Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

FEMMINE E LGBTI

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI.

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Discriminazione di Genere.

La cura maschilista.

Comandano Loro.

Donne e Sport.

Le Dominatrici.

La Rivoluzione Sessuale.

La Verginità.

Il Gang Bang.

Il Cinema Femmina.

San Valentino.

Il Femminismo.

Le Quote rosa.

Le donne di sinistra che odiano le donne.

I Transessuali.

Gli Omosessuali.

Le Lesbiche.

Gli Agender - “Non Binari”.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

A morte i Maschi.

A morte i Padri.

Revenge Porn. Dagli al Maschio.

L’Odore.

Il Sudore.

Il Pelo.

I Capelli.

L’occhio vuole la sua parte.

Il trucco.

Il Reggiseno.

Il Bikini.

Le Strafatte.

Parliamo del Culo.

Mai dire...Porno.

Mai dire...prostituzione.

Cornuti/e e mazziati/e.

Essere Single.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Molestia.

Il Catcalling: la presunta molestia sulle donne.

Il Metoo.

Le Violenze di Genere: Maschicidi e femminicidi.

Il Delitto d'onore.

Lo Stupro.

Lo Stupro Emozionale.

Mai dire…Matrimonio. 

Mai dire …Mamma.

Mai dire…Figli. 

L’Aborto.

Il Figlicidio.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

La cura chiamata Amore.

La Dieta del Sesso.

Il Sesso.

Dildo & Company: gli accessori del sesso.

La Virilità.

La Masturbazione.

Il Corteggiamento.

Durante il sesso.

Il Tradimento.

Il Priapismo: l’erezione involontaria.

Il Bacio.

Il Cunnilingus.

I Feticisti.

Durante la Menopausa.

L'Andropausa.

Il Sesso maturo.

Le Truffe Amorose.

 

 

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI

PRIMA PARTE

 

·        Discriminazione di Genere.

L'errore di chi confonde le differenze con la "diversità". Luca Doninelli il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Parlare di Alain Finkielkraut in Francia significa schierarsi. Se sei d'accordo con Finkielkraut, sia pure su un singolo argomento, ti trovi a far parte di un gruppo che pensa e dice tutta una serie di cose che un altro gruppo depreca e condanna, e questo ti segnerà, ti infetterà. Non succede solo in Francia. Esiste un tipo di infettività che oltrepassa le emergenze sanitarie quanto le esplosioni mediatiche: una specie di sordità selettiva e degenerativa che comincia con ciò che non ci interessa per estendersi - è cronaca - a tutto il resto. Insomma, leggi Finkielkraut? Allora sei di destra, sei con la Le Pen, sei con Zemmour.

Ciò nonostante, io sono convinto che leggere Finkielkraut, accettandone anche le intemperanze, sia una buona cosa (per tutti, anche per i suoi nemici) per la ragione opposta: la lucidità tutta illuminista con la quale questo grande allievo di Roland Barthes ci aiuta a riconoscere le trappole culturali: anche quelle di chi si vorrebbe suo compagno di strada.

Il suo ultimo libro, uscito in Francia e di prossima pubblicazione in Italia, ha per titolo L'après littérature, ossia «La post-letteratura» (Stock, pagg. 230, euro 19,50). Il libro è come sempre molto «francese», si riferisce a fatti di cronaca a noi spesso ignoti e va letto tra le righe.

Tema centrale è, secondo me, lo smarrimento del senso delle parole. La prima di queste parole è «differenza». Parola difficile, pericolosa, impossibile da maneggiare fuori da un serio esercizio del pensiero. La società è fatta di differenze: io non sono te, e il «noi» è un equilibrio difficile, del quale il nostro tempo sembra del tutto ignaro, nel nome di sentimenti indiscutibili. La differenza discrimina, eccome.

«Il nostro tempo, sganciato dalla saggezza degli Antichi, non conosce altra legge del proprio stesso slancio compassionevole». Alla difficile «differenza» subentra la facile «diversità», debole di pensiero e generatrice di diktat morali. La cultura che la nostra civiltà ha generato non viene più interrogata, celebriamo Dante e Shakespeare, Eschilo o Rembrandt senza chiedere loro nessun lume.

La ragione è semplice e terribile: «Essi non hanno bisogno di compiere un lungo percorso per accedere alla verità, perché sono convinti di possederla già». In America la chiamano cancel culture. Una sottile linea nazista, alimentata dall'ignoranza, attraversa gli opposti schieramenti. La Storia non ha nulla da insegnarci, siamo noi i suoi giudici. In nome del tutto è cultura si cancella la cultura, si aboliscono le gerarchie, si eliminano i maestri.

Diverse pagine del libro sono dedicate alla battaglia per l'emancipazione femminile. Dove sta il nemico? Non tanto nei contenuti di una battaglia sacrosanta, ma nel presunto unanimismo, che produce un discorso povero (anche sul piano linguistico) e urlante.

La ragione si presenta come economica: tutto deve essere ridotto a qualcosa che si possa comprare e vendere. Il me too (fatti salvi gli aspetti penali) appartiene, come molte altre cose - io ci metto anche il sovranismo - a questa legge mercantile. Il problema è però ideologico, non economico. La riduzione del mondo (e delle sue infinite differenze, che secondo Aristotele costituiscono la fonte stessa dell'umana conoscenza) a qualcosa che si possa acquistare o vendere (compreso l'utero di una donna) non riguarda in primis i soldi, ma il pensiero.

La ricchezza degli Antichi era melanconica: si poteva acquistare la bellezza di un fiore, il suo profumo, il sorriso di un bambino? Ma il principio ideologico ha azzerato la poesia e la bellezza, anche se celebriamo Dante dalla mattina alla sera. La poesia del mondo è cosa da boomer, le parole d'ordine sono: tutela del pianeta, biodiversità, green eccetera. Tutte parole negoziabili, inseribili in un'agenda internazionale: a differenza dei gelsomini.

Ciò che resta fuori da ogni agenda? Che so, la crescita della fame nel mondo, il destino di popoli interi rimasti senza patria, la situazione dei vaccini nei Paesi poveri, e così via.

La nostra civiltà - dice Finkielkraut - ha eretto, contro la barbarie, due grandi baluardi: il Diritto e la Letteratura. L'uno e l'altra celebrano la Differenza - che comprende l'assoluta unicità di ogni singolo essere umano, la sua difficile giudicabilità, e la complessità dei corpi sociali. E l'uno e l'altra sono oggi in pericolo di estinzione sotto i colpi di un egualitarismo cieco.

Torna in mente Le urla del silenzio (1984) il film di R. Joffé, dove la furia ideologica dei khmer rossi giunge ad affidare ai bambini il ruolo di sorveglianti per catturare negli occhi delle persone anche il più piccolo bagliore di ribellione. Perché ai bambini? Perché non hanno memoria, non hanno passato, e quindi non hanno pietà.

Eppure, anche il nuovo mondo che sta sorgendo conosce le sue débâcles. Nonostante tutto, esso non procede compatto verso un futuro ecologico, paritario, green. E non per colpa di tutti i no-qualcosa che popolano il mondo, non per il rancore di chi non ha ricevuto dalla società un senso per cui vivere, e nemmeno per l'egoismo dei ricchi, ma per una contraddizione insita nel modello stesso.

Ne parla Finkielkraut a proposito delle pale eoliche. Le pale eoliche, deturpando l'ambiente che dovrebbero proteggere, sono il simbolo di una specie di nemesi del mito del Progresso, il sogno nato con «Cartesio e Bacon di renderci padroni e dominatori della natura per sconfiggere la fatalità e le miserie del genere umano».

Il brusio profondo del lavoro umano è sublime «nel suo sforzo concertato affinché la Terra non sia più una valle di lacrime (...) Ma ai nostri giorni, osserva il filosofo francese, la terra implora pietà mentre il cielo fa quello che gli pare. Più la tecnologia è performante e più l'avvenire è buio. Ieri vittorioso, il Progresso si è fatto compulsivo e incontrollabile. Tutto funziona e, a un tempo, tutto deraglia. Tutto dipende dall'uomo, perfino il meteo, e niente va come lui vorrebbe. La natura entra nella Storia, e non è una buona notizia, perché la locomotiva della Storia non ha più qualcuno che la guidi».

Chi sia questo «qualcuno» non sappiamo. Certo non è un leader politico, o un guru informatico. Forse, più modestamente, è quel riferimento ad Altro (il totalmente-altro, come lo chiamava Horkheimer) che la creazione di una città totalmente terrena, senza riferimenti oltre sé stessa (a dispetto di tutte le chiese, le moschee e le pagode) ha sempre cercato di cancellare, e che la poesia e l'arte non fanno che ripetere ad orecchie sempre più sorde.

Nel suo ultimo romanzo, citato da Finkielkraut, Nemesis, Philip Roth racconta di un uomo colpito da un dolore inaccettabile. Ma la delusione verso un Dio che non risponde all'assurdità dell'esistenza si trasforma in una delusione ancora più profonda: verso se stesso.

Abbiamo abbattuto Dio per innalzare l'Uomo, con la sua pretesa di chiarire tutto, di prevedere tutto, di spiegare tutto. Ne siamo usciti presuntuosi, violenti e soprattutto vuoti. Ci resta quello che Musil chiamava «il principio di ragione insufficiente»: ossia «la restituzione agli eventi del loro carattere fragile, fortuito, intempestivo, aleatorio». Luca Doninelli

Dagotraduzione dal Sun il 13 novembre 2021. Perché il mio partner non porta fuori la spazzatura? O critica il programma tv che scelgo di vedere? Chi vive in coppia lo sa: i motivi per litigare sono tanti. L’esperta di sesso e relazione Kate Taylor esamina le lamentele comuni delle coppie, spiega cosa nascondono, e indica come risolverle. 

LA TEMPERATURA DI CASA 

Pensi che riguardi: il comfort 

Si tratta davvero di: ormoni 

Secondo gli studi, a causa dei livelli più alti di estrogeni, le donne preferiscono una temperatura di 24-25° C a casa, mentre gli uomini stanno bene con 21,5°C. Le donne inoltre avvertono di più il freddo quando sono intorno alla metà del loro ciclo mestruale. 

Risolvere il problema: accettate un compromesso (diciamo intorno ai 22°C) e, signore, avvolgetevi in mutande e coperte termiche a metà mese.

LASCIARE LE LUCI ACCESE 

Pensi che riguardi: i soldi 

Si tratta davvero di: non essere quello “divertente” 

Sei risentito di dover essere l’adulto della relazione. Il tuo partner può essere spensierato perché ti assumi tutte le preoccupazioni da solo. Questo probabilmente accade anche in altre aree della relazione. 

Risolvere il problema: Dividi le faccende in modo uniforme. Lascia che il tuo partner si occupi delle bollette, in modo che si renda conto dei soldi che spendete per la luce invece che per fare cose divertenti.

CARICARE LA LAVASTOVIGLIE 

Pensi che riguardi: pentole sporche 

Si tratta davvero di: inettitudine tattica 

Caricano male la lavastoviglie? Potrebbe essere “inettitudine tattica”: fare un pasticcio in modo che non venga chiesto loro di occuparsene di nuovo. Vedi anche: bruciare la cena, ignorare la lista della spesa del supermercato,… 

Risolvere il problema: ogni volta che sbagliano, faglielo rifare. E di nuovo. Ne uscirà veloce ed efficiente.

PORTARE FUORI LA SPAZZATURA 

Pensi che riguardi: l’immondizia 

Si tratta davvero di: motivazione 

Più ricordi al tuo partner che è il giorno della spazzatura, più se ne dimentica. Per sentirsi motivati a svolgere un compito noioso, gli umani devono credere di decidere come e quando lo fanno. L’autonomia dà motivazione. 

Risolvere il problema: smetti di occuparti della microgestione. Lascia che il tuo partner assuma la piena responsabilità delle sue faccende.

STARE SEMPRE AL TELEFONO 

Pensi che riguardi: dipendenza dal telefono 

Si tratta davvero di: gelosia 

Secondo YouGov, un terzo di coloro che hanno una relazione è stato snobbato dal proprio partner a favore di un telefono. Normale sentirsi soli e insicuri. 

Risolvere il problema: rendete le serate libere dai telefoni. Lasciate i telefoni fuori dalla camera da letto in modo da coccolarvi l’uno con l’altro. In casi estremi, meglio passare a un telefono non smart.

PANTALONI SUL PAVIMENTO 

Pensi che riguardi: disordine 

Si tratta davvero di: essere dati per scontati 

La camera da letto fa da scenario alla tua vita sessuale. Se è disseminata di boxer e calzini sporchi, come aspettarsi che uno di voi venga travolto dalla passione? 

Risolvere il problema: investi in un elegante cesto della biancheria per nascondere i reciproci difetti.

NON ESSERE PRONTI IN TEMPO 

Pensi che riguardi: essere in ritardo 

Si tratta davvero di: sentirsi messi da parte 

Le persone danno la priorità a ciò che è importante per loro. Quindi quando un partner ritarda l’uscita per fare qualcos’altro, dice a tutti quelli che lo stanno aspettando: «Non sei importante quanto me». 

Risolvere il problema: se ci vogliono due ore per prepararti, trova quelle ore da qualche altra parte nella tua giornata. Le persone preferiscono vederti puntuale piuttosto che con la frangia perfetta.

NON ASCOLTARE 

Pensi che riguardi: maleducazione 

Si tratta davvero di: sentirsi poco importanti 

Meno il tuo partner ti ascolta, meno ti sentirai connesso. Alcuni presumo di sapere costai per dire, altri ignorano la conversazione per evitare l’intimità. 

Risolvere il problema: tocca la mano del tuo partner mentre parli per focalizzare la sua attenzione. Metti le informazioni importanti all'inizio e chiedi loro di ripetere, così sai che hanno sentito. 

Valentina Santarpia per il “Corriere della Sera” il 13 novembre 2021. Quattro anni fa fu la dirigente dell'istituto Vinci Belluzzi di Rimini, Sabina Fortunati, a sollevare la questione, imponendo un regolamento scolastico che vietava pantaloni corti, jeans con i buchi, canotte, magliette stracciate, cappellini, ciabatte. L'anno scorso nel polverone ci finì il liceo romano Socrate: la vicepreside suggerì a una studentessa di non indossare la minigonna, altrimenti «a qualche prof poteva cadere l'occhio». Apriti cielo: le ragazze arrivarono a scuola in minigonna, affiggendo cartelli: «Non è colpa nostra se cade l'occhio». Dopo giorni di commenti e approfondimenti su come fosse appropriato vestirsi a scuola, su quanto il decoro contasse in classe e su quali capi di abbigliamento fossero consentiti o no, la faccenda fu dimenticata. Ma il tema ritorna, prepotentemente. Una professoressa del liceo artistico Marco Polo di Venezia qualche giorno fa ha detto alle sue studentesse di non presentarsi in top a lezione di ginnastica. Anche in questo caso è arrivata la protesta delle ragazze (appoggiate dai ragazzi) con immagini postate su Instagram : tutte indossavano un top sportivo sfidando il freddo e srotolando su un ponte lo striscione «Cambiate mentalità, non i vestiti». Per mostrare solidarietà alle compagne si sono mossi anche gli studenti del liceo Zucchi di Monza, dove studenti e studentesse almeno per un giorno hanno abbandonato i jeans e si sono presentati indossando le gonne. In questo caso c'era l'avallo della dirigente Rosalia Natalizi Baldi, che ha approvato l'iniziativa degli studenti dell'ultimo anno contro «la sessualizzazione del corpo». La verità è che «il problema lo hanno tutte le scuole», come sintetizza Maria Teresa Corea, preside dell'istituto Amerigo Vespucci di Roma. «Capita che vengano richiamati i ragazzi per il loro abbigliamento poco adeguato - ammette -. Il mio è un istituto alberghiero, quindi studentesse e studenti sanno che devono essere sobri, abituarsi a vestirsi in modo consono. Tacchi adeguati, scollature non eccessive: insomma, dare di sé un'immagine non volgare». Anche Ludovico Arte, preside del Marco Polo di Venezia, concorda: «In tutte le scuole del regno ci sono ragazzi che si vestono in modo più o meno improbabile». Ma lui trova «sbagliato metterci a censurare il dress code dei ragazzi, perché bisognerebbe anche porsi il problema di quello degli adulti. Tanto per dirne una, qualcuno viene in ciabatte d'estate per la maturità. Questo non significa che sia tutto lecito: dovremmo fare un lavoro di educazione con i ragazzi, per far capire loro che ognuno è libero di esprimersi ma bisogna capire come si sta nei vari contesti». «Esiste un modo di vestire adeguato rispetto al contesto, indifferentemente dall'essere ragazzo o ragazza: ad esempio i calzoncini corti a scuola non sono opportuni - spiega Cristina Costarelli, dirigente del liceo scientifico Newton di Roma -. Ma quando si introduce il tema della disparità di genere (ad esempio dicendo di "non vestire in quel modo perché si diventa provocanti") il discorso cambia, è assolutamente non condivisibile ed è proprio un tema su cui si sta lavorando in senso contrario a livello educativo e formativo. Altrimenti finiremmo per avallare il ragazzo che si sente autorizzato a fare certi atti o a esprimere certi commenti perché la ragazza era vestita in tal modo». Allora, come comportarsi? Daniela Crimi, preside del liceo Ninni Cassarà di Palermo, sul dress code ha una posizione chiara: «I ragazzi possono esprimersi come vogliono, nel rispetto di se stessi e degli altri. Questo significa che se non sono in costume da bagno, e questo assolutamente non è consentito a scuola, ma sono in un abbigliamento dignitoso, possono indossare ciò che vogliono». Ma non è solo una questione di regole. Ragiona Matteo Lancini, psicologo esperto di adolescenti e autore di numerosi libri di riferimento: «In passato la scuola rappresentava prevalentemente il luogo del sapere e degli apprendimenti. Negli ultimi anni, invece, i ragazzi e le ragazze vivono la scuola come un luogo dove poter esprimere se stessi in modo più ampio, dove si è adolescenti e non solo studenti. In questo senso la scuola è diventata un palcoscenico dove comunicare in modo esplicito chi si è, a volte anche la propria sofferenza e il proprio disagio. Per i ragazzi e le ragazze di oggi la questione centrale in adolescenza non è più la sessualità né la trasgressione ma la questione della visibilità, dell'essere visti. Il corpo è estetico e non sessuale, per questo è diventato del tutto normale esibirlo, così come, purtroppo accade in altre occasioni».

Che dramma il menù per le "signore". Davide Bartoccini il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. A ridosso del week end, nel centro di Milano si è consumato un dramma: all'ospite di un calciatore di serie A è stato consegnato un menù senza "prezzi", e l'occasione si è fatta ghiotta per rispolverare il tema sessismo e far correre alle barricate gli chef stellati. "Scegli quello che ti pare!", il dito passa in rassegna la colonna dei prezzi che stabiliscono, da che mondo è mondo, il valore d'ogni prelibata pietanza al ristorante. Scorre, scorre, giù per il menù, fino in fondo; e l'unghia acuminata si ferma. Ha scelto. "Questo, è buono, 55mila lire". Forse ricorderete questa magnifica sequenza cinematografica, dove il barbone Barabba ordina alla cieca "Pommesaux amandes scandinaves" (mele alle mandorle scandinave, ndr), in un lussuoso ristorante dalle classiche quattro forchette sulla guida Michelin. Mi è tornata alla mente ieri mentre leggevo il giornale, quando mi sono imbattuto nell'invettiva contro il "blind menù" lanciata da una di quelle che, per onorare il più apprezzato dei cliché italiani dopo la pizza, il mandolino e il Rinascimento forse, se ne stava a cena con il suo compagno: stranamente un calciatore di Serie A e non un ricercatore del Cern. Secondo quanto riporta la stampa - ne scrive anche il The Times, non soltanto il Vernacoliere - la signorina, Agustina Landolfo, avrebbe tacciato l'Italia di sessismo perché in un esclusivo locale del centro di Milano, qualche antiquato, testardo, medievale patriarca le avrebbe porto quel tipo di menù che "oscura" il prezzo delle pietanze all'ospite in virtù di antiquate e ormai aggiungerei anche vituperate consuetudini dettate dal galateo. Un piccolo dramma consumatosi tra flûte di champagne e piatti quadri con cascate di cardamomo, o sale rosa dell'Himalaya o riduzione di pistacchio di Bronte al profumo di foca e bisque di coccia di ostriche; insomma le classiche diavolerie che quando stai leggendo il menù di uno stellato o wannabe stellato ti fanno sentire più Angela Lansbury in "Pomi d'ottone e manici di scopa", di uno che è uscito per mangiarsi un boccone con la fidanzata. Si è dichiarata estremamente indignata, lady Lautaro, recriminando il suo diritto, sacrosanto, anche forse di tanto in tanto auspicato, di voler conoscere il prezzo delle pietanze che si apprestava ad ordinare nella cena romantica. Conoscere il prezzo fissato all'etto o al grammo, si fosse trattato di carne di kobe - ossia quella proveniente dai pregiati bovini massaggiati in Giappone che aveva mandato nel pallone quel macellaio intervistato nel Chianti -, o di astice azzurro o di tartufo bianco di Alba. Anche se non è annata, dicono gli esperti. "La cosa peggiore è che molti italiani giustificano questo fatto dicendo che succede solo nei ristoranti di un certo livello. E quindi le donne non possono pagare se si tratta di una cena più costosa?", ha poi chiosato la moglie dell'attaccante dell'Inter in una storia caricata su Instagram, un buon megafono sempre a portata di mano nell'era del piagnisteo così ben raccontata da Robert Hughes nel suo saggio. Proseguendo implacabile: "E se avessi voluto pagare io? Sono indignata". Appellandosi al diritto di una donna, nella spessa remota evenienza ch'ella volesse, di poter pagare il conto al suo cavaliere, in questo caso ospite. Ecco una persona pragmatica - insomma noi gente semplice - si sarebbe limitata a sorridere al personale del blasonato ristorante e, proprio avesse voluto fare un po' di teatro, avrebbe sottolineato che era lei l'ospite e lui, l'altro, l'ospitato; e che dunque prima dell'atroce lettura da parte dei di lui occhi degli importi di iettature e grammatura da inforcare assieme alle linguine, i menù andavano "sostituiti". Oppure avrebbe potuto dire teneramente al suo lui, o alla sua lei, o chi che fosse, "Car* stasera pago io". Ma quel che diverte è la presenza puntuale e solenne di quel "Se", nelle invettive e nelle denunzie feroci lanciate da certi personaggi del jet set. "Se avessi voluto dire", "Se avessi voluto fare", "Se io avessi voluto "pagare", "Se mia nonna avesse avuto le ruote sai che carrozza", direbbe l'uomo della strada che questi problemi non se li pone. E forse su Instagram, se s'indigna, gli tocca farlo per altro. Ma troppa morale poi. Troppa. Fermiamoci quindi al punto in cui la cavalleria, la galanteria, sono tra le poche cose che restano a noi uomini di una volta. Che rispettiamo le donne e l'ospitalità di ogni genere e che, per questo, non vogliamo essere neanche rispettati, ma almeno consolati. Che leggere queste notizie ci duole. Tanto. E non perché non divideremmo il conto "alla romana". E non perché pensiamo di essere in dovere di pagarlo intero, alla cieca, perché magari portiamo noi i soldi a casa. Nient'affatto. Vorremmo essere consolati per tutte quelle signore che abbiamo invitato a cena per fare i galanti, che non si sono mai ribellate al sistema come l'audace intrepida Agustina. Noi soli, pochi, noi banda di fratelli. Ricordo per esempio di un anno, frequentavo la nipote di un grande industriale, e in una stagione che per il tartufo invece era stata buona, ella non sborsò mai il becco di un quattrino. Nemmeno un importo sufficiente ad acquistare una mela e tre mandorle...al mercato. Per questo, e per altri milioni di casi nel mondo, così atroci, porrei ad Augustina il grande quesito aristotelico: secondo lei, è nato prima l'uovo o la gallina?

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che

Genere adolescente. La differenza tra maschi e femmine esiste (ma sia chiaro che io non l’ho mai detto). Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Ottobre 2021. Da bambina, Shiloh Jolie-Pitt somigliava a Brad e amava vestirsi da maschiaccio. Undici anni fa nessuno faceva ipotesi sul suo vero genere sessuale e oggi può tornare a mostrarsi come una ragazza. Nell’epoca degli identitarismi, invece, non è più così. Nel 2006, quando Shiloh Jolie-Pitt aveva pochi mesi, mi trovai – assieme ad altri disgraziati i cui giornali vogliono poter mettere in copertina una foto d’una bella attrice e dire «ha parlato con noi, proprio con noi» – attorno a un tavolo al quale, per venti ambìti minuti, si sarebbe seduta Angelina Jolie – a parlare con noi, proprio con noi. L’ufficio stampa aveva fatto quel che gli uffici stampa fanno in questi casi – dirci che le domande personali erano bandite, intendendo con «domande personali» tutto ciò che attiene a cose più interessanti e che fanno vendere più i giornali di «ci parli del film che è qui per promuovere» – ma Angelina Jolie non era mica una starlette che ha paura di quattro cavalli e quattro segugi che vogliono sapere i fatti suoi. Shiloh era l’argomento di cui tutti volevamo parlare, per molte ragioni. Era l’unica neonata bella della storia del mondo, al netto della scarrafonite, la sindrome ormonale per cui alle madri i neonati sembrano comunque bellissimi. I neonati sono in genere cosine grinzose che guardi sperando che poi migliorino. Shiloh era sulla copertina di “People” un minuto e mezzo dopo il parto, ed era bellissima, liscia come chi è fuori dall’utero da mesi, evidentemente bionica come la madre. Ed era la prima figlia biologica, Angelina (e poi Brad) avevano adottato un maschio e una femmina in precedenza (e avrebbero adottato un maschio già quattrenne l’anno dopo, e successivamente avuto altri due figli biologici, gemelli). E all’epoca Brad e Angelina sembravano una coppia perfetta: bellissimi; multietnicissimi: il primo adottato era cambogiano, la seconda etiope; attentissimi alle buone cause molto prima che diventasse un dovere, per la gente di spettacolo; disattenti alle puttanate cui badano gli americani e l’Italia meridionale (questa frase verrà presa benissimo sui social), ovvero il matrimonio. Non si sarebbero sposati per altri otto anni (per poi separarsi dopo due; sono ancora coinvolti, a cinque anni dalla separazione, in un perpetuo litigio tra un tribunale e l’altro, per un po’ tutto, dall’affido dei minori ai soldi). Brad e Angelina erano la sacra famiglia, e qualcuno doveva chiedere l’inchiedibile: cosa c’è di diverso nella figlia che è carne della vostra carne, rispetto a quelli adottati? Toccò a me, che feci tutt’un giro di parole. Angelina mi sorrise con la condiscendenza d’una sovrana benevola. È la stessa cosa, disse, «tranne che Shiloh è uguale a Brad». A Brad, mica a lei. Se fossero stati anni in cui si portava già il discorso sull’identità di genere degli esseri umani di qualunque età, se fossero stati anni in cui un discorso del genere fosse parso sano di mente, a quel punto avrei dovuto capire. Ma era un’epoca in cui si sapeva che il genere sessuale era quello con cui nascevi, in cui non si cadaverizzavano le parole dividendo tra «sesso» e «genere», e quindi registrai la risposta e la trascrissi con soddisfazione. Shiloh somiglia al papà, che cosa carina. Due anni dopo, il papà dice a Oprah Winfrey che Shiloh vuol essere chiamata John. «Oppure Peter, perché le piace Peter Pan». A riascoltarlo adesso, si prova il brivido con cui visiti un museo di storia antica: ve lo ricordate, c’è stata un’epoca in cui sapevamo che se un bambino dice che è Superman (o Peter Pan, o Cenerentola, o Dumbo) non dobbiamo preoccuparci della sua identità di genere, è solo un bambino che gioca a essere un superoe, o una femmina, o un elefante. Ve la ricordate, quell’epoca remota? Altri due anni dopo, Shiloh ne aveva quattro, la mamma disse che alla piccina piaceva vestirsi da maschio, si era fatta tagliare i capelli corti, «pensa d’essere uno dei suoi fratelli». Era un’ovvietà, undici anni fa, quando eravamo una società sana di mente: una bambina che fa il maschiaccio non ha un disturbo psichiatrico, non ha bisogno d’essere curata dal sesso che la natura le ha fornito, non ha bisogno che la società le assegni una nuova identità da registrare nei documenti: vuole somigliare ai fratelli più grandi, poi passa. (A volte non passa, e allora una diventa un’adulta con gusti da maschiaccio, succede; a Katharine Hepburn stavano meglio i pantaloni, e per sua fortuna visse in un’epoca in cui un dettaglio del genere faceva di te un feticcio modaiolo invece che una malata di mente che si percepisce d’un altro sesso e che la società decide di curare illudendola che il sesso si possa cambiare con la facilità con cui cambi i pantaloni). L’altro giorno Bari Weiss è stata intervistata sulla Cnn. Le hanno chiesto perché abbia scritto nella sua newsletter che il mondo è uscito di senno. Con una formula di quelle che piacciono a Aaron Sorkin, il quale una volta fece dire a un personaggio che scriveva i discorsi del presidente degli Stati Uniti che quella formula lì era «a little thing called cadence», Bari ha fatto l’elenco d’indicibilità che l’avevano convinta della deriva folle, elencando episodi accaduti quand’era nella redazione degli editoriali del New York Times e anche dopo; tra di esse, «quando non si può dire in pubblico che esistono differenze tra maschi e femmine, vuol dire che il mondo è uscito di senno». La stessa sera Shiloh era alla prima d’un film assieme alla mamma e a fratelli e sorelle. Indossava un vestito che più da femmina non si può, e ballerine forse dovute al fatto che l’anno scorso è stata operata all’anca, ma che evocano un effetto bullismo sulla sorella che ha un anno più di lei ma è alta decine di centimetri in meno. Un’amica mi ha girato la foto della prole Jolie con un messaggio che rievocava il fatto che all’asilo Shiloh si sentiva maschio, e che il fatto che ora sia evidentemente femmina forse dovrebbe farci riconsiderare questo delirio collettivo del non aspettare che diventino adulti prima di prendere sul serio le loro istanze. Ho rilanciato ricordandole che ora ha, Shiloh, quindici piccolissimi anni: fa in tempo a cambiare idea sulla propria identità – sessuale e di qualunque altro sottinsieme – altre venticinque volte (stima per difetto). Ma sia chiaro che io tutto questo non l’ho scritto, perché sto sui social da abbastanza tempo da sapere che dire come la pensi è un diritto inalienabile, ma assai più inalienabile è il diritto a non farsi rompere i coglioni dai giustizieri social e dall’ideologia totalitarista che va di moda nel periodo in corso. In questo caso, quella secondo la quale la mutevolezza dell’identità sessuale non è affatto segno di malattia mentale, e anzi dirlo mette in pericolo i malati di mente. Se do delle goccine a quello che si sente Napoleone non lo sto tutelando, macché: sto dicendo che va picchiato e discriminato e ucciso; è annuendo di fronte alla follia e dicendo che è davvero Napoleone, che dimostro di averlo a cuore. Come ha detto Bari Weiss sulla Cnn, parlando della viltà del New York Times ma anche della nostra di carneadi con uso di social: ma io perché dovrei passare settimane a smistare insulti se dico una cosa indicibile, quando posso commissionare un editoriale in cui ci sia scritto che Donald Trump è un mostro immorale? Vuoi mettere quant’è comodo.

Lavoro e discriminazioni. Svantaggiate ma non solo: le donne sono un capitale. Azzurra Rinaldi su Il Riformista il 28 Settembre 2021. La teoria economica ha sempre avuto un problema con il lavoro femminile. Non a caso, l’Homo Oeconomicus è, di fatto, davvero un maschio. Su di lui sono modellate tutte le caratteristiche del successo, così come configurato sin da Adam Smith: non solo è un uomo, ma è egoista, orientato alla massimizzazione, isolato. Un sociopatico, praticamente (e, devo dire, fortunatamente lontanissimo dalla realtà della maggior parte degli uomini reali che mi vengono in mente). Ad ogni modo, le donne, nel pensiero economico, fino ad una certa fase storica proprio non esistono. A tentare di colmare questa assenza sono gli economisti della Scuola di Chicago (meglio noti per il loro sfrenato liberismo, oltre che per aver sperimentato i propri modelli sul Cile di Pinochet). È Gary Becker ad occuparsi del lavoro delle donne e, in particolar modo, di quella che potrebbe apparire come una loro discriminazione in termini salariali. E la spiegazione suona più o meno così: quando una donna in carriera finisce la sua giornata di lavoro, si occupa della casa e dei figli. Cosa fa, invece, un uomo ogni giorno al ritorno dal lavoro? Torna a casa, si mette sul divano, legge un quotidiano o guarda la TV. È naturale quindi che la donna sia più stanca. E, di conseguenza, meno produttiva sul mercato del lavoro. Quindi, non deve sorprenderci che venga retribuita di meno, anche perchè il mercato è perfetto in ogni sua declinazione e quindi non ammette falle. (Era facile, no??). Sembrano riflessioni lontane nel tempo, ma la realtà dei fatti è che, ancora nel 2021, il tasso di occupazione femminile è considerevolmente più basso rispetto a quello maschile. Secondo i dati europei, nel 2020 il tasso di occupazione delle donne in età lavorativa (ovvero, compresa tra i 15 ed i 64 anni) è pari al 62,4%. Ma in Italia scendiamo al 49% e nel Sud Italia arriviamo perfino al 33,2%. Quanto alla disparità retributiva, possiamo citare il premier Mario Draghi, che, nel suo discorso programmatico al Senato, ha affermato che «L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa». Stando alle stime di Eurostat infatti, in Italia la componente discriminatoria del gender pay gap ammonta al 12%. Sulla scorta di questi dati e con l’obiettivo di avviare una controtendenza, nell’ultima Legge di Bilancio sono state introdotte alcune nuove agevolazioni che dovrebbero favorire l’assunzione delle donne. A partire dalla decontribuzione sul lavoro femminile. La Legge di Bilancio prevede un esonero contributivo del 100% a favore dei datori di lavoro che assumono nel periodo 2021-2022 donne che siano disoccupate da 6, 12 o 24 mesi, fino ad un importo massimo di 6.000 Euro all’anno. In realtà, l’esonero contributivo determinato con il nuovo bonus non è rivolto a tutte le donne, ma unicamente ad alcune categorie di donne, identificate come donne svantaggiate, come ad esempio le donne dai 50 anni di età in su che siano disoccupate da più di 12 mesi o le donne di qualsiasi età ma che siano disoccupate da almeno 24 mesi. Ma è rivolto, tra le altre, anche alle donne che risiedono nelle regioni ammissibili ai finanziamenti sui fondi strutturali europei, o a quelle che lavorano in settori ad elevata disparità occupazionale di genere. Anche nella Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, la riforma del Family Act prevede alcuni strumenti di fiscalità che dovrebbero contribuire a rimuovere gli ostacoli che le donne incontrano nel mondo del lavoro. Misure tra le quali si trova, ad esempio, la decontribuzione per assunzioni e sostituzioni di maternità, che dovrebbe mitigare la disparità nell’accesso di donne ed uomini al mercato del lavoro, rendendo meno oneroso per le aziende assumere una donna anziché un uomo. Stiamo quindi cercando di andare nella direzione giusta, a partire dalla fiscalità. Ma forse occorre soffermarsi su alcune riflessioni. Nel quadro dell’Unione europea, la strategia per la parità di genere 2020-2025 contiene un’affermazione potente: per eliminare il gender pay gap, occorre per prima cosa risolvere le sue cause profonde e radicate. Bisogna non solo intervenire sul divario salariale e sul differenziale del tasso di occupazione, ma bisogna anche aggredire il tema del lavoro di cura non retribuito, da cui deriva l’adozione massiccia del part-time, nonché sradicare gli stereotipi che sono alla base delle discriminazioni. L’Unione europea suggerisce anche una roadmap, che prevede non solo una pianificazione degli interventi specifici rivolti ad eliminare le disuguaglianze di genere, ma anche (e qui troviamo l’innovazione) una vera e propria integrazione della questione di genere su tutti i livelli dell’azione politica, dalla programmazione all’attuazione concreta. E forse su questo piano siamo ancora in difetto. Bene, infatti, la decontribuzione, che rappresenta senza dubbio un punto di partenza per sanare le disparità di genere sul mercato del lavoro, riconoscendo le donne come una categoria svantaggiata. Ma forse è arrivato per il nostro paese il momento di fare un salto culturale ed assumere davvero un principio di base (che ahinoi non è stato assunto neppure nel Pnrr): le donne non sono solo svantaggiate. Le donne del nostro paese rappresentano un capitale, sono più numerose degli uomini e più istruite, potrebbero contribuire alla creazione di ricchezza e di valore aggiunto. Ed il ruolo delle istituzioni dovrebbe essere anche quello di agevolare una transizione culturale che parta da questa presa di consapevolezza. Azzurra Rinaldi

Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano” il 27 settembre 2021. Certo, da una pubblicazione scientifica non è che potessimo aspettarci una citazione di Dante per descrivere con parole appropriate il genere femminile, ma definire la donna "corpo con vagina" è davvero troppo. Indignante e perfino sorprendente per una rivista di indiscutibile prestigio come la britannica "The Lancet", considerata insieme a poche altre come una sorta di Vangelo nel campo medico-scientifico. Per la verità, alla redattrice senior Sophia Davis non avevano affidato un compito facile, visto che era stata spedita al Vagina Museum nel Camden Market di Londra per recensire una mostra sul "menstrual shame" dal titolo "Periods on Display"; ma è evidente si sia, per così dire, fatta prendere la mano dagli schemi mentali e comunicativi attualmente in voga. Travolta dagli eccessi del politically correct, ammaliata dalle sirene della cancel culture e dall'ideologia woke - quella che appunto afferma la necessità di stare sempre all'erta di fronte a razzismo e alle discriminazioni sessuali -, per la copertina del suo articolo ha scelto un titolo che in realtà è una citazione del pezzo stesso, in cui si asserisce che «storicamente, l'anatomia e la fisiologia dei corpi con le vagine sono state trascurate». Una battuta consona al tema della mostra in un museo peraltro già di suo non esattamente aulico? Può darsi, ma di gran pessimo gusto visto che tra l'altro l'articolo appare su una pubblicazione che dovrebbe interessarsi di scienza senza far discutere di altro. La definizione, come ovvio, ha scatenato una diffusa indignazione sui social media, specie su Twitter, dove la pagina in questione è stata riportata provocando una serie di contraddittorie proteste, una specie di cortocircuito tra le vestali del pensiero unico. Tra chi si è ritenuto offeso ci sono politici, scienziati, medici. Ad esempio lo psichiatra in pensione e professore dell'University College di Londra Dave Curtis che comunica, indignato, di aver scritto a Lancet «per dire loro di togliermi dalla loro lista di revisori statistici e cancellare il mio abbonamento e non contattarmi mai più per nulla». Ci sono ovviamente e giustamente anche le femministe, come il gruppo "Women Make Glasgow", che dicono di voler presentare un reclamo formale su quella copertina «disumanizzante e sessista». Ma tra gli indignati ci sono anche gli attivisti dei diritti gay, lesbian, bisexual, trangender, e poi queer, intersexual e perfino asexual, secondo la versione attualizzata d'oltreoceano. «Il linguaggio disumanizzante ha ora infettato il Lancet», ha ad esempio twittato Dennis Kavanagh di Lesbian & Gay News. «Dove andremo a finire?» ha scritto invece Martina Navratilova, grande tennista del passato e celebrata atleta del mondo Lgbt. Ovviamente nessuno toglie a questi maître à penser della vulgata pseudo progressista il diritto e le libertà di indignarsi, se non fosse che sono proprio loro che hanno innescato la deriva che ha trascinato al largo anche il Lancet, promuovendo la cancellazione dei "gender binari" e di fatto la disumanizzazione dei sessi (si badi, non del sesso), ridotti così in definitiva a pura scelta individuale, se non addirittura a capriccio. In quest'ottica la vagina diventa una semplice caratteristica fisica, perfino trascurabile e in alcuni casi indesiderata, mentre l'utero viene relegato a mero organo utile solo allo scopo riproduttivo. D'altronde cos'è se non un "corpo con vagina" una donna che a pagamento riproduce un bambino per una coppia gay? Ma questa non è la sola contraddizione. L'altra, più politica, è che contro la definizione di Lancet si è scatenato tutto l'armamentario politically correct progressista e di sinistra, sotto il cui ombrello convivono appunto femminismo alla Boldrini ed estremismo Lgbt, anche se sono l'uno la negazione dell'altro. In questa supponente cozzaglia ideologica, convive chi vorrebbe declinare al femminile parole che non lo richiedono per onorare la parità dei sessi, e chi al contrario vorrebbe introdurre l'asterisco per annullare i sessi, neutralizzando e trascendendo i generi. Trasformando cioè l'umanità in corpi con vagine e corpi con peni.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 9 settembre 2021. Ho provato a immaginare una realtà parallela in cui la coppia Concita De Gregorio/David Parenzo alla conduzione di In Onda sia la stessa, ma a sessi invertiti. David è una donna, Concita un uomo. Ecco, non saremmo arrivati alla terza puntata senza le barricate delle femministe (me compresa) fuori dagli studi, visto non tanto l’evidente disequilibrio negli spazi concessi ai due nel programma (Parenzo parla meno della Lagerback da Fazio) ma per i modi con cui lei si rivolge a lui. Sbrigativi, sprezzanti, conditi da sorrisini nervosi attraverso i quali mostra forzatamente i denti (che nel linguaggio non verbale significano una cosa ben precisa: ti vorrei addentare la giugulare) e con una frequente espressione che copre tutte le scale di colori comprese tra il disprezzo e il compatimento. Davvero, se Concita De Gregorio fosse un uomo, non staremmo neppure più qui a parlarne. Avrebbe preso un unico, gigantesco cazziatone agli esordi e si sarebbe ravveduta. E invece ne parliamo perché ieri sera si è raggiunta la vetta più alta della sua arroganza. Ospite il ministro Luigi Di Maio, lo stesso Di Maio ha respirato quell’imbarazzo che si respira a cena, di fronte a una coppia di amici con lui che tratta di merda la moglie o viceversa e tu balbetti qualcosa per sdrammatizzare, ma vorresti infilare la testa nell’insalatiera per l’imbarazzo. Tra l’altro, duole dirlo, ma modi a parte, sul tema virus e Green Pass la De Gregorio era di un’impreparazione tale che Parenzo e Di Maio al confronto parevano Fauci e Burioni. A partire dalla sua sconcertante premessa, ovvero: “Il Green Pass da solo non serve a niente, è solo una certificazione che significa che sei tamponato o vaccinato per entrare nei posti”. Che voglio dire, certo che da solo non serve a niente, infatti non è l’unica misura di contenimento del paese. E no, non è “solo una certificazione”, ma, appunto, una misura di contenimento del virus e di protezione per i cittadini. A quel punto il ministro Di Maio spiega con chiarezza che “il Green Pass serve a entrare nei locali, luoghi insomma in cui c’è la più alta probabilità di trasmettere il virus. Non sarà certo meglio tornare al coprifuoco…”. La De Gregorio scatta come se Di Maio avesse urlato “sieg heil!” in piedi sulla scrivania. E lo interrompe con una supercazzola devastante, avvitandosi su se stessa come spesso le succede: “Il Green Pass è uno strumento di controllo, non di cura! Il vaccino cura o comunque previene cioè “cura” è inesatto, diciamo che PREVIENE DALLA malattia, mentre il Green Pass controlla se ti sei vaccinato. Quindi il governo si deve prendere la responsabilità eventuale”. In pratica, a un anno e mezzo dalla pandemia, la De Gregorio non ha ancora capito le basi dell’epidemiologia, e questo sarebbe pure un peccato grave ma accettabile, ma su quelle dell’educazione ero convinta andasse più forte. E invece riesce pure a rimproverare gli altri interlocutori del problema che la affligge in quel momento: la confusione.  “Introducendo il Green Pass abbassiamo la curva dei contagi!”, dice Di Maio, provando a semplificare il concetto. E lei, nervosa: “No, non è che abbassiamo la curva, col Green Pass non facciamo entrare le persone non vaccinate e tamponate, è questa la questione sennò facciamo confusione!”. In pratica, secondo la conduttrice, il Green Pass è una specie di tessera magnetica dell’hotel, serve solo a entrare in camera. Probabilmente lei accede ai tavolini al chiuso nei bar con la scheda della camera 107 dell’Hilton. Non ha capito quello che hanno capito anche i lampioni: se nei luoghi al chiuso entrano solo persone o vaccinate (quindi protette e meno contagiose se infette) o tamponate (quindi probabilmente non infette e in contatto con persone che se infette contagiano meno gli altri, perché vaccinate) il virus si contiene di più. E i primi ad essere protetti dal Green Pass sono proprio i non vaccinati. Che non sono discriminati, ma tutelati. Parenzo, che ha capito, aggiunge incauto: “Non voglio dar ragione a Di Maio, ma il Green Pass è incentivante!”. Ha dato ragione a un grillino. A UN GRILLINO. Lei mostra le gengive fingendo di sorridere e lì si capisce che butta male, tipo il gatto quando muove la coda. Sono segnali della natura che non si possono ignorare. E insiste, improvvisandosi portavoce “delle persone” che non si sa chi siano, se quelle che incontra lei al bar o quelle che al casello autostradale pagano contanti, boh: “Le persone non vogliono il Green Pass perché il Green Pass stabilisce che ci sia una differenza tra vaccinati e non vaccinati!”. Parenzo prova a proferire parola e lei: “Non sto parlando con te, sto parlando con LUI!”. Cioè, Parenzo non è un suo interlocutore titolato ad intervenire e il ministro è un “Lui generico”. Una specie di schwa, ma un po’ meno. L’invasione della Polonia è stato un momento di maggiore modestia, nella storia. Mentre Di Maio assiste allibito alla tensione tra i due conduttori, lei va avanti: “Molta gente dice ‘se ci dobbiamo vaccinare vi dovete prendere voi la responsabilità, perché io devo firmare? Dovete imporre voi l’obbligo’, oggi una signora mi ha scritto questo!”. Persone, gente, una signora. Deve essere la nuova sinistra che vuole dimostrare di ascoltare la gente. Ma soprattutto la nuova sinistra che non ha mai sentito parlare di “consenso informato” in tema di sanità. Un concetto nuovo, inedito, per la conduttrice. Di Maio dice un altro paio di cose insolitamente lucide e Parenzo, che ormai ha deciso di morire come quei delfini che si spiaggiano da soli e non sai perché, sussurra: “Io non sono d’accordo con Concita!”. I denti. Le gengive. “IO faccio un mestiere che è quello del giornalista e il giornalista fa domande!”, sibila lei. IO. Come a dire “tu invece sei un metalmeccanico” e “tu invece annuisci e basta”. Il problema è che le sue non erano quasi mai domande, ma affermazioni. Dovrebbe rivedersi la puntata, la De Gregorio, e scoprirebbe che oltre all’assenza di educazione, di equilibrio, di preparazione, ieri c’era anche quella dei punti interrogativi. I grandi latitanti, nella sua vita televisiva. E non solo.

DISCRIMINAZIONI DI GENERE. E se Einstein si fosse chiamato Alberta? Una favola insegna a dare alle scienzate il valore che meritano. Artefici di scoperte chiave, eppure oppresse dal “tetto di cristallo”. Un movimento prova ora a ribaltare il maschilismo scientifico. Stefania Di Pietro su L'Espresso il 31 agosto 2021. Proviamo ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere se Albert Einstein, Alexander Fleming ed Erwin Schrödinger fossero nati donne. È ciò che ha pensato Amit, l’ong spagnola, nata nel 2001, che riunisce le ricercatrici e tecnologhe di tutto il mondo attraverso la nuova campagna di sensibilizzazione #NomoreMatildas della GettingBetter Creative Studio. Immagini, video e tre racconti illustrati, scaricabili gratuitamente dal sito ufficiale sono tra le proposte nate con l’obiettivo di incoraggiare le ragazze ad intraprendere una carriera scientifica. L’icona posta a manifesto della campagna è Matilda Joslyn Gage, un’attivista americana che si occupò di abolizionismo, difesa dei popoli nativi ed emancipazione femminile. I creatori del progetto hanno deciso di ricordarla dopo la ricerca della storica della scienza Margaret W. Rossiter, la prima a denunciare nel 1993 l’invisibilità delle donne sotto il nome di «effetto Matilda». Con l’appoggio del Parlamento europeo, le tre favole spagnole sono diventate in breve tempo un fenomeno sociale. Le ipotetiche vite di tre donne geniali dotate di cognomi di un certo spessore, sono divenute spunto di riflessione per un pubblico senza età tanto da far registrare il sold out per la prima edizione di questi storybook. L’illustratore Rodrigo García Llorca ha alleggerito il tema con simpatiche illustrazioni in bianco e nero, mentre a raccontare con semplicità, empatia e senza troppa polemica le tre brevi favole sono stati gli scrittori Nöel Lang e Ángeles Caso, in collaborazione con la giornalista Carme Chaparro. In un’epoca in cui imperava un maschilismo di Stato, le carriere delle tre Matilde avrebbero avuto degli intoppi lungo il percorso a causa di una scarsa considerazione di fondo. Per la società le tre donne geniali sarebbero state «cristallizzate», relegate in una posizione periferica poiché non assimilabili alla normalità di genere, etichettate piuttosto come tre creature aliene, fondamentalmente fatte male perché dotate di un cervello troppo maschile. Le loro valide scoperte sarebbero state nascoste per rendere invisibile il contributo di un’intelligenza femminile al mondo della scienza. Ma i pregiudizi sulle attitudini rosa per fisica, matematica e chimica sembrano non tramontare mai. In generale, quando oggi si domanda a qualcuno di ricordare un grande scienziato, più della metà delle persone dice subito un nome maschile, con Albert Einstein che batte tutti. Nella storia compaiono pochi nomi di scienziate nonostante siano state artefici di scoperte chiave. Attualmente i riferimenti femminili sono appena un centesimo nei libri di testo delle scuole primarie e secondarie e poco più nei lavori accademici. Alcuni esempi sono riportati in un documento di otto pagine illustrate, che l’Amit propone di allegare ai libri di testo delle scuole elementari a partire dalla quinta classe, in quanto è il primo anno in cui si iniziano a studiare i personaggi che hanno fatto storia. Tra le donne mai citate c’è la biochimica ceca Gerty Cori, premio Nobel per la medicina nel 1947, riconoscimento che dovette obbligatoriamente condividere con il marito e un collega per le scoperte sul glicogeno. Poco si sa sul talento di Irene Joliot-Curie, figlia della famosa Maria che nel 1935 fu orgogliosa di vedere riconosciuto il premio Nobel per la chimica proprio alla ragazza, costretta a dividerlo con il marito collega. In tempi più recenti, l’immunologa francese Francoise Barré-Sinoussi ricevette nel 2008 il premio Nobel per la medicina insieme al più noto e citato Luc Montagnier per lo studio sull’Hiv. E la lista è lunga. L’idea di allegare ai libri scolastici ordinari degli opuscoli con le storie di scienziate poco raccontate è un valido tentativo per superare definitivamente il gender gap, partendo proprio dall’infanzia e dalla scuola. «Il divario di genere è ancora troppo largo e si riflette sulle condizioni economiche, sociali, sull’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro, in particolare per le discipline Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) in cui la presenza femminile è di certo troppo bassa. Oggi una ragazza su otto decide di iscriversi alla facoltà di Ingegneria informatica e se prima in Matematica si vedeva qualche spiraglio di speranza femminile, adesso le donne rappresentano soltanto i due quinti e i numeri sono sempre più in discesa», spiega Carmen Fenoll, Presidente dell’Amit e professoressa di Fisiologia vegetale presso la Facoltà di scienze ambientali e biochimica dell’Università di Castilla-La Mancha a Toledo. Nel manifesto dell’ong spagnola è espresso il punto cruciale della questione: quanto la mancanza di referenze femminili abbia avuto un forte impatto sulle aspirazioni delle ragazze nel momento della scelta professionale e come per loro sia ancora troppo complicato, rispetto ai colleghi maschi, decidere di intraprendere facoltà matematiche o ingegneristiche, non certo per assenza di capacità, ma solamente per la certezza di non essere successivamente prese in considerazione in ambito lavorativo. «La voragine di genere inizia purtroppo durante l’adolescenza, già nella scelta della scuola secondaria: soltanto tre ragazze su dieci si sentono incoraggiate a intraprendere studi scientifici e all’università il solco tra maschi e femmine diventa profondissimo. Se l’interesse femminile per le materie tecnico-scientifiche si sviluppa intorno agli undici anni, già cala verso i sedici, quando inizia la consapevolezza di ciò che si vorrebbe fare nella vita. Il motivo è da ricercare nella percezione di assenza di pari opportunità nel mondo del lavoro che determina un ripensamento e di conseguenza la spinta a scelte differenti, per così dire più sicure», spiega Carmen Fenoll. #NomoreMatildas non rappresenta soltanto una campagna puramente descrittiva, ma un modo per limitare i danni causati dall’invisibilità femminile in ambito scientifico. «Il problema non è da sottovalutare, poiché una delle disuguaglianze di genere più citate nel campo della scienza è il cosiddetto “soffitto di cristallo”. Le donne arriverebbero soltanto fino ad un certo livello di carriera, ma poi difficilmente raggiungerebbero il vertice e in ambito scientifico ancora oggi solo una scienziata su dieci assume alti incarichi accademici». In pratica le adolescenti percepiscono che la scienza sia una cosa da uomini e cambiano velocemente idea sul percorso da intraprendere. Inoltre la società, la famiglia e la scuola dubitano dell’idoneità delle ragazze a perseguire un cammino scientifico, quindi ciò crea forti dubbi anche nelle stesse adolescenti. «Chi riesce a superare questi ostacoli si ritrova in ambienti accademici ostili, ancora afflitti da stereotipi inconsci. Molte ragazze abbandonano e altre non riescono a realizzare il proprio potenziale. Questo circolo dell’invisibilità è molto difficile da spezzare, nonostante i progressi legislativi», afferma il presidente dell’Amit. L’hashtag nasce proprio con lo scopo di aiutare le donne a trovare il proprio ruolo nella scienza e a spingere le adolescenti a considerare questo campo come opzione di carriera senza farsi scoraggiare dai muri di cristallo, ma le azioni vanno attuate attraverso le istituzioni per assicurare il totale abbattimento delle discriminazioni, combattendo attivamente contro gli stereotipi di genere e garantendo un ambiente di lavoro equo per tutti. Occorre sostenere l’interesse delle bambine verso la scienza garantendo un pari accesso a percorsi formativi in ambito tecnico-scientifico, rendendole protagoniste attive delle proprie scelte. Margherita Hack e Rita Levi-Montalcini sono per fortuna tra le eccezioni alla regola. Le nostre signore della scienza erano dotate di qualità perennemente giovani: curiosità, sete d’avventura, ironia e spirito ribelle. Rita è stata la seconda donna italiana ad aver ricevuto un premio Nobel nel 1986 scoprendo il fattore di accrescimento della fibra nervosa, fu nominata senatrice a vita nel 2001, ma ammessa abbastanza tardi per i tempi storici come prima donna alla Pontificia Accademia delle Scienze. Margherita ha svelato al mondo un amore che nasceva dalla sete di conoscenza e per lei il coraggio di sapere non doveva avere età né tantomeno appartenenza ad un genere. «Oggi i geni solitari nel mondo della scienza sono un’eccezione, quasi sempre il lavoro è di squadra, ma l’effetto Matilda c’è ancora, alimentato da meccanismi inconsci che fanno pensare come i risultati raggiunti siano ad opera di uomini e che le donne rappresentino solo una piccola parte di quella squadra. È l’ora di sbarazzarci di questi stereotipi cosicché tutte le scienziate, di cui nessuno parla ai bambini, possano riprendere il posto che spetta loro nella storia». Le tre Matilde vogliono essere uno stimolo per risvegliare nelle bambine una vocazione scientifica, soffocando quelle voci che fin dalla più tenera età dicono loro che sono meno intelligenti e dotate per la scienza rispetto ai maschietti. In tal senso, la campagna Amit ha già avuto un forte riscontro: sono molti i professori che a titolo personale hanno pensato di utilizzare le tre favole come allegati ai libri di testo, mostrando anche ai propri alunni il video presente nel sito ufficiale della campagna. Ed è per tutto il mondo un esito che fa ben sperare.

·        La cura maschilista.

Curami. Report Rai PUNTATA DEL 01/11/2021 di Antonella Cignarale. Nello studiare la salute della donna, per anni, si è posta l’attenzione soprattutto sui suoi organi sessuali e riproduttivi. Le malattie, i sintomi, le cure sono state studiate prevalentemente sull’organismo maschile, traslando i risultati delle ricerche sulla donna, come se non ci fossero differenze. Per esempio, i sintomi di alcune malattie nella donna sono diversi da quelli nell’uomo e per questo non sempre riconosciuti: può accadere così che ad alcune donne colpite da Alzheimer sia diagnosticata la depressione o che altre colpite da infarto al miocardio finiscano ricoverate nei reparti di psichiatria. Simili errori si trascinano anche nello sviluppo di nuove terapie, quando i dati delle sperimentazioni farmacologiche effettuate su uomini e donne non sono analizzati separatamente. Nell'era della medicina di precisione è accettabile dal punto di vista etico, scientifico ed economico non considerare l’influenza delle differenze di genere?  

“CURAMI” Di Antonella Cignarale immagini di Alfredo Farina, Davide Fonda e Fabio Martinelli ricerca immagini di Paola Gottardi grafica di Michele Ventrone Report Rai

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Per anni le malattie, i sintomi e le cure sono state studiate prevalentemente sull’organismo maschile: il suo cuore, i suoi polmoni, il suo cervello. Non sulle donne. Un errore.

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Tutti gli organi sono differenti tra uomini e donne.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Si crede che l’infarto riguardi soprattutto gli uomini, invece le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte nelle donne. E i sintomi dell’infarto nella donna sono diversi da quelli nell'uomo.

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Il famoso dolore al petto irradiato al braccio sinistro la donna, soprattutto più giovane è, meno ce l’ha. Qualche dolore lo può avere tipo alla base del collo, all'addome, può anche avere solo un po' di nervosismo.

ANTONELLA CIGNARALE Per questo ci possono essere anche rischi di ritardo nel diagnosticare, ad esempio, una patologia in una donna?

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Sì. Io ho una signora che è andata a finire in gastroenterologia, ho un'altra signora che è finita in psichiatria. Però tutte e due avevano un infarto al miocardio.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E la cardio aspirina ha una particolare efficacia sulla donna?

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Solamente nel 2006 siamo arrivati a capire che nella donna previene l’ictus, ma perché questo? Perché fino a questo momento erano stati fatti esperimenti con l’aspirina solamente nell’uomo.

FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Dobbiamo pretendere che sia fatta la scienza rigorosa, che non sia traslato nelle donne ciò che è stato coperto negli uomini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Curami. Sembra facile. Buonasera. Le pari opportunità sono saltate anche nel campo della medicina. Se un farmaco viene ingerito invece che da un uomo, da una donna, potrebbe aumentare l’effetto e anche la reazione avversa potrebbe essere più cruenta. Ma questa è una spiegazione, perché quando viene fatta una ricerca, uno studio, viene fatta prevalentemente sugli uomini. Questo vale anche sullo studio delle patologie che vengono fatte più sul sesso maschile. Insomma. Ma qual è il prezzo nascosto che facciamo pagare - neppure tanto nascosto che facciamo pagare alle donne? Un alto prezzo. La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Sono passati vent’anni dall’allarmante rapporto del Government Accountability Office statunitense in cui veniva riportato che su dieci medicine ritirate dal mercato, otto presentavano maggiori rischi per la salute nelle donne che negli uomini. Tuttavia, poco è cambiato: sebbene le donne siano le maggiori consumatrici di medicinali, molti dei farmaci che assumono sono stati testati prevalentemente su un campione maschile di 70 chili.

ANTONELLA CIGNARALE Che differenza c’è quando questo farmaco lo assume un uomo di 70 chili e una donna come me?

 FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Può succedere che mi va in iperdosaggio, quindi, può avere più reazioni avverse ai farmaci.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E solo quando si sono verificati eventi gravi questa diversità è stata riconosciuta con una dose più appropriata per la donna. È successo negli Stati Uniti, dove è stata osservata da studi clinici una correlazione tra incidenti stradali e l’assunzione da parte delle donne di un farmaco per curare l’insonnia, a base di zolpidem. Rispetto agli uomini, la stessa dose di farmaco assunta la sera veniva eliminata più lentamente nelle donne aumentando il rischio di compromettere la guida la mattina dopo. Così negli Stati Uniti la FDA, l’agenzia regolatoria del farmaco, ha raccomandato di dimezzare la dose per la donna rispetto a quella per l’uomo.

FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Le diversità sono nell’assorbimento, nella distribuzione, nel metabolismo.

ANTONELLA VIOLA – IMMUNOLOGA – PROF. PATOLOGIA GENERALE UNIVERSITÀ DI PADOVA Le reazioni avverse che sono più frequenti, appunto, nel sesso femminile dipendono dal fatto che le donne hanno una biologia diversa. Ma dipende anche dal fatto che le donne, molto spesso, non sono incluse e studiate in maniera adeguata durante la sperimentazione preclinica e clinica.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il controllo degli effetti di un medicinale avviene durante la sperimentazione farmacologica ma è proprio qui che il sesso femminile è sottorappresentato. La fase preclinica viene condotta prevalentemente su animali maschi e anche nelle fasi successive il numero delle donne testate è spesso inferiore al numero degli uomini. I principali motivi di questa esclusione sono la variabilità ormonale, le fasi del ciclo e il rischio gravidanza.

FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Se tu fai una ricerca di genere rispetto a una ricerca non di genere spendi sicuramente il doppio, ma non solo: la ricerca di genere è più lunga. Quindi questo non incentiva né l’industria farmaceutica, né l’industria dei device, né i ricercatori.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Basterebbe bilanciare nei test il numero di donne e uomini e separare i risultati degli studi per ciascuno dei due sessi. L’associazione Women’s Brain Project ha condotto un’analisi sugli studi di farmaci sperimentati per l’Alzheimer, e ne emerge che solo 7 studi su 56 hanno riportato i dati della risposta ai farmaci separando quelli delle donne da quelli degli uomini.

ANTONELLA CIGNARALE Nello studio di patologie e nello sviluppo di nuove cure, quando non dividiamo i dati per uomo e per donna poi che cosa ci perdiamo?

ANTONELLA SANTUCCI CHADHA – AD PRO BONO ASSOCIAZIONE WOMEN’S BRAIN PROJECT Perdiamo delle informazioni importantissime a capire come la malattia si differenzia tra maschio e femmina in termini di sintomo, di decorso e quindi, successivamente, di risposta terapeutica ad un determinato agente.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO La struttura di farmacologia sperimentale del Centro di Aviano ad aprile ha pubblicato un’analisi sull’efficacia dei vaccini per il COVID-19 nei due sessi. I dati su cui si è basato lo studio sono quelli valutati dagli enti regolatori per darne l’approvazione. All’epoca i dati pubblici divisi per sesso erano quelli di Pfizer, Moderna, Johnson e Sputnik e ne emerge come a poche settimane dalla prima e dalla seconda dose la percentuale di efficacia nel prevenire il COVID-19 sia leggermente diversa nei due sessi.

GIUSEPPE TOFFOLI – DIRETTORE FARMACOLOGIA SPERIMENTALE CRO DI AVIANO (PN) Una volta fatto il vaccino è efficace nell’uomo e nella donna, però c’è un trend di tendenza di efficacia maggiore nell’uomo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E con il passare del tempo il trend sembra cambiare. Confrontando questi primi dati con quelli pubblicati a settembre relativi all’efficacia di Pfizer e di Moderna dopo 5/6 mesi dalla seconda dose si nota come la percentuale di efficacia diventi maggiore nella donna.

GIUSEPPE TOFFOLI – DIRETTORE FARMACOLOGIA SPERIMENTALE CRO DI AVIANO (PN) Probabilmente la capacità del sistema immune di una donna diventa più, diciamo, prono a difendersi dal virus con l’andar del tempo rispetto all’uomo.

ANTONELLA CIGNARALE Siete riusciti a fare anche un paragone della sicurezza del vaccino nell’uomo e nella donna?

GIUSEPPE TOFFOLI – DIRETTORE FARMACOLOGIA SPERIMENTALE CRO DI AVIANO (PN) Sì. Noi abbiamo dati disaggregati per sesso dopo cinque mesi relativi al vaccino Moderna. Se dobbiamo fare il confronto, è un po’ più sicuro nell’uomo rispetto alla donna, questo è il dato che emerge.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ma per l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, questi dati sull’efficacia dei vaccini non evidenziano differenze significative tra i due sessi. E neanche i dati sulla sicurezza di Moderna sono un chiaro segnale di aumento di reazioni avverse nelle donne rispetto agli uomini.

ANTONELLA CIGNARALE Com’è possibile che dai dati della sperimentazione dei vaccini le differenze tra uomini e donne nella sicurezza non sono considerate significative, poi però, dal rapporto di farmacovigilanza vediamo che il 72 percento delle reazioni avverse sono state registrate nelle donne.

ANTONELLA VIOLA – IMMUNOLOGA – PROF. PATOLOGIA GENERALE UNIVERSITÀ DI PADOVA Questo succede perché passando da una vaccinazione a poche migliaia di persone a centinaia di milioni di persone, ecco che le reazioni anche più rare possono emergere. Se poi lei guarda bene i dati disaggregati non solo per genere ma anche per età, vedrà che la differenza tra uomini e donne è più ampia nell’età fertile, no? Quindi dai 20 anni ai 50 più o meno proprio perché questa è la fascia in cui il sistema immunitario delle donne è molto più reattivo rispetto a quello degli uomini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non c’erano dubbi che fossero le più reattive. È la fotografia che emerge anche dal Centro di Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità che ha appurato che i vaccini a MrnA, sono più efficaci per contrastare la forma sintomatica del virus, nelle donne rispetto agli uomini. 96% contro 88%. Ma questo noi lo possiamo sapere perché sono stati divisi i dati in questo per età e sesso. Ma non sempre funziona così, anzi, le aziende farmaceutiche e i ricercatori, quando devono sperimentare nei test preclinici o quelli clinici o quando vengono sperimentati i dispositivi medici, non studiano in materia approfondita le reazioni sulle donne. Questo perché hanno un organismo più complicato e diverso e perdono più tempo che si traduce in più costi. Allora viene semplice traslare quello che hanno scoperto sull’uomo. È una visione miope perché non calcolano che quello che risparmi oggi, domani lo dovrai investire a spese del Sistema Sanitario Nazionale, per curare le reazioni avverse non previste o le diagnosi errate. La soluzione c’è: investire sulla medicina di genere. Anche perché poi, a pensarci bene non è che è così etico far pagare alle donne anche quest’altro prezzo.

·        Comandano Loro.

Mario Bernardi Guardi per "Libero quotidiano" il 12 dicembre 2021. «Io sono io» amava dire Virginia Verasis, contessa di Castiglione. Bella, anzi bellissima. Ma tutt' altro che impossibile, visto che ebbe una cinquantina di amanti. Tra cui un re, Vittorio Emanuele II di Savoia, un imperatore, Napoleone III Bonaparte, il bel diplomatico Costantino Nigra, ministri, banchieri, giornalisti. Tutti affascinati da quella "seduttrice seriale" (così la definisce Benedetta Craveri nella bella biografia La contessa. Virginia Verasis di Castiglione, Adelphi, pp. 452, euro 24). Disposta a tutto per raggiungere i suoi scopi, infrangeva i cuori e incendiava i sensi. Altera ed algida, per decenni signoreggiò di corte in corte, spesso ostentando un sovrano disdegno per quelli che spasimavano per lei. Fino a un vero e proprio delirio di onnipotenza che diventò cupa depressione quando la sua immagine cominciò a incrinarsi e prese il via una inarrestabile decadenza.

ANTESIGNANA Ma prima di allora la buona stella aveva sfolgorato alla grande e più che mai brillò quando il cugino Camillo Benso di Cavour la convinse, senza far troppa fatica, a portarsi a letto l'Imperatore Napoleone III. Per una buona causa, è ovvio: quella col contrassegno sabaudo, che prevedeva la lotta all'Austria e l'indipendenza della Lombardia e del Veneto. Anche l'Unità d'Italia? Bè, il Porco Re (così Virginia chiamava il Savoia, visti i suoi irrefrenabili appetiti sessuali) e il conte di Cavour non ci pensavano ancora: ma forse lei, sì, perché era una buona patriota e ci teneva ad essere ammirata anche per la sua intelligenza politica. Del resto, ne darà prova anche in seguito, nel 1870, quando, dopo la "breccia di Porta Pia", attiverà amicizie e arti diplomatiche per evitare che il Papa Pio IX, sdegnato dell'affronto sabaudo, abbandonasse Roma. Difficile, di fronte a una personalità del genere, bilanciare luci ed ombre. Meglio, come ha fatto Benedetta Craveri, disegnare il profilo di una donna che, a metà Ottocento, «prefigurò le celebrità da rotocalco ..., interpretando tutti i ruoli del repertorio teatrale (...) e dosando con sapienza le sue performance». Una Diva, in anticipo sui tempi, che, tra l'altro, intuì la potenza espressiva della fotografia, affidando la propria bellezza a un gran numero di ritratti. Mentre, come segnala la Craveri, svariati documenti inediti conservati in archivi italiani e francesi, consentono di ricostruire la sua personalità e la sua vita. Insieme alla ricca corrispondenza, che, all'insegna della più spregiudicata schiettezza, ebbe con un vecchio amico di famiglia, il principe Giuseppe Poniatovski, uomo politico del Secondo Impero. E anche a lui - pur chiamandolo "il Vecio"non avrebbe negato i suoi favori. Ma, come si è detto, li concesse a tanti, da sapiente ammaliatrice che irretiva con la sua sensualità ma restava sempre padrona di sé.

I GENITORI Nata nella Firenze granducale, "la città più gaia d'Italia", il 22 marzo 1837, Virginia era figlia di Filippo Oldoini, spezzino, diplomatico sabaudo, e di Isabella Lamporecchi, di agiata e onorata famiglia. Dunque, educazione e frequentazioni di ottimo livello. Ma mentre al babbo Virginia vuole un gran bene (in seguito, quando stringerà legami con politici e governanti, cercherà in ogni modo di favorire la sua carriera), lo stesso non può dirsi per mamma. Isabella ha "voglia di tenerezza", ma la figlia con lei non si confida punto, o molto poco. E sarà così anche in seguito quando il matrimonio di Virginia, andata sposa a diciassette anni, naufragherà miseramente. E sì che suo marito, il conte torinese Francesco Verasis di Castiglione, diplomatico sabaudo, aveva e avrà sempre per lei una vera e propria devozione, e si ingegnerà in ogni modo per salvare il decoro familiare. Niente da fare. Virginia che, già nel 1855, tre mesi dopo avergli dato un figlio, Giorgio, gli ha messo le corna, lo umilia con la sua indifferenza e quando la coppia si trasferisce a Torino lei fa quel che le pare. Non ha nessuna voglia di essere una sposa e una madre "esemplare". Del resto, il povero conte, non si avvede delle corna o finge di non vederle. E i genitori non hanno voce in capitolo di fronte a quella figlia che sfugge a ogni controllo. E che dunque accetterà di buon grado il ruolo di seduttrice dell'Imperatore Napoleone III, l'unico che può favorire le ambizioni "italiane" del "Porco Re" e di Camillo di Cavour. Una volta in Francia, su "mandato" istituzionale, Virginia, un ballo a corte dopo l'altro, sfolgora per la sua bellezza. Così, lo sciupafemmine Napoleone, ammaliato, e ovviamente facendo il calcolo dei propri interessi "europei", un passo dopo l'altro si consacra alla causa risorgimentale. Per la scostumata Virginia ci saranno alti e bassi, tonfi e trionfi. In ogni caso, avrà il suo bel posto nella Storia e nell'"immaginario" tricolore.

Storia. Le donne guerriere più famose della Storia. Giuliana Rotondi l'1 aprile 2020 su Focus (Facebook).

I reparti regolari femminili al fronte apparvero solo nel ‘900. Ma nei secoli precedenti non sono mancati esempi di guerriere e condottiere molto valorose.  Ecco le più famose.  I primi reparti militari formati da sole donne, in Europa, sono nati nel Novecento. Uno dei primi fu istituito in Russia durante la prima guerra mondiale (1917): erano i battaglioni femminili della morte - nella foto - ed erano composti da donne che si offrivano volontarie per combattere in prima linea. Però nei secoli precedenti non sono mancati casi di condottiere scese sui campi di battaglia per difendere il loro popolo. E se quello delle donne amazzoni è un mito, alimentato probabilmente da alcune guerriere scite che combattevano a cavallo, sono tutt’altro che leggendarie le storie di donne e regine che hanno davvero impugnato le armi in nome di un’ideale o per difendere i confini del proprio territorio. Ecco alcune delle guerriere più famose della Storia.

L’amica dei Persiani. Artemisia (VI-V secolo a.C.) fu sovrana di Alicarnasso, un piccolo centro in Asia Minore. Durante la seconda guerra persiana si schierò contro i Greci al fianco dell'Impero persiano. Secondo Erodoto (484-430 a.C.), anche lui di Alicarnasso, la regina partecipò alla battaglia di Salamina (480 a.C.) e, quando la situazione volse a sfavore dei Persiani, capendo che non c’era più margine di vittoria, si mise in salvo grazie a un originale stratagemma: ordinò ai marinai di sostituire le insegne con altri contrassegni che riproducevano i colori e i simboli della flotta greca. A battaglia conclusa, continuò a interessarsi alle sorti della guerra. Il re dei re Serse la consultò più volte e la ricompensò anche con una armatura greca.

La vendicatrice. Tomiri (VI secolo a.C.), regina dei Massageti, è diventata famosa per aver sconfitto e ucciso l'imperatore persiano Ciro il Grande (530 a.C.) quando questi invase il suo paese per conquistarlo. Il suo spirito truce è diventato leggendario: per vendicare la morte del figlio ucciso da Ciro in un combattimento, prima assassinò l’imperatore persiano, poi gli immerse la testa in un otre di sangue. Infine lo decapitò e lo oltraggiò. Secondo alcuni resoconti tenne la testa del sovrano con sé tutta la vita, usandola come coppa per bere il vino.

La più feroce anti romana. Budicca (33-60 ca.d.C.) era la regina della tribù degli Iceni (Inghilterra orientale). Negli anni in cui i Romani erano impegnati nella conquista della Britannia (43-84 d.C.) guidò la più grande rivolta delle tribù dell'isola contro di loro. Dione Cassio (II secolo) la descrive come una donna con “gli occhi feroci e la voce aspra”. In realtà sembra fosse molto alta e molto bella. Di origine nobile, a 7 anni andò a vivere in un’altra famiglia dove apprese le tradizioni celtiche, sposando poi il re della potente tribù degli Iceni. Alla morte del marito, i Romani occuparono il loro regno, umiliandola pubblicamente. Nel 60 d.C. guidò una rivolta antiromana che culminò nella battaglia di Watling Street. Costretta ad arrendersi si tolse la vita.

La regina di Palmira. Zenobia (III secolo d.C.) regina del regno di Palmira (sì, proprio la città distrutta dall'ISIS) fu una sovrana fieramente anti romana. Il suo regno al momento della massima espansione andava dalla Siria ai confini dell’Egitto. La regina puntava però ad espandersi in tutta l’Asia minore. Nel 270 cercò un accordo con l'imperatore romano Aureliano per consolidare i confini dei suoi territori. Ma di tutta risposta lui fece una controffensiva sconfiggendola a Emesa (272). Dopo l’assedio di Palmira, mentre cercava di fuggire in Persia, fu arrestata, ma Aureliano le salvò la vita: fu condotta a Roma e fatta sfilare in città. Passò gli ultimi anni a Tivoli.

La Pulzella d’Orléans. Giovanna d’Arco (1412-31) visse durante la guerra dei Cent’anni (1337-1453) quando a confrontarsi erano due nazioni nascenti, Francia e Inghilterra. Di umile origine, a 17 anni si convinse di essere stata scelta da Dio per salvare la Francia, così percorse oltre 2000 km e raggiunse la corte di Carlo VII per chiedere di poter cavalcare - senza nessun comando - alla testa dell'esercito che andava a soccorrere Orléans, assediata dall'esercito di Enrico VI. Avuto il consenso, la Pulzella e il suo esercito riuscirono a liberare Orléans. Ma la sua carriera si interruppe in fretta: catturata l’anno successivo in un'imboscata fu consegnata a Giovanni di Lussemburgo, che la diede come bottino di guerra agli Inglesi. Nel 1431, a soli 19 anni, fu accusata di eresia e bruciata viva. Oggi è santa e patrona di Francia.

La regina di Forlì. Caterina Sforza (1463-1509), figlia di Galeazzo Maria Sforza e madre di Giovanni dalle Bande Nere, governò su Imola e Forlì. Soprannominata tygre per il suo coraggio e la sua determinazione, si occupò personalmente della difesa dei suoi Stati: pianificò le manovre militari, si curò dell'approvvigionamento dei soldati, delle armi e dei cavalli e anche dell’addestramento delle milizie. Tanto zelo non bastò però a difendere il suoi territori dalle conquiste del famigerato Cesare Borgia, detto il Valentino. Imprigionata a Roma, dopo aver riacquistato la libertà, visse i suoi ultimi anni a Firenze.

