ministry of Bishop of Rome, Successor of Saint Peter, entrusted to me by the Cardinals on 19 April 2005, in such a way, that as from 28 February 2013, at 20:00 hours, the See of Rome, the See of Saint Peter, will be vacant and a Conclave to elect the new Supreme Pontiff will have to be convoked by those whose competence it is. Dear Brothers, I thank you most sincerely for all the love and work with which you have supported me in my ministry and I ask pardon for all my defects.  And now, let us entrust the Holy Church to the care of Our Supreme Pastor, Our Lord Jesus Christ, and implore his holy Mother Mary, so that she may assist the Cardinal Fathers with her maternal solicitude, in electing a new Supreme Pontiff. With regard to myself, I wish to also devotedly serve the Holy Church of God in the future through a life dedicated to prayer.

Padre Georg Ganswein, il devastante sospetto di Dagospia: "Repulisti d'immagine", la voce sull'intervista di Ratzinger al Corriere. Libero Quotidiano il 03 marzo 2021. Ha fatto molto discutere l'intervista rilasciata al Corriere della Sera da Benedetto XVI lo scorso 1 marzo. Il 'papa dimissionario' ha parlato assai di rado attraverso i media da quel giorno del 2013 in cui sorprese il mondo intero annunciando di rinunciare, primo nella storia, alla carica pontificia. E sulle reali motivazioni di quella intervista torna ora a interrogarsi Dagospia con uno dei suoi pepati 'report', nel quale lascia in secondo piano Ratzinger per concentrarsi sulle figure intorno a lui e lasciando l'amaro retropensiero che l'ex Papa sia stato non attore, ma strumento. Di quello che Dagospia definisce un 'rilancio' del suo storico collaboratore, padre Georg Ganswein, che era sì sulla copertina di Vanity Fair proprio nella settimana delle dimissioni di Ratzinger, ma che da allora, scrive sempre Dago, era "abituato ad apparire su riviste di second'ordine". In second'ordine, il sito fondato e diretto da Roberto D'Agostino solleva il sospetto che "il repulisti dell'immagine di Ganswein” possa essere "una captatio benevolentiae di Massimo Franco (autore dell'intervista, ndr) in qualità di aspirante direttore del Corrierone". O, chissà, ancora "un tentativo di Andrea Tornielli, da sempre press agent del vanitoso prelato tedesco, di approdare in qualità di vaticanista in via Solferino visto che, a quanto sembra, Papa Francesco non lo vuole più vedere neanche in fotografia".

Dagoreport il 3 marzo 2021. Perché l'intervista di Massimo Franco a Papa Benedetto ("Corriere della Sera" del primo marzo) sta suscitando in Vaticano così tanta ilarità? Probabilmente, perché quando il Papa emerito ha alluso a quei "miei amici un po’ “fanatici” ancora arrabbiati, che non hanno voluto accettare la mia scelta", il capo del prode manipolo dei "fanatici" stava proprio lì, in piedi, vicino a Massimo Franco e al direttore Luciano Fontana. In Vaticano tutti sanno che Georg Gänswein (il bel Ciorcio della signora Ciampi, di tutte le vaticaniste e di un numero imprecisato di damazze romane) è stato l'autore della Summorum Pontificum, il documento con il quale Ratzinger ha sdoganato quella messa in latino che il Nostro, da quando è prete, ama celebrare. Stava sulla copertina di "Vanity Fair" la settimana delle dimissioni papali, nel febbraio del 2013, come "destinato ad assumere progressivamente sempre più potere a causa dell'avanzamento dell'età del pontefice" come recitava l'articolo di Andrea Tornielli da allora universalmente definito, anche dai giornalisti esteri accreditati in Vaticano, "il turiferario maggiore". Entrambi sono sopravvissuti al tornado Vatileaks di Paolo Gabriele, il defunto maggiordomo papale infedele, e ora, forse, i tempi stanno per cambiare ancora in meglio anche per loro. Infatti, sempre dentro le mura leonine, "l'intervista a Ratzinger" è apparsa per quella che è: un rapido saluto all'anziano Pontefice, al quale sono state donate due vignette di Giannelli e un "rilancio" di Gänswein, finora soprattutto abituato ad apparire su riviste di second'ordine. Mentre per i giornali importanti usava la faccia dei cardinali Burke e Sarah, due ingenuoni che pensavano di servire la Chiesa obbedendo alla "dottrina" del vice papa mancato più amato dalle nobildonne del Sacro romano impero. Il repulisti della sua immagine grazie al primo quotidiano italiano è forse una captatio benevolentiae di Massimo Franco aspirante (dicono i pettegoli con la tonaca) direttore del Corrierone? Oppure è un tentativo di Andrea Tornielli, da sempre press agent del vanitoso prelato tedesco, di approdare come vaticanista in Via Solferino visto che, a quanto sembra, Papa Francesco non lo vuole più vedere neanche in fotografia. Ah, saperlo!

Da corriere.it il 6 marzo 2021. Un ringraziamento triplice. Per la «visita al monastero Mater Ecclesiae», per l'articolo che ne è scaturito. E per le «due vignette portate come dono di Emilio Giannelli al Papa emerito». A scrivere, in un messaggio inviato al direttore del Corriere, Luciano Fontana, è monsignor Georg Gänswein, Prefetto della Casa pontificia e segretario personale di Joseph Ratzinger. Il messaggio arriva dopo la pubblicazione del colloquio con Benedetto XVI, in cui il Papa emerito spiegava — «con un filo di voce, e sforzandosi di scandire bene ogni parola» — che «non ci sono due Papi. Il Papa è uno solo…», e che quella di dimettersi, otto anni fa, «è stata una decisione difficile, ma l’ho presa in piena coscienza e credo di avere fatto bene. Alcuni miei amici un po’ “fanatici” sono ancora arrabbiati, non hanno voluto accettare la mia scelta. Penso alle teorie cospirative che l’hanno seguita: chi ha detto che è stato per colpa dello scandalo di Vatileaks, chi di un complotto della lobby gay, chi del caso del teologo conservatore lefebvriano Richard Williamson. Non vogliono credere a una scelta compiuta consapevolmente. Ma la mia coscienza è a posto». Durante la visita, il direttore del Corriere aveva consegnato al Papa emerito una cartellina contenente due caricature che Emilio Giannelli — storico vignettista del Corriere della Sera, apprezzato da Benedetto — aveva disegnato per lui. «Osserva a lungo la prima, e sorride. Poi passa alla seconda, e il sorriso si allarga in una risata», aveva scritto Massimo Franco nel suo articolo, annotando poi le parole del Papa emerito: «Giannelli è una persona spiritosa».

Intervista a Ratzinger: «Non ci sono due Papi. La rinuncia di 8 anni fa? Credo di aver fatto bene»Otto anni fa la rinuncia di Joseph Ratzinger: «Non ci sono due Papi». Massimo Franco su Il Corriere della Sera l'1/3/2021.

Il messaggio di Benedetto XVI a chi non si rassegna e ai tifosi di Bergoglio che temono la sua ombra. «Fu una decisione sofferta, ma credo di aver fatto bene. La mia coscienza è a posto». «Non ci sono due Papi. Il Papa è uno solo…». Joseph Ratzinger lo dice con un filo di voce, sforzandosi di scandire bene ogni parola. È seduto su una delle due poltrone di pelle chiara che insieme con un divano arredano il salone al primo piano del monastero di clausura Mater Ecclesiae: il luogo dove si è ritirato, lontano da tutto, nel marzo del 2013. Sul comodino sono appoggiati gli occhiali da lettura, accanto a una statuetta antica di legno che raffigura una Madonna con Bambino. «Questa è la Sala Guardini. Si chiama così perché raccoglie tra l’altro l’opera omnia del teologo italo-tedesco Romano Guardini. È lì, alle vostre spalle», spiega monsignor Georg Gaenswein, suo segretario personale e Prefetto della Casa pontificia, indicando la libreria che fodera le pareti. Il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, porge al Papa emerito una cartellina rossa con dentro due caricature che Emilio Giannelli, vignettista apprezzato da Benedetto, ha disegnato appositamente per lui. Osserva a lungo la prima, e sorride. Poi passa alla seconda, e il sorriso si allarga in una risata. «Giannelli è una persona spiritosa», chiosa con aplomb papale e bavarese. Fino al 2012, nelle dodici celle di questo edificio, costruito tra il 1992 e il 1994 e occupato in precedenza dalla Gendarmeria e dai giardinieri papali, abitavano le suore di clausura. Ora ospita Benedetto, le quattro «Memores», le donne consacrate di Comunione e liberazione che lo assistono, e monsignor Gaenswein. Compare all’improvviso dopo un tornante nella parte più alta e inaccessibile della Città del Vaticano. È protetto da un cancello elettrico, oltre il quale regna un silenzio irreale. Incontrare Benedetto è raro, soprattutto negli ultimi tempi. E ancora più inusuale è il fatto che accetti di affrontare uno degli argomenti più traumatici per la vita della Chiesa cattolica negli ultimi secoli. La sua precisazione sull’unicità del Papato è scontata per lui ma non per alcuni settori del cattolicesimo conservatore più irriducibile nell’ostilità a Francesco. Per questo, ribadisce che «il Papa è uno solo» battendo debolmente il palmo della mano sul bracciolo: come se volesse dare alle parole la forza di un’affermazione definitiva. È significativo: consegna il messaggio al Corriere proprio alla vigilia del 28 febbraio, lo stesso giorno di otto anni fa in cui divenne effettiva la sua rinuncia al Papato, annunciata l’11 febbraio. A distanza di tanto tempo, il disorientamento, lo stupore, le maldicenze che hanno accompagnato quel gesto epocale ristagnano ancora. E Benedetto sembra volerli esorcizzare. Chiediamo se in questi anni abbia ripensato spesso a quel giorno. Annuisce. «È stata una decisione difficile. Ma l’ho presa in piena coscienza, e credo di avere fatto bene. Alcuni miei amici un po’ “fanatici” sono ancora arrabbiati, non hanno voluto accettare la mia scelta. Penso alle teorie cospirative che l’hanno seguita: chi ha detto che è stato per colpa dello scandalo di Vatileaks, chi di un complotto della lobby gay, chi del caso del teologo conservatore lefebvriano Richard Williamson. Non vogliono credere a una scelta compiuta consapevolmente. Ma la mia coscienza è a posto». Le frasi escono col contagocce, la voce è un soffio, va e viene. E monsignor Gaenswein in alcuni rari passaggi ripete e «traduce», mentre Benedetto annuisce in segno di approvazione. La mente rimane lucida, rapida come gli occhi, attenti e vivaci. I capelli bianchi sono leggermente lunghi, sotto lo zucchetto papale candido come la veste. Dalle maniche spuntano due polsi magrissimi che sottolineano un’immagine di grande fragilità fisica. Ratzinger porta un orologio al polso sinistro e al destro uno strano aggeggio che sembra un altro orologio ma in realtà è un allarme pronto a scattare se gli accade qualcosa. Quello che lui stesso ha definito nel febbraio del 2018, in una lettera al Corriere, «quest’ultimo periodo della mia vita», scorre tranquillo, nell’eremo tra i tornanti dei Giardini vaticani affiancati da alberi, cascate e altari, da cui si domina Roma. Fino al 2 febbraio, nel salone dove ci riceve c’erano un presepe e un albero di Natale, incorniciati tra la biblioteca, le icone appese alle pareti insieme ad altre immagini sacre: una stanza sobria, non grande, accogliente. I ritmi sono abitudinari. Ogni giorno si leggono i giornali selezionati in precedenza dagli uffici vaticani. In più gli arrivano in edizione cartacea l’Osservatore romano, il Corriere della Sera e due quotidiani tedeschi. A tavola, con le Memores si discute spesso anche di politica. E adesso il Papa emerito chiede incuriosito di Mario Draghi. «Speriamo che riesca a risolvere la crisi», dice. «È un uomo molto stimato anche in Germania». Accenna a Sergio Mattarella, sebbene ammetta di conoscere il capo dello Stato meno del predecessore, Giorgio Napolitano. «Come sta?», si informa. E il discorso scivola sull’epidemia del Covid 19. Ratzinger si è già vaccinato, ha ricevuto la prima dose e poi gli è stata somministrata la seconda, come a monsignor Gaenswein e a gran parte degli abitanti della Città del Vaticano. Sotto questo aspetto, il piccolo Stato viene osservato con una punta di invidia in Italia e in gran parte dell’Europa, nelle quali i vaccini arrivano a rilento. Il virus fa paura, e Benedetto accenna alla drammatica esperienza vissuta dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, guarito dopo una lunga battaglia. «L’ho appena rivisto e mi ha detto che ora sta molto meglio. L’ ho trovato bene». E quando si chiede al Papa emerito della prossima visita di Francesco in Iraq, l’espressione diventa seria, preoccupata. «Credo che sia un viaggio molto importante», osserva. «Purtroppo cade in un momento molto difficile che lo rende anche un viaggio pericoloso: per ragioni di sicurezza e per il Covid. E poi c’è la situazione irachena instabile. Accompagnerò Francesco con la mia preghiera». Alcuni uomini della Gendarmeria vaticana e delle guardie svizzere sono già lì per organizzare tutte le possibili misure di protezione intorno a papa Francesco. Sono presenti da settimane anche agenti dell’intelligence italiana, ma non è chiaro con chi stiano collaborando. Su questo, dal monastero dove vive Ratzinger non arrivano commenti. Viene spontaneo pensare agli Stati uniti, e osservare che ora, con Joe Biden alla Casa Bianca al posto di Donald Trump, i rapporti col Vaticano sono destinati a migliorare. Su Biden, il secondo presidente cattolico dopo John Fitzgerald Kennedy, Ratzinger esprime qualche riserva sul piano religioso. «È vero, è cattolico e osservante. E personalmente è contro l’aborto», osserva. «Ma come presidente, tende a presentarsi in continuità con la linea del Partito democratico... E sulla politica gender non abbiamo ancora capito bene quale sia la sua posizione», sussurra, dando voce alla diffidenza e all’ostilità di buona parte dell’episcopato Usa verso Biden e il suo partito, considerati troppo liberal. Sono passati quarantacinque minuti, fuori comincia a fare buio: lontanissime, anche se in realtà sono a meno di un chilometro, si scorgono le luci di Roma. Benedetto consegna come ricordo del colloquio una medaglia commemorativa e un segnalibro con la sua foto benedicente: entrambe di quando era Papa. E di nuovo affiora il paradosso non solo suo ma di una Chiesa immersa senza volerlo nell’intreccio inestricabile di due identità papali. Ratzinger saluta, rimanendo seduto, con un accenno di sorriso, e ringrazia indicando le due vignette di Giannelli posate sul tavolino. In una, Benedetto abbraccia simbolicamente una piazza San Pietro gremita di folla: un ricordo nostalgico non solo del suo pontificato ma del mondo prima del Covid 19. Ed è un’immagine che stride con quella potente, drammatica di Francesco che il 27 marzo del 2020 parla dal sagrato della stessa piazza, desertificata dal coronavirus e spettrale. Nell’altra vignetta, a colori, il Papa emerito consegna a un Francesco dall’espressione corrucciata le chiavi della Chiesa, aggiungendo: «Mi raccomando…». Come sempre quando si tratta di Vaticano, realtà e simbolismo sono legati in modo indissolubile. E gli enigmi del Papa emerito tedesco e del Pontefice argentino sembrano fatti apposta per alimentare le leggende sul potere ecclesiastico e i suoi misteri. Uscendo dal monastero, scortati in auto da una guardia svizzera in borghese con l’auricolare, viene da pensare che quando Ratzinger ribadisce con un velo di voce «il Papa è uno», certamente si rivolge ai «fanatici» che non si rassegnano. Parla, per rassicurarli, ai seguaci di Francesco che temono l’ombra intellettuale di questo teologo vecchio e infragilito dall’età. Ma forse, dopo otto anni, con la sua voce interiore, il Papa emerito lo sussurra inconsciamente anche a se stesso.

La grande sfida della Chiesa: cosa ci ha insegnato Ratzinger. Coronavirus, restrizioni, vaccini. La pandemia ha confinato gli uomini di Chiesa. E si riapre il confronto con la scienza. Francesco Boezi, Lunedì 01/02/2021 su Il Giornale. Il primo caso di pandemia globale sviluppatasi in poche settimane ha costretto la Chiesa cattolica a porsi problemi nuovi. Nel corso della storia, l'Ecclesia si è già dovuta confrontare con i tragici effetti delle situazioni epidemiche. Difficile negare che più di qualcosa sia cambiato. Nella narrativa comune, quello tra fede e ragione è un rapporto complicato. Vale per le pandemie come per altri fenomeni. Come vedremo, in verità fede e ragione, quindi religione e scienza, non sono avversarie. Il pensiero di Joseph Ratzinger ha forse messo la parola fine al battage mediatico-intellettualistico sul conflitto tra scienza e religione cristiano-cattolica (o religioni in generale). Certo, con l'avvento del Sars-Cov2, la Chiesa cattolica, con il Papa regnante in testa, ha dovuto rinunciare a buona parte della sua funzione pubblica. La "Chiesa in uscita" di Jorge Mario Bergoglio è rimasta confinata all'interno delle mura leonine. L'ex arcivescovo di Buenos Aires, giusto per dirne una, ha dovuto interrompere le sue visite apostoliche. Il prossimo viaggio dovrebbe essere in Iraq, ma lo stesso pontefice argentino ha ammesso di non poter distribuire certezze sulla partenza. Il virus può modificare i piani. Sono tutte discrete differenze rispetto ad altre situazioni pandemiche della storia dell'uomo, dove gli uomini di Chiesa hanno organizzato processioni pubbliche, eretto santuari di protezione e così via. Da qui a postulare uno scollamento netto tra fede e ragione, però, ce ne passa. La sensazione è che religione e scienza abbiano spesso camminato su sentieri paralleli. Tanti scienziati sono stati cattolici. E tanti cattolici hanno fatto sì che la scienza facesse passi avanti decisivi.

Le indicazioni di Benedetto XVI. Il pontificato di Benedetto XVI è stato decisivo: il 28 gennaio del 2007, attraverso l'Angelus domenicale, il teologo tedesco postula, ricordando San Tommaso d'Aquino, l'esistenza di una perfetta coincidenza tra fede e ragione. Una dialettica che non deve tuttavia scadere nell'abbraccio allo scientismo, che nega qualsiasi fenomeno non sia esperienziale. Rivolgendosi alla consueta piazza gremita, Ratzinger afferma che "lo sviluppo moderno delle scienze reca innumerevoli effetti positivi, come noi tutti vediamo; essi vanno sempre riconosciuti. Al tempo stesso, però - aggiunge - , occorre ammettere che la tendenza a considerare vero soltanto ciò che è sperimentabile costituisce una limitazione della ragione umana e produce una terribile schizofrenia, ormai conclamata, per cui convivono razionalismo e materialismo, ipertecnologia e istintività sfrenata". La critica non è rivolta alla scienza in sé, bensì allo scientismo esasperato che priva della ragionevolezza la fede nel logos divino. La fede, per il professore di Tubinga, "suppone" la ragione. Nel corso del pontificato, le critiche non mancano: Ratzinger viene spesso tacciato di oscurantismo. Diventano celebri i dialoghi tra l'ex pontefice teutonico e alcuni esponenti dell'ateismo, come Piergiorgio Odifreddi e Jurgen Habermas. Viene da chiedersi come avrebbe reagito oggi la Chiesa ratzingeriana alla pandemia. Conoscendo le scelte dell'emerito (quelli che abbiamo appreso in questi mesi, con il blocco delle visite per esempio), il fatto che si sia vaccinato e le preoccupazioni sorte per il suo momentaneo trasferimento in Germania al capezzale del fratello Georg, possiamo suppore che l'atteggiamento ratzingeriano non si sarebbe discostato dalle scelte compiute da papa Francesco. Questo è di certo vero, al netto dello stile e dei messaggi, che avrebbero potuto essere differenti.

La lezione di Ratzinger del 2020: così ha continuato a parlare. Durante questo anno pandemico, la Chiesa cattolica si è espressa sui vaccini, sulle misure di distanziamento, sulle precauzioni da adottare, sulle priorità che gli uomini immersi in un contesto pandemico dovrebbero tener presente, sulla distribuzione dei sacramenti in relazione ai divieti di assembramento ( e quindi in alcuni casi di celebrare le funzioni religiose), sulle grandi questioni bioetiche che l'avvento del nuovo coronavirus porta in dote e così via. Alcune iniziative provenienti da realtà parrocchiali - come le cosiddette "Messe clandestine" - hanno, oltre ad alimentare la disapprovazione delle istituzioni pubbliche, riaperto uno dei grandi temi della contemporaneità, tra cui possibile scollamento tra lo sviluppo scientifico-tecnologico ed il ruolo svolto dalle confessioni religiose. La sinistra culturale, in buona sostanza, ha trovato terreno fertile per scagliare i suoi attacchi.

L'evoluzione del rapporto tra scienza e fede. Per lo storytelling progressista, scienza e fede collidono, e non c'è niente da fare. Attraverso questa chiave interpretativa, si comprende meglio perché i fedeli cristiano-cattolici che rivendicano l'urgente necessità di aprire le chiese per ricevere sacramenti vengano attaccati da sinistra. É successo con cadenza continua ogni volta che il tema è stato posto. E il comunicato diretto al governo giallorosso della Conferenza episcopale italiano sulla violazione del diritto alla libertà di culto fa parte del filone di chi cerca di segnalare l'esistenza di "urgenze spirituali". Per un cattolico ricevere l'eucaristia non è secondario.

Così la Chiesa è cambiata per sempre con la pandemia. Il professor Francesco Agnoli, che si è occupato delle questione legate alla dialettica tra scienza e fede attraverso decine di libri, non pensa che i due ambiti siano separati: "Basti pensare che Pitagora è considerato nei testi di filosofia una sorta di mistico. Nella riflessione della matematica, il dio musico attraversa la storia dai greci fino ai grandi matematici dell'ottocento e del novecento. Il rapporto tra scienza e fede è sempre molto stretto. Pensiamo alla scienza medioevale, che è la scienza francescana. Andando avanti, mi vengono in mente due grandi francesi, Cartesio e Pacal, che sono cattolici. Newton è devotissimo, e la ricerca di Dio per lui è al primo posto. Abbiamo un'idea strana di questo rapporto per via del processo a Galileo Galilei, che viene portato ad esempio di un contrasto che non c'è mai stato". Qualcosa cambia - ci dice Agnoli - con l'avvento dell'illuminismo, che strumentalmente ricerca la separazione tra scienza e fede.

Il ruolo decisivo del pensiero ratzingeriano. Il professor Francesco Agnoli, che ha approfondito questi argomenti ne "Il misticismo dei matematici" e in altri libri, pensa con Benedetto XVI che fede e ragione coincidano. Per l'ex pontefice tedesco, la matematica e la musica costituiscono due linguaggi di Dio. Anche la pandemia, insomma, può essere affrontata da un cattolico, tenendo in forte considerazione questa sincronia tra due ambiti che tendono ad essere divisi dal relativismo e dalla secolarizzazione. "Ratzinger è un tedesco - premette Agnoli - , La storia della scienza tedesca passa pure per Keplero, che era un teologo. Keplero unisce lo studio teologico all'astronomia, che in principio è un interesse degli antichi sacerdoti. Si pensi ai sacerdoti babilonesi".

Papa Francesco si è vaccinato. "A breve anche Ratzinger". La forza del pensiero tedesco risiede quindi in questa capacità di sintesi, che può far storcere il naso agli scientisti, ma che è incardinata nella parabola storica di parecchie vicende scientifiche: "La Germania ha espresso grandi scienziati nel 900: Einstein, che era avverso all'ateismo in sé e per sé, e soprattutto Planck e Heisenberg, che il papa emerito conosce bene e che sono due giganti della meccanica quantistica", Planck e Heisenberg vedevano "nel cattolicesimo un ostacolo alla distruzione del mondo contemporaneo, in specie ai tempi del nazionalsocialismo". Il nazismo viene quindi contrastato dai grandi pensatori cattolici anche in quanto ideologia atea, materialista e in alcune circostanze panteista, comunque contraria al credo verso un Dio trascendente. L'indirizzo teologico ratzingeriano può essere letto, partendo da questi presupposto storico-filosofici: tra scienza e fede non vi è alcuna incompatibilità.

La Chiesa contemporanea dinanzi alla pandemia. La pandemia scoppiata nel 2020, almeno in parte, non è come le precedenti. Se non altro perché il mondo contemporaneo ha ritmi e logiche nuove, Anche la maniera con cui il Sars-Cov2 si è diffuso nel mondo è stata facilitata dal contesto economico globale. Rispetto alle grandi questioni poste dal cattolicesimo, però, secondo Agnoli le novità non sono poi così rimarchevoli: "Non è la prima pandemia, tuttavia ci racconta che l'uomo, attraverso la scienza, non è capace di dominare ogni cosa. I virus e i batteri sembrano un mondo semplicissimo per la biologia, ma rimangono complicatissimi per l'uomo. Gli esseri umani - i credenti - non possono che continuare a seguire le vie sempre indicate dalla Chiesa: scientia e caritas, cioè bisogna conoscere ed amare, come secondo le indicazioni di San Camillo de Lellis, patrono degli infermieri". La pandemia va dunque sconfitta mediante intelligenza e cure. E sugli interventi degli uomini di Chiesa? "Quando un pontefice (o gli uomini di Chiesa, ndr) interviene in argomenti scientifici deve fornire il quadro generale, come nel caso del rispetto del creato o della bontà della medicina, ma non scendere nei dettagli riguardo a ciò su cui la stessa comunità scientifica è divisa. Non è di sua competenza, mentre lo è dare una lettura teologica dei fatti. Oggi accade il contrario di ciò che dovrebbe, complice una spasmodica voglia d'intervenire sui temi d'attualità" conclude Agnoli. Scienza e fede non confliggono, dunque, ma la Chiesa dovrebbe continuare ad occuparsi di spiritualità.

·                        Il Papa Comunista.

Domenico Agasso per “la Stampa” il 24 dicembre 2021. Sono trascorsi pochi mesi dal ricovero al Policlinico Gemelli ma i pensieri di Papa Francesco, nel suo ottantacinquesimo Natale, vanno ancora lì, in particolare ai bambini malati e ricoverati. Li ha visitati nei giorni di degenza lo scorso luglio. E oggi ancora pensa a loro, costretti a passare le feste in ospedale: «Non ci sono parole, possiamo solo aggrapparci alla fede, a Dio, e chiedergli: "Perché?». E ai genitori che hanno i figli fuori dall'ospedale, il Pontefice ricorda «quanto sono fortunati. Li abbraccino forte, e dedichino loro più tempo». Riceve La Stampa e Repubblica a Casa Santa Marta, Jorge Mario Bergoglio, per una conversazione nell'imminenza delle feste. Parla del significato del Natale oggi, dei poveri, degli emarginati, degli sfruttati, e di come viveva le feste da piccolo, nella Buenos Aires degli anni Quaranta. 

Santità, che cosa ricorda del Natale in Argentina?

«Alcune volte andavamo da una zia, alla sera, perché a Buenos Aires e nella nostra famiglia non c'era in quel tempo l'abitudine di festeggiare la vigilia come oggi. Si festeggiava il 25 di mattina, sempre dai nonni. Ricordo una volta una cosa curiosa: siamo arrivati e la nonna stava ancora facendo i cappelletti, li faceva a mano. Ne aveva fatti 400! Eravamo sbalorditi! Tutta la nostra famiglia era lì: venivano anche zii e cugini. Solo da adolescente ho cominciato a festeggiare un po' anche la vigilia, a casa di una sorella di mia mamma che abitava vicino».

E oggi come vive il Natale?

«Mi preparo bene, perché il Natale è sempre una sorpresa. È il Signore che viene a visitarci, e io vivo questo arrivo con la mistica dell'Avvento: aspettare un po' di tempo e predisporsi per incontrare Dio, che rinnova tutto in bene. E poi, amo tanto le canzoni natalizie, che sono piene di poesia. "Silent Night", "Tu scendi dalle stelle" trasmettono pace, speranza, creano l'atmosfera di gioia per il Figlio di Dio che nasce sulla terra come noi, per noi».

A chi pensa in particolare in questo Natale?

 «Ai poveri, sempre. Come Gesù, che è nato povero: quel giorno Maria era una donna di strada, perché non aveva un luogo adeguato per partorire. E poi penso a tutti i dimenticati, gli abbandonati, gli ultimi, e in particolare i bambini abusati e schiavizzati. A me fa piangere e arrabbiare sentire le storie di adulti vulnerabili e di bimbi che vengono sfruttati. E poi, penso ai bimbi malati che trascorreranno il Natale in ospedale, non ci sono parole, possiamo solo aggrapparci alla fede, a Dio, e chiedergli: "Perché?". E i genitori che hanno i figli fuori dall'ospedale non si dimentichino quanto sono fortunati, li abbraccino forte e dedichino loro più tempo. Voglio anche spendere qualche parola di ammirazione per il lavoro che compie il personale sanitario di ogni ospedale e reparto pediatrico per alleviare le sofferenze di quei piccoli. Al Bambin Gesù c'è una dottoressa che è il capo: conosce il nome di ognuno dei giovanissimi pazienti. È straordinaria. Noi spesso non ci accorgiamo della grandezza dell'opera quotidiana di questi medici, infermieri e collaboratori sanitari, e invece dobbiamo tutti essere grati a ciascuno di loro». 

Pochi giorni fa ha compiuto 85 anni

«Vi sbagliate, ne ho compiuti 75! (Scherza e ride, ndr)».

Come festeggiava il suo compleanno da bambino?

«In casa eravamo cinque fratelli. Oltre a me c'erano Marta Regina, Alberto Horacio, Oscar Adrian e Maria Elena. Il giorno del compleanno era sempre una festa per tutta la famiglia. Venivano i nonni, gli zii Mia mamma faceva il cioccolato da bere, molto denso». 

Quali erano i suoi giochi d'infanzia?

«Vicino a casa nostra c'era una piccola piazza. Vi arrivavano tre strade e formavano una specie di triangolo. Quello era il nostro campo da calcio. Tutti i ragazzi del quartiere giocavano lì, a volte veniva anche qualche ragazza. Non sempre c'era qualcuno che portava il pallone di cuoio e allora giocavamo con un pallone di stracci, la "pelota de trapo". In Argentina il pallone di stracci è diventato un simbolo culturale di quell'epoca, a tal punto che un poeta popolare ha scritto una poesia chiamata "Pallone di stracci", e c'è anche un film intitolato "Pallone di stracci", che fa vedere questa "cultura" dell'epoca».

Giocava bene a calcio?

«Mi chiamavano "pata dura", letteralmente "gamba dura": questo soprannome me lo avevano dato perché non ero molto bravo. Allora stavo in porta, dove mi arrangiavo. Fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere ai pericoli che possono arrivare da ogni parte». 

Ha praticato altri sport?

«Ho giocato anche a basket, mi piaceva perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanestro del San Lorenzo». 

Da bambino leggeva? Quali libri?

«I miei genitori avevano la preoccupazione di farci leggere. Ricordo che era uscita una collana di venti volumi, "Il tesoro della gioventù". La leggevamo insieme, di pomeriggio. In casa non avevamo ancora la televisione. Più volte, dopo cena, papà ci leggeva a voce dei volumi. Ricordo benissimo che ci lesse tutto "Cuore" di Edmondo De Amicis, e anche oggi ricordo il racconto "Sangue romagnolo", che mi ha colpito tanto all'epoca». 

Quale segno le hanno lasciato quelle ed eventuali altre letture, da bambino e da ragazzo?

«Fra i primi libri che lessi da giovane ci fu "Don Segundo Sombra" di Ricardo Güiraldes; e poi i romanzi di Jorge Luis Borges e Fëdor Dostoevskij, e le poesie di Friedrich Hölderlin. Quest' ultimo fu per me una seduzione. E poi, nella adolescenza ho letto "Anni verdi" di Archibald Joseph Cronin: l'ho infine ripreso nella versione italiana, e mi ha aiutato quando ero in seminario a rispolverare la vostra lingua. Queste letture sono state il tesoro della mia infanzia e della gioventù, perché mi hanno trasmesso emozioni forti, indelebili, insieme a quelle che ci leggeva mio padre, a cominciare dal libro "Cuore": ricordo che i miei fratelli e io piangevamo spesso commossi quando lo ascoltavamo. "Cuore" è stata parte della nostra formazione e resta per me un libro indimenticabile. La nonna ci leggeva qualche capitolo de "I promessi sposi", e anche ci aiutava a studiarli a memoria. Recentemente li ho ripresi, perché ogni volta che li apri vi trovi qualcosa di nuovo. Spesso "I promessi sposi" mio padre ce li recitava a memoria e poi ce li spiegava». 

Suo padre era un grande e appassionato lettore

«Sì, leggeva tanto. Aveva una grande biblioteca, ed è diventato una persona colta. Ci recitava a memoria anche Dante. Da lui sentii per la prima volta questi versi: "Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio, tu se' colei che l'umana natura nobilitasti sì, che 'l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura". E poi il terzo canto dell'Inferno: "Lasciate ogni speranza, o voi che entrate". Lavorava tanto per darci da mangiare, ed è riuscito a diventare anche sapiente. Il sabato la radio trasmetteva la registrazione delle opere liriche, e la mamma mentre le ascoltava ce le raccontava. Ci portava anche a teatro, ricordo che vedemmo il tenore Tito Schipa al Teatro Colón».

Quale libro consiglierebbe ai ragazzi di oggi?

«Non consiglierei testi specifici. Ognuno deve avere i propri interessi. Più che un libro consiglierei di leggere. Perché c'è il pericolo della televisione che ti riempie di messaggi che poi non rimangono, mentre leggere è un'altra cosa, è un dialogo con il libro stesso, è un momento di intimità che né la tv né il tablet possono dare». 

Com' era un pasto a casa Bergoglio?

«A tavola eravamo cinque fratelli. Si parlava di tutto. Spesso prendendo spunto da La Nación, che era presente ogni giorno a casa nostra». 

Da Papa ha mille incombenze quotidiane. Ma ogni tanto ha dei momenti in cui le prende un po' di malinconia, di nostalgia della giovinezza?

«Quando ricordo le cose belle. Momenti specifici e speciali. Per esempio un compleanno particolare: quando ho compiuto 16 anni. In Argentina si portavano i pantaloncini corti con le calze lunghe fino al ginocchio. Ma a 16 anni il rito prevedeva di iniziare a portare i pantaloni da uomo. A quel tempo era come un'entrata in società. "Ma varda!" (in piemontese significa "Ma guarda!" con espressione stupita, ndr) diceva la gente meravigliata e compiaciuta quando mi ha visto con i pantaloni lunghi dopo che sono andato a comprarli con mamma e papà. Mi ricordo che a quel compleanno mia nonna materna, Maria ve la mostro in foto, perché era una matrona quella nonna (sorride, si alza e va a prendere una foto dei suoi nonni, ndr). La nonna è venuta a casa mia, mi chiama da parte, e mi dà un po' di soldi come regalo di compleanno. Poi guarda i pantaloni lunghi, e si mette a piangere, commossa».

E nonna Rosa?

«Era più riservata. Nonna Maria è stata una migrante con la sua famiglia quando aveva 13 anni: subito ha incominciato a lavorare in una casa di francesi, dove si occupava dei bambini, e lì ha imparato la lingua. E poi a noi nipoti cantava tante canzoni francesi. Mentre nonna Rosa parlava poco, ha sofferto tanto, ma capiva tutto. Il primo nonno che ho perso è il materno, Francisco, quando io avevo 16 anni. Nonno Giovanni Angelo se n'è andato quando avevo 25 anni. E poi le nonne quando ero già superiore provinciale dei Gesuiti d'Argentina (tra il 1973 e il 1978). Dei miei nonni e dei ricordi con loro ho nostalgia. Ma la malinconia non mi prende». 

Perché secondo Lei?

«Forse per mia formazione personale, non me la permetto. E un po' forse perché ho ereditato il carattere di mia mamma, che guardava sempre avanti».

Le manca qualche altra persona in particolare che ora non c'è più?

«Penso soprattutto ai miei tre fratelli che sono morti. Ho ancora solo una sorella, Maria Elena. Ma ricordo loro e tutti gli amici serenamente, perché li immagino in pace». 

 Cinque mesi dopo l'operazione chirurgica al Policlinico Gemelli, come sta?

«Grazie a Dio sto bene. Zoppico solo un po' perché si sta rimarginando la cicatrice dell'operazione, non sono più un ragazzino, ma sto bene. Dopo l'intervento chirurgico di luglio ho già compiuto due viaggi apostolici internazionali: a Budapest e in Slovacchia a settembre, e a Cipro e in Grecia a dicembre, tornando nel campo rifugiati di Lesbo, dove abbiamo toccato una piaga dell'umanità; e poi, sono andato ad Assisi. E altri viaggi ne farò, se il Signore vorrà, nel 2022».

Ha cambiato le Sue abitudini?

«Nulla è cambiato nella mia giornata: mi alzo sempre alle 4 di notte e inizio subito a pregare. E poi avanti con gli impegni e appuntamenti vari. Mi concedo solo una breve siesta dopo pranzo». 

Il mondo sta lentamente uscendo dalla pandemia mentre ancora in più luoghi permangono conflitti e divisioni. Come vede il futuro dell'umanità?

«L'avvenire del mondo sarà florido se sarà costruito e, dove serve, ricostruito insieme. Solo la vera e concreta fraternità universale ci salverà e ci permetterà di vivere tutti meglio. Questo però significa che la comunità internazionale, la Chiesa a cominciare dal Papa, le istituzioni, chi ha responsabilità politiche e sociali e anche ogni singolo cittadino in particolare dei paesi più ricchi, non possono né devono dimenticare le regioni e le persone più deboli, fragili e indifese, vittime dell'indifferenza e dell'egoismo. Ecco, prego Dio affinché in questo Natale trasmetta sulla Terra più generosità e solidarietà. Ma vere, pratiche e costanti, non solo a parole. Spero che il Natale scaldi il cuore di chi soffre, e apra e rafforzi i nostri affinché ardano dal desiderio di aiutare di più chi è nel bisogno».

Da liberoquotidiano.it il 14 dicembre 2021. Un drone minacciava Papa Francesco. È quanto svelato dal quotidiano israeliano in lingua inglese Jerusalem Post, che fa riferimento alla messa in Slovacchia tenuta dal Pontefice il 15 settembre scorso. In quell'occasione - si legge - il drone volava sulla funzione tenuta da Bergoglio di fronte a 60 mila fedeli e alla presenza di 90 vescovi e 500 sacerdoti. Immediato l'intervento di una società anti-droni israeliana che, rivela ancora il Jerusalem Post, ha neutralizzato il "drone ostile". La notizia, risalente al 34esimo viaggio apostolico del capo della Santa Sede, era coperta dall'embargo rimosso solo ora. La società D-Fend ha spiegato di aver lavorato con il ministero degli Interni slovacco per proteggere Papa Francesco, il suo seguito e i partecipanti durante i numerosi eventi che si sono tenuti nel Paese europeo dal 12 al 15 settembre, durante la visita papale, culminati con la messa all'aperto a Sastin, sede del Santuario Mariano Nazionale. Pericolo sventato, dunque. Il timore infatti è legato all'uso potenzialmente criminale dei droni ostili sempre più in aumento. A lanciare l'allarme gli Stati Uniti. Mesi fa, Joe Mazel, capo della operational technology law unit dell’FBI, aveva messo in guardia sull'uso della tecnologia del pilotaggio remoto. Nell’occasione Mazel aveva raccontato un episodio che lo aveva visto protagonista: un team di salvataggio degli ostaggi dell’Agenzia si era stabilito su una postazione di osservazione elevata, quando ha cominciato a sentire il ronzio di piccoli droni. Dopo poco gli APR (Aeromobili a Pilotaggio remoto) o UAV (Unmanned Aerial Vehicle) erano intorno a loro, girando a elevata velocità con l’obiettivo di confonderli e stanarli facendo ottenere ai criminali un indebito vantaggio. Ma non solo, perché crescono anche gli attacchi effettuati attraverso i droni. Da qui l'evidente preoccupazione per l'incolumità di Bergoglio. 

Dagospia il 12 dicembre 2021.CONVERSIONE, CONVERSIONE! - DOPO AVER CRITICATO PER ANNI PAPA FRANCESCO, ANTONIO SOCCI SI RAVVEDE: “NEL MONDO CLERICALE, TANTI LO LODANO A PAROLE O TENTANO SOLO DI IMITARNE GLI ATTEGGIAMENTI, A VOLTE IN MODO MALDESTRO. MA CI SONO ANCHE TANTI CRISTIANI CHE HANNO CAPITO IL CUORE DELLA "MISSIONE" SCELTA DA QUESTO PONTIFICATO: USCIRE DALLE SACRESTIE E ANDARE IN CERCA DEGLI UOMINI. PAPA FRANCESCO HA CERCATO DI FARLO CAPIRE ANCHE PRENDENDO DECISIONI DURE. A LUI NON INTERESSA AVERE TIFOSI, MA CRISTIANI CON IL CUORE ARDENTE, CHE PORTINO A TUTTI L'ABBRACCIO DI QUEL SALVATORE CHE HA PIETÀ DI LORO”

Antonio Socci per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2021. Domani è l’anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Jorge Mario Bergoglio che venerdì 17 dicembre compirà 85 anni. Non so se, in cuor suo, farà un primo bilancio del suo pontificato (gli analisti hanno già cominciato). Di certo è gravoso guidare la Chiesa nella tempesta di questi anni, assistere a una così galoppante scristianizzazione (in un mondo che sembra impazzito) e trovarsi sempre esposto agli attacchi dei demonizzatori e alle lusinghe degli adulatori (non so cosa è peggio). Sono arrivati a imputargli pure il vaccino, come fosse una sua colpa e non una protezione dalla pandemia (peraltro è il vaccino di Trump, non certo del papa). Anche ieri un giornale lo ha accusato di non dire nulla sul prossimo dibattito parlamentare italiano relativo all'eutanasia, quando proprio l'altro ieri, parlando ai giuristi cattolici, il papa aveva implorato i giuristi di difendere i diritti dei dimenticati e - insieme a lavoratori e migranti - aveva citato malati, bambini non nati, persone in fin di vita e poveri (peraltro sull'aborto Francesco usa espressioni perfino più dure di Giovanni Paolo II).

TEORIE IMPROBABILI

Dall'altra parte apri Repubblica e trovi Scalfari che, professandosi suo tifoso, gli attribuisce improbabili teorie o - proprio ieri - Luigi Manconi che ricama su una frase del pontefice relativa ai peccati della carne, attribuendogli una "svolta" che è solo nei desideri di Manconi (in realtà il papa ha solo ricordato la tradizionale distinzione della Chiesa fra il peccato di debolezza e il peccato di malizia). Che questo pontificato non rientri negli schemi ideologici consueti dei media e della politica lo dimostra anche la conferenza stampa dei giorni scorsi, durante la quale - sconcertando tanti suoi sostenitori interessati - il papa ha difeso "la sovranità" e le "identità" dei paesi europei, "i valori nazionali", mettendo in guardia dalla pretesa "imperiale" della UE e da "una superpotenza che detta i comportamenti culturali, economici e sociali" imponendo a tutti le proprie "colonizzazioni ideologiche". Egualmente scandalizzò certi suoi tifosi l'intervento della Santa Sede sul Ddl Zan (un intervento, peraltro, decisivo). D'altra parte, anche nel mondo clericale, tanti lo lodano a parole o tentano solo di imitarne gli atteggiamenti, a volte in modo maldestro. Ma ci sono anche vescovi, sacerdoti, religiosi, suore, tanti cristiani che hanno capito il cuore della "missione" scelta da questo pontificato, dichiarata fin dall'inizio, e cercano di viverla: l'uscire dalle sacrestie e andare in cerca degli uomini. La maggior parte si limita a proclamarla verbalmente, perciò non si vede una chiesa in missione, casomai una chiesa confusa. Non so come in futuro verrà valutato questo pontificato. Ai posteri l'ardua sentenza. Chi scrive in passato non ha lesinato critiche (anche troppo dure, talora con poca carità). Anni fa mi vidi arrivare una lettera autografa del papa che mi ringraziava per il mio libro e, fra le altre cose, aggiungeva: «Anche le critiche ci aiutano a camminare sulla retta via del Signore». Poi mi prometteva le sue preghiere, per me e per la mia famiglia «chiedendo al Signore di benedirvi e alla Madonna di custodirvi». Un gesto di paternità (anche verso mia figlia) che mi commosse e un gesto di umiltà per nulla scontato, che mi ha fatto riflettere e mi ha riempito di stupore: un papa che ringrazia personalmente per le critiche (dure) e si umilia davanti a un cane sciolto come me (che di certo non sono un santo) non può lasciare indifferenti. Si firmava mio «fratello e servitore nel Signore». 

L'UMILTÀ

La Chiesa è davvero uno spettacolo per gli angeli. Bisognerebbe averla in dono quell'umiltà. Continuando a pregare per lui (come fa Benedetto XVI, che gli è vicino e prega costantemente per la sua missione: ho imparato da lui come va guardato papa Francesco) ho cercato di capire. Spazzando via tanti dettagli secondari bisogna riconoscere che la cifra originaria di questo papato è molto bella e delinea l'unico grande compito della Chiesa del III millennio cristiano. Si potrebbe sintetizzare così: Dio ha pietà di tutti e si è fatto uomo per venire a cercarci, uno per uno, per salvarci, pagando lui stesso sulla croce il riscatto per ognuno di noi, che pure non lo abbiamo meritato. Mi pare il movente profondo dell'attuale pontificato. L'ho trovato esposto in modo commovente in un sermone di avvento di Dietrich Bonhoeffer, un grande cristiano, simbolo dell'opposizione al nazismo, che fu impiccato, a 39 anni, per espresso ordine di Hitler, nel campo di concentramento di Flossenburg il 9 aprile 1945. Bonhoeffer partiva dal canto di gioia di Maria, il Magnificat. Dio ha scelto una ragazzina semplice e povera, di un popolo oppresso, ai margini di un Impero e ha fatto di lei la madre del Figlio, la Regina del cielo e della terra. Maria apparteneva all'immensa maggioranza dell'umanità la cui esistenza sembra essere invisibile al mondo, alla storia, ai potenti e ai sapienti. Gente comune la cui vita sembra irrilevante e inutile. Miliardi di esseri umani conoscono questo sentimento e non sanno che invece «Dio ama, elegge ed esalta ciò che è basso, insignificante e piccolo». Scegliendo Maria - dice Bonhoeffer - Dio mostra che «non si orienta secondo l'opinione e il punto di vista degli uomini... Dove il nostro intelletto si indigna, dove la nostra pietà si mantiene scrupolosamente a distanza, lì, proprio lì, Dio ama stare. Lì egli disorienta l'intelletto dei sapienti, lì scandalizza la nostra natura, lì vuole essere presente e nessuno può impedirglielo - e soltanto gli umili gli credono e gioiscono... Questo è infatti il miracolo dei miracoli, il fatto che Dio ama ciò che sta in basso: "Ha guardato l'umiltà della sua serva"». 

LO SCANDALO

Bonhoeffer sottolinea lo scandalo di un Dio che nasce in una mangiatoia per animali: «Dio non si vergogna della bassezza dell'uomo, vi penetra dentro, sceglie una creatura umana come suo strumento e compie meraviglie lì dove uno meno se lo aspetta. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato o insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto. Dove gli uomini dicono: perduto, lì egli dice: trovato. Dove gli uomini dicono: "giudicato", lì egli dice "salvato". Dove gli uomini dicono: "No!", lì egli dice: "Sì!". Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosità il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di un amore ardente incomparabile. Dove gli uomini dicono: "Spregevole", lì Dio esclama: "Beato". Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima, lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia» (da Riconoscere Dio al centro della vita).

DECISIONI DURE

Se si ripercorre questo pontificato, in filigrana (sia pure fra errori e confusioni) si legge questo unico, struggente annuncio. Papa Francesco ha cercato di farlo capire anche prendendo decisioni dure com' è il recente decreto sui movimenti ecclesiali, alcuni dei quali si ritengono ingiustamente "decapitati" pur essendosi sempre professati "bergogliani". Non hanno capito che al papa non interessa avere tifosi, ma cristiani con il cuore ardente, che escano dalle sacrestie e portino a tutti l'abbraccio di quel Salvatore che ha pietà di loro. Soprattutto a chi è più lontano e "perduto". 

Gian Guido Vecchi per corriere.it il 6 dicembre 2021. Il volo A34994 da Atene è decollato da poco più di mezz’ora quando Papa Francesco raggiunge in fondo all’aereo i giornalisti che lo hanno seguito nei cinque giorni di viaggio a Cipro e in Grecia.

Santità, cosa pensa del documento (poi ritirato) che suggeriva ai funzionari della Commissione europea di non utilizzare la parola Natale perché divisiva e di optare invece per un termine neutro?

«È un anacronismo. Nella storia tante dittature hanno cercato di fare così… Napoleone, la dittatura nazista, quella comunista… è una moda di una laicità annacquata, acqua distillata, ma è una cosa che non ha funzionato nella storia. Credo sia necessario che l’Ue prenda in mano gli ideali dei padri fondatori, ideali di unità e di grandezza e stia attenta a non fare la strada delle colonizzazioni ideologiche. Perché tutto ciò potrebbe portare a dividere i Paesi e a far fallire l’Unione europea. L’Ue deve rispettare un Paese per come è strutturato dentro, la sua varietà e non uniformare. Credo che non lo faranno, ma devono stare attenti. Alle volte buttano lì dei progetti come questo e non sanno come fare. Ogni Paese ha le sue peculiarità, la sua sovranità, ma il tutto in una unità che rispetta le singolarità. Per questo dico: attenti a non fare colonizzazioni ideologiche. Comunque l’uscita sul Natale è un anacronismo». 

Lei ha parlato della democrazia che si «arretra» in Europa. A quali Paesi si riferiva?

«La democrazia è un tesoro di civiltà e va custodita, non solo da una entità superiore ma anche negli stessi Paese. Contro la democrazia oggi vedo due pericoli. Il primo è quello dei populismi che stanno qui e là e incominciano a mostrare le unghie. Penso a un grande populismo del secolo scorso, il nazismo, un populismo che difendendo i valori nazionali, così diceva, è riuscito ad annientare la vita democratica e a diventare una dittatura, con la morte della gente. Stiamo attenti che i governi - non dico di sinistra o di destra - non scivolino su questa strada dei populismi che non hanno niente a che vedere con il popolarismo che è l’espressone dei popoli liberi, popoli con la propria identità, folklore, arte. Un secondo pericolo si ha quando si sacrificano i valori nazionali, li si annacquano in un “impero”, una specie di governo sovranazionale. Quindi, né cadere nei populismi né in un annacquamento della propria identità all’interno di un governo sovranazionale. C’è un romanzo scritto nel 1903 da Robert Hug Benson, “Il padrone del mondo”, che sogna il futuro in un governo internazionale che con misure economiche e politiche governa tutti gli altri Paesi. Quando si dà questo tipo di governo si prende la libertà e si cerca di fare un’uguaglianza fra tutti. -il pericolo si ha quando c’è il populismo e quando c’è una superpotenza che detta i comportamenti culturali, economici e sociali». 

In Francia la Commissione indipendente abusi sessuali su minori ha parlato di responsabilità istituzionale della Chiesa, di dimensione sistemica. Che opinione ha di questa dichiarazione? Che significato ha per Chiesa universale?

«Quando si fanno questi studi, dobbiamo stare attenti alle interpretazioni. Quando si considera un tempo così lungo, si rischia di confondere il modo di sentire di un problema. Una situazione storica va interpretata con ermeneutica dell’epoca, non di ora. Ad esempio la schiavitù, oggi diciamo che è brutalità ma un tempo c’era un’altra ermeneutica. Così le coperture. Non ho letto la relazione ma ho ascoltato i commenti dei vescovi , ora verranno a Roma e domanderò loro che mi spieghino la cosa».

Perché ha accettato la rinuncia dell’arcivescovo di Parigi Aupetit?

«Lei mi domanda: cosa ha fatto di così grave da dover dare le dimissioni? Non lo sa? Prima di rispondere dirò: fate un’indagine. È stato condannato? E chi lo ha condannato? L’opinione pubblica. Se voi sapete perché, ditelo. È stata una sua mancanza, contro il sesto comandamento, ma non totale. Le piccole carezze, i massaggi che faceva alla segretaria, così sta la cosa. E questo è un peccato, ma non è un peccato grave. I peccati della carne non sono i più gravi. Così Aupetit è un peccatore come lo sono io, come è stato Pietro il vescovo su cui Gesù ha fondato la Chiesa e che lo aveva rinnegato. Come mai la comunità del tempo aveva accettato un vescovo peccatore? Era una chiesa normale, nella quale si era abituati a sentirci tutti peccatori, umili. Si vede che la nostra Chiesa non è abituata a dire vescovo peccatore, siamo a abituati a dire che è un santo, il vescovo. Il chiacchiericcio cresce e toglie la fama di una persona. Il suo peccato è peccato, come quello di Pietro, il mio, il tuo. Ma per il chiacchiericcio, un uomo al quale hanno tolto la fama così non può governare. Questa è una ingiustizia. Per questo ho accettato la rinuncia di Aupetit: non sull’altare della verità, sull’altare dell’ipocrisia».

La migrazione è un tema centrale in molti Paesi d’Europa, soprattutto nell’Europa dell’est, ad esempio nella crisi bielorussa e con fili spinati al confine con l’Europa. Cosa si aspetta dalla Polonia e dalla Russia e da altri Paesi come ad esempio la Germania con il suo nuovo governo?

«Se avessi davanti un governante che impedisce l’immigrazione con la chiusura delle frontiere e con i fili spinati gli direi: pensa al tempo in cui tu fosti migrante e non ti lasciarono entrare, volevi scappare…Chi costruisce muri perde il senso della propria storia, di quando lui stesso era schiavo in un altro Paese. Coloro che costruisco muri hanno questa esperienza dell’essere stati schiavi. Ma i governi devono governare e se arriva un’ondata migratoria non si governa più? Ogni governo deve dire chiaramente quanti migranti può ricevere, è un suo diritto, ma nello stesso tempo i migranti vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati. Se un governo non può fare questo deve entrare in dialogo con altri Paesi. La Ue deve fare armonia per la distribuzione dei migranti. In Europa non c’è una linea comune, un’armonia generale. I migranti vanno accolti e integrati: perché se non integri il migrante, questo maturerà una cittadinanza di ghetto. L’esempio che mi colpisce di più sono gli attentati, la tragedia in Belgio, ed erano belgi ma figli di migranti ghettizzati. Certo, non è facile accoglierli. Ma se non risolviamo il problema rischiamo di far naufragare la civiltà in Europa. Non solo il Mediterraneo ma anche la nostra civiltà. I rappresentanti dei governi europei devono mettersi d’accordo. Un modello è stata la Svezia che ha accolto migranti latino-americani di dittature militari e li ha integrati. Oggi sono stato in un collegio ad Atene e ho detto al responsabile che mi sembrava di stare davanti a una macedonia di culture. E lui mi ha detto: questo è il futuro della Grecia. Ma se un Paese manda indietro un migrante nel suo Paese allora deve integrarlo anche lì, non lasciarlo sulla cosa libica. C’è un filmato di Open Arms che fa vedere la realtà di ciò che accade». 

Quando ci sarà il suo prossimo incontro con il patriarca di Mosca Kirill? Quali progetti comuni avete con la Chiesa di Russia e quali difficoltà?

«E all’orizzonte l’incontro con Kirill. Credo che la prossima settimana verrà da me Hilarion per concordare un possibile incontro. Il patriarca deve viaggiare, va in Finlandia, non sono sicuro, e io sono disposto sempre, sono disposto ad andare a Mosca per incontrarlo. Per dialogare con un fratello non ci sono protocolli, si chiami Kirill o Crisostomo o Ieronimo. Siamo fratelli e ci diciamo le cose in faccia. I fratelli è anche bello vederli litigare perché appartengono alla stessa madre Chiesa. Dobbiamo lavorare in unità e per l’unità. Il grande teologo ortodosso Zizoulas disse che l’unità la troveremo nell’eschaton… È un modo di dire ma non vuol dire che dobbiamo stare fermi aspettando che i teologi si mettano d’accordo. I teologi continuino a studiare, ma intanto noi andiamo avanti insieme, preghiamo insieme, facciamo la carità insieme». 

Per cosa ha chiesto scusa ai patriarchi ortodossi?

«Ho chiesto scusa davanti al mio fratello di tutte le divisioni che ci sono tra i cristiani, soprattutto per quelle che noi cattolici abbiamo provocato. Ho voluto chiedere scusa, in particolare, guardando alla guerra di indipendenza della Grecia: una parte dei cattolici si schierò con i governi europei perché non si facesse indipendenza greca. E invece cattolici delle isole hanno sostenuto l’indipendenza. Ma il “centro”, diciamo così, in quel momento era schierato con l’Europa. Ho chiesto scusa per lo scandalo della divisione tra cristiani, almeno per quello di cui abbiamo la colpa. Lo spirito di autosufficienza ci tace la bocca quando sentiamo che dobbiamo chiedere scusa. Sempre mi fa bene pensare che Dio non si stanca mai perdonare, mai, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono, e quando non chiediamo perdono a Dio difficilmente lo chiederemo ai fratelli. È più difficile chiedere perdono a un fratello che a Dio. Coi fratelli c’è la vergogna, l’umiliazione…Ho chiesto scusa per le divisioni che noi abbiamo provocato e per le divisioni provocate quando ci siamo schierati per l’Unione europea. E poi un’ultima scusa dal cuore: scusa per lo scandalo del dramma dei migranti, per lo scandalo di tante vite annegate in mare».

Con i patriarchi ha parlato anche della sinodalità. Cosa ha inteso dire?

«Che siamo un unico gregge. La dinamica che regola le differenze dentro la Chiesa è la sinodalità, l’ascoltarsi gli uni con gli altri, l’andare insieme: “syn-odós” andare, camminare insieme lungo la stessa strada. Le Chiese ortodosse orientali e le chiese cattoliche orientali hanno conservato tutto questo. La Chiesa latina si era invece dimenticata del Sinodo. Paolo VI ha restaurato il cammino sinodale e stiamo facendo questo cammini per avere l’abitudine del camminare insieme».