Donna samurai. Nakano Takeko (1847-68) fu un'onna-bugeisha, ovvero una donna guerriera appartenente alla nobiltà giapponese. Queste donne potevano partecipare alle battaglie, insieme ai samurai ed erano addestrate all'uso delle armi per proteggere la loro casa, la famiglia e l'onore in tempo di guerra. Nakano Takeko si mise a capo di un corpo speciale di donne guerriere, una sorta di esercito femminile e combatté servendosi del naginata (una spada giapponese con una lunga lama ricurva). Morì sul campo durante la battaglia di Aizu (1868) nel pieno della guerra civile giapponese.

Guerriera e scrittrice. Nadežda Andreevna Durova (1783-1866), figlia di un comandante Ussaro, crebbe tra i cavalieri. Forse anche per questo pensò che la sua strada non potesse essere la vita domestica, ma la carriera militare. Così si fece arruolare con un nome maschile nel corpo degli Ulani, soldati a cavallo armati di lancia, e durante le guerre napoleoniche vinse molte medaglie tanto da essere promossa addirittura ufficiale. Appassionata anche di letteratura pubblicò poi le sue memorie nella rivista Sovremennik (1836) con una presentazione del poeta russo Puškin.

Guerriera e scrittrice. Chiudiamo questa gallery con una "guerriera" dei giorni nostri: Asia Ramazan (1996-2016), una combattente curda che ha cercato di fermare l’avanzata dell’Isis nei territori del Kurdistan siriano. Nel 2014, a 18 anni, era entrata come volontaria nelle fila dell’Ypj la milizia femminile curda interna alla milizia del Kurdistan siriano. Diventata famosa sui media occidentali come simbolo di eroina resistente, è morta nel 2016 nella Siria del Nord.

Storia. Le 15 donne più potenti di sempre. Elisabetta Intini il 22 giugno 2016 su Focus (Facebook). 15 antesignane del potere politico che hanno fatto la storia, regnando (nel bene e nel male) in un universo al maschile. Per la maggior parte della storia scritta, e in un gran numero di culture, la politica è stata una prerogativa maschile. Ma fortunatamente ci sono state alcune rare eccezioni: donne che hanno conquistato e gestito il potere in modo illuminato e per lunghi periodi, tessuto relazioni, ricucito strappi, sposato un ideale (anche in modi non sempre pacifici), garantito prosperità economica e tenuto alla larga le ingerenze. Vi raccontiamo alcuni celebri esempi di sovrane, imperatrici, donne faraone e primi ministri che hanno inciso il loro nome a chiare lettere nella Storia.

Hatshepsut (XV secolo a.C.)

Divenne la prima donna sovrano d'Egitto in un'epoca in cui non esistevano neppure i vocaboli per riferirsi a un faraone donna. Potente sacerdotessa, incoraggiò le arti e i commerci, dando slancio all'economia; fece fiorire l'edilizia e garantì un'istruzione al futuro faraone, che pure avrebbe dovuto aspettare 30 anni per divenire l'unico re d'Egitto. Per mantenere il potere era solita vestirsi e farsi ritrarre con abiti maschili (e con la barba). Voleva dimostrare di essere simile ai faraoni uomini anche nell'aspetto, e rassicurare sul fatto che non avrebbe, con eventuali figli, scalzato il legittimo faraone, ovvero il figliastro Thutmose III, ancora troppo giovane per salire al trono.

Cleopatra (69-30 a.C.)

L'ultima regina del Regno tolemaico d'Egitto, celebrata dal cinema per l'indiscusso fascino di fronte al quale caddero personalità del calibro di Giulio Cesare e Marco Antonio, era anche un'abile statista e una fine conoscitrice delle relazioni internazionali, e riuscì a influenzare la politica dell'Impero romano in diverse circostanze. Grazie al supporto di Cesare riconquistò il trono dopo la guerra civile con il fratello Tolomeo, e ottenne una posizione di favore per il suo regno presso l'impero. Divenendo amante di Marco Antonio, dopo l'assassinio di Cesare riuscì a consolidare il dominio sull'Oriente, fino alla sua morte: nel 30 a.C. la regina si fece mordere da un aspide (o ingoiò veleno) per non cadere nelle mani di Ottaviano, che ridusse l'Egitto a provincia dell'Impero Romano.

Budicca (33-60/61 d.C.)

La giovane regina della tribù degli Iceni, nell'Inghilterra orientale, è ricordata per aver guidato la più feroce rivolta anti-Romana dell'isola.

Dopo aver protestato per l'esproprio delle terre del defunto marito Prasutago da parte dei Romani, fu denudata e umiliata in pubblico dai conquistatori, che stuprarono le sue figlie. Budicca, esperta di arte militare, organizzò allora una vendetta, chiamando a raccolta tutti i nobili Iceni scontenti, infliggendo al proconsole romano Paolino una prima, dura sconfitta. Vinta una battaglia, perse però la guerra e pur di non cadere nelle mani dei Romani Budicca si suicidò, avvelenandosi.

Ulpia Severina (in carica dal 274 al 275 d.C.)

Moglie dell'Imperatore Aureliano, potrebbe aver regnato da sola per un anno tra la morte del marito e l'elezione del successore Marco Claudio Tacito. Lo si evince dalla sua effigie raffigurata molto spesso sulle monete in questo periodo di transizione. Se così fosse, si tratterebbe dell'unica imperatrice romana che abbia governato in modo ufficiale.

Teodora di Bisanzio (497-548)

Moglie dell'imperatore d'Oriente Giustiniano I, regnò al fianco del marito, con pari dignità e potere decisionale. Si dice che in molte occasioni fosse ella stessa la "mente" di importanti decisioni politiche: come quando, in occasione della rivolta di Nika, scoppiata nel 532 a Costantinopoli per rovesciare l'imperatore, convinse il marito a non fuggire, ma a rimanere e sedare la ribellione.

Promotrice di molte leggi a tutela delle donne, morì forse per una forma di cancro, tra i primi casi storici documentati di questa malattia. Nella foto, l'imperatrice raffigurata in un mosaico nella Basilica di San Vitale, a Ravenna.

Imperatrice Suiko (554-628)

Prima imperatrice di cui si abbia attestazione scritta in Giappone, salì al trono prima dei propri figli (che pure erano eredi legittimi) per sanare un periodo di forti instabilità politiche. Consolidò il buddismo, introdusse il calendario e la burocrazia cinesi in Giappone, e permise l'ingresso nel paese di artigiani cinesi e coreani. Introdusse una costituzione di 17 articoli che ribadiva i principi morali del buddismo e la supremazia della figura imperiale.

Wu Zetian (624-705)

Anche chiamata Wu Zhao, o Wu-hou, è considerata una delle donne più potenti della storia della Cina, l'unica ad aver fondato una propria dinastia, la dinastia Zhou. Originariamente concubina di ultimo livello per gli imperatori della dinastia Tang, riuscì a compiere una rapida ascesa sociale, divenendo la favorita dell'imperatore Gao Zong, e scalzando le rivali (tra cui la moglie legittima del sovrano). Fece abbassare le tasse e promosse lo sviluppo agricolo, consolidando il buddismo come religione di stato. Eleonora di Aquitania (1122-1204)

Fu tra le più ricche e potenti donne dell'Alto Medioevo, e moglie non di uno, ma di due re. Figlia primogenita del duca di Aquitania, tra i più importanti domini di Francia, sposò dapprima il sovrano di Francia Luigi VII, con il quale partecipò alla seconda crociata. Ma i due non andavano d'accordo e "divorziarono"(ottenendo l'annullamento delle nozze) nel 1152. Eleonora sposò allora Enrico II, futuro re di Inghilterra, da cui ebbe 8 figli (due dei quali, Riccardo e Giovanni, sarebbero divenuti sovrani). Fu più volte coreggente del potere e fu una figura chiave nel trasformare l'Aquitania in una delle terre più culturalmente interessanti dell'Europa dell'epoca. Qui la vediamo rappresentata nel ruolo di paciere con i figli Giovanni e Riccardo.

Isabella di Castiglia e Aragona (1451-1504)

Moglie di Ferdinando di Aragona, fu con il marito sovrana congiunta dell'intera Spagna. Per contratto matrimoniale poteva governare la Castiglia in modo indipendente, e lo fece con decisione.

Fervente cattolica, introdusse in Castiglia l'Inquisizione, e fece espellere dalla Spagna oltre 170 mila ebrei. Aiutò il consorte nella conquista di Granada, territorio dei Mori, e fu la prima sostenitrice, con il marito, dei piani di esplorazione di Cristoforo Colombo, con il quale la vediamo raffigurata (il navigatore è sulla sinistra, sulla destra il marito Ferdinando).

Elisabetta I di Inghilterra (1533-1603)

Figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, governò in un contesto ricco di congiure familiari e rivalità internazionali (prima tra tutte, quella con la Spagna). Per il rifiuto di sposarsi per convenienza politica, si guadagnò il soprannome di "Regina Vergine". Fu fervida sostenitrice della Chiesa di Inghilterra e si oppose per questo motivo a Maria Stuarda, sua cugina e regina di Scozia, simbolo del Cattolicesimo inglese (Elisabetta la fece giustiziare). Tra i suoi maggiori successi politici, ci fu la sconfitta dell'Armada Spagnola in acque inglesi, nel 1588. Il suo regno vide anche una fioritura culturale senza precedenti: William Shakespeare e Francis Bacon sono solo alcuni degli intellettuali che vissero nella sua epoca.

Caterina II di Russia (1729-1796)

È considerata uno dei massimi esempi di dispotismo illuminato: estremamente colta, non esitò a esercitare il potere in modo assolutista e dispotico. Sposò il granduca ed erede al trono Pietro Fëdorovič con il quale entrò presto in disaccordo, fino a ordinare una cospirazione per imprigionarlo (il sovrano morì in carcere). Salita al potere, governò secondo ideali illuministici, supportando riforme giuridiche, nell'istruzione e nell'amministrazione. In politica estera è famosa per aver annesso al suo impero buona parte della Polonia, sopprimendo senza pietà i nazionalismi di quella terra.

Cixi, imperatrice della Cina (1835-1908)

Come per altre imperatrici orientali, la sua ascesa al potere iniziò dal grado di concubina. Ma la sorte giocò a suo favore e fu l'unica a dare un figlio maschio all'imperatore Xianfeng: quando questo morì, assunse la reggenza del potere prima per il figlio, poi per il nipote, rifiutandosi di farsi da parte quando i legittimi eredi al trono ebbero raggiunto la maggiore età. Prima del record della Regina Elisabetta, fu suo il regno più lungo della storia d'Inghilterra. E il suo potere fu esercitato nell'epoca coloniale, il che fece della regina il simbolo della potenza espansionistica britannica nel mondo. Madre di nove figli, guidò il paese in un periodo di intensi cambiamenti sociali ed economici, sotto lo sguardo attento del marito, il Principe Alberto, del quale era sinceramente e profondamente innamorata.

Golda Meir (1898-1978)

Fu primo ministro di Israele in un periodo particolarmente complesso della storia del Paese, dopo il massacro di 11 atleti e allenatori israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del 1972, e durante il conflitto arabo israeliano del 1973. Fu anche tra gli esponenti di spicco del movimento sionista, per la creazione di uno stato israeliano in Palestina. In molti la paragonano, per il piglio e la longevità al potere, alla "Lady di Ferro" Margaret Thatcher (vedi foto seguente). Qui la vediamo in una conferenza stampa con alcuni senatori americani, a Washington, nel 1970.

Margaret Thatcher (1925-2013)

Unica donna primo ministro del Regno Unito, eletta per 3 mandati consecutivi. Per la sua gestione inflessibile degli scioperi interni e di alcune crisi internazionali (tra le quali l'assedio all'ambasciata iraniana a Londra da parte di 6 terroristi arabi nel 1980) si è guadagnata il soprannome di "Iron Lady" (la Lady di ferro). Il suo operato non è esente da critiche storiografiche, come quella di razzismo e di non aver favorito l'ascesa al potere di altre donne. Nella foto, la Thatcher in un discorso a un congresso di giovani conservatori, nel 1975.

Francesco Semprini per "la Stampa" il 3 dicembre 2021. È considerata una delle donne più potenti al mondo, non solo per i ruoli svolti in alcune tra le più grandi multinazionali del Pianeta, ma per il suo impegno a favore dei diritti Lgbtq. Susan E. Arnold è la prima presidente donna (chairwoman) di Disney, appena nominata dal Cda, prenderà il posto del veterano Bob Iger numero uno del colosso dell'animazione dal 2000, e dal 2005 al 2020 anche amministratore delegato del gruppo. Il guru artefice dell'acquisto dei marchi Pixar, Marvel, Lucasfilm e 21st Century Fox nel 2019, e con velleità politiche mai concretizzatesi. «Nel mio nuovo incarico continuerò a servire gli interessi a lungo termine degli azionisti di Disney e a lavorare a stretto contatto con l'a.d. Bob Chapek (nominato nel 2020) per onorare l'eredità secolare dell'azienda in termini di eccellenza creativa e innovazione», afferma Arnold in una nota. La successione sarà effettiva alla fine dell'anno assieme a una serie di sostituzioni ai vertici del gruppo tese a cementare la nuova leadership di Disney. Arnold porta in dote 14 anni nel ruolo di consigliera del Cda ed è considerata a tutti gli effetti parte della famiglia che ha dato i natali a Topolino e Minni. A sottolinearne il valore è lo stesso Iger: «Susan è una dirigente stimata, la cui ricchezza di esperienza, integrità incrollabile e giudizio esperto sono stati pregi importanti per l'azienda da quando è entrata a far parte del Cda nel 2007». Del resto, Arnold ha una vasta esperienza nei Consigli di amministrazione così come nelle strategie relative ai beni di largo consumo. Prima di sbarcare in California è stata dirigente nella società di investimento Carlyle e, precedentemente, di Procter & Gamble, ed è stata consigliera nel Cda di McDonald's per otto anni. Guiderà un colosso che ha dovuto superare un periodo di turbolenze senza precedenti, con la chiusura dei parchi e delle sale cinematografiche a causa della pandemia di Covid. La società da allora ha accelerato i suoi piani per concentrarsi sui servizi di streaming come Disney+, che ha visto una rapida crescita ma anche un più recente rallentamento. Nessun dubbio quindi sulla bontà della scelta che peraltro ha la portata storica di consacrare alla guida del gigante dell'animazione la prima donna presidente nei 98 anni di vita della società. Una donna considerata più volte dalle riviste Fortune e Forbes tra le più potenti al mondo anche l'attivismo dal punto di vista sociale di cui può fare vanto. Apertamente omosessuale, si adopera a sostegno dei diritti Lgbtq nel mondo del business. Lei stessa ha ricordato come in P&G, nonostante le dichiarazioni di facciata, la leadership fosse fortemente conservatrice e i colleghi omofobi. «Vogliamo dirla tutta? C'erano uomini che erano molto potenti alla Procter che si rifiutavano di riconoscere gli stessi diritti alla comunità Lgbqt. Non ce lo meritavamo - racconta Arnold -. Non c'era nessun programma o iniziativa in azienda volta a contrastare questo orientamento». La sua testimonianza ha contribuito la stessa P&G ad avviare una campagna per l'uguaglianza dei diritti Lgbtq anche attraverso un cortometraggio «Out of the Shadows» (fuori dall'ombra), che racconta il tormento a cui erano sottoposti i dipendenti con orientamenti sessuali non etero nei primi anni 'Novanta, gli stessi che hanno unito le forze combattendo per l'uguaglianza dei diritti sul posto di lavoro.

Doppio record. Prima ad essere eletta; prima a dimettersi.

Svezia, per la prima volta una premier donna: ma si dimette dopo poche ore. Andrea Tarquini su La Repubblica il 24 novembre 2021. Con la nomina di Magdalena Andersson le donne governavano in metà dei Paesi europei, ma dopo il "no" del Parlamento alla sua finanziaria il suo esecutivo è entrato subito in crisi. Come previsto, Magdalena Andersson è la prima donna-premier svedese. Ma si è già dimessa. Col no del Parlamento alla sua finanziaria, la sua missione è durata poche ore. Eletta giorni fa dal partito di governo (la storica socialdemocrazia, Sap) nuova leader al posto del dimissionario da leader politico e da premier Stefan Löfvén, oggi Andersson, ministro delle Finanze uscente, era appena stata di fatto automaticamente confermata, sebbene a fatica, capo dell'esecutivo dal Riksdag, il parlamento unicamerale della prima potenza nordica. Hanno votato a favore 117 deputati, 57 si sono astenuti e 174 hanno votato contro. Cioè appena uno in meno della maggioranza di 175 sui 349 legislatori del Riksdag, il cui eventuale voto contrario boccia qualsiasi premier. Senza maggioranza contraria infatti in Svezia un governo entra in carica. Ma non è tutto: il Parlamento ha appunto respinto il suo progetto di legge finanziaria, aprendo la porta all´ipotesi di sue dimissioni, che ella stessa aveva minacciato in caso di no alla sua legge di bilancio moderata, aperta al centro e pro-economia. Magdalena Andersson non ha resistito all´elezione sofferta, alla tempesta del no alla finanziaria, alla crescente insofferenza contro di lei mostrata da centristi, conservatori e dai sovranisti Sverige Demokraterna del giovane Jimmie Andersson, in volo in ogni sondaggio in vista delle elezioni parlamentari regolari dell'autunno prossimo. Secondo fonti di Stoccolma Andersson avrebbe potuto accettare, sottoponendolo al voto di fiducia, di sottoscrivere il progetto di finanziaria alternativa proposto da liberali centro e conservatori. La sorte della governabilità svedese era dunque appesa all'incertezza, poche ore dopo le elezioni della prima premier donna nel paese ai vertici europei quanto a gender equality. Andersson si diceva decisa a governare con decisione, come sempre da quando lei, sorridente e gentile laureata all'accademia di Uppsala (la Oxford svedese) e campionessa di nuoto, si è guadagnata il soprannome di "bulldozer". È figlia unica del docente di Uppsala Goran Andersson e dell'insegnante Brigitta Andersson. Si è guadagnata un dottorato in scienze sociali a Uppsala, poi ha debuttato in politica nella gioventù socialdemocratica: 54 anni, bionda coi capelli all'altezza delle spalle, si impone anche quando contestata dice "la Svezia può fare di meglio e di piú in ogni campo, anche nell'ambiente", sfidando i colossi industriali e forestali. Il soprannome di Bulldozer le viene dalla pratica di imporre la sua linea con mano di ferro in guanto di velluto, da anni e soprattutto da quando è stata titolare delle Finanze, allineando la Svezia (che non fa parte dell´eurozona) alla posizione dura dei Frugali (Austria Olanda Finlandia) in politica monetaria, sfidando così la stessa tradizionale politica di quantitative easing e tassi negativi della Riksbank, la banca centrale, che finora ha salvato i primati di crescita ed export di tecnologie avanzate svedese nel mezzo della tragedia del covid. Poi ha studiato con successo a Harvard e nel partito e nel governo ha fatto carriera come massimo consulente economico di qualsiasi governo socialdemocratico. "Sa intimorire persino i migliori economisti e accademici e questo da noi è singolare", dicono i direttori di molti grandi media svedesi. La sua partenza è stata tutta in salita, col no del centrodestra "pulito" alla sua finanziaria e la sfida della crescente ascesa del partito populista. Che molti partiti moderati e conservatori sono pronti a "sdoganare" prima o dopo le prossime elezioni, segnando una cesura storica e la fine del modello nordico. La sua nomina aveva rafforzato ulteriormente il peso delle donne al potere in Europa portando il numero di donne numero uno in politica al 50 per cento nel vecchio continente. Molte premier e presidenti, dalla islandese Katrín Jakobsdóttir alla finlandese Sanna Marin, dalla danese Mette Frederiksen alle presidenti kosovara e greca, alle premier estone Kallas e moldava Maia Sandu, fino a madame Lagarde alla Bce e  Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea, mostrano che il "tetto di cristallo" denuncia crepe crescenti sopra i cieli dell´Unione europea.

La rivoluzione è donna. Zapatiste in lotta per i diritti delle escluse. Dal Chiapas un modello di sviluppo alternativo alle regole discriminatorie del liberismo economico. “Siamo noi le prime vittime di un sistema che causa distruzione e morte”. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 4 novembre 2021. All’alba dell’8 marzo si vedevano solo gli occhi delle Mujeres que Luchan. Migliaia di donne che lottano con il volto coperto da un cappello di lana o da un lembo di stoffa, perché ciò che importa non è chi, ma la rivoluzione. L’intenzione di cambiare un sistema, il capitalismo, che dello scontro tra sfruttati e sfruttatori fa il motore del progresso. Tra le montagne del Chiapas, a El Caracol de Morelia, nel 2018, c’è stato il Primo incontro internazionale delle donne, organizzato dalle zapatiste. Erano più di 8 mila e provenivano da ogni parte del mondo. Scienziate, maestre, studentesse, artiste, dirigenti, contadine, indigene, compañeras, unite nella ribellione contro un ideale di sviluppo che vuole le donne vittime, come se il genere potesse essere un crimine per cui dare condanna. «Ho vissuto il disprezzo, l’umiliazione, le derisioni, le violenze, i colpi, le morti perché sono donna, indigena, povera e zapatista», ha detto dal palco l’insurgente Erika, una voce che le rappresenta tutte nella loro diversità, di età, storie e lingue. Donne che quel giorno hanno esteso l’accordo, già presente nel pensiero zapatista, per condurre insieme la battaglia contro chi persegue solo il profitto anche a scapito del pianeta, ognuna secondo i suoi modi, mezzi e possibilità. Un accordo di cui María de Jesús Patricio Martínez, conosciuta come Marichuy, si era già fatta portavoce nazionale, prima donna indigena candidata alle presidenziali in Messico del 2018. La “vocera” del Consiglio indigeno di governo che con le sue parole ha mostrato che non è tardi per ripensare l’organizzazione sociale. «Se la distruzione e la morte sono il progresso, allora noi siamo contro», dice la voce fuori campo di Marichuy nei primi minuti del documentario visibile su Netflix, diretto da Luciana Kaplan. La proposta zapatista non è la riproposizione di una società comunista in chiave contemporanea e neppure la rivendicazione di indipendenza degli emarginati, è una modalità diversa attraverso cui intendere la collettività e gli individui, modellata sull’affermazione d’identità dei popoli indigeni che non chiedono distacco ma inclusione, e che rappresentano gli ultimi del Chiapas, come del resto del mondo. Le donne sono vittime, ancora più degli uomini, dell’oppressione capitalista che, per la sua impostazione patriarcale «come un giudice decreta che siamo colpevoli di essere donne e pertanto la nostra punizione deve essere violenza, morte o sparizione». Anche per contrastare le discriminazioni quotidiane e per dimostrare che esiste un altro modo di essere donna, le zapatiste hanno lasciato le loro case e preso il coraggio, e quando necessario le armi, per assumere ruoli di primo piano nell’esercito e nella lotta. Come spiega Raffaele Crocco, direttore di “Atlante delle guerre”, che era a San Cristóbal de Las Casas il primo gennaio 1994, quando l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) occupò la città, «la loro visione era già ampia, libertaria, attenta ai diritti civili, all’ambiente, aperta a forme di economia differente. Il pensiero zapatista ha avuto il merito di rivelare che esiste un’alternativa all’egemonia del libero mercato. E lo ha fatto negli anni in cui il neoliberismo sembrava l’unico modello vincente, l’Unione Sovietica era crollata, gli Stati Uniti apparivano come i padroni». L’Ezln ha invitato alla riflessione, ha riacceso la miccia del fronte d’opposizione al pensiero dominante e ha stimolato la rinascita dei movimenti antagonisti in Europa e Nord America, come i no global e i pacifisti. Crocco incontrò il subcomandante Marcos proprio la notte del primo gennaio. Aveva il passamontagna e la pipa tra i denti, era il portavoce dell’Ezln. Poco dopo, dalla piazza principale della città, avrebbe dichiarato guerra al governo del Messico. Una data non casuale che coincideva con l’entrata in vigore del Nafta, il trattato di libero scambio commerciale tra Usa, Canada e Messico, che avrebbe costretto gli indigeni a vendere le terre, concretizzazione del neoliberismo a cui gli zapatisti si oppongono. Lo scontro tra l’Ezln e governo messicano sarebbe potuto finire anni fa, con gli accordi di San Andrès, un’intesa di pace per cui l’autonomia e il rispetto dei diritti politici, giurisdizionali e culturali degli indigeni sarebbero dovuti entrare nella Costituzione. Ma non è accaduto. Zedillo, l’allora presidente messicano, e tutti i successivi leader infransero gli accordi firmati. Così il conflitto è diventato una guerra a bassa intensità tra il governo, i gruppi paramilitari supportati dal governo che alimenta le divisioni e le disparità tra le fasce più basse della popolazione, e gli zapatisti, sottile e silente con picchi acuti di violenza come la strage di Acteal del 1997. Morirono 45 persone per l’incursione di una milizia paramilitare e tante furono quelle che per paura abbandonarono il comune di Chenalhó (dove si trova il villaggio di Acteal), risultato della strategia governativa che isola e terrorizza le comunità che, però, non si sono arrese. «Ci leviamo in armi per essere ascoltate, perché la nostra vita era il silenzio, l’oblio». Così dissero le donne del Chiapas quella notte del primo gennaio 1994, quando l’Ezln irruppe sulla scena internazionale. Quando la Mayor insurgente Ana Maria guidava la presa di San Cristóbal de Las Casas. Scese tra la nebbia dalle montagne a capo di una milizia di circa mille persone, circondò il municipio, strappò la bandiera che sventolava sopra il palazzo e la consegnò alla comandante Ramona, volto (coperto) dell’Ezln insieme a quello di Marcos, oggi subcomandante Galeano. Ramona, sebbene malata e minuta, è stata protagonista delle più importanti battaglie dell’esercito zapatista. Grazie al suo lavoro e a quello di tante altre che si sono fatte portavoce della volontà di cambiamento delle popolazioni indigene, è stata redatta la legge rivoluzionaria delle donne. Dieci punti che sottolineano la libertà, l’indipendenza e la centralità della donna per il pensiero e nella lotta dell’Ezln, fin dal 1993. «La legge è stata un investimento sul futuro che oggi è realtà in tutte le comunità», spiega Andrea Cegna autore di “20 zln” e “Por la vida y la libertad”. «All’interno delle giunte di buon governo, l’autorità politica e sociale che governa le zone d’influenza zapatista, c’è parità tra i sessi e le donne svolgono ruoli di primo piano e responsabilità». Dal 2003 gli zapatisti hanno istituzionalizzato la loro presenza sul campo, lasciato le armi se non come difesa, e inaugurato un nuovo modo di costruire la società: hanno dato vita ai caracoles, nuove forme di autogoverno, reti di solidarietà tra municipi che propongono un modello alternativo di partecipazione alla vita politica. A cui il governo del Chiapas ha risposto «non solo sostenendo le bande di narcotrafficanti, ma incoraggiando e finanziando gruppi paramilitari come quelli che attaccano continuamente le comunità», si legge nel comunicato dell’Ezln dello scorso settembre. Ma senza ottenere i risultati sperati. «Fino al 2019 i caracoles erano 5, ora sono 12 per rispondere all’esigenza di includere nuovi territori nello spazio di resistenza zapatista. I caracoles sono le sedi della giunta di buon governo che accoglie i rappresentati dei municipi che a loro volta raccolgono i diversi villaggi. Un po’ come da noi che ci organizziamo in province e regioni ma dove chi ha ruoli rappresentativi esegue ciò che viene deciso dalle assemblee comunitarie», chiarisce Cegna. Zone con scuole, ospedali, amministrazioni autonome rispetto al governo messicano, che hanno consentito alle donne l’accesso all’istruzione, alla sanità, all’indipendenza economica. Perché, proprio come disse la comandante Esther, a Città del Messico, l’undici marzo del 2001, davanti a migliaia di persone arrivate a piedi dopo 16 giorni e più di tremila chilometri, dalle montagne del Chiapas fino alla capitale, per rivendicare i propri diritti, il malgoverno messicano non fa caso al dolore delle donne, «ci hanno trattato come oggetti e non ci hanno considerato esseri umani […] ma ora noi, le donne zapatiste, siamo organizzate, nella nostra organizzazione occupiamo incarichi con un alto grado di responsabilità e autorità. Per cui non veniamo in ginocchio né ad implorare né ad essere biasimate, non vogliamo negozietti, auto né televisione, vogliamo che venga riconosciuto il nostro diritto come indigene e come donne». Le zapatiste si sono ribellate all’ordine esistente e così hanno costruito nuove relazioni nella comunità e con il potere dominante. Parlano al mondo con il volto coperto per aprire un altro orizzonte di visibilità: affinché sia la loro parola collettiva a rivendicare un mondo in cui i diritti e l’identità vengano riconosciuti a ogni persona, senza creare conflitto, e in cui la terra è il mezzo per l’affermazione e il sostentamento. L’esempio delle zapatiste ha fatto sì che le indigene (e non solo) di tutto il mondo prendessero coscienza delle loro condizioni e cominciassero a uscire dalle case e dalle vite a cui erano abituate. Una delegazione zapatista composta principalmente da donne «non solo perché intendono ricambiare l’abbraccio ricevuto nei precedenti incontri internazionali, ma anche e soprattutto perché noi uomini zapatisti sappiamo bene che siamo quello che siamo, e non siamo, grazie a loro, per loro e con loro» da qualche mese sta facendo il giro d’Europa. Sarà in Italia fino all’8 novembre.

Marinella Meroni per “Libero quotidiano” l'1 novembre 2021. I polpi sono così intelligenti da essere considerati dagli studiosi gli animali più ingegnosi del mare: sanno usare la memoria come l'uomo, hanno il senso dell'umorismo, riescono a svitare coperchi di barattoli (anche quelli con chiusure di sicurezza), sono curiosi e simpatici tanto da giocare con i sub e perfino farsi accarezzare. Ora i ricercatori hanno fatto una nuova rivoluzionaria scoperta: le femmine dei polpi "sparano" oggetti contro i maschi quando si sentono molestate. In pratica, si difendono dalle molestie insistenti dei corteggiatori lanciando intenzionalmente contro di loro degli oggetti, come conchiglie e fango. E la loro tattica è vincente, poiché i maschi poi si allontano frustrati. Una strategia difensiva nei confronti dei "molestatori" piuttosto rara nel regno animale, individuata finora solo in pochissime specie animali, come scimpanzè ed elefanti. A confermarlo i ricercatori australiani dell'Università di Sidney con lo studio "In the line of fire: debris throwing by wild octopuses" (Sulla linea di fuoco: detriti lanciati da polpi selvatici), pubblicato su New Scientist. Sono arrivati a queste conclusioni dopo aver visionato centinaia di video registrazioni che hanno fornito informazioni dettagliate. In pratica, si è visto che le femmine di polpo quando sono importunate con eccessivi e non graditi corteggiamenti, raccolgono con i loro otto tentacoli dal fondale marino fango, conchiglie o altri sedimenti per poi prendere bene la mira inclinando il corpo e lanciare gli oggetti con un agile movimento contro i maschi. Un comportamento che gli scienziati chiamano "lancio" e con il quale questi intelligenti cefalopodi di solito posizionano un oggetto nei loro tentacoli e lo "sparano" con un getto d'acqua.

POTENZA E PRECISIONE In proposito, dichiara Godfrey-Smith dell'Università di Sidney: «Sono le femmine a lanciare oggetti spesso ai maschi che tentano l'accoppiamento. Abbiamo osservato che quando una polpa lancia per colpire tende a farlo con più potenza e precisione prendendo la mira, e il maschio in nessun caso ha mai risposto al fuoco. Ad esempio, in un video si vede una femmina lanciare fango dieci volte al maschio che tentava di accoppiarsi con lei, colpendolo per ben cinque volte, e il maschio ha cercato di schivare il fango, tentando anche di anticipare le mosse della femmina, il che conduce a pensare che si trattasse di una qualche forma di combattimento. Al maschio rifiutato, poi, non è rimasto che lanciare una conchiglia nel vuoto, in quello che è sembrato un altrettanto evoluto segnale di frustrazione. In un altro video, invece, una femmina ha lanciato una conchiglia in "stile frisbee" con i tentacoli. Oggi è chiaro che il lancio di oggetti da parte dei polpi non soltanto è intenzionale, ma è anche chiaramente offensivo». I ricercatori hanno anche osservato e svelato il comportamento particolarmente curioso e la reazione dei maschi che cercavano di evitare di essere colpiti, schivando i vari lanci: alcuni si abbassavano poco prima che partisse il tiro, altri subito dopo il lancio, e in altri ancora li hanno visti alzare i tentacoli in direzione del lanciatore senza abbassarsi, proprio come fa un portiere di calcio quando si prepara a pare un tiro. Ma non è tutto: in alcuni casi questi comportamenti delle femmine si sono riscontrate anche quando devono difendere la loro tana o territorio da altri polpi intrusi. Una femmina "tosta", dunque, che sa tutelarsi da avances non gradite e proteggere il suo territorio, quasi avvertendo gli incauti: "Stai alla larga e non avvicinarti senza il mio permesso perché potresti prenderle di santa ragione".

Roberto D’Agostino per Vanityfair.it il 23 ottobre 2021. La politica non vuole amplessi clandestini. Il sesso sciolto è un handicap. Vale sempre il vecchio motto: meglio comandare che fottere. L'orgasmo è sostituito dal potere. In Italia il primato della virtù (o dell’ipocrisia) fu una delle ragioni dei 4O anni di potere della classe politica democristiana, che, a parte autorevoli eccezioni, è stata prevalentemente casta. I pettegolezzi erano competenza dei servizi segreti che poi li trasformavano in ricatti (vedi la carriera stroncata di Fiorentino Sullo, gigante della DC irpina e nazionale, ma omosessuale). Con Craxi, la svolta del socialismo notte, la trombata decisionista, l'harem del garofano alla De Michelis: si passò da "L'orgia del potere" al "Potere con l'orgia". Eppure mai fu scritto un rigo. Per anni, solo peccati di omissione a mezzo stampa. Anche se Moana Pozzi dà i voti alle perfomance di Craxi, silenzio. Poi, quando Bettino era più morto che vivo, ecco apparire Anja Pieroni sulle copertine dei settimanali mezza nuda. E giù piccanti allusioni alla relazione con il Cinghialone. Infine, Sandra Milo introduce in Italia il genere letterario delle confessioni d'alcova a sfondo politico, la politica delle mutande, sia pure alla memoria. I tempi cambiano: dal sesso proporzionale (il politico gode e tace) al sesso maggioritario (il politico gode e racconta). Alla faccia del bacchettonismo democristiano, alle spalle della "glande-stinità" socialista, irrompe la volontà di esternare - politicamente - una scelta di campo erotica. Così, nel 1991 lo spirito infedele di Bossi pensò bene di proporre come slogan politico lo stato di erezione. "La Lega ce l'ha duro", durissimo, chilometrico; armato di "manico" è lui, Bossi, Membro Kid. Da una parte. Dall’altra, la signorina Rosy Bindi ammetteva la sua verginità, fatto privatissimo che diventa un pubblico messaggio di virtù. Lo spirito del tempo cambia, di nuovo. Oggi, quello che è certo è che le marachelle sessuali sono sempre di più diventate il lato debole dell'uomo di potere, l’arma politica preferita per far fuori il nemico. Bill Clinton, appena accennò alla riforma della sanità americana (che penalizzava le potentissime società assicurative), tirarono fuori dal cassetto i suoi rapporti “orali” con Monica Lewinski, e la riforma morì. Le “cene eleganti” con Bunga Bunga di olgettine hanno bruciato il berlusconismo senza limitismo. Oggi è tutto un parlare della doppia morale di Luca Morisi, la ‘’Bestia’’ social che ha decretato il successo della Lega di Salvini. Con la sua frangetta da chierichetto, s’avanza uno di quei leghisti che, secondo il libro del senatore Zan, sono “machi” omofobi a Roma ma baciano uomini a Mykonos. Fa scalpore le due facce della “Bestia”: quella pubblica (insulti e calunnie sessisti sui social, gogne e demonizzazioni in Rete per immigrati e spacciatori, campagne di ineguagliabile violenza: "Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno") e quella privata (festini nel cascinale veneto con immigrati rumeni da scopare con cocaina e Ghb, la “droga dello stupro”). Da notare infine la differenza: quando a delinquere è un poveraccio è solo un “tossico”, quando sbuca Luca Morisi, insaziabile killer da tastiera, gli orchi si fanno pecore: si scrive di “fragilità esistenziali” e lo spaccio diventa ‘’cessione’’. Amorale della doppia morale: a volte basta un'erezione (sbagliata) per distruggere un partito.

Da "ansa.it" l'11 ottobre 2021. In attesa di finire sulle banconote, alcuni volti di importanti figure storiche femminili dal 2022 appariranno sui quarti di dollaro. La Zecca americana ha infatti presentato il primo lotto di monete da 25 centesimi che onorano icone come la poetessa Maya Angelou, l'astronauta Sally Ride, l'attrice Anna May Wong, la suffragista e politica Nina Otero-Warren, Wilma Mankiller, la prima donna al comando della nazione Cherokee. "La grafica particolarmente ispirante delle monete - ha detto Alison L. Doone, direttrice facente funzione della United States Mint - racconta la storia di cinque donne straordinarie il cui contributo è impresso nella cultura americana. Le generazioni future guarderanno i volti sulle monete tenendo presente gli obiettivi che possono essere raggiunti con una visione, la determinazione e il desiderio di migliorare le opportunità per tutti". Su uno dei lati delle monete resta il volto di George Washington.

Lidia Poët, la storia della prima avvocata italiana arriva su Netflix. La fiction su Lidia Poët si propone di rileggere in chiave "light procedural", la lunga battaglia della prima avvocata italiana, interpretata da Matilda De Angelis. Francesca Spasiano Il Dubbio l'11 ottobre 2021. «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine». Novembre 1883, i giudici della Corte d’Appello di Torino sono chiari: Lidia Poët, prima avvocata del Regno d’Italia iscritta all’Albo in quello stesso anno, deve lasciare l’Ordine. Perché, spiega la Corte, «sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste». Un “rischio” paventato da uomini, con parole scritte da uomini, quali erano i componenti della Corte. Poco male. La tenace Lidia Poët non si lascia scalfire. Privata del “titolo”, continua a svolgere la professione nello studio legale del fratello per i 37 anni successivi alla sua cancellazione dall’Albo degli avvocati di Torino. Per esservi infine riammessa nel 1920 dopo una lunga battaglia. Quella di Poët è una storia di straordinaria determinazione, un esempio di dedizione per chiunque indossi la toga. Che ora balza anche all’occhio del grande pubblico con una serie tv firmata Netflix. Scritta da Guido Iuculano e Davide Orsini, diretta da Matteo Rovere e Letizia Lamartire (produzione Groenlandia), la fiction si propone di rileggere in chiave “light procedural” la vicenda reale di Poët, nei cui panni vedremo l’attrice Matilda De Angelis. Le riprese sono iniziate a Torino il 20 settembre e per ora le indiscrezioni sono poche: si parte dalla sentenza della Corte d’Appello per raccontare gli anni in cui Poët, decisa a ribaltare quel pronunciamento, si dedica alla professione sfidando pregiudizi ed ostacoli di ogni sorta. Al suo fianco leggiamo nella sinossi – c’è Jacopo, «un misterioso giornalista e cognato di Lidia, che le passa informazioni e la guida nei mondi nascosti di una Torino magniloquente». Spulciando tra archivi e quotidiani dell’epoca, scopriamo che in quegli anni Poët si dedica in particolare alla tutela dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Il divieto di patrocinare non le impedisce di rimanere a lavorare nello studio legale del fratello Enrico, che le aveva trasmesso l’amore per la professione. Dopo la sua rimozione dall’Albo, Poët partecipa al primo Congresso Penitenziario Internazionale a Roma e nel 1890 venne invitata come delegata a San Pietroburgo, alla quarta edizione del Congresso. Il suo impegno non si arresta neanche allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando lascia lo studio e diventa volontaria della Croce Rossa. Di questa attività senza sosta ci parla anche l’avvocata Simona Grabbi, presidente dell’Ordine di Torino che a Poët ha intitolato l’area giochi nei giardini del Palazzo di Giustizia con un cippo commemorativo scoperto lo scorso luglio. Il cippo, spiega Grabbi, è un «simbolo per le battaglie di genere» posto a «beneficio dei tanti cittadini che non conoscono questa storia». Una storia che inizia nel 1881, quando Poët si laurea in giurisprudenza all’Università di Torino con una tesi sulla condizione femminile in Italia e sul diritto di voto per le donne – «una tesi profetica», fa notare Grabbi. Per due anni svolge la pratica forense per abilitarsi alla professione, quindi supera brillantemente l’esame di procuratore legale. La sua richiesta di iscrizione all’Ordine, a quel punto, non avrebbe dovuto stupire nessuno: è conforme alla legge. Che non prevede nessun divieto esplicito per le donne di presentare domanda né di esercitare la professione. Ma la cultura, quella con cui Poët deve fare i conti, è un altro affare. Le donne nel Regno d’Italia non hanno diritto di voto, avvicinarsi alla professione è inimmaginabile. Così il chiacchiericcio si rincorre nei corridoi dei tribunali sabaudi. Soprattutto quando, nel 1883, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati accetta la sua iscrizione con otto voti a favore e quattro contrari. Un vero successo, se si considera il dibattito che la vicenda aveva suscitato. A mettersi di traverso, a quel punto, è l’allora Procuratore Generale del Re che decide di denunciare questa “anomalia” alla Corte d’Appello. Che quindi provvede a cancellarla dall’Ordine, prestando l’orecchio allo “scandalo”. «Non occorre nemmeno di accennare – scrivono i giudici – al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra». E ancora: «Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate». Ebbene, “i legislatori” se ne occupano, ma soltanto nel 1919 con l’approvazione della legge Sacchi che autorizza ufficialmente le donne ad entrare nei pubblici uffici. Così arriviamo al 1920, quando Poët – ormai 65enne – può ripresentare la richiesta di iscrizione all’Ordine degli Avvocati e indossare finalmente la toga.

Femministe delle caverne. Nicla Panciera per La Repubblica il 25 settembre 2021. "Wilma, dammi la clava!". Macché. Una paleontologa parigina fa il punto sui torti che ricercatori e divulgatori del recente passato hanno fatto alle progenitrici. Sì, l'uomo preistorico era (anche) donna. Innovativa, e pure robusta e muscolosa. Tirate per i capelli, sedute intorno al fuoco, le dita esili impegnate in qualche attività meticolosa. Queste le donne preistoriche nell'immaginario comune, raffigurate nei film e nei fumetti. Ma siete davvero convinti che passassero le loro giornate a spazzare la grotta, dove uomini pelosi e nerboruti facevano ritorno dopo la caccia o la pesca, giusto il tempo di un boccone, prima di uscire per dedicarsi alla pittura rupestre o alle opere dell'ingegno? Se nutrite la convinzione che i resti archeologici non forniscano prove per assegnare alle donne un ruolo centrale nei cambiamenti che hanno permesso l'evoluzione delle nostre civiltà, sappiate che le cose stanno diversamente.

Dagospia il 29 settembre 2021. Estratto del commento di Gianfranco Ravasi al IX Comandamento, da “Dieci Comandamenti per Dieci Cardinali” (Edizioni Ares, Milano), pubblicato da “Libero quotidiano”. Karl Kraus, nei suoi Detti e contraddetti, giustamente osservava che «il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti» (che hanno entrambi come base il carbonio). Il desiderio, quindi, da virtù può diventare quel vizio che è condannato dal IX Comandamento. Vorremmo, allora, svolgere qualche considerazione essenziale attorno al vizio o desiderio degenerato che si connette a questo Comandamento. Esso ha alle spalle una sua «naturalezza»: la pulsione sessuale e la relazione d'amore sono nella natura stessa dell'uomo e della donna. Tuttavia, questo desiderio legittimo può imboccare strade devianti e precipitare nell'ossessione, nella frenesia, nell'esasperazione viziosa. È curioso notare che in uno dei testi fondamentali dell'induismo, la Bhagavadgita, si legge che «l'inferno ha tre porte: l'avarizia, la lussuria e l'ira». C'è, dunque, la porta della cupidigia (X Comandamento), ma anche quella della concupiscenza, che si apre su coloro che hanno violato il sesto e il nono Comandamento del Decalogo. A ragione sant' Agostino, nella Città di Dio, affermava che «la lussuria non è il vizio dei corpi belli e attraenti, ma dell'anima perversa» (XII 8). Siamo, dunque, ancora nell'orizzonte del desiderio smodato, dell'anima che si illude di raggiungere l'amore moltiplicando gli amori. Il vocabolo stesso, «lussuria», derivando dal latino «luxus», rimanda nella sua prima accezione a un eccesso, a un'esuberanza che travalica e prevarica, supponendo un'eccedenza, un'esagerazione, un'intemperanza, appunto un'incontinenza. È un po' questa la via che è stata imboccata nella società contemporanea, quasi si obbedisse a quel Manifesto futurista della lussuria che era stato elaborato da Valentine de Saint-Point (1875-1953), nipote del poeta francese Lamartine e amante di Filippo Tommaso Marinetti: «L'amore è un valore obsoleto e deve essere sostituito dal desiderio che, lungi dal ridursi al piacere carnale, è la condizione di pienezza dell'essere. La lussuria è una forza». Il desiderio così concepito infrange l'armonia unitaria del paradigma sessualità-eros-amore e riduce la relazione amorosa a mera attrazione fisica, a bramosia e piacere nei confronti di ciò che è sexy (senza ulteriore connotazione), al puro e semplice congiungimento carnale, regolato dall'estro e dall'istintività. La relazione amorosa, segnata invece da tante caratteristiche personali e interpersonali, si riduce così a mero possesso e «consumo». La logica dominante diventa, allora, quella della liberazione del desiderio da ogni prescrizione morale. Il nuovo codice del desiderio è quello di non avere codici normativi, lasciato libero di essere governato solo dalla pulsione e dalla sua «irregolarità». È un po' quello che già sottolineava Dante a proposito di «peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento» (Inferno V 38-39); è la scelta di vita della dantesca Semiramide che «libito fe' licito in sua legge» (V 56). La qualità, anche in questo caso come nel parallelo della brama per le cose, è assurdamente ricercata attraverso la quantità, la sessualità si misura sull'esercizio, si trasforma in sfida che conduce al ricorso a stimolanti sempre più eccitanti, a una pornografia sempre più bieca. È paradossale, ma non troppo, che questo sentiero in discesa porti al suo antipodo, l'impotenza. La dismisura del desiderio incontinente ha, infatti, spesso come esito la caduta della potenza sessuale e della stessa attrazione e persino, oltre alla saturazione nauseata, ha come sbocco la paura. La donna, sempre più aggressiva ed eccessiva nella seduzione (non solo pubblicitaria), riesce non di rado più ad allontanare che ad attirare. Il grande mercato del sesso imbandito dalla pornografia virtuale, o cartacea, esaltata da un'offerta esasperata ed estenuante, genera alla fine un'anoressia della comunicazione interpersonale, un crollo della passione, dell'intimità vera, una vuota solitudine. La logica della spudoratezza immiserisce il desiderio, lo rende incapace di gustare la delicatezza dello svelamento, dell'ammiccamento, della finezza dell'eros autentico. Potremmo proporre un parallelo, forse inatteso: contrariamente all'opinione comune che considera l'ascesi solo come rinuncia e, quindi, il «Non desiderare» solo come ablazione o negazione di sentimenti, la genuina pratica ascetica corrisponde, invece, al significato originario del greco áskesis, ossia «esercizio». È, perciò, creatività, padronanza di sé, abilità: il corpo dell'acrobata o della ballerina classica sfida la gravità e si fa lieve con una semplicità assoluta che è, però, frutto di lungo e ininterrotto esercizio. Costoro sono dominatori perché si sono dominati, si librano nello spazio in libertà totale in quanto si sono duramente controllati. Ebbene, questa dovrebbe essere anche la vera grammatica del desiderio: la sua energia vitale e creatrice nasce non dalla corrività sfrenata, ma dall'esercizio severo e dall'autocontrollo, la bellezza è generata dal rigore, la rinuncia a un piacere immediato è finalizzata a un godimento più emozionante e alto. Naturalmente alla base di tutto ci dev' essere una concezione della natura umana unitaria, fisica e spirituale, per cui il desiderio sessuale è inquadrato nella persona con le sue radicali capacità di relazione, comunione e trascendenza. Esso esprime l'individuo nella sua identità, ma anche nel suo essere «ad extra», orientato verso l'esterno, in rapporto con l'altro umano e l'Altro divino. Significativa è, al riguardo, la polemica di san Paolo contro il riduzionismo libertino di alcuni cristiani di Corinto che proclamavano: «Tutto mi è lecito! I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!», riducendo, quindi, la sessualità solo a un mero atto fisiologico. La replica paolina punta, invece, su una diversa concezione del corpo «non per l'impudicizia ma per il Signore», non per la fornicazione ma per essere «membra di Cristo» e «tempio dello Spirito Santo» (1 Cor 6, 12-20). Siamo appunto di fronte a una visione unitaria per cui il desiderio sessuale non può essere alimentato solo carnalmente, ma è in sé epifania di domande trascendenti, è anelito a un amore superiore, è stimolo a un itinerario che tutta la persona compie in progressione verso una meta di pienezza. Altrimenti il desiderio meramente soddisfatto sotto l'azione della pulsione merita l'acuta analisi che ci ha lasciato Shakespeare nel suo Sonetto 129: «Nel desiderio, beatitudine; sciagura a prova fatta. / Un sorridente sogno, prima; una chimera dopo. / È cosa che chiunque sa bene. / Ma nessuno sa sottrarsi al cielo / che conduce gli uomini in tale inferno». La condanna del peccato presente nel nono Imperativo decalogico diventa, quindi, innanzitutto un appello alla «purificazione del cuore», secondo quanto suggerisce, commentandolo, il Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 2517 ss.), perché, come ricordava Cristo, «è dal cuore che provengono desideri malvagi, omicidi, adulteri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15, 19). Ma il Comandamento decalogico è, in positivo, un appello ad avere un cuore nuovo, capace di desideri autentici, creativi, generosi, assoluti.  È ciò che si augurava il profeta Ezechiele attraverso questo celebre oracolo divino: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36, 26). Solo così il desiderio ritroverà la sua radicale tensione verso l'infinito, espressa proprio dalla sua etimologia lessicale, ossia la sua apertura versoi «sidera», le stelle. È, quindi, il suo «in-finito» protendersi verso la pienezza a cui la persona umana è votata, pur col suo limite creaturale, secondo la visione cristiana che assegna agli uomini e alle donne la possibilità di diventare «figli di Dio» (Gal 4, 4-7; Rm 8, 14-17).

Trenta donne forti. a cura di Chiara Severgnini e Irene Soave, illustrato da Mabel Sorrentino su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2021. Le protagoniste di questo lavoro collettivo sono donne reali o immaginarie, vive o morte, celeberrime o quasi ignote, scelte dai giornalisti e dalle giornaliste del Corriere in virtù della loro forza, qualunque essa sia. Modelli di riferimento potenziali a disposizione di tutti e tutte, per mostrare che aspetto può avere «un altro genere di forza».

Margaret Mead Antropologa statunitense (1901-1978)

Virginia Nesi Aveva 23 anni Margaret Mead, quando viaggiò fino a Samoa per studiare un’umanità incontaminata dalla civilizzazione. Nata nel 1901, è stata pioniera dell’antropologia culturale. Al centro dei suoi studi c’erano donne, adolescenti, bambine e bambini. Sostenitrice dei diritti e della libertà sessuale, si opponeva all’oppressione culturale. Fu soprannominata «la nonna del mondo»: credeva nella capacità umana di apprendimento e promuoveva il cambiamento sociale. Ebbe tre mariti e una figlia. A quasi un secolo dal quel viaggio nel Pacifico, i suoi studi continuano a influenzare le generazioni che l'hanno seguita.

Carmen Protagonista dell'opera «Carmen» (1875), di George Bizet

Greta Sclaunich «Libera è nata e libera morirà». In questo poche parole, pronunciate da Carmen stessa quasi alla fine del quarto e ultimo atto dell’opera omonima di Georges Bizet, è condensata tutta la sua forza. Nel 1875, anno in cui l’opera (tratta dalla novella di Prosper Mérimée) fu rappresentata per la prima volta, non si parlava certo di femminicidio. Ma la sua storia, di fatto, è questa: una donna libera, forte, indipendente e sicura delle sue scelte che viene uccisa da un ex amante geloso, che preferisce vederla morta e finire in prigione che accettarne l'indipendenza. Lei non scappa, anzi gli va incontro e quando lui la minaccia ripete che è una donna libera e libera resterà, a qualsiasi costo. 

Janina Duszejko Protagonista di «Guida il tuo carro sulle ossa dei morti» (2009), di Olga Tokarczuk

Irene Soave La protagonista di «Guida il tuo carro sulle ossa dei morti», romanzo della polacca Olga Tokarczuk che ha meritato il Nobel per la letteratura, patisce la società. Non più giovane, spinta ai margini del mondo del lavoro dalla concorrenza di giovani hi-tech, si rifugia come una strega moderna nelle foreste della Slesia, dove contempla e ama la natura: cerve, scarabei, e una volpe «così elegante che la chiamavo il Console». «Salvatico», scriveva Leonardo, «è colui che si salva». Quando una serie di misteriosi omicidi colpisce cacciatori e amministratori nemici dell'ambiente, è la prima a capire cosa succede. Incarna le nostre paure (la vecchiaia, il finire ai margini, la natura inospitale) ma ci riconcilia con loro perché se la cava benissimo.

Meghan Rapinoe Calciatrice statunitense (1985 -)

Andrea Marinelli Il 2021 è stato l’anno in cui Megan Rapinoe ha dimostrato di essere imbattibile anche quando perde. La nazionale di calcio americana è arrivata solo terza alle Olimpiadi di Tokyo, offrendo a Donald Trump l’opportunità di definire la squadra e la sua capitana «woke»: un gruppo di radicali di sinistra troppo attente alla politica e poco concentrate sul calcio. «Davvero tifi perché qualcuno perda?», ha risposto Rapinoe definendo «tristi» le parole dell’ormai ex presidente. Poi è corsa ad assistere la finalissima della promessa sposa Sue Bird, cestista della nazionale americana, a cui ha dato un bacio sulle labbra dopo la vittoria dell’oro. È stata l’immagine di chiusura dell’Olimpiade più inclusiva di sempre: un bacio personale, e politico.

Margaret Thatcher Politica britannica, già Primo Ministro (1925-2013)

Elisabetta Rosaspina Si dimise da primo ministro del Regno Unito, prima donna a occupare quella carica in Occidente, il 28 novembre 1990, con gli occhi rossi di lacrime. Le rare lacrime apparse tra le sue ciglia: Margaret Hilda Thatcher, figlia di un droghiere di Grantham (Midlands Orientali), sfoggiava già da 15 anni il soprannome di Iron Lady, cioè dama di ferro. Le era stato affibbiato dai sovietici, suoi avversari dichiarati fino al debutto di Gorbaciov: «Con lui posso fare affari». E divenne il suo distintivo in tutte le battaglie (spesso impopolari) che, da conservatrice, condusse in 11 anni di mandato: contro i sindacati dei minatori, contro l’Ira, contro l’Argentina nella guerra per le Falkland, contro l’Euro. Ma sotto le sue cure severe l’economia britannica si rigenerò.

Saranda Bogujevci Deputata kosovara (1985 -)

Mara Gergolet Dicono che Saranda Bogujevci sia fatta di ferro, anzi che non ci sia uomo più duro di lei in tutto il Kosovo. Aveva 13 anni quando i serbi fucilarono lei e 14 membri della sua famiglia; lei però sopravvisse, unica, e fu curata in Regno Unito. A 18 anni testimoniò a Belgrado contro gli Skorpioni, i paramilitari che avevano cercato di ucciderla, e come una Kill Bill senza spada si vendicò guardando negli occhi il suo aguzzino. Ora ha 35 anni, è diventata deputata del suo Paese ed è uno dei volti del nuovo Kosovo, dove la presidente, Vjosa Osmani, è una donna come il 40% dei parlamentari. Qualcosa sta cambiando.

Elisabetta II Regina del Regno Unito (1926-)

Luigi Ippolito Elisabetta è la roccia su cui poggia la nazione britannica, la pietra angolare della società e la chiave di volta delle istituzioni. Con la sua forza ha traghettato l’impero verso la decolonizzazione, ha retto alle sfide del tempo e ha aggiornato la monarchia al mutare degli eventi. Una sovrana che ha saputo anteporre le ragioni della Corona a quelle del cuore, anche a costo del sacrificio personale: e che non ha vacillato neppure alla prova più dura, la scomparsa dell’amato Filippo.

Angela Merkel Politica tedesca, Cancelliera dal 2005 (1954)

Paolo Valentino Quella di Angela Merkel è stata l’incredibile parabola di una donna, protestante, divorziata, venuta dall’Est, capace di conquistare un partito fin lì dominato da maschi, cattolici, sposati, tutti dell’Ovest, portandolo a vincere quattro elezioni consecutive. Nei suoi 16 anni al potere, segnati da crisi drammatiche, la cancelliera tedesca ha cambiato la Storia della Germania e del mondo. Per questo, quando gli storici futuri guarderanno indietro, molto probabilmente parleranno dell’«Età di Merkel».

Carrie Mathison Protagonista di «Homeland»

Beppe Severgnini Caroline Anne Mathison è bionda, intensa, fragile, appassionata e non molla mai. Tutti la chiamano Carrie. Nata nel 1979 in Maryland, mentre insegnava arabo a Princeton è stata reclutata nella CIA dal barbuto Saul Berenson, un po' capo e un po' papà. Soffre di un disturbo bipolare che, unito alla vocazione a cacciarsi nei guai, produce televisione avvincente. Per l'esattezza otto stagioni di «Homeland» (dal 2011 al 2020), per un totale di 96 episodi. «Homeland» è una serie femminile. Carrie, intepretata da Claire Danes, non è solo la protagonista che entra nelle ferite del mondo (da Beirut a Kabul, da Teheran a Mosca). È una meravigliosa piantagrane. Una donna sorprendente, intuitiva e fortissima perché consapevole della propria fragilità. In un mondo opaco, pieno di maschi che si nascondono e fingono d'essere ciò che non sono, Carrie è una luce bionda. La prova che molti sbatteranno il muso, ma tutti ce la possono fare.

Angiolina Casella Madre di Cesare Casella, rapito nel 1988 (1946-2011)

Alessandro Cannavò Minuta, scarna, provata da un’interminabile angoscia, Angela Casella da Pavia fu nel 1989 una madre coraggio contro la ‘ndrangheta. Suo figlio Cesare restava in mano dei rapitori da oltre 500 giorni nonostante il pagamento di un miliardo. Davanti al silenzio degli aguzzini, dell’ambiente circostante, dello Stato, decise di incatenarsi nelle piazze di Platì e San Luca, inscenando le condizioni disumane della prigionia di Cesare. La cui liberazione sarebbe arrivata dopo 743 giorni, senza ulteriori riscatti. Il gesto plateale (e rischioso) di Angela aiutò a cambiare il destino dei sequestri di persona. Poi lei non speculò su quella fama che piuttosto voleva rimuovere. Si dedicò al volontariato. Fino alla morte, dieci anni fa.

Amy March Protagonista di «Piccole Donne» (1869), di Louisa May Alcott

Roberta Scorranese Se l’università del Missouri (si fa per dire) facesse uno studio ad hoc sono certa che due donne su tre dichiarerebbero di voler assomigliare a Jo, dovendo scegliere una delle sorelle March di «Piccole donne». Jo è indipendente, forte, assennata, concreta, sobria. Quella più snobbata? Amy, perché vezzosa, belloccia, poco credibile. E se, invece, un certo tipo di forza risiedesse proprio in quello sguardo pacificato di chi sa di piacere a tutti? Non è forse ora di difendere (paritariamente) anche le vanitose? Viva Amy. 

Golda Meir Politica israeliana, già Primo Ministro (1898-1978)

Micol Sarfatti Forza d’animo, forza politica, forza intellettuale, forza fisica. Golda Meir, nata Mabovitch a Kiev, Ucraina, nel 1898, è stata questo e molto altro. Prima - e ad oggi unica - donna a guidare lo stato d’Israele, terza leader femminile a livello internazionale. La vita di Meir merita di essere conosciuta, lei stessa l’ha raccontata nell’autobiografia «My Life». Ha gestito da ministro degli Esteri la crisi del canale di Suez, nel 1956, e da Primo Ministro l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Oriana Fallaci l’ha descritta così: «Ha una modestia irritante, una saggezza che viene dall’aver sgobbato tutta la vita». La vera «modestia irritante» può essere appannaggio solo delle grandissime. Morì nel 1978 dopo aver affrontato, per anni e senza mai parlarne pubblicamente, la leucemia.

Hermione Granger Coprotagonista di «Harry Potter» (1997-2007), di J. K. Rowling

Francesco Giambertone Alla prima manifestazione di donne contro Trump nel gennaio 2017, una bambina mostrava fiera un cartello: «Quando il presidente è Voldemort, abbiamo bisogno di una nazione di Hermione». La maga più intelligente della classe di Harry Potter, senza la quale lui sarebbe durato vivo giusto un libro, in questi vent’anni è diventata un’icona femminista di inevitabile fascino anche per il genere maschile: è giusta ma non moralista, coraggiosa ma non matta, e ha successo perché - oltre al talento - lavora più di tutti. È bello conoscere tante Hermione vere.

Modesta Protagonista del romanzo «L'arte della gioia» (1976, pubblicato nel 1998), di Goliarda Sapienza

Chiara Severgnini Modesta nasce povera, ultima tra gli ultimi, e diventa una principessa. Se fosse la protagonista di una fiaba, questo testo potrebbe finire qui e lei non sarebbe un modello di forza. Ma Modesta è la figlia d’inchiostro di una scrittrice rivoluzionaria, Goliarda Sapienza. E, come il romanzo di cui è protagonista, Modesta è spregiudicata, talvolta spaventosa. Dispensa vita e morte, come una divinità, eppure è tremendamente umana. Combatte tutto, dalle convenzioni sociali al fascismo. Sopravvive al confino, cresce una piccola tribù di figli (suoi e altrui), impara ad arringare le folle. La sua forza: ama molto, in primis se stessa.

Margrethe Vestager Politica danese, commissaria Ue per la Concorrenza (1968-)

Irene Soave Danese, la Commissaria Europea per la Concorrenza (dal 2014), ha ispirato il personaggio principale di «Borgen», una serie tv sulla politica di Copenhagen. Non è strano: è tra le figure più carismatiche di questi anni nelle istituzioni europee. Ad alcuni vertici internazionali si è presentata coi documenti in una borsa della spesa, e indossa abiti fiorati e fantasiosi che contrastano con i suoi capelli a spazzola. Ma al grande pubblico sembra una supereroina soprattutto per le battaglie che conduce: una su tutte, far pagare più tasse in Europa alle multinazionali che sfuggono al fisco, o abusano della loro posizione di leader di mercato. Una «Davide dell'antitrust» che lotta (e vince) contro Golia come Gazprom, Facebook, Amazon.

Samantha Cristoforetti Astronauta italiana (1977-)

Martina Pennisi Per sua precisa scelta, siamo abituati a vedere Samantha Cristoforetti sempre più o meno nello stesso modo, dal 2014, quando è diventata la prima astronauta italiana a volare nello spazio, dopo essere stata selezionata dall'Esa: la vediamo in abiti da lavoro o con i loghi delle missioni appuntati sulle t-shirt. Impegnata in interviste, conferenze o conversazioni sulla sua professione, quella - ai nostri occhi straordinaria - degli studi e delle missioni fuori dai confini terrestri. Sta funzionando: l'ingegnera e pilota Cristoforetti ha contribuito in questi anni a portare la percentuale di donne candidate alla selezione dell'Agenzia spaziale europea dal 15 al 24%. Rigorosa e sempre concentrata, rappresenta il volto (femminile) di un'Italia che funziona e osa, senza compromessi o sbavature. E la prossima primavera riparte, questa volta col grado di comandante.

Clarissa Ward Giornalista statunitense (1980-)

Federica Seneghini Fredda, coraggiosa, imperturbabile tra gli spari in diretta. Ha passato il microfono agli afghani incontrati per strada restituendo loro la voce che in quelle ore stavano perdendo. Ha slalomato tra la folla che davanti all'aeroporto di Kabul tentava di lasciare il Paese, affrontando i talebani armati di Ak7 e manganelli. «Copriti il volto». «Non vogliamo parlare con te, sei una donna». Clarissa Ward, classe 1980, inviata della Cnn, è andata avanti. Rinchiusa nell'abaya nera, i capelli sotto un velo nero. «La testa l'ho sempre coperta, ma ora ho dovuto nascondere anche i capelli». Un cambio d'abito necessario, un velo che per le donne afghane, e per lei, è tornato ad essere la migliore armatura contro i talebani. Grazie alla Cnn, che ha distribuito i suoi servizi sui social, abbiamo conosciuto il suo talento. Cronaca sul campo, riflessioni da studio: «Se si comportano in modo brutale con noi che siamo giornalisti stranieri, riuscite a immaginare come possono essere violenti con gli afghani?». Un esempio.

Amal Clooney Avvocata libanese (1978-)

Marta Serafini Amal Alamuddin, sposata Clooney, è l’avvocata che più di tutti, in questi anni, si è spesa per le donne yazide, vittime dell’Isis. Dal 2016 sta combattendo e ha combattuto per portare i loro casi davanti alle corti internazionali e nazionali (ultimo il caso di due ragazze che hanno accusato i loro carnefici in Germania) e le sta sostenendo affinché il mondo riconosca il genocidio perpetrato dai jihadisti contro questa minoranza religiosa. E se la Storia cambierà sarà anche merito suo e del suo lavoro. Dunque non chiamatela moglie di George: casomai il «marito di» è lui.

Erika Siffredi Alpinista e moglie di Cala Cimenti, sportivo estremo scomparso nel 2021 (1984-)

Giusi Fasano Erika ha conosciuto la felicità, l'ha tenuta per mano per sei anni e in quei sei anni ha vissuto una vita a colori. Poi - l'8 febbraio del 2021 - una valanga si è portato via il suo Cala, l'uomo dei suoi sogni e dei suoi colori. E all'improvviso tutto è diventato scuro. «Avrei tanto voluto morire con lui» ha ripetuto lei per mesi. Finché un giorno un suo amico le ha chiesto: «Davvero vuoi che finisca tutto così?» ed Erika ha risposto a se stessa che no, non voleva. Carlalberto Cimenti, il suo marito adorato, l'alpinista romantico dalle mille imprese pericolose in giro per il mondo, se n'era andato sotto un cumulo di neve nel suo piccolo Piemonte. E per lei era tempo di ricominciare - di provarci almeno - nel nome e nella memoria di Cala. Così, con l'aiuto di due amici, Erika ha ripreso fra le mani la sua vita, ha avviato una raccolta fondi per ricostruire aule scolastiche terremotate nel Nepal che lui tanto amava, ha in mente un progetto per scalare i 5000 africani e legare le imprese  a missioni umanitarie in Africa, racconta di lui in serate-evento a sfondo sociale, pensa a una mostra fotografica...in ricordo di Cala. Che è accanto a lei più che mai. 

Sarah Connor Eroina della saga di «Terminator» (iniziata nel 1984)

Chiara Severgnini All’inizio di «Terminator 2», Sarah Connor è rinchiusa in un manicomio criminale. Moderna Cassandra, profetizza la fine del mondo (per mano dell’A.I. sfuggita al controllo degli umani): nessuno le crede. Lei, però, non molla. Coltiva la sua forza, si allena, si prepara. A cosa? A evadere, e a salvare sè stessa, suo figlio e il mondo. Di nuovo. Nel primo film della saga con Arnold Schwarzenegger, aveva passato 90 minuti su 107 a fare la damsel in distress, poi aveva scoperto di sapersi salvare anche da sola. Una lezione che Connor non ha dimenticato. Non a caso, nel secondo film è un'eroina fatta e finita. Fortissima. Non tanto per i muscoli (sebbene abbia anche quelli), ma per la fibra d'animo: Connor combatte fino all'ultimo, nel nome del futuro.

Simone Biles Ginnasta statunitense (1997-)

Viviana Mazza Da piccola Simone Biles aveva un sesto senso per l’aria. Non perdeva mai l’equilibrio. Sapeva esattamente dov’era il suo corpo, dove stava andando e quando appoggiare i piedi al suolo per non farsi male. Vent’anni dopo era diventata la più forte e premiata ginnasta americana, forse la più grande di tutti i tempi. Ma intanto per anni subiva abusi sessuali da parte del medico della nazionale. Arrivata alle Olimpiadi di Tokyo Biles ha scoperto di aver perso il senso dell’aria. Sentiva il peso del mondo sulle sue spalle. Allora, l’ha sollevato con tutta la sua forza e l’ha posato a terra.

Garima Arora Chef indiana (1981-)

Alessandra Dal Monte La prima chef donna indiana a prendere una stella Michelin è un’ex giornalista di 34 anni, Garima Arora. Abbandonati i panni della reporter in favore della cucina, nel suo ristorante Baa, a Bangkok, Arora mette la millenaria sapienza culinaria del suo Paese soprattutto al servizio delle verdure. «Preparate in modo delizioso», dicono i critici. Che nel 2018 le riconoscono l’ambito riconoscimento nella guida Rossa. Ma il suo principale impegno è Food forward, il sito che mappa e promuove centinaia di prodotti nativi dell’India e i contadini che li coltivano. Grazie a questa piattaforma piccole e sperdute comunità locali hanno trovato un posto nell’Atlante globale del cibo. Il prossimo step? «Scrivere il codice della cucina indiana, che in termini di tecniche e ricette non ha nulla da invidiare a quella italiana o francese». Assaggiare le verdure del Baa per credere.

Mrs. Maisel Stand-up comedian, protagonista di «La fantastica signora Maisel» (iniziata nel 2017)

Andrea Federica de Cesco Se non avete ancora guardato «La fantastica signora Maisel» fatevi un regalo e recuperate il prima possibile (lo trovate su Amazon Prime Video). Anche voi vi innamorerete della protagonista, Mrs. Maisel, interpretata dalla meravigliosa Rachel Brosnahan. All'inizio della serie è una casalinga ebrea nella New York della fine degli anni '50. Nel giro di qualche episodio diventa la comica più spassosa della città (e non solo), fregandosene dell'invidia del marito. Mrs. Maisel ci mostra che le donne possono essere e fare tutto quello che vogliono, incluso far ridere. Ma ridere sul serio.

Antigone Eroina di «Antigone», tragedia greca (442 a. C.), di Sofocle

Alice Scaglioni Moderna pur appartenendo alla tragedia greca, Antigone è simbolo di disobbedienza civile: il nuovo re di Tebe Creonte ha vietato di dare una sepoltura al fratello di lei, Polinice, ma lei si oppone. Al divieto; ma anche alle convenzioni sociali che volevano una donna sottomessa alla volontà di un uomo. Si intromette nella politica della città, prerogativa degli uomini. Antigone – che ispirò tra gli altri Bertolt Brecht e Jean Anouilh – ha più anime. La più attuale: si sacrifica per ciò in cui crede, dimostrando che nulla può impedirti di avere un tuo pensiero. Una storia che continua a ripetersi, in Afghanistan e non solo.

Marie Curie Scienziata polacca (1867-1934)

Venanzio Postiglione Una foto. Che dice tutto. Ottobre 1927, Bruxelles, conferenza di Solvay. Ci sono 29 scienziati da ogni parte del pianeta, anche Einstein, e una sola donna: Marie Curie. Lei, soltanto lei, tra ventotto uomini. Due premi Nobel, per la fisica e per la chimica, una vita controcorrente, sospesa fra la testa e il cuore, e una curiosità senza fine, che ancora ci affascina. Quanto è bello sapere che per le ragazze, nel 2021, appare come un simbolo: di indipendenza e di emancipazione. È anche grazie a lei se il mondo è diventato un posto migliore. Per la scienza e per le donne.

Naomi Osaka Tennista giapponese (1987-)

Marco Imarisio Con Naomi Osaka non è più questione di diritti o di rovesci in senso tennistico. Fino a pochi mesi fa la ragazza di madre giapponese, padre americano, social con seguito da rockstar e fatturato personale da 55 milioni di dollari, era una semplice benedizione per il tennis femminile. Dal maggio scorso, è diventata altro. Perché ha rivendicato il proprio diritto a stare male, parlando di depressione. Chiamando il male oscuro con il suo nome, esponendo la propria fragilità in pubblico, Naomi ha dato voce a tanti che non trovano le parole o il modo per affrontare i rovesci della vita.

Giulia Re Staffetta partigiana (1926-2020)

Greta Privitera «Re Giulia», diceva quando si presentava. Ma tutti la chiamavano Giulietta, anche i partigiani. Nata a Milano, Giulia Re è morta nel 2020, a 94 anni. «Mio padre era molto antifascista, e io ho preso molto da mio padre», raccontava. Un giorno, una certa Emma Gessati, attivista per la difesa delle donne, le disse: «Te fai finta di niente e porta in giro qualche manifestino». Aveva 12 anni e iniziò a portare messaggi ai partigiani. Da più grande, durante la guerra, «portavo anche le armi, ma c’era d’aver paura». Staffetta partigiana, coraggiosa, Giulia è stata regina di libertà.

Francesca Spada Giornalista, musicista e scrittrice italiana (1916-1961)

Alessandro Trocino Era di una bellezza aspra, selvaggia e raffinata quando a trent'anni, negli anni Cinquanta, entrò nella redazione napoletana dell’Unità. Diplomata al Conservatorio, due lauree, Francesca Spada era una donna divorziata, con due figli avuti da un uomo ignoto, un compagno dirigente. Per il Pci dell’epoca era solo «una puttana, una marcia borghese che pretende di fare la rivoluzionaria di professione». Donna «scandalosamente libera, decadente, romantica, borghese», fu travolta dallo stalinismo e si uccise nel 1961. Ermanno Rea ne ha raccontato la storia in uno dei romanzi italiani più belli del Dopoguerra, «Mistero Napoletano».

Chimamanda Ngozi Adichie Scrittrice nigeriana (1977-)

Silvia Morosi «Femminista felice africana». Le parole che ha scelto per definirsi, tutte nella stessa frase, hanno fatto storcere il naso a molti. Ma è proprio in quelle parole che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ha trovato la forza per sfidare il pensiero oggi dominante e mettere in guardia dal rischio di raccontare la Storia da un’unica prospettiva. Un invito a ribellarsi a ogni forma di imposizione e a battersi per l’affermazione della donna e dei suoi diritti come la più alta forma di difesa della democrazia alla quale siamo chiamati. Tutte e tutti.

Margherita Vicario Cantautrice italiana (1988-)

Stefania Chiale Cantautrice con carriera da attrice (tra i registi che l'hanno diretta c'è Woody Allen), due album all'attivo, a otto anni l'uno dall'altro. In mezzo c'è tanta vita, esperienza, storie, studio. Le canzoni di Margherita Vicario hanno il sapore del racconto, della cronaca. La sua voce, coltivata dalla recitazione e dallo studio del canto, fa di ogni testo una traiettoria teatrale. La sua estensione vocale non è mera erudizione canora, ma ricerca artistica. Poi la versatilità. Vicario è capace di cambiare genere musicale ad ogni brano. Lo ha fatto nel suo ultimo album, Bingo. Forse proprio l'esperienza di attrice le rende possibile sondare con facilità le tante possibilità anche nel campo della musica, dal pop al cantautorato, dalle sonorità latine al rap. Le sue canzoni, infine, sono in apparenza leggere; ma sotto sono poesia, sguardo ironico sulla realtà e sui ruoli (pre)assegnati, critica sociale. Una sola regola: sfuggire all'ovvio. Se la forza è capacità di sfidarsi, cambiare, arricchire la propria arte, Margherita Vicario è una delle più forti musiciste italiane.

Antonello Caporale per "il Fatto Quotidiano" il 13 settembre 2021. "Siamo nella condizione di dire basta alle quote rosa, a questa formula che invece di liberare le donne statuisce, oltre ogni intenzione, una condizione di statica indispensabilità. Essere indispensabili per forza di legge è la negazione della forza e del potere della condizione femminile oggi in Italia". Eva Cantarella è la donna che ha studiato e illustrato meglio di tutti la storia anche drammatica delle donne, il cammino verso l'emancipazione, le lotte e le conquiste femminili. 

Professoressa, lei vorrebbe le quote rosa al macero. Grideranno allo scandalo.

Sono divenute, per paradosso, una minorazione delle capacità femminili. Siamo così forti che non abbiamo bisogno di tutor e magari pure maschi. Esiste questa punta di ossessione verso l'esatta parità aritmetica tra l'uomo e la donna. Un fenomeno soprattutto mediatico, con fiumi d'inchiostro a commentare ogni temuta discriminazione.

Le diranno che nega la storia recente.

Chi le parla ha vinto il concorso da professore ordinario al tempo in cui l'università era un coperchio totalmente maschile. Figurarsi se non conosco quale e quanta discriminazione abbia patito la donna. Ma conosco la nostra forza, conosco le conquiste ottenute. Io voto una donna se è più brava di un uomo, voto due donne se ambedue sono brave così come scelgo un maschio se ritengo che sappia difendere meglio di altri i miei diritti.

Il volto femminile colora quotidianamente la cronaca nera.