Chi è Papa Francesco, il pontefice venuto dalla periferia che sogna il multipolarismo. Pietro Emanueli su Inside Over il 16 novembre 2021. Francesco è il papa dei record. Il primo pontefice nella storia bimillenaria dell’Impero del cielo che viene dall’emisfero occidentale. Il primo che viene dal Sud globale. Il primo appartenente alla Compagnia di Gesù. E il primo non europeo in 1.272 anni – l’ultimo fu il siriano Gregorio III, che regnò tra il 731 e il 741. Ma Francesco è anche, se non soprattutto, il papa della discordia: arcinemico dei cattolici tradizionalisti, stella polare a fasi alternate di liberali e atei cristiani, avversario dell’internazionale del populismo di destra. Francesco è tutto e il contrario di tutto. Continuamente frainteso – molte volte volutamente –, incessantemente accusato di essere il demolitore della Chiesa cattolica, l’usurpatore salito al soglio pontificio detronizzando Benedetto XVI, il papa argentino verrà ricordato dai posteri come uno degli eredi di Pietro più rivoluzionari che il cattolicesimo abbia espresso. Perché nessuno prima di lui ha cercato di disaccoppiare Chiesa e Occidente e di trasformare il Vaticano nella forza catalizzatrice di una redistribuzione del potere nel sistema internazionale.

Le origini

Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, è nato a Flores, un barrio di Buenos Aires, il 17 dicembre 1936. Primo di cinque figli, entrambi i genitori avevano origini italiane.

Diplomatosi come perito chimico, il giovane Bergoglio avrebbe lavorato come tecnico chimico, buttafuori e addetto alle pulizie prima di sentire la chiamata. Nel 1958, dopo tre anni di intensi studi e profonda riflessione introspettiva, prende la decisione che gli avrebbe cambiato la vita: entra come novizio nella Compagnia di Gesù. Due anni dopo, convinto che quello fosse il suo destino, avrebbe immortalato quella scelta facendo voto di obbedienza ai tre consigli evangelici: povertà, castità e obbedienza.

Avido di conoscenza, il giovane gesuita avrebbe trascorso gli anni Sessanta alternando studio e insegnamento. Lo studio della filosofia nel collegio di San Giuseppe. L’insegnamento di letteratura e psicologia al collegio dell’Immacolata Concezione e al collegio del Salvatore. Entro la fine del decennio, il 13 dicembre 1969, sarebbe stato investito del diritto al sacerdozio da parte dell’allora arcivescovo Ramón José Castellano.

La dittatura

Tra il 1976 e il 1983 l’Argentina fu dominata da una feroce dittatura militare, scaturita nell’ambito dell’operazione Condor e anelante ad un “Processo di Riorganizzazione Nazionale” (Proceso de Reorganización Nacional), e Bergoglio si sarebbe incontrato e scontrato più di una volta con i suoi esponenti.

Impegnato nella protezione degli oppositori della dittatura, nonché nella fornitura di documenti per l’espatrio ai più esposti al rischio di scomparire dai radar, Bergoglio è stato elogiato dall’ex giudice Alicia Oliveira per l’attivismo nel dietro le quinte svolto in quegli anni e ringraziato da diverse famiglie per l’aiuto dato.

Le critiche e le ombre, ad ogni modo, non mancano. Noto è, ad esempio, che i due gesuiti Orlando Yorio e Franz Jalics – che furono rapiti e torturati da elementi della dittatura nel 1976 – abbiano accusato il collega, per diversi anni, di non aver fatto nulla per salvarli dalle grinfie dei sequestratori. Jalics avrebbe cambiato versione, ricusando le precedenti, soltanto nel 2013, anno dell’ascesa al soglio pontificio di Bergoglio.

La lenta ascesa al soglio pontificio

I primi passi verso il trono di Roma sarebbero stati fatti nei primi anni Novanta, con la fine della Guerra fredda. Nel 1992 viene nominato vescovo ausiliare di Buenos Aires, cinque anni più tardi, della stessa arcidiocesi, viene fatto vescovo coauditore, e nel 1998, infine, ne diventa arcivescovo metropolita.

Il titolo gli consentirà di dare forma pratica, concreta e su larga scala alla sua visione di Chiesa. Una visione forgiata dagli insegnamenti gesuiti, orientata al Cristianesimo delle origini e guidata dal vissuto di San Francesco, dunque mirante ad accentuare la dimensione caritatevole e popolare della Chiesa.

In questi anni, complice la sua attenzione verso gli abitanti delle fatiscenti baraccopoli della capitale, Bergoglio sarebbe stato soprannominato “il Vescovo dei poveri” (el Obispo de los pobres). E sarebbe stato precisamente quel suo modo di concepire la Chiesa – allontanata dalle classi dominanti, disaccoppiata dal grande capitale e costretta alla disciplina finanziaria – a condurlo, poco alla volta, alle porte di Roma.

Nel 2001, in segno di riconoscimento della sua rilevanza per l’Argentina, Bergoglio viene creato cardinale dall’allora papa regnante, Giovanni Paolo II. Pochi anni più tardi, nel 2005, viene eletto alla presidenza della Conferenza Episcopale Argentina, che lascerà soltanto nel 2011.

Nel 2013, infine, quella visione avuta in gioventù si compie. Il 28 febbraio l’anziano Benedetto XVI abdica, forse perché impossibilitato dalla salute a proseguire il pontificato o forse perché vittima di un intrigo di palazzo, e Bergoglio, che già nel 2005 era stato un papabile, gli succede due settimane dopo, su decisione del Conclave, assumendo il nome di Francesco.

Sul trono di Roma e del mondo

Il 13 marzo 2013, con l’ascesa al soglio pontificio del Vescovo dei poveri, ha avuto inizio una nuova epoca per il cattolicesimo e per lo stesso Occidente. Riconfermandosi una potenza votata al lungo termine, contraddistinta da un orizzonte temporale sconosciuto agli Uomini, la Chiesa ha eletto quale suo re un riformatore conservatore ed un abile stratega.

Il conservatorismo moderato, tanto inviso all’ala tradizionalista della Chiesa, è stato impiegato da Francesco per aprire gli occhi al clero su quella che è la mondanità: esistono cattolici che si separano, che divorziano, esistono omosessuali alla ricerca di Cristo, esistono preti più attenti alla carriera che alla carità ed esistono folle in attesa di ricevere il Vangelo nelle “periferie del globo”.

Trovando in Pietro Parolin la mente, il braccio e la spalla ideale a compiere il passo più lungo, la mossa più rischiosa, Francesco ha introdotto la Chiesa in un nuovo cammino. Un cammino rivolto al futuro, dove non può esserci spazio per scismi anacronistici e che prevede l’archiviazione di antiche alleanze ritenute inossidabili, come quella con l’Occidente, del cui divenire realtà postcristiana, e per certi versi anticristiana, Francesco ha preso coraggiosamente atto.

L’intero pontificato bergogliano, sin dai primordi, è stato dunque improntato al futuro, alla ricerca di nuovi lidi per la Chiesa. Lidi in cui prosperare, in cui recuperare quel terreno perduto nell’ipersecolarizzata Europa e nella crescentemente protestante America Latina. Lidi come l’Africa subsahariana e l’Asia orientale, dove si trovano degli immensi bacini di anime come la Nigeria, il Congo, l’India e la Repubblica Popolare Cinese.

Ricerca di spazio vitale a parte, Francesco verrà ricordato come un papa rivoluzionario per un’altra ragione: dopo il periodo di pausa dalla diplomazia internazionale dell’era Ratzinger, il duo Bergoglio-Parolin ha riportato il Vaticano al centro del palcoscenico, degli affari mondiali, rendendolo un paciere ovunque possibile.

Nel (lungo) novero dei successi diplomatici dell’era Francesco, che sarebbero stati impossibili da realizzare senza il supporto di novelli Richelieu come Parolin e Paul Richard Gallagher, figurano per significatività ed epocalità:

La parziale normalizzazione tra Cuba e Stati Uniti durante la seconda amministrazione Obama.

Il dietrofront della seconda presidenza Obama in merito ad un possibile attacco militare su larga scala contro la Siria all’acme della guerra civile.

L’accordo sul nucleare iraniano.

L’accordo di pace tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC).

Gli incontri con i capi della cristianità ortodossa al fine del superamento del Grande scisma.

L’accordo sulla nomina dei vescovi con la Repubblica Popolare Cinese.

La cooperazione antipandemica con la Repubblica Popolare Cinese.

La nascita di un’alleanza intercivilizzazionale con l’Islam, a lungo sognata da Giovanni Paolo II, formalizzata con la firma del Documento sulla fratellanza umana.

Lo stabilimento di un patto con la Russia, mediato dal Patriarcato di Mosca, avente quali obiettivi la protezione dei perseguitati cristiani in Medio Oriente e l’accelerazione della transizione multipolare.

Francesco, in sintesi, è riuscito laddove nessuno dei predecessori aveva potuto, trasformando dei rivali di lunga data in dei collaboratori di primo piano, e se gli succederà qualcuno altrettanto devoto alla causa del multipolarismo, e capace di muoversi tra le acque agitate della terza guerra mondiale a pezzi, la Chiesa non soltanto avrebbe delle buone probabilità di sopravvivere al 21esimo secolo ma potrebbe diventarne una protagonista.

Addirittura il Papa smentisce Zanatta ed epigoni, mica male! Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Cari Lettori e Lettrici, vi ricordata la tesi di Loris Zanatta, docente a Bologna e molto conosciuto in America Latina? La tesi in sintesi è: Bergoglio è populista, sulla scia dei peronisti e con agganci nei populismi latinoamericani dal Venezuela a Cuba (chissà perché?)  e nella teologia della liberazione. Ma soprattutto quali sono le radici remote del populismo bergogliano? Affondano, niente di meno, che nelle esperienze dei gesuiti, soprattutto le “Riduzioni” nel Paraguay del Settecento, l’esperimento di evangelizzazione e promozione umana (ed economica) degli indios Guaranì.

Tesi che ho smontato, nonostante Zanatta si offenda e continui a sostenerla ovunque.

Però forse la parola “fine” (anche se sono scettico perché questi professori ideologici non la finiscono mai) ora sta arrivando. Con Papa Francesco stesso e con un libro.

Papa Francesco nel volo di ritorno dalla Grecia ha parlato di populismo e di “popolarismo”, la stessa differenza che passa tra la mitologia dell’uomo forte dal potere carismatico osannato come salvatore, ai valori culturali, sociali, economici di una popolazione. Una differenza abissale, dunque, allegramente ignorata dalle tesi precostituite. Chi abbia voglia di capire dal di dentro la differenza tra “populismo” e “popolarismo” può leggere qui.

E la trova nelle parole del Papa sull’aereo. Ecco cosa ha detto: “Contro la democrazia io oggi forse vedo due pericoli. Uno è quello dei populismi, che sono qui, di là, di là, e incominciano a far vedere le unghie. E io penso a un grande populismo del secolo scorso: il nazismo. Il nazismo è stato un populismo che, difendendo i valori nazionali – così diceva – è riuscito ad annientare la vita democratica, anzi, con la morte della gente, ad annientare, a diventare una dittatura cruenta. Oggi dirò – perché tu hai domandato sui governi di destra – di stare attenti che i governi – non dico i governi di destra e sinistra, ma un’altra cosa –: che i governi non scivolino su questa strada dei populismi, dei cosiddetti politicamente “populismi”. Che non hanno niente a che vedere con i popolarismi, che sono l’espressione dei popoli, libera: il popolo che si fa vedere con la propria identità, con il suo folclore, i suoi valori, la sua arte, e si mantiene. Il populismo è una cosa, il popolarismo un’altra. Da un’altra parte la democrazia si indebolisce, entra in una strada di lento declino, quando si sacrificano i valori nazionali, si annacquano andando verso – diciamo una parola brutta, non vorrei dire questa ma non trovo un’altra – verso un “impero”, una specie di governo sopranazionale. E questa è una cosa che ci deve far pensare. Né cadere nei populismi, dove ci si appella al popolo, ma non è il popolo, è la dittatura proprio di noi e noi altri – pensa al nazismo –; né cadere in un annacquare le proprie identità in un governo internazionale. (…) Indebolimento della democrazia, sì, per il pericolo dei populismi – che non sono il popolarismo, questo è bello –, e il pericolo di questi riferimenti a potenze internazionali: riferimenti economici, culturali, quello che sia. Non so, è quello che mi viene in mente, io non sono uno scienziato della politica, parlo per quello che mi sembra.

Chiaro, no? Quello che Zanatta chiama il populismo di Bergoglio, semplicemente non esiste. Il Papa distingue nettamente tra populismo e “popolarismo”. Zanatta farà mai ammenda? Certamente mai. Ma dallo stesso Papa arriva la stoccata finale.

A cui si aggiunge un libro sulle “riduzioni” del Paraguay di Gianpaolo Romanato (questa volta un vero storico). Le “riduzioni” sono state un esperimento di vita comunitaria su base religiosa, come lo storico Romanato documenta, con documenti originali alla mano e Paolo Mieli sottoscrive sul Corriere della Sera del 7 dicembre: “Tutto si svolse nell’arco di centocinquant’anni, tra l’inizio del Seicento e la seconda metà del secolo successivo. Le Riduzioni si estendevano su un territorio vasto situato tra gli attuali Stati del Paraguay, dell’Argentina e del Brasile. Furono, nella controversa storia delle colonizzazioni, qualcosa di insolito in cui la missione d’impronta spirituale e dal forte tratto comunitario ebbe la prevalenza su ogni altra. Ai gesuiti, alla metà del Settecento, fu poi mossa l’accusa di essersi ritagliati quel territorio per esercitare su di esso «una giurisdizione indipendente e priva di controlli», allo scopo di «accumulare enormi ricchezze ad esclusivo beneficio della Compagnia». Ma le cose non stavano così. Nel 1767 i gesuiti furono espulsi e quell’esperienza unica nella storia ebbe termine”.

Ma non terminarono le calunnie verso la Compagnia di Gesù, come Zanatta testimonia, avendo precostituito la tesi del populismo gesuita che comincia dalle Riduzioni e arriva fino a Bergoglio, per il momento. Perché le tesi costruite a tavolino per screditare questo pontificato e le sue novità, certamente non termineranno qui. Ma intanto a Zanatta è stato messo un freno. Non basterà, però meglio di niente.

Papa Francesco populista? Una grande fesseria. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Chi è il papa, anzi “chi è” questo papa, Jorge Mario Bergoglio? Risposta facile: abbiamo un papa monodimensionale, a tutto tondo e collocato in una categoria politica unica. Abbiamo un papa – questo papa: Francesco – populista, dunque degno erede del peronismo argentino. Come se sia possibile trasferire categorie politiche da qui a là in automatico. In Argentina – terra di contrasti e vicina a noi italiani – che Bergoglio sia peronista è dato per scontato. In Italia il più deciso e tenace propugnatore del peronismo di Bergoglio è Loris Zanatta, docente di Storia e Istituzioni delle Americhe all’Università di Bologna. Domenica 7 novembre, di nuovo, su “La Lettura” del Corriere della Sera (pagina 6: “Guai a chi tocca il culto di Perón”), ha ribadito la sua tesi del collateralismo tra Bergoglio e il populismo di stampo peronista. Tesi un po’ complicata e ardita, e da comprendere appieno in Occidente e soprattutto in Italia. Quindi vale la pena dedicare dell’attenzione e soprattutto verificarne la correttezza. Il colore politico dell’attuale governo in Argentina è una coalizione populista di sinistra. Il populismo, che può essere di destra o di sinistra, inteso come tendenza politica con caratteristiche oggettive, mette in luce aspetti quali la concentrazione del potere pubblico, l’esaltazione della leadership personalistica, la semplificazione dicotomica della realtà, il presunto anti-elitarismo con proposte di apparente eguaglianza sociale o apparente ricerca di favorire i più deboli, prevalenza di un approccio emotivo su quello razionale, mobilitazione sociale, ecc. Le leggi promosse dall’attuale governo argentino sono di “sinistra”: a favore dell’abolizione del diritto penale, dell’ideologia di genere, o quelle che consentono l’aborto su richiesta; nonché il nuovo disegno di legge per legalizzare l’eutanasia siano gli aspetti bioetici del populismo morale. Da notare che gli attuali governanti “di sinistra” non solo in Argentina ma anche in altri paesi dell’America Latina, sono persone ricche, il cui benessere deriva da un approfittarsi senza scrupoli di posizioni di potere o prestigio. E fin qui abbiamo descritto una tendenza politica. Ma in Argentina c’è di più, come ha scritto e commentato (ad esempio e spesso) Infobae, un sito di approfondimento politico sul quale, tra gli altri, scrive il noto prof. Fishel Szlajen, docente di diritto e bioetica, rabbino. Il “di più”, in Argentina, riguarda proprio la tanto commentata affinità di Papa Francesco con il peronismo come dicono i media locali, alimentata da esponenti kirchneriti che sembrano o dicono di essere molto vicini al Papa. Siamo al punto che la contiguità di Bergoglio con il peronismo è stata così tanto sbandierata ed affermata, da essere diventato un dato di fatto. Qui è il punto: davvero Papa Francesco è così? La “leggenda nera” di Bergoglio emerge appena qualche ora dopo l’elezione al pontificato. In quel momento vengono scandagliati i suoi rapporti con la passata dittatura militare, con il peronismo, e via dicendo. Diciamo che le accuse sono state ridimensionate e riclassificate molto presto. Del resto se ci sono state contiguità tra Chiesa argentina e dittatura e tra Chiesa e peronismo, certo resta curioso accusare un gesuita che al massimo in quegli anni era il provinciale della Compagnia. Incarico peraltro a termine e durato poco. Le connessioni tra Chiesa e dittatura sono altre e vanno cercate nell’episcopato e in generale in una gerarchia che ancora oggi non ha del tutto fatto i conti con il passato. E la finirei qui. Perché il vero punto non è il “dito” ma “la luna” da guardare. Fuor di metafora, il pontificato attuale non può venire letto sotto il segno del peronismo o del populismo politico. È oggettivamente sbagliato e storicamente ingenuo (per restare dentro una terminologia educata). Il papato cambia le persone, aprendole semmai a una visione globale. Quello che Montini, Luciani, Wojtyla o Ratzinger erano come cardinali di Milano, Venezia, Cracovia o al Sant’Uffizio, con l’elezione al soglio pontificio diventa il compito di assumere una visione globale del ruolo della Chiesa nel mondo. Quindi se vogliamo trovare dei difetti o aspetti da criticare in Papa Francesco, possiamo fare di meglio che appoggiarci su un suo populismo, peraltro senza fondamento. Il papa non è populista. Questo papa non lo è. Anzi, si potrebbe dire di più: nessun papa è o sarà mai populista. Perché non ha in mano le redini di un governo reale: un papa non ha una politica economica da mettere in atto in Vaticano – uno stato di 44 ettari! Non ha sanità, scuole, regioni, trasporti, infrastrutture, politiche locali da governare. Ha da governare la Chiesa, cioè un tipo di potere diverso. Certamente un papa produce documenti ed iniziative; ha un impatto sui media che può essere molto forte; ma il punto focale è molto diverso dalla politica. Il papa e la Chiesa nel complesso, si dedicano all’educazione delle coscienze, alla sensibilizzazione, dentro i binari del Magistero e della Dottrina Sociale. Nel caso di Bergoglio, cioè Papa Francesco, se vogliamo riepilogare i temi portanti della sua impostazione possiamo riferirci a tre documenti e due “slogan”. I documenti sono l’enciclica sulla difesa dell’ambiente (Laudato Si’) e la Fratelli Tutti sulla comune appartenenza all’umanità che deve ispirare davvero economie e politiche diverse e giuste. Sul piano ecclesiale la Costituzione apostolica Veritatis Gaudium ridisegna l’approccio agli studi superiori delle Università e Facoltà pontificie secondo criteri innovativi di interdisciplinarietà e trans-disciplinarietà. Gli “slogan” sono “la Chiesa in uscita” e la “Chiesa ospedale da campo”, a significare la spinta a cercare le persone nei luoghi in cui si trovano, il che è una vera e propria rivoluzione nella pastorale tradizionale. E quindi? E quindi i sostenitori del papa populista peronista in realtà non sanno bene di cosa stiano parlando. Si potrebbero citare vari passaggi dei discorsi di Papa Francesco ai rappresentanti dei Movimenti Popolari (dalla Bolivia 2015 in avanti) per far vedere che non c’è traccia di populismo nella visione di Francesco. Poi si potrebbe parlare di “teologia del popolo” – la versione argentina della teologia della liberazione – ed anche qui argomentare che di populismo non c’è traccia, né c’è traccia di una visione dei poveri come “popolo eletto”. Le realtà è molto diversa, con buona pace di tutti (prof. Zanatta compreso, che stenta a comprendere…). Il vero fastidio che esprimono i critici di Bergoglio è un “non detto” che va cercato nello sconcerto con cui assistono al cambio di prospettiva provocato dal pontificato; e forse non se l’aspettavano dal gesuita Bergoglio. Ad esempio è fortemente diversa l’impostazione di Papa Francesco quando esprime connessioni teologiche e sociali in modo differente dal passato. Con la Bioetica Globale salda la difesa della vita (di tutti, tutte le età, tutte le condizioni sociali) con la difesa dell’ambiente (una sola vita, un solo pianeta sui cui vivere); quando ribadisce che la fratellanza universale va presa sul serio ed implica un deciso cambiamento spazzando via i miti di razza, superiorità, populismi vari, per promuovere politiche economiche, sociali, sanitarie, educative, pienamente ispirate alla giustizia. Ed in definitiva la visione davvero innovativa si coglie nella saldatura tra teologia e dottrina sociale, facendo dell’etica il campo unificatore in cui si deve produrre una visione nuova dell’umanità. Specie in tempi di Covid19: il mondo è cambiato e il virus dovrebbe insegnare che politiche protezioniste e populiste devono finire. Se lo ha capito Papa Francesco – 84 anni! – forse anche docenti, politici, intellettuali un po’ più giovani dovrebbero rifletterci sopra!

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Il prof. non risponde. Però insulta. L’Università di Bologna lo sa? Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Oggi 10 novembre c’è un mio articolo (pag. 1 e 11) intitolato “Bergoglio populista? È una gran fesseria”.  Spiego che in Italia il più deciso e tenace propugnatore del peronismo di papa Francesco è Loris Zanatta, docente di Storia e Istituzioni delle Americhe all’Università di Bologna. Domenica 7 novembre, di nuovo, su “La Lettura” del Corriere della Sera ha ribadito la sua tesi del collateralismo tra Bergoglio e il populismo di stampo peronista. Tesi un po’ complicata e ardita. Il pontificato attuale non può venire letto sotto il segno del peronismo o del populismo politico. È oggettivamente sbagliato e storicamente ingenuo (per restare dentro una terminologia educata). Il papa non è populista. Questo papa non lo è. Anzi, si potrebbe dire di più: nessun papa è o sarà mai populista. A pagina 11 si può leggere tutto l’articolo per avere una visione più analitica della questione.

Però ai lettori vorrei raccontare un retroscena personale (ma forse non troppo…). Lunedì 8 invio al caporedattore de “La Lettura” la seguente mail: “A pag. 6 de “La Lettura” di domenica 7 novembre, il prof. Zanatta, a proposito di peronismo (di sinistra, di destra?), insinua una collateralità tra la Chiesa argentina e questo movimento politico. Lo insinua; ha sviluppato questa tesi in modo più ampio in un recente libro collegando posizioni molto diverse e contesti diversissimi. La ricostruzione è del tutto errata se riferita al papa attuale ed alla “teologia del popolo” che è una elaborazione originale della Chiesa in Argentina negli anni del dopo-Concilio e della dittatura militare. Gli stessi anni in cui  in America Latina si sviluppava la Teologia della liberazione. Su “La Lettura”, Zanatta accenna e insinua.  In realtà si ha una prospettiva più completa e meno riduttiva leggendo Juan Carlos Scannone (“La teologia del popolo”, Queriniana) e i discorsi di papa Francesco sul tema dei movimenti popolari (una realtà latinoamericana che a noi in Occidente sfugge) per capire che appoggiare i movimenti popolari nelle loro complesse e articolate rivendicazioni di giustizia sociale non è “populismo”.  Nel 2015 in  Bolivia, incontrando i Movimenti popolari, Papa Francesco elencò tre compiti: Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli; Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia; Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra. Come si vede, tutt’altro che populismo (il discorso è naturalmente molto più ampio…) perché il retroterra è la Dottrina Sociale della Chiesa (e qui il populismo proprio non ci sta…). Avanzare la tesi del populismo di Bergoglio (e dei gesuiti), questa tesi è, questo sì, travisamento ideologico. In America Latina la Chiesa cattolica ha avuto (ed ha) un ruolo sociale molto importante ed infatti poche pagine dopo sullo stesso numero de “La Lettura” troviamo un ottimo articolo su Gustavo Gutierrez e la teologia della liberazione. Ma le tesi del prof. Zanatta proprio non si possono mettere in pagina senza discuterle!”

La mia mail è scortese? Offensiva? Giudicate voi lettori. Ma evidentemente Zanatta la trova offensiva perché a stretto giro risponde (gli è stata inviata dalla redazione per conoscenza) con un tono degno di migliore causa. Vi risparmio il testo integrale e mi limito a un paio di passaggi: “Non poteva che essere un giornalista: non solo molti di voi non sanno niente ma credono di sapere tutto, ma non si prendono nemmeno la briga di informarsi sull’oggetto dei loro strali. Protervi e ridicoli. Nel merito non entro (…). Vive dentro una grande camera dell’eco, legge autori che cantano in coro (…). Beh, dovrà rassegnarsi a vivere in un mondo dove c’è chi pensa diversamente da lei e a differenza di lei sa almeno di cosa parla. Studi, le farà bene, senta campane diverse, la aiuteranno a rafforzare le sue convinzioni oppure a rivederle, ma ancor più ad essere meno spocchioso”. 

Povero me! Che cosa ho fatto mai per meritarmi la sonora bocciatura? Forse il delitto di lesa maestà è di avere avanzato osservazioni e infatti notiamo che il nostro docente lui stesso ammette: “nel merito non entro”. Certo, più facile insultare e buttarla in caciara che discutere seriamente come faccio con il mio pezzo di pag. 11 oggi. Ma adesso se a una mail ho ricevuto una furiosa risposta, cosa accadrà per un intero articolo? Devo tremare?

Da la Stampa il 7 novembre 2021. Don Enrico Pozzoli, partito dalla Lombardia per l'Argentina all'inizio del '900, è il missionario salesiano che nel 1936 battezzò il futuro papa Francesco, diventando poi suo confessore e maestro spirituale. Nato a Senna Lodigiana nel 1880 e morto a Buenos Aires 81enne, per 58 anni fu punto di riferimento per migliaia di migranti italiani in cerca di un futuro migliore: tra questi anche la famiglia Bergoglio, che trovò in lui un valido sostegno umano e cristiano, oltre che un amico. Avendo saputo che era in corso la scrittura di un volume su don Pozzoli, il Pontefice ha convocato l'autore, Ferruccio Pallavera, offrendogli la propria testimonianza inedita. Ora ecco nelle librerie Ho fatto cristiano il Papa (in uscita in questi giorni per la Libreria Editrice Vaticana, pp. 222, 12 euro), che sarà presentato ad Asti il 10 novembre, il 12 a Roma con il cardinale Tagle e il ministro Guerini, il 14 a Senna Lodigiana e il 17 a Lodi. Pubblichiamo le parole del Papa sul suo educatore. 

Testo di Papa Francesco – Estratto dal libro Ho fatto cristiano il Papa. A lui ricorrevano tutti coloro che vivevano un problema particolare, nella certezza che avrebbe fatto di tutto per fornire un aiuto. Ci si rivolgeva a padre Pozzoli anche quando si aveva bisogno di un consiglio. Padre Pozzoli aveva il senso della realtà. E quando capitava qualcosa di insolito, aveva un particolare modo di esprimersi. Si portava la mano alla sommità della testa e se la grattava con le cinque dita, dicendo «canastos!». Questo era il suo unico gesto di impazienza. Era un uomo dotato di grande buon senso, che metteva in luce nei tanti consigli che dispensava alla gente. Per questo era molto apprezzato da tutti. Trascorreva ore e ore in confessionale e nel corso degli anni era diventato il punto di riferimento per tutti i salesiani di Buenos Aires e delle comunità del circondario. Lo stesso faceva con numerosi sacerdoti diocesani. Si recava periodicamente a confessare anche le suore di Maria Ausiliatrice. Era veramente un grande confessore. Sapevo che lui mi avrebbe compreso più di mia madre. Infatti si dimostrò subito entusiasta. Mia madre non ebbe la medesima reazione. Mi rispose che avrei dovuto riflettere a lungo prima di assumere quella decisione, che sarebbe stato meglio per me ultimare l'università e laurearmi. Era l'agosto 1957. Iniziai a sentire delle fitte al polmone destro. Il dolore non cessava. La mia salute crollò, mi portarono urgentemente in ospedale, ero debolissimo, al punto che non mi reggevo in piedi, mi caricarono su una barella». Padre Pozzoli condivise questa mia decisione e non mi propose di entrare nei salesiani anziché nella Compagnia di Gesù. Lui rispettò sempre la mia scelta, non era il tipo di sacerdote che faceva proseliti. Si informò e mi disse che i gesuiti mi avrebbero accolto nel loro seminario nel mese di marzo. Eravamo a novembre. Aggiunse che non era conveniente che io rimanessi a casa per quei quattro mesi. Avevo anche la necessità di riprendermi fisicamente, perché l'operazione che avevo subito era stata molto pesante. Allora si rivolse al suo diretto superiore, l'ispettore salesiano di Buenos Aires, al quale espose la mia situazione. 

Domenico Agasso per "la Stampa" il 22 ottobre 2021. «Uno, due, tre, quattro. Si sente bene o non si sente?». Inizia con la prova microfono di un rilassato e incuriosito papa Francesco Stories of a Generation, la nuova docu-serie Netflix in quattro episodi ispirata a Sharing the Wisdom of Time (La Saggezza del tempo), il pluripremiato libro scritto dal Pontefice a cura di padre Antonio Spadaro, edito da Loyola Press (in Italia da Marsilio, 2018). Il documentario - di Simona Ercolani, con la consulenza editoriale di Spadaro e prodotta da Stand By Me, partner di Asacha Media Group - è stato presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma con la proiezione in anteprima mondiale del primo episodio, «Love», e sarà integralmente disponibile su Netflix da Natale. È un incontro tra generazioni, donne e uomini over 70 provenienti da ogni parte del mondo che si narrano davanti all'obiettivo di filmmaker under 30. Ciascuno dei quattro episodi tocca uno dei grandi temi che accomunano l'essere umano: amore, sogni, lotta, lavoro. Fil rouge: il dialogo tra i due gesuiti, il Vescovo di Roma e il direttore di Civiltà Cattolica. Francesco si mostra non solo nella veste di guida spirituale, ma anche in quella di Jorge Mario Bergoglio, un uomo tra gli uomini, che condivide la sua esperienza di vita con aneddoti personali. Per esempio parla del Tango. «Le piace?», domanda Spadaro; «Sì». «L'ha mai ballato?»; «Sì», risponde con una grande risata. Lo descrive: «Guidare ed essere guidati, avere la responsabilità di prendersi cura dell'altro sono tutte immagini di tenerezza, no? Il tango è una melodia che evoca nostalgia e speranza». E poi svela: nel gennaio 1970 «venni a sapere che la grande cantante argentina di tango Azucena Maizani era molto malata. Ero prete da un mese. Le diedi io l'estrema unzione». «Santo Padre, cos' è l'amore?». «Mi viene da chiederti: "Cos' è l'aria?". Potrei dirti che l'amore è un sentimento, l'elettricità che attraversa un organismo. Ma cos' è l'amore in quanto tale?», riflette. E dice: «Quando confesso le giovani coppie sposate, chiedo loro una cosa: "Giochi con i tuoi figli?". È questa la chiave. La gratuità del gioco. L'amore è gratuito o non è amore». E poi, «non può essere concettualizzato. Per esempio - ed è successo anche a me - una delle cose che infastidisce di più un malato è quando il prete va a trovarlo e inizia a dire: "Dio è con te", e altre cose simili». Oppure quando «va a trovarlo un parente, la zia o la nonna, che gli parlano». In realtà «non lo stanno confortando, perché lì non c'è amore. Amare un malato significa mettersi nei suoi panni». Un sofferente «vuole essere guardato, tenuto per mano, ma con la bocca chiusa. È così che si esprime vicinanza. L'amore è vicinanza». Per la prima volta, il regista premio Oscar Martin Scorsese svela aspetti della sua vita e quotidianità attraverso un'intervista intima, girata da sua figlia, la regista e attrice Francesca, e accompagnata da video di famiglia inediti. E il Papa ricorda di quando venne da lui: era con sua moglie «malata, mentre lui era la "grande star", eppure disse: "È lei che mi interessa. È più importante di tutti i miei successi, di tutti i miei film. Questa donna è tutto ciò di cui mi importa". Era una priorità. Mostrò il suo amore. Questo merita più premi dei suoi film, che sono eccezionali», afferma Francesco. L'esistenza di Vito Fiorino, un gelataio di Lampedusa, cambia per sempre il 3 ottobre del 2013, quando mette in salvo sulla sua piccola barca 47 naufraghi che stavano affogando. Alcuni diventano come suoi «figli». Scorsese e Fiorino parlano di paternità, su cui si sofferma anche il Papa: «Sei un padre quando ti prendi cura di tuo figlio, delle sue sofferenze. Soffri e poi vai avanti. Non diventi padre perché hai generato un figlio. No, questo non fa di te un padre. Biologicamente sì. Ma essere un vero padre significa trasmettere il tuo essere al bambino, non generarne uno. Nella vita ciò che ti rende padre è il tuo impegno verso l'esistenza, i limiti, la grandezza, lo sviluppo di questa persona a cui hai dato la vita e che hai visto crescere». Dopo avere perso la figlia durante la dittatura dei generali in Argentina e smarrito le tracce di suo nipote, Estela Barnes de Carlotto dà vita al movimento delle Abuelas de Plaza de Mayo, un gruppo di anziane indomite che si mettono alla ricerca di tutti i bambini desaparecidos. Estela lo troverà, suo nipote, dopo 36 anni. Scandisce il Papa: «Un bellissimo canto alpino fa: nell'arte dell'arrampicata, ciò che conta non è evitare di cadere, ma non restare a terra».

Papa Francesco, “non ci sarò più”: la frase sfuggita in udienza rilancia il tam-tam, dimissioni?

Libero Quotidiano il 30 settembre 2021. La salute di Papa Francesco e l'ombra delle dimissioni. A rilanciare le indiscrezioni che da mesi percorrono i corridoi e le stanze del Vaticano è, di certo involontariamente, monisignor Giuseppe La Placa. Il vescovo di Ragusa è stato ricevuto un paio di giorni fa dal Santo Padre in udienza privata, alla Biblioteca del palazzo apostolico. Come riporta il Messaggero, durante il colloquio il monsignore avrebbe invitato Bergoglio in Sicilia, per festeggiare una importante ricorrenza insieme ai ragusani. E in tutta risposta, sarebbe arrivata una nuova, sibillina frase del Pontefice. "Ho invitato il Papa a visitare Ragusa in occasione del settantacinquesimo anniversario della fondazione della Diocesi nel 2025 e il Santo Padre ha fatto un sorriso e un cenno di assenso e con una battuta mi ha risposto dicendo che nel 2025 sarà Giovanni XXIV a fare quella visita....". Apriti cielo. Una volta diffusasi la notizia, i retroscenisti si sono nuovamente scatenati ricordando come peraltro il Santo Padre argentino in passato abbia già per due volte accennato a un suo possibile ritiro, causa età e salute un po' traballante, indicando in un periodo che va dai 3 ai 5 anni la durata residua del suo mandato apostolico. La battuta di fronte alle richieste ricevute era sempre la stessa: sarà un altro Papa a partecipare. Ovviamente, la polemica è ancora freschissima e le recenti smentite di mosse "alla Ratzinger" servono a poco. Le stesse dichiarazioni di Bergoglio, peraltro, sui corvi già pronti a organizzare il Conclave quando è stato operato d'urgenza al colon a Roma, lo scorso luglio, di certo però non hanno aiutato a diradare veleni, sospetti e timori. "Non entro in questo gioco - aveva spiegato Francesco sul tema del suo addio anticipato -. Non guardo la televisione. Nel corso della giornata ricevo una relazione sui fatti del giorno, ma ho scoperto molto più tardi, alcuni giorni più tardi, che giravano voci delle mie dimissioni. Ogni volta che un Papa sta male c’è un vento, un uragano, di conclave". Di certo, deve fare attenzione anche alle battute.

Papa Francesco, scoop-Nuzzi: "Chi c'è tra i congiurati", qui crolla il Vaticano. Libero Quotidiano il 03 ottobre 2021. "Nei sacri palazzi si cercano i congiurati, quelli che Papa Francesco solo qualche giorno fa indicava intorno a un tavolo, pronti a tratteggiare il volto del nuovo Pontefice, eletto da un imminente conclave. I loro nomi non sono mai stati un mistero, figurarsi ora, dopo le nuove dichiarazioni di Francesco contro l'aborto che riducono le distanze con la Chiesa più dogmatica. Ma a sorpresa potrebbero emergere nuovi insospettabili nomi, un tempo fedelissimi dello stesso Bergoglio". Così scrive Gianluigi Nuzzi sulla Stampa. "I congiurati appartengono a una chiesa imperiale - spiega un sacerdote, da sempre vicino al Pontefice - che Bergoglio respinge. Una Chiesa del privilegio, che ama essere riconosciuta, alligna nelle prebende, non vuole sottoporsi al giudizio di nessuno, nell'assoluta autoreferenzialità". Da qui la doppia morsa al papato: da una parte appunto i conservatori che leggono come deriva teologica le aperture di Francesco, dall'altra quel sistema di potere che si riteneva intoccabile e che dai tempi di Paolo VI imperversa in curia. "Non è infatti un mistero che il "nuovo corso", preparato tra enormi fatiche già ai tempi di Benedetto XVI e di Ettore Gotti Tedeschi allo Ior dieci anni fa, subisca brusche frenate, prosegua a singhiozzo. In curia ancora ricordano quell'illuminante missiva ricevuta solo qualche anno fa da Bergoglio nella quale diversi coraggiosi dipendenti del Vaticano lamentavano di non poter applicare la nuova legge anti riciclaggio: I giornali di tutto il mondo inneggiavano a questo cambiamento ma, in realtà, eravamo ancora fermi con le mani legate perché non erano state preparate le norme attuative da seguire", scive Nuzzi. Si ritorna anche sul caso Becciu. "Non c'è stato errore di Becciu ma di un sistema che pensa di essere intoccabile". In questa prospettiva potrebbero emergere altre operazioni finanziarie sospette, intercettate dai sistemi ispettivi delle banche centrali dei Paesi coinvolti.

Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” il 3 ottobre 2021. Nei sacri palazzi si cercano i congiurati, quelli che Papa Francesco solo qualche giorno fa indicava intorno a un tavolo, pronti a tratteggiare il volto del nuovo Pontefice, eletto da un imminente conclave. I loro nomi non sono mai stati un mistero, figurarsi ora, dopo le nuove dichiarazioni di Francesco contro l'aborto che riducono le distanze con la Chiesa più dogmatica. Ma a sorpresa potrebbero emergere nuovi insospettabili nomi, un tempo fedelissimi dello stesso Bergoglio. «I congiurati appartengono a una chiesa imperiale - spiega un sacerdote, da sempre vicino al Pontefice - che Bergoglio respinge. Una Chiesa del privilegio, che ama essere riconosciuta, alligna nelle prebende, non vuole sottoporsi al giudizio di nessuno, nell'assoluta autoreferenzialità». Ed è inevitabilmente un'ala che ritiene irricevibile questo pontificato indirizzato da un radicale richiamo alla vita evangelica, ad aiutare i poveri da poveri, con i cantieri per le riforme e la trasparenza. Da qui la doppia morsa al papato: da una parte appunto i conservatori che leggono come deriva teologica le aperture di Francesco, dall'altra quel sistema di potere che si riteneva intoccabile e che dai tempi di Paolo VI imperversa in curia. Le parole durissime di Francesco contro l'aborto («C'è l'abitudine all'omicidio, è come affittare un sicario») sono la risposta concreta a chi mosso da altri interessi vede in questo Papa l'espressione di un neo modernismo teologico da censurare. Francesco non viola i sigilli della dottrina, alla quale si richiama al di là delle interpretazioni strumentali che lo vogliono fuori da quell'alveo. È una posizione indispensabile per superare i venticelli di chi soffia sulle polemiche e concentrarsi sulle riforme. Anche perché per spiegare quanto sta accadendo in diversi sottolineano come il Pontefice abbia subito la scoperta di vedere tra chi rema contro anche uomini di chiesa che lui aveva scelto e dei quali si fidava. Sembra infatti che tra i congiurati, tra quelli che vogliono riposizionare il Vaticano a Chiesa centrale del sistema emergano anche profili di alti prelati ritenuti vicini al Papa. E sarebbe proprio questo retroscena ad aver alimentato l'amarezza di Francesco e la sua clamorosa denuncia. Oggi il gesuita vescovo di Roma puntella la dottrina, appunto per alleggerire l'arsenale dei suoi oppositori dalle accuse strumentali, e cerca di capire quale dicastero può essere ancora ostaggio della vecchia guardia. «Chi oggi è a disagio - prosegue la fonte - non vuole che la Chiesa cammini nella storia: Gesù a 12 anni non è Gesù sulla croce». Anche perché «quelli che non amano le riforme è perché amano zone d'ombra». In questa prospettiva sarebbe un eccesso di ottimismo ritenere che il processo in corso al cardinale Angelo Becciu possa soddisfare e sanare quel mondo: «Non c'è stato errore di Becciu ma di un sistema che pensa di essere intoccabile». In questa prospettiva potrebbero emergere altre operazioni finanziarie sospette, intercettate dai sistemi ispettivi delle banche centrali dei Paesi coinvolti. Non è infatti un mistero che il "nuovo corso", preparato tra enormi fatiche già ai tempi di Benedetto XVI e di Ettore Gotti Tedeschi allo Ior dieci anni fa, subisca brusche frenate, prosegua a singhiozzo. In curia ancora ricordano quell'illuminante missiva ricevuta solo qualche anno fa da Bergoglio nella quale diversi coraggiosi dipendenti del Vaticano lamentavano di non poter applicare la nuova legge anti riciclaggio: «I giornali di tutto il mondo inneggiavano a questo cambiamento ma, in realtà, eravamo ancora fermi con le mani legate perché non erano state preparate le norme attuative da seguire».

"Mi volevano morto...". La cena dei corvi mentre il Papa era in ospedale. Fabio Marchese Ragona il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Bergoglio ai Gesuiti. La cena con vescovi e cardinali durante il ricovero. C'è il nome di chi l'ha organizzata. Una cena in Vaticano con cardinali e vescovi la sera di domenica 4 luglio, mentre Papa Francesco era sotto ai ferri al Policlinico Agostino Gemelli di Roma per l'intervento al colon dovuto ai diverticoli. Una serata conviviale tra amici e compagni di cordata, non per recitare il rosario e pregare per il buon esito dell'operazione papale, ma per iniziare a metter la testa sull'identikit del nuovo Papa, facendo la conta dei voti, convinti che a Bergoglio rimanesse ormai poco tempo da vivere. La stagione dei veleni che sembrava archiviata da tempo, torna alla ribalta all'ombra di San Pietro dopo il ricovero del Pontefice, con corvi e lingue biforcute che hanno iniziato a scaldare la stufa per il prossimo conclave. La conferma di quanto accaduto in quella calda sera d'estate l'ha data lo stesso Pontefice che, incontrando nei giorni scorsi alla nunziatura apostolica di Bratislava i confratelli gesuiti per un colloquio senza filtri (pubblicato da Civiltà Cattolica, la rivista della Compagnia di Gesù), ha mandato un messaggio chiarissimo ai detrattori che vivono in Curia: «Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene». Ma c'è di più: secondo fonti molto autorevoli, sulla scrivania di Papa Francesco, oltre alla notizia della cena, è arrivata anche un'informazione molto preziosa: il nome e il cognome dell'organizzatore dell'incontro, il corvo, alto prelato, che ha messo in moto la macchina curiale per ritornare nella Cappella Sistina e archiviare il pontificato di Francesco. Le condizioni di salute del Papa, nelle settimane successive al ricovero, sono però notevolmente migliorate, mandando in fumo le aspettative del gruppo, che ha dovuto subito mettere in atto il piano B, diffondendo tra i giornalisti una fake news studiata ad arte: Francesco è in procinto di dimettersi, lascerà il pontificato forse già il prossimo dicembre, al compimento degli 85 anni. Anche in questo caso, la notizia è subito stata fatta trapelare da qualche fedelissimo a Casa Santa Marta con Papa Francesco che ha approfittato, qualche settimana fa, di un'intervista alla radio della Conferenza Episcopale Spagnola, COPE, per smentire la cattiveria: «Dimettermi? Una parola può essere interpretata in un modo o nell'altro, no? Sono cose che succedono. Non so da dove sia uscita la notizia che stavo per presentare le dimissioni! Non mi è nemmeno passato per la testa». Non è un mistero, peraltro, che in Vaticano come altrove, i critici di Papa Francesco sono aumentati col passare degli anni: stufi delle novità e spesso depotenziati per non far danni, non hanno risparmiato al Pontefice colpi «diabolici» per le sue ultime decisioni sulla messa in latino e non solo. Rivolgendosi sempre ai gesuiti slovacchi, Bergoglio ha, infatti, chiarito: «Io posso meritarmi attacchi e ingiurie perché sono un peccatore, ma la Chiesa non si merita questo: è opera del diavolo. Ci sono anche chierici che fanno commenti cattivi sul mio conto - ha aggiunto il Papa argentino -. A me, a volte, viene a mancare la pazienza, specialmente quando emettono giudizi senza entrare in un vero dialogo. Lì non posso far nulla. Io comunque vado avanti senza entrare nel loro mondo di idee e fantasie. Non voglio entrarci e per questo preferisco predicare. Alcuni mi accusavano di non parlare della santità. Dicono che parlo sempre del sociale e che sono un comunista. Eppure ho scritto una Esortazione Apostolica intera sulla santità, la Gaudete et exsultate». Fabio Marchese Ragona

Quel "mistero" sulle parole del Papa. Francesco Boezi il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. Papa Francesco ha fatto emergere quello che altri pontefici si sono tenuti per sé. Continuano le domande aperte sulle frasi di Jorge Mario Bergoglio sul "complotto". Benedetto XVI aveva i "lupi", Papa Francesco ha i "corvi", che hanno fatto la loro comparsa già durante il pontificato precedente. Allegorie accomunate dal muoversi nell'ombra, per evitare la luce della ribalta e gli occhi vigili di chi osserva: "preda" compresa. È una settimana che, almeno tra chi si occupa di Chiesa cattolica ed ambienti ecclesiastici, si tende a parlare di quanto rivelato da papa Francesco ai gesuiti slovacchi: il summit per il dopo-Bergoglio di alcuni, pochi, cardinali e presuli. Esiste una continuità storica tra i tentativi di discutere prima che serva del futuro del soglio di Pietro. Anche San Giovanni Paolo II aveva i suoi "avversari" interni. Certo, ipotizzare soltanto di mettere in discussione il pontefice polacco aveva un altro peso. Però in Vaticano non sono troppo nuovi ad ipotesi di "congiure" e simili. Perché, questa volta, il vescovo di Roma ha voluto portare tutto alla ribalta? Se è vero - ed è vero - che ogni successore di Pietro si è dovuto confrontare con chi rema contro, perché Francesco ha rilasciato quelle dichiarazioni, sapendo che sarebbero balzate all'attenzione delle cronache? La domanda potrebbe essere rivolta pure a Benedetto XVI, con il suo noto "pregate perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi". Quali "lupi"? E perché quel richiamo al non scappare? Due quesiti accompagnano i retroscenisti da più di un decennio ed in misura maggiore dalla rinuncia del tedesco in poi. Forse, il tono ed il contenuto di certe dichiarazioni papali, dipende dal livello raggiunto dallo scontro. In Santa Sede esistono le cosiddette "correnti", per quanto ogni Papa le combatta nel nome dell'unità. E se non sono correnti, allora sono almeno diverse sensibilità su come la Chiesa di Roma dovrebbe essere e su cosa bisognerebbe concentrarsi. Ma la dialettica può sfuggire di mano. Come nel caso di un piccolo gruppetto di alti ecclesiastici che decidono di riunirsi per discutere del pontificato del domani mentre il pontefice risulta ricoverato. Si tratta di una supposizione: Francesco potrebbe aver deciso di svelare il "complotto" per segnalare, dentro e fuori, di avere contezza di un'attività oppositiva. Attività che nel frattempo potrebbe aver superato i limiti dei distinguo dottrinali per virare altrove. Un altro elemento da considerare, come molti hanno fatto in questa settimana, è quello della mediaticità. Quando un Papa rilascia dichiarazioni ai tempi d'oggi, conosce sicuramente le conseguenze sul piano mediatico. Le "congiure" o i tentativi di metterle in piedi saranno pure sempre esistiti, ma gli strumenti della modernità consentono un'emersione sul piano pubblico mai immaginata prima. La Chiesa cattolica è immersa nei cosiddetti nuovi media, sia sul piano pastorale sia su quello della narrativa rispetto a quanto accade dentro le mura leonine. Bergoglio, questo, lo sa benissimo. E allora varrà la pena continuare ad ascoltare le parole del pontefice argentino, che potrebbe proseguire con il suo filone di rivelazioni. Bergoglio potrebbe aver deciso di portare alla ribalta quella lotta interna che altri pontefici si sono tenuti per sé o quasi. É il carattere del gesuita, del resto, a suggerire quanto la trasparenza possa essere un paradigma fisso, persino nell'eventualità di congiure e complotti. 

Francesco Boezi.  Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia.

Antonio Socci per "Libero quotidiano" il 24 settembre 2021. «Sulla "congiura" denunciata dal Papa le possibilità sono solo due: è falsa, e va ridimensionata ufficialmente, oppure è vera e allora intervenga la giustizia vaticana e le sue leggi». Questo è il lungo titolo di un articolo apparso ieri sul sito paravaticano Il Sismografo e firmato dal suo stesso direttore Luis Badilla. Bisogna tenere presente che non si tratta un sito "conservatore" o anti-bergogliano. Tutt' altro. È progressista e bergogliano, molto vicino agli ambienti della Curia, quindi svela l'aria che tira Oltretevere. Papa Bergoglio sembra ormai in guerra con tutti, pure contro quella Curia che lo ha voluto papa e lo ha poi sostenuto. Emblematico è il processo al card. Becciu che è stato negli anni un suo devoto sostenitore e il suo più stretto collaboratore. Nelle ultime ore il clima si è fatto ancora più pesante, per le dichiarazioni del papa in Slovacchia a cui allude il titolo del Sismografo. Ecco le clamorose parole di Bergoglio: «Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il Conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene». A dire il vero a parlare della gravità delle sue condizioni di salute fu lo stesso Bergoglio quando dichiarò: «Un infermiere mi ha salvato la vita» (si riferiva all'operatore sanitario che il 4 luglio gli consigliò di andare subito al Gemelli a farsi operare). In quell'intervista aveva anche detto: «Quando un Papa è malato, si alza un vento o un uragano di Conclave». In effetti è normale, da sempre, in Vaticano e nella Chiesa discutere sul futuro quando si ha un papa di 85 anni ricoverato in ospedale con seri problemi. Così è stato anche stavolta. È quell'"aria di Conclave" di cui Libero aveva dato conto il 23 agosto. Ma in Slovacchia Bergoglio è tornato sull'argomento con le parole inaudite che abbiamo citato. Mai un papa aveva esternato così, almeno nei tempi moderni. Giovanni Maria Vian, storico ed ex direttore dell'Osservatore Romano, al Corriere della sera ha detto: «In effetti questo è nuovo. È il suo stile. Oppure si può dire che è un ritorno all'antico, quando i Papi intervenivano contro i loro oppositori, non più tardi del Cinquecento». Si comprende da queste parole che Bergoglio ha una concezione monarchico-rinascimentale del suo papato e forse è proprio da questa sua idea del potere che derivano la sindrome dell'assedio, il clima di sospetto, il timore di congiure e il vedere nemici dovunque. La sua dichiarazione è così dirompente e getta un tale sospetto sulla Curia, che il Segretario di Stato Parolin ha dovuto candidamente chiamarsene fuori, dichiarando: «Probabilmente il Papa ha informazioni che io non ho. Sinceramente non avevo avvertito che ci fosse questo clima...Il Papa probabilmente fa queste affermazioni perché ha conoscenze e ha dati che a me non sono pervenuti». Le sue parole sono state interpretate così dai media: «Papa Francesco smentito da Parolin. Il cardinale: nessuna congiura. Santa Sede, il segretario di Stato non avalla l'accusa di Bergoglio su trame ai suoi danni durante la malattia. "In Curia clima sereno"» (titolo di Qn). Dall'HuffPost è arrivato quindi un attacco di Maria Antonietta Calabrò: «L'inaudito controcanto di Parolin al Papa. Mai prima un segretario di Stato ha corretto pubblicamente il Pontefice». L'articolista ritiene che Bergoglio sia irritato con la Segreteria di Stato anche per «l'incontro tra Matteo Salvini e il Segretario per i rapporti con gli Stati arcivescovo Paul Callagher». Così anche il card. Parolin è finito nella tempesta. Quale sia dunque, oggi, il clima in Curia lo mostra l'articolo del Sismografo, che definisce quelle di Bergoglio «frasi sorprendenti, sconcertanti e insidiose... che denunciano l'esistenza di "una congiura di palazzo"..."congiura" denunciata dal Pontefice senza mezzi termini e in modo diretto. Una vera bomba ad orologeria». Badilla rileva però che il papa ha lanciato quella "bomba" senza rivelare né i nomi, né i luoghi, né le circostanze. Quindi un'accusa grave e generica. Perché? Il direttore del Sismografo fa alcune ipotesi: «un errore del Pontefice che non sempre parlando a braccio usa le parole giuste (per esempio, in quest' ultimo anno ha detto ben due volte che Dio nell'incarnazione "si è fatto peccato" - sic)». Oppure «si è trattato di una leggerezza del linguaggio poiché, come si sa da quando era Provinciale dei gesuiti in Argentina, non sempre frena l'uso di aggettivi poco carini addirittura nei confronti dei suoi collaboratori. L'uomo è irruento e impulsivo e negli ultimi tempi è riemersa la sua personalità autoritaria, che lui stesso ha criticato pubblicamente». Terza ipotesi: «Voleva mandare alcuni messaggi a certe persone oppure voleva distrarre l'attenzione mediatica» da alcuni suoi infortuni o «dal pasticcio che creò con la "questione Orbán", dalla quale tra l'altro la sua immagine e credibilità sono uscite danneggiate». Infine si può ipotizzare che Francesco, con la storia della presunta congiura, sia «scivolato nelle tenebre delle chiacchere cosa che ha condannato decine di volte». Quale che sia l'ipotesi giusta, secondo Badilla «il Santo Padre a questo punto ha una sola via d'uscita possibile: consegnare alla giustizia vaticana... tutta la documentazione - nomi, cognomi, luoghi e circostanze dei "prelati che preparavano un conclave" - e che servono per dare sostegno giuridico alla gravissima denuncia di un reato - per ora presunto- che si configura quando ci si organizza per portare a compimento un'azione di questa natura». Perché «nel mondo delle nazioni e delle comunità civili, basate sul diritto, questo si chiama "golpe"». Badilla trae questa pesante conclusione perché il papa non ha parlato «di ecclesiastici e/o laici che discutono sul futuro Papa (cosa che si fa - legittimamente e naturalmente - tutti i giorni da secoli)», ma ha usato «espressioni puntuali e ben circoscritte. Dice: sono vivo "nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave"». In conclusione, afferma Badilla, quello che ha dichiarato papa Francesco «o è falso o è vero. Se "falso" si faccia capire che è stato un errore imprudente. Se invece è vero, si presentino le prove davanti al Tribunale vaticano». Per ora la denuncia della presunta congiura al Tribunale vaticano non si è vista (e probabilmente mai si vedrà). Tuttavia sono ben visibili le macerie della Chiesa.

Chi sono i corvi che vogliono la fine del Papa. Fabio Marchese Ragona il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Con Bergoglio malato hanno fatto fronda per eleggere un nuovo Pontefice. In 5 guidati da un alto prelato. Una caccia ai nomi, per scoprire l'identità dei corvi, cardinali e vescovi che durante il ricovero di Papa Francesco al Policlinico Gemelli di Roma, lo scorso luglio, hanno organizzato una cena in Vaticano per individuare un possibile successore di Bergoglio. Dopo la denuncia pubblica del Pontefice, che incontrando i gesuiti slovacchi a Bratislava negli scorsi giorni ha detto «sto bene, alcuni mi volevano morto, stavano già preparando un Conclave», dentro alle sacre stanze non si parla d'altro e si cerca di capire chi siano quei congiurati che hanno approfittato della malattia di Francesco per formare una cordata pronta a rientrare nella Cappella Sistina e voltare pagina, sognando un nuovo Papa. Solite trame e veleni di palazzo che non son mai mancati, commenta qualche vecchio curiale, confermando che il clima di tensione all'ombra di San Pietro non si è affatto attenuato, anzi. Goloso di pettegolezzi, più di un alto prelato si è anche messo sulle tracce di chi, anziché pregare, ha sperato che Francesco morisse dopo il delicato intervento al colon dovuto ai diverticoli. Speranza, però, caduta subito nel vuoto: dopo alcune settimane dalle dimissioni dal decimo piano del Policlinico romano, l'84enne Papa argentino non solo ha subito fatto sapere di avere progetti a lungo termine ma si è anche messo in viaggio per un impegnativo pellegrinaggio in Ungheria e Slovacchia durato quattro giorni. Il nome del padrone di casa che ha fissato la riunione dei cospiratori in Vaticano è stato, comunque, riferito al Pontefice dopo il rientro a Santa Marta dal Gemelli e, da quanto è emerso, si tratterebbe di un alto prelato che vive in Vaticano da oltre dieci anni e che è considerato un punto di riferimento del mondo tradizionalista, pur non esternandolo pubblicamente come tanti altri suoi confratelli. Un uomo di Chiesa, peraltro, tenuto in grande considerazione dai confratelli nordamericani che in un futuro Conclave avrebbero intenzione, questa volta, di non accodarsi ma di dettare la linea. Non è un caso che il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Dolan, uno dei grandi delusi del Pontificato di Bergoglio, si sia già presentato agli occhi dell'intero collegio cardinalizio come un possibile kingmaker: nel luglio del 2020 aveva spedito con un corriere a tutti i porporati del mondo e a proprie spese, un libro in cui si traccia l'identikit del «prossimo Papa» e in cui l'autore, George Weigel, attivista statunitense fortemente critico nei confronti del Pontefice, propone la strada che il prossimo Papa dovrà percorrere «dopo i gravi fallimenti istituzionali e la confusione liturgico-dottrinale degli ultimi decenni». Sulla famosa «cena dei congiurati», inoltre, l'informativa giunta nelle stanze dei bottoni oltre a contenere l'identità dell'organizzatore, contiene anche altre importanti informazioni: si parla di un gruppo di 4/5 cardinali e vescovi, a maggioranza stranieri, tutti curiali, già da tempo sul piede di guerra contro Francesco, in particolare per le aperture sui divorziati-risposati dopo l'esortazione apostolica Amoris Laetitia e che si sono ulteriormente irrigiditi dopo l'ultimo Sinodo dei Vescovi dedicato all'Amazzonia. Informazioni, utili al Papa, che invece non sono state fatte trapelare in Segreteria di Stato, tanto che nulla è giunto alle orecchie del primo collaboratore di Papa Francesco, il Segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin. Il porporato è intervenuto pubblicamente ieri sulla faccenda, commentando, a margine della riunione del Ppe, le parole del Pontefice e chiudendo ogni discussione: «Probabilmente - ha detto - il Santo Padre ha informazioni che io non ho, penso che si tratti di una questione di pochi, di qualcuno che magari si è messo in testa queste cose. A me informazioni su questa vicenda non sono pervenute». Fabio Marchese Ragona

Papa Francesco "lo vogliono morto", a Fuori dal Coro svelate le identità dei corvi. Libero Quotidiano il 29 settembre 2021. Qualcuno vorrebbe far fuori Papa Francesco. A svelare il complotto in Vaticano è Fuori dal Coro, il programma di Rete Quattro condotto da Mario Giordano. "Bergoglio - spiega il giornalista - ha voluto sapere solo il nome del capo al centro di un'inchiesta della Santa Sede e non degli altri per non avere un dispiacere". Ad aggiungere qualcosina in più è però il programma che ammette si tratta di quattro o cinque vescovi a maggioranza stranieri e tutti esponenti della Curia. "I congiurati - prosegue in collegamento Gianluigi Nuzzi, esperto vaticanista - sono tutti appartenenti alla Chiesa imperiale, delle zone d'ombra. Tra questi ci sono anche persone a cui Francesco aveva dato fiducia sbagliando". L'accusa? "Quella di neomodernismo teologico, dicono che il Papa sposta la dottrina fuori dai binari della Bibbia", conclude Nuzzi.

"Qualcuno mi voleva morto". Dopo l'accusa di Papa Francesco, rumors nome: chi è il corvo accusato dal Pontefice? 

Così gli inviati della trasmissione si sono precipitati in Vaticano a telecamere spente, scoprendo fatti allarmanti. "Da anni buoni cristiani chiedono 'quando finisce lui?'", dice un anonimo. E ancora un altro sacerdote da decenni nella Segreteria vaticana: "Questi vogliono la sua morte perché sanno che con lui di carriera non ne fanno. Sanno che con questo Papa cardinali non ci diventano". Ma non è tutto perché secondo la fonte non piace neppure che Bergoglio non sia abituato alla diplomazia vaticano e che dunque improvvisi. Un clima di veleno che il capo della Santa Sede conosce bene: "Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene", ha detto ai gesuiti giusto qualche giorno fa.

(ANSA il 22 settembre 2021) - "Probabilmente il Papa ha informazioni che io non ho. Sinceramente non avevo avvertito che ci fosse questo clima e poi penso, forse non avendo elementi alla mano, che si tratta di una cosa di pochi, di qualcuno, che magari si è messo in testa queste cose. Il Papa probabilmente fa queste affermazioni perché ha conoscenze e ha dati che a me non sono pervenuti". Lo ha detto il Segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, rispondendo in merito alle parole del Papa, che scherzando ma non troppo, aveva detto di ritenere che qualcuno preparasse già il Conclave mentre era ricoverato.

Domenico Agasso per “la Stampa” il 22 settembre 2021. Mentre il Papa era sotto i ferri, operato a cielo aperto al colon in quella prima domenica di luglio che ha tenuto il mondo col fiato sospeso e le redazioni con le pagine aperte fino a tarda notte, c'era già qualche presule e cardinale che intravedeva e auspicava la fine del pontificato argentino. E si stava organizzando. Nei successivi dieci giorni di ricovero di Francesco al Policlinico Gemelli, durante i quali non si escludevano diagnosi nefaste - in particolare si vociferava di un tumore, smentito poi dall'esito dell'esame istologico che ha confermato una «stenosi diverticolare severa» - alcuni alti prelati si sarebbero incontrati in luogo, data e orario segretissimi per preparare il prossimo Conclave. Alle spalle di Bergoglio, ovviamente, di cui evidentemente vedevano e speravano vicina la fine. L'indiscrezione è filtrata ieri da Oltretevere, dopo che il Vescovo di Roma ha rispedito al mittente le varie trame occulte per la sua successione che gli sono giunte alle orecchie durante la convalescenza. Nella conversazione con i confratelli gesuiti, tenuta a porte chiuse domenica 12 settembre a Bratislava - anticipata da La Stampa e pubblicata su La Civiltà Cattolica - alla domanda «Come sta?» ha risposto con una apparente battuta che in realtà è una vera e propria stilettata per mandare un messaggio forte e chiaro alle orecchie che devono intendere: so degli intrighi. «Sono ancora vivo. Nonostante alcuni mi volessero morto. So che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene». E durante il viaggio apostolico a Budapest e in Slovacchia ha effettivamente mostrato di essere in salute oltre che di buon umore. Francesco è consapevole di non essere amato, gradito e tollerato da molti fedeli e circoli dentro il recinto cattolico, soprattutto negli ambienti più tradizionalisti della galassia ecclesiastica, ma anche nell'«estrema sinistra» (in particolare in Germania). Sa che ci sono porporati che stanno già predisponendo sottotraccia piani e strategie (c'è ovviamente chi parla di «complotti») per influenzare la futura elezione papale, confidando in un'accelerazione. E non gli sfuggono le vere e proprie campagne mediatiche contro di lui: «Per esempio, c'è una grande televisione cattolica (probabilmente americana, ndr) che continuamente sparla del Papa senza porsi problemi». Dal canto suo, «personalmente posso meritarmi attacchi e ingiurie perché sono un peccatore, ma la Chiesa non si merita questo - esclama - è opera del diavolo. Io l'ho anche detto ad alcuni di loro». Ci sono gli oppositori lontani, ma anche vicini, dentro le Sacre Mura: «Sì, ci sono anche chierici che fanno commenti cattivi sul mio conto». Il Pontefice ci mette tutta la clemenza che ha, ma anche a un Papa a volte «viene a mancare la pazienza, specialmente quando emettono giudizi senza entrare in un vero dialogo». Perché in situazioni così «non posso far nulla». Però, ecco un altro avvertimento: il Papa non ha paura, «io comunque vado avanti» nelle opere di riforma e nel tentativo di rendere la Chiesa più trasparente, vicina e dialogante. E il Pontefice non si sogna di «entrare nel mondo di idee e fantasie» dei suoi antagonisti dichiarati o nascosti. «Non voglio entrarci e per questo preferisco predicare». E, quando serve, rispondere agli attacchi: «Alcuni mi accusavano di non parlare della santità. Dicono che parlo sempre del sociale e che sono un comunista. Eppure ho scritto una Esortazione apostolica intera sulla santità, la "Gaudete et Exsultate"». Tra le ultime - feroci - critiche piovute su Casa Santa Marta ci sono quelle riguardanti la decisione di aggiornare il rinnovamento della Messa sulla scia dei predecessori, mettendo in secondo piano la recita in latino. «Spero che con la decisione di fermare l'automatismo del rito antico si possa tornare alle vere intenzioni di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II, da adesso in poi chi vuole celebrare con il vetus ordo deve chiedere permesso a Roma». Francesco cita con disappunto il caso dei preti, anche giovani, che vogliono presiedere la messa antica e si augura che, prima del latino, imparino le lingue della loro gente, delle loro parrocchie. Durante il colloquio con i Gesuiti slovacchi il Papa riconosce il timore della Chiesa ad affrontare e gestire le questioni più delicate, come quelle dei divorziati risposati - «non sono già condannati all'inferno» - o delle diversità sessuali. Allo stesso tempo chiude ancora una volta alla teoria del gender: «È pericolosa» perché una persona non può «decidere astrattamente a piacimento se e quando essere uomo o donna». Ma questo non ha a che fare con la questione «omosessuale - puntualizza - Se c'è una coppia omosessuale, noi possiamo fare pastorale con loro, andare avanti nell'incontro con Cristo». 

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 23 settembre 2021. Inaudito. Cioè letteralmente “mai sentito”. Non si era ma sentito a memoria vaticana che un segretario di Stato “correggesse” pubblicamente il Papa. Eppure anche questo è accaduto ieri, al termine di un’estate vaticana ammorbata dai veleni, quando il segretario di Stato Pietro Parolin ha affermato che a lui non risulta nessun incontro segreto di prelati che dopo l’intervento chirurgico a cui è stato sottoposto Francesco si sia riunito per preparare il futuro Conclave. In realtà il Papa ai confratelli gesuiti in Slovacchia (parole integralmente riportate dalla Civiltà Cattolica e pubblicate sull’Osservatore Romano) è andato molto più in là: ha detto non solo che i “congiurati” si preparavano al suo trapasso, ma che proprio lo volevano morto. Ebbene di tutto questo il segretario di Stato non solo dice di non aver avuto nessuna contezza (“può essere che il Papa abbia informazioni che io non ho“, così in sintesi ha liquidato la questione), ma ha affermato esplicitamente che il clima all’interno delle Mura Leonine “non è teso”. Come dire che il Papa va fuori le righe. Il “problema” è che Papa Francesco dalla fine d’agosto (una volta uscito dalla prima fase della convalescenza) è intervenuto personalmente e con molta forza a raddrizzare la narrativa che riguardava la sua salute. Si è accorto (con ritardo, lo ha detto esplicitamente) dell’”annuncio” a mezzo stampa delle sue prossime dimissioni (ma chi se non la Segreteria di Stato, avrebbe dovuto segnalargli l’uscita di Libero del 23 agosto?), e ha colto al volo l’occasione di un’intervista a lungo richiesta dalla radio della Conferenza episcopale spagnola, Cope, subito “lanciata” con alcune sintesi, e poi messa in onda il 1 settembre, per smentire (“Non mi è mai passato per la testa di dimettermi”). Durante il viaggio in Slovacchia, poi è arrivata “la bomba”, delle riunioni in Vaticano di coloro che lo vogliono morto. L’uscita di Parolin (che da consumato diplomatico) sa naturalmente pesare bene le parole e il loro effetto, non può non essere considerata se non come la segnalazione di un suo chiaro distinguo all’interno e all’esterno del Vaticano. Dopo i tanti viaggi intrapresi negli ultimi mesi in Italia e all’estero, e le enormi difficoltà in cui la Terza Loggia è stata coinvolta a seguito dello scandalo del Palazzo di Londra. Parolin (a differenza del cardinale Angelo Becciu) non è a processo (dove forse sarà chiamato a testimoniare, dopo la sua espressa disponibilità), ma ha dovuto progressivamente lasciare ogni competenza “economica” che prima erano in capo alla Segreteria di Stato. Prima è dovuto uscire dalla Commissione cardinalizia di Vigilanza sullo Ior, la cosiddetta banca vaticana, cui lo stesso Parolin aveva chiesto un prestito di 150 milioni di euro per rimediare al “buco” dell’acquisto del palazzo londinese, e da questa anomala richiesta nel 2019 era partita la denuncia dello stesso Ior e del Revisore generale, da cui sono scaturite le successive indagini (le udienze ripartono il 5 ottobre. Poi la segreteria di Stato è stata trasformata in un Dicastero senza portafoglio, poiché i suoi beni sono stati trasferiti all’Apsa, con la gestione in capo alla Segreteria per l’economia. Il “controcanto” di Parolin, che cade in questa situazione, tutti hanno la sensazione che il Papa, arrivati a questo punto, non farà sconti, c’è stato anche in relazione ai rapporti tra il Vaticano e i cosiddetti “sovranisti”. Ieri Parolin ha precisato che aderire al Vangelo non è come andare ad un supermercato (dove si scelgono solo alcuni prodotti e si lasciano gli altri) ma pochi giorni prima di partire per l’Ungheria aveva espresso la sua soddisfazione (quasi un endorsement per un politico che il Papa non ha mai voluto ricevere nemmeno da ministro) per come si era svolto l’incontro tra Matteo Salvini e il Segretario per i rapporti con gli Stati arcivescovo Paul Callagher. Nonostante la narrativa mediatica forzata anche tra i vaticanisti per sottolineare l’incontro tra il Papa e Viktor Orban, questo incontro in realtà sì è limitato all’etichetta protocollare. L’ha dovuto spiegare anche questa volta il Papa in prima persona, parlando con i giornalisti sul volo di ritorno a Roma: 40 minuti in cui Orban era presente ma a interloquire con il Papa è stato solo il Presidente della Repubblica ungherese, paese ospite del Congresso eucaristico internazionale organizzato dal cardinale Peter Erdò. Il Papa nel suo “sfogo” con i gesuiti slovacchi ha parlato anche degli attacchi che continuamente subisce da parte di alcuni media cattolici. La rivista dei gesuiti americani ha ricostruito che il riferimento è al potente gruppo televisivo internazionale Edtw, in cui per anni sono stati messi in onda trasmissioni in cui si è dato spazio in diretta all’ex nunzio negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò, ai suoi attacchi al Papa e al suo appoggio all’ex presidente Donald Trump fino ai giorni della rivolta contro Capitol Hill (6 gennaio 2021) . C’è da chiedersi quali rapporti hanno i “congiurati” di cui ha parlato il Papa e la filiera mediatica all’attacco del Pontefice. Ieri si è avuta notizia che YouTube ha bloccato la trasmissione di alcuni video dii fan dell’ex nunzio.

Argentina, ferito il cognato di Papa Francesco. Valentina Mericio il 24/09/2021 su Notizie.it. Il cognato di Papa Francesco è stato aggredito e ferito in un'imboscata avvenuta lo scorso 3 settembre a Morón (Buenos Aires). Il cognato di Papa Francesco è stato vittima a inizio settembre in un attacco avvenuto in un ufficio della Fondazione Haciendo Lo.  Nonostante la vicenda sia avvenuta circa un mese fa, la notizia è diventata di dominio pubblico solo in queste ultime ore. Da precisare che inizialmente alcuni media argentini avevano dichiarato che la persona vittima degli attacchi non era il cognato, bensì il nipote José Bergoglio. A fare questa precisazione è stato lo stesso nipote che, al portale argentino Primer Plano ha affermato: “Lo scorso giugno sono andato a prendere possesso (degli uffici della fondazione) e, all’improvviso, è apparso un uomo noto come ‘Henry’, per minacciarci”. Stando a quanto appreso, il cognato di Papa Francesco è stato colpito da cinque persone armate di pugnale e tutte quante coperte in viso. Gli aggressori sono entrati all’interno dell’edificio attraverso delle finestre. La vittima avrebbe riportato alla testa una ferita da taglio. Secondo quanto informano i media locali l’uomo sarebbe stato poi picchiato e gettato giù dalle scale. Fortunatamente è riuscito poi a mettersi in salvo e a fuggire. Intanto, è stata avviata un’indagine per tentato omicidio e rapina. C’è di più. Il Pubblico Ministero Nicolàs Filippini che ha aperto il fascicolo della vicenda per tentato omicidio e rapina, ha spiegato quali potrebbero essere state le motivazioni dietro questo attacco. Secondo le autorità giudiziarie, le motivazioni dell’attacco potrebbero essere state generate da un precedente conflitto circa la proprietà degli uffici. Precedentemente erano stati infatti rivendicati da Henry Edward Bafiera, che sarebbe stato indicato come presunto proprietario del piano terra dello stabile. In ogni caso nel 2012 la Giustizia Argentina aveva affermato che la proprietà non apparteneva a questi ultimi quanto piuttosto ai suoi legittimi proprietari. Non ultimo il Pubblico Ministero ha precisato che gli uffici sarebbero stati ottenuti in gestione mediante un contratto in comodato d’uso stipulato con un parente di José Bergoglio. Infine José Bergoglio ha provveduto a sporgere denuncia nei confronti dei cinque aggressori. Durante l’aggressione infine sono stati rubati alcuni oggetti di proprietà 

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 22 settembre 2021. Complotti? Riunioni preconclave anzitempo? Tentativi di influenzare l'elezione del Papa? «Nulla di nuovo sotto il sole. Come spesso accade c'è poca memoria. Il genere letterario è piuttosto antico...». Ci sono poche persone che conoscano la Chiesa come Giovanni Maria Vian, 69 anni, storico e docente di Filologia patristica alla Sapienza, per undici anni direttore dell'Osservatore Romano . «Anche se, certo, oggi le cose sono cambiate».

Come, professore?

«I Conclavi sono sempre stati oggetto di attesa e interesse enorme, mondiale. Solo che un tempo le interferenze arrivavano dalle potenze cosiddette cattoliche. Non dimentichiamo che l'ultimo intervento palese è stato nel 1903, quando il cardinale Jan Puzyna di Cracovia, allora sotto il dominio austriaco, pronunciò l'esclusiva, ovvero il veto dell'imperatore Francesco Giuseppe contro il cardinale Mariano Rampolla, che era filofrancese. La cosa sollevò proteste vibranti nel conclave ma poi venne eletto Giuseppe Sarto, Pio X».

E ora?

«Ora le informazioni sono simultanee e le potenze che cercano di condizionare l'elezione nella Cappella Sistina non sono più cattoliche ma mediatiche, gestite da gruppi di pressione». 

Più esterni che interni?

«Le forze sono sempre interne ed esterne. Il collegio degli elettori di norma è diviso, e anche prima che fosse regolata dal Conclave l'elezione è sempre stata oggetto di contrasti. Già in età tardoantica ci sono misure che intendono impedire una successione di tipo dinastico».

Dinastico?

«Eh sì. C'era stato perfino un Papa che, seppure con cinque pontefici in mezzo, era succeduto a suo padre: Silverio, vescovo di Roma dal 536 al 537, era figlio di Ormisda, Pontefice dal 514 al 523. Ma una delle forze della Chiesa di Roma è che in genere si è mantenuta fuori da una successione dinastica. I casi sono rari, come Giulio II che era nipote di Sisto IV, due della Rovere». 

Nell'età di Internet i problemi sono altri...

«Bisogna tenere conto della pressione mediatica, non è un caso che gli ultimi siano stati conclavi-lampo. Che cosa si sarebbe detto se avessero tardato? Ma già negli ultimi anni del Pontificato di Paolo VI si pubblicavano libri che si interrogavano sul successore. Nel caso di Giovanni Paolo II cominciò all'inizio degli anni Novanta. Libri analoghi sono usciti con Francesco». 

Di fatto l'idea di un «complotto» in Vaticano non stupisce, perché?

«Perché la storia del Papato è così. Lo storico irlandese Eamon Duffy ha intitolato una bellissima storia dei Papi "santi e peccatori". Si potrebbe aggiungere che i peccatori sono stati molti. Del resto quello del Papa di Roma è un potere importante. Spirituale, ma anche reale. Basti pensare al fascino che suscitano nella letteratura "pop" o nel cinema, dal Dan Brown di "Angeli e demoni" alle serie papali di Sorrentino».

È diventato quasi un tópos letterario...

«Quando muore papa Luciani, dopo poco più di un mese, tutti pensano sia stato avvelenato. Certo, allora le varie versioni sul ritrovamento del corpo non aiutarono, la risposta alle domande arrivò solo molto più tardi». 

Ma le pressioni mediatiche, alla fine, hanno qualche effetto?

«Mah, nel caso di Giovanni Paolo II sono state una gran perdita di tempo. Nel frattempo alcuni candidati alla successione, veri o presunti, morirono prima di Wojtyla». Forse la novità è nel fatto che Francesco lo abbia detto così, pubblicamente. «In effetti questo è nuovo. È il suo stile. Oppure si può dire che è un ritorno all'antico, quando i Papi intervenivano contro i loro oppositori, non più tardi del Cinquecento». 

(ANSA il 16 settembre 2021) - "L'esercizio del governo all'interno delle associazioni e dei movimenti è un tema che mi sta particolarmente a cuore, soprattutto considerando i casi di abuso di varia natura che si sono verificati anche in queste realtà e che trovano la loro radice sempre nell'abuso di potere". Lo ha sottolineato papa Francesco nel suo saluto nell'Aula del Sinodo ai partecipanti all'Incontro con i moderatori delle associazioni di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, organizzato dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, sul tema "La responsabilità di governo nelle aggregazioni laicali: un servizio ecclesiale". "Non di rado la Santa Sede, in questi anni - ha osservato il Pontefice, ricordando anche il decreto dell'11 giugno scorso 'Le associazioni internazionali di fedeli' -, è dovuta intervenire, avviando non facili processi di risanamento. E penso non solo a queste situazioni tanto brutte, che fanno rumore; ma anche alle malattie che vengono dall'indebolimento del carisma fondazionale, che diventa tiepido e perde la capacità di attrazione". "Gli incarichi di governo che vi sono affidati nelle aggregazioni laicali a cui appartenete, altro non sono se non 'una chiamata a servire'", ha specificato Francesco, che su tale aspetto ha però indicato "due ostacoli". "Il primo è la 'voglia di potere'", ha spiegato. "La nostra voglia di potere si esprime in tanti modi nella vita della Chiesa - ha proseguito -; ad esempio, quando riteniamo, in forza del ruolo che abbiamo, di dover prendere decisioni su tutti gli aspetti della vita della nostra associazione, della diocesi, della parrocchia, della congregazione". "Si delegano agli altri compiti e responsabilità per determinati ambiti, ma solo teoricamente! - ha detto ancora - Nella pratica, però, la delega agli altri è svuotata dalla smania di essere dappertutto. E questa voglia di potere annulla ogni forma di sussidiarietà. Questo atteggiamento è brutto e finisce per svuotare di forza il corpo ecclesiale. È un modo cattivo di 'disciplinare'". Secondo il Pontefice - che ha parlato di congregazioni in cui i superiori cercano di "eternizzare" il loro ruolo, anche "cambiando le costituzioni", o altri che "comprano" la rielezione - invece "è benefico e necessario prevedere un avvicendamento negli incarichi di governo e una rappresentatività di tutti i membri nelle vostre elezioni. Anche nel contesto della vita consacrata ci sono istituti religiosi che, tenendo sempre le stesse persone negli incarichi di governo, non hanno preparato il futuro; hanno consentito che si insinuassero abusi e attraversano ora grandi difficoltà". L'altro ostacolo al vero servizio cristiano, "molto sottile", è "la slealtà", e "lo incontriamo quando qualcuno vuol servire il Signore ma serve anche altre cose che non sono il Signore. E le altre cose sempre sono i soldi. È un po' come fare il doppio gioco!". "A parole diciamo di voler servire Dio e gli altri - ha evidenziato -, ma nei fatti serviamo il nostro ego, e ci pieghiamo alla nostra voglia di apparire, di ottenere riconoscimenti, apprezzamenti... Non dimentichiamo che il vero servizio è gratuito e incondizionato, non conosce né calcoli né pretese". Per il Papa, "cadiamo nella trappola della slealtà quando ci presentiamo agli altri come 'gli unici interpreti' del carisma, gli unici eredi della nostra associazione o movimento; oppure quando, ritenendoci indispensabili, facciamo di tutto per ricoprire incarichi a vita; o ancora quando pretendiamo di decidere a priori chi debba essere il nostro successore". Ma "nessuno è padrone dei doni ricevuti per il bene della Chiesa, nessuno deve soffocarli - ha concluso -. Ciascuno, invece, laddove è posto dal Signore, è chiamato a farli crescere e fruttificare".

DA ansa.it il 13 settembre 2021. Nel suo discorso ai vescovi e al clero della Slovacchia nella Cattedrale di San Martino, a Bratislava, papa Francesco ha voluto toccare un argomento che gli sta particolarmente a cuore, aprendo un'ampia parentesi “a braccio” sulla predicazione. "Qualcuno mi ha detto che in “Evangelii gaudium” mi sono fermato troppo sull'omelia, perché è uno dei problemi di questo tempo - ha esordito -. Sì, l'omelia non è un sacramento, come pretendevano alcuni protestanti, ma è un sacramentale! Non è una predica di Quaresima, no, è un'altra cosa. È nel cuore dell'Eucaristia". "E pensiamo ai fedeli - ha quindi avvertito -, che devono sentire omelie di 40 minuti, 50 minuti, su argomenti che non capiscono, che non li toccano...". "Per favore, sacerdoti e vescovi - ha esortato Francesco -, pensate bene come preparare l'omelia, come farla, perché ci sia un contatto con la gente e prendano ispirazione dal testo biblico".  "Un'omelia, di solito - ha prescritto -, non deve andare oltre i dieci minuti, perché la gente dopo otto minuti perde l'attenzione, a patto che sia molto interessante. Ma il tempo dovrebbe essere 10-15 minuti, non di più". "Un professore che ho avuto di omiletica - ha ricordato il Papa -, diceva che un'omelia deve avere coerenza interna: un'idea, un'immagine e un affetto; che la gente se ne vada con un'idea, un'immagine e qualcosa che si è mosso nel cuore". "Così, semplice, è l'annuncio del Vangelo! - ha sottolineato - E così predicava, Gesù che prendeva gli uccelli, che prendeva i campi, che prendeva questo... le cose concrete, ma che la gente capiva. Scusatemi se torno su questo, ma a me preoccupa...". E dopo l'immediato applauso scaturito dalla navata, Bergoglio ha aggiunto: "Mi permetto una malignità: l'applauso lo hanno incominciato le suore, che sono vittime delle nostre omelie!". Sempre nel discorso in Cattedrale ai vescovi e ai sacerdoti slovacchi, il Papa si è concesso un altro inciso "a braccio" toccando il tema della Chiesa che dev'essere "segno di libertà e di accoglienza" e dell'annuncio del Vangelo che "sia liberante, mai opprimente". "Sono sicuro che questo mai si saprà da dove viene - ha raccontato -. Vi dico una cosa che è successa tempo fa. La lettera di un Vescovo, parlando di un Nunzio. Diceva: “Mah, noi siamo stati 400 anni sotto i turchi e abbiamo sofferto. Poi 50 sotto il comunismo e abbiamo sofferto. Ma i sette anni con questo Nunzio sono stati peggiori delle altre due cose!”. A volte mi domando: quanta gente può dire lo stesso del vescovo che ha o del parroco? Quanta gente? No, senza libertà, senza paternità le cose non vanno".

Le invenzioni sull'addio di Bergoglio. “Papa Francesco sta male e sta per dimettersi”, la fake news che piace ai nostalgici di Ratzinger…Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 24 Agosto 2021. E ci risiamo, le buone abitudini di vociferare non finiscono mai e così il Nostro Antonio Socci riprende la tesi del Papa che sarebbe non solo malato, ma lì lì per dimettersi. E a suo dire i “rumors” in Curia aumentano, tanto che i fedelissimi di Bergoglio starebbero staccando la spina per riposizionarsi in vista di un futuro ma non lontano Conclave. Quali sono le prove a sostegno dell’argomentazione? Prima di tutto degli articoli usciti qua e là, magari in Argentina (che, chissà perché, sarebbe la patria dei meglio informati perché il Papa è argentino… equazioni discutibili…), poi un’altra prova è il prolungamento della recente degenza al Gemelli con la diffusione sospetta di bollettini medici non firmati (e qui sarebbe l’autorevole sito Il Sismografo la fonte… e l’autorevolezza è di solito auto-attribuita… sic transit gloria mundi…). E poi si citano le “prese di distanze” da papa Francesco da parte di personaggi “bergogliani” come lo storico Andrea Riccardi. E soprattutto la prova della crisi inarrestabile viene dai conflitti interni alla Chiesa tra Germania scissionista (va sempre di moda, in fondo sono 500 anni che non c’è uno scisma da lì) e Stati Uniti dove il mondo cattolico è superdiviso. La chicca nelle chicche è l’autorevolezza attribuita a un sito iperconservatore spagnolo (non lo cito per non fare pubblicità) che dà per sicuro lo stato precario di salute del Papa.

Della Germania e degli Usa si nota che da lì vengono i maggiori finanziamenti alla Chiesa cattolica e dunque il venir meno del flusso di denaro sarebbe un segnale inequivocabile. Peccato che altrettanto inequivocabile è il flusso di denaro dei settori conservatori grandemente finanziati proprio per mettere in atto una politica di condizionamento del papato, attraverso siti, media, vescovi compiacenti e non proprio trasparenti. Ma si sa, quando non fa comodo, l’altro lato della medaglia viene oscurato. Altre due colpe di papa Francesco sono molto chiare, a dire del citato articolista: la situazione di sfascio in cui versano le vocazioni, poi gli scandali, poi i processi in Vaticano, i contrasti tra vescovi e Magistero e via di questo passo. La seconda colpa riguarda l’incerto statuto canonico di una eventuale dimissione: dovremmo avere due papi emeriti con un Diritto canonico che neppure ha affrontato e risolto lo status del primo in ottocento anni? Insomma la confusione è somma. Intendo la confusione messa in campo dall’articolo in questione dove si mescolano fumo e problemi reali. Il fumo è nelle approssimative inesattezze con cui si parla di Andrea Riccardi e del suo libro sulla Chiesa che brucerebbe (Laterza), e una presa in giro del desiderio di rinnovamento ecclesiale da parte del gruppo di intellettuali guidati dal novantenne Giuseppe De Rita (la cui importanza è francamente sopravvalutata). Il fumo è anche nell’elenco dei problemi della Chiesa, come se fossero iniziati tutti insieme nel 2013 con il pontificato di papa Francesco. Prima andava tutto bene? Quanto a processi, quelli sotto Benedetto XVI per la vicenda “wikileaks” mica hanno scherzato. Faccende e faccendieri poco specchiati con il Vaticano hanno spesso prosperato, anche sotto Giovanni Paolo II. C’è da dire che le normative sono diventate progressivamente più chiare e definite e lo sforzo vaticano di adeguarsi alle regole internazionali sulla trasparenza finanziaria producono effetti che sembrano negativi solo per gli “sfascisti” nostrani mentre in realtà sono dei notevoli passi avanti. Ma il sistema di chi critica a tutti i costi è così: buttare là affermazioni non verificate, fare dei nomi senza interpellare gli interessati per capire se si ritrovano nella descrizione. E qualora i Riccardi e i De Rita si prendessero la briga di precisare, sarebbero ignorati. È una strategia precisa che – tanto per fare un nome – colpisce sempre la Pontificia Accademia per la Vita, accusata di svendere dottrina e tradizione. Poi quando l’Accademia precisa e puntualizza, viene ignorata e così agli atti degli Internet Archives restano solo le calunnie. Più interessante l’ultima parte in cui Socci parla dei problemi di definizione canonica della figura di un papa dimissionario. Ci fa sapere che la canonista Geraldina Boni ha appena pubblicato «una proposta di legge, frutto della collaborazione della scienza canonistica, sulla sede romana totalmente impedita e la rinuncia del papa» affinché «il legislatore supremo possa attingere spunti ragionati e ben argomentati per la promulgazione di una normativa su questi temi: una normativa che pare oramai urgente e indilazionabile». Ho lasciato le virgolette originali di Socci perché a leggere non si capisce a chi attribuire la stessa frase virgolettata. E non capirlo, non è da poco, perché si attribuisce l’autorevolezza dell’affermazione tra virgolette, dunque della citazione diretta, a frasi di cui non si conosce l’autore. In realtà la prof.ssa Boni nel 2019, non oggi, ha pubblicato un libro intitolato Il buon governo nella Chiesa. Inidoneità agli uffici e denuncia dei fedeli (Mucchi editore, diciamo di nicchia) in cui – semplifico molto – si teorizza il diritto-dovere dei fedeli di attivarsi in prima persona “denunciando” la mancanza di idoneità dei titolari di uffici ecclesiastici, sia durante la fase previa di designazione, sia una volta che la nomina sia avvenuta e soprattutto qualora si verifichino problemi di inadeguatezza del sacerdote, parroco, vescovo, cardinale… durante l’incarico. Tema non da poco, da non potersi certo risolvere in poche righe. Questo per dire che a livello di studio del Diritto Canonico, qualcosa si muove nella Chiesa. Certo il processo è incerto e lungo. Però innegabilmente papa Francesco ha avviato dei processi di cambiamento. Come definire altrimenti l’appello di 10 teologi e teologhe a prendere sul serio il tema della Fraternità dell’omonima enciclica e farne il motore di una presenza rinnovata e di un dialogo effettivo e di una teologia che sappia parlare ai nostri concreti uomini e donne del Ventunesimo secolo? L’appello è cosa seria, sotto il titolo suggestivo “Salvare la Fraternità. Insieme”, ed è stato pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana con postfazione di mons. Vincenzo Paglia, in una edizione in 4 lingue. Avviare un dibattito ecclesiale reale, effettivo, serio, approfondito, è davvero complesso. Soprattutto perché a osteggiarlo sono i massimalisti di ogni lato che vedono solo in due colori e per loro Bergoglio è completamente negativo. Beati loro che ne sono così sicuri. In realtà le strutture – soprattutto ecclesiali – sono complesse e meriterebbero approfondimenti ben più accurati, analisi approfondite, una impostazione davvero multidisciplinare, la valutazione delle persone, dei ruoli, dei processi in atto, dei risultati. E il ruolo della religione ne uscirebbe rafforzato, vista l’importanza che ha nel dare un senso alla vita o nel farsi brace su cui soffiare per accendere conflitti. Per il momento i massimalisti nostrani accendono conflitti.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Antonio Socci per “Libero quotidiano” il 28 agosto 2021. Ieri il Papa - all'udienza con i parlamentari cattolici - ha esordito così: «Vorrei chiedere scusa, per non parlare ancora in piedi, ma ancora sono nel periodo post-operatorio e devo farlo seduto. Scusatemi». Che il pontefice abbia un problema di salute è noto, ma non è chiaro qual è la situazione. Abbiamo visto lunedì scorso (su queste colonne) tutti i dubbi e le domande che sono state sollevate dalla comunicazione ufficiale vaticana sull'intervento chirurgico del 4 luglio. Da più parti si ripete ciò che l'agenzia "Infovaticana" ha scritto il 10 agosto: «La salud del Papa no es la quen dicen». Questi problemi di salute possono portare alla rinuncia, perché a parlare di dimissioni come una possibilità- in caso di malattia o di vecchiaia - è stato lo stesso Francesco fin dall'inizio del suo pontificato. Il 26 maggio 2014 dichiarò: «Io credo che un Vescovo di Roma, un Papa che sente che le sue forze vengono meno perché adesso si vive tanto tempo - deve farsi le stesse domande che si è posto Papa Benedetto». Poi a La Vanguardia (ripresa dall'Osservatore romano del 13 giugno 2014) dichiarò: «Papa Benedetto ha compiuto un gesto molto grande... dato che viviamo più a lungo, giungiamo a un'età in cui non possiamo continuare a occuparci delle cose. Io farò lo stesso, chiederò al Signore di illuminarmi quando giungerà il momento e che mi dica quello che devo fare, e me lo dirà sicuramente». Inoltre il quotidiano argentino La Nación ha recentemente riportato l'intervista rilasciata il 16 febbraio 2019 da Francesco al giornalista e medico Nelson Castro, che ha scritto un libro sulla salute dei papi. Alla domanda su come lui immagina la sua morte, Bergoglio ha risposto: «Da papa, in carica o emerito che sia. E a Roma. In Argentina non ci ritorno». Come si vede quindi Francesco anche di recente ha previsto la possibilità di dimettersi e diventare "papa emerito", evidentemente per motivi legati alla salute o all'età. Ora, come ha scritto Luis Badilla, «la malattia che ha colpito papa Francesco è severa e degenerativa» (è «un dettaglio molto significativo che molti in queste ore sottovalutano, ignorano o manipolano») e la severità di questa malattia ha indotto subito papa Bergoglio a manifestare concretamente in Vaticano l'idea di lasciare. Negli ultimi giorni però è apparso molto nervoso e sembra alternare il pensiero della rinuncia con l'intenzione di tener duro, anche se il quadro medico si complica. Questa situazione ha comunque fatto irrompere d'improvviso, nel clima lento e ovattato del Vaticano, un ospite insolito: la fretta. Lo si è visto per il Motu proprio che annulla il «Summorum pontificum» di Benedetto XVI sulla liturgia tradizionale, firmato in fretta e furia da Francesco il 16 luglio, appena due giorni dopo l'uscita dal Policlinico Gemelli. La stessa fretta con cui in Vaticano, in queste ore, si sta lavorando a una norma che regoli la rinuncia papale e il papato emerito. Da più di 8 anni abbiamo i due papi, una situazione unica nella storia della Chiesa che in Vaticano hanno sempre minimizzato come cosa normale che si sarebbe risolta da sola. Invece ora, d'improvviso, oltretevere ritengono che sia urgente e improrogabile emanare delle regole. Perché di colpo tanta fretta? C'è aria di dimissioni e di nuovo Conclave. Dunque procedono i lavori per definire giuridicamente i concetti di "rinuncia" e di "papato emerito". I problemi che però si affacciano sono enormi. Lo stesso papa Bergoglio, il 18 agosto 2014, tornando dalla Corea, osservò due volte che probabilmente i teologi dissentiranno sull'istituzione del papato emerito. Perché ritengono che il papato sia in una situazione teologica diversa dall'episcopato (per cui esistono i vescovi emeriti). Ma allora cosa significa la definizione di "papa emerito" che Benedetto XVI, con la rinuncia, ha applicato a se stesso? È di lui che il prossimo provvedimento di papa Francesco si occuperà? No. La professoressa Boni, nel saggio già citato che pare sia la base del lavoro condotto in Vaticano, scrive che con tale provvedimento «non si manca di deferenza o solo di tatto nei riguardi del vivente papa emerito: la legge emananda, come usuale, disporrà esclusivamente per il futuro senza alcuna retroattività (cfr. can. 9), curando semmai esplicitamente di eccettuare la "situazione" di Benedetto XVI come si è andata spontaneamente sviluppando». Un tale intervento normativo, scrive l'avvocato Francesco Patruno, dottore in ricerca di diritto canonico ed ecclesiastico, «non potrebbe "sanare" - ammesso che fosse possibile - la rinuncia di Benedetto XVI e tutto ciò che ne è scaturito nonché scioglierei nodi e le incertezze relative a quell'atto compiuto l'11 febbraio 2013, e ciò per la semplice ragione che Benedetto XVI quando ha compiuto quell'atto l'ha fatto non potendo tenere conto di una futura disciplina». E l'ha fatto nei pieni poteri di Papa. Dunque la situazione attuale di Benedetto XVI emergerebbe come un "unicum", di fatto superiore alla situazione di un altro papa che si dimettesse? L'avvocato Patruno ci spiega: «Nell'ultima udienza del suo pontificato, il 27 febbraio 2013, Benedetto XVI spiegò che egli rinunciava al solo pontificato attivo, ma non a quello passivo. Da qui deriva la formulazione usata nell'atto di rinuncia e la qualifica di "papa emerito"». In effetti monsignor Gaenswein, spiegando l'atto di papa Benedetto (di cui è il principale collaboratore), ha parlato di «un pontificato d'eccezione», che realizza di fatto un «ministero allargato, con un membro attivo e uno contemplativo», «quasi un ministero in comune». Ma - chiedo - era possibile una tale rinuncia "dimezzata"? «Se non si ritiene che sia possibile» risponde Patruno «allora si tratta di una rinuncia nulla con tutto quello che ne segue. Si può cercare di sanare andando a chiedere al papa emerito di rinunciare completamente al munus, ma in questo caso si riconosce implicitamente che egli è rimasto papa. E si apre uno scenario inedito per quanto riguarda la figura di Francesco». Dunque, non sarà facile emanare norme in questa materia. Sembra un vicolo cieco. 

Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 24 agosto 2021. Papa Bergoglio starebbe per dimettersi per ragioni di salute? E rischiamo di avere presto due Papi emeriti? È lo scenario clamoroso svelato ieri su Libero da Antonio Socci. Per il quale un nuovo conclave potrebbe non tardare troppo ed essere convocato già la prossima primavera. Chiediamo lumi a Luis Badilla, direttore del sito Il Sismografo, molto vicino al Vaticano.

Badilla, ci sono possibilità che l'85enne Bergoglio si dimetta?

«No, lo escludo. È una materia della quale non si parla in ambienti vaticani e, secondo me, neanche il Santo Padre ha mai pensato a questa possibilità». 

Socci cita però come possibile ragione le condizioni di salute del Papa dopo l'operazione al colon. E lei stesso in un articolo aveva parlato della malattia del Papa come «severa e degenerativa».

«La malattia di Bergoglio non va sicuramente sottovalutata. Il Papa è stato sottoposto a un intervento di chirurgia digestiva molto impegnativo che ha comportato l'asportazione di una parte del colon. Ha reagito bene, ma non è guarito perché la sua è una malattia degenerativa, sebbene si possa tratta re con cure. Detto questo, le sue condizioni non possono essere causa delle sue dimissioni.

Anche Giovanni Paolo II ebbe una malattia degenerativa, gravissima e cronica fino alla morte. E io credo che Bergoglio abbia in questo senso lo stesso atteggiamento personale e pastorale di Wojtyla». 

Ma la sua malattia ne limiterà l'operatività sulla scena pubblica?

«Il Santo Padre ha già ridimensionato molto il suo modo di agire, quella che alcuni chiamano la sua pastorale fisica. Lo aveva già fatto prima dell'intervento, limitando il calendario dei suoi viaggi. Farà sicuramente il prossimo viaggio a Budapest, mentre quello in Slovacchia, molto impegnativo fisicamente, sarà a mio avviso ridotto nel programma. Sono invece da escludere d'ora in poi viaggi intercontinentali. Il Santo Padre, si può dire con una battuta, ha una cagionevole salute di ferro che gli imporrà di limitare la sua autonomia. Dovrà fare le cose in un tempo breve, non prolungato». 

Lei rimprovera a una certa comunicazione di veicolare un'immagine di «Bergoglio superman», minimizzando la gravità delle sue condizioni di salute. A che scopo rassicurare sulla malattia del Papa?

«Me lo chiedo anche io. Perché nascondere le condizioni del Papa? Il Santo Padre è un essere umano come noi, che ha una missione importante. Ed è legittimo e giusto che l'opinione pubblica sappia, senza opacità e sempre nel rispetto della privacy, che egli, invecchiando, si è ammalato. Questo atteggiamento comunicativo dipende dalla volontà stessa del pontefice. È Bergoglio che non vuole si enfatizzino le sue condizioni di salute perché ciò fa parte della sua personalità e perché egli tiene molto alla privacy. Ma tale metodo non mi piace. La trasparenza aiuterebbe la Chiesa; l'opacità, l'omertà, le acrobazie le fanno invece del male». 

Guardando in prospettiva, esclude del tutto la possibilità di un doppio Papa emerito?

«Sì, anche perché, con ogni probabilità, fra qualche settimana Papa Francesco dovrebbe legiferare sulla situazione creatasi con la rinuncia di un pontefice e l'elezione di un altro. Nel momento dell'abdicazione di Ratzinger, Bergoglio si è dovuto inventare una legislazione canonica improvvisata. Ma ora si tratta di codificare giuridicamente bene questa situazione. Tuttavia aggiungo che tra teologi e canonisti si sta riflettendo su un possibile Papa a termine, cioè sull'ipotesi che in futuro il Santo Padre a una certa età, 80 oppure 85 anni, rinunci al soglio pontificio e vada "in pensione". È un problema che secondo me dovrebbe porsi il prossimo conclave, eleggendo un Papa al quale si dica che, tra le riforme, deve esserci questo tema». 

Su Libero abbiamo riferito della possibile traduzione corretta di un verbo latino presente nelle dimissioni di Ratzinger: vacet, reso come «la sede resti libera», trasformerebbe la rinuncia di Benedetto XVI in una dichiarazione di «sede impedita» e quindi nell'ammissione di non poter più esercitare il suo ministero, a causa di nemici e usurpatori. È una lettura plausibile?

«No, perché lui della sua rinuncia aveva già parlato con molto anticipo, dicendo che non era più in condizione di continuare a fare il Papa e non certo perché fosse impedito da qualcuno. Ratzinger ha avuto la cosmica onestà di dire: sono vecchio, sono malato, la Chiesa è difficile da governare, è meglio che lo faccia un altro e sarò obbediente a un altro».

Il cattivo stato di salute del Papa coincide con il cattivo stato di salute della Chiesa?

«La Chiesa attraversa un momento molto difficile che si è aggravato per le condizioni di salute del Papa. Ma la crisi della Chiesa viene da tempi lontani, ha molte cause, e deriva anche dal momento che viveil mondo. Questo rende più difficile il papato, qualunque sia il Papa. Il tema più devastante resta quello della pedofilia che farà morire la Chiesa: non bastano le belle parole, serve che le parole vengano seguite da fatti. Si dica esplicitamente che la pedofilia è incompatibile col sacerdozio». 

Ma chi è il candidato alla successione dopo Bergoglio?

«Le rispondo con una frase dell'ex cardinale di Genova Siri: "I Papi si fanno in conclave"».

Papa Francesco, dopo di lui? "Uno di loro due": Dagospia, una pesantissima conferma. Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. Papa Francesco dirà presto addio al Vaticano? E' la domanda che si è posto Antonio Socci su Libero. E in effetti un suo passo indietro non sarebbe da escludere visti i recenti problemi di salute. Basti pensare all'intervento chirurgico al colon del 4 luglio scorso al Policlinico Gemelli. Un'operazione che l'ha costretto a rimanere ricoverato per 10 giorni prima delle dimissioni. Ma nel caso in cui il Pontefice dovesse davvero abbandonare la Santa Sede, chi potrebbe subentrare al suo posto? Ad ogni modo, prima di dire addio, il Papa dovrebbe legiferare sullo statuto del “papa emerito”. In caso contrario, come scrive Socci, la situazione si complicherebbe: “Avere un papa emerito crea già confusione. Averne due finirebbe per complicare il quadro”. Secondo il sito di Dagospia, che cita gli insider dei palazzi vaticanensi, la partita del dopo-Bergoglio sarà tutta italiana. E si giocherà tra il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, e il cardinale Matteo Maria Zuppi. "Il primo è sostenuto dai cardinali occidentali e (in parte) latinoamericani, il secondo da quelli terzomondisti", fa sapere Dago. Il portale di Roberto D'Agostino, poi, si pone una domanda che fa sorgere qualche dubbio: "Perché da quattro anni Francesco firma gli atti solo come 'vescovo di Roma' come se risiedesse a San Giovanni in Laterano, anziché nella Santa Sede?".

DAGONOTA il 23 agosto 2021. L’85enne Bergoglio, acciaccato da seri problemi di salute - vedi l’improvviso ed imprevisto intervento chirurgico al colon del 4 luglio scorso al Policlinico Gemelli - potrebbe lasciare il trono di Pietro? La domanda la pone il beninformato Antonio Socci sulla prima pagina di “Libero” (articolo a seguire). La risposta, in breve, è sì se papa Francesco riesce a legiferare sullo statuto del “papa emerito” (definizione e titolo che si è inventato Ratzinger al momento di gettare la papalina ma che nel diritto canonico non esiste). Altrimenti no: “Avere un papa emerito crea già confusione. Averne due finirebbe per complicare il quadro”. A proposito scrive Socci: “… questo argomento comincia ad essere affrontato in maniera "scientifica" da canonisti e teologi che sembrano preparare il terreno a provvedimenti ufficiali della Santa Sede per definire precisamente tutta la casistica relativa al ministero petrino dopo che Benedetto XVI ha rinunciato e si è definito "papa emerito" (espressione del tutto nuova nella storia della Chiesa)”. Aggiungere poi che, per legiferare sullo statuto canonico, Bergoglio deve riuscire ad ottenere il voto favorevole dell'assemblea dei cardinali che, al momento, se lo può tranquillamente dimenticare. Infine, riguardo al fatto che “tira aria da Conclave”, secondo i palazzi vaticanensi la partita del dopo-Bergoglio sarà italiana, tra Parolin e Zuppi: il primo sostenuto dai cardinali occidentali e (in parte) latinoamericani, il secondo da quelli terzomondisti.

PS - perché da quattro anni Francesco firma gli atti solo come “vescovo di Roma” come se risiedesse a San Giovanni in Laterano, anziché nella Santa Sede? 

Papa Francesco pronto a dimettersi "per la salute. non l'età". Tam tam in Vaticano: "Tira aria di Conclave". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. In Vaticano sempre più insistentemente si parla di un nuovo conclave. Papa Francesco avrebbe infatti manifestato l'intenzione di lasciare. A dicembre prossimo, fra l'altro, compie 85 anni che è la stessa età di Benedetto XVI al momento della rinuncia. Ma il motivo della rinuncia di Bergoglio non sarebbe anzitutto l'età, ma lo stato di salute che è finito sotto i riflettori in modo improvviso ed imprevisto con l'intervento chirurgico del 4 luglio scorso al Policlinico Gemelli. In realtà non si sarebbe trattato di un intervento programmato (si dice che perfino il Segretario di Stato, cardinal Parolin, non sapesse del ricovero). Inoltre pare che i medici del Gemelli avrebbero voluto trattenere il papa in ospedale più a lungo. Per i media e per il Vaticano il tema della salute dei papi è sempre stato problematico. A criticare la comunicazione ufficiale vaticana in questa vicenda è stato soprattutto il sito Il Sismografo che viene sempre definito "paravaticano" per la sua vicinanza agli ambienti della Segreteria di Stato (di sicuro è su posizioni bergogliane). 

TANTE DOMANDE

Già il 6 luglio, il direttore del sito, Luis Badilla scriveva: «L'informazione che si decide di amplificare tramite la stampa deve essere estremamente trasparente e estremamente autorevole. Se si parla di comunicati medici il testo deve portare la firma del medico o del team, con nomi e cognomi; se si anticipa i giorni di ricovero dopo una chirurgia al colon si deve dare il sostegno clinico a tale affermazione. I giornalisti esistono per fare domande e cercare la massima verità possibile e non per fare da asta da microfoni, altrimenti non si distinguono i fatti reali dalle ipotesi giornalistiche». Il giorno dopo - titolando «Papa Francesco non ha bisogno della cortigianeria a mezzo stampa» - Badilla si rallegrava per il buon decorso del Santo Padre, ma aggiungeva: «C'è però un dettaglio molto significativo che molti in queste ore sottovalutano, ignorano o manipolano: la malattia che ha colpito Papa Francesco è severa e degenerativa. Potrebbe essere anche cronica. Certamente il Santo Padre ritornerà in Vaticano per riprendere il suo cammino sulle orme di Pietro ma non sarà più lo stesso. Tutta la retorica su un Jorge Mario Bergoglio superman danneggia la sua immagine e il suo carisma... Lui sa che dovrà cambiare molto la sua vita: fatiche, riposi, limiti, alimentazione, esercizi fisici riabilitativi». A un mese di distanza dall'operazione Badilla rilevava che i comunicati «sulle condizioni di salute del Pontefice», sono sempre stati emanati dalla Sala stampa vaticana e «non sono mai stati firmati da medici e dal Policlinico Gemelli», aggiungendo che «restano aperti alcuni interrogativi che non è stato mai possibile sottoporre ai medici che seguono le condizioni di salute del Papa, soprattutto sulla prognosi, che- seppur è una questione mai affrontata- resta riservata». Tante domande per cui anche il sito Infovaticana il 10 agosto titolava: «La salud del Papa no es la que dicen». Che possano essere dunque problemi di salute (tutti ci auguriamo non gravi) a indurre il papa a considerare le dimissioni è più che probabile.

LE INTERVISTE

Nel corso degli anni papa Bergoglio aveva parlato più volte nelle interviste di una sua possibile rinuncia, ma sempre come un'ipotesi del futuro lontano. Oggi pare sia diventata un'ipotesi attuale. Il primo a parlare di «aria di conclave» è stato un vaticanista di lungo corso come Sandro Magister che il 13 luglio titolava così un suo articolo sul suo seguitissimo Blog: «Conclave invista, tutti a prendere le distanze da Francesco». Non si occupava della salute del papa, pur scrivendo poco dopo l'operazione, ma esaminava due "libri gemelli" appena usciti: La Chiesa brucia e Il gregge smarrito. «Entrambi» notava Magister «diagnosticano un cattivo stato di salute della Chiesa, con un netto peggioramento proprio durante l'attuale pontificato». Solo che «i loro autori» aggiungeva il vaticanista «non sono affatto degli oppositori di papa Francesco. Il primo libro è firmato da Andrea Riccardi, storico della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant' Egidio, molto ascoltato dal papa che lo riceve spesso in udienza privata e gli ha affidato - tra l'altro - la regia dello scenografico summit interreligioso presieduto dallo stesso Francesco lo scorso 20 ottobre sulla piazza del Campidoglio. Mentre il secondo libro è firmato da una neonata associazione dal nome "Essere qui" il cui numero uno è Giuseppe De Rita, 89 anni, fondatore del Censis e decano dei sociologi italiani», nonché intellettuale cattolico di area progressista del periodo montiniano. Già nelle settimane precedenti dal mondo cattoprogressista erano arrivate forti critiche a papa Bergoglio, a causa dicerte sue decisioni recenti. Dando la sensazione della fine di una stagione.

Tuttavia Magister, nel suo articolo, sottolineava il riposizionamento in corso non solo da parte degli intellettuali bergogliani (a cui si potrebbero aggiungere i media), ma anche da parte dei cardinali considerati più vicini a Francesco: «È scoccata l'ora di prendere le distanze dal papa regnante, se si punta a succedergli». In effetti potrebbe incidere, nella decisione di rinunciare, anche la situazione generale della Chiesa che è drammatica: basti ricordare i conflitti con l'episcopato tedesco e con quello americano (le due Chiese che portano più donazioni al Vaticano), le statistiche desolanti sulla pratica religiosa e sulle vocazioni di questi anni, la confusione che dilaga fra i fedeli per una gerarchia che sembra troppo diversa rispetto al magistero chiaro e autorevole dei papi precedenti, poi gli scandali, il vicolo cieco delle riforme della Curia, il processo in corso in Vaticano, le controversie dottrinali...

IL CANONE

Tuttavia - per un papa che è sempre stato estremamente attivo come Bergoglio - il problema della salute incide pesantemente. Una settimana dopo l'intervento chirurgico, sul quotidiano argentino La Nacion, vicino al papa, è uscito un lungo articolo dedicato alle «domande difficili sollevate dall'età avanzata di Francesco». Il sottotitolo spiegava che, dopo l'intervento chirurgico, si cominciava a parlare di possibili dimissioni. Secondo il giornale argentino «gli osservatori vaticani» ritengono «all'unanimità che Francesco non è vicino alle dimissioni», ma - osserviamo - questo accadeva anche alla vigilia della rinuncia di Benedetto XVI. «Non riesco a immaginare che Francesco si dimetta finché Benedetto è ancora vivo», ha dichiarato Christopher Bellitto, storico pontificio alla Kean University di Union, nel New Jersey. «Avere un papa emerito crea già confusione. Averne due finirebbe per complicare il quadro». Tuttavia questo argomento comincia ad essere affrontato in maniera "scientifica" da canonisti e teologi che sembrano preparare il terreno a provvedimenti ufficiali della Santa Sede per definire precisamente tutta la casistica relativa al ministero petrino dopo che Benedetto XVI ha rinunciato e si è definito "papa emerito" (espressione del tutto nuova nella storia della Chiesa).

La canonista Geraldina Boni ha appena pubblicato «una proposta di legge, frutto della collaborazione della scienza canonistica, sulla sede romana totalmente impedita e la rinuncia del papa» affinché «il legislatore supremo possa attingere spunti ragionati e ben argomentati per la promulgazione di una normativa su questi temi: una normativa che pare oramai urgente e indilazionabile». Perché una tale urgenza dopo otto anni in cui il problema della convivenza di due papi sembrava ignorato da tutti? Forse proprio perché si respira aria di nuovo conclave? La Nacion, dopo aver assicurato che papa Francesco sta bene e che non è in procinto di dimettersi, riporta il pensiero di Alberto Melloni, storico della Chiesa e intellettuale simbolo del cattoprogressismo. Secondo Melloni il pontificato di papa Francesco è comunque entrato nel capitolo finale: «Quando un papa invecchia, entriamo in un territorio sconosciuto e incerto». Ciò non significa, a suo avviso, che papa Bergoglio sia necessariamente alla vigilia della rinuncia, ma che ormai i papi non vorranno più aspettare un'età avanzatissima e delle pessime condizioni di salute per dimettersi. Secondo Melloni, il quale intravede il rischio che la burocrazia vaticana prenda il sopravvento, «se un papa vuole dimettersi, deve trovare il momento giusto, prima che la debolezza diventi troppo evidente». E Francesco, nelle scorse settimane, frail serio e il faceto, ha detto a qualcuno che nella prossima primavera potrebbe esserci un nuovo papa. antoniosocci.com

Dimissioni di Bergoglio? Sànchez: "Attenti, è una exit strategy per proseguire la linea antipapale".  

Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 23 agosto 2021.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Sono passati appena 11 giorni da quando chiedevamo al Prof. Antonio Sànchez, giurista dell’Università di Siviglia: “Una buona exit strategy, per Francesco, potrebbe essere quella di DIMETTERSI, in modo da far cadere le contestazioni sulla «rinuncia» di papa Benedetto e far proseguire la sua linea antipapale con un conclave di 80 cardinali invalidi “suoi”, giusto?”. Risposta: “Sì. Una volta messo alle strette, per Bergoglio sarebbe l’unica cosa da fare per salvare almeno la sua linea successoria antipapale e completare la sua opera di disgregazione e “mutazione” della Chiesa cattolica”. E proprio oggi esce la notizia che Francesco starebbe pensando alle dimissioni, a causa delle sue precarie condizioni di salute. Ma non ha avuto solo una innocua diverticolite intestinale, come affermato dal Vaticano un mese fa? (Un po’ come quando Vatican News titolò che Benedetto aveva dichiarato "il papa è Francesco", e non era vero). Si arriverebbe così alla surreale situazione di “due papi emeriti”, con un emeritato INESISTENTE rabberciato giuridicamente all’ultimo, dopo OTTO ANNI, per far posto anche a Bergoglio. Nessuno si domanda cosa è stato papa Benedetto per tutto questo tempo: un cripto-cardinale in tenuta estiva? Riepiloghiamo un attimo. Nel 2020 abbiamo pubblicato su carta e web la prima intuizione di Frà Alexis Bugnolo sugli errori della Declaratio di Ratzinger scritta nel 2013.  Un articolo che ha fatto il giro del mondo, nonostante gli insulti gratuiti di Avvenire, ma, per il resto, silenzio tombale: nessuna smentita. Dopo un anno il card. Pell pone i nostri stessi interrogativi sulle prerogative papali di cui continua a godere Benedetto XVI. Passano i mesi e nel marzo scorso pubblichiamo la notizia del volume giuridico dell’avvocatessa Estefania Acosta “Benedetto XVI: papa emerito?” che spiega come Benedetto XVI non abbia mai abdicato e che resta il solo papa. Quell'unico di cui parla da otto anni senza mai spiegare quale. (Si ha voglia a dire "è chiaro che è Francesco"). Anche il testo giuridico della Acosta ha fatto il giro del mondo, edito in 3 lingue. Nessuna smentita dalla Santa Sede e, di solito, secondo la prassi vaticana, se entro 90 giorni non si smentisce la tesi, si intende per accettata. Visto che tutti facevano finta di niente, abbiamo chiesto conferma a ben 20 canonisti della Sacra Rota. Nessuna risposta. Da lì in poi abbiamo elaborato la ricostruzione del Piano B, ripresa dagli autorevoli vaticanisti Marco Tosatti e Aldo Maria Valli, ripubblicata da vari siti, in sette lingue, in tutto il mondo: inglese, spagnolo, francese portoghese, tedesco, russo e polacco. Nessuna smentita. Poi altra batosta: la scoperta di una frase di Ratzinger nel libro “Ultime conversazioni” (2016), in cui dice che lui si è dimesso come i papi che non hanno abdicato. Silenzio tombale ancora una volta. Il Tagespost, il più grande giornale cattolico tedesco, ha ripreso la questione, ma poi, di fronte al nostro invito al confronto, si è volatilizzato. Alla fine, abbiamo scoperto che la Declaratio, come rinuncia - del tutto invalida - era in realtà era una sottile dichiarazione di Sede impedita, perfettamente coerente. Abbiamo scritto cinque giorni fa alla professoressa Geraldina Boni, una delle più importanti canoniste che oggi (dopo otto anni) si sta preoccupando di mettere a posto giuridicamente l’inesistente istituto del papa emerito, per chiederle conferma, un commento, ma la docente non ha risposto. Così come non ha risposto il Prof. Gigliotti e nemmeno il vescovo canonista Mons. Sciacca, con le cui stesse argomentazioni i giuristi Acosta e Sànchez hanno definitivamente demolito la Declaratio come rinuncia. Praticamente nessuno ha difeso Francesco, lo hanno lasciato tutti SOLO chiudendosi in un cupo ed egoistico silenzio. Ma il clamore lo hanno fatto i lettori, condividendo i nostri articoli fino a che Google non li ha indicizzati ai primi posti facendone una sorta di “Segreto di Pulcinella”: tutti lo sanno, tutti lo vedono, ma nessuno ne parla (tranne pochi coraggiosi, RomaIT e Dagospia). Bergoglio, da parte sua, non ha fatto la minima mossa per difendersi dalle accuse, se non, forse, disapprovare nei suoi discorsi presunte “maldicenze”, o “legalismi clericali”, così come generici, farisaici attaccamenti alla legge, fino a spingersi, qualche giorno fa a dire che perfino i Comandamenti non sono assoluti e che “Gesù giustifica tutti”. La strategia del silenzio adottata dal Vaticano è stata però completamente DISASTROSA, perché qui non si tratta di pettegolezzi, vociferazioni, chiacchiere, ma di pesantissimi FATTI, cose scritte da Papa Benedetto, da cardinali, teologi, latinisti, giuristi, avvocati, magistrati. Siccome contra factum non valet argumentum, dal Vaticano hanno eluso ogni risposta, e questo non ha fatto che cedere terreno all’inchiesta. E oggi, Sànchez e Acosta possono avvertire: “ATTENZIONE: le paventate dimissioni di Bergoglio sono un enorme rischio finale. Il papa è ancora Benedetto XVI, è stato dimostrato e nessuno ha smentito da ben due anni. Se Bergoglio si dimette (da cosa?) e la Chiesa non riconosce che Benedetto XVI è ancora il solo unico papa, continuerà il processo di disgregazione del Cattolicesimo, con un nuovo antipapa, magari apparentemente più morbido e conciliante, ma prosecutore del processo iniziato nel marzo 2013”. Insomma, il silenzio del Vaticano, in questo caso, non è stato d’oro.

Gian Guido Vecchi per il "Corriere della Sera" il 12 agosto 2021. La prima volta, almeno in pubblico, accadde il 22 luglio 2013, quattro mesi dopo l'elezione nella Sistina: in partenza per la Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, salì sereno la scaletta dell'aereo reggendo una vecchia borsa di pelle nera. Non si era mai visto un Papa che portasse da sé il bagaglio a mano. Eppure il più stupito per lo stupore generale era Francesco, «io porto sempre la mia borsa quando viaggio, è normale, dentro c'è il rasoio, il breviario, l'agenda, un libro da leggere, la normalità della vita...». All'elenco delle cose «normali» e insieme inedite, nel frattempo diventato assai lungo - come le uscite nei negozi romani per provare le scarpe ortopediche o sistemare gli occhiali - si è aggiunta ieri mattina la telefonata ricevuta durante l'udienza generale del mercoledì. Pare di capire che Francesco la aspettasse e avesse lasciato detto, anche perché è difficile immaginare che un collaboratore osi spuntare sul palco dell'Aula Paolo VI con un cellulare in mano mentre il pontefice siede davanti a migliaia di fedeli. Il Papa aveva appena finito la sua catechesi sulla Lettera di san Paolo ai Galati, con relativi saluti finali nelle varie lingue e benedizione. È il momento in cui, in genere, si alza e si avvicina ai fedeli delle prime file. Ed è quello che stava facendo, prima che un collaboratore si avvicinasse con il telefonino. Francesco non ha fatto una piega, come se lo attendesse. Ha ascoltato qualche istante e per un paio di minuti, il cellulare all'orecchio sinistro, in piedi sul palco, ha parlato tranquillamente al suo interlocutore scandendo le frasi con la mano destra, come se stesse dando delle disposizioni. Il «mistero» della telefonata che ha interrotto l'udienza ha fatto nascere per qualche ora le voci piu disparate e infondate, a cominciare dai timori, smentiti, sulla salute del Papa emerito Benedetto XVI: «Notizie false», si fa sapere dal Monastero Mater Ecclesiae dove vive Ratzinger. Il predecessore non c'entrava nulla con l'argomento della telefonata. Del resto, cosa poteva esserci di così urgente da interrompere l'udienza? Qualche questione di governo, probabilmente. Dal Vaticano non è arrivato alcun chiarimento ufficiale, si parlava di una «telefonata privata». In realtà la chiamata arrivava dalla Segreteria di Stato e l'interlocutore di Papa Francesco era l'arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, Sostituto e quindi numero due della Terza Loggia, una sorta di ministro dell'Interno vaticano. Fatto sta che il Papa, conclusa la telefonata, e dopo un'altra deviazione verso le quinte e l'uscita posteriore, mentre faceva segno di aspettare un attimo, è ritornato sorridente e ha ripreso a salutare, stringere le mani e donare rosari ai fedeli. Al termine della catechesi, Francesco aveva anche ricordato «con molto dolore» l'omicidio di padre Olivier Maire, il sacerdote ucciso il 9 agosto scorso in Francia: «Rivolgo le mie condoglianze alla Comunità religiosa dei Monfortani a Saint-Laurent-sur-Sèvre, in Vendée, alla sua famiglia e a tutti i cattolici di Francia - ha detto il pontefice -. Vi assicuro la mia partecipazione e la mia vicinanza spirituale».

Fuori programma all'udienza generale: il Papa risponde al telefono e se ne va. Serena Sartini il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. Mai successo a un Pontefice: la seduta è poi ripresa. Tempo fa ai ragazzi aveva detto: "Spegnete i cellulari e guardiamoci negli occhi". Non bastava la valigetta nera portata da solo nei viaggi, o il pagamento dell'albergo come un prete qualunque, o infine il saluto con stretta di mano alle guardie svizzere in alta uniforme. Il Papa non è nuovo nel rompere i protocolli ma questa volta il fuori programma è davvero insolito: al termine dell'udienza generale del mercoledì, Francesco si è visto costretto a interrompere i suoi saluti con i fedeli a causa di una telefonata improvvisa. Ma si sa, con questo Pontefice ormai ci si è fatta l'abitudine. Siamo al termine dell'udienza nell'Aula Paolo VI quando il suo maggiordomo Piergiorgio Zanetti, si avvicina a Francesco passandogli il telefono. Il Papa si allontana per qualche minuto per poi tornare a salutare i fedeli con sorrisi e benedizioni. In molti si sono interrogati su chi fosse la persona così importante (o forse normalissima) al punto di interrompere i saluti papali. E come mai tanta urgenza? La notizia, dunque, non è tanto il fuori programma ripreso da mezzo mondo, quanto il giallo su chi ci fosse dall'altro capo del telefono. C'è addirittura chi, sui social, pubblica lo screenshot zoomato con il telefono e il nome di mons. Edgar Peña Parra, sostituto alla segreteria di Stato scelto da Francesco al posto del cardinale Angelo Becciu. Ma sui social le voci si rincorrono: forse era Biden o un capo di Stato? O forse il Papa volva informarsi sullo stato di salute del cardinale Burke, che - contrario alla vaccinazione - ha contratto il Covid proprio due giorni fa? Comunque sia, la notizia - immortalata dalle televisioni di tutto il mondo - ha suscitato la curiosità dei fedeli e non solo. Quasi come se il Papa volesse far sapere della telefonata. Ma il Vaticano, interpellato sul fuori programma, si è limitato a dire che si trattava di una telefonata privata e che dunque non può essere comunicato nulla al riguardo. Curiosamente il Papa tempo fa aveva sgridato i giovani per l'uso intensivo degli smartphone: «Spegnete i cellulari, guardiamoci negli occhi». Di certo è che, sebbene in pieno agosto - e Bergoglio ancora convalescente dopo un'operazione al colon di inizio luglio - la sua agenda è già tornata ad essere quella di un leader che governa una Chiesa cattolica mondiale con mille impegni, problemi e urgenze. Durante la consueta udienza del mercoledì, Bergoglio ha espresso tutto il suo dolore per l'uccisione di padre Maire, il religioso ucciso lunedì in Vandea da un rifugiato ruandese con problemi psichiatrici che era stato accolto dalla sua comunità. «Con molto dolore - ha detto - ho appreso l'omicidio di Padre Olivier Maire. Rivolgo le mie condoglianze alla Comunità religiosa dei Monfortani a Saintlaurent-sur-Sèvre, in Vendée, alla sua famiglia e a tutti i cattolici di Francia. Vi assicuro la mia partecipazione e la mia vicinanza spirituale». L'uomo ruandese era stato salutato da Francesco nel 2016 nel quadro del giubileo delle persone socialmente escluse. Il Pontefice ha poi criticato i predicatori fondamentalisti dell'epoca di San Paolo. «La legge ci porta a Gesù. Ma qualcuno può dirmi - ha detto Bergoglio - padre, questo vuol dire che se prego il Credo non devo osservare comandamenti?'. No, i comandamenti hanno attualità nel senso che sono pedagoghi, ti portano all'incontro con Gesù... era il problema di missionari fondamentalisti immischiati tra i Galati per confonderli». Ieri si è tenuta la prima udienza del mercoledì dopo che è entrato in vigore il certificato sanitario. A causa del caldo fortissimo, l'udienza si è tenuta al chiuso. Ma i fedeli non hanno dovuto mostrare il Green Pass. Per il momento, infatti, il Vaticano ha scelto di continuare con le solite attenzioni: misurazione della temperatura all'ingresso e distanziamento. Serena Sartini

Busta con tre proiettili indirizzata a Papa Francesco. Il Quotidiano del Sud il 9 agosto 2021. Una busta con tre proiettili, indirizzata a Papa Francesco, è stata trovata a Peschiera Borromeo, nel Milanese. Questa notte i carabinieri della stazione di Paullo sono intervenuti presso il centro smistamento dove il responsabile, un italiano di 57 anni, ha segnalato la presenza di una busta, con affrancatura francese, contenente 3 cartucce, presumibilmente di pistola, priva di mittente e destinata, con scritta a penna e poco leggibile a "Il Papa -Città del Vaticano, Piazza S. Pietro in Roma". La busta proviene dalla Francia ed è stata sottoposta a sequestro per i successivi rilievi tecnici. Indagini sono in corso.

Movimenti, da papa Francesco nessun repulisti: "Solo un sano rinnovamento". Paolo Rodari su La Repubblica il 24 agosto 2021. Dietro il decreto di Bergoglio di due mesi fa la volontà di portare vitalità alle associazioni ecclesiali, da Cl ai Focolarini, combattendo gli abusi. Il Papa è contro i movimenti? Tutt'altro. Piuttosto è preoccupato per loro, per questo ha deciso di intervenire". Sorride l'alto prelato, interpellato due mesi dopo l'uscita del decreto con il quale Francesco chiede che coloro che guidano movimenti e associazioni riconosciute dalla Chiesa (eccezioni possono riguardare soltanto alcuni fondatori) non stiano in carica per più di dieci anni. "La sua preoccupazione è per gli abusi, di potere e di coscienza soprattutto, che alcune di queste persone, idolatrate da gruppi spesso chiusi a mo' di setta, hanno commesso su persone loro affidate. Mentre un ricambio nei vertici, come ha spiegato sull'Osservatore Romano il gesuita Ulrich Rhode, apporta grandi benefici alla vitalità dell'associazione stessa, porta ad evitare il crescere dei personalismi: Francesco è questa vitalità che desidera, non altro". Non sono stati pochi coloro che hanno letto l'uscita del decreto dello scorso giugno come una scure lanciata dal Papa contro i movimenti. Dicono che il vescovo di Roma che è cresciuto alla scuola della teologia del pueblo argentina, a differenza dei suoi due ultimi predecessori non ama i carismi. Per questo, ne azzera i vertici esercitando così un controllo più diretto. "Niente di più falso", rispondono in Vaticano. Ciò che combatte, piuttosto, sono gli "integralismi comunitari", il rischio cioè che singole associazioni, pur del tutto diverse fra loro, vivano nella totale autoreferenzialità, senza sapersi aprire agli altri. Bergoglio già a Buenos Aires ha lasciato spazio alle iniziative dei movimenti. Quelle nate dal basso sono state da lui sempre valorizzate. Ha presentato più volte libri di don Giussani, celebrato liturgie con Sant'Egidio, pregato sulla tomba di Escrivà, favorito gli incontri ecumenici dei Focolarini e, come ha scritto su Vatican Insider Gianni Valente, "ha recitato il "rosario delle rose" nelle parrocchie bonaerensi affidate ai sacerdoti del movimento di Schöenstatt", facendosi vicino anche ad associazioni più piccole ed esigue. "Il dicastero vaticano - conferma a Rimini Bernhard Scholz, presidente della Fondazione Meeting dell'amicizia fra i popoli - ha emanato un decreto che riguarda più di cento associazioni e movimenti ecclesiali". Mentre per quanto riguarda Cl, il presidente della Fraternità di Cl, Julián Carrón, "ha dichiarato subito dopo la pubblicazione che il movimento "provvederà agli adempimenti richiesti, nei modi e nei tempi stabiliti dal decreto stesso". Da sempre è stato l'intento di Cl servire la Chiesa e sarà così anche in futuro. Per la stessa ragione il Meeting cercherà di essere anche in futuro un luogo di incontro per tutti". Due anni passano in fretta. Entro questo lasso di tempo molti movimenti cambieranno i propri vertici. Dopo Carrón sono attese le prese di posizione degli altri "big", Chiara Amirante di Nuovi Orizzonti, Kiko Arguello dei Neocatecumenali, Salvatore Martinez del Rinnovamento dello Spirito, Marco Impagliazzo di Sant'Egidio. Anche se le preoccupazioni del Papa non sembrano essere tanto nei loro confronti. Quanto per le molteplici micro realtà - si parla di oltre centro aggregazioni interessate dal decreto - tutte diverse fra loro, che in questi anni si sono formate non senza correre il rischio di nicchie di abusi di potere e in alcuni casi anche di violenze. Sono queste che hanno mosso Francesco. Sono queste situazioni che il Papa non vuole tornino a ripetersi. I casi come quello dei Legionari di Cristo e della doppia vita di Marcial Maciel Degollado fanno ancora male. E non sono isolati. Giovanni Paolo II non sempre fu in grado di vedere certi abusi e, in un'epoca storica nella quale il "noi", l'essere in quanto comunità, veniva prima dell'"io", puntò tutto sui movimenti e sulla presenza nella società dei differenti carismi. In una Chiesa protagonista della battaglia dell'Occidente contro le ideologie totalitarie, i movimenti erano una presenza sociale e politica forte. I carismi, pur con tutti i loro limiti, erano utili alla causa. Benedetto XVI fece sua la linea di Wojtyla seppure per primo aprì ad un'azione dall'alto contro gli abusi, anche consapevole che il futuro della Chiesa non era più in azioni evangelizzatrici di massa ma in "minoranze creative", piccoli gruppi che sapessero dare l'esempio senza proselitismi né conquiste di campo. Dopo di lui, Francesco, che giusto due settimane fa ha implicitamente spiegato il senso del suo decreto. Nella prima udienza generale dopo il ricovero al Gemelli, infatti, il Papa ha ricordato come "tante volte abbiamo visto nella storia, anche vediamo oggi, qualche movimento che predica il Vangelo con una modalità propria, delle volte con carismi veri propri, ma poi esagera e riduce tutto il Vangelo al movimento". Ma "questo non è il Vangelo di Cristo, è il Vangelo del fondatore o della fondatrice: e questo potrà aiutare all'inizio ma alla fine non fa frutti con radice profonda", ha chiarito. Qui c'è il senso delle sue nuove disposizioni, qui la radice di un'azione che nel giro di ventiquattro mesi democraticizzerà i vertici dei movimenti all'interno di un panorama ecclesiale nel quale il prevaricare dei leader sulle persone loro affidate non è più ammesso né tollerato.

"La chiesa di Bergoglio brucia", scrive Riccardi. Ma il problema è l'assenza della Logica, non il verticismo. Tutte le irrazionalità di una neo-Chiesa irriconoscibile. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 07 agosto 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“La Chiesa Brucia” è il titolo del recentissimo libro (Laterza) di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di S. Egidio. Se perfino l’alfiere del cattoprogressismo più avanzato si spinge a lanciare un allarme del genere vuol dire che la situazione ha già oltrepassato i livelli di guardia. Dagli scandali connessi alle devianze sessuali a quelli finanziari, dalle chiese vuote al ground zero delle vocazioni, dalla fuga dei giovani alla perdita di credibilità, la Chiesa cattolica – specialmente in Europa – è in caduta libera. Riccardi parte dall’immagine di Notre Dame in fiamme, che secondo una narrativa istituzionale francese dovrebbe essere andata a fuoco per una sigaretta che avrebbe incendiato travi di quercia spesse un metro: un po’ come nei serial d’azione americani anni ’80, tipo A-Team o MacGyver.  Casualmente, in Francia sono andate a fuoco in due anni 15 chiese cattoliche per incendi dolosi di matrice islamica, ma se lo dice Macron, sarà stata la "sigaretta".

Nel suo libro, Riccardi individua nel verticismo di Francesco una causa fondamentale di questo sfacelo, ma ci permettiamo di dissentire. Il pugno di ferro col quale Francesco governa è, invece, uno dei pochi elementi grazie al quale si tiene ancora in piedi la “sua” chiesa. Se non ci fosse nemmeno questo ferreo autoritarismo, tutto sarebbe dissolto ormai da tempo. Il vero problema della Chiesa bergogliana non è – a nostro avviso - nemmeno il modernismo, i frutti del Concilio, il neoarianesimo, la massoneria ecclesiastica… E’ qualcosa di antecedente, primario, che, del resto, genera e annovera tutte le deviazioni citate: è, potremmo dire, la rinuncia, ormai definitiva, alla Logica. Ed essendo il Cristianesimo la religione del Logos, del Verbo di Dio fatto uomo, forse c’è un problema sistemico. Ma facciamo qualche esempio partendo dalle irrazionalità più macroscopiche. La politica di Francesco sui migranti, ad esempio, dei quali adesso non si parla quasi più, peraltro, visto che ormai i flussi sono finalmente regolari e assicurati, con un Salvini “annutellato” grazie al bastone di qualche schicchera giudiziaria e alla carota di una mezza baronia nel governo Draghi. Mentre Giovanni Paolo II e Benedetto XVI citavano il “diritto a non emigrare”, Bergoglio ha parlato per anni dell’opposto, con un’ossessiva frenesia accoglientista che – ovviamente – ha contribuito a incoraggiare i viaggi della speranza, con tutti gli annessi e connessi. La dottrina dell’ordo amoris di S. Agostino, cancellata. QUI Per far cosa, poi? Riempire l’Italia di musulmani, senza peraltro nessuna volontà dichiarata di convertirli: in che modo questo dovrebbe andare a vantaggio del Cattolicesimo? Vi vedete una logica?

Oppure, che senso ha per Bergoglio dichiararsi “personalmente” a favore delle unioni civili, se il secondo dei "peccati che gridano vendetta al cielo" - stando alla dottrina cattolica - è quello contro-natura?  Come se un peccato potesse essere un beneficio per i laici e un danno solo per i cattolici. Vi pare coerente? Che significa poi intronizzare in San Pietro l’idolo pagano Pachamama, vetusto, rischiosissimo arnese da inculturazione, quando già dal ‘500 la Vergine di Guadalupe ha soppiantato i culti non cattolici dell’America Latina? Ancora: dopo aver minimizzato il culto mariano, Francesco cambia le litanie lauretane e fa diventare la Madonna “solacium migrantium”, sollievo dei migranti, i quali, per la stragrande maggioranza, sono islamici e certo non recitano le litanie mariane. Come se fossero, tra l’altro, costituzionalmente, una pia categoria come gli infermi, le vergini, i martiri… mentre invece sappiamo che un terzo dei reati commessi in Italia proviene dagli stranieri che sono appena il 12% dei residenti sul territorio nazionale (dati del Viminale) e di certo non sono i turisti giapponesi. Oppure, Bergoglio scrive 350 pagine di enciclica Amoris Laetitia per chiarire la faccenda della comunione ai divorziati, ma nemmeno i cardinali capiscono cosa voglia dire. Quando quattro di questi gli espongono i loro Dubia, lui non risponde. Poi, la preghiera comune insieme ai capi delle altre religioni: ma se il Cristianesimo è una fede rivelata, che senso ha pregare con le altre religioni, se un cattolico sa per certo (dalla sua ottica) che quegli altri non adorano il vero Dio? Da ultimo, Francesco emana un motu proprio, Traditionis custodes, che abolisce però la più antica e sacra delle tradizioni ecclesiastiche, cioè la messa in latino, come se la tradizione dal Concilio Vaticano II (1962) contasse più di una tradizione vecchia di 2000 anni.  Un provvedimento, peraltro, da lui voluto “per evitare divisioni” e che ora ha portato la chiesa al punto dello scisma semidichiarato. Ma l’Illogica, si vede anche nei piccoli, ma esiziali cambiamenti liturgici. Hanno inserito la rugiada nella II preghiera eucaristica, “Manda o Signore «la rugiada» del tuo spirito a santificare questi doni”: un retaggio del III secolo, quando ancora non esisteva la teologia dello Spirito Santo. Quindi perché oggi inserire una metafora ormai obsoleta della Terza Persona trinitaria quando questa venne dogmatizzata appena un secolo dopo? Anche perché “manda la rugiada del tuo Spirito” non corrisponde a “manda il tuo Spirito”. La rugiada è un “prodotto” dello Spirito, non lo Spirito in prima persona, se l’italiano non è un’opinione. Viceversa, si fa un favore all’anticristianissima Massoneria che condivide la rugiada come importante elementale esoterico. Tra l’altro, tanti accusano Bergoglio di essere massone, e poi lui ogni momento parla di Fratellanza universale.  Il criterio? Ricordiamo anche il cambiamento del Padre Nostro con l’inserimento del politicamente corretto “fratelli e sorelle”, quando poi scrive l’enciclica “Fratelli tutti”. E le sorelle allora? O si mettono sempre, oppure con fratelli si intende il genere umano, no?  Poi ci sono gli episodi estemporanei, le iniziative e le dichiarazioni-choc. Da un lato se la prende con le famiglie cattoliche numerose: “non figliate come conigli” e poi si lamenta dell’inverno demografico dell’Italia. Delle due, l’una. Non si inginocchia mai davanti al Santissimo, perché gli fanno male le ossa, però poi si inginocchia di fronte a islamici, capi di stato africani fino a baciar loro i piedi. Nel capitello romanico di Vezelay indica il becchino che porta via il cadavere di Giuda impiccato, come se fosse il Cristo Buon Pastore, in totale contraddizione con la teologia medievale e con quanto affermato da tutti gli storici dell’arte. Fa fare l’elemosina ai transessuali – con grande visibilità - senza però spingerli (almeno con altrettanta risonanza) alla conversione e al cambiamento di vita, in modo che, dopo il lockdown questi poveretti possano riprendere tranquillamente la loro attività. Manda l’elemosiniere a riattaccare la corrente in un palazzo okkupato dalla delinquenza e dal malaffare e questo, ovviamente, a Capodanno si rende protagonista di episodi di reati e degrado assoluto. Parla con toni affettuosi del “caro nonnino” papa Ratzinger, e poi gli fa espiantare la vigna prediletta di Castel Gandolfo non appena questi osa contraddirlo. Continui appelli contro la guerra, per la pace, e poi inserisce un guerriero cornuto con un teschio sulla fronte nel presepe in Piazza San Pietro. Che senso hanno tutti quei discorsi sulla misericordia e poi far scomunicare senza processo i sacerdoti che osano mettere in dubbio la sua legittimità come pontefice, invece di accoglierli come pecorelle smarrite? Oppure, come nel recente Angelus, Bergoglio si scaglia contro una visione della fede utilitarista, volta unicamente chiedere delle grazie, dopo aver, per decenni, propagandato il culto (del tutto inedito) di Maria che scioglie i nodi e di san Giuseppe dormiente, ai quali si chiedono proprio grazie e benefici tramite ritualità paganeggianti - se non addirittura esoteriche. La Chiesa brucia, dunque, ma non è per il verticismo di Bergoglio, come dice Riccardi, non è per “la sigaretta”. Divampano le fiamme nella Chiesa perché non c’è più la sua ANIMA IGNIFUGA: manca il LOGOS, quella perfetta coerenza interna che ha tenuto in piedi il sistema per 2000 anni. O meglio, un’altra logica ci può essere, nascosta e anche molto coerente, ma è opposta a quella che ricerca apertamente il bene della Chiesa e la conversione del mondo al Cattolicesimo. E’ la logica del Nuovo ordine mondiale che, peraltro, Bergoglio ha auspicato ormai apertamente in un’intervista del 15 marzo 2021 e che ha ben prefigurato Flores d’Arcais in un libello del 201: distruzione dell’identità cattolica, annichilimento della sua fede bimillenaria in uno pseudoluteranesimo filomassonico, neoariano, esoterico, ecologista, gay-friendly, neomalthusiano asservito ai poteri forti. Una logica ci può essere, sotterranea, ma ha poco a che fare col Dio cattolico. (Del resto, lo stesso Francesco dice che non esiste un Dio cattolico…).  In sintesi abbiamo, oggi, una chiesa dell’A-logos, dell’irragionevolezza, che trova una sua logica coerente, ma inversiva, solo se gli obiettivi sono opposti a quelli che la Chiesa persegue da 2000 anni. Come mai questo strano rovesciamento? Sarà mica che Benedetto XVI non ha mai abdicato ed è ancora lui il papa? Sarà forse che papa Ratzinger si tiene ben stretto il munus petrino, con tanto di assistenza esclusiva dello Spirito Santo e che quindi Francesco è un antipapa? Vescovi, preti, teologi, giuristi, avvocati, docenti universitari, magistrati, latinisti, giornalisti, intellettuali lo affermano, anche pagando di persona, argomentando sotto tutti i punti di vista (canonico, indiziario, teologico) e il bello è che nessuno dal Vaticano li contesta opponendo una disastrosa strategia del “never complain, never explain” (vulgo "muro di gomma"). E chi tace, a questo punto, acconsente.

Dario Edoardo Viganò per la Repubblica il 18 luglio 2021. ln questo colloquio, estratto dal volume "Lo sguardo: porta del cuore. Il neorealismo tra memoria e attualità", il Pontefice racconta il suo amore per i capolavori del Novecento, da “Roma città aperta” di Rossellini alle grandi opere di De Sica e Fellini. Una passione nata grazie ai genitori: «Ci portavano spesso in sala, così capimmo gli effetti della guerra».

Nel suo magistero non di rado fa riferimento al cinema: talvolta la sentiamo citare questo o quel film. Da dove nasce questo suo particolare rapporto col cinema?

«Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei genitori. Quando ero bambino, frequentavo spesso il cinema di quartiere, dove si proiettavano anche tre film di seguito. Fa parte dei ricordi belli della mia infanzia: i miei genitori mi hanno insegnato a godere dell'arte, nelle sue varie forme. Il sabato, ad esempio, con la mamma, insieme ai miei fratelli, ascoltavamo le opere liriche che trasmettevano alla Radio del Estado (oggi Radio Nacional). Ci faceva sedere accanto all'apparecchio e prima che cominciasse la trasmissione ci raccontava la trama dell'opera. Quando stava per iniziare qualche aria importante ci avvertiva: "State attenti, questa è una canzone molto bella". Era una cosa meravigliosa. E poi c'erano i film al cinema, per i quali i miei applicavano lo stesso metodo: come facevano con le opere, ce li spiegavano per farci orientare».

Ed è in questo contesto che è nato anche il suo rapporto con il neorealismo italiano.

«Sì, tra i film che i miei vollero assolutamente che noi conoscessimo c'erano proprio quelli del neorealismo. Tra i dieci e i dodici anni credo di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi, tra cui "Roma città aperta" di Roberto Rossellini che ho amato molto. Per noi bambini in Argentina, quei film sono stati molto importanti, perché ci hanno fatto capire in profondità la grande tragedia della guerra mondiale. A Buenos Aires la guerra l'abbiamo conosciuta soprattutto attraverso i tanti migranti che sono arrivati: italiani, polacchi, tedeschi... I loro racconti ci hanno aperto gli occhi su un dramma che non conoscevamo direttamente, ma è anche grazie al cinema che abbiamo acquisito una coscienza profonda dei suoi effetti». 

Dove sta l'attualità di questi film?

«I film del neorealismo ci hanno formato il cuore e ancora possono farlo. Direi di più: quei film ci hanno insegnato a guardare la realtà con occhi nuovi. Quanta necessità abbiamo oggi d'imparare a guardare! La difficile situazione che stiamo vivendo, segnata a fondo dalla pandemia, genera preoccupazione, paura, sconforto: per questo servono occhi capaci di fendere il buio della notte, di alzare lo sguardo oltre il muro per scrutare l'orizzonte». 

Ma in che modo questo cinema può insegnarci a guardare?

«Quello neorealista è uno sguardo che provoca la coscienza. "I bambini ci guardano" è un film del 1943 di Vittorio De Sica che amo citare spesso perché è molto bello e ricco di significati. In tanti film lo sguardo neorealista è stato lo sguardo dei bambini sul mondo: uno sguardo puro, capace di captare tutto, uno sguardo limpido attraverso il quale possiamo individuare subito e con nitidezza il bene e il male». 

A questo proposito viene alla mente un altro grande maestro del cinema italiano come Federico Fellini, che lei ama spesso citare, per la sua capacità di restituire lo sguardo sugli ultimi.

«Sì, "La strada" di Fellini è il film che forse ho amato di più. M'identifico molto in quel film, in cui troviamo un implicito riferimento a san Francesco. Fellini ha saputo donare una luce inedita allo sguardo sugli ultimi. In quel film il racconto sugli ultimi è esemplare ed è un invito a preservare il loro prezioso sguardo sulla realtà». 

Se dovesse, dunque, indicare qual è la qualità più importante dello sguardo neorealista?

«Direi quella di aver saputo guardare non solo dentro la storia, ma anche dentro il cuore degli uomini. In questo sta la sua catechesi di umanità: valida allora e valida oggi. Uno sguardo che tocca la realtà, ma anche il cuore, è uno sguardo che la realtà la trasforma. Non è uno sguardo che ti lascia dove sei, ma è uno sguardo che ti porta su, che ti solleva, che ti invita ad alzarti. Il cinema neorealista ha avuto questo potere, proprio della grande arte, di saper cogliere nell'inverno ciò che era già primavera. È uno sguardo che nelle tenebre custodisce il gusto e il senso della luce». 

Che valore ha per lei il cinema nella dinamica tra storia e memoria? E quanto è importante custodire questa "memoria per immagini"?

«Questo è un discorso decisivo per il futuro. Nella mia esperienza di pastore ho attinto diverse volte alla "memoria per immagini": in Amoris laetitia, faccio riferimento al film "Il pranzo di Babette", di Gabriel Axel (1987), per spiegare l'importanza della "gioia che deriva dal procurare diletto agli altri"; in Fratelli tutti ci sono ben tre riferimenti al film "Papa Francesco - Un uomo di parola", di Wim Wenders (2018). Il cinema insegna a creare e custodire la memoria, attraverso uno sguardo che sa tradurre e decifrare il messaggio. Dobbiamo essere bravi custodi della "memoria per immagini" per trasmetterla ai nostri figli, ai nostri nipoti. Non bisogna sottovalutare l'importanza di questi documenti che, pur essendo un patrimonio recente, è paradossalmente molto fragile e necessita di costanti cure: molto è già andato perso a causa dell'incuria e della mancanza di risorse e competenze. Su questo fronte dobbiamo fare di più, anche come Chiesa"».

Fare di più da parte della Chiesa significa anzitutto non disperdere il patrimonio delle fonti audiovisive o forse poter immaginare qualcosa che si affianchi alle grandi istituzioni vaticane dell'Archivio e della Biblioteca apostolica?

«Penso a un'istituzione che funzioni da Archivio Centrale per la conservazione permanente e ordinata secondo i criteri scientifici, dei fondi storici audiovisivi degli organismi della Santa Sede e della Chiesa universale. Potremmo chiamarla una Mediateca». 

Il libro e l’incontro. Questo testo è un estratto da "Lo sguardo: porta del cuore. Il neorealismo tra memoria e attualità" di Dario Edoardo Viganò (Effatà, pagg. 104, euro 14), Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e delle Scienze Sociali della Santa Sede. Il volume contiene un’intervista sul cinema al Papa. Incontro con l’autore all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede il 21 luglio alle 10: l’ambasciatore Pietro Sebastiani introduce, poi interventi di Francesco Bruni, regista e sceneggiatore; Enrico Bufalini, direttore dell’Archivio storico Luce; Gianluca Della Maggiore di Uninettuno; la direttrice Teche Rai Paola Sciommeri. Modera Giovanna Pancheri, contributo video di Violante Placido.

L'umanità (e il coraggio) di Francesco. Giordano Bruno Guerri il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. Il colon del Papa è un argomento che in alcuni crea imbarazzo, in altri battute di gusto infimo. Il colon del Papa è un argomento che in alcuni crea imbarazzo, in altri battute di gusto infimo. C'è da sperare, invece, che nei più susciti un sentimento di tenerezza verso un uomo anziano, malato, che alla sua età continua a lavorare e che lavoro - da stakanovista. Più dell'arrivo modesto in ospedale, su un'auto qualsiasi e senza pompa, impressiona che poco prima parlasse alla folla di piazza San Pietro, rispettando il suo dovere. Che il male l'abbia colpito proprio lì, poi, ce lo fa sentire più vicino a noi esseri comuni, per un curioso fenomeno psicologico legato alla fisicità e alle miserie del corpo. Di recente ho avuto la possibilità di stare nella stanza della Fondazione Ettore Majorana, nella meravigliosa Erice, che nel maggio del 1993 ospitò Giovanni Paolo II. Quel giorno il Papa tenne un discorso ormai famoso, sui rapporti tra scienza e fede, a scienziati di tutto il mondo invitati da Antonino Zichichi. Poi, dopo avere pronunciato parole molto importanti, si ritirò in quella stanza. Ebbene, non mi suggestionò tanto la vicinanza con il letto o la scrivania, quanto quella con il bidet. Gli psicologi lo spieghino a piacimento, io credo che lì sentii più forte la fragilità di qualsiasi essere umano, per quanto potente, importante o intelligente o forte sia: la debolezza di un corpo sempre inadeguato a portare pesi tanto gravosi. Papa Bergoglio sta svolgendo un compito immane, nonostante tutta la sua visibile stanchezza. Non parlo della lotta alla pedofilia nel clero o di quella contro gestioni finanziarie a dire poco disinvolte. Parlo della rivoluzione che sta avviando nella stessa anima della Chiesa e del cattolicesimo. All'inizio del Novecento Pio X scomunicò tutti i modernisti, una corrente di pensiero che proponeva un rinnovamento degli studi sul cristianesimo, della liturgia, dei dogmi. Il loro maggiore rappresentate italiano, don Ernesto Buonaiuti, venne perseguitato in modo ossessivo dai gesuiti. Nel 1926 ricevette anche la tremenda scomunica vitando, per cui un buon cattolico non poteva avvicinarglisi per nessun motivo. Nel 1929 due articoli del concordato furono pretesi dal Vaticano per impedirgli di insegnare all'università e di indossare la tonaca, che continuava a portare. Fu l'unico fra i 12 docenti universitari (su 12mila) che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, a non riavere nel dopoguerra la cattedra che gli era stata tolta. La persecuzione è continuata anche dopo la sua morte, nel 1946, senza assistenza religiosa e in povertà. Si voleva che fosse dimenticato. Eppure molte novità introdotte dal concilio Vaticano II sono frutto del suo pensiero, Giovanni XXIII era in seminario con lui. E oggi un Papa gesuita capace di vero pentimento sta realizzando grande parte del suo pensiero. Auguri, Francesco, buona guarigione. Giordano Bruno Guerri

(ANSA il 5 luglio 2021) Notte tranquilla per papa Francesco ricoverato al Policlinico Gemelli, la prima dopo l'intervento chirurgico cui è stato sottoposto ieri sera, programmato per una stenosi diverticolare del sigma, e al quale il Pontefice "ha reagito bene", secondo il bollettino diffuso in tarda serata. Fonti ospedaliere riferiscono informalmente di un decorso post-operatorio regolare. Il Papa, stando alle previsioni, dovrebbe restare al Gemelli per almeno cinque giorni.

Papa Francesco "ricoverato altri 7 giorni". Ora è in terapia intensiva: non è stata un'operazione semplice. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. No, l'intervento di Papa Francesco non è stato di pura routine. Anzi, l'operazione è stata complessa, lunga. Il tutto, lo si ricorda, per stenosi diverticolare del sigma e quindi con la resezione di un tratto del colon. Certo l'esito dell'intervento è stato positivo. Ma ora si apprende che comunque il Pontefice resterà ricoverato per sette giorni e che attualmente si trova in terapia intensiva post-operatoria, fatto questo sì di routine per una persona di 84 anni e dovuto esclusivamente a motivi precauzionali. Matteo Bruni, portavoce del Vaticano, ha spiegato che Papa Francesco "è in buone condizioni generali, vigile e in respiro spontaneo". E ancora, ha spiegato che l'intervento "ha comportato una emicolectomia sinistra ed ha avuto una durata di circa 3 ore”. Attualmente “si prevede una degenza di circa 7 giorni salvo complicazioni". Per la precisione, l'intervento è iniziato ieri, domenica 4 luglio, alle 18.30 in laparoscopia ed è durato quasi cinque ore. E ancora, è stato necessario operare a cielo aperto: per colpa infatti di un piccolo precedente intervento chirurgico addominale, non è stato possibile infilare i “braccini” robotici che servono per operare. Così si è preferito cambiare metodo operatorio. Ad assistere Francesco, due infermieri del Vaticano. Oltre al personale medico ed infermieristico del Policlinico Genelli, ecco Massimiliano Strappetti, sanitario della Città del Vaticano, e un altro infermiere di fiducia sempre del Vaticano. Al Gemelli è inoltre presente una rappresentanza della Gendarmeria Vaticana e un responsabile per la sicurezza che affianca la polizia di Stato nei compiti di sorveglianza per il Pontefice.

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 6 luglio 2021. Al Gemelli, il paziente numero uno, ieri pomeriggio ha trovato le forze per trascorrere qualche ora in poltrona. Un buon segno. Riprendere le energie non sarà semplice e avverrà per gradi, giorno dopo giorno, tuttavia il processo post operatorio pare avviato bene. BASSO PROFILO Papa Francesco, 85 anni a dicembre, a detta dei medici dovrà restare all' ospedale per diversi giorni, non meno di sette, poi si vedrà. Tutto dipende dalle eventuali complicazioni e poi da come risponderà alle terapie antibiotiche. Di conseguenza resterà sotto stretta osservazione. Dopo la suspence di domenica sera dovuta all' assenza di notizie immediate una assenza che si è prolungata fino alle ore 23 facendo andare in fibrillazione mezzo mondo - sapere che Papa Bergoglio con l'aiuto degli infermieri ha potuto alzarsi da letto per un poco, diventa una rassicurazione evidente e immediata. Resta, invece, inalterato l'ordine impartito dal Papa di limitare al massimo le informazioni che lo riguardano per non creare confusione e non far diventare un caso il suo ricovero. Come se la salute di un pontefice fosse una cosa secondaria, da poter minimizzare o nascondere. E così anche ieri il muro di gomma era palpabile: ad ogni livello, persino tra il personale sanitario: la consegna era quella del silenzio. Per la prima volta L' intervento chirurgico effettuato su un Papa non è stato spiegato di persona dall' equipe medica, come avvenne, invece, sotto il pontificato di Papa Wojtyla. E anche il bollettino diramato dal Vaticano (e non dal Gemelli) si riassumeva in sole quattro righe. Lo stretto necessario per informare che le condizioni di Francesco sono buone, che è «vigile e in respiro spontaneo». Un particolare non secondario - quasi un messaggio - che sta ad indicare che è perfettamente in grado di avere la situazione sotto controllo, che non è attaccato a nessuna macchina anche se, per prassi, nelle ore seguite all' intervento, Francesco è stato fatto transitare per precauzione in un ambiente di pre-rianimazione per poi essere portato nel suo appartamento del reparto solventi, al decimo piano.

BIOPSIA «L' intervento chirurgico per la stenosi diverticolare effettuato ha comportato una emicolectomia sinistra» si legge sul bollettino. La durata dell'operazione del Papa (3 ore sotto i ferri) è stata più lunga del previsto poiché in sala operatoria la laparoscopia effettuata tramite un robot di ultima generazione non riusciva a risolvere il problema. Occorreva incidere e lavorare con il bisturi al fine di rimuovere il tratto di intestino infiammato. La quantità di tessuto estratta sarà sottoposta per prassi all' esame istologico di tipo micro che richiederà un paio di giorni per avere gli esiti, e scartare eventuali brutte sorprese. 

PREGHIERE Se Papa Francesco con la sua autorità è riuscito ad imporre il basso profilo al Vaticano e al Gemelli, non è riuscito fare altrettanto sui tanti pazienti ricoverati che si sono subito organizzati per dare vita a gruppi di preghiera tra i reparti. In molti hanno recitato novene e rosari, sentendosi compagni di viaggio con il paziente speciale. Una signora anziana, al bar ripeteva in romanesco: «C' ha i diverticoli, eh porello, l' età...». Anche nel piazzale dell'ospedale il via vai è continuo e c' è il tutto esaurito per le troupe televisive di mezzo mondo. Dal Cairo, invece, è arrivato il messaggio del grande Imam di al-Azhar, la massima autorità dell'Islam sunnita, che ha augurato pronta guarigione al «caro fratello, perché possa riprendere a dedicarsi con devozione all' umanità».

Franca Giansoldati per “il Messaggero”. Ieri a mezzogiorno, sotto una cappa d' afa micidiale, i gruppi dei fedeli radunati in piazza San Pietro per vedere Papa Francesco non hanno notato nulla di strano. Bergoglio ha sorriso, salutato e poi ha preso a parlare di quel passo del Vangelo che dava conto dell'incredulità dei contemporanei di Gesù davanti alle sue predicazioni. La voce di sempre, l'incedere nei toni intervallato da qualche aggiunta a braccio, poi nel post-Angelus ha riferito che andrà a settembre in Slovacchia e Ungheria. Nessun segnale di debolezza fisica, nemmeno nel volto si scorgevano segni di affaticamento. Il solito appuntamento domenicale al quale però ha fatto seguito una autentica doccia fredda. La notizia - anticipata dall' AdnKronos - che in meno di un secondo ha fatto il giro del mondo: Francesco stava andando al Gemelli per essere sottoposto entro sera ad un intervento al colon. L' operazione è iniziata in laparoscopia e poi è proseguita a cielo aperto per complicazioni sopraggiunte. Il Papa è rimasto cinque ore sotto i ferri. Solo dopo le 23 un bollettino medico rassicurava: «ha reagito bene ad un intervento in anestesia generale». Tecnicamente si è trattato di stenosi diverticolare sintomatica, un disturbo tipico delle persone anziane che gli causava dolori fortissimi e persino un malore nei giorni scorsi, poco dopo l'udienza con il premier iracheno. Ma contrariamente ai suoi predecessori che durante gli Angelus annunciavano sempre le proprie operazioni sanitarie, Bergoglio ha preferito tacere, sorvolando su questo importante fuori programma per non caricare di enfasi l'accaduto, lasciando così il compito al Vaticano di gestire la patata bollente che nel frattempo scatenava l'allarme generale facendo tenere il respiro sospeso al mondo anche se si tratta di un disturbo piuttosto comune per gli anziani. Infiammazioni, occlusioni intestinali, dolori addominali. Un po' di tempo fa i medici che curano il Papa, di fronte agli spasmi, avevano convinto il pontefice a sottoporsi ad una operazione che generalmente si risolvere sempre con alcuni giorni di degenza, una dieta liquida e tanto riposo. La programmazione è stata decisa proprio in questo periodo poiché le udienze sono sospese per la pausa estiva. Il ricovero di Papa Bergoglio al Gemelli è avvenuto secondo il suo stile frugale, accompagnato da un unico collaboratore attorno alle ore 13. L' operazione, invece, è iniziata attorno alle 18,30 in anestesia generale. Uno dei primi messaggi di pronta guarigione arrivati, a nome di tutti gli italiani, è stato quello del presidente Mattarella, poi quelli del Rabbino Di Segni. La salute generale del Papa 84enne non desta troppe preoccupazioni nonostante la forte sciatalgia che si aggrava ogni volta che sospende la fisioterapia. Ecco allora che quel dolore si riaccende e lo fa zoppicare vistosamente durante le cerimonie. A dicembre ha dovuto dare forfait ai riti di fine anno. Quattro anni fa, invece, è stato costretto ad operarsi alla cataratta. Anche in quella circostanza il piccolo intervento ambulatoriale era stato tenuto praticamente segreto fino a quando non è stato raccontato dal Messaggero. Francesco aveva insistito con i suoi collaboratori di individuare una clinica privata nell' intento di non destare troppa curiosità. Pensare che era stato lui stesso, un anno prima, a raccontare che prima o poi si sarebbe dovuto sottoporre all' intervento di cataratta. «Uno sguardo rinnovato fa del bene perché, per esempio alla mia età arrivano le cataratte e non si vede bene la realtà. Il prossimo anno mi devo far operare» aveva detto. Sempre per non pubblicizzare i controlli prescritti dai medici, quando si è trattato di effettuare delle Tac all' anca, il Papa ha optato per la clinica Pio XI, a pochi passi dal Vaticano dove è andato quasi in incognito. L' intervento di ieri, però, per precauzione occorreva farlo in una grande struttura come il Gemelli dove è possibile fare analisi dettagliate, dove c' è la rianimazione ed escludere ogni tipo di complicazioni. La prudenza in questi casi non è mai troppa.

"Uscirà tra sette giorni...". Come sta papa Francesco. Francesco Boezi il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Dopo l'intervento subito per la stenosi diverticolare, il Papa dovrebbe avere bisogno di una settimana per la ripresa. Il parere dell'esperto. Papa Francesco è stato sottoposto ad un intervento nel corso della giornata di ieri. Un'operazione programmata che ha occupato le cronache internazionali. Ieri mattina Jorge Mario Bergoglio ha recitato l'Angelus, per poi recarsi presso il Gemelli di Roma. Si è da subito parlato di stenosi diverticolare del colon. La Sala Stampa della Santa Sede ha diramato nel corso della mattinata di oggi un aggiornamento. Nella nota si legge che "Sua Santità Papa Francesco è in buone condizioni generali, vigile e in respiro spontaneo". Sempre dalla Sala Stampa hanno fatto sapere che "l’intervento chirurgico per la stenosi diverticolare effettuato nella serata del 4 luglio ha comportato una emicolectomia sinistra ed ha avuto una durata di circa 3 ore". Al momento è infine prevista "una degenza di circa 7 giorni salvo complicazioni". Jorge Mario Bergoglio dovrebbe dunque rimettersi nel giro di una sola settimana. I prossimi mesi saranno impegnativi per il Santo Padre: oltre alla visita in Ungheria per il Congresso Eucaristico Internazionale del prossimo prossimo settembre, si parla di una possibile visita apostolica in Ucraina. Dopo il blocco dovuto alla pandemia, il vescovo di Roma dovrebbe tornare a viaggiare. Mete ambite, come abbiamo raccontato in più circostanze, sono anche la Cina e la Russia, ma per ora questi due storici viaggi non sono in calendario. Fatto sta che il Santo Padre si trova attualmente al Gemelli di Roma, per recuperare in seguito all'intervento. Per comprendere al meglio che cosa sia la malattia che ha afflitto il pontefice argentino, abbiamo sentito per ilGiornale.it il dottor Vincenzo Anello, gastroenterologo della Asl Roma 1 e incaricato presso il Poliambulatorio del ministero degli Esteri: "Si tratta di una patologia molto frequente - ha esordito il medico -, soprattuto quando si va avanti negli anni". L'età di papa Francesco è di 84 anni. E il dottor Anello annota che in quella fascia d'età la patologia in questione è "presente in una grandissima quantità di persone". Poi la specificazione: "Come un'estroflessione, una dilatazione di un parte del colon che sporge attraverso lo stato muscolare", precisa Anello parlando della stenosi, aggiungendo subito dopo che "solitamente è una malattia che va avanti senza dare grosse complicazioni. Quest'ultime sorgono nei casi in cui le dilatazioni s'infiammano, chissà per quale motivo.... . Un tempo si pensava che l'alimentazione potesse svolgere un ruolo, nella misura in cui alcuni tipi di alimenti riuscissero quasi ad occludere il diverticolo, ma questa eziologia è stata confutata in maniera completa". Non c'è ancora piena chiarezza medico-scientifica, sembra di capire, sul meccanismo alla base della stenosi. Comunque sia, il dottore prosegue dicendo che "se è vero quello che apprendo dai giornali e dai telegiornali, è possibile che papa Francesco abbia avuto in passato, come affetto da diverticolosi, degli episodi di diverticolite. E cioè che l'infiammazione di questi diverticoli - fa presente il dottor Anello - possa aver comportato dolori importanti". Ma questo quadro non è foriere di patologie importanti, così come ci viene spiegato. Per via della programmazione dell'intervento, il gastroenterologo romano ipotizza che Bergoglio possa essere stato sottoposto ad una resezione del tratto interessato, con il fine gestire la malattia in maniera più tranquilla. Come appurato e dichiarato da più fonti, dunque, il quadro è tutto fuorché preoccupante. Il medico della Asl Roma 1 sottolinea anche la natura non invasiva dell'operazione subita dal vertice universale della Chiesa cattolica. E per quanto riguarda la ripresa? "Se l'intervento è stato fatto in labaroscopia, per una persona che però non presenta l'età di papa Francesco, una settimana è più che sufficiente per ristabilire una buona ripresa. Magari nel caso del pontefice ci vorrà un pochino di più...". Il gastroenterologo spiega infatti come sia necessario del tempo utile affinché l'intestino si rimetta in moto. Non ci sono consigli particolari - afferma Anello - per ristabilirsi, ma "probabilmente nelle prime fasi si opterà per un'alimentazione più attenta. Gradualmente, però, verrà ripristinata la normale alimentazione, ma nulla di particolare. Sarà seguito nel tempo", conclude.

Papa Francesco operato al colon, "infiammazione o tumore?". Il dubbio del prof Fumagalli: quando capiremo il male del Pontefice. Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Cos'ha veramente Papa Francesco? L'operazione "programmata" per stenosi diverticolare sintomatica del colon nasconde in realtà più di una incognita. Intervistato dalla Stampa, Umberto Fumagalli, responsabile di Chirurgia dell'apparato digerente dello Ieo non può escludere l'ipotesi più preoccupante: tumore. "Oh, poverino", esordisce il luminare commentando la notizia dell'operazione del Santo Padre. Poi spiega: "La parte terminale dell'intestino si restringe, ha appunto una stenosi, e questa patologia può essere di diversa natura: neoplastica o infiammatoria". La diagnosi dice stenosi diverticolare, quindi si tratterebbe di una "semplice" infiammazione. "Ma non è semplice capirlo prima dell'operazione - sottolinea il professor Fumagalli -. Se il Papa avesse sofferto in precedenza di diverticolite sarebbe un segnale positivo per esempio. O se avesse fatto una colonscopia per stabilire la natura della stenosi. Altrimenti si scopre durante l'intervento e poi con un esame istologico del tratto di colon asportato". La stenosi diverticolare è causata dalla formazione di "estroflessioni della mucosa interna, come delle piccole bolle, che possono andare incontro a dei processi infiammatori - è la "traduzione" di Fugamalli -. Le cicatrici di queste infiammazioni poi ostruiscono la parte finale dell'intestino, che va asportata". L'intervento è più complicato se si tratta di una procedura d'emergenza, per esempio "a seguito di una occlusione intestinale". Bergoglio, 84 anni, è rimasto sotto i ferri 5 ore, un po' più delle tre ore ipotizzata da Fumagalli per una emicolectomia sinistra laparoscopica. Un intervento, precisa, "sopportabile per il paziente, perché quel tratto assorbe il liquido del contenuto fecale, che nel corso del suo transito viene solidificato. Inizialmente si hanno disturbi ad andare in bagno, ma nel tempo ci si adatta. Se invece la stenosi fosse di natura neoplastica bisognerebbe saperne lo stadio, se ci sono rischi di diffusione del tumore, ma confidiamo che non sia così". Per le dimissioni il tempo minimo è una settimana. "Una persona anziana torna in forma dopo un mese di convalescenza". Tra le conseguenze temporanee, quella di dover utilizzare "un sacchettino per la deviazione dell'intestino".

Arrivato l'esame istologico. E il Papa twitta dal Gemelli. Gabriele Laganà il 7 Luglio 2021 su Il Giornale. L'esame istologico definitivo ha confermato la “stenosi diverticolare severa con segni di diverticolite sclerosante". Il Papa ha ringraziato tutti per i messaggi d’affetto ricevuti. Terza notte al Policlinico Gemelli per Papa Francesco. Per il Pontefice prosegue il decorso positivo dopo l'operazione subita domenica sera al colon per una stenosi diverticolare. Le notizie sullo stato di salute del Santo Padre sono buone. Il decorso post-operatorio di Francesco continua, infatti, ad essere "regolare e soddisfacente". È quanto ha comunicato il direttore della Sala Stampa Vaticana, Matteo Bruni. Nel documento si legge, inoltre, che "il Santo Padre ha continuato ad alimentarsi regolarmente ed ha sospeso la terapia infusionale". Inoltre viene spiegato che l'esame istologico definitivo ha confermato una "stenosi diverticolare severa con segni di diverticolite sclerosante". Bruni fa inoltre sapere che "Papa Francesco è toccato dai tanti messaggi e dall'affetto ricevuto in questi giorni ed esprime la propria gratitudine per la vicinanza e la preghiera". Fonti ospedaliere hanno anche riferito di una situazione tranquilla e regolare nei locali al decimo piano che ospitano Bergoglio che già nella giornata di ieri aveva iniziato ad assumere pasti frugali e a fare i primi passi. La privacy del Pontefice è protetta da un cordone di gendarmi e sanitari mentre le serrande bianche restano rigorosamente abbassate. Il portavoce della sala stampa vaticana non ha ancora sapere se il Papa, appassionato di calcio, abbia visto la partita Italia-Spagna dei campionati Europei giocata nella serata di ieri. In omaggio al Pontefice un gruppo di pazienti ha recitato un "Padre nostro" raccogliendosi in preghiera intorno alla statua di Giovanni Paolo II situata nel piazzale centrale del campus ospedaliero. Non è ancora stato deciso se il Santo Padre potrà tenere come di consueto il discorso sull’Angelus la prossima domenica: tutto dipenderà da come si sentirà il Pontefice e da quanto consiglieranno i medici. "Sono toccato dai tanti messaggi e dall'affetto ricevuto in questi giorni. Ringrazio tutti per la vicinanza e la preghiera". Con queste poche ma significative parole postate sui suoi profili social Papa Francesco ha voluto ringraziare tutti, dai fedeli ai leader di altre religioni fino alle personalità politiche, per le testimonianze di affetto ricevute in questi ultimi giorni. Si tratta del primo messaggio del Pontefice dopo l'intervento chirurgico a cui è stato sottoposto domenica scorsa.

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose.

Franca Giansoldati per "il Messaggero" l'8 luglio 2021. Finalmente quello che tutti avevano immediatamente pensato domenica pomeriggio quando si è saputo che il Papa doveva ricoverarsi improvvisamente per una operazione all' addome è stato fugato. Per fortuna non si tratta di un tumore, né di una neoplasia, un accrescimento abnorme e anomalo di cellule malate. Solo dopo quattro giorni il Vaticano mediante un unico, stringato, brevissimo comunicato affidato al portavoce Matteo Bruni ha informato il mondo che l'esame istologico, che viene fatto di prassi dopo operazioni simili, ha dato esito negativo: «L' esame istologico definitivo ha confermato una stenosi diverticolare severa con segni di diverticolite sclerosante». Il Papa soffre di una patologia abbastanza comune per gli anziani che costringerà l'illustre paziente, da ora in poi, a seguire rigorosamente un regime alimentare appropriato, a riguardarsi di più per non tornare ad infiammare l'addome ed evitare quegli spasmi dolorosissimi che negli ultimi mesi lo avevano tormentato. FLEBO Il portavoce Bruni a queste informazioni ha aggiunto che il decorso post operatorio è buono e positivo. Francesco ha iniziato ad alimentarsi in modo leggero, si sposta dalla poltrona al letto, si alza e cammina con l'aiuto dei due infermieri che si è portato da Santa Marta. Sta recuperando le forze e da ieri gli hanno persino tolto le flebo. Ancora una volta, però, a fornire i pochi particolari relativi alla evoluzione clinica non sono stati i primari del Gemelli che hanno condotto il lungo intervento domenica ma il Vaticano che ha avocato a sé il controllo di ogni informazione. Ad oggi non si sono fatti sentire né il professor Alferi, il chirurgo che ha guidato l'equipe, né il professor Bernabei, il geriatra che da poco è diventato il medico personale. Il motivo di questa gestione è da addebitare alla volontà del Papa che ha imposto la consegna del silenzio. Francesco per sua natura non vuole spettacolarizzazioni sulla sua degenza, sperando forse di fare passare quasi sotto silenzio questo momento, ma senza rendersi conto che in tutto il mondo, dal più piccolo paese alla grande cattedrale è partita una sentita catena di preghiere in suo sostegno con attestati di grandissimo affetto spontaneo. Francesco ne è rimasto colpito e dal suo profilo social ha fatto twittare: «Sono toccato dai tanti messaggi e dall' affetto ricevuto in questi giorni. Ringrazio tutti per la vicinanza». La scarsità di dettagliate spiegazioni mediche a partire dal primo momento del ricovero ha inevitabilmente alimentato sospetti sulle sue reali condizioni, tanto che il New York Times, ha denunciato con forza il grande tema della trasparenza, arrivando ad una conclusione: «Data la segretezza con cui è stato gestito l'annuncio dell'intervento del Papa, il Vaticano ha solo alimentato i dubbi sulla sua sincerità e affidabilità». E ancora. «La storia dell'opacità, dell'oscurità e della messaggistica codificata in stile Pravda è ben fondata ed è diventata una sfida specialmente nell' era dei social dove ci si aspettano informazioni e aggiornamenti incessanti mentre il Papa non considera i dettagli fondamentali della sua salute come affari altrui». Sul sito para-vaticano il Sismografo, uno dei più seguiti e autorevoli in assoluto, invece, il direttore cileno Luis Badilla ha riflettuto sul fatto che tutta questa vicenda sta indebolendo Papa Francesco, non tanto perché «la sua malattia è severa e degenerativa e potrebbe essere anche cronica» ma perché quando tornerà in Vaticano «non sarà più lo stesso. Tutta la retorica su un Jorge Mario Bergoglio superman danneggia la sua immagine e il suo carisma. Le persone che leggono, ascoltano o vedono le notizie non sono stupide o incapaci di riflettere e porsi delle domande anche perché sono milioni le famiglie che hanno vissuto esperienze simili con i propri anziani».