E qui le donne sono ancora vittime indifese. Voglio augurarmi che sia la coda finale del patriarcato morente. La forza dell'identità femminile è tale che all'uomo non resta, per affermare il proprio potere, che ricorrere a quella biologica. Con la sua forza fisica intende regolare i conti. 

La guerra è raccontata dal volto delle donne.

La tragedia dell'Afghanistan è segnata quasi esclusivamente dall'imposizione del burqa. Converrà che è una violenza orribile. Non è in discussione la natura violenta di questa imposizione e la retrocessione della donna a oggetto, quanto il sospetto che la tragedia femminile afgana ci sollevi dalla domanda: perché il regime talebano è ancora vincente, e l'Occidente laggiù chi ha aiutato, chi ha arricchito, chi magari ha ucciso? C'è, ed è vero, una ipocrisia di fondo. Il burqa, segno della retrocessione femminile, come utile paratia per covare lo sdegno senza avanzare autocritica, senza indagare sui nostri errori. Biden se l'è cavata dicendo che gli Usa hanno smesso di esportare la democrazia. Ma la faccenda è più complessa. Molto tempo prima degli Usa sono stati i Sumeri a esportare la democrazia. Questo per la precisione. La storia insegna ma ha cattivi scolari, diceva Gramsci. Alle donne la storia di discriminazione ha insegnato tanto e ha contribuito a sostenere le lotte di liberazione. In sessant'anni abbiamo conquistato più di quel che si è visto nei duemilacinquecento anni precedenti. Questo è un fatto.

Lei ha scritto un libro sulla emancipazione femminile attraverso lo sport.

Le scorse Olimpiadi si sono colorate di rosa. E sarà una meravigliosa turbina che darà ancora più forza al motore femminile. Perciò dico che non abbiamo bisogno di forme di solidarietà pelose, e nemmeno del circuito scandalistico (al quale anche noi partecipiamo) di maniera, che a volte pare densamente intriso di ipocrisia.

Professoressa, facciamo conto che lei sia grande elettrice e debba scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Uomo o donna?

Io sceglierei il più bravo. Se potesse proporre un nome? Se potesse rivivere Zenobia di Palmira senza alcun dubbio voterei lei. Zenobia. Sotto l'imperatore Aureliano, quando Roma amplia i suoi confini fino all'odierna Siria, Zenobia si fa nominare regina di Palmira. Sotto il suo comando la città rinasce e si espande. Aureliano ritiene che Zenobia sia una semplice portatrice d'acqua ma, quando s'accorge che la regina batte moneta, cambia idea. 

Quindi Zenobia presidente.

Assolutamente sì. 

Erika Antonelli per espresso.repubblica.it il 12 settembre 2021. «Mi sottovalutano spesso. Perché sono donna, per la mia età, per il mio aspetto fisico. Sono una guerriera e lo so, ma a volte mi manca la forza. Ho bisogno di avere più donne al mio fianco, che mi sostengano quando da sola non ce la faccio. Unite, è più facile». Parla così Josephine Teske, 35 anni, a cui anche il settimanale tedesco Der Spiegel ha dedicato un lungo ritratto. È pastora di due comunità: quella evangelica di Büdelsdorf – cittadina nel nord della Germania – e una virtuale, su Instagram, da oltre 29 mila follower. Rappresenta tante cose Josephine, a partire dal nome. Frau Teske in chiesa, con la tunica nera e i capelli raccolti sulla nuca, e “Phine” su Instagram, immortalata con un vestito bianco e verde il giorno del suo compleanno. Si definisce con tre sostantivi: amante della vita, femminista, mamma single. Quando le chiedi se femminismo e fede siano in contraddizione, risponde con tono placido che no, non è così, perché tutti gli esseri umani hanno pari dignità e in quanto tali meritano lo stesso rispetto. Uno dei temi a lei più cari è l'empowerment femminile, la capacità di rafforzare la consapevolezza di sé e delle proprie capacità. Creando comunità e apprezzamento reciproco: «Dovremmo sostenerci a vicenda e non invidiarci o sminuirci. Diciamocelo se ci piace qualcosa l'una dell'altra. Una cosa tipo, “hey, come sei bella oggi, hai davvero un bel vestito”». Per Teske, che ha due figli piccoli, femminismo e maternità sono intrecciate: «Mi ritengo una buona madre, anche quando ho dei dubbi. Anche se sgrido i miei bambini, o se gli lascio bere la Coca Cola. Amo i miei figli e mi butterei nel fuoco per loro, sono grata di averli avuti. Eppure, sono altrettanto grata quando si addormentano». Nessun senso di colpa dovrebbe impedire di ritagliarsi del tempo prezioso. L'attività di Josephine Teske, di persona e sui social, ruota attorno all'importanza di creare connessioni con le altre donne: «Se sgrido i miei bambini – a volte bisogna farlo – mi piacerebbe ricevere sguardi dei comprensione e non occhiate severe». I temi di cui parla Teske sono vari, spesso difficili o laterali per la religione. Sesso prima del matrimonio, masturbazione o mestruazioni, secondo lei, non sono tabù ma «argomenti che interessano alla società di oggi, e in quanto tali imprescindibili per la Chiesa». Proprio questo le permette di rivolgersi a un pubblico vario - capita la seguano anche atei o appartenenti ad altre confessioni - con cui mantiene un dialogo aperto. Nel suo profilo una sezione è dedicata alle domande dei follower – «Quando sei rimasta incinta?», «Com'è stato il tuo primo funerale?», «Hai mai dubbi sulla fede?» – e lei risponde a tutti. Oggi, di dubbi non ne ha più. Ma in passato il cammino per diventare pastora non è stato facile. Già a 14 anni sapeva di voler fare quello, perché nessuna professione l'affascinava più del vicariato. Eppure, le incertezze hanno coinciso con l'inizio degli studi di Teologia, a Rostock. «Mi intimidiva l'approccio “scientifico” alla fede – racconta – all'università non avevo trovato una comunità e lo studio mi metteva davanti a questioni cui non sapevo dare risposte». La perdita di un figlio, il primo, a pochi giorni dal parto, acuisce il dolore e porta con sé una nuova consapevolezza: «Ero così arrabbiata con Dio. Allo stesso tempo, però, sapevo che era sempre là per me». Continua a studiare nonostante la difficoltà di apprendere lingue nuove, soprattutto il greco antico, mentre latino ed ebraico le vengono più facili. Si trasferisce a Büdelsdorf, la cittadina in cui risiede tuttora. Qui scopre il lato femminista della fede, che cambia anche il suo rapporto con Dio. Spesso a lui si rivolge usando il genere femminile, una particolarità che non disturba i fedeli. Il Signore ha tanti volti, spiega, «puoi chiamarlo padre nostro o madre amorevole, dio è un concetto e in quanto tale non ascrivibile a una categoria». Secondo il portale web Statista, nel 2020 sono stati oltre 440 mila i credenti che in Germania hanno lasciato la chiesa cattolica ed evangelica. Molti l'hanno fatto per sfuggire alla “Kirchensteuer”, la tassa sulla religione. L'appartenenza religiosa – cattolica, protestante o ebraica – va infatti segnalata nella dichiarazione dei redditi e comporta il pagamento di una cifra. Teske crede però che sulla scelta dei cattolici abbiano influito anche gli scandali legati agli abusi sessuali e la poca apertura verso le coppie omosessuali. «La Chiesa, temo, non parla più la lingua delle persone». Josephine Teske ha ricevuto critiche, «alcune costruttive, altre meno», perché affronta la religione in modo poco convenzionale. Discute di temi su cui la fede preferisce non interrogarsi, dà spazio ai dubbi dei giovani. E sfrutta ogni mezzo possa agevolarla nel dialogo: «Instagram è più di un social dove postare foto, è uno strumento per creare rete e parlare». Come le piace ripetere, in fin de conti, «non mi va di combattere da sola, è troppo faticoso». 

Michela Murgia: «Donne, gli uomini ricchi siamo noi». Michela Murgia su La Repubblica il 6 settembre 2021. Ci hanno insegnato che parlare di soldi non fosse educato. Per tenerci all’angolo. Per ribaltare i luoghi comuni, dieci storie di successi professionali di chi ha costruito una fortuna puntando solo su se stessa. Da Oprah Winfrey a Beyoncé. Il racconto dell’autrice del libro “Morgana – L’uomo ricco sono io”, scritto con Chiara Tagliaferri. Di denaro, di Dio, di politica e di sesso non si parla tra persone ben educate. Quest’opinione, eredità familiare, ha accompagnato gran parte del mio percorso adolescenziale, cercando di trasmettermi l’idea che trattare argomenti delicati guastasse i rapporti col mondo. Alle cene e alle feste meglio parlare del tempo, come gli inglesi, o al massimo di cibo, che dà luogo a discussioni sì, ma mai fatali. Il tentativo di convincermi che parlare di denaro fosse vile, di Dio troppo personale, di sesso volgare e di politica pericolosamente divisivo ottenne però l’effetto contrario, confermandomi che in realtà erano gli unici argomenti di cui valesse la pena occuparsi. A distanza di anni mi sono invece resa conto che mentre di Dio, di sesso e di politica ho ragionato anche pubblicamente in modo esplicito, la questione del denaro rimaneva legata a un certo pudore, come se avesse prevalso anche in me l’idea che parlare di soldi fosse una cosa vile. Il tabù del denaro, al netto del retaggio cattolico che ci impone di mostrarci tuttǝ sempre disinteressatǝ allo sterco del demonio, viaggia abbracciato anche a un pregiudizio di genere: se proprio qualcuno deve parlare di quella cosa volgare che sono i soldi, è meglio che a farlo non sia una femmina. Donne e soldi non stanno insieme per molte ragioni storiche, a partire dalla contrapposizione tra matrimonio e patrimonio che Jane Austen aveva già così ben investigato. Le donne non hanno avuto diritto alla proprietà perché per troppo tempo sono state esse stesse una proprietà che passava dal marito al padre, accompagnate nei casi più fortunati anche da quel risarcimento chiamato dote. L’unico modo per avere accesso al denaro è stato per secoli quello di sposare un uomo che ne avesse. L’autonomia economica era esclusa: le donne non hanno potuto lavorare per secoli se non in ambiti familiari e quando hanno cominciato a farlo non hanno mai visto riconosciuto il valore della loro fatica. Quel dislivello storico ha strascichi così lunghi che nel settore privato ne paghiamo ancora le conseguenze: il gender pay gap in Italia viaggia tutt’ora su percentuali a cavallo tra le due cifre e gli uomini, siano operai, liberi professionisti o dirigenti, godono di stipendi più alti delle loro colleghe sin dall’inizio delle rispettive carriere. A compromettere la parità è proprio la mancata dimestichezza con l’idea di gestire dei soldi. L’Unicredit qualche anno fa lanciò un prodotto bancario telematico dedicato alle nuove generazioni, quelle che a diciotto anni cominciano ad avere bisogno di un conto dove mettere il denaro dei primi lavoretti estivi, di un part time universitario o del regalo di diploma. Dopo un anno dalla promozione del conto on line, le statistiche aziendali rivelarono che l’80% dei fruitori erano maschi. Le ragazze, già in partenza meno incoraggiate a cercarsi piccole fonti di reddito autonomo, avevano meno entrate e tendevano a metterle nel conto familiare, lasciandole gestire ai genitori. I dati di Unioncamere rivelano che purtroppo la tendenza a scoraggiare le donne nella gestione del proprio reddito non cambia nemmeno quando si esce dagli studi e si entra nel mercato del lavoro: l’accesso al credito bancario è molto più faticoso per le imprenditrici, che sono considerate dalle banche meno affidabili nella gestione dei soldi e si vedono dunque chiedere garanzie in solido a fronte di progetti d’impresa per finanziare i quali agli uomini basta semplicemente presentare un business plan. Le donne che aprono un’impresa preferiscono chiedere un prestito interfamiliare, laddove è possibile, perché è più semplice che domandare ai genitori di firmare una fidejussione, mettendo magari a garanzia la casa di famiglia. Il consiglio che in troppe case ancora viene dato alle donne non è quello assai saggio di Virginia Woolf, avere una stanza per sé e 500 sterline di rendita all’anno, ma quello di “sistemarsi” sposando un uomo ricco e dipendendo per sempre dall’agiatezza di qualcun altro. È stata la presa di coscienza di questa situazione di ingiustizia economica, e dunque foriera di violenza, a convincermi che fosse importante e politicamente urgente cercare, insieme a Chiara Tagliaferri, dieci storie di donne che nell’ultimo secolo avessero provato a realizzare se stesse e i propri sogni attraverso l’indipendenza economica. Da Helena Rubinstein, che crea un impero commerciale partendo dalla cosa più effimera che esista, fino a Oprah Winfrey, nata povera e discriminata, ma divenuta padrona del salotto televisivo più importante degli Stati Uniti, non è stato facile trovare figure di donne che rientrassero nei canoni di libertà che per gli uomini sono sempre stati scontati. Nessuna delle donne che abbiamo trovato ha una storia semplice. Nadia Comaneci si è vista rubare tutto quello che ha guadagnato con gli ori olimpici e c’è voluta una vita intera perché tornasse padrona di sé in tutti i sensi possibili. Chiara Lubich, carismatica leader cattolica e osservatrice dei meccanismi capitalistici, inventò un modello economico umanamente non distruttivo che viene tutt’ora applicato a Loppiano, la città da lei fondata. Madame Clicquot, nome leggendario nel mondo dello champagne, per centuplicare il valore dell’azienda vinicola a Reims dovette attendere di diventare vedova di un marito imprenditorialmente inetto. Beyoncé, JK Rowling e Angela Merkel si sono affermate nei rispettivi ambiti con un talento e un impegno certamente fuori dal comune, ma il loro esempio è scalabile anche nelle comunissime vite di molte donne. In questa sequenza di Morgane indipendenti, che prima è stata podcast per StorieLibere e oggi esce come libro per Mondadori, abbiamo voluto inserire ineditamente anche Asia Argento, che a nove anni era già economicamente indipendente nel modo poco invidiabile in cui lo sono le persone costrette a contare solo su se stesse. La speranza, raccontando queste storie, è che qualunque donna possa un giorno rispondere, davanti al consiglio di trovarsi un uomo ricco, con la famosa frase che Cher disse a sua madre: non serve, mamma. L’uomo ricco sono io.

Vittorio Feltri, la stoccata alle femministe italiane: "Si facciano un bel giro in Afghanistan..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Nonostante anche io sia stato giornalista e conosca i difetti della categoria, mi ostino a credere in quello che essa scrive. Apprendo pertanto dalle mie letture fiduciose che quei brutti ceffi di talebani si apprestano a varare a Kabul un governo interamente formato da uomini. Le donne sono escluse dalle istituzioni e forse pure dal consorzio civile. Niente scuola, niente università, vietatele professioni. Gli orrendi maschi ultrafedeli di Allah hanno lunghi capelli e lunghissime nonché foltissime barbe: quando ne vedo uno penso che abbia troppi peli, troppi per un co***e solo. Non credo di sbagliarmi. Mentre sono certo che si sbagliano le femmine (femministe) italiane e in genere quelle occidentali ad accusare noi poveri tapini che le corteggiamo, e spesso purtroppo le sposiamo, di trascurarle e di impedire loro di salire ai vertici delle gerarchie professionali. Il maschilismo è l'insulto più ricorrente che ci colpisce, segue il sessismo come se le pratiche erotiche interessassero noi, mentre è ovvio che semmai le esercitiamo in coppia, normalmente costituita da un lui e da una lei. Sorvolo sugli omosessuali perché voglio vivere in pace cioè senza passare per omofobo, dato che in questo senso ho già pagato il fio. Consiglierei alle nostre mogli di fare un salto in Afghanistan: sarebbe per loro un appassionante viaggio studio finalizzato ad apprendere che l'Italia è un immenso gineceo dove le signore sono considerate l'élite della società. In famiglia comandano loro, ai mariti è consentito soltanto leggere la Gazzetta dello Sport. Sui posti di lavoro si impongono poiché di norma sono più brave dei maschi, allorché una di esse entra nel mio ufficio provvedo a spalancare la porta per rendere pubblico l'incontro, si sa mai; se solo le stringi la mano è capace di denunciarti per molestie. A me le donne ispirano solamente timore, una volta mi piacevano, adesso che sono diventate aggressive preferisco i gatti che al massimo ti graffiano ma non ti trascinano in tribunale. Ribadisco di detestare i talebani, però un po' li invidio, non certo per l'abbigliamento bensì per il loro rapporto con le fidanzate e generi affini. 

La democrazia è delle donne. Donatella Di Cesare su L'Espresso il 25 agosto 2021. Fallita l’idea di esportare un sistema neoliberale, resta la consapevolezza dei diritti. Quei punti nel cielo, che compaiono sulla scia di un Boeing tracotante mentre precipitano impietosamente nel vuoto, resteranno nella storia un’immagine tremenda e indelebile. Non solo il simbolo di una fuga cinica e sconsiderata, ma anche il sigillo di una rappresaglia ignominiosa, di una rivalsa caparbia che la grande potenza ha cercato insistentemente per un ventennio. «America is back», aveva dichiarato Joe Biden dopo l’inquietante periodo del trumpismo. Oggi si può dire che quel «back» non sia altro che un «back home». L’America torna a casa portando con sé un trofeo macabro a pochi giorni dall’anniversario dell’11 settembre, quando nel vuoto cadevano i corpi di coloro che erano rimasti imprigionati nelle torri gemelle. Quel trauma profondo, che avrebbe dovuto essere adeguatamente elaborato, provocò invece la overreaction, la risposta militare americana. La caduta di Kabul getta un’inquietante luce retrospettiva sulla «guerra al terrore», una singolare sfida a una tecnica di attentato, spesso ridotta a una caccia a fantasmi, e una guerra che non era più tale, senza nemici definiti, né fronti precisi, né tempi certi. Come una guerra al Male. Il 7 ottobre 2001, al momento dell’invasione dell’Afghanistan, Bush promise un’interminabile azione riparatrice, secondo il motto della “guerra giusta” teorizzata da Michael Walzer, che ebbe perciò l’altisonante nome in codice di Infinite Justice, giustizia infinita, sostituito dal più mite Enduring Freedom, libertà duratura, rimpiazzato in seguito da un paio di sigle burocratiche. Con il pretesto del terrore fu allora dichiarato lo stato d’emergenza e venne sospesa in modo eclatante la democrazia. Sarebbe una miope ingenuità credere che la fuga da Kabul rappresenti l’ultimo fallimentare capitolo delle guerre occidentali nel XXI secolo. Non è possibile prevederne ora le conseguenze. Ma già la guerra in Iraq del 2003, che ha minato la credibilità degli Usa e alimentato potentemente il complottismo per via di quelle «armi di distruzioni di massa» mai trovate, mostra quali possono essere gli effetti. Contraddistinta da menzogne e atrocità peggiori, la guerra in Afghanistan rischia di far deflagrare l’Occidente stesso non solo sullo scacchiere geopolitico, ma anche e soprattutto nei propri valori. Tutto si è disgregato in un soffio. D’un tratto sembra vanificato il grande sogno della civilizzazione e della democratizzazione. C’è chi parla di disfatta dell’Occidente. A parlare chiaro è il bilancio delle cifre. Canta vittoria l’industria bellica. Ma il fallimento è tutto di una politica che pochi, inascoltati, avevano già denunciato vent’anni fa. Perché l’ipocrisia non ripaga e non si può contrabbandare a lungo di portare agli altri la libertà quando non si vuole in effetti che proteggersi, difendersi, cautelarsi da questi altri. Quel che, più nel male che nel bene, è stato compiuto in Afghanistan, dai militari ma perfino dalle Ong, è inficiato da quest’ambiguità di fondo. Dove finisce l’intervento umanitario e dove comincia il controllo bellico-poliziesco? Se quei programmi, che apparivano così promettenti e magnanimi, hanno avuto scarsa presa, come adesso sembra evidente, è perché sotto sotto erano guidati dal criterio della nostra sicurezza e non della loro democrazia. Quel che oggi emerge è la fragilità delle istituzioni edificate, l’inconsistenza dello stato di diritto esportato a forza. L’operazione «libertà duratura» avrebbe dovuto tradursi in una democrazia costituzionale. Il castello di carta è crollato. A riprova che non si può imporre la libertà e non si può esportare la democrazia. L’ossimoro non potrebbe essere più palese. Fin qui ormai quasi tutti concordano. Ma l’esportazione della democrazia è una questione ben più profonda e mette allo scoperto un dissidio contemporaneo sul modo stesso di intendere la parola democrazia. Esce piegata da questa sconfitta la concezione neoliberale che, mentre riduce la democrazia a un sistema di governo, più ampio e tollerante di altri, la imbriglia alle redini istituzionali e a una serie di regole e procedure. Si tratterebbe allora di esportare semplicemente questa teoria politica insieme alle istituzioni confacenti e a una competente capacità di amministrare. Se il trapianto non riesce (come non è riuscito), si potrà sempre dire che è colpa degli altri: della loro subcultura, degli usi retrivi, del loro medioevo. Senonché la democrazia non è una manciata di istituzioni, non è un insieme di regole. A uscire incrinata dalla sconfitta è questa concezione normativo-procedurale della democrazia, buona per essere più o meno maldestramente esportata perché buona già per la governance neoliberale che si limita ad amministrare l’economia. Ben più che una costituzione, un sistema politico-giuridico, la democrazia è una forma di vita. Non ne va solo della partecipazione dei cittadini, ma della loro esistenza e coesistenza. Non può essere irrigidita e disciplinata perché ha un fondo anarchico, come ricordano i teorici della democrazia radicale. Sarebbe inconcepibile senza il paradigma dell’esodo, di una liberazione che si ripete incessantemente. Una società democratica è il teatro di un’avventura non dominabile. Perciò la democrazia è sempre stata guardata con sospetto, già da Platone che denuncia lo scandalo di una politica dove gli schiavi sono affrancati, gli stranieri diventano cittadini, le donne hanno la parità nel rapporto con gli uomini. Si può intuire che il fondamentalismo veda nella democrazia (e nel suo fondo anarchico) il suo più acerrimo nemico. Ma proprio mentre su Kabul cala il velo dei talebani, c’è motivo per essere, malgrado tutto, ancora ottimisti. Perché quelle donne afghane, che andavano a viso scoperto, che frequentavano la scuola e all’università, che erano sempre più sicure e orgogliose di sé, sono allo stesso tempo le vittime predestinate, ma anche le possibili protagoniste di una resistenza. La democrazia non si è dissolta in poche regole, è rimasta introiettata in loro, nel loro modo di vivere, di pensare, di rapportarsi ad altri. Così come è rimasta in quell’avanguardia di afghani che, anche per ciò, sono in questo momento più a rischio. Al tradimento e all’abbandono che avvertono comprensibilmente si può rispondere solo restando al loro fianco. Sarebbe questo il primo compito di coloro a cui sta a cuore la democrazia. Il che si traduce in molti modi: nel sostegno a chi deciderà di non lasciare il proprio paese e nell’accoglienza per chi non ha altro scampo che andar via. La democrazia non ha frontiere. Nulla apparirebbe oggi un crimine efferato come chiudere le porte ai rifugiati afghani. Da tempo l’Occidente è diviso e questa è l’ora dell’Europa, che non è una potenza come quelle emergenti, che non ha la forza economico-militare americana. Ma è la patria dei diritti umani, un privilegio che altri non hanno e un dovere in più. Perché i diritti umani sono il vessillo della democrazia. Questo ulteriore tradimento sarebbe imperdonabile e sancirebbe davvero il nostro tracollo.

Riccardo De Palo per "Il Messaggero" il 10 agosto 2021. «Sono molto onorata di essere la prima donna a ricevere questo riconoscimento, e anche molto sorpresa», dice Alessandra Buonanno raggiunta sulla strada per Cape Cod, Massachusetts, dalla notizia: la ricercatrice italiana, direttrice del Max Planck Institute for Gravitational Physics di Potsdam, ha ricevuto la medaglia Dirac, uno dei principali premi scientifici internazionali. Da Cassino agli Stati Uniti, passando per la Germania e la Francia: un grande successo per la scienziata nata nella città in provincia di Frosinone nel 1968, dove ha frequentato il liceo prima di partire per l'Università. E mentre la raggiungiamo al telefono negli Stati Uniti, piovono le congratulazioni. «Un importante riconoscimento - ha affermato il premier, Mario Draghi - che dà lustro al nostro Paese, nell'ambito della ricerca scientifica». Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, twitta che «l'Italia si conferma un punto di riferimento». La stessa Buonanno aveva ricevuto lo scorso febbraio anche la Galileo Galilei Medal. E la responsabile dell'Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, ha auspicato che la medaglia conferita dall'International Centre for Theoretical Physics di Trieste sia «di sicura ispirazione anche per le giovani ragazze che decideranno di intraprendere percorsi di studio scientifici e tecnologici».

Cosa direbbe alle ragazze che sognano di seguire le sue orme?

«Siate determinate, cercate di seguire i vostri istinti, le vostre passioni. Questa è la cosa più importante. Sono contenta che questo premio possa mandare un messaggio molto positivo ai giovani in generale e ovviamente alle ragazze che vogliano intraprendere una carriera nella ricerca scientifica. Spero di ispirare molte di loro». 

Come donna ha incontrato difficoltà nella sua carriera?

«Io non ho avuto esperienze in cui ho avuto l'impressione di essere trattata in modo diverso. Bisogna eliminare barriere sociali e culturali che impediscono alle donne di intraprendere la ricerca scientifica».

Questo è anche un riconoscimento all'Italia?

«Sicuramente. Sono nata in Italia, e sono molto grata a questo Paese: il corso di laurea e il dottorato li ho conseguiti all'Università di Pisa. Poi all'inizio di gennaio del 1997 sono andata via, e sono molto riconoscente nei confronti dei vari Paesi in cui ho lavorato: la Francia, la Svizzera, la Germania, gli Stati Uniti. Tra l'altro io sono anche cittadina americana». 

È felice delle sue scelte?

«Sono molto contenta di avere fatto ricerca in Paesi diversi: ci si arricchisce, si impara tanto. Sono un po' una cittadina del mondo, ma ovviamente resto italiana».

Ci spiega per quale studio è stata premiata?

«Il premio è stato dato per varie ricerche teoriche che hanno reso possibile la rilevazione delle onde gravitazionali (la scoperta che ha permesso di confermare la teoria di Einstein, ndr) con i progetti Ligo e Virgo». 

Quando ha iniziato?

«Il mio lavoro è cominciato vent'anni fa, quando ero ancora nel gruppo di lavoro di Thibault Damour, in Francia. Avevo tentato una teoria che permette di semplificare il problema dei due corpi, ovvero un sistema binario di buchi neri, come se fosse un corpo solo. Questo per poter predire le forme d'onda in maniera più semplice».

Fu solo il primo passo, è così?

«Poi c'è stato il lavoro con Frans Pretorius e le persone che lavorano in relatività numerica, per migliorare queste forme d'onda e poterle usare per osservare le onde negli interferometri (ovvero macchinari complessi che misurano le differenze d'onda, ndr) di Ligo e Virgo, ed estrarre informazioni». 

Questa ricerca ora continua?

«Sì, nel 2015 abbiamo scoperto le prima onda gravitazionale generata dalla collisione di due buchi neri e adesso ne abbiamo osservate altre cinquanta...». 

Quindi la scoperta viene confermata continuamente?

«Certo, e gli strumenti sono migliorati nel tempo, diventano più precisi, più sensibili. C'è tutto un programma per costruire nuovi interferometri nel prossimo decennio». 

Dove?

«Sulla Terra, in Europa, ci sarà l'Einstein Telescope e negli Stati Uniti il Cosmic Explorer. Poi nello Spazio dal 2036 arriverà Lisa, il progetto dell'Esa, l'agenzia spaziale europea. E siamo solo all'inizio». 

E qual è il ruolo della ricerca italiana?

«Il ruolo italiano è stato importante, con l'interferometro Virgo (che si trova vicino a Cascina, in provincia di Pisa, ndr), anzitutto, che ha permesso di osservare la prima onda gravitazionale proveniente da un buco nero e una stella di neutroni. C'è collaborazione tra i due interferometri americani, di cui faccio parte, e Virgo».

Quale sarà il prossimo obiettivo della ricerca?

«Ovviamente le scoperte più interessanti sono quelle che giungono inaspettate. Però nel campo delle onde gravitazionali, un mese fa abbiamo pubblicato con Ligo e Virgo la scoperta di sistemi binari misti. La cosa importante è capire come questi sistemi si formano, perché i buchi neri hanno questa massa, perché si trovano in certe galassie...» 

Riusciremo a capire cosa sia la cosiddetta materia oscura?

«Le onde gravitazionali possono anche essere utili per capire qualcosa della materia oscura e dell'energia oscura». 

E cos'altro vorrebbe scoprire?

«In futuro forse la cosa più straordinaria sarà vedere le onde gravitazionali emesse pochi istanti dopo il Big Bang. È una scoperta che potrà avvenire soltanto nei prossimi decenni, perché ci vorranno strumenti più sensibili di quelli che abbiamo adesso». 

E come sarà possibile?

«Le onde gravitazionali permettono di poter tornare indietro a quando l'Universo si è formato. E sono gli unici messaggeri astronomici, come li chiamiamo noi, che possono fare questo. Le informazioni che possiamo avere per esempio dai fotoni, con la radiazione cosmica primordiale, sono informazioni che arrivano trecentomila anni dopo il Big Bang. Le onde gravitazionali, invece, vengono emesse dopo una frazione piccolissima di secondo. Sarebbe bellissimo rivelare, un giorno, il rumore proveniente dall'Universo primordiale». 

Sarebbe il primo suono emesso dall'Universo?

«Esatto, proprio così».

QUANTE MATA HARI?

Il vero volto di Mata Hari: il ventre della spia. Davide Bartoccini il 26 Luglio 2021 su Il Giornale. La leggenda dell'enigmatica danzatrice olandese rivelò agli imperi quanto possa essere pericolosa una donna in grado di tessere trame fantasiose e ben giocare gli uomini in guerra. A un secolo dalla morte di una delle agenti segrete più famose della storia, l’idealizzazione di Mata Hari, all'anagrafe Margaretha Geertruida Zelle poi nota alle cronache come Lady Mac Leod, sembra essere riportata a un'assai meno intrigante verità. Quella che pone ai nostri occhi affascinati una donna avvenente, furba e affabulatrice, ma non abbastanza intelligente da rassegnarsi ai propri limiti. Una cortigiana travolta dagli eventi e assetata di avventura, che senza una reale capacità nel campo dello spionaggio, finì per essere fucilata come spia doppiogiochista. Questo, senza aver servito veramente, con convinzione o merito, nessuna delle due fazioni che richiesero i suoi sinuosi e libertini servigi. Al termine della Guerra Fredda, gli operativi del Kgb che albergavano a Berlino Est rivelarono paciosi che uno dei metodi più collaudati ed efficaci per acquisire segreti dalla Nato era quello di infilare nei letti di ufficiali e personalità con ruoli chiave "oltre cortina" delle bellissime donne di facili costumi, sapientemente reclutate, alle quali, dopo essersi abbandonati alle più sfrenate passioni, essi avrebbero potuto rivelare informazioni importanti per l'avversario. Non era una tattica nuova, anzi, è la più antica del mondo. E vide tra le più celebri dame coinvolte in questo gioco pericoloso proprio l’esotica danzatrice Mata Hari. Nei dossier e rapporti redatti dalla Direzione Generale della Polizia Giudiziaria, trasmessi nell'aprile del 1917 al Governo militare di Parigi che avrebbe firmato di lì a pochi mesi l’ordine d’arresto della stessa, ella veniva indicata come ballerina di origine olandese - sebbene lei raccontasse d’essere nata a Giava e avere “sangue indù nelle vene” - ; che prima di raggiungere il successo si era dedicata con disinvoltura alle così dette “galanterie”, ossia alla prostituzione d’alto bordo all’inizio del secolo scorso. Le demi-mondaines, parafrasando Alexandre Dumas figlio, a causa della loro provenienza dal mondo di mezzo e dei loro costumi equivoci, sono sempre state considerata le "spie" prediletta per eccellenza. E Mata Hari era decisamente una demi-mondaine. Destinata a diventare per un talento innato, cortigiana fatale e desiderio proibito di uomini ricchi e potenti.

L'Occhio dell'Alba. Nata in Frisia, nel nord dei Paesi Bassi, e omaggiata dal destino di una bellezza conturbante e non comune fatta di colori che la distinguevano da tutte le altre donne del cantone - un incarnato scuro, occhi scuri e profondi e lunghi capelli neri -, Margaretha era stava svezzata nell'agio, ma si trovò presto a dover fare i conti con l'indigenza dopo il tracollo finanziario della sua famiglia. Una vita complicata, fatta di separazioni, lutti, parenti come tutori e continui spostamenti da una città a un'altra, la portarono a rispondere a un annuncio matrimoniale pubblicato sul giornale - come era costume al tempo - da un ufficiale del Regio Esercito olandese: il capitano Rudolph Mac Leod. L'uomo si era ritirato per convalescenza dai possedimenti olandesi nelle Indie Orientali. Solo al termine della convalescenza di suo marito la giovane olandese avrebbe scoperto le esotiche terre oltre mare. Dirà di averle viaggiate in lungo e in largo, di essere entrata di nascosto "a rischio della vita", nei templi segreti dell'India dove avrebbe assistito alle esibizioni mistiche di danzatrici sacre davanti ai simulacri di Shiva, Viṣṇu, della dea Kālī; di aver frequentato e amato maharaja e di aver cacciato tigri delle quali portava la rara e preziosa pelliccia indosso negli alberghi di lusso delle maggiori capitali europee. Ma la realtà è che prima della rottura con suo marito, accentuata dalla perdita di un figlio morto avvelenato a pochi anni di vita, Magaretha aveva vissuto come moglie di un ufficiale subalterno in villaggi piccoli e mal collegati dell'Indonesia, a quel tempo dominio coloniale olandese.

Il primo tentativo di rifarsi una vita a Parigi, posando come modella di pittori poco noti, fallisce miseramente. Torna in Olanda dallo zio che l'aveva accolta, me già 1904, fa ritorno nella ville lumiere dove il suo nuovo amante, il barone Henri de Marguérie, la mantiene al Grand Hotel. È in questo periodo che la danza giavanese nella quale è solita esibirsi, fa colpo su monsieur Guimet, industriale e collezionista di oggetti d'arte orientali che ne resta profondamente affascinato. Entusiasta di quelle danze che lei racconta di aver appreso dalle sacerdotesse del dio Shiva, la fa esibire nel museo. E poi la farà esibire nei salotti dei potenti che vogliono essere a-la-page , mostrando questa sinuosa ballerina che mimando un approccio amoroso verso la divinità occulta, finisce per spogliarsi, un velo dopo l'altro, per rimanere in un audace nudità coperta da pochi gioielli appositamente disegnati per lei. Diviene nota alle cronache come lady Mac Leod, ma la sua fama di "danzatrice venuta dall’Oriente" che dovrà esibirsi dei maggiori teatri d'Europa necessita di un nome più esotico, che richiami davvero le origini ancestrali che la danzatrice millanta di possedere. Giimet decide che il suo nome sarà Mata Hari, che significa "Occhio dell'Alba" in malese. E resterà quello, anche quando lei cercherà di reinventarsi dopo essersi recata in Spagna, narrando di un'infanzia andalusa e di un torero con per un suo rifiuto si era lasciato uccidere da un toro restando immobbile di fronte alla feroce carica. Il success, ottenuto grazie all'esibizione progrettata da Guimet, e grazie all'interessamento di monsieur Molier, diverrà presto internazionale. Sul Times si riferiscono a lei come "..un'avvenenza che sconfina nell'incredibile, con una figura dal fascino strano e dalle movenze di una belva divina che si conduca in una foresta incantata”. Nel frattempo lei continua a esibirsi nei salotti di finanzieri e aristocratici, cambiando numerosi amanti. Dopo aver frequentato il banchiere parigino Félix Rousseau, si trasferisce per un lasso di tempo a Berlino, dove si lega ad Hans Kiepert, un facoltoso junker prussiano. Ma gli animi revanscisti, che trovano nell'assassinio dell'arciduca una ragione in più per far scoppiare una guerra, vedranno la cortigiana danzatrice che null'altro voleva se non vivere un'eternità scandita dagli agi e dai fasti che fatto la Belle Epoque, travolta da un conflitto che la sorprende in Svizzera. Mata Hari vuole tornare a Parigi, e dopo una breve tappa in Olanda, finanziata dall'ennesimo petit ami, riesce a farvi ritorno. Ma non prima d'essere stata avvicinata da una vecchia conoscenza: il console tedesco Alfred von Kremer.

Agente H21, al servizio del Kaeiser. Durante un incontro avvenuto all'Aja, il console propone a Mata Hari di diventare una spia al servizio del Kaiser. In cambio le offre un'ingente quantità di denaro, che lei accetta con la stessa disinvoltura di una bambina che sembra entusiasta di partecipare a un nuovo gioco. Quella bambina però, sta per compiere 39 anni. Dopo aver ricevuto un breve addestramento alle pratiche dello spionaggio presso il Centro di Anversa, gestito dalla nota Fraulein Doktor, Elsbeth Schragmueller, viene inviata in Spagna e poi a Parigi. Il suo identificativo in codice, che inizialmente è H21, viene cambiato in AF44. Il primo incarico sarà quello di trovare il modo di fornire informazioni sull'aeroporto di Contrexeville, situato nei pressi di Vittel in Francia. L'escamotage sarà quello di far visita a uno dei suoi giovani amanti - forse il suo unico vero amore tra le decine di ufficiali ai quali ha concesso le sue grazie - il capitano russo Vadim Masslov. Nel frattempo Mata Hari, alloggerà al Grand Hotel e, come da consuetudine, farà conoscenza con ufficiali dei diversi eserciti alleati dell'Intesa. Ignorando di essere già sorvegliata dallo spionaggio inglese e dal controspionaggio francese. Che già sospettavano di lei in quanto demi-mondaine che si era sempre professata amica dei potenti di mezza Europa. E ora che tutta l'Europa era in guerra, il rischio o il vantaggio di rivelare un segreto giusto o sbagliato a l'una o l'altra fazione era dietro l'angolo. Con se portava due boccette di inchiostro simpatico fornitegli dai servizi segreti tedeschi: nessuna arma al di fuori della sua fama di seduttrice mangiauomini.