Ecco chi sostituirà il Papa. Francesco Boezi il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Il cardinale Kevin Joseph Farrell gestirà l'amministrazione dei beni temporali finché il Papa non tornerà in Vaticano. Ecco chi è il camerlengo. É deputato a svolgere alcune funzioni quando il Papa proprio non può, come sta accadendo in queste ore, considerato il ricovero che segue all'intervento cui è stato sottoposto il Papa ieri: sulla figura del camerlengo si è scritto tanto, forse anche per via dell'atmosfera di segretezza che sembra sovrintendere quando si parla di sacri palazzi. Quello per cui viene tirato in ballo oggi è il compito meno ingombrante: molto più complesso, e forse anche significativo, dover presiedere la sede vacante, che è un altro dei compiti cui il camerlengo è chiamato. Ma non è questa la circostanza. Il camerlengo non è un cardinale ordinario: in qualche modo, si può dire che sia il secondo in grado per lo Stato Città del Vaticano. Solo in termini giuridico-formali e per alcuni specifici ambiti, però, dato che non è prevista una successione per linee gerarchiche, neppure per un particolare periodo, nella Chiesa cattolica. Com'è noto, è necessario un Conclave, con tutto quello che comporta, per l'elezione di un nuovo vescovo di Roma. Per chiarire: il camerlengo non diviene capo di Stato, tantomeno pontefice, quando quest'ultimo non può esercitare il suo munus, il suo ministerium e il suo potere temporale. Ora che papa Francesco si trova all'Ospedale Gemelli di Roma, dove dovrà recuperare dopo l'intervento subito ieri per la stenosi diverticolare, ad occuparsi dell'amministrazione ordinaria dei beni temporali al posto del vescovo di Roma, e solo di quella, sarà il porporato americano Kevin Joseph Farrell. Con ogni probabilità, ci vorrà una settimana affinché Jorge Mario Bergoglio possa ristabilirsi a pieno. A dirlo è stato il bollettino odierno della Sala Stampa della Santa Sede. Forse, al limite, qualche giorno in più, come ha ipotizzato qualche esperto per via dell'età dell'ex arcivescovo di Buenos Aires. Ma quello sarà il lasso di tempo in cui il cardinale Farrell, che lo stesso Santo Padre ha scelto tra numerose eventualità, si dedicherà all'ordinarietà degli affari dello Stato che papa Francesco continua a presiedere. Il porporato, che è originario dell'Irlanda ma che è divenuto americano dopo la naturalizzazione, è stato nominato da Bergoglio nel febbraio del 2019. Per più di qualche settimana, in quei mesi, si era speculato su chi potesse ricoprire quel prestigioso incarico. La notizia all'epoca aveva fatto storcere il naso al cosiddetto "fronte tradizionale": il cardinale statunitense, nelle disamine presentate per far comprendere quali siano gli schieramenti e gli equilibri vaticani, è stato spesso associato alla corrente dottrinale progressista, pure per via di alcune scelte compiute in qualità di prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Altri ritengono invece che Kevin Joseph Farrell non possa essere etichettato ed anzi dimostri un certo equilibrio nelle posizioni. Il Papa ha più volte dimostrato fiducia in questo alto-ecclesiastico. Come quando, durante l'autunno scorso, Bergoglio ha di nuovo fatto il nome del cardinale Kevin Joseph Farrell per la commissione nata per trattare le "materie riservate", in seguito ad una serie di scandali che si erano abbattuti come una bufera sul Vaticano. Farrell è in sostanza un alto-ecclesiastico verso cui Francesco ripone assoluta fiducia. Lo dimostrano i continui incarichi che gli sono stati affidati durante questo pontificato. Il camerlengo, però, non è solo un amministratore degli affari correnti durante le fasi di assenza forzata del pontefice: si tratta - come premesso - di una figura che emerge in via mediatico-liturgica durante il Conclave. Questa particolare figura istituzionale gestisce infatti l'intera fase che conduce all'elezione di un nuovo pontefice, dopo la morte del regnante. Il camerlengo, ancora, ha un ruolo di gestione finanziarie rispetto alla casse della Santa Sede, in qualità di membro della Camera apostolica. Prima del porporato in questione, il camerlengo era il cardinale italiano Tarcisio Bertone. Durante il Conclave che ha eletto Joseph Ratzinger, invece, il ruolo era ricoperto dal cardinale Eduardo Martínez Somalo. Il cardinale Kevin Farrell, dal canto suo, proviene dall'arcidiocesi di Washington.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista. 

La diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

Quali sono i sintomi della patologia di Papa Francesco. Maria Girardi il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Il Santo Padre è stato sottoposto a un intervento chirurgico per stenosi diverticolare sintomatica del colon, una conseguenza della diverticolite. Si è risolto positivamente l'intervento chirurgico programmato al colon a cui è stato sottoposto Papa Francesco nel pomeriggio di domenica 4 luglio. A condurre l'operazione, il professore Sergio Alfieri. Il Santo Padre soffre di stenosi diverticolare sintomatica del colon, una conseguenza della diverticolite, ovvero l'infiammazione dei diverticoli dell'intestino che, specialmente negli anziani, si può tradurre in un restringimento del lume con conseguente ostacolo per il passaggio delle feci. I diverticoli, di natura congenita oppure acquisita, sono delle piccole sacche che si formano lungo le pareti del colon. Ecco perché si infiammano e quali sono i sintomi a cui è bene prestare attenzione. La diverticolosi, ossia la presenza di diverticoli, è la terza patologia gastrointestinale più comune. Ad esserne colpita è soprattutto la popolazione anziana dei paesi occidentali. L'incidenza, infatti, aumenta con l'età e raggiunge un picco massimo nei soggetti con più di 80 anni. La diverticolosi spesso evolve nella diverticolite, l'infiammazione dei diverticoli che si verifica nel 10-25% dei casi. Frequenti sono le recidive, basti pensare che dopo il primo episodio e nonostante l'adeguata terapia, la flogosi può comparire nuovamente entro i primi 5 anni. Seppur l'incidenza della malattia negli individui con meno di 30 anni sia molto bassa (1-2%), essa è destinata a crescere a causa delle sempre più diffuse cattive abitudini alimentari e dello stile di vita sregolato.

Non è possibile conoscere anzitempo se e quando i diverticoli si infiammeranno. Esistono, tuttavia, alcuni fattori di rischio che predispongono all'avvento della diverticolosi:

scarsa assunzione di fibre;

consumo esagerato di cibi speziati;

sovrappeso e obesità;

fumo di sigaretta;

consumo eccessivo di alcolici;

abuso di farmaci antinfiammatori non steroidei;

familiarità.

I sintomi della diverticolite. Il sintomo tipico della diverticolite è il dolore addominale, inizialmente lieve e localizzato al fianco sinistro. Con il passare del tempo tende a diventare più intenso e a interessare tutto l'addome.

Nausea, i cibi utili per contrastarla. Altre manifestazioni includono: nausea, vomito, diarrea o costipazione, febbre con brividi, tachicardia, disturbi vescicali. Nessuno di questi segni clinici deve essere sottovalutato. Se un attacco di diverticolite non viene curato adeguatamente può dar luogo a una serie di gravi complicazioni. Tra queste si ricordino:

ascesso: è la conseguenza di una severa infezione del diverticolo, con formazione di una raccolta di pus. Se piccolo viene trattato con una terapia antibiotica, diversamente è indispensabile un drenaggio chirurgico;

fistola: questa comunicazione anomala tra due organi si forma in seguito ad un'infiammazione tra due parti dell'intestino, tra intestino e cute o tra intestino e vescica;

emorragia rettale: è l'esito della rottura di un piccolo vaso sanguigno presente all'interno di un diverticolo;

occlusione intestinale: si verifica in seguito ad un'infiammazione cronica a carico del colon.

Come trattare la diverticolite. La cura della diverticolite varia a seconda dell'intensità dei sintomi e delle condizioni generali del paziente. Inizialmente, è possibile somministrare allo stesso antibiotici e antispastici. Questo trattamento deve essere affiancato da una dieta liquida e/o semiliquida e dal riposo a letto. Trascorsi 2/3 giorni, in assenza di miglioramenti, è indispensabile ricorrere al ricovero, soprattutto se il malato è anziano o affetto da altre patologie, quali diabete, insufficienza renale e malattie del sangue. In ospedale la cura prevede antibiotici per via endovenosa, antidolorifici e reidratazione con liquidi per via parenterale. Quando i farmaci non fanno effetto e in presenza di complicanze (occlusione intestinale, emorragia, perforazione del colon) si deve ricorrere alla chirurgia. L'intervento può essere programmato nei soggetti con attacchi di diverticolite ricorrenti oppure in caso di fistole o di subocclusione. Due sono le modalità dell'operazione:

colectomia: resezione del tratto malato di colon e successiva unione delle due estremità sane. Il ricovero ha una durata di almeno una decina di giorni;

colectomia con colostomia: attraverso un'apertura temporanea del colon sulla pelle, viene inserito un sacchetto per la raccolta delle feci. Trascorsi alcuni mesi e a guarigione avvenuta, la stomia sarà chiusa. 

Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero.Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza... 

LA STENOSI DIVERTICOLARE COLPISCE UN ANZIANO SU 5 «E SPESSO NON DÀ SINTOMI». Graziella Melina per "il Messaggero" il 5 luglio 2021. Prima arrivano i dolori addominali, acuti o cronici. Poi si prova a rimediare con una terapia a base di antibiotici. E infine, se i sintomi non passano, si deve ricorrere ad una operazione chirurgica in laparoscopia. L' intervento di Papa Francesco ricoverato ieri al policlinico Gemelli di Roma per una stenosi, è la soluzione che si sceglie quando l'infiammazione dei diverticoli non si risolve con la terapia farmacologica. Ma se l'intervento è stato programmato, significa che il paziente è già sotto cura e quindi non è costretto all' improvviso a farsi operare con urgenza. «La stenosi è una complicanza della malattia diverticolare, che è dovuta a piccole formazioni sacciformi a carico della parete del colon - spiega Giovanni Milito, professore di Chirurgia dell'apparato digerente ed endoscopia digestiva dell'Università Tor Vergata di Roma - Finché non si infettano si vive tranquillamente. Quando poi queste formazioni diverticolari, che possono essere o congenite o acquisite, si infiammano, determinano un ispessimento della parete del colon». In genere, i diverticoli possono colpire tutto il colon, però sono maggiormente frequenti nel tratto sigma discendente, che è la parte a sinistra. Quando si manifesta una restrizione del lume, quindi un'infiammazione di questi diverticoli, si passa da malattia diverticolare a diverticolite, ossia un'infezione. «L' infiammazione provoca un ispessimento della parete del colon. È come se - esemplifica Milito - un'autostrada da tre corsie diventa una carreggiata unica. E si crea quella che è la stenosi, ossia quasi un quadro di sub-occlusione o di occlusione intestinale». 

LA DIAGNOSI. Se non viene diagnosticata in tempo, si rischia di dover intervenire con urgenza. «Quando i diverticoli si infiammano - precisa Milito - si possono perforare e avviene la famosa peritonite». Nel caso di diverticolite, l'intervento chirurgico non è però la prima opzione. «In genere aspettiamo un secondo, un terzo attacco. Si prova prima con una terapia antibiotica. Quindi, si mette a riposo l'intestino, si segue un'alimentazione che permetta di mantenere un alvo più morbido, eliminando dalla dieta tra l'altro gli acini di uva e la frutta secca. Ma se c' è un secondo attacco, per evitare che si possa creare un'occlusione, si interviene e si asporta il tratto del colon compreso tra il sigma e il colon discendente. Si uniscono i due capi del colon e la persona guarisce». L' intervento si svolge in laparoscopia. Dopo tre giorni si viene dimessi. «Poi, per la ripresa delle attività, come nel caso del Papa, bisogna tenere conto anche delle complicanze post operatorie. Non dimentichiamo che è necessaria l'anestesia, stiamo parlando di un trattamento anche invasivo, e poi bisogna considerare che sono sempre circa due ore di intervento. Dopo le dimissioni, serve comunque qualche giorno di riposo».

LA DIETA. Di malattie diverticolari, nelle persone anziane, ne soffre circa un 15-20 per cento. «Superati i 50 anni - raccomanda Milito - a scopo preventivo tutti devono fare una colonscopia ogni cinque anni. Per evitare la stitichezza, tra le cause della formazione dei diverticoli, è opportuna poi una dieta ricca di fibre, serve bere moltissima acqua, e non includere nei pasti le spezie piccanti. Bisogna, inoltre, cercare di mantenere sempre una certa attività fisica. Non dimentichiamo che i diverticoli sono asintomatici e spesso possiamo averli senza saperlo».

"Infiammazione o altro, lo dirà l'istologico. Un mese per tornare in forma alla sua età". Francesco Rigatelli per "La Stampa" il 5 luglio 2021. «Oh, poverino». Uberto Fumagalli, responsabile di Chirurgia dell'apparato digerente dello Ieo di Milano, sa cosa prova chi come il Papa ha la stenosi diverticolare sintomatica del colon. 

Di che si tratta esattamente?

«La parte terminale dell'intestino si restringe, ha appunto una stenosi, e questa patologia può essere di diversa natura: neoplastica o infiammatoria». 

Un tumore?

«La diagnosi dice stenosi diverticolare, quindi bisogna credere che si tratti di natura infiammatoria, ma non è semplice capirlo prima dell'operazione. Se il Papa avesse sofferto in precedenza di diverticolite sarebbe un segnale positivo per esempio. O se avesse fatto una colonscopia per stabilire la natura della stenosi. Altrimenti si scopre durante l'intervento e poi con un esame istologico del tratto di colon asportato». 

Se fosse di natura diverticolare cosa vorrebbe dire?

«Che nel colon si sono creati dei diverticoli, cioè delle estroflessioni della mucosa interna, come delle piccole bolle, che possono andare incontro a dei processi infiammatori, alla fibrosi e alla stenosi. Le cicatrici di queste infiammazioni poi ostruiscono la parte finale dell'intestino, che va asportata». 

È un intervento difficile?

«Dipende dal motivo per cui viene fatto e dalla condizione del paziente. Se si tratta, come pare, di un intervento programmato può essere semplice. Se avviene in emergenza a seguito di un'occlusione intestinale è più complesso». 

Cos'altro può succedere?

«Molto dipende dalla posizione della stenosi. Se è nel tratto che si chiama sigma l'intervento si chiama emicolectomia sinistra e serve a togliere metà del colon». 

Con quali conseguenze?

«È un intervento sopportabile per il paziente, perché quel tratto assorbe il liquido del contenuto fecale, che nel corso del suo transito viene solidificato. Inizialmente si hanno disturbi ad andare in bagno, ma nel tempo ci si adatta. Se invece la stenosi fosse di natura neoplastica bisognerebbe saperne lo stadio, se ci sono rischi di diffusione del tumore, ma confidiamo che non sia così». 

Quanto tempo dura l'intervento?

«Un emicolectomia sinistra laparoscopica può durare tre ore, ma dipende dalla velocità del chirurgo. La laparoscopia consiste in quattro buchini all' addome per fare entrare telecamera, forbici, pinze e dissettori, eventualmente aggiungendo il robot. Una suturatrice meccanica seziona il giunto retto-sigma, incide come per il cesareo, al che si estrae la parte finale del colon, la si taglia e poi si rimette dentro cucendo colon discendente e retto». 

E il robot a che serve?

«In laparoscopia un chirurgo tiene la telecamera e una pinza da presa, mentre un altro opera con forbice, dissettore e un'altra pinza. Il robot può fare da interfaccia tra questi strumenti e il chirurgo che sta seduto al computer». 

E cos'è meglio?

«Il robot non è più preciso, ma si muove meglio in certi punti piccoli e complessi. In questo caso non serve molto».

Che equipe occorre per l'operazione?

«Due o tre chirurghi, anestesista, strumentista e due infermieri». 

Tra quanto tempo il Papa tornerà a Santa Marta?

«Se si tratta di un intervento programmato dopo tre giorni si valutano le condizioni del paziente ed entro una settimana si viene dimessi» 

E poi?

«Una persona anziana torna in forma dopo un mese di convalescenza. Si tratta comunque della perdita di un pezzo di intestino e ci possono essere conseguenze. In alcuni casi può anche essere necessario un sacchettino per una deviazione temporanea dell'intestino».

SSar. per “il Giornale” il 5 luglio 2021. L' intervento di stenosi diverticolare «è difficilmente programmabile» perché «si tratta di una infiammazione della parete del colon che provoca una occlusione intestinale quando una precedente terapia di antibiotici non ha avuto efficacia». In questo caso «occorre effettuare una resezione del colon, in parole povere bisogna asportare la porzione di colon malata». A spiegare tecnicamente cosa sia la stenosi diverticolare sintomatica del colon, per la quale Papa Francesco è stato ricoverato, è il professor Renato Andrich, per anni primario di chirurgia oncologica e senologia dell'Ospedale San Giovanni di Roma. «Con la diverticolosi spiega il chirurgo al Giornale - il colon presenta già delle piccole sacche che normalmente non danno alcun disturbo. Ci possono però essere delle complicazioni, come emorragia, perforazione e stenosi, come sembra si sia verificato per il Santo Padre. In quest' ultimo caso, si verificano delle infezioni dei diverticoli che estendono l'infiammazione a tutta la parete». La stenosi, si legge sul sito della Società italiana della chirurgia colo-rettale, è una delle complicanze dei diverticoli che sono benigni e frequentissimi con il crescere dell'età: 50% fra i 50enni, 70% fra i 70enni. I diverticoli possono definirsi erniazioni a forma di piccoli sacchi che interessano la mucosa e la sottomucosa della parete dell'intestino e che si localizzano più frequentemente nel colon sinistro ed in particolare nel colon sigmoideo. L' intervento chirurgico, spiega il professor Andrich, «avviene in anestesia generale, è un'operazione importante specie in una persona fragile e over 80. Il Papa avrà probabilmente una degenza di almeno una settimana». Al momento la previsione della degenza del Santo Padre è di cinque giorni. Di solito dopo un intervento di qualsiasi entità sono le prime 48 ore quelle cruciali per stabilire sia il buon esito dell'operazione sia le condizioni generali del paziente. Ma quali sono i rischi legati ad un intervento di questo tipo? Ovviamente sono strettamente legati alle condizioni di salute generali del paziente ma sicuramente il rischio maggiore specialmente nel caso di una persona di età avanzata è sempre e comunque legato all' anestesia. Certamente Papa Francesco soffriva di questa condizione da tempo ma i sintomi di solito sono facilmente controllabili attraverso terapie antiinfiammatorie. Evidentemente lo stato infiammatorio, che deve essere trattato prima di sottoporsi all' operazione, avrà però comportato conseguenze sul funzionamento del colon che hanno reso inevitabile l'intervento. Prima però di entrare in sala operatoria sicuramente il Santo Padre avrà effettuato tutte le analisi necessarie a stabilire le sue condizioni: elettrocardiogramma, analisi del sangue, probabilmente anche una tac o una risonanza magnetica. Una volta eseguita la preparazione si passa alla fase pre-operatoria che prevede una sedazione prima della vera e propria anestesia che rappresenta comunque l'aspetto più rischioso di un intervento che viene considerato di routine dai medici. Questa patologia infatti è molto comune dopo i 50 anni e non presenta solitamente complicazioni tali da compromettere lo stato di salute del paziente.

(ANSA il 30 agosto 2021) - CITTÀ DEL VATICANO, 30 AGO - Papa Francesco ha rivelato a proposito della sua recente operazione al colon che "un infermiere gli ha salvato la vita" e che questa è la seconda volta che accade. Il Pontefice lo dice in un'intervista alla radio spagnola Cope che andrà in onda mercoledì prossimo. In un breve estratto dell'intervista andata in onda oggi, si sente il Papa scherzare sulla sua salute rispondendo - alla domanda 'Come sta?' - che è "ancora vivo" e racconta: "mi ha salvato la vita un infermiere, un uomo con molta esperienza. È la seconda volta nella mia vita che un infermiere mi salva la vita. La prima è stata nell'anno '57". La prima volta fu una suora italiana che, opponendosi ai medici, cambiò la medicazione che dovevano somministrare al Papa, allora giovane seminarista in Argentina, per curarlo dalla polmonite di cui soffriva, come ha raccontato più volte Francesco. Nell'intervista, secondo quanto ha anticipato Cope, si affrontano le speculazioni sulla salute del Pontefice e persino sulle sue possibili dimissioni - indiscrezione pubblicata da un quotidiano italiano - e alle quali Francesco replica: "Quando un Papa è malato, si alza un vento o un uragano di Conclave". Il Pontefice, 84 anni, è stato operato il 4 luglio al Policlinico Gemelli per una stenosi diverticolare con segni di diverticolite sclerosante, intervento in cui gli è stata rimossa una sezione del colon, rimanendo ricoverato per 10 giorni. Nelle sue apparizioni recenti, il Papa - che il prossimo 12 settembre partirà per un viaggio di quattro giorni che lo porterà Budapest e in Slovacchia - è apparso completamente ristabilito, anche se nell'udienza di venerdì scorso con i parlamentari cattolici ha iniziato il suo discorso scusandosi di non poter parlare in piedi, "ma ancora sono nel periodo post-operatorio e devo farlo da seduto. Scusatemi", ha detto.

"Un infermiere mi ha salvato la vita": il racconto del Papa dopo l'operazione. Francesca Galici il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. Intervistato da una radio spagnola, papa Francesco ha raccontato un dettaglio del malore che ha portato all'operazione al colon. Papa Francesco ha allontanato le voci di una sua possibile dimissione durante un'intervista rilasciata alla radio spagnola Cope, alla quale ha raccontato alcuni dettagli finora inediti dell'operazione subita qualche settimana fa. "Sono vivo", ha detto il Pontefice, che poi ha proseguito spiegando che un infermiere "di molta esperienza mi ha salvato la vita". È stato l'operatore sanitario a notare che c'era qualcosa che non andava e ad allertare i medici. "È la seconda volta nella mia vita che accade. La prima volta fu nel '57", continua ancora papa Francesco. Il riferimento del Santo Padre è a un'operazione subita al polmone alla giovane età di 21 anni, quando una suora italiana che gli cambiò la medicazione si oppose ai medici salvandogli la vita. Quindi, il titolare della cattedra di San Pietro, spegne le indiscrezioni sulla sua possibile rinuncia al soglio Pontificio che sono circolate di recente: "Quando un Papa è malato, si alza un vento o un uragano di Conclave". Niente di confermato, quindi, sulle possibili dimissioni entro l'anno di papa Bergoglio, come aveva già anticipato Francesco Boezi in un articolo per ilGiornale.it, in cui sono state analizzate le varie possibilità. Il giornalista ha avuto modo di sentire anche alcune fonti autorevoli in merito alla possibilità che il Santo Padre possa a breve lasciare l'incarico per seguire le orme di papa Benedetto XVI: "Si va dal 'secondo me semplicemente bufale' a riflessioni più complesse, che si dicono sicure di come Bergoglio non abbia alcuna intenzione di rinunciare come fatto dal suo predecessore". Indiscrezioni che hanno trovato riscontro nelle parole di papa Francesco alla radio spagnola, che trasmetterà l'intervista integrale mercoledì 1 settembre. Al netto di alcuni piccoli problemi, in parte dovuti anche all'età, il Santo Padre gode di buona salute e ha intenzione di proseguire nella sua missione. D'altronde, le previsioni su una possibile discesa dal soglio Pontificio hanno sempre contorni aleatori. In ogni caso, come specificato dal giornalista nell'articolo de ilGiornale.it, "papa Francesco si è più volte espresso, dicendo di condividere l'istituto del papato emerito".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Ecco chi è l'infermiere che ha salvato la vita a papa Francesco. Francesco Boezi l'1 Settembre 2021 su Il Giornale. Negli ambienti ecclesiastici e non solo circola il nome di Massimiliano Strappetti, l'infermiere di "lunga esperienza" che ha evitato il peggio per il Papa. L'intervista che papa Francesco ha rilasciato a Radio Cope è densa di rivelazioni. Tra queste, ha fatto scalpore pure il virgolettato tramite cui Jorge Mario Bergoglio ha accennato ad un infermiere che, stando al racconto dello stesso vescovo di Roma, ha evitato il peggio per il pontefice. A distanza di qualche giorno, è emerso il nome di Massimiliano Strappetti, che dovrebbe essere l'uomo, l'operatore sanitario, in grado di avere coscienza per tempo di qualcosa che avrebbe potuto compromettere, quantomeno, il proseguo del pontificato. Stando a quanto abbiamo riportato attraverso questo articolo, l'ex arcivescovo di Buenos Aires, parlando con l'emittente spagnola, ha voluto svelare come un infermiere di "lunga esperienza" sia stato fondamentale per salvargli la vita terrena. In buona sostanza, così come ripercorso questa mattina da Il Corriere della Sera, Bergoglio sarebbe stato operato attraverso una tecnica invece che mediante un'altra, dopo una valutazione che sarebbe stata fatta proprio da Strappetti, che ora balza agli onori delle cronache con tutte le giuste ragioni del caso. Sono ipotesi, ma i retroscena che circolano tra gli ambienti ecclesiastici sono questi che abbiamo appena presentato. Quello che è certo, per stessa ammissione del vescovo di Roma, è il ruolo decisivo di un infermiere. Non un colpo fortuito o casuale, ma appunto una deduzione derivante dagli elementi esperenziali. Il che lascia intendere quanto possa essere decisivo, pure per le persone che occupano incarichi di vertice mondiale, come il successore di Pietro, contornarsi di persone affidabili ed intuitive. Da qualche ora, com'è naturale che sia, il nome di Massimiliano Strappetti circola con insistenza tra buona parte dei media nazionali. E, a pensarci bene, sarebbe strano il contrario. Al netto della fede calcistica (la Lazio, ndr) e del percorso professionale dell'infermiere, appare giusto il tributo che il successore di Joseph Ratzinger ha voluto riservare a chi, magari grazie a delle tempistiche particolarmente azzeccate, potrebbe aver contribuito ad evitare che la Chiesa cattolica perdesse la sua guida. L'intervista a Radio Cope, comunque, passerà agli archivi, non senza portare in dote un certo significato. Anzitutto il Papa, pur non prendendo di petto la questione, ha in buona sostanza smentito le voci secondo cui si sarebbe dimesso di qui a poco tempo. Noi de ilGiornale.it avevamo ascoltato alcune fonti interne ad ambienti prossimi alla Santa Sede che ci avevano già assicurato, in qualche modo anticipando l'intervista del Papa, che Bergoglio non si sarebbe fatto da parte come l'emerito. Questo non significa che in futuro Bergoglio non possa decidere per la stessa mossa di Ratzinger, ma che al momento non esistono evidenze che suggeriscano uno scenario di quella tipologia. E se tutto questo è raccontabile, forse, lo si deve a Massimo Strappetti ed alla sua capacità. Ma - come ripetiamo - trattasi di ricostruzioni che andrebbero corroborate con affermazioni più esplicite da parte del Santo Padre, che ha comunque lasciato intendere come qualcuno abbia evitato la compromissione del quadro del suo stato di salute. All'interno della medesima intervista, peraltro, Francesco si è soffermato pure sull'Afghanistan, prendendo posizione in merito alle "eventualità" che non sarebbero state calcolate in virtù del ritiro, così come riportato dall'Adnkronos.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin,

Franca Giansoldati per "Il Messaggero" il 9 giugno 2021. Senza troppo chiasso Papa Francesco nell'arco di poco tempo ha assestato una serie di colpi bassi a due congregazioni di curia e, in aggiunta, al Vicariato di Roma. Prima ha ordinato che fossero passati a setaccio due importanti dicasteri - incaricando due vescovi esterni di individuare i punti gestionali da correggere - poi ha posto il Vicariato di Roma sotto la lente di ingrandimento del Revisore dei Conti della Santa Sede. L'obiettivo è di ottenere a stretto giro dei bilanci certificati e trasparenti. Il Giubileo del 2025 si avvicina e Bergoglio vuole che la sua diocesi divenga un modello gestionale da additare, previa razionalizzazione dei conti. Il primo atto ispettivo risale all'inizio di quest'anno quando Francesco ha predisposto un accertamento conoscitivo e non di natura disciplinare alla Congregazione del Culto Divino. Il vescovo esterno (di Castellaneta) incaricato, Claudio Maniago ha fatto le pulci al dicastero facendo colloqui con i funzionari, ascoltando pareri, raccogliendo materiale. All'epoca la struttura era retta dal cardinale africano ultra conservatore Sarah che allo scoccare dei 75 anni ha presentato le dimissioni che Francesco ha accolto senza indugi. Il rapporto stilato da Maniago al termine di quella ispezione è servito ad individuare come successore di Sarah una scelta interna nell'inglese Arthur Roche, fino a quel momento segretario. La seconda ispezione un altro fulmine a ciel sereno è stata avviata alla Congregazione per il clero, un dicastero con un peso da novanta. Da lì dipendono tutti i preti del mondo, l'autorizzazione delle dispense e l'ordinamento dei beni ecclesiastici. Ancora una volta il Papa si è appoggiato a un giovane vescovo titolare di una piccola diocesi periferica, Mondovì, in Piemonte. Monsignor Egidio Miragoli, ferrato in questioni canoniche, ha ora il compito di passare a setaccio competenze, organigramma, funzioni, raccogliere testimonianze e alla fine redigere un dossier che servirà al Papa come base per riorganizzare quel ministero e realizzare la sua Chiesa da campo, più attenta alle periferie, alle esigenze degli ultimi. Inoltre quel documento forse lo aiuterà anche ad individuare un nuovo prefetto visto che il cardinale Beniamino Stella - l'attuale prefetto del Clero - tra qualche mese compirà 75 anni e andrà in pensione. In questi giorni Miragoli ha diffuso una lettera ai preti della sua diocesi. Per un certo periodo di tempo, ha detto, non potrà essere presente a Mondovì perché il Papa gli ha chiesto «un favore personale». Con la stessa sollecitudine Papa Francesco ha messo sotto osservazione anche il Palazzo del Laterano: lì il Revisore dei Conti, Alessandro Cassinis Righini (ex Deloitte) farà le pulci ai conti, ai libri contabili, valutando la razionalizzazione delle risorse esistenti. È la prima volta che viene portata avanti una procedura del genere. La Diocesi di Roma è una realtà molto complessa che amministra più di 500 chiese, 330 parrocchie, centinaia di associazioni, confraternite, per un totale di mille sacerdoti. I maligni ipotizzano che dietro questa decisione vi sia una certa preoccupazione per una gestione un po' troppo dirigista da parte del nuovo segretario generale, don Pierangelo Pedretti. Una cosa però sembra certa, il Papa non avrebbe gradito il rifacimento della cappella del seminario minore. In piena pandemia, con i conti in sofferenza, spendere due milioni di euro per una ristrutturazione che poteva aspettare non è sembrata una buona mossa.

Il testo integrale del discorso di papa Francesco ai sacerdoti del convitto di San Luigi dei Francesi di Roma ricevuti in udienza il 7 giugno in Vaticano, pubblicato da famigliacristiana.it l'8 giugno 2021. Cari fratelli, sono molto lieto di accogliervi come comunità sacerdotale di San Luigi dei Francesi. Ringrazio il Rettore, Mons. Laurent Bréguet, per le sue gentili parole. In una società segnata dall’individualismo, dall’affermazione di sé, dall’indifferenza, voi fate l’esperienza di vivere insieme con le sue sfide quotidiane. Situata nel cuore di Roma, la vostra casa, con la sua testimonianza di vita, può comunicare alle persone che la frequentano i valori evangelici di una fraternità variegata e solidale, specialmente quando qualcuno attraversa un momento difficile. Infatti, la vostra vita fraterna e i vostri diversi impegni sono capaci di far sentire la fedeltà dell’amore di Dio e la sua vicinanza. Un segno, un segnale. In questo anno dedicato a San Giuseppe, vi invito a riscoprire il volto di quest’uomo di fede, di questo padre tenero, modello di fedeltà e di abbandono fiducioso al progetto di Dio. «Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza» (Lett. ap. Patris corde, 2). Non bisogna lasciare da parte le fragilità: sono un luogo teologico. La mia fragilità, quella di ognuno di noi è luogo teologico di incontro con il Signore. I preti “superman” finiscono male, tutti. Il prete fragile, che conosce le sue debolezze e ne parla con il Signore, questo andrà bene. Con Giuseppe, siamo chiamati a ritornare all’esperienza dei semplici atti dell’accoglienza, della tenerezza, del dono di sé. Nella vita comunitaria, c’è sempre la tentazione di creare dei piccoli gruppi chiusi, di isolarsi, di criticare e di parlare male degli altri, di credersi superiori, più intelligenti. Il chiacchiericcio è un’abitudine dei gruppi chiusi, un’abitudine anche dei preti che diventano zitelloni: vanno, parlano, sparlano: questo non aiuta. E questo ci insidia tutti, e non va bene. Bisogna lasciar perdere questa abitudine e guardare e pensare alla misericordia di Dio. Possiate sempre accogliervi gli uni gli altri come un dono. In una fraternità vissuta nella verità, nella sincerità delle relazioni e in una vita di preghiera possiamo formare una comunità in cui si respira l’aria della gioia e della tenerezza. Vi incoraggio a vivere i momenti preziosi di condivisione e di preghiera comunitaria in una partecipazione attiva, gioiosa. Anche i momenti della gratuità, dell’incontro gratuito …Il prete è un uomo che, alla luce del Vangelo, diffonde il gusto di Dio intorno a sé e trasmette speranza ai cuori inquieti: così dev’essere. Gli studi che fate nelle varie Università romane vi preparano ai vostri futuri compiti di pastori, e vi consentono di apprezzare meglio la realtà in cui siete chiamati ad annunciare il Vangelo della gioia. Tuttavia, voi non andate sul campo per applicare le teorie senza prendere in considerazione l’ambiente in cui vi trovate, come pure le persone che vi sono affidate. Vi auguro di essere «pastori con “l’odore delle pecore”» (Omelia, 28 marzo 2013), persone capaci di vivere, di ridere e di piangere con la vostra gente, in una parola di comunicare con essa. A me preoccupa quando si fanno delle riflessioni, pensieri sul sacerdozio, come se fosse una cosa di laboratorio: questo sacerdote, quell’altro sacerdote … Non si può riflettere sul sacerdote fuori dal santo popolo di Dio. Il sacerdozio ministeriale è conseguenza del sacerdozio battesimale del santo popolo fedele di Dio. Questo, non va dimenticato. Se voi pensate un sacerdozio isolato dal popolo di Dio, quello non è sacerdozio cattolico, no; e neppure cristiano. Spogliatevi di voi stessi, delle vostre idee precostituite, dei vostri sogni di grandezza, della vostra auto-affermazione, per mettere Dio e le persone al centro delle vostre preoccupazioni quotidiane. Per mettere il santo popolo fedele di Dio al centro bisogna essere pastori. “No, io vorrei essere un intellettuale soltanto, non pastore”: ma, chiedi la riduzione allo stato laicale, ti farà meglio, e fai l’intellettuale. Ma se sei sacerdote, sii pastore. Farai il pastore, in tanti modi di farlo, ma sempre in mezzo al popolo di Dio. Quello che Paolo ricordava al suo discepolo amato: “Ricorda tua mamma, tua nonna, dal popolo, che ti hanno insegnato”. Il Signore dice a Davide: “Io ti ho scelto dal dietro del gregge”, da lì. Cari fratelli sacerdoti, vi invito ad avere sempre orizzonti grandi, a sognare, a sognare una Chiesa tutta al servizio, un mondo più fraterno e solidale. E per questo, come protagonisti, avete il vostro contributo da offrire. Non abbiate paura di osare, di rischiare, di andare avanti perché tutto voi potete con Cristo che vi dà la forza (cfr Fil 4,13). Con Lui potete essere apostoli della gioia, coltivando in voi la gratitudine di essere al servizio dei fratelli e della Chiesa. E con la gioia va insieme il senso dell’umorismo. Un prete che non abbia senso dell’umorismo, non piace, qualcosa non va. Imitate quei grandi preti che ridono degli altri, di sé stessi e anche della propria ombra: il senso dell’umorismo è una delle caratteristiche della santità, come ho segnalato nell’Esortazione Apostolica sulla santità, Gaudete et exultate. E coltivate in voi la gratitudine di essere al servizio dei fratelli e della Chiesa. Come sacerdoti, siete stati «unti con l’olio di gioia per ungere con olio di gioia» (Omelia, 17 aprile 2014). Ed è solo rimanendo radicati in Cristo che potete fare l’esperienza di una gioia che vi spinge a conquistare i cuori. La gioia sacerdotale è la sorgente del vostro agire come missionari del vostro tempo. Infine, vi invito a coltivare la riconoscenza. Riconoscenza al Signore per quello che siete gli uni per gli altri. Con i vostri limiti, le fragilità, le tribolazioni, c’è sempre uno sguardo d’amore posato su di voi e che vi dà fiducia. La riconoscenza «è sempre “un’arma potente”» (Lettera ai sacerdoti nel 160° della morte di S. Giovanni Maria Vianney, 4 agosto 2019), che ci permette di tenere accesa la fiamma della speranza nei momenti di scoraggiamento, di solitudine e di prova. Affido ciascuno di voi, i vostri familiari, il personale della vostra casa, come pure i membri della parrocchia di San Luigi dei Francesi all’intercessione della Vergine Maria e alla protezione di San Luigi. Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me, perché ho bisogno. Questo ufficio non è facile. E nei libri della spiritualità c’è un capitolo – in alcuni libri, ma pensiamo a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori e a tanti altri – un capitolo su un tema e poi un esempio, e alcuni dicono: “Dove si prova l’ho detto con un esempio”, e danno un esempio di vita. Oggi, prima che voi siete entrati, padre Landousies mi ha detto che alla fine di giugno lascerà questo ufficio qui, in Curia: lui è stato il mio traduttore francese per tanto tempo. Ma io vorrei fare un riassunto della sua persona. È un esempio. Io ho trovato in lui la testimonianza di un sacerdote felice, di un sacerdote coerente, un sacerdote che è stato capace di vivere con martiri già beatificati – che conosceva a uno a uno – e anche di convivere con una malattia di cui non si sapeva cosa fosse, con la stessa pace, con la stessa testimonianza. E approfitto di questo pubblicamente, anche davanti all’Osservatore Romano, a tutti, per ringraziarlo per la testimonianza, che tante volte mi ha fatto bene. A me ha fatto bene il modo di essere. Lui se ne andrà, ma va a svolgere il ministero a Marseille, e farà tanto bene con questa capacità che ha di accogliere tutti; ma lascia qui il buon odore di Cristo, il buon odore di un prete, di un bravo sacerdote. Così davanti a voi gli dico grazie, grazie per tutto quello che hai fatto.

Gian Guido Vecchi per il Corriere della Sera il 17 luglio 2021. Niente più messe in latino e con le spalle ai fedeli nelle chiese parrocchiali, e i vescovi a vigilare sulle eventuali autorizzazioni nei giorni e luoghi indicati: «È per difendere l'unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei predecessori. L'uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa con il Missale Romanum del 1962». La stretta di Papa Francesco sulle messe con il «rito antico», liberalizzate da Benedetto XVI nel 2007 con il Motu proprio «Summorum Pontificum», è arrivata ieri con un altro Motu proprio, «Traditionis Custodes», accompagnato da una lettera ai vescovi del mondo che ne spiega le ragioni. Il motivo essenziale è semplice: la possibilità di celebrare con il «rito antico», concessa come una mano tesa a lefebvriani e tradizionalisti per favorire l'unità, è stata usata all'opposto in modo «strumentale» con «un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II» e «l'affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la "vera Chiesa"», scrive il Papa. Francesco aveva inviato un questionario a tutti i vescovi: «Le risposte hanno rivelato una situazione che mi addolora e preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire». La possibilità offerta da Wojtyla e «con magnanimità ancora maggiore» da Ratzinger «è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa, esponendola al rischio di divisioni». La responsabilità torna ad ogni singolo vescovo: «È sua esclusiva competenza autorizzare l'uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica». Dovrà accertare che i gruppi che vogliono la Messa in latino «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici». Anche in queste celebrazioni le letture dovranno essere nelle lingue nazionali. Il vescovo non potrà autorizzare «nuovi gruppi» né «nuove parrocchie personali», e valuterà «se mantenere o meno» quelle esistenti. Il Papa è lapidario: «Prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Vaticano II, come l'unica espressione della lex orandi del Rito Romano».

Papa Francesco cancella Ratzinger, Antonio Socci: l'errore che toglie libertà alla Chiesa e provocherà nuove divisioni. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 17 luglio 2021. Con il Motu proprio Traditionis custodes, papa Bergoglio ha spazzato via la liberalizzazione della messa in rito antico di Benedetto XVI che, nel 2007, aveva voluto rispondere  alla richiesta di tanti, anche giovani, attirati dall'antica liturgia la quale era stata proibita dopo il Concilio. Joseph Ratzinger, che pure era un uomo del Concilio Vaticano II, aveva raccontato: «Rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tuttala storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale». Ratzinger sottolineò che «Pio V (dopo il Concilio di Trento) si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli... senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui però la continuità non veniva mai distrutta... Ora invece» spiegava Ratzinger «la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche... si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro». Ratzinger sottolineava che ora «per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur: come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta».

LIMITE SANATO - Quindi Benedetto XVI con il Summorum pontificum del 2007, riparò un errore che non era affatto dovuto al Concilio Vaticano II, infatti la proibizione della liturgia latina contraddiceva la stessa Costituzione conciliare sulla liturgia e anche la Lettera Apostolica Sacrificium laudis di Paolo VI come pure la Veterum sapientia di Giovanni XXIII. La cancellazione dell'antico rito era andato di pari passo con la scristianizzazione galoppante del '68 e con un drammatico crollo di civiltà. Nel 2005, alla vigilia dell'elezione al pontificato di Benedetto, lo scrittore Guido Ceronetti, in una lettera aperta al nuovo papa su "Repubblica", chiede: «Che sia tolto il sinistro bavaglio soffocatore della voce latina della messa» e sia possibile celebrarla come quella in volgare «imposta da una riforma liturgica distruttiva». Lo scrittore aggiungeva: «Certamente non ignorerete quanto piacque alle autorità comuniste quella riforma conciliare dei riti occidentali; non erano degli stupidi, avevano nella loro bestiale ignoranza del sacro, percepito che si era aperta una falla». In effetti il rito latino era il concreto legame universale che univa i cattolici di tutto il pianeta in un'unica Chiesa guidata da Pietro e in un'unica fede. D'altra parte, già negli anni Sessanta, in difesa dell'antica liturgia attaccata dai cattoprogressisti, si era pronunciata la migliore cultura laica e cattolica, che metteva in guardia dalla grave perdita di bellezza, di cultura e sacralità. Nel 1966 e nel 1971 uscirono due appelli pubblici indifesa della Messa tradizionale dis. Pio V firmati da personalità come Jorge Luis Borges, Giorgio De Chirico, Elena Croce, W. H. Auden, i registi Bresson e Dreyer, Augusto Del Noce, Julien Green, Jacques Maritain (il filosofo vicino a Paolo VI a cui il Papa consegnò, alla fine del Concilio, il documento agli intellettuali), Eugenio Montale, Cristina Campo, Francois Mauriac, Salvatore Quasimodo, Evelyn Waugh, Maria Zambrano, Elémire Zolla, Gabriel Marcel, Salvador De Madariaga, Gianfranco Contini, Giacomo Devoto, Giovanni Macchia, Massimo Pallottino, Ettore Paratore, Giorgio Bassani, Mario Luzi, Guido Piovene, Andrés Segovia, Harold Acton, Agatha Christie, Graham Greene e tanti altri come il famoso direttore del Times, William Rees-Mogg. La decisione di Benedetto XVI, nel 2007, di recuperare la tradizione ebbe anche il sostegno di altre personalità come René Girard, Vittorio Strada, Franco Zeffirelli e il citato Guido Ceronetti.

LETTURA DIVERSA - Papa Bergoglio ora sostiene di aver azzerato la libertà di rito introdotta da Benedetto XVI perché essa, invece di creare unità del corpo ecclesiale (come volevano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) ha prodotto divisione e «un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l'affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la "vera Chiesa"». Qui c'è anche del vero. In effetti c'è chi ha vissuto "la messa in latino" in modo un po' settario, sentendosi "la vera Chiesa". Ma papa Bergoglio confonde l'effetto con la causa. A provocare il rifiuto (sbagliato) del Concilio in realtà non è il rito antico, ma casomai certe innovazioni "rivoluzionarie" del suo pontificato (che non c'entrano nulla col Concilio) o certi abusi nella liturgia in volgare che papa Bergoglio riconosce, ma su cui non interviene con proibizioni. La decisione di Francesco, che azzera un pilastro del pontificato di Benedetto XVI, è un doloroso errore che toglie libertà e provocherà nuove divisioni. Il papa fa il grosso regalo ai lefebvriani dell'esclusività del rito antico e di alcuni fedeli. E la Chiesa è sempre più smarrita e confusa in questo tramonto di pontificato.  

Abolita la Messa in latino, ovvio. Catto-conservatori eludono la questione: ma Ratzinger ha abdicato o no? Si tornerà a celebrare a messa antica clandestinamente, “nelle catacombe”, come diceva Benedetto XVI. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 17 luglio 2021

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. “Lo scontro finale fra modernisti e conservatori sarà sulla messa in latino”: lo avevamo scritto già in febbraio e ora, COME DA TABELLA DI MARCIA, si è puntualmente verificato. Appena tornato dall’ospedale, nel silenzio dei media (con poche eccezioni), Bergoglio ha dato seguito a quanto si paventava da un paio di mesi: il COLPO DI GRAZIA all’identità cattolica. Il motu proprio “Summorum pontificum” emanato da papa Benedetto XVI nel 2007, con cui si ripristinava doverosamente (liberalizzandola) la messa in latino, è stato annullato. Bandita dalle chiese parrocchiali, la messa cattolica per eccellenza, quella di sempre, che si è sviluppata armonicamente fin dai tempi apostolici, potrà essere celebrata solo in via eccezionale su richiesta al vescovo. Quindi, praticamente, MAI PIU’.  Già era difficile sotto Ratzinger: per quanto fosse un diritto dei preti, i vescovi non l’hanno mai incoraggiata; ma ora la messa “vetus ordo” sparirà del tutto (almeno visibilmente), visto il clima di timorosa sudditanza dei porporati verso Bergoglio. Si tornerà però a celebrarla “nelle catacombe”, in modo clandestino, esattamente come preconizzava Benedetto XVI, dato che almeno alcuni preti non molleranno facilmente la messa di Gesù Cristo. Ma il “dialogo”, i “ponti”, la “misericordia” dove sono finiti? La giustificazione addotta da Francesco è che la messa vetus ordo “produce divisioni”; la dura realtà è, invece, che i cattolici ortodossi, come naufraghi su una zattera, negli ultimi anni si sono raccolti intorno alla messa in latino - l’unica ad offrire assolute “garanzie di cattolicità” - dopo gli stravolgimenti dottrinali, magisteriali e liturgici operati proprio da Bergoglio. Chi ha avuto l’occasione di partecipare a una messa antica, si sarà accorto di come si tratti praticamente della liturgia di un’altra religione: una celebrazione sacrificale, teocentrica, piena di bellezza e di mistero, lontanissima da quella antropocentrica di Paolo VI, che fu scritta a tavolino con dei protestanti per farla somigliare, nei limiti del possibile, a una “cena” luterana. La messa tridentina, coi suoi splendidi paramenti, le candele, l’incenso e il sacerdote rivolto all’altare, è sempre stata vista come il fumo negli occhi dai modernisti, da sempre filo-luterani e poco propensi a credere nella Transustanziazione. Nei fatti, il motu proprio di Francesco è anche un PESANTE OLTRAGGIO a Papa Benedetto XVI, ancora vivente e lucido: il Summorum Pontificum era stato l’atto più significativo del suo pontificato e Bergoglio lo ha annullato davanti ai suoi occhi. Ma il provvedimento non stupisce se non coloro che continuano - ogni volta - a “cadere dal pero” e a scandalizzarsi: era una tappa chiaramente ineludibile nell’operazione di smantellamento dell’identità cattolica in vista di una nuova religione mondialista, “inclusiva” e sincretista dato che, stando alle dichiarazioni di Francesco, “non esiste un Dio cattolico” e bisogna non sprecare la crisi per “edificare un nuovo ordine mondiale”. Se i modernisti festeggiano, il “Piccolo resto” fedele solo a Benedetto XVI sorride, trovando in pieno le sue conferme; la posizione più angosciosa sarà quella dei tradizionalisti/conservatori legati alla messa in latino che, pur criticando ferocemente Bergoglio, lo riconoscono come legittimo papa. Questo, nonostante  una rinuncia di Ratzinger che giuridicamente fa acqua da tutte le parti, QUI , nonostante i pesantissimi indizi, comprese le frasi patenti di Benedetto XVI, che fanno ritenere come questi non si sia MAI DIMESSO e che sia rimasto l’unico vero pontefice. Una sordità incomprensibile: giuristi, teologi, canonisti, latinisti, giornalisti hanno scritto fiumi di inchiostro e fatto importanti dichiarazioni per dimostrare che la rinuncia di Ratzinger è invalida, per evidenziare come lo stesso Benedetto mandi continui messaggi per farcelo capire, sacerdoti si sono fatti scomunicare, vescovi hanno detto cose gravissime, ma il tema è come se non esistesse, come se fosse una faccenduola laterale. Invece, LA CHIAVE DI TUTTO E' LI': se Benedetto XVI non ha abdicato, Francesco è un antipapa, non è mai esistito come pontefice e tutto il suo operato svanirebbe nel nulla. Viceversa, se non si fa luce sulla rinuncia di Benedetto, DOPO FRANCESCO SEGUIRA’ UN ALTRO ANTIPAPA e la Chiesa, per come la conosciamo, sarà finita per sempre. In molti pensano che "morto un papa se ne faccia un altro", ma si sbagliano di grosso. Capite che non si tratta di una questione di “lana caprina”. Ebbene, ignorando, anno dopo anno, la quaestio magna, oggi i nodi sono venuti al pettine e si deve dire addio alla messa antica. “Ubi Petrus, ibi ecclesia”: chiarire chi sia il vero pontefice è un dibattito tremendamente ineludibile che, pure, quasi tutti i cattolici, laici e religiosi, fanno finta di non vedere, spesso per quieto vivere. Come se seguire un papa o un antipapa, alla fine, facesse poca differenza. Come se lo Spirito Santo si potesse prestare ad assistere un antipapa perché “tanto ormai è andata così”. “Il papa è uno solo”, dice Ratzinger da otto anni senza mai spiegare quale dei due, cosa confermata recentemente anche da Mons. Gaenswein, e potrebbe essere realisticamente solo lui, ma l’argomento continua ad essere tabù, con una strategia di evitamento mediatico che sfuma nel ridicolo. (Il caso giornalistico più appassionante del millennio, “bucato” in pieno, mah). Fra i mille chiari indizi forniti da papa tedesco, quello più significativo è la frase (che ha fatto il giro del mondo) da noi individuata nel libro intervista “Ultime conversazioni” (2016) dove Benedetto fa un evidente riferimento alla sua presunta rinuncia: “Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio è stata un’eccezione”. Siccome 6 papi hanno abdicato nel I millennio e 4 nel II, Ratzinger ci sta dicendo esplicitamente, con un dotto rimando storico, che ha solo rinunciato alle funzioni pratiche, ma non ha affatto abdicato, proprio come quei pochissimi papi che nel primo millennio furono cacciati dagli antipapi, ma rimasero pontefici. Quindi, i conservatori che riconoscono Francesco come papa – i cosiddetti “una cum” - oggi sono stritolati da un aspro conflitto interiore. Infatti, l’art. 892 del Catechismo della Chiesa cattolica prevede che lo Spirito Santo assista il pontefice anche in modo ordinario, non solo quando parla (rarissimamente) ex cathedra. QUI   Ergo, lo Spirito Santo inevitabilmente assiste Francesco non solo sulle Pachamame, sulle benedizioni alle coppie gay, sulle affettuosità con la Massoneria e sulle mille altre “innovazioni” dottrinali, ma anche sull’abolizione della vera, classica, tradizionale messa cattolica del Rito romano, quella lasciata da Gesù Cristo e dagli Apostoli. Ciò che resta loro, oggi, è una messa postconciliare non solo piagata dai vecchi abusi liturgici, ma “implementata” con le recenti modifiche di Bergoglio: i “fratelli e sorelle” politicamente corretti, un Padre Nostro cambiato e un’inquietante “rugiada” che viene invocata nella II preghiera eucaristica per consacrare il pane e il vino. Di rugiada parlavano i cristiani nel III secolo, poiché ancora non esisteva la teologia dello Spirito Santo che sarebbe venuta un secolo dopo. Inspiegabile, quindi, il ripristino di una metafora del tutto obsoleta, che però, GUARDA CASO, è condivisa con la Massoneria. La rugiada è infatti un elementale alchemico-esoterico di primaria importanza, da sempre vagheggiato dai liberi muratori. Quindi i casi sono tre: o il Catechismo si sbaglia, o lo Spirito Santo si è “modernizzato-massonizzato” e non gradisce la messa in latino, oppure Francesco non è il papa. Scusate, ma la logica è oggettiva. Ora, secondo la road map cominciata fattualmente da otto anni e, forse, profetizzata già 4000 anni fa, fino a Padre Pio, si potrebbe perfino azzardare qualche previsione: le prossime tappe dovrebbero andare nella direzione di mandare in soffitta la Transustanziazione, ultimissimo baluardo cattolico, creando la cosiddetta INTERCOMUNIONE coi protestanti. Demolita definitivamente l’identità cattolica, sarà la volta di una “Conferenza interreligiosa internazionale”, o qualcosa di simile, per creare un contenitore dove realizzare la famosa religione per il Nuovo Ordine Mondiale. Complottismo? Basta, per favore. La gran parte delle più fantasiose teorie del complotto in ambito cattolico si è realizzato finora in modo puntuale secondo un preciso disegno, ed è dimostrato. Vedremo, quindi, quale sarà la “soglia di sopportazione del dolore” da parte dei conservatori e per quanto tempo ancora la questione chiave della rinuncia di Benedetto XVI continuerà ad essere ignorata dall’alto clero. 

Quelle strane manovre nella Chiesa per impedire la Messa in latino. Matteo Carnieletto il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Il Papa sarebbe pronto a diffondere un documento che, di fatto, indebolirebbe il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. "Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat juventutem meam". Le volute di incenso innalzano le parole, che si fanno preghiere, verso il cielo. "Salirò all'altare di Dio, al Dio che rallegra la mia giovinezza", dicono i fedeli in una lingua che non è la loro ma che è di tutti loro. Il sacerdote, inchinato di fronte al crocifisso, dà le spalle ai fedeli e pronuncia, uguali ed eterne, parole in latino. Le si può solo intuire. Il Figlio di Dio, ancora una volta, sta tornando sulla terra in carne, sangue, anima e divinità. Il celebrante invoca la Beata Vergine, san Michele arcangelo, Giovanni Battista e tutti i santi del cielo. E, soprattutto, chiede pietà per i peccati commessi, anche i più piccoli, perché di lì a poco non sarà più un semplice uomo, ma agirà in persona Christi, ovvero come se fosse Cristo.

Inizia così, o almeno così è iniziata per molto tempo, la Messa della Chiesa cattolica, in quello che oggi viene definita forma extra ordinaria, per usare l'espressione del Motu Proprio Summorum Pontificum con cui, nel 2007, Benedetto XVI sancì che quel rito non era mai stato abrogato ("numquam abrogatum"). Che tutto ciò che ruotava (e ruota) attorno a quel rito non poteva esser cancellato. Che la Chiesa non nasceva con il Concilio Vaticano II ma poteva (e doveva) contare su una storia millenaria. Oggi tutto questo rischia di scomparire. O almeno di esser più difficile da vivere. Secondo quanto riportano diversi siti "tradizionalisti", come per esempio Messa in Latino, papa Francesco sarebbe pronto a restringere il campo del Summorum Pontificum promulgato da Benedetto XVI. In pratica, scrive Messa in latino, "si ritornerebbe all’indulto - con previa autorizzazione del vescovo, o addirittura del Vaticano - con tutto ciò che ne consegue e cioè una reintroduzione del divieto di celebrare secondo il Messale di San Giovanni XXIII, tantissimi dinieghi delle autorizzazioni e la pratica ghettizzazione dei sacerdoti e dei fedeli legati all’antico rito". La paix liturgique si spinge oltre: "Questo documento, inapplicabile in molti Paesi tra cui la Francia, avrà soprattutto un significato simbolico: fare della celebrazione della Messa tradizionale non più un diritto, ma un'eccezione tollerata". Se queste restrizioni venissero confermate, ci troveremmo di fronte a una ferita terribile non solo per i sacerdoti che celebrano in rito antico e i loro fedeli, ma anche per la Chiesa tutta. Se Francesco dovesse rispedire la Messa antica in soffitta, infatti, sconfesserebbe non solo Ratzinger, ma anche tutti i suoi predecessori. E, soprattutto, priverebbe il mondo intero di una delle più importanti fonti della Grazia.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue occidentale e Cristiani nel mirino. Con Fausto Biloslavo ho invece scritto Verità infoibate. Nel dicembre del 2016, subito dopo la liberazione di Aleppo, ho intervistato il presidente siriano Bashar al Assad.