Ingenua, tradita e colpevole. Benché estremamente furba, intraprendente, poliglotta, e affascinante, Mata Hari non si rivela essere una spia all’altezza delle aspettative. Non ha la stoffa, la perspicacia, e l'arguzia di un agente segreto. È solo una donna fragile, quasi apolide, che ama la bella vita più della vita stessa, e che pur di continuare a godere dei piaceri che essa può darle, finisce col promettere a un politico straniero di fornirgli le informazioni che desidera, sfruttando le confidenze dei suoi amanti. La stessa cosa che promette - sempre in cambio di denaro, non certo per amor di patria - agli ufficiali del Deuxième Bureau, il servizio segreto militare francese. Le informazioni che fornisce al console von Kalle e al colonnello Joseph Denvignes si rivelano ininfluenti, e soprattutto ben distanti dalle generose somme di denaro che la danzatrice chiede in cambio del suo pericoloso gioco. Quando il console tedesco capisce che Mata Hari è una doppiogiochista, forse su ordine del centro informativo tedesco di Colonia, decide di bruciare la sua copertura inviando un messaggio cifrato ma adoperando un codice vecchio, che sa essere stato decifrato dai servizi segreti francesi. Nel messaggio ne rivela l'identità. E questo viene prontamente intercettato dalla centrale del controspionaggio sistemata sulla Tour Eiffel per captare le frequenze su onde lunghe, dove nel 1917 transitano anche i messaggi cifrati. Per essersi resa colpevole dei crimini di "espionnage, tentative, complicité, intelligences avec l'ennemi", Mata Hari, già da tempo sorvegliata a vista, viene arrestata dalla polizia francese nella sua camera d'albergo, la 131 del Palace Hotel, al numero 103 degli Champs Elisées, il 12 febbraio del 1917. Benché le prove non siano abbastanza consistenti, e non sia trovato alcun documento o messaggio scritto con l'inchiostro simpatico che lei non sapeva usare, confesserà di essere stata reclutata anche dai tedeschi come spia. Forse non immaginando nemmeno che, dopo numerosi fallimenti nella campagna militare condotta dall'esercito francese e con un governo in difficoltà di fronte a un popolo affamato e stremato, il crimine di spionaggio l'avrebbe vista senza dubbio come condannata a morte. L'esecuzione di una spia come lei, inoltre, avrebbe senza dubbio riscosso il piacere della vendetta che sovente viene invocato dalla vorace opinione pubblica. Negatale la grazia, Mata Hari, al secolo scorso Margaretha Geertruida Zelle, sconterà parte della sua prigionia nel carcere di Saint-Lazare, prima di essere condannata a morte per fucilazione il 15 ottobre del 1917. Per comparire di fronte al plotone d'esecuzione schierato presso il campo di tiro di Vincennes, Margaretha sceglie un abito grigio perla. Rifiuterà la benda, per guardare la morte in faccia. Coraggiosamente. Degli 11 colpi sparati all'ordine del fuoco, solo tre la colpiscono. Uno dritto al cuore. Il suo corpo, rimasto irreclamato, viene sepolto in una fossa comune. Delle tre lettere scritte prima della condanna, una indirizzata alla figlia Jeanne Louise, una al suo unico amore, il capitano Masslov, che l'aveva archiviata pubblicamente come "una semplice avventura", l'ultima all'ambasciatore d'Olanda, Cambon, nessuna verrà recapitata. Chi leggerà quegli addii, come le altre memorie custodite nei dossier che sono rimasti secretati fino al 2017, descriverà una donna ingenua e tradita, che forse si era lasciata trascinare in un gioco molto più grande di lei. Ma Mata Hari in fondo era solo un'attraente e misteriosa ballerina di una danza fantasiosa, che temeva di perdere il suo fascino come tante dive quando invecchiano. Una donna con un passato difficile, alla ricerca della sofisticatezza che appartiene alle regine. Che adorava inventare storie appassionanti solo per rendersi ancora più desiderabile agli occhi di chiunque l'avesse accompagnata fino alla nuova alba. Forse un complesso diffuso dell'esistenza. Di certo nel suo caso, un lasciapassare per restare nella storia. 

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Mata Hari. Da Wikipedia. Mata Hari, pseudonimo di Margaretha Geertruida Zelle (Leeuwarden, 7 agosto 1876 – Vincennes, 15 ottobre 1917), è stata una danzatrice e agente segreto olandese, condannata alla pena capitale per la sua attività di spionaggio durante la prima guerra mondiale. Era figlia di Adam Zelle (1840-1910) e di Antje van der Meulen (1842-1891), ed ebbe tre fratelli, il maggiore, Johannes (1878), e due fratelli gemelli, Arie Anne e Cornelius (1881-1956). Il padre aveva un negozio di cappelli, era proprietario di un mulino e di una fattoria. La sua famiglia poteva permettersi di vivere molto agiatamente in un antico e bel palazzo sulla Grote Kerkstraat, nel centro della città. Margaretha, che in gioventù frequentò una scuola prestigiosa, aveva una carnagione scura e i capelli e gli occhi neri, caratteristiche fisiche che la differenziavano notevolmente dai suoi connazionali olandesi. Nel 1889 gli affari del padre incominciarono ad andar male tanto da costringerlo a cedere la sua attività commerciale. Il dissesto economico provocò dissapori nella famiglia che portarono, il 4 settembre 1890, alla separazione dei coniugi e al trasferimento del padre ad Amsterdam. La madre morì l'anno dopo e Margaretha venne allevata nella cittadina di Sneek dal padrino, il quale scelse di farla studiare da maestra d'asilo in una scuola di Leida. Sembra che le eccessive attenzioni, se non proprio molestie, del direttore della scuola, avessero spinto il suo padrino a toglierla dalla scuola, mandandola da uno zio che viveva a L'Aia. Nel 1895 Margaretha rispose all'inserzione matrimoniale di un ufficiale, il capitano Rudolph Mac Leod (1856-1928), che viveva ad Amsterdam, in licenza di convalescenza dalle colonie d'Indonesia poiché soffriva di diabete e di reumatismi. L'11 luglio 1896, ottenuto anche il consenso paterno, Margaretha sposò il capitano Mac Leod: il padre, divenuto nel frattempo viaggiatore di commercio, partecipò alla cerimonia nuziale in municipio, ma non fu invitato al pranzo di nozze. Dopo il viaggio di nozze a Wiesbaden, la coppia si stabilì ad Amsterdam, nella casa di Louise, la sorella di Rudolph.

Il 30 gennaio 1897 nacque a Margaretha un figlio, cui fu dato il nome del nonno paterno, Norman John. In maggio la famiglia s'imbarcò per Giava, dove il capitano riprese servizio nel villaggio di Ambarawa, nel centro della grande isola. L'anno dopo si trasferirono a Teompoeng, vicino a Malang, dove il 2 maggio 1898 nacque Jeanne Louise († 1919), chiamata col vezzeggiativo Non, dal malese nonah (piccola). La vita familiare non fu serena: vi furono litigi tra i coniugi, sia per la durezza della vita in villaggi che non conoscevano gli agi delle moderne città europee dell'epoca, sia per la gelosia del marito e la sua tendenza ad abusare dell'alcol. L'anno seguente il marito fu promosso maggiore e comandante della piazza di Medan, sulla costa orientale di Sumatra. Come moglie del comandante, Margaretha ebbe il compito di fare gli onori di casa agli altri ufficiali che, con le loro famiglie, frequentavano il loro alloggio, e conobbe i notabili del luogo. Uno di questi la fece assistere per la prima volta a una danza locale, all'interno di un tempio, che l'affascinò per la novità esotica delle musiche e delle movenze, che ella provò anche a imitare. La famiglia venne sconvolta dalla tragedia della morte del piccolo Norman, che il 27 giugno 1899 morì avvelenato. La causa della morte fu una medicina somministrata dalla domestica indigena ai figli della coppia, ma non si hanno prove che costei avesse voluto uccidere i bambini; si sospetta però che ella, moglie di un subalterno del maggiore Mac Leod, fosse stata spinta dal marito a vendicarsi del superiore, che gli aveva inflitto una punizione. Rudolph, Margaretha e la piccola Non, per sottrarsi a un luogo di tristi ricordi, ottennero di trasferirsi a Banjoe Biroe, nell'isola di Giava, dove Margaretha si ammalò di tifo. Il maggiore Mac Leod, raggiunta la maturazione della pensione, il 2 ottobre 1900 diede le dimissioni dall'esercito: dopo poco più di un anno passato ancora a Giava, nel villaggio di Sindanglaja, cedendo forse alle richieste della moglie, riportò, agli inizi del 1902, la famiglia in Olanda.

Sbarcati il 2 marzo 1902, i due coniugi tornarono per breve tempo a vivere nella casa di Louise Mac Leod, poi per loro conto in un appartamento di van Breestraat 188: lasciata dal marito, che portò con sé la figlia, Margaretha chiese la separazione, che le venne accordata il 30 agosto, insieme con l'affidamento della piccola Non e il diritto agli alimenti. Dopo una successiva, breve riconciliazione, Margaretha e il marito si separarono definitivamente; questa volta fu il padre a ottenere la custodia della bambina, mentre Margaretha si stabilì dallo zio a L'Aja. Decisa a tentare l'avventura della grande città, nel marzo del 1903 Margaretha andò a Parigi, dove pure non conosceva nessuno: cercò di mantenersi facendo la modella presso un pittore e cercando scritture nei teatri ma con risultati alquanto deludenti. Forse giunse anche a prostituirsi per sopravvivere, nella vana attesa del successo. Il fallimento dei suoi tentativi la convinse a riparare in Olanda ma l'anno seguente, il 24 marzo 1904, tornò nuovamente a Parigi e prese alloggio al Grand Hotel, divenendo l'amante del barone Henri de Marguérie. Presentatasi dal signor Molier, proprietario di un'importante scuola di equitazione e di un circo, Margaretha, che in effetti aveva imparato a cavalcare a Giava, si offrì di lavorare e poiché un'amazzone può essere un'attrazione, fu accettata. Ebbe successo e una sera si esibì durante una festa in casa del Molier in una danza giavanese, o qualcosa che sembrava somigliarle: Molier rimase entusiasta di lei. La sua danza era, a suo dire, quella delle sacerdotesse del dio orientale Shiva, che mimavano un approccio amoroso verso la divinità, fino spogliarsi, un velo dopo l'altro, del tutto, o quasi. Trasferitasi in un più modesto alloggio, una pensione presso gli Champs-Élysées, sempre a spese del Marguérite, il suo vero esordio avvenne nel febbraio 1905, in casa della cantante Kiréevsky, che usava invitare i suoi ricchi amici e conoscenti a spettacoli di beneficenza. Il successo fu tale che i giornali arrivano a parlarne: lady Mac Leod, come ora si faceva chiamare, replicò il successo in altre esibizioni, ancora tenute in case private, dove più facilmente poteva togliersi i veli del suo costume, e la sua fama di «danzatrice venuta dall'Oriente» incominciò a estendersi per tutta Parigi. Notata da monsieur Guimet, industriale e collezionista di oggetti d'arte orientale, ricevette da questi la proposta di esibirsi in place de Jéna, nel museo, dove egli custodiva i suoi preziosi reperti, come un animato gioiello orientale. Fu però necessario cambiare il suo nome, troppo borghese ed europeo: così Guimet scelse il nome, d'origine malese, di Mata Hari, letteralmente «Occhio dell'Alba» e quindi "Sole". L'esibizione di Mata Hari nel museo Guimet ebbe luogo il 13 marzo. Mata Hari alternò le esibizioni, tenute nelle case esclusive di aristocratici e finanzieri, agli spettacoli nei locali prestigiosi di Parigi: il Moulin Rouge, il Trocadéro, il Café des Nations. Il successo provocò naturalmente una curiosità cui ella non poté sottrarsi e dovette far collimare l'immagine privata con quella pubblica: «Sono nata a Giava e vi ho vissuto per anni» - raccontò ai giornalisti, mescolando poche verità e molte menzogne - «sono entrata, a rischio della vita, nei templi segreti dell'India [ ... ] ho assistito alle esibizioni delle danzatrici sacre davanti ai simulacri più esclusivi di Shiva, Visnù e della dea Kalì [ ... ] persino i sacerdoti fanatici che sorvegliano l'ara d'oro, sacra al più terribile degli dei, mi hanno creduto una bajadera del tempio [ ... ] la vendetta dei sacerdoti buddisti per chi profana i riti [ ... ] è terribile [ ... ] conosco bene il Gange, Benares, ho sangue indù nelle vene».

Consacrata, il 18 agosto 1905, dopo l'esibizione al teatro dell'Olympia, come la «donna che è lei stessa danza», «artista sublime», e come colei che «riesce a dare il senso più profondo e struggente dell'anima indiana», Mata Hari si trovò a essere desiderata tanto dai maggiori teatri europei quanto, come moglie, da ricchi e nobili pretendenti. La sua tournée in Spagna, nel gennaio 1906, fu un trionfo: venendo incontro alla fantasia, ingenua e torbida, costruita su realtà di paesi del tutto sconosciuti, Mata Hari offriva agli spettatori quanto essi si attendevano dalla sua danza: il fascino proibito dell'erotismo e la purezza dell'ascesi, in un assurdo sincretismo in cui la mite saggezza di un Buddha veniva parificata ai riti sanguinari - per quanto inesistenti - di terribili dee indù.

D'altra parte, pare che ella avesse un certo talento se è vero che la sua esibizione nel balletto musicato da Jules Massenet, Le roi de Lahore, all'Opéra di Monaco ottenne, il 17 febbraio, un grande successo e lei venne salutata come «danzatrice unica e sublime» mentre il musicista francese, e anche Giacomo Puccini, si dichiararono suoi ammiratori. Il 26 aprile 1906 fu sancito ufficialmente il divorzio di Margaretha Zelle dal McLeod. Da Monaco si recò a Berlino, dove si legò a un ricco ufficiale, Hans Kiepert, che l'accompagnò a Vienna e poi a Londra e in Egitto. Furono intanto pubblicate due sue biografie, una scritta dal padre, che esalta la figlia più che altro per esaltare sé stesso, inventandosi parentele con re e principi, e quella, di opposte intenzioni, di George Priem, avvocato del suo ex-marito. Mata-Hari, naturalmente, confermò la versione del padre: l'ex-cappellaio era un nobile ufficiale, mentre sua nonna era una principessa giavanese; quanto a lei, aveva viaggiato in tutti i continenti e aveva vissuto a lungo a Nuova Delhi, dove aveva frequentato maharaja e abbattuto tigri, come dimostra la pelliccia che indossava - in realtà acquistata in un negozio di Alessandria d'Egitto. Il successo provocò anche imitazioni ma nessuna delle sue epigoni raggiunse mai la sua fama. Il suo nome fu accostato a quello delle maggiori vedettes del passato, come Lola Montez, e del tempo, come la Bella Otero, Cléo de Mérode e Isadora Duncan. Il 7 gennaio 1910 riscosse a Montecarlo nuove acclamazioni con la sua Danse du feu che non replicò all'Olympia di Parigi solo perché le sue pretese economiche furono eccessive. Il successo fece crescere enormemente le spese necessarie a sostenere una incessante vita mondana che conobbe solo una breve tregua quando, nell'estate, si trasferì in un castello a Esvres, non lontano da Tours, che il suo nuovo amante, il banchiere Félix Rousseau, affittò e le mise a disposizione e dove rimase circa un anno, quando, a causa dei problemi finanziari della banca Rousseau, il suo Félix affittò per lei un appartamento carino, ma meno costoso, a Neuilly, uno dei sobborghi di Parigi. Alla fine del 1911 raggiunse il vertice del riconoscimento artistico partecipando, al Teatro alla Scala di Milano, prima alla rappresentazione dell'Armida di Gluck, tratta dalla Gerusalemme liberata del Tasso, recitando la parte del Piacere e poi, dal 4 gennaio 1912, dando cinque rappresentazioni del Bacco e Gambrinus, un balletto di Giovanni Pratesi musicato da Romualdo Marenco, dove interpretò il ruolo di Venere. Il direttore dell'orchestra, Tullio Serafin, dichiarò che Mata Hari « [...] è una donna eccezionale, dall'eleganza perfetta e con un senso poetico innato; inoltre, sa ciò che vuole e sa come ottenerlo. Ella così fa della propria danza una sicura opera d'arte». In realtà, il Teatro milanese stava attraversando un periodo di decadenza e i tentativi, fatti in quell'occasione da Mata Hari, di ottenere collaborazione da musicisti come Umberto Giordano e Pietro Mascagni, andarono a vuoto, come inutile fu anche il tentativo di esibirsi con i ballerini russi della compagnia di Djagilev. Mata Hari si consolò allora con le Folies Bergères dove, mettendo per un momento da parte la danza orientale, si trasformò in gitana e, nell'estate del 1913, andò in tournée in Italia, esibendosi a Roma, a Napoli e a Palermo. C'è un motivo, raccontava, per cui ella conosceva così bene i balli spagnoli: giovanissima, aveva sposato un nobile scozzese, con il quale aveva vissuto in un antico castello; dopo il fallimento del suo matrimonio, aveva viaggiato molto e a lungo in Spagna, dove un torero, innamorato di lei, si era fatto uccidere nell'arena, disperato per non essere stato corrisposto. Nel 1914 si spostò a Berlino, per preparare un nuovo spettacolo nel quale intendeva interpretare una danza egiziana: nella sua stanza dell'albergo Cumberland, scrisse lei stessa il libretto del balletto, che intitolò La chimera; nel frattempo prevedeva di esordire in settembre al Teatro Metropole in un altro spettacolo. Ma quello spettacolo non ebbe mai luogo: con l'assassinio del principe ereditario austriaco finì la Belle Epoque ed ebbe inizio la prima guerra mondiale.

Mentre l'esercito tedesco invadeva il Belgio per svolgere quell'operazione a tenaglia che, con l'accerchiamento delle forze armate francesi, avrebbe dovuto concludere rapidamente la guerra, Mata Hari era già partita per la Svizzera, da dove contava di rientrare in Francia; tuttavia, mentre i suoi bagagli proseguirono il viaggio verso la terra francese, lei venne trattenuta alla frontiera e rimandata a Berlino. Nell'albergo ove fece ritorno, senza bagaglio e denaro, un industriale olandese, tale Jon Kellermann, le offrì il denaro per il viaggio, consigliandole di andare a Francoforte e di qui, tramite il consolato, passare la frontiera olandese. Così, il 14 agosto 1914, il funzionario del consolato olandese rilasciò a Margaretha Geertuida Zelle, «alta un metro e settantacinque», di capelli, in quell'occasione, biondi, il visto per raggiungere Amsterdam. Qui divenne l'amante del banchiere van der Schalk e poi, dopo il trasferimento a L'Aja, del barone Eduard Willem van der Capellen, colonnello degli ussari, che la soccorse generosamente nelle sue non poche necessità finanziarie. Il 24 dicembre 1915 Mata Hari tornò a Parigi, per recuperare il suo bagaglio e tentare, nuovamente invano, di ottenere una scrittura da Djagilev. Ebbe appena il tempo di divenire amante del maggiore belga Fernand Beaufort che, alla scadenza del permesso di soggiorno, il 4 gennaio 1916, dovette fare ritorno in Olanda. Furono frequenti le visite nella sua casa de L'Aja del console tedesco Alfred von Kremer, che proprio in questo periodo l'avrebbe assoldata come spia al servizio della Germania, incaricandola di fornire informazioni sull'aeroporto di Contrexéville, presso Vittel, in Francia, dove ella poteva recarsi col pretesto di far visita al suo ennesimo amante, il capitano russo Vadim Masslov, ricoverato nell'ospedale di quella città. Mata Hari, divenuta agente H21, fu istruita in Germania dalla famosa spia Fräulein Doktor, che la immatricolò con il nuovo codice AF44. La ballerina era già sorvegliata dal controspionaggio inglese e francese quando, il 24 maggio 1916, partì per la Spagna e di qui, il 14 giugno, per Parigi dove, tramite un ex-amante, il tenente di cavalleria Jean Hallaure, che era anche, senza che lei lo sapesse, un agente francese, il 10 agosto si mise in contatto con il capitano Georges Ladoux, capo di una sezione del Deuxième Bureau, il controspionaggio francese, per ottenere il permesso di recarsi a Vittel. Ladoux le concesse il visto e le propose di entrare al servizio della Francia, proposta che Mata Hari accettò, chiedendo l'enorme cifra di un milione di franchi, giustificata dalle conoscenze importanti che ella vantava e che sarebbero potute tornare utili alla causa francese.

A Vittel incontrò il capitano russo, fece vita mondana con i tanti ufficiali francesi che frequentavano la stazione termale e dopo due settimane tornò a Parigi. Qui, oltre a inviare informazioni sulla sua missione agli agenti tedeschi in Olanda e in Germania, ricevette anche istruzioni dal capitano Ladoux di tornare in Olanda via Spagna. Dopo essersi trattenuta alcuni giorni a Madrid, sempre sorvegliata dai francesi e dagli inglesi, a novembre s'imbarcò da Vigo per L'Aia. Durante la sosta della nave a Falmouth, nel Regno Unito, fu arrestata perché scambiata con una ballerina di flamenco, Clara Benedix, sospetta spia tedesca. Interrogata a Londra e chiarito l'equivoco, dopo accordi presi con Ladoux, Scotland Yard la respinse in Spagna, dove sbarcò l'11 dicembre 1916. A Madrid continuò il doppio gioco, mantenendosi in contatto sia con l'addetto militare all'ambasciata tedesca, Arnold von Kalle, sia con quello dell'ambasciata francese, il colonnello Joseph Denvignes, al quale riferì di manovre dei sottomarini tedeschi al largo delle coste del Marocco. Il von Kalle comprese che Mata Hari stava facendo il doppio gioco e telegrafò a Berlino che «l'agente H21» chiedeva denaro ed era in attesa di istruzioni: la risposta fu che l'agente H21 doveva rientrare in Francia per continuare le sue missioni e ricevervi 15.000 franchi. L'ipotesi che i tedeschi avessero deciso di disfarsi di Mata Hari - rivelandola al controspionaggio francese come spia tedesca - poggia sull'utilizzo, da loro fatto in quell'occasione, di un vecchio codice di trasmissione, già abbandonato perché decifrato dai francesi, nel quale Mata Hari veniva ancora identificata con la sigla H21. In tal modo, i messaggi tedeschi furono facilmente decifrati dalla centrale parigina di ascolto radio della Tour Eiffel. Il 2 gennaio 1917 Mata Hari rientrò a Parigi e la mattina del 13 febbraio venne arrestata nella sua camera dell'albergo Elysée Palace e rinchiusa nel carcere di Saint-Lazare.

Di fronte al titolare dell'inchiesta, il capitano Pierre Bouchardon, Mata Hari adottò inizialmente la tattica di negare ogni cosa, dichiarandosi totalmente estranea a ogni vicenda di spionaggio. Fu assistita, nel primo interrogatorio, dall'avvocato Édouard Clunet, suo vecchio amante, che aveva mantenuto con lei un affettuoso rapporto e che poté essere presente, secondo regolamento, ancora solo nell'ultima deposizione. Poi, con il passare dei giorni, Mata Hari non poté evitare di giustificare le somme - considerate dall'accusa il prezzo del suo spionaggio -che il van der Capelen, suo amante, le inviava dall'Olanda, di ammettere le somme ricevute a Madrid dal von Kalle, giustificandole come semplici regali, e di rivelare anche un particolare inedito: l'offerta ricevuta in Spagna di ingaggiarsi come agente dello spionaggio russo in Austria. Riferì anche della proposta fattale dal capitano Ladoux di lavorare per la Francia, una proposta che cercò di sfruttare a suo vantaggio, come dimostrazione della propria lealtà nei confronti della Francia. L'accusa non aveva, fino a questo momento, alcuna prova concreta contro Mata Hari, la quale poteva anzi vantare di essersi messa a disposizione dello spionaggio francese. Il fatto è che il controspionaggio non aveva ancora messo a disposizione del capitano Bouchardon le trascrizioni dei messaggi tedeschi intercettati che la indicavano come l'agente tedesco H21. Quando lo fece, due mesi dopo, Mata Hari dovette ammettere di essere stata ingaggiata dai tedeschi, di aver ricevuto inchiostro simpatico per comunicare le sue informazioni, ma di non averlo mai usato - avrebbe gettato tutto in mare - e di non avere trasmesso nulla ai tedeschi, malgrado 20.000 franchi ricevuti dal console von Kramer, che ella, sostenne, considerò solo un risarcimento per i disagi patiti durante la sua permanenza in Germania nei primi giorni di guerra. Quanto al messaggio di von Kalle a Berlino, che la rivelava come spia, Mata Hari lo considerò la vendetta di un uomo respinto. I tanti ufficiali francesi dei quali fu amante, interrogati, la difesero, dichiarando di non averla mai considerata una spia. Al contrario, il capitano Georges Ladoux negò di averle mai proposto di lavorare per il servizi francesi, avendola sempre considerata una spia tedesca, mentre l'addetto militare a Madrid, l'anziano Denvignes, sostenne di essere stato corteggiato da lei allo scopo di carpirgli segreti militari; quanto alle informazioni sulle attività tedesche in Marocco, egli negò che fosse stata Mata Hari a fornirle. Entrambi gli ufficiali non seppero citare alcuna circostanza sostanziale contro Mata Hari, ma le loro testimonianze, nel processo, ebbero un peso determinante. L'inchiesta si chiuse con un colpo a effetto: l'ufficiale russo Masslov, del quale Mata Hari sarebbe stata innamorata, scrisse di aver sempre considerato la relazione con la donna soltanto un'avventura. La rivelazione non aveva nulla a che fare con la posizione giudiziaria di Mata Hari, ma certo acuì in lei la sensazione di trovarsi in un drammatico isolamento. L'inchiesta venne chiusa il 21 giugno con il rinvio a giudizio di Mata Hari. Il processo, tenuto a porte chiuse, ebbe inizio il 24 luglio: a presiedere la Corte di sei giudici militari fu il tenente colonnello Albert Ernest Somprou; a sostenere l'accusa il tenente Mornet. Nulla di nuovo emerse nei due giorni di dibattimento: dopo l'appassionata perorazione del difensore Clunet, vecchio combattente e decorato, nel 1870, nella Guerra Franco-Prussiana, i giudici si ritirarono per rispondere a 8 domande:

se nel dicembre 1915 Margaretha Zelle avesse cercato di ottenere informazioni riservate nella zona militare di Parigi a favore di una potenza nemica;

se si fosse procurata informazioni riservate al console tedesco in Olanda von Kramer;

se nel maggio 1916 avesse avuto rapporti in Olanda con il console von Kramer;

se nel giugno 1916 avesse cercato di ottenere informazioni nella zona militare di Parigi;

se avesse cercato di favorire le operazioni militari della Germania;

se nel dicembre 1916 avesse avuto contatti a Madrid con l'addetto militare tedesco von Kalle allo scopo di fornirgli informazioni riservate;

se avesse rivelato al von Kalle il nome di un agente segreto inglese e la scoperta, da parte francese, di un tipo di inchiostro simpatico tedesco;

se nel gennaio 1917 avesse avuto rapporti con il nemico nella zona militare di Parigi.

Dopo meno di un'ora venne emessa la sentenza secondo la quale l'imputata era colpevole di tutte le otto accuse mossele: «In nome del popolo francese, il Consiglio condanna all'unanimità la suddetta Zelle Marguerite Gertrude alla pena di morte [...] e la condanna inoltre al pagamento delle spese processuali» Quanto all'unanimità dei giudici, questa valeva per la sentenza ma non per ogni capo d'imputazione, per alcuni dei quali il verdetto di colpevolezza non trovò l'unanimità.

L'istanza di riesame del processo venne respinta dal Consiglio di revisione il 17 agosto e il 27 settembre anche la Corte d'Appello confermò la sentenza di condanna. L'ultima speranza era rappresentata dalla domanda di grazia che l'avvocato Clunet presentò personalmente al Presidente della Repubblica Poincaré. Il 15 ottobre, un lunedì, Mata Hari, che dopo il processo occupava una cella in comune con due altre detenute, venne svegliata all'alba dal capitano Thibaud, il quale la informò che la domanda di grazia era stata respinta e la invitò a prepararsi per l'esecuzione. Si vestì con la consueta eleganza, assistita da due suore. Poi, su sua richiesta, il pastore Arboux la battezzò; indossato un cappello di paglia di Firenze e infilati i guanti, fu accompagnata da suor Léonide e suor Marie, dal pastore, dall'avvocato Clunet, dai dottori Bizard, Socquet, Bralet, dal capitano Pierre Bouchardon e dai gendarmi nell'ufficio del direttore, dove scrisse tre lettere - che tuttavia la direzione del carcere non spedì mai - indirizzate alla figlia Jeanne Louise, al capitano Masslov e all'ambasciatore d'Olanda Cambon. Poi tre furgoni portarono il corteo al castello di Vincennes dove, scortati da dragoni a cavallo, giunsero verso le sei e trenta di una fredda e nebbiosa mattina. Al braccio di suor Marie, si avviò con molta fermezza al luogo fissato per l'esecuzione, dove venne salutata, come è previsto, da un plotone che le presentò le armi. Ricambiato più volte il saluto con cortesi cenni del capo, fu blandamente legata al palo; rifiutata la benda, poté fissare di fronte a sé i dodici fanti, reduci dal fronte, ai quali era stato assegnato il compito di giustiziarla: uno di essi, secondo regola, aveva il fucile caricato a salve. Degli undici colpi, otto andarono a vuoto - ultima galanteria dei militari di Francia - uno la colpì al ginocchio, uno al fianco e il terzo la fulminò al cuore: il maresciallo Pétey diede alla nuca un inutile colpo di grazia. Nessuno reclamò il corpo: trasportato all'Istituto di medicina legale di Parigi, sezionato, fu presto sepolto in una fossa comune. Venne conservata la testa che fu trafugata negli anni cinquanta, in circostanze mai chiarite, per servire forse come estrema e macabra reliquia.

I protagonisti della vita di Mata Hari, padre, figlia, amanti, diplomatici e agenti segreti, proseguirono così la loro vita:

Rudolph (John) Mac Leod, l'ex marito di Mata Hari, si risposò nel 1907 con Elizabeth van der Maast, dalla quale ebbe una figlia, Norma, nel 1909. La coppia si separò, la figlia venne portata via dalla madre e Mac Leod, con il quale era rimasta la figlia avuta da Margaretha, ottenuto il divorzio da Elizabeth, nel 1917 si sposò per la terza volta con la governante di Non, la venticinquenne Gietje Meijer. Ebbe dalla terza moglie una figlia nel 1921 e morì settantatreenne nel 1928.

Non Mc Leod, figlia di Margaretha e di Rudolph (John) Mac Leod, alta e slanciata e di carnagione scura, molto somigliante alla madre anche nel carattere, rimasta a vivere con il padre, morì improvvisamente alla vigilia della partenza per l'Indonesia (10 agosto 1919): aveva ventuno anni.

Il capitano francese Georges Ladoux, del Deuxième Bureau, venne arrestato quattro giorni dopo l'esecuzione di Mata Hari con la medesima accusa: spionaggio a favore della Germania. Prosciolto in un primo momento, venne nuovamente incarcerato e ci vollero quasi due anni prima che fosse prosciolto definitivamente e reintegrato nel grado, andando poi in pensione con quello di maggiore.

Il capitano francese Pierre Bouchardon, che condusse l'inchiesta per il processo, entrò nella magistratura civile e fece carriera come pubblico accusatore, morendo poi nel 1950. Fu lui a essere di nuovo in carica nel 1944 per tutti i grandi processi della "Libération" su richiesta speciale del generale Charles de Gaulle.

Il maggiore tedesco Arnold Kalle, addetto militare all'ambasciata tedesca di Madrid, rientrato in patria, rimase nell'esercito e si ritirò in pensione nel 1932.

Il barone francese Henri de Marguérie continuò la sua attività diplomatica presso il Quai d'Orsay; entrato in politica venne eletto senatore nel 1920 e morì ultranovantenne nel 1963.

Il barone olandese Eduard Willem van der Capellen lasciò l'esercito dei Paesi Bassi nel 1923 dopo essere diventato generale di divisione.

Il capitano russo Vadim Masslov sposò Olga Tardieu, figlia di un francese e di una russa; rientrato in Russia allo scoppio della rivoluzione, se ne persero le tracce.

Il tenente di cavalleria francese Jean Halaure ricevette dal facoltoso padre una cospicua somma, si trasferì a New York, ove sposò un'americana con la quale rientrò in Francia, precisamente in Bretagna, vivendoci il resto della vita con la moglie e morendovi nel 1960.

Jules Martin Cambon, ambasciatore francese in Olanda, fu delegato francese alle trattative di pace di Versailles nel 1919; morì novantenne a Vevey nel 1935.

Il console tedesco all'Aja, Alfred von Kramer, rientrato in Germania alla fine della guerra, morì nel 1938.

Cent’anni dalla fucilazione di Mata Hari. Una mostra al Fries Museum ne ricostruisce la storia, tra documenti e fotografie, scrive Fiorella Minervino il 21/10/2017 su "La Stampa". Bella, forse fin troppo per i canoni del tempo, seducente e avvolta nei veli, danzava e ammaliava le folle del mondo, collezionando amanti facoltosi, di preferenza militari e banchieri. E anche fatale, con una vita di successi e dolori; era una giovane di provincia, avida di uscire dall’anonimato e conquistare fama e ricchezza. Si era inventata tutto, esotismo, origine, professione, nome. Cent’anni fa, il 15 ottobre, veniva giustiziata per tradimento a Parigi, nel Castello di Vincennes, Margaretha Gertruids Zelle, in arte Mata Hari (in malese significa Occhio dell’Aurora cioè sole), 41 anni, accusata di essere un’agente segreta dei tedeschi. Lei, dignitosa, incoraggiò i 12 fanti che, reduci dalla guerra, erano riluttanti a spararle.  La sua città, Leeuwarden, capitale della Frisia (il prossimo anno sarà capitale europea della cultura), ora la ricorda con una mostra di foto, documenti rari, 100 oggetti e scritti che compaiono per la prima volta. Accanto, documenti militari francesi recentemente desecretati e resi pubblici, documenti legali, rapporti sulla sua attività, trascrizioni delle udienze e prove chiave, come i telegrammi intercettati di un diplomatico tedesco a Madrid, che forniscono una panoramica completa del processo.  “Mata Hari: Il mito e la donna” è il titolo della maggiore personale mai dedicata a Margaretha, appena inaugurata al Fries Museum (fino al 2 aprile 2018) di Leeuewarden, a cura di Hans Groeneweg e di Yves Rocourt. Chi era in realtà “la spia del secolo” che ha poi animato straordinarie interpretazioni al cinema di Greta Garbo, Marlene Dietrich, Jeanne Moreau e Sylvia Kristel o ispirato grandi ballerine come Carla Fracci? È entrata in pagine di libri come La spia di Paulo Coelho che la vede fra le prime femministe, e di Giuseppe Scarafia che ne indaga i giorni ultimi. Morta e risorta tante volte, come ora al Fries Museum. Era una bimba felice nella graziosa casa al centro di Leeuewarden, la si vede nelle foto esposte. Ci sono le sue poesie, il libro di preghiere e le pagelle. Il padre possedeva un negozio di cappelli, ma fallì, la famiglia si sfasciò, la madre morì quando lei aveva 15 anni; era alta 1,75 cm, ben fatta, scura di capelli, aria vagamente esotica. Senza soldi, a 18 anni risponde a un’inserzione sul giornale locale di cuori solitari di un militare di 40 anni, il capitano Rudolph John Mac Leod. Si sposano dopo 6 giorni: eccoli, sorridenti, in una foto delle nozze.  Vanno a vivere a Giava, nelle Indie Orientali Olandesi: è subito vita di colonia, balli, intrattenimenti, ma pure esistenza assai meno comoda che in Europa; lui è ubriaco, geloso, violento, malato di sifilide. Hanno due figli, ma solo la bimba Non (piccola in malese) sopravvive. Lei vuol separarsi e lui è contrario, scrive lettere ai parenti e al rientro in Olanda divorzia dal marito che le rifiuta gli alimenti e le impedisce di vedere la bimba.  Le lettere presentate nella mostra la raccontano mamma e donna, nell’incertezza e dolore di lasciare la figlia e la voglia di fuggire dalla provincia. Sceglie Parigi, fa di tutto per mantenersi, anche la modella a Montmartre per gli artisti con poca fortuna, poi rientra in Olanda. Qui comincia a ballare dapprima in teatri modesti e si inventa la danza sacra che aveva ammirato a Giava, come la scelta del nome; anche se non si sa esattamente come ballasse, dice di essere una principessa di Giava. Così cominciano gli amanti danarosi. Un impresario la stimola a continuare e il 13 marzo 1905 Mata Hari fa il suo grande debutto come danzatrice nella biblioteca del Musée Guimet: è il successo. Partendo da Parigi, Folies Bergère, Trocadero, conquista i teatri di tutta Europa, è ormai la diva: da Roma a Berlino, da Vienna a Madrid, alla Scala a Milano, presto famosa per le sue storie con amanti famosi.  Il Musée Guimet presta una statua di Shiva e 14 marionette wayang, i gioielli e il reggiseno di scena (che ha sempre indossato), tutto parte di scenografie nelle prime rappresentazioni di Mata Hari nella biblioteca del ricco industriale Emile Guimet. Foto rare, poster, recensioni, articoli (uscì in copertina di Vogue) compaiono in mostra al Fries Museum, e pure il grande ritratto a figura intera che le fece il pittore Isaac Israëls nel 1916. Troppo famosa, troppo chiacchierata, troppi innamorati di nazioni diverse, in lotta fra loro nella Belle Époque smaniosa di esotismo ed evasioni. La Grande Guerra spegne ogni cosa, anche la vorticosa carriera ormai al declino a 40 anni.  Conduce una vita costosa da star, sempre in cerca di denaro. L’amico console tedesco all’Aia, Alfred von Kremer, le offre l’equivalente di 15.000 per fare la spia e procurare notizie dei francesi. Lei accetta e sarà l’agente H21, ma altrettanto fa la Francia e ora pure l’Inghilterra pare, e perfino la Russia; in realtà non offre mai rivelazioni determinanti o utili ma il triplo o quadruplo gioco in momenti tanto drammatici la rendono una mina vagante. In realtà è una pluri-agente che tutti controllano, è pedinata per mesi, ora per ora, anche quando va dal parrucchiere, si legge nel rapporto del sedicente amico capitano Georges Ladoux del controspionaggio francese. Si è innamorata follemente del giovane ufficiale russo Vadim Masslov, 20 anni meno di lei, stessa età del figlio Norman. Sogna di sposarlo e cerca più soldi. Il 13 febbraio 1917 i servizi segreti francesi la arrestano, 8 mesi di prigione fra topi e lacrime di una diva. Scrive anche 5 lettere al giorno, è certa di cavarsela, il processo la vede incerta: dapprima nega, poi ammette qualcosa, mai di aver tradito, con testimonianze contraddittorie, forse troppo abituata a mentire o a mezze verità. Il tribunale per crimini di guerra, non unanime (c’è chi la ritiene innocente), la dichiara colpevole con condanna a morte. Viene chiesta la grazia al Presidente Poincaré, che la nega. Su un foglio giallognolo in francese si legge in grande, al centro: Mort.  All’esecuzione vuole che le tolgano la benda agli occhi. Nessuno reclamerà la salma che, dopo l’autopsia, viene gettata nella fossa comune. Non la vuole la figlia Non, e neppure Vadim che ha assicurato che per lui era stata solo un’avventura e sposa una coetanea. Lei lascia le lettere che nessuno vuole, neppure il suo giovane ufficiale russo. Ora i nuovi documenti presentati (ci sarà un’app apposita per sfogliarli) portano qualche luce sulla donna e la vicenda e inducono a credere che non fosse una vera spia, bensì una celebrità o un’avventuriera in cerca di denaro, ma anche dell’amore che forse non ricevette mai. Forse un’incallita bugiarda, forse troppo famosa, troppo amata, odiata, invidiata. Tuttavia una donna coraggiosa, fuori dagli schemi nella società allo scatto del secolo XIX. Esce dalla vita, entra nella leggenda. 