Il Papa dà un anno alla Chiesa: cosa nasconde l'ultimatum. Francesco Boezi il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Papa Francesco dà il via ai lavori per il Sinodo nazionale italiano. "Destra" e "sinistra" ecclesiastica potrebbero restare deluse. C'è il count down che può rivoluzionare la Chiesa cattolica italiana. Papa Francesco ha dato un anno alla Conferenza episcopale italiana per l'organizzazione del Sinodo nazionale. Un Sinodo, nel cammino della Chiesa, non è solo uno dei tanti appuntamenti ecclesiastici, ma può, anzi, dovrebbe, essere uno spartiacque: in grado di modificare impostazioni e stile. Per questo è così atteso. Per questo, soprattutto per il contesto italiano, gli osservatori progressisti si aspettano tanto. Può essere il più classico dei "banchi di prova" per il regno del primo pontefice gesuita della storia. Presto per dire cosa aspettarsi. Di sicuro una scossa capace di far sì che la Chiesa italiana divenga più "in uscita" e meno legata a dinamiche stantie. Sappiamo, però, quanto e da quanto Jorge Mario Bergoglio attenda questo appuntamento sinodale. Francesco, parlando con i vescovi italiani, ha fatto chiarezza: "Sono passate tante cose dal primo incontro che abbiamo avuto noi a San Pietro ad oggi - ha fatto presente il Santo Padre ai presuli-. E una delle cose, che poi è un atteggiamento che abbiamo tutti e succede anche in Cei, è una amnesia: perdiamo la memoria di quello che abbiamo fatto e poi andiamo avanti. Una delle cose su cui abbiamo perso la memoria è Firenze, l'incontro di 5 anni fa. Questo è stato un passo avanti nella formulazione. Direi che il Sinodo deve svolgersi sotto la luce di questo incontro di a Firenze, che è patrimonio vostro che deve illuminare il vostro percorso. Dal basso in alto, con tutto il popolo di Dio". Non è un dettaglio a caso: è dai tempi di Firenze che Bergoglio domanda ai vescovi di organizzare un Sinodo. Qualche tempo fa, era arrivato uno sprono. Le dichiarazioni di questi giorni dilatano i tempi, quindi consentono ai vescovi di organizzarsi con calma. Il vescovo di Roma - come sottolineato da l'Adnkronos - ha poi specificato: "La luce viene dalla dottrina della Chiesa ma diciamo da quell'incontro di Firenze: si deve cominciare dal basso, dalle piccole parrocchie e questo richiederà pazienza, lavoro, fare parlare la gente, che esca la saggezza del popolo di Dio. La totalità del popolo di Dio: dal vescovo in giù, quando c'è armonia non si può sbagliare". In queste poche parole sono nascoste molte indicazioni. Uno, il Papa vuole che il Sinodo proceda dal basso in alto, quindi che il Sinodo radicalizzi una visione già persistente: l'ordine gerarchico non è imposto ma partecipato. Dalle parrocchie alle sacre stanze: questo è il processo, che forse inverte un po' la prassi. Due, l'attesa non è cosa di ieri, bensì di un quinquennio. L'incontro di Firenze ha cinque anni, da allora poco è accaduto. Ecco perché quello del Papa potrebbe essere interpretato come un "ultimatum". Tre, al Papa non sembrano piacere troppo certe logiche curiali che in Italia attecchiscono meglio che altrove. Dipendesse dalla Chiesa povera per i poveri, sarebbe rivoluzione. Secondo alcuni, in realtà, un Sinodo non serve. Da parte conservatrice, sembra prevalere scetticismo. Forse si preferirebbe un cambio di paradigma dottrinale in senso tradizionale e l'abbandono, di rimando, di certe tematiche che al lato "destro" del laicato e dei consacrati cattolici viene difficile da comprendere. Un esempio pratico: sul Ddl Zan, i conservatori vorrebbero una maggiore mobilitazione dei vescovi e nessuno spazio per il dialogo con chi percorre un "pendio scivoloso" in bioetica. E questo vale per tutti i "nuovi diritti". Attenzione poi agli imprevisti, perché le priorità poste potrebbero non essere in linea con quello che i vari "schieramenti" della Chiesa invocano. Un esempio pratico è già arrivato. Sempre intervenendo con i vescovi durante un congresso, Bergoglio ha posto un accento sulla formazione: "Su questo il cardinale presidente - ossia il presidente della Cei e cardinale Gualtiero Bassetti - ha ricevuto una lettera dal prefetto del Clero sulla preoccupazione sulla formazione sacerdotale: questo dobbiamo averlo avanti". Cioè la priorità deve diventare la "formazione", appunto, di chi entra in seminario. Un luogo dove, per Bergoglio, sussiste un problema di "rigidità": "Sbagliare nella formazione e anche sbagliare nella ammissione dei seminaristi - ha proseguito il pontefice argentino, che ai presuli riuniti in assemblea ha parlato anche senza un discorso scritto - . Con frequenza abbiamo visto seminaristi che sembravano buoni ma rigidi e la rigidità non è una buona cosa. Ci siamo accorti che dietro quella rigidità c'erano grossi problemi". Fedeltà alla dottrina non può dunque significare "rigidismo", come il vescovo di Roma ha avuto modo di chiamarlo più volte. Il Sinodo, in sintesi, potrebbe essere meno "politico" di come destra e sinistra ecclesiastica potrebbero auspicarsi. E non sarebbe strano se Bergoglio decidesse di procedere, sulla base delle indicazioni pervenute dal "basso" delle parrocchie, attraverso un'agenda capace di scompaginare le velleità dei più. Tutto inizierà ad ottobre. Poi la Chiesa italiana sarà ufficialmente in cammino.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista. 

Nuova stretta di Papa Francesco: “Vescovi e cardinali giudicati da Tribunale ordinario”. Con un nuovo Motu proprio, il pontefice modifica l’ordinamento giudiziario dello Stato vaticano promulgato a marzo 2020, e stabilisce che vescovi e cardinali dovranno essere giudicati come tutti gli altri. Il Dubbio il 30 aprile 2021. Garantire un giudizio in più gradi per tutti. Questo l’obiettivo del motu proprio di Papa Francesco che, dopo la stretta anticorruzione sui dirigenti in Vaticano, introduce modifiche all’ordinamento giudiziario vaticano, disponendo che anche vescovi e cardinali siano giudicati dal Tribunale ordinario della Santa Sede. In particolare, con il Motu proprio, Bergoglio aggiunge nella Legge sull’ordinamento giudiziario del 16marzo 2020, all’art. 6, un quarto comma che prevede: «Nelle cause che riguardino gli Eminentissimi Cardinali e gli Eccellentissimi Vescovi, fuori dei casi previsti dal can. 1405 § 1, il tribunale giudica previo assenso del Sommo Pontefice». In sostanza, mentre in precedenza vescovi e cardinali venivano giudicati solo dalla Corte di Cassazione vaticana composta da ecclesiastici, ora, per effetto del Motu proprio del Pontefice reso noto oggi, dopo l’ok del Papa, potranno essere giudicati dal Tribunale presieduto da Giuseppe Pignatone. Nel motu proprio il Papa per spiegare il senso di questa “rivoluzione” ricorda il discorso di apertura dell’Anno giudiziario: lì, dice, «ho inteso richiamare la “prioritaria esigenza, che – anche mediante opportune modifiche normative – nel sistema processuale vigente emerga la eguaglianza tra tutti i membri della Chiesa e la loro pari dignità e posizione, senza privilegi risalenti nel tempo e non più consoni alle responsabilità che a ciascuno competono nella aedificatio Ecclesiae; il che richiede non solo solidità di fede e di comportamenti, ma anche esemplarità di contegno ed azioni. Muovendo da queste considerazioni, e fermo quanto disposto dal diritto universale per alcune specifiche fattispecie espressamente indicate, si avverte oggi l’esigenza di procedere ad alcune ulteriori modifiche dell’ordinamento giudiziario dello Stato della Città del Vaticano, anche al fine di assicurare a tutti un giudizio articolato in più gradi ed in linea con le dinamiche seguite dalle più avanzate esperienze giuridiche a livello internazionale».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 30 aprile 2021. Al massimo per Natale sarà ammesso ricevere in dono un panettone artigianale e una bottiglia di spumante. Ma niente altro, nemmeno un salame o uno zampone nella cesta natalizia perché altrimenti si passano i guai. Per Pasqua più o meno la stessa cosa: solo una colomba e un uovo di cioccolata di quelli con la sorpresina d' argento dentro. Valore complessivo acconsentito: 40 euro, non un centesimo di più. Il fatto è che con le nuove regole che ha varato Papa Francesco in questi giorni per limitare la corruzione dei suoi dipendenti e dei suoi cardinali, l'importo dei regali che da ora in avanti sarà consentito non può superare quella cifra. Oltre quel tetto scattano sanzioni, punizioni e, per i casi gravi, forse licenziamenti. Va da se che in un piccolo Stato di appena 44 ettari di estensione, dove ormai tutto è super controllato, dove sono state piazzate telecamere in ogni angolo e ogni dipendente o residente vive con la spiacevole sensazione (chi più chi meno) di essere perennemente intercettato anche al telefono, nemmeno fosse il regno della Spectre, l'ultimo provvedimento anti-corruzione non ha fatto altro che amplificare il disorientamento generale. Naturalmente i regali in prossimità delle feste sono legittimi ma purché siano occasionali e di modico valore. Papa Francesco ha messo nero su bianco questa, come altre importanti novità in un Motu Proprio in cui chiede ai prefetti dei dicasteri così come ai dirigenti e agli amministrativi di firmare una sorta di autocertificazione per dichiarare di non avere condanne o indagini in corso per terrorismo, riciclaggio o evasione fiscale e di non possedere beni nei paradisi fiscali o pacchetti di investimenti in aziende che operano contro la Dottrina della Chiesa. La «mancata dichiarazione ovvero la dichiarazione falsa o mendace» sarà perseguita penalmente. Il giro di vite segue quello del maggio dell'anno scorso, quando era stato promulgato il nuovo codice degli appalti resosi necessario, spiegava il Pontefice, perche la corruzione «può manifestarsi in modalità e forme differenti anche in settori diversi da quello degli appalti». Un documento arrivato come conseguenza della adesione alla Convenzione Onu contro la corruzione. Con questo ulteriore passaggio Papa Francesco ha stabilito che saranno sanzionati gli eventuali conflitti di interessi dei cardinali e degli altri dipendenti della curia. Il provvedimento arriva in sincronia (e forse non è un caso) con il rapporto atteso da parte di Moneyval, il Comitato del Consiglio d' Europa per la valutazione delle misure adottate dal Vaticano contro il riciclaggio di denaro. Il contenuto del rapporto non sarà pubblicato che a metà giugno ma il Vaticano resta un osservato speciale.

Vaticano, la legge anti-corruzione di Papa Francesco: "Niente regali oltre i 40 euro". Libero Quotidiano il 29 aprile 2021. Il Vaticano dice addio alla corruzione. O almeno ci prova. Papa Francesco ha varato una nuova legge per i dirigenti vaticani, sulla base della quale capidicastero, dirigenti laici e tutti quelli che hanno funzioni di amministrazione dovranno sottoscrivere una dichiarazione anti corruzione, al momento dell’assunzione e poi ogni due anni. In particolare, dovranno dichiarare di non avere condanne definitive a carico, in Vaticano o in altri Stati, di non aver beneficiato di indulto, amnistia o grazia e di non essere stati prescritti. E non solo. I dirigenti vaticani dovranno attestare anche di non avere alcun procedimento penale pendente e di non essere sottoposti a indagini per partecipazione a un’organizzazione criminale, corruzione, frode, terrorismo, riciclaggio di proventi di attività criminose, sfruttamento di minori, tratta o sfruttamento di esseri umani, evasione o elusione fiscale. A effettuare i controlli necessari sarà la Segreteria per l’economia. E in caso di dichiarazioni mendaci, la Santa Sede potrà licenziare il soggetto dipendente ed eventualmente chiedere il risarcimento dei danni subiti. Altra novità interessante per i dipendenti riguarda i regali: da ora in poi sarà vietato accettare “regali o altre utilità” di valore superiore a 40 euro. Papa Francesco ha spiegato anche il motivo per cui ha emanato queste nuove norme. In particolare, ha dichiarato che i dipendenti del Vaticano “hanno la particolare responsabilità di rendere concreta la fedeltà di cui si parla nel Vangelo, agendo secondo il principio della trasparenza e in assenza di ogni conflitto di interessi”.

Papa Francesco, Antonio Socci: l'ipocrisia del Pontefice sulla proprietà privata. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 14 aprile 2021. Papa Bergoglio è tornato a mettere in discussione la proprietà privata (che «non è intoccabile») e a parlare di comunismo. La prima lettura della messa di domenica gliene ha offerto l'occasione e lui ha commentato: «Gli Atti degli Apostoli raccontano che "nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune". Non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro». In effetti, condividere i propri beni non è affatto comunismo. Quando hanno preso il potere, i comunisti hanno condiviso i beni altrui, anzi hanno preteso di abolire la proprietà privata in nome della proprietà statale. Che poi è il dominio del Partito. Tuttavia è assai discutibile che quella pagina degli "Atti degli apostoli" sia "cristianesimo puro". Inoltre usare quel passo per discettare di economia e di politica, come fa Bergoglio, è storicamente infondato. Repubblica considera le sue parole «una sfida al capitalismo» e Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle scienze sociali (cioè l'economista di Bergoglio), le connette all'articolo 43 della Costituzione. Tutto assurdo. Intanto perché gli Atti parlano di una scelta libera e volontaria dei fedeli, non di costrizione o legge. Inoltre è una comunità religiosa, non lo Stato: guai a sovrapporre le due cose. Lo fanno gli islamici con la Sharia, ma il Vangelo invita a distinguere fra Cesare e Dio.

DISSIDI E RISENTIMENTI. In secondo luogo, gli Atti dicono che «quanti possedevano campi o case li vendevano» e deponevano il ricavato «ai piedi degli apostoli» perché fosse distribuito. Quindi non c'era la "Chiesa povera" vagheggiata da Bergoglio, ma il contrario. E, com'è noto, quella redistribuzione dei beni produsse dissidi e risentimenti nella comunità cristiana: un esito moralmente fallimentare. Ma chi conosce il Nuovo Testamento sa che quell'esperimento di (presunto) "comunismo cristiano" fu anche un disastro economico (la Chiesa ha sempre evitato di imitarlo), come, in seguito, il comunismo ateo. Infatti, prima i cristiani di Antiochia (At 11,29) e poi san Paolo stesso (2 Cor) dovranno fare delle collette per quei fratelli "comunisti" che erano finiti in gravi difficoltà (Romani 15,26-27). La tanto decantata comunione dei beni di cui si vantava la comunità di Gerusalemme, dicendo che «nessuno tra loro era bisognoso» (At 4,34), era fallita. Se «quanti possedevano campi o case», invece di venderli e donare il ricavato alla comunità per i poveri, li avessero messi a reddito, poi avrebbero potuto aiutare i bisognosi in modo continuativo e senza ridursi essi stessi in povertà. Questa è la lezione che i cristiani hanno imparato, per i secoli seguenti (non puoi distribuire ricchezza se non la produci). Ma il riferimento papale a quel passo degli Atti, per attaccare la proprietà privata, è anche controproducente. La Chiesa oggi ha un patrimonio immobiliare enorme. Il Mondo, anni fa, scriveva che «un quarto di Roma, a spanne, è della Curia». Donarlo e metterlo in comune non sarebbe sensato né giusto, perché la Chiesa ha le sue necessità. Tuttavia qualcuno - ascoltando le parole del papa - potrebbe anche chiedersi perché lui, che ha un potere totale, non applica le sue idee a queste proprietà. C'è chi ha scritto che Bergoglio «non vede l'ora che lo provochino su questo punto, per potere svende Nel 25 d.C. a Roma, alla presenza silenziosa dell'imperatore Tiberio, il Senato processa uno dei suoi membri, Aulo Cremuzio Cordo, accusato da due scherani del potentissimo prefetto del pretorio Seiano di lesa maestà. Cioè, come ci racconta Tacito in due celebri capitoli del libro IV degli Annali, di un reato d'opinione: aver elogiato nella sua opera storica i cesaricidi Bruto e Cassio, gettando così un'ombra sinistra sul principato di Augusto e del suo successore. La sentenza, nonostante un'appassionata autodifesa dell'imputato, decreta la messa al rogo del testo, mentre l'autore, ormai anziano, si lascia morire di fame. Eppure, le fiamme non bastano a cancellare il ricordo della vicenda, anzi. Grazie a Caligola alcune copie dell'opera incriminata, miracolosamente salvatesi, tornano a circolare, pur se re tutto e chiudere bottega». Ne dubito. Del resto, oltre ai beni ecclesiastici, ci sono quelli personali. Di recente è apparso su Repubblica questo titolo: «Il sacco del Vaticano: "Svuotato anche il conto del Papa"». Sottotitolo: "Prelevati perfino 20 milioni di sterline dal deposito riservato di Francesco". Un vaticanista autorevole come Aldo Maria Valli ha scritto: «Mi occupo di Vaticano da anni, ma non avevo mai sentito parlare di conprive delle parti più pericolose, assieme agli scritti di due altri dissidenti, Tito Labieno e Cassio Severo. Fino a Svetonio, l'ultimo a citarle, le pagine dello storico dalla schiena dritta vengono insomma lette. Poi, il buio. Ma qualcosina si è salvato ancora. Quanto leggiamo nel volumetto Gli Annali. Testimonianze e frammenti ( La Vita Felice, pp. 144, euro 11, con testo latino a fronte) curato da Mario Lentano. Il quale vi aggiunge anche due frammenti dubbi, tramandati da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia e concernenti temi mitologici, di certo non appartenenti agli Annali del nostro Cremuzio e probabilmente da attribuire a un omonimo, e altrimenti ignoto, autore di mirabilia mito-geografici ti riservati intestati ai papi». Oltretutto un conto di grande entità, sorprendente per un papa che parla sempre male del denaro e in un'omelia affermò: «San Pietro non aveva un conto in banca» (11 giugno 2013).

CONTO CORRENTE. Chi siamo noi per discutere del conto corrente del papa? Nessuno. Però è doveroso dibattere delle sue parole sulla proprietà privata altrui, perché questo è un tema che riguarda i nostri portafogli. Un'intellettuale laica come Barbara Spinelli, anni fa, metteva in guardia gli intellettuali e la Chiesa dalla (facile) condanna del denaro come sterco del demonio. E indicava come esempio positivo il card. Giuseppe Siri che era ben lungi dalla demonizzazione della proprietà e del denaro e dall'idealizzazione della povertà, sapendo che la miseria è una disgrazia, non un valore positivo. Scriveva la Spinelli: «Il cardinale Siri, che era un conservatore, coltivava una vicinanza ai poveri che spesso è coltivata dai veri conservatori. Usava ripetere il proverbio: Homo sine pecunia imago mortis... Anche queste antiche saggezze sono realistiche L'assenza di pecunia è assenza di cibo, di vita, di fede nell'altro. Gli accenni di Siri al denaro fanno pensare a una Chiesa che non si occupa solo dei primi nove mesi di vita e delle ultime ore dell'uomo, ma anche di quello che c'è in mezzo: un corto tragitto mortale, ma non sprezzabile». Immagino che papa Bergoglio condividerebbe questa preoccupazione, ma il suo armamentario ideologico - opposto a quello di Siri - appare confuso e contraddittorio. È un pensiero populista e astruso. Lo dimostra anche uno degli astri nascenti del firmamento bergogliano, il vescovo di Siena Augusto Paolo Lojudice, appena creato cardinale perché - stando alle voci - è il nuovo candidato di Bergoglio alla presidenza della Cei quando, fra pochi mesi, il card. Bassetti passerà la mano (le quotazioni del card. Zuppi sarebbero in crollo verticale). Nei giorni scorsi Lojudice ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica (edizione toscana) sulla crisi che viviamo a causa del Covid e in un'intera pagina - dove nomina papa Bergoglio - non parla mai, neanche una volta di sfuggita, di Dio, di Gesù Cristo, di preghiera o sacramenti, né di morte o vita eterna. Solo banalità sociologiche. Parla più come un politico, con conoscenza superficiale dei problemi, che come un pastore d'anime. Questa è una Chiesa in uscita che non sa dove andare e non aiuta né le anime, né i corpi.

Rispetto per 1.285.000.000 di cattolici: chiarire subito chi è il papa. La situazione è diventata insostenibile e offensiva per il 18% della popolazione mondiale. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 12 aprile 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

No scusate, però adesso, veramente, BASTA. Il rispetto per l’autorità pontificia è fuori discussione, per qualsiasi dei due sia il papa, ma è arrivato il momento anche di portare RISPETTO A UN MILIARDO E 285 MILIONI DI CATTOLICI la cui anima è nelle mani di non si sa chi. Qui si sta scherzando col fuoco (dell’inferno, sempre se esiste ancora) e la situazione, dal surreale, sta sfumando in qualcosa di peggio: abbiamo due papi, però ce ne può essere uno solo, ma non si sa quale sia dei due. Sono "ottimi amici", però il secondo fa sradicare le vigne predilette del primo, non appena questi critica il suo programma. Il primo papa ha solo annunciato che si sarebbe dimesso rinunciando all’unica cosa che non conta niente a livello giuridico, cioè il ministerium, e per giunta non ha ratificato nulla. Poi dice di essere un ottimo latinista dopo aver commesso errori di latino macroscopici nella sua Declaratio di dimissioni. Nessuno può intervistare il primo papa, a meno che non si sia giornalisti a favore del secondo. Per tutti gli altri, compresi vescovi e cardinali, è irraggiungibile. I giornali più importanti prendono le parole del primo papa e gli fanno dire quello che vogliono, interpretando tutto a modo loro e facendo sparire gli articoli che parlano dei suoi errori di latino. L’agenzia di stampa vaticana prende le parole di un giornalista a favore del secondo papa e le spaccia per quelle del primo, facendogli dire che l’unico papa è solo il secondo, cosa che non ha mai detto. Alcuni preti vengono scomunicati perché dicono che il vero papa è solo il primo e non sono nemmeno sottoposti a processo canonico.  Ovviamente, questi gridano al mondo la loro verità, però i media li maciullano o li mettono sotto embargo: eppure, sono quegli stessi organi di informazione che, anni fa, quotidianamente sparavano cannonate sul primo papa, mentre oggi sono tutti inchinati a 90° davanti al secondo. Quasi tutti i blog cattoconservatori, dal canto loro, continuano a criticare a sangue il secondo papa eludendo la questione base: se questi sia o meno legalmente il pontefice. Per giunta, alcuni tradizionalisti se la prendono col primo papa che, nel giro di pochi anni, è passato dall’essere considerato la sentinella della più reazionaria Tradizione a centravanti del MODERNISMO. (Capite? Il papa del camauro, della messa in latino, dei paramenti 700eschi, il “Panzerkardinal”, oggi passa per modernista. Vabbè). Il secondo papa affitta alla Porsche la Cappella Sistina; dice che Gesù “era sporco” e “faceva lo scemo”; che la Madonna se la prendeva col Signore; permette a Scalfari di attribuirgli paurose eresie senza correggerlo; dà schiaffi sulle mani alle cinesi; considera la Bonino -  6 milioni di aborti sul curriculum - una “grande italiana”; manda lettere affettuose a Casarini;  intronizza divinità pagane in san Pietro; inserisce guerrieri cornuti con teschi nel presepe in Vaticano; si professa a favore delle unioni gay, ma solo a livello personale; proibisce le messe private in San Pietro; appoggia candidamente il Nuovo Ordine Mondiale incurante del fatto che sia roba da fantahorror sull’Anticristo. Su Twitter il secondo papa viene offeso da centinaia di persone ogni giorno, ma il suo account mette like a modelle prosperose. Quando quattro cardinali gli espongono dubbi su un’enciclica dove non si capisce niente, il secondo papa semplicemente non risponde. Così la Comunione ai divorziati si può dare in Germania mentre in Polonia no, come se fosse un’usanza locale, che dipende dalle regioni. Esce l’autobiografia del cardinale primate del Belgio che parla esplicitamente di “mafia” e di manovre per far dimettere il primo papa e sostituirlo col secondo papa, ma nessuno smentisce dal Vaticano. Tutto passa in cavalleria: non è successo niente, anche se la costituzione apostolica di papa Wojtyla li avrebbe tutti scomunicati sul posto. Il secondo papa fa diventare la Madonna “sollievo dei migranti”, compie acrobazie verbali per non dire che è vergine, innalza statue a Lutero e monumenti ai barconi,  fa passare San Francesco per un campione del  dialogo sincretista, (mentre il santo era andato dal Sultano per convertirlo a costo del martirio). Poi reinventa la storia dell’arte e sostiene che il becchino di Giuda, per i medievali, fosse Cristo Buon pastore, traendo ispirazione da un teologo scomunicato e anticattolico. Inserisce gli ingredienti magici massonici nel messale, fa continui appelli alla Fratellanza universale, ricevendo i complimenti da 70 logge massoniche mondiali e nessuno si fa una domanda dato che – dettaglio insignificante -  la Massoneria è orgogliosamente il “club degli anticristi”. Il primo papa, invece, veste di bianco “perché non aveva altri abiti a disposizione”, continua a parlare con un linguaggio sibillino, mantiene una perfetta ambiguità Nelle sue parole e dice addirittura che ha scelto il giorno per annunciare le dimissioni in connessione col lunedi di Carnevale. Sostiene di essere papa emerito, ma il titolo è completamente campato per aria: non esiste e, se esiste, coincide con il papa effettivo. Il cardinale Segretario di Stato invoca l’unità della Chiesa, senza chiedersi per quale strana ragione si stia verificando un feroce scisma. Avvenire, il giornale dei vescovi, appoggia campagne Lgbt  e bullizza i giornalisti che tirano fuori problemi poi sollevati da un altro  cardinale, il quale, pur essendo una volta a favore del primo papa, oggi si indigna perché questi continua a vestirsi da papa, senza domandarsi se, in effetti non sia ancora il papa. Il Vaticano presenta una trasmissione come se fosse sui 7 vizi capitali - ma non sono quelli – e rende inutilizzabile il Catechismo online. Poi, giusto quando cominciano a uscire i problemi giuridici che mettono in discussione la sua elezione,  il secondo papa comincia ad ammonire contro le malelingue e i “legalismi clericali”, come se nessuno potesse immaginare una patente “excusatio non petita”. E in tutto questo, i canonisti della Sacra Rota non rispondono a normali domande, pensando che il loro silenzio non sia eloquente; i vescovi si fanno gli affari loro, alcuni si ritirano in convento invece di difendere il gregge; i cardinali tacciono, i pochi che tengono ancora un po’ alla fede correggono solo le continue, clamorose esternazioni del secondo papa senza porre la domanda chiave: ma il secondo papa è davvero il papa? Nessuno che si espone, tutti zitti, allineati e coperti: dimenticati i santi, i martiri, tutto quel sangue di cui portano addosso il colore per difendere la fede. Allora: scusate, ma qui tutto sta realmente diventando qualcosa di POCO SERIO. Dopo duemila anni sta finendo tutto in una tragica farsa. BISOGNA PORTARE RISPETTO A MILIONI DI PERSONE che a questa sacra istituzione hanno dedicato se stessi, hanno lasciato i loro averi, le loro ricche offerte, il loro tempo, le loro energie, persino la loro VITA. C'è gente in tanti paesi che ancora viene martirizzata come nei primi secoli. Questi fedeli non meritano di essere presi per i fondelli e SI STA ABUSANDO DELLA LORO RISPETTOSA DEVOZIONE ALLA CHIESA. Ci sono in ballo un miliardo e 285 milioni di anime che rischiano di essere  mandate per prati: il 18% della popolazione mondiale, dopo otto anni, ancora non ha le idee chiare su chi sia il Capo della Chiesa cattolica. Ma stiamo scherzando? ALLORA: se non si vuole perdere definitivamente la faccia, bisogna indire SUBITO una CONFERENZA STAMPA COL PRIMO PAPA, prima che lasci questo mondo. Che sia intervistabile LIBERAMENTE da giornalisti di TUTTE le testate (non solo da quelle amiche del secondo papa) per fornire RISPOSTE CERTE A DOMANDE CHIARE, di fronte alle TV e in diretta mondiale. Oppure, si apra immediatamente un SINODO fra i vescovi  o un dibattito PUBBLICO fra canonisti per verificare se il primo papa si è dimesso legalmente o no. Se il primo papa si è davvero dimesso, il secondo papa, che sarà dunque l’unico, cominci a spiegare per filo e per segno perché il Cattolicesimo di oggi non è più quello di sempre e  su quali basi dottrinali poggiano tutte le sue innovazioni perché, in molte di esse, i conti sembrano non tornare: dica dove vuole arrivare. E i cardinali, se devono correggerlo, lo correggano: stanno lì apposta e pretendano risposte. Se il primo papa NON si è davvero dimesso, allora, grazie, abbiamo scherzato, ci siamo presi otto anni di vacanza: tabula rasa e si rifaccia un conclave valido, sempre che il primo papa, stavolta, firmi dimissioni valide, senza errori formali, né giuridici. E poi, però, talare nera da cardinale, senza equivoci.  Oppure, se vuole restare papa eremita, mantenendo il munus come oggi, che nomini finalmente un vescovo vicario per gestire quell’esercizio pratico del potere al quale aveva detto di voler rinunciare. Il rischio è che se si continua così, il popolo cattolico, buono e caro, sempre devoto e rispettoso, a un certo punto si possa anche far anche girare i nervi. Bisogna temere l’ira dei mansueti: non sia mai i fedeli cominciano a tagliare sul serio le offerte, gli 8 x 1000, i lasciti testamentari, o magari perfino a chiedere indietro i soldi tramite qualche class action, allora poi passa definitivamente la voglia di scherzare.  

Francesco auspica apertamente il “Nuovo ordine mondiale” e ventila il “Big reset”. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 10 aprile 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

“MA daaaaiii !!”. Questa è la risposta di ogni persona razionale, ogni volta che qualcuno tira fuori la parola "Nuovo Ordine Mondiale” o “Big Reset”. Infatti, questi due concetti possiedono delle accezioni terribilmente negative, quasi fantascientifiche, prefigurando scenari apocalittici caratterizzati addirittura dalla dominazione dell’Anticristo. Potete verificare su una fonte molto popolare. Parleremmo di una “quarta Rivoluzione”, dopo quella Francese (che distrusse l’aristocrazia) , quella Industriale (che eliminò il ceto contadino)  e il ’68 (che eliminò la famiglia) , che sarebbe voluta dall’élite globalista per creare un uomo nuovo, schiavo, perennemente connesso alla rete, senza patria, senza un sesso specifico, senza cultura, senza identità, debole, disarmato, senza etnia, senza tradizioni, un uomo fatto per essere gestito da pochi super potenti apolidi. Per raggiungere l’obiettivo “satanico” del New World Order tramite il Big Reset, bisognerebbe meticciare le nazioni con un’immigrazione forzata, demolire le identità nazionali, distruggere il valore della Patria, propagandare l’omosessualità, demolire la famiglia, bloccare la crescita demografica promuovendo l’aborto, ibridare i sessi con politiche genderiste, privare gli individui delle libertà personali, annullare il ceto medio produttivo, adottare un controllo sanitario sulle popolazioni, limitare l’uso del contante. Il tutto dovrebbe portare a un ulteriore aggravamento delle disuguaglianze e della concentrazione di ricchezza, con un’impennata straordinaria dei redditi dei miliardari e uno scivolamento di milioni di cittadini in tutto il mondo nella fascia di povertà. Orribile, non è vero?

Che fantasia, questi complottisti. Poi uno si ferma un attimo a pensare, dà uno sguardo all’attualità e dice: “OPS!  Ma… ma…?”. Per giunta qualche matto sostiene che la pandemia offra l’occasione giusta per accelerare la tabella di marcia di tale progetto sostenendo che sia stato già tutto pianificato. Poi spunta fuori il Forum di Davos, il consesso annuale dove si riuniscono i grandi della terra per decidere su questioni che riguardano la governance mondiale. “Un piano preciso, ufficiale e ben documentato – scrive l’economista bocconiana Ilaria Bifarini nel suo libro “Grande Reset. Dalla pandemia alla nuova normalità?" (2020) - sul quale istituzioni internazionali, organizzazioni non governative e grandi aziende private collaborano apertamente già da tempo, con l’obiettivo condiviso di “migliorare la condizione del mondo”. Milioni di imprese spariranno, molte avranno un futuro incerto. Altri nuovi mercati verranno a crearsi, sulle ceneri dei vecchi che dovranno far posto alla trasformazione. Le restrizioni legate alla gestione della pandemia hanno sdoganato definitivamente pratiche comportamentali che saranno funzionali alla nuova normalità, dallo smartworking alla teledidattica”.

Poi ci sono dei cattolici che sostengono addirittura che fra i burattinai del progetto vi sia Francesco, che non sarebbe il vero papa, ma un antipapa. Per i detrattori più spinti sarebbe addirittura il falso Profeta dell’Apocalisse, una delle due “bestie” che hanno per numero 666. A parte la divertente nota di colore secondo cui, in effetti, secondo l’alfabeto universale ASCII, il nome BERGOGLIO, unico fra quelli dei 100 uomini più importanti del mondo, dà per numero 666 con una probabilità su 14 miliardi, QUI , ciò che stupisce davvero è che Francesco, incurante di queste lugubri vociferazioni sul suo conto, abbia dichiarato a La Stampa, addì 15 marzo 2021: “Sprecheremmo la crisi chiudendoci in noi stessi. Invece, edificando un NUOVO ORDINE MONDIALE basato sulla solidarietà, studiando metodi innovativi per debellare prepotenze, povertà e corruzione, tutti insieme, ognuno per la propria parte, senza delegare e deresponsabilizzarci, potremo risanare le ingiustizie”.

E, come se non bastasse, proprio oggi Il Messaggero titola: “Papa Francesco a Fmi e Banca Mondiale: «Serve BIG RESET delle regole per una nuova governance»”. La vaticanista Franca Giansoldati poi riporta i precisi virgolettati di Bergoglio: «Vi è l'urgente necessità di un piano globale che possa creare nuove istituzioni o rigenerare quelle esistenti, in particolare quelle della governance globale, e contribuire a costruire una nuova rete di relazioni internazionali per far progredire lo sviluppo umano integrale di tutti i popoli». "Il Grande Reset – spiega Ilaria Bifarini - non è solo un piano di trasformazione socio-economica, ma perfino antropologica. Attraverso la strumentalizzazione della pandemia si sta facendo tabula rasa del nostro modello di vita per sostituirlo con nuove abitudini e comportamenti da parte delle popolazioni, esercitando un potere biopolitico che mira a cambiare l'essenza stessa dell'essere umano. Alla base c'è un'ideologia molto forte, dal carattere di una fede, una religione con una visione escatologica, che predica l'avvento di un mondo nuovo. Soggiogati dal terrorismo sanitario, che fa leva sull'innata paura della morte e su un bombardamento mediatico incessante, gli individui vivono nella paura costante e nella diffidenza verso il prossimo, considerato come potenziale untore da evitare. Per la prima volta nella storia dell'umanità, viene minato il concetto stesso di socialità e solidarietà. La stessa Chiesa rinuncia alla fede e alla preghiera per consegnarsi al culto scientista, predicando il mai comprovato potere terapeutico dell'isolamento e abbandonando alla solitudine i più fragili. Quale surrogato delle relazioni umane, vengono propagandati i rapporti virtuali, a distanza, mediati da uno schermo: il web e l'intelligenza artificiale sono visti come il vitello d'oro da adorare. In un mondo in cui l'economia reale cede il posto a quella virtuale, con la desertificazione del tessuto produttivo e industriale a favore di un pauperismo neocologista e digitale, l'uomo, perso anche il legame con il mondo lavorativo, dovrà fare i conti con un senso di inutilità esistenziale. Sempre più solo e impaurito, troverà rifugio nel rapporto con i robot e le macchine, rendendo realizzabili e plausibili scenari distopici di matrice transumanista, auspicati da diversi fautori del nuovo mondo, che prevedono addirittura l'ibridazione uomo-macchina come conquista dell'umanità, capace di aumentare in modo esponenziale le sue capacità fisiche e cognitive. Bergoglio sembra prestarsi alla nascita di questa nuova religione, incompatibile con i principi cristiani, ma forte del consenso politico, istituzionale e mediatico su scala pressoché universale."

Avevamo già notato, tempo fa, una sorta di “imprudenza” da parte di Francesco nell’affrontare temi e neologismi scottanti. Ad esempio, i suoi avversari lo accusano di essere massone e lui che fa? Inserisce un elementale massonico nel messale e inneggia tutti i giorni alla Fratellanza Universale, accettando complimenti da 70 logge massoniche di tutto il mondo. Lo accusano di voler instaurare una nuova religione pagana ed eco-sincretista e lui che fa? Intronizza la Madre Terra andina – quella cui si sacrificano i cuccioli di lama -  in San Pietro. Allora, ciò che stupisce è questo candore. Omnia munda mundis, (tutto è puro per i puri) e a maggior ragione per un papa, come diceva Fra Cristoforo ? Oppure si tratta della raffinata tecnica di comunicazione da parte di un antipapa ? Purtroppo sulla situazione non c’è chiarezza e quindi siamo costretti ad esaminare entrambe le ipotesi. Nella seconda, Bergoglio potrebbe fare proprie le accuse più terribili che gli rivolgono e riproporle rivestite di uno strato di zucchero: per cui il Nuovo Ordine Mondiale e il Big Reset diventano PROGETTI BENEFICI, “per la pace nel mondo, l’ecologia, la giustizia sociale“ etc. etc. In tal modo, secondo la classica finestra di Overton QUI tali concetti di matrice oscura, verrebbero piano piano sdoganati, assorbiti dalla mentalità comune e addirittura invocati volontariamente dalla gente. La dittatura più forte è quella  dove è lo stesso popolo a chiedere di essere dominato. Chi lo sa? Delle due, l’una, per forza. L’unica verifica che potrà far scegliere per l’una o l’altra ipotesi sarà un SINODO dei vescovi (quelli nominati prima del 2013) che stabilisca definitivamente se papa Benedetto XVI si è davvero dimesso oppure no. Se Ratzinger si è legalmente dimesso, allora i cattolici stiano tranquilli. Francesco è il vero papa e, certamente, lui vede più lontano di loro. Se Benedetto XVI non si è dimesso legalmente, Bergoglio sarebbe de facto un antipapa e questo spiegherebbe molte altre cose. E allora dovremmo preoccuparci TUTTI, non solo i cattolici.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” il 2 aprile 2021. Sono circa tre anni che papa Francesco promulga testi e documenti come se non abitasse più in Vaticano. Tradizionalmente, i documenti con la sua firma riportavano, prima della data, la frase Datum Romae apud Sanctum Petram, da San Pietro in Roma. Ed era vero, poiché da quelle parti il Papa ci abita. Ora, invece, situa la stesura dei suoi documenti apud Lateranum, dal Laterano, uno dei luoghi della Roma ecclesiastica da lui meno frequentati, anche se la basilica, oltre ad essere la sua sede vescovile, viene considerata mater et caput delle chiese del mondo. La residenza fittizia per gli atti magisteriali e giurisdizionali papali non è una novità. Quando i Pontefici risiedevano al Quirinale fingevano di apporre le firme sulle varie carte, encicliche comprese, apud Santa Maria Maggiore. Appena fu chiaro che papa Francesco non avrebbe abitato il palazzo apostolico, molti si illusero che sarebbe andato a vivere in Laterano, sede naturale del “vescovo cli Roma". Non fu cosi, ed è probabile che non lo sarà mai perché il 16 marzo ha firmato una lettera (dall'italiano e dalla logica traballanti, come capita spesso in questi tempi), pubblicata dal cardinale vicario Angelo De Donatis, nella quale viene stabilito che il palazzo sede degli uffici della diocesi di Roma, e «anche gli edifici annessi alla Basilica Papale di San Giovanni in Laterano», divengano sede di «attività museali e culturali nelle diverse forme e contenuti, dando l'assetto che sarà necessario». Dunque, dopo aver chiuso l'appartamento vaticano e avere trasformato le ville pontificie di Castel-gandolfo in museo, il Papa si libera anche degli immobili extraterritoriali di San Giovanni: canonica, università e seminario. Lo fa per risparmiare o per indicare che gli investimenti immobiliari è meglio farli a Roma piuttosto che a Londra?

Il Papa gli invia una lettera che finalmente lo perdona. Il Dante contro il potere temporale dei Papi e critico nei confronti dell'allora stato pontificio, viene ora riabilitato da Papa Francesco che al Sommo Poeta dedica una Lettera apostolica. Serena Sartini - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. Il Dante contro il potere temporale dei Papi e critico nei confronti dell'allora stato pontificio, viene ora riabilitato da Papa Francesco che al Sommo Poeta dedica una Lettera apostolica, la Candor Lucis aeternae, pubblicata nel giorno in cui si ritiene che il padre della lingua italiana abbia iniziato a scrivere la Divina Commedia. Quarantotto pagine intense per ripercorrere l'attualità del messaggio del poeta. «Nella missione profetica di Dante - si legge nel testo del Papa - si inseriscono anche la denuncia e la critica nei confronti di quei credenti, sia Pontefici sia semplici fedeli, che tradiscono l'adesione a Cristo e trasformano la Chiesa in uno strumento per i propri interessi, dimenticando lo spirito delle Beatitudini e la carità verso i piccoli e i poveri e idolatrando il potere e la ricchezza». «Il Poeta, mentre denuncia la corruzione di alcuni settori della Chiesa - prosegue Francesco - si fa portavoce di un rinnovamento profondo e invoca la Provvidenza perché lo favorisca e lo renda possibile». Per Bergoglio, inoltre, Durante Alighieri detto Dante era «un precursore della nostra cultura multimediale», una «miniera quasi infinita di conoscenze, di esperienze, di considerazioni in ogni ambito della ricerca umana». «La ricchezza di figure, di narrazioni, di simboli, di immagini suggestive e attraenti che Dante ci propone suscita certamente ammirazione, meraviglia, gratitudine. In lui possiamo quasi intravedere un precursore della nostra cultura multimediale, in cui parole e immagini, simboli e suoni, poesia e danza si fondono in un unico messaggio». E proprio il messaggio del Poeta nato a Firenze, esiliato in Casentino e in Romagna, e morto a Ravenna, ben si inserisce nell'attualità. «In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l'umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l'umanità - conclude il Papa - l'amor che move il sole e l'altre stelle».

Gustavo Bialetti per “La Verità” il 28 marzo 2021. «Dante, un esempio anche per il papa. Bergoglio e l'anniversario». Sotto questo impegnativo titolo, ieri, padre Antonio Spadaro ha confiscato una pagina del Fatto quotidiano per celebrare, più che Dante, il collega gesuita diventato pontefice. A questo punto Dio solo può sapere che s' inventerà domenica prossima Eugenio Scalfari, sulla Repubblica (lo chiamerà il Papa? Gli telefonerà l'Alighieri? Lo chiameranno entrambi su Zoom?). Intanto tocca riconoscere che il direttore della Civiltà cattolica ha un talento: per le prime 150 righe manda il lettore in narcosi, ma poi un guizzo lo regala sempre. Ieri ci ha consegnato una specie di Dante secondo Bergoglio. L'occasione è la lettera apostolica Splendore della luce eterna, ma padre Antonio inizia ricordando che ancora da superiore provinciale dei gesuiti argentini, Bergoglio amava citare Dante «laddove se la prende con quei predicatori che riempiono i fedeli di chiacchiere e non di Vangelo». Giusto, padre, vogliamo l'Evangelo, non le chiacchiere. E poi «il futuro Pontefice vedeva con chiarezza la differenza tra la parola di verace fondamento e le ciance». Non solo, ma Spadaro riconosce che nel suo commentare Dante «Francesco è immediato nel suo argomentare». E in Dante «Francesco legge la parola della riforma evangelica della Chiesa che non può che essere poetica, cioè performativa, creativa e profetica». Ed eccoci al guizzo della citazione giusta: «Ma la bontà infinita ha sì gran braccia/ che prende ciò che si rivolge a lei». Chiosa Spadaro: «Una sintesi perfetta della visione che Francesco ha della misericordia di Dio». Insomma, già Dante dava ragione al Papa. A questo Papa, ovvio. Però sbagliò a mettere gli adulatori nello sterco umano. Bastava costringerli a leggere e ripetere ad alta voce gli articoli di padre Antonio. Sono più «performativi».

Dagospia il 25 marzo 2021. PERCHÉ AVETE PAURA? NON AVETE ANCORA FEDE? IL LIBRO SULLA STATIO ORBIS 2020 - PAPA BERGOGLIO. Il 27 marzo ricorre il primo anniversario della Statio Orbis presieduta da Papa Francesco sul sagrato della Basilica di San Pietro. Cosa è successo il 27 marzo a Piazza San Pietro? È successa una cosa semplice e grande. Un momento straordinario di preghiera ha unito il mondo. Le immagini erano potenti, drammatiche. In tanti si sono interrogati su quel che hanno visto. Ma l’importante era invisibile agli occhi… Da dove nasce il bisogno di pregare? Dove è la straordinarietà del 27 marzo? Nella liturgia? Nella sua ripresa televisiva? O nella verità che essa ha rappresentato? Da settimane sembrava fosse scesa una sera senza prospettiva di alba. Da settimane il mondo guardava a Roma, al Papa, per trovare nelle sue parole una risposta che non fosse solo il conto delle vittime…La verità è che il 27 marzo è stato un momento misterioso e potente di kairos intorno a una preghiera semplice… La straordinarietà del 27 marzo sta proprio in questo. La sua capacità comunicativa nasce dalla verità. Il Papa era solo come ognuno di noi. Tutti soli davanti a Dio. Tutti uniti davanti a Dio. Tutti fragili e nelle sue mani…La parola sempre ha bisogno del silenzio. E il silenzio è eloquente solo quando riecheggia la parola. Così è stato il 27 marzo. Quel silenzio, come ha detto il Papa, ci domandava: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Quel silenzio era un appello alla fede. Un appello urgente: "Convertitevi", «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Quel silenzio ci ha chiamato «a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta». In quel silenzio hanno risuonato le parole di Francesco: «Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri». (dall’introduzione P. Ruffini)

La celebrazione del 27 marzo resterà nel ricordo di tutti gli uomini e delle donne che, rinchiusi, spaventati e persi nell'inaspettata tempesta della pandemia del Covid-19, guardavano dagli schermi Papa Francesco nel cuore della Chiesa. Respirando a fatica, è salito al Tempio e ci ha chiamato a svegliarci e ha fatto risuonare le parole di Gesù in quasi ogni angolo dell'universo: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Ci ha ricordato che ci stavamo affondando da soli e ci ha invitati ad abbandonare le nostre paure in Gesù, per ottenere in Lui la serenità in mezzo alla tempesta. Poi ci ha affidati tutti al Signore, per intercessione di Maria, Salute del Suo Popolo. Ha implorato Dio in silenzio, ai piedi della croce di Cristo, e ci ha benedetto con il Santissimo Sacramento… La narrativa dell'evento tesse dunque una trama tra il Dio Misericordioso e sempre presente nella storia dell'uomo, e la sua Chiesa che nella paura lo supplica perché ha bisogno di essere incoraggiata a tornare alla fede e alla fiducia…Con Gesù a bordo della barca della Storia non si naufraga. Così, come Gesù si sveglia per ravvivare la fede dei discepoli il Santo Padre sale al Tempio per ravvivare la fede del mondo contemporaneo… La Statio Orbis deve essere il punto di partenza per creare una cosa nuova, per un cambiamento radicale nella cultura. Così dalla meditazione di questa liturgia parte un Insegnamento Pontificio ricco nell'analisi della realtà e delle cause con le quali l'uomo ha contribuito al manifestarsi di questa crisi. Se la pandemia ha mostrato la debolezza della nostra cultura, è necessario che da questa crisi si impari per uscirne diversi, perché da una crisi mai si esce uguali: o si esce migliori o si esce peggiori, ma mai uguali. (dalla Conclusione L. Ruiz)

Al fine di ricordare meglio, per poter pregare, per poter pensare, e rendere questo storico evento accessibile al Popolo di Dio che in quel giorno, col cuore e la preghiera, era presente in Piazza San Pietro e ha partecipato attraverso i mezzi di comunicazione disponibili, è nata l’idea di radunare il materiale di archivio (le foto, i testi ed i video) per presentarlo in un libro, per offrire al lettore un’occasione di sosta, per ripensare alla propria vita e ripartire rinnovati, con uno sguardo nuovo sui fratelli e sul mondo. Il Papa mostra in vivo come un credente affronta le difficoltà e i momenti bui. Fa vedere come ci si apre a Dio quando Lui sembra di essere assente. Francesco prega per tutti e con tutti. È, più che mai, il “ponte”, il “pontefice” con il Mistero di Dio che tace. Attraverso questo libro, il Dicastero per la Comunicazione vuole consegnarne alla storia le immagini e le parole, per illuminare il cammino che verrà, consapevoli che non possiamo tacere quello che abbiamo visto e udito, perché possano rimanere impressi nella memoria ed essere ancora raccontati alle generazioni future (cfr. Messaggio per la 54ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali). Il volume è suddiviso in due parti, distinte ma strettamente connesse: la preghiera e l’insegnamento. Con la preghiera il mondo si è fermato, insieme al Santo Padre, per pregare ed implorare Misericordia. Nella preghiera il Papa ha esortato, come fece Gesù con i discepoli, ad avere fede, perché con Lui sulla barca non si può naufragare. Con l’insegnamento siamo stati invitati ad un esame di coscienza sincero, per comprendere cosa è veramente essenziale, per analizzare il modo in cui agiamo, nelle grandi e nelle piccole circostanze, per comprendere dove ci siamo smarriti e come ritrovare la strada. Il codice che si trova alla fine del libro (QRcode), oltre a consentire la visualizzazione del video di quella sera, permette di continuare a seguire l’insegnamento pontificio successivo all’edizione di questo libro. Il libro è stato realizzato dalla LEV in coedizione Bayard e lo stanno portando insieme nel mondo: in particolare nei Paesi di lingua francese e tedesca; hanno coinvolto poi anche altri partner per raggiungere altre lingue e Paesi: Piemme per l’edizione italiana, OSV per quella inglese, Encuentro per quella spagnola, Leya-D.Quixiote per il portoghese, Novalis per il Quebec, La Oficina del Libro per l'Argentina, Edições CNBB per il Brasile, Il CELAM per l'America Latina e il Caraibi. Altri editori verranno contatti nei prossimi mesi per estendere ulteriormente la diffusione dell’opera nel mondo. Con la pubblicazione di questo libro si vuole contribuire a ricordare e rivivere l’evento ma, soprattutto a vivere nella fede in Gesù per rendere questa crisi un’opportunità di crescita e cambiamento, fiduciosi che il Signore è con noi, anche durante la tempesta, e ci dice: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”.

Il VANGELO - Mc 4, 35-41

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all'altra riva».

E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.

Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero:
«Maestro, non t'importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare:

«Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro:

«Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»

«Venuta la sera» (Mc 4,35) Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera.

Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell'aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti.

Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell'angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme. È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l'atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l'unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?» (v. 38).

Non t'importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: "Non t'importa di me?". È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati. La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di "imballare" e dimenticare ciò che ha nutrito l'anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente "salvatrici", incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell'immunità necessaria per far fronte all'avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri "ego" sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l'appartenenza come fratelli. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto.

Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: "Svegliati Signore!". Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: "Convertitevi", «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12).

Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell'ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell'ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?»

L'inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un'ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all'isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l'annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza. Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l'intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, "gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi" (cfr 1 Pt 5,7).

La Chiesa a un punto di svolta. Ecco cosa ha "chiesto" il Papa. Bergoglio ha messo l'ecologia in cima all'agenda. Ma questa visione preoccupa i più conservatori. Ecco cosa cambia. Francesco Boezi - Dom, 21/03/2021 - su Il Giornale. Il concetto di "ecologia integrale" non è stato inventato da papa Francesco. Di "conversione ecologica" aveva già parlato Giovanni Paolo II. Quando il vescovo di Roma cita la questione "ambiente" e sua "tutela", viene tacciato di progressismo. La realtà è che la Chiesa cattolica si pone il problema da tempo. L'ambientalismo ha sempre fatto parte del dibattito dottrinale (oltre che di quello politico). Sono i problemi odierni semmai a far sì che le istanze ambientaliste siano sulla cresta dell'onda. Il Papa viene attaccato da destra per via del suo insistere sull'ecologia. Quest'ultima fa parte di temi economico-sociali su cui gli ecclesiastici dovrebbero - insistono dal tradizionalismo ecclesiastico - intervenire il giusto. Perché il cuore dell'attività del Vaticano e del suo vertice - aggiungono - non può che essere la spiritualità. La critica mossa verso l'ex arcivescovo di Buenos Aires verte quindi sugli ambiti che Bergoglio tratta, al netto degli accenti che pone. Il Papa però non molla un millimetro. Se Laudato Sì è un caposaldo, gli avvertimenti continui sulla necessità della "conversione ecologica" stanno diventando una costante. L'ecologia - come dichiara l'opposizione a Bergoglio con tono sfavorevole - è ormai parte della dottrina cattolica. E questo, nonostante il riemergere di tendenze culturali sì ambientaliste ma anche conservatrici, non è ritenuto opportuno dalla parte meno persuasa dalla pastorale di questo pontificato.

L'agenda del Papa per il mondo post-pandemico. Anche Benedetto XVI si era posto il tema "ecologia". In Caritas in Veritate, il papa emerito si era interessato della difesa del "Creato" inteso come dono di Dio. Joseph Ratzinger ha persino richiamato l'umanità ad una correzione dello "stile di vita" in prossimità delle catastrofi derivanti da "edonismo" e "consumismo". Insomma, Bergoglio non è il primo successore di Pietro ad avvertire il mondo del pericolo imminente legato allo sfruttamento ambientale. Il "fronte anti-Bergoglio" lega la questione alla crisi vocazionale vissuta dalla Chiesa. Nel senso che l'attuale corso, che si sarebbe appoggiato troppo al mondo ed ai suoi costumi, avrebbe perso di vista le priorità, che per la destra ecclesiastica sono diverse. Ma come vedremo quest'analisi viene bocciata anche da esperti non progressisti.

Il Papa ora "spacca" la Chiesa e prepara il piano per il futuro. Periferie "economico-esistenziali", redditualità universale, rivisitazione in chiave anti-globalizzazione sfrenata delle logiche economiche, gestione aperturista dei fenomeni migratori ed appunto ecologia integrale: tutto questo, per i conservatori, è contestabile, mentre per il Papa rappresenta il cuore dell'avvenire post-pandemico. Per Bergoglio, la strada che conduce la fede oltre il guado del relativismo è quella della "Chiesa in uscita", mentre i tradizionalisti vorrebbero una fuga benedettina, sulla scia di "Opzione Benedetto", l'ormai iconico libro di Rod Dreher. Tornare alla spiritualità, dicono da destra, prescindendo dal "consenso". Attorno a questa dialettica non ruota solo la vita culturale della Chiesa contemporanea, ma pure le scelte che verranno compiute da qui ai prossimi decenni.

Le ultime posizioni di Papa Francesco. Il viaggio in Iraq è apparso come uno spartiacque contenutistico e narrativo del pontificato del primo Papa gesuita della storia, che nel frattempo è giunto ad otto anni di pontificato. In realtà, quella visita apostolica può servire anche come rilancio per la pastorale, il magistero pontificio ed i suoi topoi strutturali. La visita apostolica in Iraq è stata letta secondo le categorie proprie della tutela dell'identità - quelle che sono condivise anche da "destra" -, ma una volta tornato a Roma il pontefice ha rilanciato. In "Dio e il mondo che verrà", un libro-intervista al Papa con Domenico Agasso de La Stampa, il Papa ha ribadito che"...la via per la salvezza dell'umanità passa attraverso il ripensamento di un nuovo modello di sviluppo", rimarcando ancora la necessità di una "svolta economica verso il verde". E ancora: "Cambiando gli stili di vita che costringono milioni di persone, soprattutto bambini, alla morsa della fame potremo condurre un'esistenza più austera che renderebbe possibile una ripartizione equa delle risorse".

Migranti, ambiente e reddito: ​il mondo post-Covid del Papa. Dubbi non ce ne sono: dipendesse dal Papa l'ecologia diventerebbe un paradigma del mondo che verrà. Al contempo, però, la Chiesa deve tenere botta all'avvento del relativismo, che sta mettendo in discussione persino il ruolo sociale svolto dalle confessioni religiose occidentali. Una crisi - quella che investe il contesto ecclesiastico - che i conservatori ventilano da tempo, almeno dal principio del pontificato di Bergoglio. L'ecologismo ha a che fare, ad esempio, con la crisi vocazionale? Per dirla meglio: l'adesione alle tematiche cavalcate dalla politica produce un effetto di allontanamento? Per il professor Eugenio Capozzi, che abbiamo voluto interpellare in materia, le due cose non sono correlate: "Credo che i motivi del calo delle vocazioni siano molto più complessi, e abbiano a che fare con la generale diluizione del messaggio cristiano in dottrina etica e sociale genericamente umanitaria. L'adesione all'ecologismo ideologico, con accenti in qualche caso panteistici, è uno degli aspetti di questo fenomeno di secolarizzazione, di scolorimento della dimensione trascendente". Dietro l'ecologia integrale, per i conservatori, si nasconde pure un rischio panteistico, come peraltro era stato segnalato, sempre dai critici del Papa, durante il Sinodo panamazzonico.

Il pericolo di un "ambientalismo ideologizzato". Però l'ambientalismo ormai non è soltanto una priorità progressista. Basti pensare al governo presieduto di Mario Draghi e alla centralità destinata alla transizione ecologica. Spacciare l'ecologia come una tematica di parte non è condiviso. Francesco Giubilei sostiene da tempo la tesi secondo cui ambientalismo e conservatorismo sarebbero correlati in via naturale. L'ecologia non è un monopolio della sinistra. Ma al netto delle letture culturali, il quesito che viene naturale porre riguarda il perché delle critiche al Papa.

"Conservare la natura" è da conservatori. Se l'ambientalismo è destinato ad essere posto su ogni tavolo istituzionale da qua a qualche decennio, perché criticare Bergoglio sulla sua insistenza? Il professor Capozzi la vede così: "L'ambientalismo ideologizzato, dai tratti apocalittici e antiumanistici, è uno tra gli elementi identificativi della cultura delle élites occidentali nel mondo globalizzato, uno tra i vari modi di declinare il relativismo". Sì, ma cosa c'entra la Chiesa? "L'impegno della Chiesa cattolica per la salvaguardia del Creato dovrebbe evitare accuratamente di confondersi con questa accezione dell'ambientalismo, ma non mi pare ponga particolare attenzione a fare le opportune distinzioni". Non è tanto il "cosa", dunque, ma il "come" a preoccupare gli animi di una parte della base cattolica in fermento per l'avvento della "ecologia integrale".

La continuità ambientalista tra Francesco e Benedetto XVI. L'ultima intervista rilasciata da Joseph Ratzinger dovrebbe aver chiarito le idee ai sedevacantisti: il Papa è uno ed è Francesco. I teorici della discontinuità tra gli ultimi due pontefici continuano ad intravedere differenze. Di sicuro lo stile comunicativo del Papa gesuita non è quello del Papa teologo, ma questo è un elemento abbastanza scontato e prevedibile sin dall'elezione dell'argentino. Allo stesso tempo, il mondo è cambiato da Ratzinger in poi, e sono cambiate pure le priorità che un vescovo di Roma fissa nella sua agenda. Certo, Ratzinger avrebbe difficilmente assecondato la causa di Greta Thunberg. E anche il professor Eugenio Capozzi sembra evidenziare una progressione del concetto di "ecologia integrale" che distinguerebbe il ratzingerismo da quello che è venuto dopo: "Il concetto di ecologia integrale è stato elaborato da papa Benedetto XVI, ed è molto importante perché ricorda che non può esistere alcuna salvaguardia del Creato se non si mette al centro l'uomo, anzi la vita umana, con tutti i suoi legami economici, sociali, culturali, affettivi che costituiscono la comunità. Purtroppo mi pare che quella intuizione sia stata in seguito complessivamente banalizzata, volgendola verso una sorta di generale afflato alla comunione tra uomo e natura in cui la centralità dell'uomo appare appannata". La sensazione è che di ecologia parleranno con sempre maggiore costanza tutti i principali attori geopolitici ed istituzionali del globo. Anche in questo caso, sarà il "come" ad alimentare il dibattito.

Gabriella Mazzeo per fanpage.it il 18 marzo 2021. Papa Bergoglio si è detto preoccupato dai nuovi risvolti della politica in Francia: a impensierire il pontefice sarebbe un'eventuale vittoria dei sovranisti di Marine Le Pen. Le paure espresse dal Papa hanno infiammato i Social e la discussione politica nel Paese. Marine Le Pen ha affidato a un tweet il suo pensiero sulle preoccupazioni riguardanti la vittoria del Rassemblement National. "Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Non ho dubbi nel credere che molti credenti sarebbero lieti se il Papa si occupasse delle chiese piuttosto che di quello che succede alle urne. Che ciascuno faccia quello che gli compete".

L'incontro col Papa. Il tweet arriva a commento di un post del settimanale francese Obs che riportava le preoccupazioni del Pontefice per le presidenziali del 2022. "Non voglio essere scortese né dire alla Francia cosa fare, ma è preoccupante", avrebbe detto Bergoglio. Papa Francesco avrebbe pronunciato queste parole durante un incontro con esponenti francesi sul tema della transizione ecologica. Durante il faccia a faccia, avrebbe detto: "Un amico mi ha fatto sapere che in Francia sarà presidente Marine Le Pen. Sono preoccupato per la crescita dei populismo. L'antidoto è un movimento popolare e bisogna ascoltare questo movimento. Al populismo bisogna opporre il popolarismo". Bergoglio avrebbe parlato per 40 minuti con gli esponenti della sinistra radicalizzati sull'ambiente. Eva Sadoun, imprenditrice presente, avrebbe detto al pontefice che "l'economia liberale francese ha distrutto 200.000 posti di lavoro". Papa Francesco ha replicato dichiarandosi parzialmente d'accordo e accusando la finanza, definendola "come la nebbia". Al centro dell'incontro non solo la Francia, ma anche i giovani e le politiche giovanili: il Papa ha chiesto ai ragazzi di "risvegliare" i cittadini e "fare disordine". "Davanti all'appello dei giovani i governanti minimizzano, i governi sono deboli. Sta ai più giovani e ai più vecchi dare loro coraggio". Ad organizzare l'incontro era l'eurodeputato di estrema sinistra Pierre Larrouturou, che però non ha potuto partecipare a causa della positività al Covid-19.

Perché attaccare Francesco se non “fa” bene il papa, senza chiarire prima se lo “è"? Andrea Cionci su Libero Quotidiano l'11 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

La domanda potrà sembrare inutilmente provocatoria, ma - inguaribilmente schiavi del pensiero logico - crediamo di porre un interrogativo razionale ed equidistante. Sono otto anni che il povero Francesco viene attaccato, ogni giorno, da coloro che sonodefiniti dai media del pensiero unico i tradizionalisti, (anche se essi si definiscono cattolici normali). Un flusso interminabile di critiche, lagne, reazioni scandalizzate, insofferenze. Una volta perché Bergoglio dice che Cristo fa lo scemo, o “si è fatto peccato”, un’altra perché nicchia sulla verginità di Maria, o la chiama “meticcia” e “sollievo dei migranti”, negandole il titolo di Corredentrice… E poi, levate di scudi per i complimenti della Massoneria e gli inni alla Fratellanza universale, orrore per la rugiada massonica inserita nel messale; per non parlare dello scandalo suscitato dall’adorazione della Pachamama in San Pietro e della comunione ai divorziati concessa un po’ sì e un po’ no, pari a quello delle unioni civili con cui lui personalmente concorda … E se Francesco non si inginocchia davanti al Santissimo è sacrilegio, se lo fa davanti ai dittatori africani peggio; se parla del fallimento di Dio bestemmia; se santifica i migranti piovono commenti sarcastici; se cambia, o censura il Catechismo ci si inalbera; se inventa nuovi vizi capitali e assolve Giuda, addio; se sponsorizza il neoariano Enzo Bianchi è un dramma; se vuol eliminare il celibato dei preti una tragedia; se presenta San Francesco come sincretista è una mistificazione; se dice che tutte le religioni sono uguali va contro Cristo; se insiste sul Paradiso per tutti è eretico… Insomma potremmo continuare a lungo. Lamentazioni a non finire. Va riconosciuto che, su questa pagina, abbiamo dovuto scrivere - per onore di cronaca - di varie, apparenti devianze di Francesco rispetto al deposito della fede cattolica, ma lo abbiamo fatto sine ira ac studio, da osservatori. E con olimpico distacco ci meravigliamo del fatto che se - stando alle annose accuse di molti commentatori - Bergoglio non si comporta da papa, non sembra un papa, rinuncia ai titoli da papa, non insegna come un papa, non protegge la fede come il papa, forse - a questo punto - potrebbe anche NON  ESSERE il papa? (La stessa domanda che pone Mons. Renè Henry Gracida, Vescovo Emerito di Corpus Christi, Texas, USA). Oggi si può liberamente dubitare di tutto, ma noi lo facciamo animati dalla ricerca della verità e in base a diverse incongruenze registrate nella cronaca e a numerosi interventi verbali e scritti di autorevoli cardinali, giornalisti, teologi, latinisti, giuristi,avvocati. Peraltro, non c’è alcuna dichiarazione diretta di Ratzinger circa il fatto che il papa sia Francesco, solo ricostruzioni giornalistiche, titoli, e citazioni di lettere mai esibite: di certo c’è solo che Benedetto ripete “il papa è uno solo” senza dichiarare quale. Tuttavia, ai sensi dell’art. 332 . 2 del Codice di diritto canonico, dovrebbe almeno dirci che lui ha rinunciato al munus petrino, o al papato. Ma non lo fa. Bergoglio potrebbe, dunque, non essere stato eletto validamente e, per chi ha fede, potrebbe non essere assistito dallo Spirito Santo - nella migliore delle ipotesi - o lavorare per l’”altra” parrocchia, nella peggiore. Del resto, per i cattoconservatori, la cosa non capiterebbe inaspettata, essendo stata annunciata dall’art. 675 del Catechismo, dal terzo Segreto di Fatima, da Padre Pio, da santi, beati e mistici. Una bella grana. Capite bene che, di fronte a una simile possibilità, non ha alcun senso continuare a criticare a sangue un papa se prima non si prendono in serio esame gli indizi e i testi giuridici e teologici che lo individuano come antipapa. I casi sono due.

1) Se Francesco è il vero papa, allora deve essere assistito con una certa continuità ordinaria dallo Spirito Santo, anche quando non parla ex cathedra. (Non è che il pontefice, quando “stacca dal lavoro”, nel privato può dire e fare quello che gli pare). Quindi, se i cattoconservatori non comprendono Bergoglio, evidentemente lui possiede una conoscenza superiore del magistero, vede più lontano degli altri, deve aver trovato una sottile, impalpabile, ma perfetta coerenza con la dottrina che lui è chiamato a custodire – ruolo da cui trae la sua legittimità – e che sfugge a parte del clero e dei cattolici. Evidentemente, la Pachamama a cui si sacrificano i cuccioli di lama può essere del tutto compatibile con la Madonna, che non era poi così vergine come affermano i dogmi QUI e quindi dire il Rosario a Maria o alla Pachamama è lo stesso. Insomma, cari catto-conservatori,  se non capite papa Francesco nella sua complessa strategia per “convertire a Cristo tutte le genti”, non è colpa sua, è colpa vostra. Quindi, sarebbe ora di accettare finalmente la sua autorità morale, dottrinale e farsi un bel bagno di umiltà.  

2) Oppure, semplicemente, Bergoglio non è il vero papa, ma un cardinale che ha preso un’altra strada spirituale, non cattolica, che ha raggiunto il potere in modo non legale, o per semplice errore, o per equivoco, o per dolo. E quindi, di cosa vi stupite, se - come voi dite - Bergoglio insegue il mondo, se mira a creare la religione unica per il Nuovo Ordine Mondiale massonico, se punta all’annichilimento degli stati-nazione, se assume proposizioni anticristiche, se svilisce Maria, se sta smantellando pezzo pezzo la Chiesa cattolica romana mettendola a disposizione dei “poteri forti”?

Ma, anche fosse,  non c’è più da protestare per eventuali eresie, né divagare sul Concilio vaticano II, o su altri argomenti: c’è solo da pretendere una VERIFICA GIURIDICA dei documenti con chi di dovere e nelle sedi opportune. I tempi sono maturi, e Benedetto non è proprio giovanissimo. Anche perché, nella seconda ipotesi, “morto un papa NON se ne fa un altro”, nel senso che dopo Francesco, se la sua elezione fosse invalida, non ci potrà MAI PIU’ essere un vero papa, non solo per motivi teologici, ma anche pratici, in quanto il prossimo conclave sarebbe ormai blindato da una maggioranza di cardinali elettori invalidi nominati da un papa invalido. Quindi, la questione non è una “secondaria formalità burocratica”. Facciamo un esempio elementare: immaginiamo un’armata comandata da un generale di nome Franz, il quale segue consapevolmente una strategia innovativa che però, secondo alcuni ufficiali, a livello tattico si rivela un disastro, conduce le truppe al massacro e alla perdita di materiali e posizioni, rischiando di far perdere l’intera guerra. E allora i casi sono due: o Franz è un’intelligenza strategica suprema e ancora incompresa, che nonostante alcune perdite preventivate condurrà le truppe alla vittoria definitiva, o non è il vero generale, ma un impostore e/o un traditore che si è venduto al nemico e sta distruggendo apposta il suo esercito. Se - puta caso – emergono dubbi legali e strane ambiguità sulla promozione al grado di generale per Franz, se si sospetta che il suo predecessore sia stato silurato illecitamente, allora per gli oppositori l’unica strada è chiedere a gran voce un’inchiesta per verificare se il generale Franz ha le carte in regola. Ovvio. Continuare a lagnarsi di come comanda, significa voler perdere la guerra.

Allo stesso modo: c’è un’ipotesi piuttosto circostanziata secondo cui Ratzinger ha scritto un atto invalido di presunte dimissioni ed è ancora lui il solo e unico papa, mentre Bergoglio è un antipapa. E allora è ovvio che la “QUAESTIO MAGNA”, per chi critica Francesco, deve diventare per forza di cose, ora, la VERIFICA DELLA LEGITTIMITA’ DELLA SUA ELEZIONE, connessa alla validità delle “dimissioni” di Benedetto XVI. E’ il nodo centrale, la chiave di tutto, la domanda ultima. E’ del tutto surreale continuare a criticare quello che FA  Francesco, e perché lo fa. Bisogna controllare quello che E’. Se è davvero il papa, basta critiche dai conservatori; semmai questi cerchino di capire secondo quali vie misteriose agisca in Francesco lo Spirito Santo. Se non è il vero papa, ma continua ad esserlo Benedetto, (visto che “il papa è uno solo”), allora tutte le incongruenze si spiegheranno e si dovrà aprire un altro discorso. In ogni caso, non c’è da lamentarsi. Resta solo da AGIRE per fare chiarezza.

Fausto Gasparroni per l’ANSA il 27 febbraio 2021. Papa Francesco lascia aperta la possibilità di diventare un Pontefice "emerito", quindi di rinunciare alla carica. E dice anche di non avere paura della morte e di immaginarla a Roma: comunque non tornerà in Argentina. E' quanto afferma Bergoglio in un'intervista anticipata dal quotidiano argentino La Nación. Si tratta - spiega il sito della Santa Sede, Vatican News - di un colloquio avvenuto due anni fa, il 16 febbraio 2019, con il giornalista e medico argentino Nelson Castro per un suo libro sulla salute dei Papi, "La salud de los Papas", che sta già facendo molto discutere in patria. Francesco afferma di sentirsi bene e pieno di energia, "grazie a Dio". Ricorda il "difficile momento", nel 1957, a 21 anni, quando subì l'asportazione del lobo superiore del polmone destro a causa di tre cisti. "Quando mi sono ripreso dall'anestesia, il dolore che sentivo era molto intenso". "Non è che non fossi preoccupato, ma ho sempre avuto la convinzione che sarei guarito". Sottolinea che il recupero è stato completo: "Non ho mai sentito alcuna limitazione nelle mie attività". Anche nei diversi viaggi internazionali - osserva - "non ho mai dovuto limitare o cancellare" nessuna delle attività programmate: "Non ho mai provato affaticamento o mancanza di respiro (dispnea). Come mi hanno spiegato i medici, il polmone destro si è espanso e ha coperto tutto l'emitorace omolaterale". L'intervistatore domanda al Papa se sia stato mai psicanalizzato: "Ti dico come sono andate le cose. Non mi sono mai psicanalizzato. Quand'ero provinciale dei Gesuiti, durante i giorni terribili della dittatura, in cui ho dovuto portare le persone in clandestinità per farle uscire dal Paese e salvare le loro vite, ho dovuto gestire situazioni che non sapevo come affrontare. Sono andato a trovare una signora - una grande donna - che mi aveva aiutato a leggere alcuni test psicologici per i novizi. Così, per sei mesi, l'ho consultata una volta alla settimana". Era una psichiatra: "Durante quei sei mesi, mi ha aiutato ad orientarmi su come affrontare le paure di quel tempo. Immaginate cosa sia stato trasportare una persona nascosta nell'auto - solo da una coperta - e passare tre posti di blocco militari nella zona di Campo de Mayo. La tensione che generava in me era enorme". Francesco rimarca che il colloquio con la psichiatra lo ha anche aiutato ad imparare a gestire l'ansia e ad evitare di prendere decisioni affrettate. Parla dell'importanza dello studio della psicologia per un prete: "Sono convinto che ogni sacerdote deve conoscere la psicologia umana". Quindi si sofferma sulle nevrosi: "Alle nevrosi bisogna preparare il mate. Non solo, bisogna anche accarezzarle. Sono compagne della persona durante tutta la sua vita". Francesco, come aveva già detto una volta, ricorda di aver letto un libro che lo ha interessato molto e lo ha fatto ridere di gusto: "Rejoice in Being Neurotic" (Rallegrati di essere nevrotico) dello psichiatra americano Louis E. Bisch: "È molto importante essere in grado di sapere dove le ossa cigolano. Dove sono e quali sono i nostri mali spirituali. Con il tempo, si impara a conoscere le proprie nevrosi". Il Papa parla dell'ansia di voler fare tutto e subito. Cita il celebre proverbio attribuito a Napoleone Bonaparte: "Vestitemi lentamente, ho fretta". Parla della necessità di saper rallentare. E uno dei suoi metodi è ascoltare Bach: "Mi calma e mi aiuta ad analizzare meglio i problemi". Alla fine del colloquio, il giornalista chiede al Pontefice se pensa alla morte: "Sì", risponde Francesco. Se ha paura: "No, niente affatto". E come immagina la sua morte: "Come Papa, in carica o emerito. E a Roma. Non tornerò in Argentina".

"In carica oppure emerito...". La frase del Papa sulla morte. Papa Francesco ripercorre i momenti importanti della sua vita e adesso rivela alcuni dei suoi pensieri più intimi. Federico Garau - Sab, 27/02/2021 - su Il Giornale. Non teme di morire ed immagina che ciò avverrà di certo in Vaticano (vista l'intenzione di non far ritorno in Argentina) ed in un momento in cui sarà ancora papa in carica oppure emerito: Jorge Mario Bergoglio, primo vescovo di Roma di estrazione gesuita nella storia della Chiesa, rivela durante un'intervista alcune delle sue riflessioni più intime. L'estratto del contenuto più ampio di un colloquio avvenuto circa due anni fa (per la precisione il 16 gennaio del 2019) col giornalista e medico Nelson Castro, incaricato di redigere un libro sulla salute dei papi, è stato anticipato dal quotidiano argentino "La Nacion". Papa Francesco torna con la mente al momento in cui fu costretto a sottoporsi ad un delicato intervento chirurgico: aveva infatti solo 21 anni nel 1957 quando finì sotto i ferri per l'asportazione del lobo superiore del polmone destro, resa necessaria a causa della presenza di tre cisti. Un "difficile momento", spiega Bergoglio."Quando mi sono ripreso dall’anestesia, il dolore che sentivo era molto intenso". Nonostante la situazione, comunque, il futuro pontefice era certo che sarebbe andato tutto bene. "Non è che non fossi preoccupato, ma ho sempre avuto la convinzione che sarei guarito". Oltre all'intervento chirurgico in sè, anche la ripresa successiva è stata completa, spiega ancora al giornalista. "Non ho mai sentito alcuna limitazione nelle mie attività", e questo neppure in occasione dei suoi impegni: "Non ho mai dovuto limitare o cancellare" nessun viaggio o nessuna visita programmata. "Non ho mai provato affaticamento o mancanza di respiro (dispnea). Come mi hanno spiegato i medici, il polmone destro si è espanso e ha coperto tutto l’emitorace omolaterale". Nelson Castro domanda esplicitamente a Bergoglio se abbia mai avuto necessità di sottoporsi a psicanalisi. "Ti dico come sono andate le cose. Non mi sono mai psicanalizzato", precisa il pontefice. "Quando ero provinciale dei Gesuiti, durante i giorni terribili della dittatura, in cui ho dovuto portare le persone in clandestinità per farle uscire dal Paese e salvare le loro vite, ho dovuto gestire situazioni che non sapevo come affrontare". Probabilmente questo, quindi, il momento più delicato dal punto di vista psicologico. "Sono andato a trovare una signora - una grande donna - che mi aveva aiutato a leggere alcuni test psicologici per i novizi. Così, per sei mesi, l’ho consultata una volta alla settimana". Una figura di riferimento questa donna, che svolgeva la professione di psichiatra. "Durante quei sei mesi, mi ha aiutato a orientarmi su come affrontare le paure di quel tempo. Immaginate cosa sia stato trasportare una persona nascosta nell’auto - solo da una coperta - e passare tre posti di blocco militari nella zona di Campo de Mayo. La tensione che generava in me era enorme", racconta ancora al giornalista. Dei dialoghi che sono serviti anche negli anni a venire, specie per gestire l'ansia. La psicologia viene considerata di fondamentale importanza anche in ambito religioso: "Sono convinto che ogni sacerdote deve conoscere la psicologia umana", ed in particolar modo per combattere ogni genere di nevrosi. "Alle nevrosi bisogna preparare il mate. Non solo, bisogna anche accarezzarle. Sono compagne della persona durante tutta la sua vita". Conoscere se stessi ed i propri limiti diventa necessario: "È molto importante essere in grado di sapere dove le ossa cigolano. Dove sono e quali sono i nostri mali spirituali. Con il tempo, si impara a conoscere le proprie nevrosi". In conclusione arriva il discorso sulla morte, ed il papa rivela di pensare a quel momento ma di non temerlo affatto. Come immagina avverrà la sua morte?" Come Papa, in carica o emerito", spiega Bergoglio al giornalista. "E a Roma. Non tornerò in Argentina", conclude.

 “Roma è senza papa”: le durissime argomentazioni di Aldo Maria Valli. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 20 febbraio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Come è possibile che un’ottima parte dei più autorevoli e stimati vaticanisti nel panorama giornalistico italiano, siano divenuti nel tempo, chi prima e chi dopo, fortemente critici (per usare un eufemismo) verso Francesco? Sandro Magister, Marco Tosatti, Antonio Socci, perfino il venerabile Vittorio Messori non ha risparmiato strali a Bergoglio. L’ultima bordata arriva dal mite Aldo Maria Valli, già vaticanista del Tg3, fedele cronista dei viaggi di Giovanni Paolo II. Il suo tono sempre misurato ed elegante non gli evita, stavolta, di picchiare durissimo nei contenuti. Riportiamo integralmente il suo intervento pubblicato su Radio Roma Libera:

Roma è senza papa. La tesi che intendo sostenere si riassume in queste quattro parole. Quando dico Roma non mi riferisco solo alla città di cui il papa è vescovo. Dico Roma per dire mondo, per dire realtà attuale. Il papa, pur essendoci fisicamente, in realtà non c’è perché non fa il papa. C’è, ma non svolge il suo compito di successore di Pietro e vicario di Cristo. C’è Jorge Mario Bergoglio, non c’è Pietro. Chi è il papa? Le definizioni, a seconda che si voglia privilegiare l’aspetto storico, teologico o pastorale, possono essere diverse. Ma, essenzialmente, il papa è il successore di Pietro. E quali furono i compiti assegnati da Gesù all’apostolo Pietro? Da un lato, “pasci le mie pecorelle” (Gv 21:17); dall’altro, “tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16:19). Ecco che cosa deve fare il papa. Ma oggi non c’è nessuno che svolga questo compito. “E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli nella fede” (Lc 22:32). Così dice Gesù a Pietro. Ma oggi Pietro non pasce le sue pecorelle e non le conferma nella fede. Perché? Qualcuno risponde: perché Bergoglio non parla di Dio, ma solo di migranti, ecologia, economia, questioni sociali. Non è così. In realtà Bergoglio parla anche di Dio, ma dall’insieme della sua predicazione esce un Dio che non è il Dio della Bibbia, ma un Dio adulterato, un Dio, direi, depotenziato o, meglio ancora, adattato. A che cosa? All’uomo e alla sua pretesa di essere giustificato nel vivere come se il peccato non esistesse. Bergoglio ha certamente messo al centro del suo insegnamento i temi sociali e, tranne sporadiche eccezioni, appare in preda alle stesse ossessioni della cultura dominata dal politicamente corretto, ma ritengo che non sia questo il motivo profondo per cui Roma è senza papa. Anche volendo privilegiare i temi sociali, si può comunque avere una prospettiva autenticamente cristiana e cattolica. La questione, con Bergoglio, è un’altra, e cioè che la prospettiva teologica è deviata. E per un motivo ben preciso: perché il Dio di cui ci parla Bergoglio è orientato non a perdonare, ma a discolpare. In Amoris laetitia si legge che la “Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili”. Mi spiace, ma non è così. La Chiesa deve convertire i peccatori. Sempre in Amoris laetitia si legge che “la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio”. Mi spiace, ma sono parole ambigue. Nelle situazioni che non corrispondono al suo insegnamento ci saranno pure “elementi costruttivi” (ma, poi, in che senso?), tuttavia la Chiesa non ha il compito di valorizzare tali elementi, bensì di convertire all’amore divino al quale si aderisce osservando i comandamenti. In Amoris laetitia leggiamo anche che la coscienza delle persone “può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo”. Di nuovo l’ambiguità. Primo: non c’è una “proposta generale” del Vangelo, alla quale si può aderire più o meno. C’è il Vangelo con i suoi contenuti ben precisi, ci sono i comandamenti con la loro cogenza. Secondo: Dio mai e poi mai può chiedere di vivere nel peccato. Terzo: nessuno può rivendicare di possedere “una certa sicurezza morale” circa ciò che Dio “sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti”. Queste espressioni fumose hanno un solo significato: legittimare il relativismo morale e prendersi gioco dei comandamenti divini. Questo Dio impegnato più che altro a scagionare l’uomo, questo Dio alla ricerca di attenuanti, questo Dio che si astiene dal comandare e preferisce comprendere, questo Dio che “ci è vicino come una mamma che canta la ninna nanna”, questo Dio che non è giudice ma è “vicinanza”, questo Dio che parla di “fragilità” umane e non di peccato, questo Dio piegato alla logica dell’”accompagnamento pastorale” è una caricatura del Dio della Bibbia. Perché Dio, il Dio della Bibbia, è sì paziente, ma non lassista; è sì amorevole, ma non permissivo; è sì premuroso, ma non accomodante. In una parola, è padre nel senso più pieno e autentico del termine. La prospettiva assunta da Bergoglio appare invece quella del mondo: che spesso non rifiuta del tutto l’idea di Dio, ma ne rifiuta i tratti meno in sintonia con il permissivismo dilagante. Il mondo non vuole un vero padre, amorevole nella misura in cui è anche giudicante, ma un amicone; anzi, meglio ancora, un compagno di strada che lascia fare e dice “chi sono io per giudicare?”. Ho scritto altre volte che, con Bergoglio, trionfa una visione che ribalta quella reale: è la visione secondo cui Dio non ha diritti, ma solo doveri. Non ha il diritto di ricevere un culto degno, né di non essere irriso. Però ha il dovere di perdonare. Al contrario, secondo questa visione, l’uomo non ha doveri, ma solo diritti. Ha il diritto di essere perdonato, ma non il dovere di convertirsi. Come se potesse esistere un dovere di Dio a perdonare e un diritto dell’uomo a essere perdonato. Ecco perché Bergoglio, dipinto come il papa della misericordia, mi sembra il papa meno misericordioso che si possa immaginare. Trascura infatti la prima e fondamentale forma di misericordia che compete proprio a lui e a lui solo: predicare la legge divina e, così facendo, indicare alle creature umane, dall’alto dell’autorità suprema, la strada per la salvezza e la vita eterna. Se Bergoglio ha concepito un “dio” di questo genere – che volutamente indico con la minuscola, poiché non è il Dio Uno e Trino che adoriamo – è perché per Bergoglio non vi è alcuna colpa di cui l’uomo debba chiedere perdono, né personale né collettiva, né originale né attuale. Ma se non vi è colpa, non vi è nemmeno Redenzione; e senza necessità di Redenzione non ha senso l’Incarnazione, e tantomeno l’opera salvifica dell’unica Arca di salvezza che è la Santa Chiesa. Vien da chiedersi se quel “dio” non sia piuttosto la simia Dei, Satana, che ci spinge verso la dannazione proprio nel momento in cui egli nega che i peccati e i vizi con i quali ci tenta possano uccidere la nostra anima e condannarci all’eterna perdita del Sommo Bene. Roma è dunque senza papa. Ma se nella distopia vaticana di Guido Morselli (il romanzo intitolato appunto Roma senza papa) lo era fisicamente, perché quel papa immaginario se n’era andato a vivere a Zagarolo, oggi Roma è senza papa in un modo ben più profondo e radicale. Avverto già l’obiezione: ma come puoi dire che Roma è senza papa quando Francesco è ovunque? È in tv e nei giornali. È stato sulle copertine di Time, Newsweek, Rolling Stones, perfino di Forbes e Vanity Fair. È nei siti e in un’infinità di libri. È intervistato da tutti, addirittura dalla Gazzetta dello sport. Forse mai un papa è stato così presente e così popolare. Rispondo: tutto vero, ma è Bergoglio, non è Pietro. Che il vicario di Cristo si occupi delle cose del mondo non è certo vietato, anzi. Quella cristiana è fede incarnata e il Dio dei cristiani è Dio che si fa uomo, che si fa storia, dunque il cristianesimo rifugge dagli eccessi di spiritualismo. Ma una cosa è essere nel mondo e un’altra è diventare come il mondo. Parlando come parla il mondo, e ragionando come ragiona il mondo, Bergoglio ha fatto svaporare Pietro e ha messo se stesso in primo piano. Ripeto: il mondo, il nostro mondo nato dalla rivoluzione del Sessantotto, non vuole un vero padre. Il mondo preferisce il compagno. L’insegnamento del padre, se è vero padre, è faticoso, perché indica la strada della libertà nella responsabilità. Molto più comodo è avere accanto qualcuno che si limita a farti compagnia, senza indicare nulla. E Bergoglio fa proprio questo: mostra un Dio non padre, ma compagno. Non a caso alla “chiesa in uscita” di Bergoglio, come a tutto il modernismo, piace il verbo “accompagnare”. È una chiesa compagna di strada, che tutto giustifica (attraverso un concetto distorto di discernimento) e tutto, alla fine, relativizza. La riprova sta nel successo che Bergoglio riscuote tra i lontani, i quali si sentono confermati nella loro lontananza, mentre i vicini, disorientati e perplessi, non si sentono affatto confermati nella fede. Gesù in materia è piuttosto esplicito. “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6, 26). “Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo” (Lc 6, 22). Ogni tanto torna alla ribalta una voce secondo cui anche Bergoglio, come Benedetto XVI, penserebbe di dimettersi. Io credo che non abbia in programma nulla di simile, ma il problema è ben altro. Il problema è che Bergoglio si è reso protagonista, di fatto, di un processo di dismissione dai compiti di Pietro. Ho già scritto altrove che Bergoglio è ormai diventato il cappellano delle Nazioni Unite, e ritengo che questa scelta sia di una gravità inaudita. Tuttavia, ancora più grave della sua adesione all’agenda dell’Onu e al politicamente corretto è che abbia rinunciato a parlarci del Dio della Bibbia e che il Dio al centro della sua predicazione sia un Dio che discolpa, non che perdona. La crisi della figura paterna e la crisi del papato vanno di pari passo. Così come il padre, rifiutato e smantellato, è stato trasformato in un generico accompagnatore privo di qualsiasi pretesa di indicare una strada, allo stesso modo il papa ha smesso di farsi portatore e interprete dell’oggettiva legge divina ed ha preferito diventare un semplice compagno. Pietro, così, è svaporato proprio quando avevamo più bisogno che ci mostrasse Dio in quanto padre a tutto tondo: padre amorevole non perché neutrale, ma perché giudicante; misericordioso non perché permissivo, ma perché impegnato a mostrare la strada del vero bene; pietoso non perché relativista, ma perché desideroso di indicare la via della salvezza. Osservo che il protagonismo nel quale indulge l’ego bergogliano non è una novità, ma risale in buona parte alla nuova impostazione conciliare, antropocentrica, a partire dalla quale papi, vescovi e chierici hanno anteposto se stessi al loro sacro ministero, la propria volontà a quella della Chiesa, le proprie opinioni all’ortodossia cattolica, le proprie stravaganze liturgiche alla sacralità del rito. Questa personalizzazione del papato è diventata esplicita da quando il Vicario di Cristo, volendo presentarsi come “uno come noi”, ha rinunciato al plurale humilitatis con il quale dimostrava di parlare non a titolo personale, ma assieme a tutti i suoi predecessori e allo stesso Spirito Santo. Pensiamoci: quel Noi sacro, che faceva tremare Pio IX nel proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione e san Pio X nel condannare il modernismo, non avrebbe mai potuto essere usato per sostenere il culto idolatrico della pachamama, né per formulare le ambiguità di Amoris laetitia o l’indifferentismo di Fratelli tutti. Circa il processo di personalizzazione del papato (al quale l’avvento e lo sviluppo dei mass media hanno dato un importante contributo), occorre ricordare che vi fu un tempo in cui, almeno fino a Pio XII incluso, ai fedeli non importava chi fosse il papa, perché comunque essi sapevano che, chiunque fosse, avrebbe sempre insegnato la stessa dottrina e condannato gli stessi errori. Nell’applaudire il papa essi applaudivano non tanto colui che in quel momento era sul santo soglio, ma il papato, la regalità sacra del Vicario di Cristo, la voce del Supremo Pastore, Gesù Cristo. Bergoglio, che non gradisce presentarsi come successore del principe degli apostoli e, sull’Annuario pontificio, ha fatto mettere in secondo piano l’appellativo di vicario di Cristo, implicitamente si separa dall’autorità che Nostro Signore ha conferito a Pietro e ai suoi successori. E questa non è una mera questione canonica. È una realtà le cui conseguenze sono gravissime per il papato. Quando tornerà Pietro? Quanto a lungo Roma resterà senza papa? Inutile interrogarci. I disegni di Dio sono misteriosi. Possiamo solo pregare il Padre celeste dicendo: “Sia fatta la tua volontà, non la nostra. Ed abbi pietà di noi peccatori”. Aldo Maria Valli

Evviva le favole, oggi tocca a Bergoglio populista. Peccato non sia vero! Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Attenzione attenzione! Domenica 14 La Repubblica ha recensito due libri, di cui uno, in poche righe. Ma di questo, l’autrice dell’articolo, è sicura di averlo letto? Perché si tratta del libro di Zanatta, docente universitario a Bologna, che propaga la falsa tesi secondo cui c’è un filo conduttore populista tra i gesuiti dell’America Latina, che parte con le “reducciones” (Paraguay, Argentina, Brasile, Uruguay, Bolivia tra il XVII e il XVIII secolo)  e arriva fino a Bergoglio passando per Peron, Chavez, Fidel Castro. Boom!. La tesi di Bergoglio populista era stata da me stroncata – fatti alla mano – su Il Riformista ad agosto. Ma si sa, non basta. Le fasulle teorie rinascono. Però stavolta è troppo: non basta scrivere un libro per dimostrare una tesi, specie se è costruita a tavolino. E farsi volere bene da editori ed autori parlando in positivo e a tutti i costi di un libro poco accurato, non è un bel servizio ai lettori. Oltre ad invitare alla lettura integrale del mio articolo, ecco per sommi capi la questione: Ammettiamo per un momento che il «populismo gesuita» esista davvero e che Bergoglio ne sia imbevuto. Allora perché non citare mai nemmeno una volta, per striscio o per sbaglio, i teologi argentini che hanno centrato la loro riflessione sulla «teologia del popolo»? Intendo Carlos Maria Galli, Lucio Gera, Juan Carlos Scannone, solo per citarne tre. Non sono pericolosi populisti al servizio di Peron bensi teologi di spessore che hanno influito in maniera consistente sullo sviluppo di una linea teologica non schierata politicamente. E infatti Zanatta non ne parla, perché distruggerebbero la tesi precostituita e ossessivamente ribadita: il populismo è gesuita. Ammesso (e non concesso) che sia vero il legame diretto tra populismo gesuita, populismo politico, Bergoglio (il cui peronismo, scrive Zanatta, «è naturale proiezione secolare della sua fede»; addirittura!…), in che modo troviamo questo legame nei discorsi di Papa Francesco? Dove è che Papa Francesco scrive o fa intendere che il sano e puro popolo latinoamericano e la sua cultura cristiana sono vittime designate del colonialismo ideologico e del libero commercio, cioè Usa, Occidente, razionalità illuminista? E qui viene il bello. Nei discorsi di Papa Francesco non c’è traccia. Prendiamo come riferimento il discorso del 9 luglio 2015, a Santa Cruz de la Sierra (Bolivia), rivolto al Secondo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari. Una platea ideale per scatenare il populismo gesuitico-papale, o no? La Chiesa, diceva Papa Francesco in quel discorso, «non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento». Non sembra populismo. E poi gli errori veri e propri nel libro: la descrizione della teologia della liberazione, attribuzioni sbagliate (tipo Helder Camara propugnatore della teologia della liberazione, cosa tutt’altro che vera…) e così discorrendo. Riaffermo la conclusione di quell’articolo: la tesi di fondo del libro viene declinata in maniera ideologica e sbagliata. E stupisce che una pubblicazione siffatta abbia trovato un Editore italiano così prestigioso, che pochi anni or sono aveva consulenti ben preparati sulle tematiche della religione e della Chiesa cattolica. Forse sono andati in pensione. Occorrerebbe richiamarli in servizio per evitare altre scivolate. Perché un conto sono le idee, ben diverso, come in questo caso, voler appoggiare una tesi precostituita, prendendo posizione nella polarizzazione ecclesiale in corso, senza dirlo apertamente, rendendo un pessimo servizio ai lettori.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica” il 14 febbraio 2021. Joseph Ratzinger è stato a capo della Dottrina della Fede dal 25 novembre 1981 al 2 aprile 2005. In questo lasso di tempo il dicastero da lui presieduto, che è anche "supremo tribunale", ha comminato una sola scomunica, al teologo cingalese Tissa Balasuriya: negava il dogma dell' Immacolata Concezione. Chi all' epoca lavorava con Ratzinger ricorda le 13 "ammonizioni" ricevute da padre Tissa (il diritto canonico ne prevede due) contro le ardite tesi contenute nel suo saggio Mary and the Human Liberation. La pena fu inflitta l'8 dicembre 1997 e fu tolta dallo stesso Ratzinger il 15 gennaio 1998, quando padre Zago, allora superiore generale del religioso, lo accompagnò dal cardinale per un colloquio chiarificatore. Ma i tempi cambiano e negli otto anni di una Chiesa in uscita, dispensatrice di misericordia anche per coloro che rompono un matrimonio e abbandonano moglie e figli, come ha detto il Papa alla Rota Romana, le scomuniche inflitte dalla Dottrina della Fede sono diventate molte. Attualmente, la cupola di questa strana "sezione disciplinare della Dottrina della Fede" (che leggi procedurali applica? Perché gli atti sono sempre segreti? Quanto spazio è dato alla difesa? Come vengono scelti i giudici?) è presieduta dal cardinale gesuita Ladaria Ferrer e dal vescovo Giacomo Morandi: famosi per aver stabilito che anche le accuse prodotte in anonimato vanno considerate valide. Se poi in queste vi è la minima traccia di vicende sessuali, la competenza passa al vescovo maltese Scicluna che nel settore è legislatore, inquisitore e pure giudice. Il risultato è una caterva di scomuniche come e peggio che nel XVI secolo, distribuite dopo "processi" inappellabili molto simili a esecuzioni sommarie. Nel Vangelo è scritto che tra i dannati ci sarà «pianto e stridore di denti». Forse dovrebbe valere per l' aldilà, non per l' aldiquà.

Monsignor Viganò: "Bergoglio accoglie tutte le religioni, ma non i cattolici". Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 04 febbraio 2021. Una lettera tagliente dell'arcivescovo dopo le recenti dichiarazioni di Francesco sul Concilio Vaticano II.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Le recenti parole di Francesco sul Concilio vaticano II hanno destato numerose perplessità. Nella sua ultima lettera, monsignor Carlo Maria Viganò evidenzia il fatto che nella chiesa bergogliana c’è spazio per tutti, per tutte le religioni, ma non per i cattolici critici con un concilio (pastorale, non dogmatico) che è riconosciuto da molti autorevoli studiosi e teologi come l’origine di una serie di processi che hanno condotto il Cattolicesimo verso il modernismo più spinto. Secondo Mons. Viganò si tratta ormai di un’altra religione, peraltro “anticristica”.

Riportiamo uno stralcio significativo della lettera che può essere consultata interamente qui. […] “La sollecitudine di Francesco si concentra sulla catechesi, in un monologo andato in scena il 30 gennaio scorso per il selezionato pubblico dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei. Lo spettacolo è stato offerto in occasione del LX anniversario della fondazione dell’Ufficio catechistico, «strumento indispensabile per il rinnovamento catechetico dopo il Concilio Vaticano II». In questo monologo, redatto con ogni probabilità da un qualche grigio funzionario della Cei in forma di brogliaccio e poi sviluppato a braccio grazie all’improvvisazione in cui eccelle l’Augusto oratore, ricorrono puntuali tutte le parole care ai seguaci della chiesa conciliare, prima tra tutte quel kerygma che ogni buon modernista non può mai omettere nelle sue omelie, nonostante egli ignori quasi sempre il significato del termine greco, che con ogni probabilità non sa nemmeno declinare senza inciampare in accenti e desinenze. Ovviamente l’ignoranza di chi ripete il ritornello del Vaticano II è instrumentum regni da quando al clero fu imposto di mettere da parte la dottrina cattolica per privilegiare l’approccio creativo del nuovo corso. Certo, usare la parola annuncio anziché kerygma banalizzerebbe i discorsi degli iniziati, oltre a svelare l’insofferenza sprezzante della casta nei confronti della massa, ostinatamente abbarbicata al vieto nozionismo postridentino. Non a caso i novatori detestano con tutte le forze il Catechismo di San Pio X, che nella brevità e nella chiarezza delle domande e delle risposte non lascia margini all’inventiva del catechista. Il quale dovrebbe essere – e non è più appunto da sessant’anni – colui che trasmette ciò che ha ricevuto, e non un fantomatico «memorioso» della storia della salvezza che di volta in volta sceglie quali verità trasmettere e quali lasciare da parte per non urtare i suoi interlocutori. Nella misericordiosa chiesa bergogliana, erede della chiesa postconciliare (entrambe declinazioni di uno spirito che di cattolico non ha più nulla) è lecito discutere, contestare, rifiutare qualsiasi dogma, qualsiasi verità della Fede, qualsiasi documento magisteriale e qualsiasi pronunciamento papale precedente al 1958. Poiché, secondo le parole di Francesco, si può essere «fratelli e sorelle di tutti, indipendentemente dalla fede». Qualsiasi fedele comprende bene le gravissime implicazioni dello pseudomagistero attuale, il quale contraddice sfrontatamente il costante insegnamento della Sacra Scrittura, della divina Tradizione, del Magistero apostolico. Tuttavia, l’ingenua vittima di decenni di riprogrammazione conciliare dei cattolici potrebbe credere che, in questa composita babele di eretici, di contestatori e di viziosi rimanga almeno un po’ di spazio anche per gli ortodossi, i devoti sudditi del romano pontefice e i virtuosi. Fratelli tutti, indipendentemente dalla fede? Questo principio di tollerante e indistinta accoglienza non conosce limiti se non quello appunto dell’essere cattolici. Leggiamo infatti, nel monologo di Bergoglio tenuto nella sala Clementina il 30 gennaio: «Questo è magistero: il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa. Dobbiamo in questo punto essere esigenti, severi. Il Concilio non va negoziato, per avere più di questi… No, il Concilio è così. E questo problema che noi stiamo vivendo, della selettività rispetto al Concilio, si è ripetuto lungo la storia con altri Concili». Abbia il lettore la bontà di non soffermarsi all’incerta prosa del Nostro, che nell’improvvisazione “a braccio” unisce il marasma dottrinale al massacro della sintassi. Il messaggio del discorso ai catechisti precipita nella contraddizione le misericordiose parole di Fratelli tutti, costringendo a una doverosa modifica del titolo della lettera “enciclica” in Fratelli tutti, a eccezione dei cattolici. E se è verissimo e condivisibile che i Concili della Chiesa cattolica sono parte del Magistero, altrettanto non si può dire per l’unico “concilio” della nuova chiesa, il quale – come ho più volte affermato – rappresenta il più colossale inganno che sia stato compiuto dai pastori al gregge del Signore; un inganno – repetita juvant – che si è realizzato nel momento in cui una conventicola di esperti congiurati ha deciso di usare gli strumenti di governo ecclesiastico – autorità, atti magisteriali, discorsi papali, documenti delle congregazioni, testi della liturgia – con uno scopo opposto a quello che il divino Fondatore ha stabilito quando ha istituito la Santa Chiesa. Così facendo ai sudditi è stata imposta l’adesione ad una nuova religione, sempre più palesemente anticattolica e in definitiva anticristica, usurpando la sacra Autorità della vecchia, disprezzata e deprecata religione preconciliare. Ci troviamo quindi nella grottesca situazione di sentir negare la Santissima Trinità, la divinità di Gesù Cristo, la dottrina dei suffragi per i defunti, i fini del Santo Sacrificio, la Transustanziazione, la perpetua Verginità di Maria Santissima senza incorrere in alcuna sanzione canonica (se così non fosse, quasi tutti i consultori del Vaticano II e dell’attuale curia romana sarebbero già stati scomunicati); ma «se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa». La glossa di Bergoglio a questa impegnativa condanna di qualsivoglia critica del Concilio lascia davvero increduli: «A me fa pensare tanto un gruppo di vescovi che, dopo il Vaticano I, sono andati via, un gruppo di laici, dei gruppi, per continuare la “vera dottrina” che non era quella del Vaticano I: “Noi siamo i cattolici veri”. Oggi ordinano donne». Andrebbe notato che «un gruppo di vescovi, un gruppo di laici, dei gruppi» che rifiutarono di aderire alla dottrina definita infallibilmente dal Concilio ecumenico Vaticano I vennero immediatamente condannati e scomunicati, mentre oggi sarebbero accolti a braccia aperte «indipendentemente dalla fede»; e che i papi che allora condannarono i veterocattolici, condannerebbero oggi il Vaticano II, e sarebbero accusati da Bergoglio di «non stare con la Chiesa». D’altra parte, le lettrici e le accolite di recente invenzione non preludono a null’altro se non a quell’«oggi ordinano donne» cui invariabilmente approdano quanti abbandonano l’insegnamento di Cristo. Curiosamente l’apertura ecumenica, il sentiero sinodale e la pachamama non impediscono di mostrarsi intolleranti nei confronti dei cattolici che hanno l’unico torto di non voler apostatare dalla Fede. Eppure, quando Bergoglio parla di «nessuna concessione a coloro che cercano di presentare una catechesi che non sia concorde al magistero della Chiesa», egli sconfessa se stesso e il presunto primato della pastorale sulla dottrina, teorizzato in Amoris lætitia come conquista di chi costruisce ponti e non muri, per usare un’espressione cara ai cortigiani di Santa Marta. Così d’ora innanzi potremmo aggiornare l’incipit del Simbolo atanasiano: «Quicumque vult salvus esse, ante omnia opus est, ut teneat Modernistarum hæresim». + Carlo Maria Viganò, Arcivescovo

3 febbraio 2021 Sancti Blasii Episcopi et Martyris

DAGONOTA il 15 gennaio 2021. Domani mattina, 16 gennaio, i vertici della comunicazione vaticana Paolo Ruffini e Andrea Tornielli sono stati convocati dal Papa. Probabilmente non succederà, almeno non subito, ma tra gli addetti ai lavori (e ai livori con la tonaca) quasi tutti sperano che questa sia la volta buona perché i due, facendo appello a un minimo di dignità, approfittino della probabile sfuriata papale per togliere il disturbo. Bergoglio non ha gradito la censura che i media vaticani attuano continuamente ogni volta che decide di concedere un'intervista oppure di partecipare a qualche evento comunicativo come prefare qualche libro, registrare un video messaggio o altro. La goccia che ha fatto tracimare il vaso è stata l’ennesima protervia operata dai media vaticani (il fatto è stato da loro totalmente ignorato) sull'intervista data da Papa Francesco a ‘’Sportweek’’, di inizio anno. La rivista ha anche distribuito un libro con i pensieri finora espressi dal Papa sul calcio e dintorni. Alcuni estratti dell'intervista del settimanale erano stati anticipati sulla Gazzetta dello Sport il 2 gennaio. Quanto invece all'apparizione del Papa sulle reti del Biscione, la richiesta giaceva nei cassetti del Dicastero della Comunicazione da molti anni, dai tempi di don Dario Viganò e lì sarebbe restata se dopo l'ennesima censura subita, al Papa argentino sono girati i bergoglioni. E' stato lui a far prendere contatto diretto con Fabio Marchesi Ragona, il bravo vaticanista che ha de-ciellinizzato l'informazione religiosa del Biscione, e a mettersi d'accordo sui tempi e modi di realizzazione. La vera esclusiva mondiale il Papa l'aveva data al Tg1 il 3 aprile, quando al Tg delle 20 aveva consegnato il messaggio per le famiglie del mondo ripreso dai network dell'intero pianeta. E quindi nessuno in Vaticano si è meravigliato se venerdì 8 gennaio siano state fonti del Tg1 (che lo avevano certamente appreso da fonte diretta) ad avvertire la sala stampa vaticana, all'oscuro come sempre di tutto, dell'avvenuta registrazione e dell'imminente messa in onda del Papa sulle reti della concorrenza. Mediaset, che si è ben guardata dal far uscire la sua "esclusiva mondiale" il sabato per non disturbare la De Filippi, ha usato l'artiglieria pesante bombardando le sue reti di spot e raccogliendo, tutto sommato, anche abbastanza poco. Il clou della serata è stata ovviamente l'intervista di Bergoglio che ha superato il 19 di share mentre i programmi Amadeus e Elena Sofia Ricci, in onda nella stessa fascia oraria, non perdevano nulla dei loro ascolti, attestandosi come di consueto oltre il 17 e il 22 per cento. La serata Mediaset comprendeva anche un film e un dibattito che non hanno avuto alcun tipo di exploit, attestandosi sotto i risultati domenicali di Canale 5. L'aspetto positivo per la Rai è l'apertura di una prima, e seria riflessione, sui suoi vaticanisti, mammasantissimi (e mammasantissime) intoccabili perché presunti garantiti da questo e quello, tutti sicuri di avere contatti potenti e alti, con almeno un'intervista al Papa nel cassetto, tutti rivelatisi invece come degli scappati di casa, appartenenti alla categoria “cattolici di professione” autoreferenziati, miracolati da chissà chi, certamente non dal Papa o dal Vaticano. Il quale, dopo la stagione d'oro della vaticanistica Rai terminata nella seconda decade del 2000, è fortemente tentata di togliere la trasmissione degli eventi papali alla nostra radio televisione di stato. Cosa che, tutto sommato, andrebbe anche a vantaggio della Rai che per il Vaticano spende generosamente ricavandone solo dispute e pettegolezzi dai soliti tre o quattro cortigiani di turno. E che si vede costretta a sopportare, da anni, che tutti i membri dell'ufficio comunicazioni sociali della Cei abbiano il contratto di autori della trasmissione "A sua immagine" (una macchinetta mangiasoldi ormai vecchia di quasi 40 anni) e che alcuni di loro abbiano anche contratti nella fascia di Uno Mattino gestita da Rai Uno.

Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 17 gennaio 2021. Le chiacchiere intorno a Borgo Pio resistono anche al lockdown e da un po' di tempo si sussurrava che le azioni del direttore editoriale dei media vaticani, Andrea Tornielli, fossero in ribasso tra le sacre stanze, caduto in disgrazia agli occhi del supremo editore, papa Francesco. Nessuno però sembrava dar peso alla cosa, ma proprio venerdì Dagospia, sempre rapido ed efficace, aveva anticipato una riunione che poi effettivamente ha avuto luogo ieri mattina: «Non fate girare i bergoglioni al Papa», titolava Dago, «i vertici della comunicazione vaticana Paolo Ruffini e Andrea Tornielli sono stati convocati dal Pontefice che non ha gradito la censura che attuano ogni volta che decide di concedere un'intervista». In effetti anche La Verità è in grado di confermare che nel caso di domenica scorsa, quando Francesco ha occupato il prime time di Canale 5 rispondendo alle domande del vaticanista Fabio Marchese Ragona, tra la sala stampa e Vatican news si cadeva un po' dalle nubi. Il Papa, infatti, ha agito di sua sponte dicendo sì alla richiesta che da tempo giaceva nei cassetti per un' intervista con le reti Mediaset. La catena di montaggio ufficiale dei media vaticani è stata più o meno all' oscuro di tutto e si è trovata il piatto con l' intervista già cucinato. Pare che non sia la prima volta che capiti e non sempre i comunicatori vaticani riescono a maneggiare con cura le chiacchierate che il Papa ama concedersi con giornalisti e media di vario tipo. Ieri mattina quindi la conferma dell' udienza con i vertici dei media vaticani. La sala stampa, infatti, ha diramato la lista delle udienze papali e tra i convocati figurava «il dottor Paolo Ruffini, prefetto del dicastero per la Comunicazione». Non c' era il nome di Tornielli, ma normalmente se non si è vescovi o prefetti il nome non compare nella tabella. Resta il fatto che le chiacchiere sui malumori papali per alcune scelte dei suoi fidati comunicatori sono confermate. Tra le altre cose non è andato giù al Papa il silenzio che è stato fatto calare dai media di casa sulla sua intervista «sportiva», quella concessa a Sportweek e anticipata dalla Gazzetta dello Sport il 2 gennaio scorso. Il copione non è nuovo. Francesco in questi anni ha abituato la Curia a saltare i passaggi tradizionali, se sente una cosa, o gliela suggerisce un suo fidato, procede senza ascoltare chi per ufficio dovrebbe coadiuvarlo. È stato il caso persino di documenti del magistero, come ad esempio l' enciclica Laudato si' o l' esortazione apostolica Amoris laetitia. Rimanendo dalle parti del mondo della comunicazione vaticana, uno dei settori di Curia più riformati, molti ricorderanno la defenestrazione da parte del Papa dell' allora dominus don Dario Edoardo Viganò, per la questione antipatica della lettera del Papa emerito manipolata artatamente per arruolare Benedetto XVI a sostegno di alcuni libretti a favore della teologia di papa Francesco. Era il marzo 2018, poi venne il tempo di far fuori l' allora direttore dell' Osservatore romano, Giovanni Maria Vian, «promosso» al rango di emerito e sostituito da Andrea Monda, professore e scrittore. Il nome di Monda pare essere stato proprio caldeggiato al Papa da Tornielli e dal super consigliere padre Antonio Spadaro. Peccato che fino alla sera prima del defenestramento l'ex direttore dell' Osservatore Romano non ne sapesse assolutamente nulla. Un fulmine a ciel sereno, come quello che ha squarciato un tranquillo pomeriggio dello scorso settembre del cardinale Angelo Becciu, il quale si è visto convocato dal Papa per essere, per dire così, «scardinalato» e allontanato dai suoi incarichi. Un gesto, ha commentato il 25 settembre Luis Badilla, direttore del sito paravaticano Il Sismografo, che «assomiglia a una "esecuzione": sei accusato di ma non puoi difenderti (tranne che tramite la stampa)». Il Papa, chiosava ancora Badilla, «nonostante i suoi poteri, non è un giudice né un tribunale». Però dalle parti di Santa Marta tutti sanno che quando qualche collaboratore del Papa cade in disgrazia ai suoi occhi, Francesco non si fa troppi problemi a dargli il benservito. Qualcuno allora parla di possibili dimissioni anche per i vertici della comunicazione vaticana, ma al momento tutto tace. Fidatissimo (ex?) consigliere del Papa contro gli antibergogliani, nel 2016 Andrea Tornielli da coordinatore di Vatican insider per La Stampa forniva una mappa dei nemici: è forse passato nella lista nera? Difficile pensarlo, capace com' è di sapersi muovere molto bene. Già noto per essere il principe dei vaticanisti italiani, Andrea Tornielli è stato direttore del portale plurilingue della Stampa, Vatican Insider, autore di un bestseller con papa Francesco, saggista, già vaticanista del Giornale. Ciellino d'origine, biografo dei Papi, ha una grande capacità di adattamento alle situazioni, ma con Francesco non è semplice. Il Papa ha detto più volte di riconoscere per sé la virtù della «santa furbizia», e anche se Tornielli ama dilettarsi con il mentalismo speriamo per lui che non incappi in qualche somma ramanzina.

Lorenzo Bertocchi per “la Verità” il 18 gennaio 2021. Lo smarrimento dalle parti dei media vaticani che la Verità aveva segnalato ieri è confermato. Anzi, probabilmente si comprende il perché di quelle antipatiche chiacchiere sul malcontento del Papa rispetto ai vertici del dicastero, con il direttore editoriale, Andrea Tornielli, in testa. Francesco, lo scrivevamo ieri, è scontento della copertura mediatica che Vatican news e tutti i satelliti della comunicazione della Santa sede hanno dato all'intervista che il Pontefice ha concesso a Canale 5 e a Sportweek. La Verità è venuta in possesso di un messaggio di posta elettronica circolato sabato 9 gennaio tra i redattori, un giorno prima della messa in onda dell'intervista che Francesco ha concesso al vaticanista di Mediaset Fabio Marchese Ragona.Il messaggio nell'oggetto riporta chiaramente che si tratta di «indicazioni» sull'intervista «Papa-Canale 5» e lo invia un coordinatore di Vatican news, Alessandro De Carolis, ai collaboratori. Il riferimento è per l'«anticipazione» della video intervista del Papa che circolava già da sabato 9 gennaio, e l'indicazione che viene data «su questo argomento» lascia a bocca aperta: queste notizie «non vanno socializzate». In effetti la consegna, che probabilmente il coordinatore ha ricevuto dalla cabina di regia editoriale, è stata rispettata, perché sui social ufficiali di Vatican news non c'è nulla sull'intervista di Francesco a Canale 5 fino a domenica 10 gennaio alle 23:09, 8 minuti dopo che una sintesi, non firmata, dell'intervista era stata pubblicata sul portale della Santa Sede. Peraltro risulta alla Verità che i media vaticani si fossero trovati l'intervista del Papa un po' tra capo e collo, in zona Cesarini, senza aver ricevuto alcuna informazione precedente, anche perché sembra che il Papa avesse attivato il contatto con Mediaset senza coadiuvarsi con i capi della sua comunicazione. Appare quindi del tutto evidente che per ragioni a noi oscure qualcuno nei media vaticani, cioè quelli che dovrebbero fare da grancassa alle parole del Papa, giusto per rammentarlo, aveva deciso che alle parole del Papa a Canale 5 era meglio dare poca importanza. Anzi, nella mail di De Carolis si invitano addirittura le redazioni a «continuare a seguire la vicenda del Boing precipitato poco dopo il decollo a Giacarta». Con tutto il rispetto per la tragedia aerea consumata il 9 gennaio scorso, fa comunque impressione questa «indicazione» che odora ancor più di censura casalinga all'intervista del Papa; tutti ne stavano parlando, ma a Vatican news, invece, bisognava «non socializzare». A questo punto c'è da scommettere che la convocazione di sabato scorso in udienza dal Papa dei vertici del dicastero della comunicazione deve essere stata un po' antipatica. Tutto lascia pensare che una bella ramanzina papale, nella prospettiva della parresia, sia andata in onda, e Paolo Ruffini e Andrea Tornielli forse avranno dovuto spiegare scelte editoriali che l'editore sommo potrebbe non aver compreso. Tutte le sedie tremano perché tutti in Vaticano sanno che anche per i fedelissimi Francesco non si fa problemi, qualora lo ritenga, ad accompagnarli verso la porta.Il Papa della «Chiesa in uscita» difficilmente può comprendere le motivazioni per cui una sua intervista, data per una prima serata in Tv, debba essere «non socializzata». Forse la decisione editoriale di non dare importanza alle parole del Papa a Canale 5 sarà stata dovuta a possibili brutti commenti social che talora appaiono in uscite papali come questa, come peraltro conferma anche la pubblicazione sul Facebook di Vatican news delle 23:09 del 10 gennaio. Oppure, si è deciso di stare fermi per evitare fraintendimenti, visto che il Papa si era mosso da solo e i capi dei media vaticani navigavano al buio. Comunque la si voglia interpretare la faccenda puzza di bruciato, come minimo evidenzia una fase del papato di Francesco in un crescendo di caos anche tra i suoi uomini più fidati. Quando l'ex direttore della Sala stampa vaticana, l'americano Greg Burke, e la sua vice, la spagnola Paloma Ovejero, se ne andarono sbattendo un po' la porta, il 1° gennaio 2019, molti gettarono acqua sul fuoco. Ma in realtà la motivazione di quel gesto inaspettato era chiara: non ci stavano a lavorare, da seri professionisti quali sono, alle nuove condizioni. E tra le nuove condizioni c'era proprio la riformata catena di montaggio dell'informazione vaticana in cui il direttore editoriale Andrea Tornielli, allora da poco nominato, veniva ad assumere un ruolo fondamentale e di conseguenza quello del direttore della Sala stampa decisamente minimizzato, quasi al rango di passacarte. Greg Burke e la Ovejero ritenevano probabilmente di non poter svolgere bene il loro lavoro e se ne andarono. Perché seguire un Papa pirotecnico come Francesco non è facile per un giornalista, a maggior ragione con una struttura riformata come quella attuale che ha sollevato diversi malumori tra le sacre stanze. È probabile che ora di questo si stiano accorgendo anche gli attuali vertici delle comunicazioni vaticane, ma quella di «non socializzare» un'intervista del Papa è davvero una scelta notevole che, per quanto «furba», potrebbe non esserlo abbastanza per la «santa furbizia» di Francesco.