Mata Hari, cent’anni fa veniva fucilata la «spia che danzava», scrive "Il Corriere della Sera". Chi era Mata Hari? Una spia, una cortigiana, una donna che si è trovata in un gioco più alto delle suo saper giocare? Accusata di spionaggio e fucilata a 41 anni in Francia, questa è la biografia di un personaggio entrato nel mito. Margaretha Geertruida Zelle - questo il nome all’anagrafe della donna nota con il nome d’arte di Mata Hari - nasce a Leeuwarden, in Olanda, il 7 agosto 1876. Di famiglia borghese, conduce una vita agiata sino alla crisi delle attività commerciali della famiglia che provocano la separazione dei genitori. Qualche anno dopo, nel 1896, Margaretha sposa il capitano Rudolph Mac Leod, ufficiale di stanza in Indonesia provvisoriamente di ritorno in Europa per una convalescenza. Nel 1897 si trasferisce a Giava dove il marito è stato promosso al grado di maggiore. Qui Margaretha si avvicina per la prima volta alle danze rituali locali e e ne rimane affascinata. Lasciata dal marito, si trasferisce a Parigi, dove, tra molte difficoltà, inizia ad affermarsi nel mondo dello spettacolo. Dopo gli inizi come amazzone in un circo, ottiene in seguito un grande successo grazie a una danza ispirata proprio alla ritualità giavanese, durante la quale Margaretha, qui in un’immagine del 1905, si libera dei veli che la avvolgono uno dopo l’altro. Nel 1905, anno della consacrazione all'Olympia di Parigi, assume il nome d'arte di Mata Hari, riscuotendo da quel momento in poi una crescente ammirazione in tutta Europa, cosa che la porta a esibirsi nei principali teatri europei, ricercata dai maggiori musicisti dell'epoca. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale e la fine della Belle Epoque Mata Hari continua a spostarsi attraverso l’Europa intrattenendo rapporti e liaisons sentimentali con diplomatici e ufficiali francesi e tedeschi. Mata Hari viene arrestata a Parigi il 13 gennaio 1917 con l’accusa di «spionaggio, connivenza e complicità con il nemico». Durante l’interrogatorio ammette di essere l’agente H21 ingaggiata nella primavera precedente dal console tedesco di Amsterdam con 20 mila franchi ma giura di non aver mai tradito. Il 25 luglio 1916 viene condannata dalla corte militare alla pena capitale e fucilata all’alba del 15 ottobre nel Poligono di Vincennes. La figura e la vita di Mata Hari sono state oggetto di numerose trasposizioni cinematografiche: la più famosa quella diretta da George Fitzmaurice del 19 con Greta Garbo nel ruolo di Mata Hari.

È passato un secolo, ancora nessuno sa chi era Mata Hari, scrive Lanfranco Caminiti il 13 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il 15 ottobre 1917 fu fucilata per tradimento. Castello di Vincennes – 15 ottobre 1917 – dove un tempo sorgeva un forte quasi distrutto dai prussiani durante l’assedio di Parigi del 1870. Alle sei e trenta di una fredda e nebbiosa mattina, un plotone di dodici soldati zuavi reduci dal fronte di guerra aspetta il comando dell’ufficiale per scaricare la sua fucileria. Di quei dodici fucili, uno è caricato a salve, come vuole il regolamento, perché ogni soldato possa pensare di non essere stato lui a tirare il colpo mortale. L’ufficiale si avvicina alla persona condannata a morte per coprire i suoi occhi con una benda. Lei, con un elegante gesto della mano, rifiuta. Guarda negli occhi i soldati, guarda negli occhi i suoi carnefici. Non ha paura. È stata svegliata poco dopo le cinque al secondo piano di Saint- Lazare, il penitenziario femminile di Parigi, cella numero 12. Le monache le hanno già comunicato, qualche giorno prima, che la domanda di grazia presentata al presidente francese è stata respinta. Si aspetta perciò questa sveglia improvvisa all’alba. È il suo nome, d’altronde, occhio dell’alba, in lingua giavanese: Mata Hari. Almeno, era il suo nome d’arte, quando calcava le scene dei palcoscenici di tutta Europa, perché all’anagrafe è registrata come Margaretha Geertruida Zelle, nata a Leeuwarden, Olanda, il 7 agosto 1876. L’altro “nome d’arte”, quello che le è stato dato dai tedeschi per i quali ha lavorato come spia è: agente segreto H21. È l’agente segreto H21, la donna che i soldati zuavi stanno per fucilare. Anche se tutti sanno che lei è la famosa Mata Hari. Mata Hari si è vestita con calma nel carcere femminile di Saint-Lazare, indossando un lungo cappotto dai risvolti di pelliccia sul suo kimono, mettendo i guanti di pelle nera, e rassettando i capelli che ha tenuto insieme con un fermaglio, e sui quali ha poi poggiato un cappello di paglia di Firenze, legandolo al mento con un nastro perché non voli. Ha quarantun anni. Della intrigante bellezza che ha fatto impazzire ufficiali e nobili, trafficanti e coreografi, artisti e faccendieri della Belle Époque dev’essere rimasta ancora qualche traccia – e poi, arrestata a gennaio, ha vissuto con dolore e disperazione i lunghi mesi del processo iniziato a giugno, pieno di voltafaccia e colpi di scena: sa da tempo d’essere giunta al capolinea della sua lunga corsa. Ma il fascino è rimasto intatto: è una donna alta, dai capelli scuri, gli occhi di giada e la carnagione olivastra – e benché abbia avuto due gravidanze, il corpo è ancora sensuale, flessuoso e agile. Dopo il breve tragitto dal carcere fino a Vincennes, i furgoni scortati dai dragoni a cavallo, Mata Hari è stata legata blandamente al palo dell’esecuzione – di certo lei non fuggirà, di certo lei non tremerà. La leggenda dice che proprio per mostrare quanto non abbia paura, Mata Hari d’improvviso faccia scivolare il suo lungo cappotto fino ai piedi e offra ai fucili il suo petto nudo. Vero o no, l’ufficiale, il maresciallo Petey, alza la sciabola, l’abbassa: fuoco. Degli undici colpi, otto vanno fuori bersaglio – forse un’estrema galanteria dei soldati francesi. Dei tre al corpo, uno colpisce una rotula, uno un fianco, il terzo va dritto al cuore. Il maresciallo Petey si avvicina per dare il colpo di grazia, anche se del tutto inutile. Poi annuncia: Mata Hari è morta. Un soldato zuavo, uno dei fucilatori, sviene. Colpevole o meno di tradimento, il processo a Mata Hari, in piena guerra e con uno stato maggiore che non sta proprio dando gran prova di sé sul piano militare contro un nemico tedesco straordinariamente capace, serve per rinsaldare il fronte interno. E salda i conti aperti nello spionaggio francese fin dal tempo del caso Dreyfus. Come ha scritto Julie Wheelwright, autrice di The Fatal Lover: Mata Hari and the Myth of Women in Espionage, dal momento della sua esecuzione l’esotica danzatrice Margaretha “Gretha” Zelle sposata MacLeod – universalmente nota come Mata Hari – è diventata sinonimo del tradimento sessuale femminile. Giudicata da un tribunale militare francese per passare segreti al nemico durante la Prima guerra mondiale, fu condannata come la “più grande spia del secolo”, responsabile di aver mandato alla morte più di ventimila soldati alleati. Ma il suo status di straniera – era, appunto, olandese – e di donna divorziata, assolutamente non pentita di avere dormito con ufficiali di tutte le nazionalità, ne fecero un perfetto capro espiatorio nel 1917. Era nata in una famiglia più che benestante, nella capitale della Frisonia, Olanda. Il padre era proprietario di un mulino, ma le sue speculazioni in affari di petrolio lo portarono sul lastrico e, senza un soldo, partì per l’Aia. La madre morì quando Greta aveva solo quindici anni, e fu data in custodia presso degli zii. A diciott’anni rispose a un annuncio di cuori solitari su un giornale quattro mesi dopo, era sposata a Rudolph “John” MacLeod, un uomo che aveva il doppio dei suoi anni, era un forte bevitore e era militare di stanza nell’esercito in India. Da un padre volgare finì nelle mani di un marito volgare. Il matrimonio fu rovinoso fin dall’inizio. Dopo la nascita del primo figlio, Norman, nel 1897, Greta e il marito navigarono verso le Indie orientali, dove la loro vita si spese per quattro anni in guarnigioni militari. La tragedia arrivò dopo la nascita della figlia, Non, quando entrambi i bimbi furono avvelenati: la piccola sopravvisse, il piccolo morì. Quando John poté andare in pensione, la coppia tornò in Olanda e si separò. È il 1902. Eppure questa “mangiauomini”, che ballò a La Scala di Milano e all’Opera di Parigi e nei salotti privati di mezzo mondo, era disgustata dal sesso. Nuovi documenti – finora i biografi avevano avuto accesso solo alla trascrizione del processo francese e alle sue lettere in prigione – gettano un’altra luce sulla sua vita: «Mio marito mi ha dato un tale disgusto per le cose sessuali che non posso dimenticarlo mai». Dal marito aveva contratto la sifilide, nelle Indie occidentali, e per precauzione la figlia Non era stata sottoposta alle cure di mercurio. Dopo la separazione lei ebbe la custodia della figlia, ma si rifiutò di pagare una intermediazione finanziaria, e la mancanza di sostegni familiari e l’assenza di una qualche attività professionale finirono per dare la bimba al marito. Decide così di andare a Parigi. Più tardi scrisse: «Pensavo che tutte le donne che si separavano dal marito andavano a Parigi». A Parigi, cercò in ogni modo di guadagnarsi rispettabilmente da vivere, sempre con l’obiettivo di riprendersi la bambina, dando lezioni di piano, insegnando il tedesco, facendo la dama di compagnia, e come commessa in un negozio di abbigliamento. Meno rispettabile, ma più remunerativo era lavorare come modella per pittori di Montmartre. Ritorna brevemente in Olanda, come comparsa in una compagnia di teatro, ma confessa in una lettera di “dormire con uomini” per denaro. Fa la ballerina al Perroquet bleu, esibendosi in una «danza delle bayadere». E qui s’incontra la sua genialità con quella di un impresario che vede in lei l’incarnazione di un desiderio d’Oriente: Gretha s’inventa ascendenze indiane, di avere partecipato a segreti riti e d’avere imparato le movenze di danze sacre – ci sono i gesti, c’è la caduta dei veli e la nudità finale. L’occidente non vede l’ora di perdere la testa per l’oriente. Gumet mette intorno ai gesti lascivi di Gretha vasi, décor, musiche, tende, gioielli, crea una mistica. È così che nasce il mito di Mata Hari. Qualcosa che era nell’aria e che d’improvviso prende corpo in una donna, in un corpo, in una danza. Tra il 1904 e il 1906, Mata Hari calca i palcoscenici più importanti, viene contesa dagli impresari più grandi, desiderata da tutti gli uomini. E lei passa dalle braccia di un barone tedesco a quelle di un imprenditore francese, da un nobile spagnolo a un ufficiale inglese o russo. È all’apice del successo. Poi, vive di rendita. Quando i colpi di pistola di Sarajevo pongono fine alla Belle Époque e danno inizio alla Grande guerra, viene reclutata dai tedeschi. Vogliono sapere di impianti industriali, lei che è dentro quel mondo, di segreti militari – gli uomini a letto parlano, si vantano, sono tronfi. I sospetti cominciano a aleggiare su di lei: i francesi provano a tenderle una trappola, lei si offre per un doppio gioco. Spera di tornare in Olanda, e così salvarsi. L’attirano in un tranello, e forse sono gli stessi tedeschi a disfarsene perché è ormai “bruciata”, oppure commettono una grave imprudenza utilizzando un codice di trasmissione che era stato già decifrato. Insomma l’arrestano. È la fine. Eppure, inventandosi quel passato orientale, quella conoscenza di riti e di culti, fu proprio Gretha la vera creatrice di se stessa e di un proprio doppio, Mata Hari. È questa forza d’animo, questa capacità di reinventarsi ogni volta, di risollevarsi dalla disperazione, non importa quel che costi, che fa di Gretha Zelle un personaggio così straordinario, così moderno. Mata Hari era una donna forte, e questo è un giudizio che va oltre le sue azioni, reali o presunte.

Paola De Carolis per il Corriere della Sera il 18 luglio 2021. Di fronte alla battaglia tra l'oligarca russo Farkhad Akhmedov e l'ex moglie Tatiana, la giudice dell'Alta Corte Gwynneth Knowles ha ripensato all'incipit di Anna Karenina: «Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Il clan Akhmedov, ha sottolineato, è tra i più infelici che le siano mai capitati davanti. La signora Tatiana ha ora di che consolarsi: dall'ex marito ha ottenuto il patrimonio che le era stato assegnato dal tribunale nel 2016, qualcosa come 454 milioni di sterline, circa 531 milioni di euro, un totale che rende il suo il divorzio più salato nella storia legale britannica. Se privatamente Farkhad, sulla lista nera dei collaboratori di Vladimir Putin stilata dagli Usa, aveva confidato che avrebbe preferito bruciare i soldi piuttosto che consegnarli all'ex consorte e «per anni», a sentire la moglie, non le ha dato «neanche un penny», alla fine è stata trovata una formula che ha messo d'accordo le due parti: un misto di contanti, immobili e opere d'arte che ha raggiunto l'ammontare indicato dall'Alta Corte. L'annuncio è stato dato da un portavoce dell'oligarca nonché dal Burford Capital, il gruppo di litigation funding, ovvero di finanziamento delle liti legali cui si era rivolta Tatiana per costringere l'ex ad aprire il portafoglio. Lei, Tatiana, per ora non ha commentato, forse le basta la vittoria finanziaria e morale nonché l'opportunità di entrare in possesso di una collezione privata che fa gola a tanti esperti. Agli Akhmedov, infatti, appartengono quadri di Andy Warhol, Mark Rothko e Damien Hirst, apparentemente custoditi nel Lichtenstein. A differenza dell'ex marito, che è tornato in Russia, la signora Akhmedova è cittadina britannica da più di 20 anni. Nel Surrey ha cresciuto, «praticamente da sola», due figli ora adulti. Aver raggiunto con l'ex un accordo sul trasferimento dei fondi le permetterà di costruirsi una nuova vita, anche se il divorzio ha lasciato segni profondi sugli equilibri e gli affetti familiari. Il primogenito Temur, ad esempio, è stato accusato dall'Alta Corte di essere diventato il braccio destro del padre e di averlo aiutato a nascondere il patrimonio «con una serie di operazioni» il cui obiettivo era quello di impedire alla madre di ottenere ciò cui aveva diritto. Lo scorso aprile, la giudice Knowles lo aveva definito «un individuo disonesto» e gli aveva ordinato di pagare alla madre 75 milioni di sterline. Sarebbe grazie a lui e alle sue peripezie finanziarie che Akhmedov padre, che a 65 anni si è risposato con una donna di trent' anni più giovane di lui, è riuscito a negare all'ex moglie lo yacht Luna, un'imbarcazione da 300 milioni di sterline con dieci cabine vip e una piscina da 20 metri costruita per un altro supermiliardario russo, Roman Abramovich. I suoi rappresentanti legali hanno sostenuto che Temur - un trader della City che dal padre è stato abituato a un certo tenore di vita con tanto di appartamento da 35 milioni di sterline con vista su Hyde Park, una Rolls Royce e una Tesla - «non ha mai desiderato prendere la parte di uno e dell'altra ma che inevitabilmente è stato risucchiato nel vortice di un'amara disputa familiare». Difficile immaginare che potrà ora riallacciare i rapporti con la madre Tatiana, che tra l'altro era riuscita ad ottenere un'ingiunzione per arginare le sue spese a 3.000 sterline al mese.

Da Bill e Melinda Gates a Bezos e MacKenzie: i divorzi più cari della storia. Tg24.Sky.it il 4 maggio 2021. Con un patrimonio immenso, la separazione del fondatore di Microsoft potrebbe diventare il più costoso, superando anche quello del proprietario di Amazon. Da Rupert e Anna Murdoch fino a Silvio Berlusconi e Veronica Lario: tutte le separazioni dal valore di miliardi o milioni di dollari e euro

Bill e Melinda Gates hanno annunciato il divorzio nel 2021 dopo 27 anni e tre figli insieme. Non sono noti i termini dell'accordo, ma il patrimonio della famiglia Gates è immenso. La ricchezza di lui ammonta a 133 miliardi di dollari al gennaio 2021, quella della moglie a 70 miliardi di dollari. L'1% di azioni della coppia in Microsoft, vale oltre 7 miliardi di dollari, la fondazione Bill e Melinda Gates detiene asset per un valore di oltre 50 miliardi di dollari. Ecco le altre coppie la cui separazione è costata milioni o miliardi di dollari

Nel 2019 un'altra delle coppie più ricche degli Usa ha posto fine alla propria unione. Jeff Bezos e l'ex moglie MacKenzie hanno trovato un accordo del valore di 38 miliardi di dollari. Il proprietario di Amazon ha trasferito alla donna il 4% delle azioni del colosso dell'e-commerce, valutate in 38,3 miliardi di dollari. Bezos manterrà una quota del 12%, del valore di 114,8 miliardi di dollari, e rimane la persona più ricca del pianeta

Da Mountain View, a metà del 2015, è arrivato un altro divorzio tra i più cari della storia: Sergey Brin, fondatore insieme a Larry Page di Google, e Anne Wojcicki, imprenditrice e filantropa statunitense co-founder e ceo della società di genomica 23andMe, si sono detti addio dopo 8 anni. I termini dell'accordo, in realtà, non sono stati rivelati ma solo due anni fa il patrimonio netto stimato di lui ammontava a 48,8 miliardi mentre la partecipazione di Anne in 23andMe valeva 440 milioni

Il divorzio tra Rupert Murdoch, imprenditore e produttore televisivo australiano naturalizzato statunitense, e la sua seconda ex moglie Anna Maria Torv Mann è costato un miliardo e 700 milioni di dollari. La coppia è stata unita per 32 anni dal 1967 al 1999

Nel 2009, dopo 25 anni di matrimonio, hanno posto fine all'unione Bernie Ecclestone e Slavica. La donna aveva avanzato una richiesta di 4 miliardi di dollari, ma il miliardario inglese è riuscito a sborsarne "solo" un miliardo

Storia di Bill e Melinda Gates, dalla fondazione al divorzio.

Il divorzio tra il miliardario saudita Adnan Khashoggi e l'ex moglie Soraya è stato per 20 anni il più caro della storia. I due si sposarono nel 1960 e divorziarono nel 1982 dopo otto anni di battaglie legali. La richiesta iniziale sarebbe stata di 2,54 miliardi di dollari, quella finale è stata di 874 milioni di dollari

Il divorzio tra Silvio Berlusconi e Veronica Lario è probabilmente stato il più costoso d'Italia. Nel 2015 la penultima sentenza aveva stabilito un assegno mensile all'ex moglie di un milione e 400mila euro al mese lordi (circa 800mila netti). Poi la Cassazione aveva revocato l’assegno divorzile chiedendo indietro a lario 46 milioni. Nel 2020 l'accordo: l'ex premier ha rinunciato ai 46 milioni di credito nei confronti della ex moglie e Veronica al suo credito da 18 milioni

Tra i divorzi più cari della storia c'è anche quello tra Vittorio Cecchi Gori e Rita Rusic. La coppia è stata sposata dal 1983 al 2000. L'addio è costato all'imprenditore un assegno di 4 miliardi e mezzo di lire

Anche in casa Disney si conta un divorzio milionario, è quello tra Roy, nipote di Walt Disney, e la moglie Patricia avvenuto nel 2007. All’epoca, il patrimonio dell'uomo ammontava a circa 1,3 miliardi di dollari e la separazione dopo 52 anni di matrimonio avrebbe avuto il valore di 600 milioni di dollari

Tra i costosi addi degli imprenditori miliardari si inserisce anche un oneroso accordo di separazione di una star di Hollywood. Il divorzio tra Mel Gibson e Robyn Moore, nel 2011 dopo 26 anni di matrimonio e 7 figli, ha il valore di 425 milioni di dollari tra i più cari delle stelle del cinema

L'imprenditore e pioniere della telefonia cellulare Craig McCaw, fondatore di McCaw Cellular e Clearwire Corporation, è stato sposato con Wendy McCaw. La coppia ha divorziato un paio d’anni dopo che il marito aveva venduto la sua società ricavandone 11 miliardi di dollari. L'ex moglie ha ottenuto circa 460 milioni di dollari

Il magnate e primo miliardario afroamericano, fondatore della rete televisiva Black Entertainment Television, Robert L. Johnson nel 2000 ha divorziato da Sheila, dopo 33 anni di matrimonio e un accordo da 400 milioni di dollari

Roman e Irina Abramovich si sono sposati nel 1991 e hanno divorziato nel 2007 con un accordo di 300 milioni di dollari

Per anni coppia d'oro di Hollywood, anche il divorzio tra Tom Cruise e Nicole Kidman ha il valore di svariati milioni di dollari: nello specifico circa 200 milioni

Tra gli sportivi ha segnato un record anche per quanto riguarda il valore dell'accordo di divorzio la stella Nba Michael Jordan che, dopo 17 anni di matrimonio, nel 2006 ha lasciato la moglie Juanita. Alla donna sarebbero andati 168 milioni di dollari (145 milioni di euro)

Così Euripide assolse Elena, la seduttrice più innocente. Giuseppe Conte il 15 Luglio 2021 su Il Giornale. La nuova traduzione della tragedia ci mette di fronte all'incarnazione della passione amorosa. Elena figlia di Leda e del Cigno nelle cui 9forme si nascondeva Zeus, fu la donna più bella al mondo, suscitatrice dei più infuocati desideri: per lei, dopo che Paride la portò via al marito Menelao, scoppiò la guerra di Troia e trovarono la morte tanti eroi. Pari a lei, per fama e per incidenza sull'immaginario dei posteri, c'è soltanto Ulisse. Che quando a Sparta furono convocati tutti i principi pretendenti alla mano di Elena, era tra loro. Ma ancora una volta fu il più scaltro, e si ritirò senza portare alcun dono appena seppe che a chiederla in sposa per il fratello sarebbe stato il più potente e ricco degli Achei, Agamennone. La bellezza, di cui Elena è emblema supremo, si accoppia con la potenza. Ma sacrifica a Eros. Elena non è statica nella gloria delle sue forme perfette, è in continuo divenire, contraddittoria, dolcissima e feroce. È vittima ma è anche carnefice, è colpevole ma anche innocente, è splendore ma anche rovina. Nella sua ottima introduzione alla Elena di Euripide (Mondadori, pagg. 383, euro 50) Barbara Castiglioni, che ne è anche traduttrice, mostra in quante opere Elena di Troia sia stata protagonista e su quanti autori abbia esercitato in diversi modi il suo fascino. In un raggio che copre tutta la letteratura e la civiltà occidentale. Elena è intanto un personaggio omerico, e nelle vicende dell'Iliade mostra, lei traditrice e ormai principessa troiana, tratti di sconcertante ambiguità filogreca. E se in Omero resta una colpevole, ci pensa Gorgia il sofista, fedele ai suoi metodi, a tesserne un Encomio e a mostrarne con un esercizio di alta retorica la sostanziale innocenza. Personalmente, sono affascinato da una celebre poesia lirica di Saffo dove Elena ricorre in quanto esempio: c'è chi sostiene che la cosa più bella al mondo sia una torma di cavalieri, chi di fanti, chi una flotta di navi. Saffo invece sostiene che la cosa più bella al mondo è «ciò che si ama». Capovolge l'ordine dei valori: in cima non ci sono guerra e potere. C'è l'amore. E per mostrare la potenza di Eros, ecco che «la donna più bella del mondo,/ Elena, abbandonò/ il marito (era un prode) e fuggì /verso Troia, per mare./ E non ebbe un pensiero per sua figlia,/ per i cari parenti: la travolse/ Cipride nella brama». Elena è qui il modello di ogni trasgressione amorosa, di ogni passione terribile, inevitabile: gioia e disastro nello stesso tempo. Troveremo Elena negli autori latini, con la versione mondana che ne dà Ovidio nelle Heroides, negli autori medievali devoti all'amore cortese, come Benoit de Sainte Maure col suo Roman de Troie, in Dante, nei drammaturghi elisabettiani, in Goethe, dove diventa, nell'immenso affresco simbolico del Faust, «l'incarnazione vera e propria dell'eterno Elemento femminile». E, più vicino a noi, c'è la Elena di William Butler Yeats reincarnata nella rivoluzionaria irlandese Maud Gonne, di cui il poeta fu sempre e vanamente innamorato. In Maia, il suo vero capolavoro, D'Annunzio preferì dipingerci una Elena mendicante, superstite nella vecchiezza e nella vergogna: i secoli le hanno incanutito i capelli, sfatto la bocca vorace, smunto il seno infecondo, curvato il dorso di belva, e le hanno lasciato un solo occhio socchiuso e senza ciglia. È una epifania potente e misteriosa. «Aedo hai dato la dramma/ a Elena, figlia del Cigno/ che fatta è serva millenne/ d'una meretrice di Pirgo». Più tardi, anche a Ghiannis Ritsos, superbo poeta erotico neogreco, Elena apparve in un simile degrado e sfacelo. Scrive Barbara Castiglioni che «tra tutti gli oltraggi mitologici compiuti da Euripide, il più clamoroso è senza dubbio il rovesciamento del mito di Elena». Ed è vero. Euripide fa sua la versione di una Elena del tutto innocente e vittima. E sposta l'azione lontano sia da Sparta sia da Troia, nell'Egitto che per i Greci ha la voce straordinaria di Erodoto. Che cosa è accaduto perché il mito potesse così capovolgersi? Per capirlo, bisogna introdurre il tema del doppio e del fantasma. Già ricorre nelle vicende di Era e di Zeus. Quando Issione, figlio del re dei Lapiti, invitato al banchetto degli Dei osò mettere gli occhi su Era e tentare di sedurla, Zeus, prima di punirlo, lo beffò, costruì con la sostanza eterea delle nubi un doppio della moglie, gli diede le sue fattezze del volto e le sue forme, e Issione ingannato possedette quello. Da quel coito, nacque la stirpe dei Centauri. Per sottrarre Elena al tradimento e alla vergogna, gli dei ne mandarono a Sparta un fantasma: costruito anch'esso di aria e di nuvole, ma talmente somigliante da indurre Paride a crederla la vera Elena: così fece innamorare e portò con sé a Troia un'ombra. E la Elena in carne ed ossa, con tutta la sua irresistibile bellezza, fu portata in Egitto presso la corte del più casto dei Re, Proteo, l'unico che poteva vedersela vicino senza cominciare a smaniare di desiderio. Quando il dramma di Euripide inizia, il re è morto ed è succeduto a lui Teoclimeno, che invece comincia a desiderare follemente e a insidiare Elena. E Menelao, reduce da Troia, arriverà naufrago proprio su quelle sponde. La tragedia prende toni più da commedia, che il lieto fine potenzia: e si legge bene in questa nuova freschissima traduzione tra dialoghi serrati e alati spunti lirici. Elena ne esce completamente redenta: donna eccellente, virtuosa, dal nobile animo. Perché, come sentenzia il coro: «Molte sono le forme del divino, / e incomprensibili le decisioni degli Dei». Giuseppe Conte

Padova, la prima rettrice dopo 799 anni. Mapelli: “Porterò inclusione e sostenibilità sociale". Corrado Zunino su La Repubblica il 5 luglio 2021. Neuropsicologa, la nuova guida dello storico ateneo ha le idee chiare: "Non scimmiotterò una leadership maschile. A ottobre tutti in presenza. Per i giovani abbiamo allestito 800 concorsi e calamitato 1.400 matricole straniere”. Daniela Mapelli, 56 anni, ultimo rettore italiano in ordine di elezione, alla guida dell’Università di Padova fondata nel 1222, ha un curriculum costruito in sede e su un percorso lungo e naturalmente complicato: umanista, si è laureata a Padova nel 1991 in Psicologia sperimentale, si è quindi dottorata a Trieste e per due anni si è formata all’estero, alla Carnegie Mellon di Pittsburgh. Impegnerà dodici anni per diventare ricercatrice a tempo indeterminato, e uscire dalla palude del precariato post-doc e assegnista, diciannove anni per approdare alla cattedra: professore di seconda fascia. Oggi, ordinario di prima fascia da cinque stagioni, insegna Neuropsicologia e Riabilitazione neuropsicologica ed è diventata prima rettrice della storia padovana. E’ l’eletta numero 98 da quando è stato istituito il referente unico, nel 1806. 

Professoressa, sarà in carica dall’uno ottobre. La prima donna rettrice dopo 799 anni. 

“In otto secoli questo ateneo non solo non aveva mai avuto una guida femminile, ma non aveva visto neppure una candidata al rettorato. Questa volta eravamo in tre su quattro partecipanti. Abbiamo capito, noi donne, che vale la pena mettersi in gioco, che essere donna è un valore aggiunto. Esistono uomini molto capaci e così è tra noi. Precludersi, come genere femminile, la competizione a una leadership significa rinunciare a un 50 per cento di possibilità di scegliere la persona giusta. Sono stata travolta da una campagna elettorale davvero impegnativa e adesso, certo, non scimmiotterò una leadership maschile”.

Cosa farà, da rettrice, all’Università di Padova? Abbiamo detto università storica, e poi?

“Ateneo d’eccellenza, con una valutazione sulla didattica da lettera A. Ateneo inserito dall’Anvur, a proposito della Valutazione della qualità della ricerca, per due volte consecutive tra i primi. Quel che vorrei portare, e che forse ancora manca, è quello che si fa fatica a trovare nella nostra società: inclusione e pari opportunità, sostenibilità ambientale e sociale. Temi che ci impegneranno per i prossimi anni”.

Con il suo insediamento, ci sarà il ritorno in presenza di tutta la vita accademica? O l’esperienza a distanza vi farà mantenere alcuni corsi in Dad?

“Da ottobre avremo il rientro in aula di tutti, gli orari sono già pronti. Esami e lauree sono già in presenza. Abbiamo imparato molto in questi mesi e ci sono tre piani di azione pronti per affrontare le tre opzioni possibili: cento per cento in aula, metà presenti e metà a distanza, tutti in Dad. Con l’emergenza, abbiamo girato online tremila insegnamenti. Siamo pronti a rifarlo. Devo dire che in queste due stagioni i nostri studenti non hanno fermato le carriere, abbiamo verificato che non ci sono differenze sostanziali su crediti e esami. Non vediamo l’ora di aprire per tutti, l’università è un’esperienza da fare in presa diretta. Certo, la Dad è una vera e propria nuova tecnologia: un’alfabetizzazione semiologica. Dobbiamo decidere come guidarla per organizzare le lezioni, i consigli interni”.

Anche all’Università di Padova, nella stagione 2020-2021, c’è stato un aumento delle immatricolazioni degli studenti?

“Sì e credo dipenda dai molti aiuti offerti agli studenti, a livello nazionale e di ateneo. Abbiamo chiuso l’anno accademico con 22.000 matricole, tremila in più del precedente. Abbiamo investito sull’internazionalizzazione e calamitato a Padova 1.400 neoiscritti da tutto il mondo”.

Sta seguendo il dibattito parlamentare sulla riforma del percorso post-laurea? E’ una proposta di riforma per alleggerire il precariato.

“Sì, l’abolizione della differenza tra ricercatore di Tipo A e di Tipo B, l’introduzione di un’unica figura con una tenure track, un percorso di avvicinamento alla docenza, non più lungo di sette anni. Dobbiamo garantire meno precariato possibile, questo è lo spirito di fondo. Sui dettagli, si può discutere”. 

A Padova come siete intervenuti, in autonomia, sulla questione?

“Nel precedente sessennio abbiamo organizzato 800 concorsi per ricercatori e ricercatrici. Due terzi dei vincitori hanno trovato una collocazione nella nostra università, il restante terzo in altri atenei ed enti di ricerca”.

Su Repubblica c’è stato un lungo dibattito, alimentato dall’inchiesta “Agnese nel Paese dei baroni”, sulla bontà dei concorsi universitari italiani. La ministra Maria Cristina Messa, ex rettrice alla Bicocca di Milano, ha chiesto commissioni esterne, dipartimenti che si assumano responsabilità per le scelte fatte e la possibilità di avere candidati con competenze vicine alle richieste degli atenei. Che ne pensa?

“La penso come la ministra. In Italia si possono già fare chiamate dirette e si possono allestire concorsi non certo ad personam, ma su linee di ricerca: sarebbe bello e utile poter avere quella persona su quell’argomento scientifico. I concorsi pubblici, d’altra parte, devono garantire trasparenza e onore al merito. Devono tenere insieme le due cose: competenze specifiche e curriculum generale. Da ricercatrice ho partecipato a due bandi, e ho vinto il secondo. Da professore associato ho fatto cinque concorsi, e ho vinto il quinto. Dobbiamo metterci in gioco. Certo, a volte, se esclusa, ho pensato “l’avrei meritato io”, ma non ho mai pensato che quei concorsi fossero predeterminati”.

Perché le università italiane che, chiaramente, formano buoni ricercatori, riconosciuti nel mondo, non riescono mai a entrare nelle prime cento nei ranking internazionali?

“Perché su alcune voci non potremo mai competere, per esempio, con gli Stati Uniti. Uno dei parametri più frequenti delle diverse classifiche è il rapporto docenti-studenti, e qui giochiamo un altro campionato. Negli Stati Uniti si ha un professore ogni sette-quindici studenti, noi abbiamo classi di 150-300 discenti. Quasi tutta la nostra università è pubblica, quella americana d’eccellenza è privata. Un altro parametro è: quanti Premi Nobel ha in organico tra i docenti una singola accademia? I Nobel sono professori molto costosi: gli atenei americani dell’Ivy League e quelli mediorientali possono pagare questi grandi nomi, da noi non è possibile”.

Nei trent’anni che separano la Daniela Mapelli neolaureata dalla Daniela Mapelli rettrice, l’università italiana è cambiata? E come?

“E’ cambiata in meglio, l’accademia italiana gode di buona salute. I nostri studenti e assegnisti e dottorati all’estero li cercano, eccome. Siamo molto forti e questo nonostante restiamo uno dei Paesi che investe meno in ricerca e alta formazione”.

Deve cambiare l’atteggiamento del sistema Italia nei confronti della sua università?

“Sono fiduciosa che nei prossimi sei anni questo avverrà. Ho letto il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli investimenti negli atenei e nelle amministrazioni pubbliche sono notevoli. Dobbiamo imprimere velocità alle riforme, ce la faremo”.

Vittorio Feltri, le donne si preparano a prendere il potere? Era ora. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. È noto che gli Stati Uniti sul piano del costume e dei fenomeni sociali sono sempre in anticipo rispetto all'Italia. E abbiamo sperimentato da tempo: ciò che succede Oltreoceano prima o poi accadrà dalle nostre parti. L'ultima notizia in proposito è stupefacente: le donne laureate in America sono il 37 per cento, gli uomini invece si fermano al 30 per cento, cosicché le femmine che occupano posti di lavoro di alto livello stanno quantitativamente diventando superiori ai maschi. Le ripercussioni di questo stato di fatto si avvertono in ogni settore dell'economia e sulla composizione delle famiglie. Le nubili respingono i corteggiamenti dei celibi che non abbiano titoli accademici, inoltre puntano a sposare ragazzi fisicamente prestanti, alti, di buona borghesia. Parecchie di esse cominciano a coltivare il desiderio di avere un figlio, tuttavia se ne guardano di accoppiarsi con uno sfigato: preferiscono ricorrere alla fecondazione artificiale in modo da poter partorire lo stesso, senza il contributo di un partner. Avanti di questo passo gli aspiranti mariti non conteranno un accidente, nel senso che rimarranno scapoli in quanto superflui, inservibili. Ciò non si verificherà domani, ma dopodomani sì, di sicuro. Insomma, il futuro sarà ricco di sorprese. Ormai non esiste più alcuna distinzione sostanziale tra i due generi, entrambi godranno di pari reputazione, saranno persone e basta. Le avvisaglie del radicale cambiamento si avvertono pure in Italia, dove già le laureande sono più numerose dei laureandi, il che significa che tra qualche anno presumibilmente succederà che il caso statunitense sarà in procinto di sfondare prima a Milano, poi in tutto il Paese. Il mondo sarà molto diverso da ora, per esempio la questione delle quote rosa non avrà più senso. In ogni professione impegnativa il successo arriderà a chi merita di più, il sesso di appartenenza non avrà alcun peso. Prepariamoci a tale mutamento epocale, che inciderà nella formazione e nella conduzione delle famiglie. I difensori della tradizione in questo campo sono destinati a perdere le loro battaglie. Le donne si sono evolute da quando hanno scoperto che l'Università spalanca le porte senza fare distinzioni di timbro antiquato. Una volta le ragazze studiavano poco, al massimo diventavano maestre, adesso i medici e gli avvocati di grido sono signore. Chiaro che si impadroniranno delle leve del potere. Io ne sono contento, perché almeno le femministe non romperanno più le balle, essendo uguali e migliori di noi che abbiamo inventato i pantaloni senza metterli più. 

La prima donna laureata al mondo, a Padova, ci ricorda quanto è antica la questione femminile. Riccardo Luna su La Repubblica il 25 giugno 2021. Il 25 giugno 1678 (si avete letto bene: 1678) Elena Cornaro Piscopia si laurea. E' la prima donna a laurearsi a Padova, in Italia e nel mondo intero. Che stesse accadendo qualcosa di speciale lo sapevano tutti visto che la discussione della tesi di laurea in Filosofia era stata spostata dall'università alla cattedrale per accogliere il folto pubblico di curiosi provenienti, pare, da diverse università italiane. Elena Cornaro Piscopia discusse la tesi dottorale in latino commentando brani scelti dalla commissione di esame che al termine, invece di riunirsi per deliberare i voti, scelse di approvare la nuova dottoressa seduta stante. Aveva appena compiuto 32 anni e non le fu mai concesso di insegnare, in quanto donna: mori pochi anni molto giovane, terminando una vita, per quel che si è appreso, piuttosto infelice. Era nata a Venezia, quinta di sette figli, da un papà nobile e una mamma popolana, Già a 6 anni il padre di era accorto dell'intelligenza della figlia e ne aveva favorito l'educazione assoldando insegnanti di fama. A 19 anni, quando era in età da marito, Elena decise di farsi oblata benedettina, di dedicarsi alla vita religiosa, per poter continuare a studiare. Parlava greco, latino, spagnolo, francese e inglese, suonava quattro strumenti ma la sua passione era la teologia. Ma quando il padre chiese all'università di Padova di assegnare alla figlia la laurea in Teologia il vescovo (e cancellerie dell'ateneo) disse che "dottorar una donna" era uno "sproposito" che avrebbe reso i decisori "ridicoli a tutto il mondo". Non il primo e neanche l'ultimo come sappiamo, intervento "a sproposito" della Chiesa. Ma Elena non si arrese, cambiò materia e qualche anno dopo riuscì a laurearsi. La sua impresa resta un esempio mondiale di emancipazione femminile, ancora più grande se si pensa che per avere la seconda donna laureata al mondo, sempre in Italia, toccherà attendere 54 anni. E che solo da qualche giorno Padova ha la sua prima donna rettore. La statua di Elena Cornaro Piscopia è nel cortile dell'Ateneo.