Il Papa: il mondo ha bisogno di unità e fratellanza per superare la crisi.

Vatican News l'11 gennaio 2021. Intervista del Papa al Tg5: dalla pandemia alla difesa della vita e dei deboli, ancora al valore dell’unità nella politica e nella Chiesa, Francesco si sofferma sui grandi temi di attualità all’inizio del nuovo anno e invita tutti a vaccinarsi e a riscoprire il valore della fede come dono di Dio.

Riscoprirsi più uniti, più vicini a chi soffre, sentirsi fratelli per superare assieme la crisi mondiale causata dalla pandemia. All’inizio dell’intervista al Tg5, trasmessa domenica sera 10 gennaio, Francesco ribadisce che “da una crisi mai si esce come prima, mai. Usciamo migliori o usciamo peggiori”. Per il Papa, “si deve fare la revisione di tutto. I grandi valori ci sono sempre nella vita, ma i grandi valori vanno tradotti nella vita del momento”. Enumera dunque una serie di situazioni drammatiche, dai bambini che soffrono la fame e non possono andare a scuola alle guerre che sconvolgono molte aree del pianeta. “Le statistiche delle Nazioni Unite – sottolinea – sono spaventose su questo”. Avverte che se noi usciremo dalla crisi “senza vedere queste cose, l’uscita sarà un’altra sconfitta. E sarà peggiore. Guardiamo solo questi due problemi: i bambini e le guerre”.

Vaccinarsi è un’azione etica. Il Papa risponde poi ad una domanda del giornalista Fabio Marchese Ragona sui vaccini. “Io – afferma – credo che eticamente tutti devono prendere il vaccino. Non è una opzione, è un’azione etica. Perché ti giochi tu la salute, ti giochi la vita, ma anche giochi la vita degli altri”. E spiega che nei prossimi giorni inizieranno le vaccinazioni in Vaticano e anche lui si è “prenotato” per questo. “Sì, si deve fare”, ripete, “se i medici lo presentano come una cosa che può andare bene e che non ha dei pericoli speciali, perché non prenderlo? C’è un negazionismo suicida, in questo, che io non saprei spiegare”. Per il Pontefice, questo è il tempo di “pensare al noi e cancellare per un periodo di tempo ‘l’io’, metterlo tra parentesi. O ci salviamo tutti con il ‘noi’ o non si salva nessuno”. Su questo parla diffusamente offrendo la sua riflessione sul tema che gli è caro della fraternità. “Questa – osserva – è la sfida: farmi vicino all'altro, vicino alla situazione, vicino ai problemi, farmi vicino alle persone”. Nemica della vicinanza è “la cultura dell'indifferenza?”. Si parla - constata - “di un sano menefreghismo dei problemi, ma il menefreghismo non è sano. La cultura dell'indifferenza distrugge, perché mi allontana”.

È il “tempo del noi” per superare la crisi. “L’indifferenza – osserva – ci uccide, perché ci allontana. Invece la parola chiave per pensare le vie di uscita dalla crisi è la parola vicinanza”. Se non c’è unità, vicinanza, ammonisce il Papa, “si possono creare delle tensioni sociali anche all'interno degli Stati”. Parla così della “classe dirigenziale” nella Chiesa come nella vita politica. In questo momento di crisi, è la sua esortazione, “tutta la classe dirigenziale non ha diritto di dire ‘io’ … deve dire ‘noi’ e cercare una unità di fronte alla crisi”. In questo momento, riafferma con forza, “un politico, un pastore un cristiano, un cattolico anche un vescovo, un sacerdote, che non ha la capacità di dire ‘noi’ invece di ‘io’ non è all’altezza della situazione”. E soggiunge che i “conflitti nella vita sono necessari, ma in questo momento devono fare vacanza”, fare spazio all’unità “del Paese, della Chiesa, della società”.

Aborto è questione umana prima che religiosa. Francesco rileva che la crisi dovuta alla pandemia ha acuito ancora di più la “cultura dello scarto” nei confronti dei più deboli, siano essi poveri, migranti o anziani. Si sofferma in special modo sul dramma dell’aborto che scarta i bambini non voluti. “Il problema dell’aborto – avverte – non è un problema religioso, è un problema umano, pre-religioso, è un problema di etica umana” e poi religioso. “È un problema che anche un ateo deve risolvere in conoscenza sua”. “È giusto – si chiede il Pontefice – cancellare una vita umana per risolvere un problema, qualsiasi problema? È giusto affittare un sicario per risolvere un problema?”.

Capitol Hill, imparare dalla storia: mai la violenza. Il Papa non manca di commentare i drammatici fatti di Capitol Hill del 6 gennaio scorso. Confida di essere “rimasto stupito”, considerata la disciplina del popolo degli Stati Uniti e la maturità della sua democrazia. Tuttavia, rileva, anche nelle realtà più mature, sempre c’è qualche cosa che non va quando c’è “gente che prende una strada contro la comunità, contro la democrazia contro il bene comune”. Ora che questo è scoppiato, prosegue, si è potuto “vedere bene” il fenomeno e si può “mettere il rimedio”. Francesco condanna la violenza: “Dobbiamo riflettere e capire bene e per non ripetere, imparare dalla storia”, questi “gruppi para-regolari che non non sono ben inseriti nella società, prima o poi faranno queste azioni di violenza”.

La fede, un dono da chiedere al Signore. Il Papa risponde infine su come personalmente stia vivendo le restrizioni dovute alla pandemia. Confida di sentirsi “ingabbiato”, si sofferma sui viaggi annullati per evitare gli assembramenti, parla della speranza di visitare l’Iraq. In questo tempo, dedica più tempo alla preghiera, a parlare attraverso il telefono e ribadisce quanto siano stati importanti per lui alcuni momenti come la Statio Orbis in San Pietro il 27 marzo scorso, “un’espressione di amore a tutta la gente” e che fa “vedere strade nuove per aiutarsi l’un l’altro”. Offre così una riflessione sulla fede nel Signore, che - dice - è innanzitutto “un dono”. “Per me – afferma – la fede è un dono, né tu né io né nessuno può avere fede con le proprie forze: è un dono che ti dà il Signore”, che non si può comprare. Riprendendo quindi un passo del Deuteronomio, Papa Francesco esorta a invocare la “vicinanza di Dio”. Questa vicinanza “nella fede è un dono che dobbiamo chiedere”. L’intervista si conclude con l’auspicio che nel 2021 “non ci siano gli scarti, che non ci siano atteggiamenti egoistici” e che l’unità possa prevalere sui conflitti.

INTERVISTA PAPA FRANCESCO DIRETTA VIDEO CANALE 5/ “Fede dono di Dio, aprite il cuore”. Hedda Hopper il 10.01.2021 su In Sussidiario.it.  Papa Francesco, intervista Tg5: diretta video streaming Canale 5 oggi 10 gennaio: Covid, guerre, aborto e vaccino. “Fede dono di Dio, aprite il vostro cuore”, afferma il Santo Padre.

Papa Francesco al Tg5. Papa Francesco nell’intervista al Tg5 parlando della cultura dello scarto tira in ballo anche i migranti: «Lasciarli affogare per risolvere dopo il problema non va bene. Nessuno lo fa intenzionalmente, è vero, ma se non li aiuti…». Invece sull’assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti: «Sono rimasto stupito, ma è una realtà. C’è sempre qualcosa che non va, anche nelle realtà più mature. Ora che questo problema è venuto fuori si può porre rimedio. La violenza va condannata». C’è qualcosa che però la pandemia ha creato: tanta gente si è affidata a Dio, trovando la fede. «Per me è un dono – spiega il Pontefice -. Nessuno può avere fede con le proprie forze, è un dono che ti dà il Signore. Io credo perché ho ricevuto questo dono, gratuito. Non si può comprare la fede. Tante volte nelle difficoltà la gente si apre e riceve questo dono. Bisogna aprire il cuore per ricevere questo dono. Tanti non hanno questa capacità, non voglio giudicare, ma si chiudono di più. Se non viene come dono, non è fede». E quindi chiarisce: «Dio è vicino, ma Gesù Cristo si è fatto più vicino. La vicinanza di Dio è quella che dobbiamo avere, dobbiamo chiedere questo dono». Bergoglio ha parlato poi della sua quotidianità, raccontando come è cambiata: «Sono ingabbiato, poi mi sono calmato e ho preso la vita come viene. Si prega di più, si parla di più, si usa di più il telefono e si fanno più riunioni per risolvere i problemi. Quando ho fatto le preghiere pubbliche, si percepisce il dolore ma anche l’amore. Ho dovuto cancellare viaggi, perché non posso causare assembramenti. Ora non so se si farà quello in Iraq. La vita è cambiata, ma il Signore ci aiuta». Infine, un augurio: «Di uscire migliori dalla crisi. Dovete prendere coraggio e pensare agli altri. Non ci sia la cultura dello scarto e dell’indifferenza, ma della fratellanza e vicinanza. Auguro che non ci sia la cultura dell’io nei gruppi dirigenziali, religiosi, imprenditoriali o politici. All’io penseremo dopo, l’unità è più grande del conflitto. E pregate di più». (agg. di Silvana Palazzo)

Papa Francesco “Aborto non è un problema religioso”. La pandemia Covid ci ha allontanati fisicamente, ma non deve allontanarci anche spiritualmente. «La nuova sfida è la vicinanza, delle persone e dei problemi. C’è questa cultura dell’indifferenza, ma questa cultura distrugge, perché allontana. Senti dire spesso “Non possiamo risolvere tutti i problemi”, ma bisogna puntare sulla vicinanza. Io mi avvicino alla gente, a quella che soffre, per aprire la strada per andare avanti», spiega Papa Francesco nell’intervista concessa al Tg5. Questo è un tema che riguarda anche la politica. «Pensiamo alla classe dirigenziale. Ha il diritto di avere punti di vista diversi, ma in questo tempo si deve giocare per l’unità, sempre. Non c’è il diritto di allontanarsi dall’unità». La politica è una delle attività più nobili, ma deve perseguire il bene comune. Il Santo Padre osserva: «I partiti sono strumenti, ma se i politici sottolineano più l’interesse personale rovinano. In questo momento la politica non ha diritto di dire “io” ma “noi”. L’egoismo non è la soluzione ai problemi». Quindi, lancia loro un appello: «Con l’unità si perdono le elezioni? Non è questo il momento della raccolta, ma è quello della semina del bene comune. Perdi un’opportunità? Ne avrai un’altra. Ma non puoi fare i tuoi interessi sulla pelle degli altri». C’è un problema economico grave, per affrontarlo bisogna cambiare atteggiamento: «Non bisogna dare risposte alle persone, ma far loro domande per capire di cosa hanno bisogno. Qui a Roma ho visto tante cose buone: gente che ha capito questo ed è uscita in strada ad aiutare gli altri. La speranza si semina con la vicinanza. Dobbiamo essere audaci, creativi nel trovare strade di vicinanza. Nessuno si salva da solo, questo è molto semplice». Papa Francesco ha parlato poi di quella cultura dello scarto: «Le persone che non sono utili si scartano. Si scartano i bambini non volendovi o rifiutandoli se hanno qualche malattia o se non è voluto, così gli anziani, i malati e i migranti». Si arriva inevitabilmente al delicato tema dell’aborto: «Non volevo arrivare a questo, ma tu mi hai tirato la lingua. L’aborto non è un problema religioso, ma umano. Questo è un problema di etica umana, anche un ateo deve risolverlo in coscienza sua. Io chiedo: è giusto cancellare una vita umana per risolvere un problema? È giusto affittare un sicario per risolvere un problema? Questo è il problema dell’aborto, scientificamente e umanamente, la religione arriva dopo». (agg. di Silvana Palazzo)

Papa Francesco “Realismo per uscire migliori da Covid”. “Il mondo che vorrei”, questo il titolo dell’intervista concessa da Papa Francesco al Tg5 in esclusiva mondiale. E comincia con un gesto di estrema gentilezza del Santo Padre: «Grazie a te, che ti sei disturbato a venire. Grazie a te», dice al giornalista Fabio Marchese Ragona che lo ha ringraziato per avergli concesso quell’incontro. Si comincia dalla pandemia Covid e da una domanda comune: da dove ripartire? «Io parto da una certezza: la pandemia è una crisi, ma da una crisi non si esce mai come prima. Mai. Usciamo migliori o peggiori. Questo è il problema: come uscire migliori e non peggiori? Dipende da noi. Se vogliamo uscirne migliori, c’è una strada da seguire. Per uscirne migliori dobbiamo rivedere tutto. I grandi valori ci sono sempre stati, non cambiano con la storia, ma vanno tradotti nella realtà». Ma ci sono problemi da affrontare che esistono da ben prima della pandemia: «Le statistiche delle Nazioni Unite sono spaventose. Pensa ai bambini che nascono in guerra e crescono senza conoscere l’odore della pace». Bisogna quindi anche perseguire la pace: «Noi siamo già nella Terza guerra mondiale, solo che è a pezzi. I bambini e le guerre, sono problemi gravi. Per questo dico: dobbiamo puntare alle cose concrete. Con un mese di spese di guerra si darebbe da mangiare a tutta l’umanità. Dobbiamo essere realisti, oggi ci vuole realismo». (agg. di Silvana Palazzo)

Papa Francesco su Capitol Hill. In attesa dell’intervista integrale a breve in versione integrale su Canale 5 – e dopo le diverse anticipazioni che potete trovare nei focus qui sotto – Papa Francesco nell’Angelus di oggi è tornato sui fatti avvenuti a Capitol Hill negli scorsi giorni, al termine della consueta recita della preghiera a mezzogiorno: «rivolgo un affettuoso saluto al popolo degli Stati Uniti d’America, scosso dal recente assedio al Congresso. Prego per coloro che hanno perso la vita – cinque –, l’hanno persa in quei drammatici momenti. Ribadisco che la violenza è autodistruttiva sempre. Nulla si guadagna con la violenza e tanto si perde». Papa Bergoglio ha poi esortato le Autorità dello Stato americano e l’intera popolazione «a mantenere un alto senso di responsabilità, al fine di rasserenare gli animi, promuovere la riconciliazione nazionale e tutelare i valori democratici radicati nella società americana. La Vergine Immacolata, Patrona degli Stati Uniti d’America, aiuti a tenere viva la cultura dell’incontro, la cultura della cura, come via maestra per costruire insieme il bene comune; e lo faccia con tutti coloro che abitano in quella terra». (agg. di Niccolò Magnani)

Papa Francesco intervistato su Canale 5. Intervista a Papa Francesco in onda oggi, 10 gennaio, su Canale5 a partire dalle 20.35 circa, subito dopo il TG5 della sera. Sarà un incontro in esclusiva mondiale quello che Canale5 porterà questa sera in onda nel prime time, un colloquio intimo e vario concesso al giornalista Fabio Marchese Ragona, avvenuto nella residenza Santa Marta in Vaticano, e in cui il Pontefice argentino ha affrontato vari temi della nostra  tra cui: la pandemia, il vaccino, i disordini negli Stati Uniti e l’aborto. Temi caldi che sicuramente attireranno l’attenzione di molti sullo speciale e, molto probabilmente, anche polemiche, complimenti e critiche come spesso avviene per i grandi leader. Papa Francesco avrà poi modo di parlare anche di come è cambiata la sua vita a causa del virus.

Le anticipazioni dell’intervista di Fabio Marchese Ragona. Come già anticipato, sono diverse le tematiche presenti nella lunga intervista “intima” tra Papa Francesco e Fabio Marchese Ragona a partire dall’enorme “sfida” della pandemia da Covid: condanna netta di Papa Francesco al mondo No Vax, con parole molto dure «C’è un negazionismo suicida che io non saprei spiegare, ma oggi si deve prendere il vaccino […] Io credo che eticamente tutti debbano prendere il vaccino, è un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita di altri». Il suo “Sì vax” si permea in una spiegazione alquanto semplice della situazione: «Quando ero bambino – spiega Bergoglio – ricordo che c’è stata la crisi della poliomelite e tanti bambini sono poi rimasti paralitici per questo e c’era la disperazione per fare il vaccino. Quando è uscito il vaccino te lo davano con lo zucchero e c’erano tante mamme disperate… poi noi siamo cresciuti all’ombra dei vaccini, per il morbillo, per quello, per quell’altro, vaccini che ci davano da bambini… Non so perché qualcuno dice: "no, il vaccino è pericoloso", ma se te lo presentano i medici come una cosa che può andare bene, che non ha dei pericoli speciali, perché non prenderlo?». Inevitabile poi l’accenno alle recentissime incresciose scene giunte dal Congresso Usa, assaltato dai fan pro-Trump con purtroppo anche 4 morti negli scontri: «Anche nella realtà più matura sempre c’è qualcosa che non va, di gente che prende una strada contro la comunità, contro la democrazia, contro il bene comune. Grazie a Dio questo è scoppiato e si è potuto vedere bene perché così si può mettere il rimedio». La violenza per il Papa c’è e rimarrà sempre purtroppo, «Nessun popolo può vantarsi di non avere un giorno un caso di violenza, succede nella Storia», ma, sostiene, «dobbiamo capire bene per non ripetere, imparare dalla Storia». (a cura di Niccolò Magnani)

Lo speciale Papa Francesco su Canale 5. L’intervista esclusiva a Papa Francesco andrà in onda su Canale5 ma sarà disponibile anche in diretta streaming sul sito Mediaset Play raggiungibile cliccando qui proprio a partire dalle 20.35. Subito dopo il video dovrebbe essere disponibile nella sezione on demand del sito ma potrebbe non essere visibile al di fuori dei confini Nazionali. Nella serata, dedicata interamente a Papa Francesco, dopo l‘intervista seguirà la proiezione del film Mediaset “Chiamatemi Francesco – il Papa della gente” con la storia personale di Jorge Mario Bergoglio figlio di immigrati italiani in Argentina, dalla gioventù alla vocazione e alla nomina a Papa di otto anni fa. Al termine del film, un commento speciale curato dal Tg5 condotto da Cesara Buonamici alla presenza di opinionisti o esperti.

L'anno che ha sconvolto i piani di papa Francesco. Il 2020 ha cambiato pure la Chiesa di Francesco. Il Papa si è dovuto confrontare con un anno davvero particolare. Francesco Boezi, Domenica 03/01/2021 su Il Giornale. Il 2020 non è stato un anno come tanti. Ormai lo sappiamo. La Chiesa cattolica, da istituzione intramontabile qual è, ha comunque affrontato la pandemia con categorie diverse rispetto al passato. Papa Francesco non ha rinunciato alla presenza pubblica all'interno di un quadro epidemiologico che quasi sconsiglia agli anziani di mettere il naso fuori dalle mura della propria casa, ma certo Bergoglio non ha ostacolato il cammino della scienza. Il connubio tra fede e ragione non è un'opera "bergogliana", però quanto accaduto in questi ultimi dodici mesi non era scontato. Francesco, ad esempio, avrebbe potuto sgomitare, per così dire, per garantire il regolare svolgimento delle funzioni religiose. E invece così, almeno in parte, non è andata. L'aria che tira in Vaticano, quando il nuovo coronavirus compare nel mondo, si capisce sin da subito: appena il governo del Belpaese dispone le prime misure, in Santa Sede si adeguano. Può sembrare scontato ma non lo è. Certo, il 2020 resterà impresso nella memoria dei fedeli, con la passeggiata a piedi di Jorge Mario Bergoglio nel centro di Roma, la preghiera al crocifisso di San Marcello del Corso e con la preghiera per la fine della pandemia. La Chiesa cattolica, con le altre pandemie della storia, non si è tuttavia limitata a questo. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle processioni penitenziali o all'edificazione di santuari in tempi di pandemia. Per i tradizionalisti, trattasi di resa dinanzi allo scientismo. Se non altro perché le istituzioni ecclesiastiche hanno rinunciato a fare da controcanto ai dettami dei governi che predicano e praticano la "linea dura". E la "Chiesa in uscita" (o "Chiesa di prossimità") dell'ex arcivescovo di Buenos Aires si è ritirata all'interno delle mura leonine. L'ultimo episodio da annoverare è quello della Messa di Natale: l'esecutivo ha iniziato a ragionare sul fatto che non fosse un problema "far nascere" Gesù Cristo un paio d'ore prima del solito, anticipando la funzione religiosa per via del coprifuoco. Bene, dal Vaticano hanno in sostanza consegnato la ragione al governo, optando per una Messa natalizia che è iniziata alle 19.30. Il 2020 è stato anche altro. Durante questo periodo, Bergoglio avrebbe dovuto consolidare le fondamenta programmatiche del suo pontificato, con la conferenza di Assisi, ossia "The Economy of Francis", dove Francesco avrebbe contratto un patto con i giovani per l'economia del futuro. Poi i viaggi, che sono centrali per la pastorale e per la comunicazione del Santo Padre, che sono inevitabilmente saltati. Bergoglio guarda con interesse alla Cina, dove sarebbe il primo pontefice peraltro riconosciuto in maniera legittima a toccare il suolo, ma anche all'Iraq ed alla "sua" Argentina. Il 2021 dovrebbe e potrebbe essere l'anno del ripristino della normalità per il vescovo di Roma, che è un grande sostenitore del multilateralismo diplomatico e che, dopo la vittoria di Joe Biden negli Stati Uniti, potrebbe aver trovato un alleato in più per favorire la costruzione del tipo di mondo che ha disegna da quando è sul soglio.

L'approccio alla pandemia. La quarantena sconvolge i piani di mezza umanità. Il 2020, nei piani di Francesco, è stato l'anno della costruzione del mondo che verrà, ma Bergoglio non può lasciare Santa Marta o quasi. Niente pastorale della "Chiesa in uscita", e dunque nessuna possibilità di comunicare come nei sette anni precedenti. Cambia quindi il paradigma stilistico del Papa, che da piazza San Pietro, con più di qualche gesto simbolico, indica comunque la strada. Il gesuita sottolinea alcune parole nelle sue prediche. Una di queste è "essenziale". Quello che gli esseri umani sono chiamati a riscoprire in tempi pandemici.

Bergoglio forse vorrebbe essere in Cina, per sigillare la bontà dell'accordo stipulato con la Repubblica popolare per la nomina dei vescovi o comunque in qualche parte del mondo, magari in una periferia "economico-esistenziale", ma non può. La pandemia lo confina in Vaticano, da dove prega. Come nel caso della preghiera nella piazza San Pietro deserta. Qualcosa di cui forse i contemporanei non possono avere una piena percezione, ma che passerà alla storia. Il messaggio del Papa inizia a tenere conto dell'eroismo degli italiani e non solo. C'è un pensiero per tutti, soprattutto per gli ultimi e per i malati. Lo stile rimane quello di sempre, ma i contenuti rincorrono il momento. Per un attimo sembrano scomparire alcuni tratti tipici: migranti ed ambientalismo su tutti. Non sappiamo ancora cos'ha in serbo il pontefice argentino per i fedeli di tutto il mondo. Presto quei temi torneranno d'attualità, grazie pure alla pastorale del gesuita sudamericano.

Mentre i titoli di coda sulla pandemia sono lungi dallo scorrere, il Papa, vertice di un'istituzione sempre uguale a se stessa, riflette sul mondo che verrà. La tipologia di giustizia che Francesco ha in mente non può che essere quella divina, ma il Santo Padre abita un contesto che ha necessità di essere rimodellato sulla base dei cambiamenti dettati dai colpi inflitti dal nuovo coronavirus. Che società per l'avvenire dell'intera umanità? Nel corso dei mesi precedenti alla pubblicazione, le voci si rincorrono, e in molti si domandano l'oggetto della prossima enciclica di Francesco. Una parte della Chiesa confida che la pandemia contribuisca alla riemersione delle questioni care ai conservatori. Non sembra il tempo adatto per ulteriori stravolgimenti dottrinali. Il vescovo di Roma, che nel frattempo punta a riorganizzare la Curia romana mediante la riforma della Costituzione apostolica, che tuttavia tarda ad arrivare, stupisce tutti.

Sembra un sussidiario per il mondo che verrà, ma "Fratelli Tutti" è la terza enciclica di Bergoglio. Il Papa, nel suo terzo lavoro magisteriale, strizza ancora l'occhio ad un sistema privo delle distorsioni che deriverebbero dall'esasperazione del capitalismo e della globalizzazione. Per i tradizionalisti la visione economica di Francesco è utopistica. Il Papa alimenta qualche critica quando scrive che Fratelli Tutti è stata ispirata pure dall'imam di al-Azhar, ma quella del resto è la figura religiosa musulmana che l'ex superiore provinciale della Compagnia di Gesù ha scelto per sottoscrivere la dichiarazione di Abu Dhabi. A questo punto dell'anno è chiaro a tutti: il nuovo coronavirus non ha modificato la visione del mondo di papa Francesco, che insiste sull'ecologia, sui migranti e sul valore secondario della proprietà. La querelle sulla proprietà divide: per la destra ecclesiastica il Papa ha interpretato in maniera eccessivamente estensiva la dottrina sociale sul punto. Siamo - come spesso capita durante questo pontificato - alla dialettica tra la "maggioranza" progressista e l'opposizione "conservatrice". Solo che lo scontro proseguirà su altri binari: quelli bioetici.

Francesco strapperà su un aspetto delicato, ossia sulle "unioni civili". Bergoglio si dice favorevole in un documentario che viene mandato in onda al Festival del Cinema di Roma. A primo acchito non tutti credono che sia vero, cioè che il Papa abbia davvero espresso il suo favore, ma le immagini, e i festeggiamenti tra pontefice argentino e regista del giorno dopo, confermano la bontà delle prime ricostruzioni. La Chiesa è di nuovo spaccata a metà. Per la cosiddetta destra ecclesiastica quella presa di posizione è semplicemente inaccettabile. Se non altro perché il Catechismo dispone altro. Jorge Mario Bergoglio ha di nuovo fatto la storia. Le forze politiche di sinistra applaudono. Quelle di destra tendono a tacere. Il Papa, sino a quel momento, non era apparso elastico sulla bioetica, ma racconta di aver combattuto affinché nella sua Argentina venisse approvata una legge per la "convivencia civil", che nel nostro sistema giuridico non si può che tradurre con unione civile.

Nel frattempo in Vaticano scoppia il cosiddetto "caso Becciu". La questione è complessa. Il Papa, in precedenza, ha dichiarato di essere contento per via dello scoperchiamento della pentola dall'interno, ma in quel caso valeva per la storia del "palazzo di Londra" e per la gestione di alcuni fondi da parte della segreteria di Stato. Poi, nel tempo, l'indagine prosegue, e Bergoglio prende una decisione che farà piuttosto rumore: Becciu non viene scardinalato ma perde alcune facoltà da porporato. Il cardinale sardo si difende anche mediante conferenze stampa. Becciu continua a dirsi innocente. La vicenda, mentre scriviamo, è tuttora in corso. Quello che è noto è questo: Bergoglio sta, sulla scia di Joseph Ratzinger, cercando una rivoluzione piena in materia di trasparenza tra le sacre stanze. Intanto in Vaticano è tornato proprio l'uomo che Bergoglio aveva scelto in prima battuta per i conti: l'ex prefetto della segreteria per l'Economia, il cardinale australiano George Pell, che è stato assolto nel processo in cui era stato accusato per abusi su minori che dunque non sono mai avvenuti. Ora Pell è tornato a Roma, ma il Papa non gli offre incarichi. C'è un altro porporato - questa volta ex - che fa discutere in piazza San Pietro e dintorni: il Vaticano pubblica finalmente il dossier su Theodore McCarrick, l'ex porporato scardinalato da Bergoglio per gli abusi ai danni dei seminaristi. Le tesi di monsignor Carlo Maria Viganò, che aveva chiesto le dimissioni di Francesco e che tuttavia replica, vengono smentite. In Vaticano, insomma, è spesso bufera pure nel 2020.

Fare una fotografia dell'anno di Francesco non è un'operazione banale. Gli osservatori sperano nel 2021. Un po' per le libertà personali di ognuno - ovviamente - , ma pure perché il prossimo potrebbe essere il periodo in cui la rivoluzione di Bergoglio si compie a tutti gli effetti. Le basi sono state gettate. Ora si tratta di stare a guardare. Un occhio non può che andare in direzione del Sinodo biennale della Conferenza episcopale tedesca: la fine del 2021 potrebbe essere condita da botti d'artificio dottrinali oppure no. Il 2021 dovrebbe essere anche l'anno in cui le visite apostoliche di Bergoglio torneranno più o meno alla normalità.

E il 2020? Intanto la Chiesa si è appoggiata alla scienza, abbiamo premesso parlandone al religioso, e presto don, Rosario Vitale, che deve pure a Joseph Ratzinger la sua vita in seminario, ma che guarda a Francesco con la filiazione tipica di un fedele che crede nella continuità tra l'emerito ed il regnante. Però il 2020 è stato anche un anno di scandali, no? " Più che di scandali - replica Vitale, che nel frattempo ha dato vita assieme ad altri all'iniziativa editoriale Vox Canonia - , ritengo sia necessario guardare sempre il bicchiere mezzo pieno, credo sia stato un anno pieno di opportunità belle per fare meglio. Certamente - aggiunge - molte dinamiche andavano riviste e affrontate nel giusto modo, ma nel complesso ritengo che quest’anno sia stato molto positivo proprio per come queste dinamiche siano state affrontate, senza nascondere la mano, senza ipocrisie ma guardando le difficoltà negli occhi e dandogli un nome. Solo così è possibile trovare soluzioni, non certamente rifiutandosi di accettare la verità". Il Vaticano - come avevamo percepito - sta battagliando per la trasparenza, e il giudizio è tutto sommato positivo.

Pier Bergonzi per La Gazzetta dello Sport il 2 gennaio 2021. Papa Francesco arriva puntuale. Entra nella sala dei ricevimenti della Residenza Santa Marta con passo sicuro e quel sorriso buono, caldo che lo caratterizza. Senza mascherina, tiene le distanze di sicurezza, ma accorcia quelle emotive e ti fa sentire a casa. Ci racconta della sua infanzia, di quando giocava a calcio con una "pelota de trapo", una palla di stracci. Bastava: per giocare e divertirsi. La sintesi del "suo" sport. La metafora del suo apostolato. Ci racconta il suo amore per lo sport di base, di quando andava con suo papà alla stadio per tifare San Lorenzo. Ci parla di Bartali e Maradona…, poi il discorso vola alto per toccare tutti i temi dello sport inteso come momento di crescita, come via ascetica per dare il meglio di sé. Della condanna esplicita al doping, dell’impegno, della necessità di fare squadra e dello sport come modello di inclusione contro la non-cultura degli scarti, tema che gli sta a cuore. Francesco risponde a tutte le nostre domande e alla fine ci consegna il documento più dettagliato e approfondito che un Papa abbia mai “scritto” sul nostro mondo. Il mondo dello sport.

Santo Padre, lei ha raccontato che da bambino andava allo stadio con i suoi genitori a vedere le partite di calcio.

"Ricordo molto bene e con piacere quando, da bambino, con la mia famiglia andavamo allo stadio, El Gasómetro. Ho memoria, in modo particolare, del campionato del 1946, quello che il mio San Lorenzo vinse. Ricordo quelle giornate passate a vedere i calciatori giocare e la felicità di noi bambini quando tornavamo a casa: la gioia, la felicità sul volto, l’adrenalina nel sangue. Poi ho un altro ricordo, quello del pallone di stracci, la pelota de trapo: il cuoio costava e noi eravamo poveri, la gomma non era ancora così abituale, ma a noi bastava una palla di stracci per divertirci e fare, quasi, dei miracoli giocando nella piazzetta vicino a casa. Da piccolo mi piaceva il calcio, ma non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un "pata dura", letteralmente gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta. Ma fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte… E ho giocato anche a basket, mi piaceva il basket perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanestro del San Lorenzo".

Lo sport è anche festa e celebrazione. Una sorta di liturgia, di ritualità, di appartenenza. Non per nulla si parla di "fede sportiva".

"Lo sport è tutto ciò che abbiamo detto: fatica, motivazione, sviluppo della società, assimilazione delle regole. E poi è divertimento: penso alle coreografie negli stadi di calcio, alle scritte per terra quando passano i ciclisti, agli striscioni d’incitamento quando si svolge una competizione. Trombe, razzi, tamburi: è come se sparisse tutto, il mondo fosse appeso a quell’istante. Lo sport, quando è vissuto bene, è una celebrazione: ci si ritrova, si gioisce, si piange, si sente di "appartenere" a una squadra. "Appartenere" è ammettere che da soli non è così bello vivere, esultare, fare festa. È curioso, poi, che qualcuno leghi la memoria di qualcosa con lo sport: "L’anno in cui la squadra ha vinto lo scudetto, in cui il tal campione ha vinto la tal competizione. L’anno delle Olimpiadi, dei Mondiali". In qualche modo lo sport è esperienza del popolo e delle sue passioni, segna la memoria personale e collettiva. Forse sono proprio questi elementi che ci autorizzano a parlare di "fede sportiva"".

C’è una pagina dello sport, o un avvenimento, che lei ricorda con piacere?

"Non ho una così grande conoscenza in materia, ma le posso dire che seguo con interesse tutte quelle storie di sport che non sono fini a se stesse, ma provano a lasciare il mondo un po’ migliore di come lo trovano. Quando, durante un viaggio apostolico, sono stato allo Yad Vashem a Gerusalemme, ricordo che mi raccontarono di Gino Bartali, il leggendario ciclista che, reclutato dal cardinale Elia Dalla Costa, con la scusa di allenarsi in bicicletta partiva da Firenze alla volta di Assisi e faceva ritorno con decine di documenti falsi nascosti nel telaio della bici che servivano per far fuggire e quindi salvare gli ebrei. Pedalava per centinaia di chilometri ogni giorno sapendo che, qualora lo avessero fermato, sarebbe stata la sua fine. Così facendo offrì una vita nuova a intere famiglie perseguitate dai nazisti, nascondendo qualcuno di loro anche a casa sua. Si dice che aiutò circa ottocento ebrei, con le loro famiglie, a salvarsi durante la barbarie a cui vennero sottoposti. Diceva che il bene si fa e non si dice, se no che bene è? Lo Yad Vashem lo considera "Giusto tra le nazioni", riconoscendo il suo impegno. Ecco la storia di uno sportivo che ha lasciato il mondo un po’ meglio di come lo ha trovato".

Della dinamica sportiva, come del fatto di vivere, fanno parte la sconfitta e la vittoria.

"Vincere e perdere sono due verbi che sembrano opporsi tra loro: a tutti piace vincere e a nessuno piace perdere. La vittoria contiene un brivido che è persino difficile da descrivere, ma anche la sconfitta ha qualcosa di meraviglioso. Per chi è abituato a vincere, la tentazione di sentirsi invincibili è forte: la vittoria, a volte, può rendere arroganti e condurre a pensarsi arrivati. La sconfitta, invece, favorisce la meditazione: ci si chiede il perché della sconfitta, si fa un esame di coscienza, si analizza il lavoro fatto. Ecco perché, da certe sconfitte, nascono delle bellissime vittorie: perché, individuato lo sbaglio, si accende la sete del riscatto. Mi verrebbe da dire che chi vince non sa che cosa si perde. Non è solo un gioco di parole: chiedetelo ai poveri".

Dietro ogni grande campione c’è un allenatore. Allenare è un po’ come educare?

"In qualche modo sì. Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l’atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclasse. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia".

Un sano agonismo può aiutare anche lo spirito a maturare?

"Mi vengono in mente due passaggi scritti da san Paolo nelle sue lettere. Il primo: “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo" (1 Cor 9,24). È un bellissimo invito a mettersi in gioco, per non guardare il mondo dalla finestra. Il secondo passaggio che vorrei ricordare è quando Paolo, parlando all’amico Filemone, è come se gli confidasse il suo segreto: "Corro perché conquistato" (Fil 3,12). Nessun atleta corre tanto per correre: c’è sempre una qualche bellezza che, come una calamita, attrae a sé chi intraprende una sfida. S’inizia sempre perché c’è qualcosa che ci affascina".

Il cuore è al centro dell’attività sportiva come dell’esperienza religiosa. Tenerlo "allenato" è il segreto per non disperdere il talento?

"Tenere ordinato il cuore è il segreto per qualsiasi vittoria, non solo per quella sportiva: il salmista, infatti, chiede a Dio: "Sia il mio cuore integro" (Sal 119,80). Se guardiamo alla storia del talento, ci accorgiamo che tanta gente di talento si è perduta proprio a causa del disordine. Un cuore ordinato è un cuore felice, in stato di grazia, pronto alla sfida. Penso che se chiedessimo a qualche sportivo il segreto ultimo delle sue vittorie, più di qualcuno ci direbbe che vince perché è felice. La felicità, dunque, è la conseguenza di un cuore ordinato. Una felicità da condividere perché se la tengo per me resta un seme, se invece la condivido può diventare un fiore".

Tanti campioni raccontano di avere iniziato la loro avventura sportiva all’ombra di un campanile, nel "campetto dell’oratorio" di una chiesa di centro città o di estrema periferia.

"La Chiesa ha sempre nutrito grande interesse verso il mondo dello sport. Possiamo dire che nello sport le comunità cristiane hanno individuato una delle grammatiche più comprensibili per parlare ai giovani. Pensiamo a don Bosco e agli oratori salesiani ma pensiamo a tutte le parrocchie del mondo, anche e soprattutto le più povere, nelle quali c’è sempre un campetto a disposizione per giocare e fare sport. Attraverso la pratica sportiva si incoraggia un giovane a dare il meglio di sé, a porsi un obiettivo da raggiungere, a non scoraggiarsi, a collaborare in un gruppo. È un’occasione bellissima per condividere il piacere della vittoria, l’amarezza di una sconfitta, per mettersi insieme e dare il meglio di sé".

Lei, come gesuita, è figlio spirituale e culturale di sant’Ignazio di Loyola, "campione" degli Esercizi Spirituali. "Esercizio" è sinonimo di allenamento. C’è qualche relazione tra lo sport e gli esercizi di sant’Ignazio?

"Quando sant’Ignazio di Loyola ha scritto gli Esercizi Spirituali, l’ha fatto ripensando alla sua storia passata di soldato, fatta di esercizi, addestramenti, allenamenti. Intuisce che anche lo spirito, come il corpo, va allenato. Esercitarsi, poi, richiede una disciplina: gli esercizi sono buoni maestri. Guillaume de Saint-Thierry, un monaco belga vissuto nel XII secolo, dice che “la volontà genera la pratica, la pratica genera l’esercizio e l’esercizio procura le forze per qualsiasi lavoro”. L’esercitazione alla bontà, alla bellezza, alla verità sono delle occasioni in cui l’uomo può scoprire dentro di sé delle risorse inaspettate. Per poi giocarsele".

Qual è il tipo di sportivo che apprezza di più?

"La ringrazio per non farmi fare nomi propri: è sgradevole scegliere uno a scapito di altri. Apprezzo, però, chi è cosciente della responsabilità del suo talento, a qualunque sport o disciplina appartenga. Il "campione" diventa, per forza di cose, un modello d’ispirazione per altri, una sorta di musa ispiratrice, un punto di riferimento. È importante che gli sportivi e i campioni abbiano la consapevolezza di quanto una loro parola, un loro atteggiamento, possa incidere su migliaia di persone. Ci sono aspetti molto belli: penso, e colgo l’occasione per ringraziarli, ai ragazzi della Nazionale Italiana di calcio che ogni anno con il loro Ct passano, letto per letto, a trovare i bambini nell’ospedale del Papa (il Bambino Gesù, n.d.r.), anzitutto nel reparto oncologico. Questo succede anche per altri ospedali e in tante nazioni. Un modo per realizzare i sogni dei piccoli che soffrono. Quando, però, il campione dimentica questa dimensione, perde il bello dell’essere tale, l’occasione per fare in modo che chi lo prende come modello possa migliorarsi, crescere, diventare anche lui campione. Ai campioni auguro di imparare una virtù preziosissima: la temperanza, la capacità di non perdere il senso della misura. Solo così potranno essere testimoni dei grandi valori come l’onestà, la correttezza, la dedizione. Non sono cose da poco".

Il calcio, anzi lo sport, ha recentemente pianto la scomparsa di Maradona, considerato da molti il più grande calciatore di sempre. Che cosa ha rappresentato per la vostra Argentina?

"Ho incontrato Diego Armando Maradona in occasione di una partita per la Pace nel 2014: ricordo con piacere tutto quello che Diego ha fatto per la Scholas Occurrentes, la Fondazione che si occupa dei bisognosi in tutto il mondo. In campo è stato un poeta, un grande campione che ha regalato gioia a milioni di persone, in Argentina come a Napoli. Era anche un uomo molto fragile. Ho un ricordo personale legato al campionato del Mondo del 1986, quello che l’Argentina vinse proprio grazie a Maradona. Mi trovavo a Francoforte, era un momento di difficoltà per me, stavo studiando la lingua e raccogliendo materiale per la mia tesi. Non avevo potuto vedere la finale del Mondiale e seppi soltanto il giorno dopo del successo dell’Argentina sulla Germania, quando una ragazza giapponese scrisse sulla lavagna "Viva l’Argentina" durante una lezione di tedesco. La ricordo, personalmente, come la vittoria della solitudine perché non avevo nessuno con il quale condividere la gioia di quella vittoria sportiva: la solitudine ti fa sentire solo, mentre ciò che rende bella la gioia è poterla condividere. Quando mi è stato detto della morte di Maradona, ho pregato per lui e ho fatto giungere alla famiglia un rosario con qualche parola personale di conforto".

La Città del Vaticano ha una sua squadra di atletica leggera. C’è, poi, la "Clericus Cup", una sorta di campionato per gli studenti degli atenei pontifici. Non è soltanto sport.

"Evangelizzare significa testimoniare, nella vita personale e comunitaria, la vita di Dio in noi, quella che ci è stata donata nel Battesimo. Non esistono strategie, non ha alcun senso un marketing della fede: solo quando un uomo o una donna vede un uomo o una donna vivere come Gesù, allora potrà essere affascinato e potrà iniziare a prendere seriamente la proposta del Vangelo. Si evangelizza con il fascino della propria vita che ha il gusto e il sapore delle beatitudini. Le squadre di atletica leggera e la Clericus Cup trovano il senso della loro presenza in Vaticano proprio per testimoniare uno stile evangelico nello sport. È un modo anche per fare comunità. Penso alla varietà degli atleti che provengono da amministrazioni differenti: guardie svizzere, giardinieri, farmacisti, dipendenti dei Musei Vaticani, delle Ville Pontificie, preti e forse anche qualche monsignore. Una Chiesa in uscita... sui campi sportivi!".

C’è un proverbio arabo che dice: "Non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo". Proverbio che fede e sport condividono.

"La tua resa è il sogno del tuo avversario: arrenderti è lasciargli la vittoria. È sempre un rischio: "E se avessi resistito un attimo in più?", continuerai a dirti per chissà quante volte vedendo com’è andata a finire. Poi è anche vero che ci sono giorni in cui è meglio continuare a lottare, altri in cui è più saggio lasciare perdere. La vita assomiglia ad una guerra: si può anche perdere una battaglia, ma la guerra quella no! Un uomo non muore quando è sconfitto: muore quando si arrende, quando cessa di combattere. I poveri, da questo punto di vista, sono un esempio spettacolare di che cosa voglia dire non arrendersi. Nemmeno di fronte all’evidenza dell’indifferenza: continuano a combattere per difendere la loro vita".

·        I Cristiani ed i Comunisti.

La democrazia e il lungo cammino del movimento. Dalla grande guerra al Concilio, la meglio gioventù fece la storia. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 13 Luglio 2021. La prima guerra mondiale aveva sconvolto tutto. Anche dal mondo della cultura erano sorti nazionalismi distruttivi. Quello che non era stato quindi possibile negli anni della crisi modernista, raccordare Chiesa e mondo della cultura in uno spirito di ricerca internazionale, diventava ora fattibile. Partì quindi nel 1921 da tre Paesi già neutrali (Svizzera, Spagna e Olanda) la convocazione per la riunione di Luglio a Friburgo in cui nacque l’associazione mondiale Pax Romana degli universitari cattolici. Il nome riecheggiava il verso di Dante nel Purgatorio che richiama all’universalità del cristianesimo. PR svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci, ma per l’Italia non era un contesto facile. Quattro anni prima della Conciliazione la Federazione aveva posto quel Congresso sotto il patrocinio del Re al fine di proteggersi dalle minacce fasciste, ma questo creò un serio problema col Vaticano, che si risolse alla fine positivamente affidando a Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI) e al brillante laico Righetti la guida della Federazione, ma che consigliò per gli anni successivi una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare un regime nazionalista. La vera internazionalizzazione vi fu dal 1939, quando si svolse il primo Congresso fuori dall’Europa, negli Stati Uniti, proprio nei giorni in cui scoppiava la guerra. Per certi versi fu frutto di quella coincidenza giacché il tedesco Rudi Salat, lì presente, decise di fare obiezione di coscienza alla guerra di Hitler, restò in America e da lì guidò la crescita di PR nella parte Sud del Continente. In questa fase iniziale i punti di riferimento erano soprattutto due: Giovanni Battista Montini, ormai non più assistente nazionale della Fuci ma in Segreteria di stato, e Jacques Maritain, esule anche lui in America. L’impostazione teorica era quella che troviamo nel volumetto montiniano del 1930 Coscienza Universitaria nonché in Cristianesimo e democrazia di Maritain. La Chiesa aveva perso influenza nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva una rilettura positiva della democrazia, cogliendo dietro di essa un’autentica ispirazione evangelica, anche se affermatasi spesso contro la Chiesa. Nel periodo di guerra dall’ufficio di New York lavorava padre Courtney Murray il gesuita che già in quegli anni si impegnava sul tema della libertà religiosa, per farla accettare positivamente da parte della Chiesa, come poi accadde col Concilio. Nel 1947 si aggiungeva un secondo ramo, quello dei Laureati, mentre nel 1946, con analoga ispirazione e durante un Congresso di PR -universitari era sorta anche la Jec internazionale (gioventù studentesca cattolica), che coinvolse anche studenti delle secondarie. Il Concilio fu il coronamento dell’influenza di PR: venivano da essa la gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Gimenez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’italiano Veronese, l’australiana Goldie e molti teologi che erano stati assistenti del movimento (Guano) o comunque vicini (Chenu, Congar, Journet). Alcuni frutti, sul piano civile, sarebbero stati colti anche più avanti. Come sottolinea Huntington per alcuni aspetti il Concilio aveva preso atto di alcune novità già intervenute con l’elezione di Kennedy e i successi dei partiti dc, ma per altro verso l’aveva anche promossa negli Stati ancora refrattari. Infatti la Terza Ondata democratica partì da Paesi cattolici, da Portogallo e Spagna, dove troviamo in primo piano esponenti di PR, ossia Ruiz-Gimenez in Spagna come animatore culturale, Pintasilgo e poi Guterres come Presidenti del Consiglio in Portogallo. Appartiene a PR anche Mazowiecky che qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino diventa il primo presidente del Consiglio non comunista nell’Est Europa. Dopo il Concilio Vaticano II l’internazionalizzazione di questi movimenti diventa più completa e trova un punto di riferimento soprattutto in Gustavo Gutierrez, assistente del movimento peruviano, il quale si propone di partire dall’impostazione maritainiana per superarla. In particolare nel suo volume Teologia della liberazione, Gutierrez segnala che la questione posta originariamente da Maritain, ossia “come un non cristiano possa far parte di un partito politico d’ispirazione cristiana” vada necessariamente capovolta partendo dalle “condizioni in cui un cristiano possa partecipare ad un partito politico indifferente, ed anche ostile, ad una visione cristiana”. Più in generale, secondo Gutierrez, il contesto post-conciliare si prestava male a rigide distinzioni quando il pluralismo delle realtà imponeva un metodo induttivo, quello che soprattutto “Octogesima Adveniens” di Paolo VI nel suo decisivo paragrafo 4 aveva impostato a partire dal modello della cosiddetta “revisione di vita” sperimentata dai movimenti di ambiente. Tale metodo era basato su tre verbi, ossia vedere, giudicare e agire, dove il primo si riferiva all’esperienza personale in un ambiente laico, Acquistano maggiore rilievo anche i richiami a Emmanuel Mounier e al suo invito ai filoni personalisti di collocarsi in modo creativo nello spazio politico della “sinistra non comunista” oltre l’orizzonte dei partiti dc. Questa internazionalizzazione effettiva non è stata esente da problemi, è valsa anche per PR l’osservazione della Octogesima Adveniens sull’estrema difficoltà di fare proposte universalmente valide e, spesso, passare dal vedere e dal giudicare all’agire si è rivelata più difficile del previsto. Peraltro coi due pontificati successivi il clima è andato più nel senso di una ribadita identità che non di una ricerca culturale spregiudicata. Esso è cambiato di nuovo ed è ridiventato decisamente sintonico con l’attuale pontificato, ma questa è una pagina di cronaca, non ancora di storia. Stefano Ceccanti 

Il PCI fu un’eresia cristiana, Maritain ci vide giusto. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 15 Novembre 2020. L’avvicinarsi del centesimo anniversario della scissione di Livorno sta favorendo l’uscita di vari libri che cercano di trarre dei bilanci equilibrati di quello che è un pezzo di storia d’Italia. Devo dire che più leggo questi volumi più sono portato a valorizzare la chiave di lettura, oggi poco nota, che risale a Jacques Maritain, cui si deve la puntuale definizione del comunismo come “ultima eresia cristiana”. Eresia perché separava la verità cristiana dell’istanza della redenzione del mondo dall’altra verità non superabile, anche e soprattutto dalla politica, della finitezza umana, che si esprime nell’idea del peccato originale. Nel 1944 in poche ma penetranti pagine di Cristianesimo e democrazia, Maritain ne parla come di un’eresia «fondata sulla negazione coerente e assoluta della trascendenza divina, un’ascesi e una mistica del materialismo rivoluzionario integrale», ma formula anche una profezia, segnalando la possibilità che «una rinascita del pensiero e dell’azione democratica riconcili con la democrazia, col rispetto delle cose dell’anima, coll’amore della libertà e col senso della dignità della persona… molti comunisti per sentimento e molti di coloro che un senso di ribellione contro le ingiustizie sociali rende inclini al comunismo» perché, e questo è il punto chiave, «i comunisti non sono il comunismo». Ossia, come avrebbe poi tradotto Giovanni XXIII, la complessità di giudizio su un movimento storico non può essere ridotto all’analisi dell’ideologia da cui esso scaturisce. Perché la profezia di Maritain si realizzasse, come in effetti è realizzata dopo il 1989 in Italia, unico caso in cui una parte maggioritaria, ancora quantitativamente consistente, del movimento storico che aveva conservato i nomi e simboli del comunismo ha accettato, con varie contraddizioni e problemi, di rimettersi in gioco, era però necessario superare il mito della riformabilità interna dell’Urss. Un mito che, paradossalmente, l’esperienza gorbacioviana, destinata a seppellire quel sistema, aveva confermato nel Pci tra 1985 e 1989. Come era possibile immaginare la riformabilità interna? A partire dal mito dell’innocenza originaria dell’affermazione del comunismo in Urss. Anche qui ci troviamo di fronte a una secolarizzazione di quanto avviene nelle Chiese cristiane: di fronte alle contraddizioni anche gravi del tempo presente si riparte dalla vitalità del messaggio originario per produrre degli aggiornamenti. Il punto è che le chiese cristiane partono da un avvenimento che è impossibile vedere come negativo o contraddittorio (una persona che è crocifissa), ma qui l’origine, l’azione decisiva di Lenin, si può descrivere come positiva? Rispondono puntualmente Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro ampio testo Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia, edito da Marsilio: «È evidente che l’azione di Lenin, con lo scioglimento dell’assemblea costituente e lo svuotamento del potere dei Soviet, era sfociata in una dittatura comunista» (p. 111). Idem Andrea Romano nel suo Il partito della nazione. Cosa ci manca e cosa no del comunismo italiano, Paesi Edizioni: «Lo schema che reggeva questa e tutte le successive declinazioni del mito della riformabilità del sistema sovietico si fondava sull’immagine di un “leninismo buono” che sarebbe stato successivamente distorto dallo “stalinismo cattivo”. Per questo l’entusiasmo del Pci per Gorbaciov superò di gran lunga quello (molto più tiepido) mostrato da altri comunismi occidentali, per non parlare dell’aperta diffidenza venuta dai regimi autoritari dell’Europa Orientale (che nella perestrojka videro, e giustamente, l’annuncio della propria imminente estinzione”» (pp. 38-39). Se il mito originario non era recuperabile era quindi vana “la ricerca di questa introvabile terza via” tra comunismo realizzato e socialdemocrazia da parte di Berlinguer e dei suoi più diretti successori (Pendinelli-Sorgi, p. 208). A ciò si aggiunge anche la puntualizzazione della seconda edizione appena uscita del volume di Claudio Petruccioli Rendiconto. La sinistra italiana dal Pci ad oggi edito da La Nave di Teseo a proposito dell’espressione di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre dopo l’autogolpe di Jaruzelski. Proprio nel momento in cui veniva espresso un giudizio severissimo e irreversibile veniva però salvata la bontà del mito originario, «il fatto che il 1917 fu considerato la rottura di un sistema e il passaggio finalmente possibile ad un altro sistema. È questo l’errore di cui liberarsi» (pp. 334-339). Se però l’ideologia era sbagliata perché allora quel movimento storico è stato consistente in Italia fino alla sua evoluzione successiva, mentre negli altri paesi occidentali arrivati al fatidico 1989 i partiti comunisti erano già marginali da anni? Romano ci parla della volontà di rottura con il tradizionale massimalismo socialista (p. 82) e più in generale, sia pur dovuta a un organicismo un po’ retro, ad un’impostazione che cercava di tenere presente l’intera società italiana quale essa era nella realtà effettiva: «la visione di una società che già negli anni Trenta si immaginava tenersi insieme senza fratture o divisioni per essere traghettata come un organismo univo verso il socialismo» (p. 49), una sorta di partito della nazione ante litteram. Un’applicazione particolare di questa impostazione si era avuta col voto alla Costituente sull’articolo 7 e più in generale con la realistica presa d’atto del radicamento particolare della Chiesa cattolica in Italia, come sottolineano Pendinelli e Sorgi (pp. 153-233). È del resto quanto ha tradizionalmente insegnato Pietro Scoppola, spiegando come quel voto sia stato uno dei passaggi chiave per favorire l’egemonia del Pci nella sinistra a spese del Psi a partire dalle elezioni del 1948. Paradossalmente questi pregi, il rifiuto del massimalismo, la volontà di cambiare la società italiana tenendo però effettivamente conto delle sue caratteristiche effettive, che sono e restano tali anche oggi, erano però in origine legati appunto al difetto di impostazione di un’eresia religiosa secolarizzata. Era così certo il conseguimento dell’obiettivo finale, della felicità sulla terra, che non era il caso di abbandonarsi ad estremismi controproducenti. Va segnalato inoltre un secondo paradosso di sistema: l’estrema flessibilità, la capacità di radicamento nell’intera società italiana e non solo nella classe operaia, la scelta togliattiana di un partito di popolo e non di una setta di rivoluzionari, ha fatto del Pci un partito capace di durare per decenni in ruoli importanti, ma il fatto che mantenesse un legame sia pure residuo con l’Urss ha contribuito a paralizzare la possibilità dell’alternanza, che invece ci sarebbe stata se a dominare a sinistra fosse stato un partito socialdemocratico. Basti rileggere uno dei passaggi chiave dell’ultimo discorso di Aldo Moro ai suoi gruppi parlamentari, cioè del leader che più di tutti cercò di andare oltre la frattura della Guerra Fredda ben prima del fatidico 1989: «Sappiamo che c’è in gioco un delicatissimo tema di politica estera, che sfioro appena, nel senso che vi sono posizioni che non sono solo nostre ma che tengono conto del giudizio di altri Paesi, di altre opinioni pubbliche con le quali siamo collegati, quindi dati di fatto obiettivi. Sappiamo che vi è diffidenza in Europa in attesa di un chiarimento ulteriore sullo sviluppo delle cose». Quali contraddizioni ha portato con sé questo traghettamento di un’eredità così contraddittoria agli appuntamenti successivi? Come spiega Petruccioli «una parte di noi ha voluto la svolta per "uscire" dal Pci, mentre un’altra l’ha subita per ‘restarci’… Per i primi veniva meno la costrizione, poteva cominciare la libertà; per i secondi scompariva non un modello, perché neppure loro apprezzavano il "socialismo reale", ma la "forza". Due modi di intendere e di vivere la politica» (pp. 295-304-305). Del resto, in modi del tutto diversi, anche nell’altra più consistente cultura politica approdata nel Pd, quella del cattolicesimo democratico, la fine dell’unità politico-elettorale che era legata in modo indissolubile all’egemonia comunista sulla sinistra, è stata vissuta da alcuni come la liberazione da una costrizione e da altri come una necessità cui rassegnarsi. In questo senso, per capire meglio le vicende politiche, esse non possono mai essere lette a compartimenti stagni: come scrive Petruccioli «non solo nella politica, ma nella vita, nessuno è, e basta; tutti, anche diveniamo» (p. 224). Stefano Ceccanti