Simona Siri per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Non si fa chiamare con il cognome dell' ex marito, Jeff Bezos, e neanche con quello del nuovo, Dan Jewett, un insegnante di Seattle sposato a marzo. Lei è semplicemente MacKenzie Scott, ammesso che ci sia qualcosa di semplice nell' essere una delle donne più facoltose e generose del mondo. Nel 2019 il divorzio dopo 25 anni di matrimonio dal fondatore di Amazon nonché uomo più ricco del mondo (193,5 miliardi di valutazione secondo Forbes) le aveva lasciato in dote 59 miliardi. Oggi, sta mantenendo quello che aveva già promesso alla vigilia della separazione, ovvero dare gran parte della sua fortuna in beneficenza. È di ieri la notizia che la signora Scott ha deciso di donare altri 2.74 miliardi di dollari a 286 organizzazioni. Non è la prima volta. Nel luglio 2020 aveva già donato 1,7 miliardi a 116 organizzazioni, a dicembre altri 4,2 miliardi erano andati a 384 organizzazioni. Un totale di otto miliardi negli ultimi undici mesi per lei non sono un problema visto che le azioni di Amazon - ne possiede un quarto - sono schizzate ulteriormente in alto grazie alla pandemia, tanto da fare scrivere al New York Times che «Mrs Scott sta accumulando ricchezza più velocemente di quanto possa spenderla». Eppure è una cifra che fa impressione, anche per il modo in cui è elargita. A differenza di Melinda Gates, Scott non ha creato una sua fondazione, cosa che richiederebbe documenti pubblici sulle spese e la presenza di uno staff. Quando decide di donare, scrive un post sul blog che ha sulla piattaforma Medium in cui si lascia andare ad alcune riflessioni («sarebbe meglio se la ricchezza non fosse concentrata in un piccolo numero di mani», ha scritto nell' ultimo) e lo annuncia al mondo. Chiamarlo un metodo anticonvenzionale di filantropia è un eufemismo. Tra i riceventi di questo nuovo ciclo di donazioni ci sono l'Apollo Theatre, il Balletto Hispánico e il Dance Theatre di Harlem a cui sono andati 10 milioni. Simili quantità sono andate all' Università della California e all' Università del Texas, a organizzazioni focalizzate sulla giustizia razziale come la Race Forward e Borealis Philanthropy, a gruppi incentrati sull' equità di genere e sulla lotta alla violenza domestica e ad altre organizzazioni non profit tra cui l'Authors League Fund, che aiuta gli scrittori in difficoltà finanziarie, e Afrika Tikkun, che lavora per porre fine alla povertà infantile in Sud Africa. Istituzioni scelte personalmente da lei, dal marito Dan e da un gruppo di consulenti e ricercatori. «Vorrei che l'attenzione fosse su di loro», ha scritto nel blog. «Anche se so che gli articoli saranno sulla mia ricchezza». E poi: «Questi 286 gruppi sono stati selezionati attraverso un rigoroso processo di ricerca e analisi. Queste sono persone che hanno passato anni a portare avanti con successo obiettivi umanitari, spesso senza sapere se ci sarebbero stati fondi nei loro conti in banca. Cosa pensiamo che potrebbero fare con più soldi a disposizione di quanto si aspettassero? Acquistare i rifornimenti necessari. Trovare nuovi modi per aiutare. Assumere personale extra sapendo di poter pagare loro lo stipendio per i prossimi cinque anni. Comprare delle sedie. Smettere di lavorare durante il fine settimana. Dormire un po'».

Francesco Semprini per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Melinda French Gates inaugura la sua campagna per il rafforzamento della previdenza sociale partendo dalla Casa Bianca. L' obiettivo è di incassare l'appoggio delle istituzioni su alcuni temi portanti come i congedi retribuiti, in particolare a scopo parentale, e l'assistenza all' infanzia.

E non a caso l'ex moglie di Bill Gates è partita dal 1600 di Pennsylvania Avenue, visto che nel piano infrastrutturale presentato da Joe Biden, il cui valore complessivo si aggira attorno ai 4 mila miliardi di dollari, è riservata una rilevanza particolare a questi aspetti. La signora French Gates si è così recata due giorni fa alla Casa Bianca dove ha avuto colloqui col capo di gabinetto del presidente Ron Klain, e la consigliera per la politica interna Susan Rice, assieme ad altri alti funzionari dell'amministrazione. «Melinda ha incontrato i leader a Washington per ragionare su strategie volte a far fronte alla pandemia (in particolare nel Sud del Mondo) ringraziando al contempo i politici per gli sforzi compiuti a sostegno della campagna di vaccinazione globale - ha reso noto una portavoce -. Si è anche sottolineata la necessità di una politica federale di congedo retribuito per sostenere la ripresa economica e occupazionale». Nell' agenda dei lavori dell'attivista filantropica ci sono stati anche una serie di incontri con membri di Capitol Hill, tra cui la senatrice Patty Murray di Washington, lo Stato di origine dell'ex marito e la sede del quartier generale di Microsoft, il gigante del software co-fondato da Bill assieme a Paul Allen nel 1975 che ha sede, appunto, a Redmond. La scorsa settimana, French Gates si è unita invece al Democratic Women' s Caucus per dare il via a un incontro virtuale con esperti e addetti ai lavori dove si sono formulate proposte incentrate su assistenza ed emancipazione economica delle donne. French Gates e la sua organizzazione, Pivotal Ventures, si battono da tempo per agevolare politiche volte a favorire il rafforzamento del ruolo delle donne nella società anche attraverso una maggiore assistenza all' infanzia. Oltre a perorare campagne di ampio respiro rivolte al sostegno delle realtà meno fortunate del Pianeta. In questo senso l'ex moglie di Bill (i due hanno annunciato la separazione a maggio con un Tweet e dopo aver raggiunto un corposo e articolato accordo) ha trovato una sponda in Biden che ha posto alcuni di questi temi al centro della propria politica di rilancio del Paese nel post pandemia. La prima gamba dell'American Jobs Plan (2 miliardi di dollari) prevede stanziamenti in grandi opere come strade, ponti, completamento della banda larga, ammodernamento della rete elettrica e di quella idrica. La seconda fase (per altri 2 mila miliardi) è stata modulata per agire su altri settori economico-sociali affetti talvolta da obsolescenza, come sanità, assistenza e istruzione. Una sintonia perfetta si profila tra Joe e Melinda che si innesta perfettamente nel solco delle attività portate avanti dalla Fondazione Bill & Melinda Gates sopravvissuta indenne alla separazione fra i due, come ha tenuto a sottolineare lo stesso Bill. «Continuiamo a condividere la nostra convinzione in questa missione e ci lavoreremo insieme ma non crediamo di poter crescere come coppia». Fine dell'amore, quindi, ma non dell'organizzazione filantropica con un patrimonio di circa 50 miliardi di dollari, frutto di un progetto nato nel 1993, su una spiaggia di Zanzibar che ha cambiato la vita di Melinda, in questo caso per sempre. 

Un seggio, una matita, una scheda: la prima volta delle donne in politica. Emilio Gardini su Il Quotidiano del Sud il 13 giugno 2021. Ne "Il racconto dell’ancella", romanzo distopico della scrittrice Margareth Atwood che esce nel 1985, i moderni Stati Uniti d’America, in piena crisi ambientale che causa infertilità portando quasi a zero le nascite, diventano una teocrazia totalitaria nella quale le donne sono ridotte a oggetto di proprietà degli uomini. In seguito al colpo di Stato, le poche donne fertili perdono lo status di “donne libere” e diventano “funzionali” solo alla riproduzione biologica. Addirittura le donne di coloro che sono al potere, le mogli dei comandanti, non possono ricoprire cariche politiche né essere autonome e indipendenti. Si tratta di letteratura distopica, certo, che fa pensare a tempi lontani, quando “essere liberi” significava “essere maschi e borghesi”. Un mondo patriarcale e autoritario, nel quale la sfera dei diritti politici e civili non è accessibile a tutti, soprattutto alle donne. Ma, va detto, la concezione di individuo dell’età moderna, non tiene conto completamente della condizione femminile. Autonomia e proprietà (della propria persona e di beni) sono le condizioni che definiscono gli individui nelle società libere, e “proprietari e indipendenti” sono soprattutto gli uomini. Gli Stati moderni faticano a includere le donne nel processo di modernizzazione della società, anzi spesso esse rappresentano “l’ancoraggio” ai valori tradizionali contro la paura del mutamento sociale. E infatti, la questione del “riconoscimento politico” delle donne in Italia non si chiude affatto con il diritto di voto che solo 75 anni fa viene riconosciuto, tra l’altro con ritardo rispetto alla gran parte dei paesi europei. Quel 2 giugno del 1946 in Italia le donne votano per la prima volta con gli uomini, che non votavano anch’essi da tempo perché durante la dittatura fascista non ci furono elezioni. Per circa 2 milioni di voti, non tantissimo, la scelta della repubblica sulla monarchia. Si votò anche per l’Assemblea Costituente, 21 donne vennero elette e di queste alcune fecero carriera politica. Fu senza dubbio un traguardo importante. Si veniva fuori dal dramma della seconda guerra mondiale e dal disastro del fascismo che aveva rafforzato l’immaginario patriarcale che relegava la donna a custode della casa e della famiglia con il ruolo unico di procreare, occuparsi dei figli e servire l’uomo. Poche possibilità di lavoro, se non nei lavori “di cura” che più si confacevano alla “naturale” propensione femminile. Anche ai tempi dell’Italia liberale la donna si trovava in condizione di subalternità rispetto all’uomo ma il fascismo riuscì ad annichilire totalmente il desiderio di emancipazione. Dunque, con il diritto di voto nel dopoguerra non si trattò tanto di riconquistare qualcosa quanto piuttosto di affermare ciò che in passato non c’era stato. Tuttavia l’ottenimento del diritto di voto non fu vero e proprio riconoscimento politico, non rappresentò in tutto “l’ingresso” delle donne nel mondo democratico e moderno.

L’ottenimento della cittadinanza politica – intesa come piena realizzazione dei diritti civili, politici, sociali che non si esaurisce con la sola partecipazione al voto – è un processo lungo, conflittuale, che va compreso nel quadro articolato delle trasformazioni sociali che investono l’Italia per certi versi ancora legata a strutture familiari tradizionali anche in piena modernizzazione e crescita economica. Ancora dopo l’ottenimento del diritto di voto le donne sono in condizioni di “minorità”; non sempre ricevono lo stesso trattamento degli uomini sul lavoro (quando hanno accesso a posizioni lavorative almeno equiparabili a quelle degli uomini) e sono in posizione subalterna in famiglia nei confronti di padri e fratelli. Inoltre, questione di non poco conto, non entrano appieno nella sfera della politica che, in quanto spazio di potere, non può che essere soprattutto maschile. Anche se i primi movimenti femminili che hanno rivendicato il suffragio sono stati importanti, e anche se le donne hanno avuto un ruolo rilevante nella liberazione dal nazifascismo, fino agli anni sessanta non cambia molto nell’immaginario collettivo, dove la divisione tra i sessi riproduce la divisone sociale dei ruoli basata sulla disuguaglianza. Il ’68 stesso, che fu un momento di grande coinvolgimento dei giovani, ragazzi e ragazze, fu segnato dalla cifra del “maschile” di cui la società italiana era pregna. I movimenti studenteschi però furono uno spazio importante di ripensamento delle categorie tradizionali e soprattutto di rottura verso quelle prescrizioni autoritarie connaturate nelle istituzioni della società, nella scuola, in famiglia, nelle università. La contestazione e la questione della liberazione dall’autorità assunsero un significato particolare per le donne in termini di legittimazione della propria presenza nella società. È importante ribadire che il vero cambiamento non può che avvenire con la partecipazione attiva, politica, con le rivendicazioni nello spazio pubblico della città, nelle piazze, nei movimenti sociali. È in questo modo, negli anni settanta, che i diritti vengono realmente guadagnati dalle donne e il “riconoscimento politico” perde il carattere della semplice elargizione. L’emancipazione politica può rappresentare talvolta una mera concessione di diritti e di libertà ai cittadini e non essere vera liberazione, lo scriveva Karl Marx nella fase giovanile, se le sopravvivenze culturali continuano ad alimentare le disuguaglianze di status. Il suffragio universale femminile ha rappresentato senza dubbio una tappa importante ma l’emancipazione si traduce in riconoscimento politico quando scuote con forza o addirittura scardina l’apparato ideologico. Così il riconoscimento diventa riconoscimento della dignità della persona nella sua integrità politica (e quindi collettiva) che si afferma nello spazio pubblico. Nel descrivere una passeggiata immaginaria in un college inglese, luogo maschile per eccellenza, scriveva Virginia Wolf  nel saggio Una stanza tutta per sé: “Qui c’era il prato, più in là il vialetto. Soltanto ai membri del College e agli Studiosi è consentito poggiare i piedi qui; il mio posto è la ghiaia”. Ecco, l’emancipazione femminile ha aperto la via per l’occupazione del “prato”. 

A Pillon non rispondiamo soltanto con Samantha Cristoforetti. Se per il senatore Pillon le donne hanno una naturale propensione «alle materie legate all'accudimento», facciamo bene ad indignarci. Magari senza scomodare "l'eccezione" di AstroSamantha, ma discutendo di qualche dato. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 29 maggio 2021. Ci siamo cascati di nuovo. Ieri l’altro il senatore Simone Pillon ha dichiarato a mezzo social che le ragazze sì, magari vanno anche all’Università, ma è noto che abbiano una naturale «propensione per materie legate all’accudimento, come per esempio ostetricia». L’occasione per farci saltare dalla sedia gli è servita su un piatto d’argento. Al leghista Pillon, infatti, maestro della provocazione, non è sfuggita la decisione dell’Ateneo di Bari di ridurre le tasse per le studentesse, in modo da incentivarle a frequentare corsi di laurea “tipicamente maschili”. Ecco «l’ideologia gender», accusa Pillon, tanto per farcire di nuovi argomenti la sua crociata Facebook contro il ddl Zan. Fatto sta che il popolo del web è subito insorto e non si è fatto trovare impreparato. Anzi, ha prontamente affilato le armi della «prima donna che…». E anche in questo caso la cronaca ha offerto l’appiglio per argomentare: è proprio di ieri la notizia che Samantha Cristoforetti sarà la prima donna europea a comandare la Stazione Spaziale Internazionale in occasione dell’Expedition 68a che sarà lanciata nel 2022. Un «orgoglio italiano» che fa piacere a tutti. Ma davvero per rispondere al Pillon sessista c’è bisogno di scomodare il pur illustre esempio di AstroSamantha? O di Marie Curie, Margherita Hack e via dicendo. Impugnare “l’eccezione” e mettersi a fare la lista della spesa non è forse un modo per dargli ragione? Forse potremmo ragionare sul fatto che non tutti siamo destinati allo Spazio. A qualcuna può persino piacere ostetricia, e qualcun’altra può persino non gradire le materie scientifiche. Ma qualunque sia la nostra “naturale propensione”, di certo questa non è determinata dal genere. Ammesso che si debba parlare di “propensione”, e non si debba invece discutere di possibilità. Perché a ben vedere è quel “tipicamente maschile” che fa storcere il naso. Secondo l’ultimo rapporto sul “gender gap” pubblicato lo scorso marzo dal consorzio interuniversitario Almalaurea, statisticamente le donne «studiano di più, hanno più interessi e voti più alti, ma nel lavoro hanno retribuzioni inferiori e sono penalizzate se hanno figli». Nel rapporto, fondato “sulle performance formative e professionali delle donne, dalla scuola superiore all’università, fino al mercato del lavoro” si legge che, in base ai dati 2020, tra i «laureati di secondo livello, a cinque anni dal conseguimento del titolo, le differenze di genere si confermano significative e pari a 5,0 punti percentuali in termini occupazionali: il tasso di occupazione è pari all’84,8% per le donne e all’89,8% per gli uomini». «Le differenze di genere si confermano anche dal punto di vista retributivo», prosegue il rapporto, secondo il quale «tra i laureati di secondo livello che hanno iniziato l’attuale attività dopo la laurea e lavorano a tempo pieno emerge che il differenziale, a cinque anni, è pari al 16,9% a favore degli uomini: 1.715 euro netti mensili rispetto ai 1.467 euro delle donne». Si obietterà che tale divario è determinato anche dalle diverse scelte di studio e professionali maturate da uomini e donne. Ma se guardiamo alla composizione per genere tra i laureati dell’Area Stem (science, technology, engineering and mathematics), scopriamo che a fronte di una più elevata componente maschile (il 59,8 % rispetto al 40, 2%, dati Almalaurea), le donne si distinguono per una migliore riuscita in termini di voti e regolarità negli studi (tra le donne il 51,3% ha concluso gli studi nei tempi previsti rispetto al 47,7% degli uomini) e ciononostante restano penalizzate nel mondo del lavoro con una percentuale di occupazione pari all’86,9% per le donne contro il 92,9% per gli uomini. Un dato confermato anche dal Consiglio Universitario Nazionale, che nell’ultimo rapporto pubblicato a dicembre 2020 mette in evidenza le disparità di genere nei gradi più alti della carriera accademica all’interno delle Università italiane. Un divario particolarmente accentuato nelle discipline dell’Area Stem, ma radicato anche nelle facoltà di medicina, giurisprudenza ed economia. Insomma, abbiamo guardato allo Spazio e ci siamo dimenticati della terra: ci siamo cascati di nuovo.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2021. A 29 anni Elle Parker ha già declinato la sua passione per i cavalli in molti mestieri che nell' immaginario collettivo appartengono ai cowboy del West: ha lavorato da «cowgirl» in ranch dell' Idaho e dell' Oregon per poi tornare nel suo Montana dove, a Miles City, è stata assunta come ispettore per il controllo di razze e stato di salute del bestiame. Poi la passione per i cavalli l' ha riportata verso la vita di ranch e, soprattutto, l' organizzazione dei rodeo. Un po' più a Est, a Kremmling, sulle Montagne Rocciose del Colorado, Caitlyn Taussig è l' anima di Indigo, un ranch gestito da donne. Crescendo ha visto sua madre impegnata soprattutto in cucina, mentre lei veniva chiamata spesso a dare una mano col bestiame. Si è appassionata e, poco interessata ai fornelli, ha capito che con le nuove tecnologie la forza fisica dell' uomo non era più indispensabile per mandare avanti un allevamento e curare i cavalli. Elle e Caitlyn sono solo due delle tante donne del West che stanno interpretando il mestiere del cowboy al femminile. La stampa racconta storie simili in molti Stati mentre i «ranch delle donne» si moltiplicano dal South Dakota allo Stato di Washington all' Oregon, all' Oklahoma. Può sembrare una stranezza, visto che da John Wayne in poi siamo abituati a considerare il West terra di cowboy: uomini, appunto. Ma queste donne a cavallo la vedono diversamente: nelle tribù indiane che hanno vissuto per secoli in queste terre, con gli uomini impegnati nella caccia o guerrieri, erano le donne a occuparsi del bestiame e della terra. E anche nei territori controllati dai messicani il ruolo delle donne negli allevamenti era tutt' altro che marginale. Le cose sono cambiate dopo il Seicento, con l' arrivo dei coloni dall' Europa che avevano altre idee sulle divisioni di ruoli tra sessi. Al resto ha pensato Hollywood. Ora che i rapporti sociali sono cambiati, il genere western non trionfa più nei cinema e la meccanizzazione dell' agricoltura e dell' allevamento ha reso la forza fisica meno importante rispetto alle capacità di business e di marketing, le donne si stanno conquistando un loro spazio nell' economia rurale dell' Ovest americano. Anche perché i maschi che un tempo avrebbero ereditato stalle e praterie oggi spesso preferiscono cercare lavori più comodi in città. Già dalle indagini fatte qualche anno fa dal ministero dell' Agricoltura Usa (dati del 2012) era emerso che il 14% dei 2 milioni di business agricoli Usa aveva un proprietario donna. Intanto è nata una letteratura sulle cowgirl e la sola associazione Women in Ranching raccoglie 200 imprenditrici che gestiscono 140 ranch al femminile. Da allora il fenomeno sembra essere ulteriormente cresciuto. Ranch che producono e allevano, ma spesso ospitano anche gente delle aree urbane a caccia di esperienze outdoor. Come il Ranch 320 di Gallatin Gateway, in Montana con l' allevamento dei cavalli e l' accoglienza degli ospiti gestita insieme da uomini e donne. Ma stanno diventando numerosi i ranch women only come Indigo o Wild West Women: a volte veri camp di addestramento per donne «toste» che cercano nell' Ovest l' ispirazione per emergere in finanza o nei team di computer scientist di aziende tecnologiche dominati da uomini. Le donne sono in genere più abili nel trasformare la vita di un ranch in un business redditizio, ma non si tratta solo di fiuto per gli affari. Elle Parker, che si trascina dietro in tutti i rodeo il figlioletto, Gabe, di 6 anni, ha una passione infinita per la vita all' aria aperta: «Dopo il liceo ho fatto sei mesi alla Montana State University ma non sapevo che lavoro volevo fare. Sapevo che volevo girare il mondo a cavallo: ho cominciato a vagare per ranch, dal Montana all' Idaho, all' Oregon. Nessuno si è meravigliato, tutti mi hanno dato lavoro».

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 17 maggio 2021. La tv è davvero maschilista? Il discorso rispunta ciclicamente e l’ultima ad aver riacceso la miccia è stata Rula Jebreal. La giornalista, che ha rifiutato l’invito di Propaganda Live in quanto unica donna tra gli invitati, si è soffermata sugli ospiti. Ma si sa, l’ospite lo si convoca in base al contesto, alle esigenze del momento e alle storie che si intendono raccontare. Il discorso al contrario cambia, e di molto, se l’occhio di bue si accende sui conduttori. Questi offrono una fotografia stabile e molto più nitida della reale situazione. Ecco allora che si torna al quesito di partenza: la tv è davvero maschilista? La risposta è no. Basta darle una sbirciata in lungo e largo, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Prendiamo il sabato sera, giorno in cui si concentrano le principali sfide del piccolo schermo: da anni il duello riguarda Milly Carlucci e Maria De Filippi. Mutano i programmi – Ballando con le stelle e Cantante Mascherato da una parte, Amici e C’è posta per te dall’altra – eppure il risultato non cambia. Sì, c’è Tu si que vales, show a guida corale, ma anche qui l’impronta di Maria sembra predominante, al pari di quella di Gerry Scotti. La musica non cambia la domenica: scavallato il pranzo, parte l’invasione femminile: Mara Venier a Domenica In, Barbara D’Urso a Domenica Live, Lucia Annunziata a Mezz’ora in più, Camila Raznovich a Kilimangiaro e Francesca Fialdini a A ruota libera. Tinte rosa pure al mattino, nei feriali: è il caso di Luisella Costamagna ad Agorà, di Gaia Tortora e Alessandra Sardoni a Omnibus, di Eleonora Daniele a Storie Italiane, di Barbara Palombelli a Forum, di Antonella Clerici a E’ sempre mezzogiorno, di Myrta Merlino a L’Aria che tira e di Adriana Volpe a Ogni Mattina. E quando l’uomo appare lo fa quasi sempre in coabitazione con una collega, vedi Uno Mattina, Mattino Cinque e Mi manda Rai 3. Si prosegue al pomeriggio: a Oggi è un altro giorno e Detto Fatto ci sono Serena Bortone e Bianca Guaccero (entrambe subentrate a Caterina Balivo), a Geo c’è Sveva Sagramola, a Tagadà c’è Tiziana Panella, mentre su Canale 5 è staffetta tra la De Filippi (Uomini e Donne) e la D’Urso (Pomeriggio Cinque). L’eccezione è rappresentata da Alberto Matano a La vita in diretta, dove però la doppia guida uomo-donna è stata portata avanti per ben due lustri fino al giugno scorso. Un’altra fascia dove per il maschio l’ingresso è off-limits è il talk di access prime time. A Otto e mezzo, Stasera Italia e Tg2 Post regnano infatti quattro donne: Lilli Gruber, Barbara Palombelli, Veronica Gentili (nei weekend) e Manuela Moreno. Stesso discorso, o quasi, per i reality. Da Ilary Blasi ad Alessia Marcuzzi, passando per Simona Ventura, Daria Bignardi, Paola Perego e la stessa D’Urso, il genere è stato poco battuto dagli uomini (riciclati semmai come ‘valletti’ e inviati), con Alfonso Signorini che ha infranto una sorta di tabù con le ultime due edizioni del Grande Fratello Vip. Prima di lui, si ricordavano a malapena Nicola Savino all’Isola (l’ultima targata Rai) e Carlo Conti al timone del dimenticato – e dimenticabile – Ritorno al presente. Da notare, inoltre, come su La7 la figura maschile sia ripetutamente accostata a quella del "supplente", con Francesco Magnani e Alessio Orsingher fanno spesso le veci della Merlino e della Panella. A sorpresa, le donne hanno saputo gradualmente imporsi in un settore storicamente ‘maschilista’ come quello del calcio. Pertanto, non fanno più notizia le conduzioni di Ilaria D’Amico, Anna Billò, Giorgia Rossi, Diletta Leotta, Simona Rolandi e Paola Ferrari. Giusto per citarne alcune. Se c’è invece un campo in cui il gentil sesso non riesce a sfondare è quello dei giochi e dei quiz. Motivo per cui non troviamo donne nel preserale delle ammiraglie (L’Eredità, Avanti un altro, Caduta Libera, Reazione a catena) e nemmeno nei vari game piazzati altrove (Soliti Ignoti, Affari tuoi). A memoria, oltre alle fugaci esperienze di Clerici e Ventura ad Affari Tuoi e Le tre scimmiette, non si registrano altri esperimenti. Ci siamo concentrati sulla quantità, volutamente. Perché su quello si è soffermata la Jebreal con la sua protesta. Il discorso, tuttavia, non ci entusiasma. Le donne ci sono e non per rispettare delle quote, o una sorta di immaginaria par-condicio. Ci sono dove è giusto che ci siano, dove c’è domanda. In televisione vanno analizzati i contenuti, a prescindere da chi li veicola. Nessuno dovrebbe ispirarsi al manuale Cencelli, almeno per il sesso. E anche un palinsesto riempito al 99 per cento da soli uomini – o sole donne – sarebbe ampiamente giustificato, qualora la scelta fosse basata sulla professionalità e la preparazione.

ELISABETTA BELLONI, LA PRIMA DONNA A CAPO DELLA SICUREZZA ITALIANA. Il Corriere del Giorno il 12 Maggio 2021. La nomina della Belloni è stata disposta sentito il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, a garanzia della sicurezza dello Stato e delle istituzioni. È la prima volta che in Italia una donna arriva alla guida dell’intelligence. In suo favore è stata importante la grande esperienza di ambasciatrice da sempre in prima linea nelle emergenze internazionali. Il prefetto Vecchione termina in anticipo il suo mandato: nominato nel novembre del 2018 dall’allora premier Conte,si era visto rinnovare l’incarico per 2 anni nell’estate scorsa. Il premier Draghi ha scelto e nominato Elisabetta Belloni a capo del Dis, il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza al posto dell’attuale Direttore generale, il prefetto Gennaro Vecchione, dopo aver preventivamente informato della propria decisione Raffaele Volpi, presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. La nomina è stata disposta sentito il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, ringraziando Vecchione per il lavoro svolto a garanzia della sicurezza dello Stato e delle istituzioni. Confermato per un anno il prefetto Mario Parente attualmente alla guida dell’ AISI, il servizio segreto interno dello Stato. Elisabetta Belloni, romana, 61 anni, laureata in scienze politiche alla Luiss nel 1982, è entrata in carriera diplomatica nel 1985, ricoprendo incarichi, tra gli altri, a Vienna e Bratislava.Era segretario generale alla Farnesina, ruolo che ha ricoperto per cinque anni, dal 2016 a oggi, sostituendo Michele Valensise, per la Farnesina la sua nomina era stata una novità assoluta: infatti fino a quel momento, quell’incarico era stato ricoperto soltanto da uomini. Al posto della Belloni è stato nominato l’ambasciatore Ettore Sequi, sinora capo di gabinetto del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. L’ambasciatrice Belloni, fin da ragazza è stata un’apripista . Infatti, fu la prima studente di sesso femminile a essere ammessa, insieme a un’altra ragazza, all’Istituto “Massimiliano Massimo” dei Gesuiti, scuola fino a quel momento esclusivamente maschile. Lo ha fatto anche successivamente, durante la sua carriera al ministero degli Esteri: dall’Unità di crisi (Udc) alla direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo (Dgcs) fino all’ultimo incarico ricoperto prima della nomina a segretario generale: quello di capo di gabinetto del ministro Paolo Gentiloni. Tutte queste posizioni, infatti, con l’ambasciatore Belloni sono state coperte per la prima volta da una donna. Ma non tutti sanno di cosa si occupa il Dis. Principalmente, coordina l’intera attività di informazione per la sicurezza, compresa quella relativa alla sicurezza cibernetica e ne verifica i risultati, oltre a essere informato costantemente delle operazioni di Aise e Aisi e trasmette al Presidente del Consiglio dei ministri le informative e le analisi prodotte dal Sistema; raccoglie informazioni, analisi e rapporti prodotti da Aise e Aisi, da altre amministrazioni dello Stato e da enti di ricerca. Inoltre, il Dis elabora analisi strategiche o relative a particolari situazioni da sottoporre al Cisr o ai singoli ministri che lo compongono e promuove e garantisce lo scambio informativo tra i servizi di informazione e le Forze di polizia. “Rivolgo i miei sentiti e sinceri complimenti all’ambasciatore Elisabetta Belloni per il nuovo incarico alla direzione del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis). La vasta esperienza professionale ed il profilo umano sono doti che consentiranno un contributo saldo e costante alla sicurezza nazionale. Al prefetto Mario Parente confermato alla guida dell’Aisi ribadisco la mia stima certo che possa dare continuità all’ottimo lavoro che sta svolgendo. A tutti e due i migliori auguri di buon lavoro nel comune supremo interesse della nostra Italia” ha dichiarato il presidente del Copasir Raffaele Volpi. La nomina di Elisabetta Belloni ha messo d’accordo tutti, anche due avversari politici come Matteo Salvini e Matteo Renzi. “Buon lavoro a Elisabetta Belloni, donna di valore nominata ai vertici del Dis, e buona prosecuzione al generale Mario Parente” ha commentato su Twitter il leader della Lega, mentre Renzi leader di Italia Viva sottolinea: “La nomina di Elisabetta Belloni alla guida del Dis è un’ottima scelta per le Istituzioni italiane” a cui si è aggiunto l’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini: “La nomina di Elisabetta Belloni a capo del Dis premia una donna di grande valore, di profonda conoscenza delle relazioni internazionali e di sicura affidabilità. Sono certo che interpreterà al meglio un ruolo così delicato per le istituzioni democratiche del nostro Paese”. È la prima volta che in Italia una donna arriva alla guida dell’intelligence. In suo favore è stata importante la grande esperienza dell’ambasciatrice Belloni, da sempre in prima linea nelle emergenze internazionali. A capo per anni dell’unità di crisi della Farnesina, ha gestito i sequestri degli italiani in Iraq lavorando fianco a fianco con gli 007 e diventando punto di raccordo per l’azione del governo per la liberazione degli ostaggi, ma anche punto di riferimento per le famiglie. Da segretario del ministero degli Esteri si è occupata dell’organizzazione della Farnesina. La nomina dell’ambasciatrice Belloni alla guida e coordinamento dei servizi segreti italiani (AISI ed AISE) conferma la volontà del presidente del Consiglio di dare una svolta agli assetti dell’Intelligence italiana con una nomina di peso. Dopo la scelta del prefetto Franco Gabrielli, ex capo della Polizia di Stato, come autorità delegata per l’Intelligence e la Sicurezza, il premier Draghi ha scelto un altro vertice di alto livello dell’amministrazione dello Stato. Una decisione che conferma la volontà di rafforzare il comparto sicurezza per essere pronti alle sfide economiche e geopolitiche affrontate dal Paese. Il cambio ai vertici non sarà certo l’ultimo intervento del governo sulle nomine, in quanto sarebbe imminente anche un cambio dei vicedirettori del Dis.

Francesca Sforza per "la Stampa" il 13 maggio 2021. Se è la prima volta che i servizi avranno una donna come capo, non è la prima volta, per quella donna, arrivare prima. Elisabetta Belloni, classe 1958, nominata ieri alla direzione generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, ha alle spalle una storia di comando all'interno della Farnesina, che nell'ultima puntata l'ha vista nel ruolo di Segretario Generale, ma che è stata costruita con pazienza anche nelle puntate precedenti, da quando fu la prima donna a essere ammessa all'Istituto Massimo di Roma, lo stesso frequentato da Mario Draghi. Segretario o Segretaria? Direttore o direttrice? Alla Farnesina il dibattito sugli asterischi non è mai entrato, perché alla fine, per farsi capire, si parlava sempre di "Lei": «Lo ha detto Lei», «A Lei non piace», «Lei è d'accordo», «Bisogna chiederlo a Lei». Inizia la sua carriera all'estero alla rappresentanza di Vienna, ma è il ritorno a Roma, nella Direzione nevralgica degli Affari Politici, a farle capire che la sua storia sarebbe stata lì, dove le cose si decidevano, dove il potere si mostrava nelle sue molte e differenti sfaccettature. «Ha fatto poco estero», dicono i suoi critici. Ma molta Roma: ha attraversato indenne il governo Berlusconi, quello Monti, quello di Letta e Renzi, quello Conte e ora Draghi, a cui la lega un'amicizia di scuola, di appartenenza, di conoscenze comuni, dai gesuiti alla Luiss, dove si è laureata, ha tenuto corsi, ha fatto parte insieme a Paola Severino del Consiglio direttivo e non manca, ancora oggi, a una riunione degli ex alunni. Il suo ingresso nella rosa dei nomi che non si possono ignorare è datato 2004, quando diventa capo dell'Unità di Crisi - prima donna, ancora - e si trova a gestire due situazioni complesse come il rapimento dell'inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo e la tragedia dello tsunami, con italiani intrappolati nei paradisi thailandesi e bisognosi di ogni tipo di assistenza. Le dirette televisive mostrano al Paese il volto di questa donna ferma e minuta, sempre piuttosto elegante, che dava la sensazione di avere la situazione in mano, non una parola di meno, non una di troppo. Misura, strategia, capacità di calcolo e profonda conoscenza dei meccanismi istituzionali: Elisabetta Belloni è il ritratto del grand commis d'etat, senza cedimenti "all'in quanto donna". Si è convertita alle quote rosa con il tempo: inizialmente era convinta - come spesso accade alle donne brave e sostenute dalle circostanze - che fosse solo una questione di merito. Col tempo si è resa conto dell'importanza di "fare rete", e sotto la sua reggenza - è stata segretario generale alla Farnesina per cinque anni, un tempo lungo rispetto al passato - gli incarichi di rilievo alle diplomatiche si sono moltiplicati. Sposata con un uomo di oltre vent' anni più grande di lei - anche lui diplomatico - e rimasta vedova da qualche anno, una casa nella campagna toscana dove trascorre il (poco) tempo libero dagli impegni di lavoro, Elisabetta Belloni ha costruito nel tempo una rete di contatti - dentro e fuori la Farnesina - che costituisce il suo asset fondamentale. Non è un caso che il suo nome, negli ultimi giri di nomine, sia stato in più occasioni evocato per posti di rilievo, da ministro degli Esteri fino a presidente del Consiglio. Poi la mano è sempre passata ad altri, ma Elisabetta Belloni non ha mai coltivato il culto della sconfitta. Casomai il contrario: a ogni giro di nomine riprendeva il suo lavoro a testa bassa, senza dichiarazioni improvvide, senza pencolamenti. I suoi critici le rimproverano da sempre un eccesso di tatticismo, una tendenza al compromesso mirante più a non scontentare che a promuovere, più a mantenere che a innovare. Ma difficile - anche per chi la critica - non riconoscerle una profonda sapienza nel gestire equilibri, e di fronte alle difficoltà, una salda capacità di gestione. Amata da molti, tollerata da altri, Belloni esce dalla Farnesina col passo sicuro di chi sa di aver fatto molto: «Con la sua nomina al Dis - ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio - arriva un importante riconoscimento per tutto il corpo diplomatico».

Elisabetta Belloni nuovo capo dei servizi segreti: salta Vecchione, l’uomo di Conte “licenziato”. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2021. L’ambasciatrice Elisabetta Belloni, 61 anni, è il nuovo capo dei servizi segreti. La nomina del direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) è arrivata dal presidente del Consiglio Mario Draghi in sostituzione del prefetto Gennaro Vecchione. Il Presidente Mario Draghi ha preventivamente informato della propria intenzione il Presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR), Raffaele Volpi, e ha ringraziato il prefetto Vecchione per il lavoro svolto a garanzia della sicurezza dello Stato e delle istituzioni. La nomina è disposta sentito il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica. Dopo la nomina di Belloni, secondo quanto apprende l’Ansa da fonti informate, l’ambasciatore Ettore Sequi, attualmente capo di gabinetto del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è il nuovo segretario generale della Farnesina. IL PROFILO – Nata a Roma, l’ambasciatrice Belloni, 63 anni, è stata la prima donna segretario generale della Farnesina (dal 2016 ad oggi). Laureata in scienze politiche alla Luiss, Belloni ha iniziato la carriera diplomatica nel 1985, ricomprendo incarichi nelle ambasciate italiane e nelle rappresentanze permanenti a Vienna e a Bratislava, oltre che presso le direzioni generali del Ministero degli Affari Esteri. Dal novembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Unità di Crisi della Farnesina, passando poi a rivestire il ruolo di direttrice generale della cooperazione allo sviluppo fino al 2013 e successivamente direttrice generale per le risorse e l’innovazione. Nel febbraio 2014 è stata promossa ambasciatrice di grado e, dal giugno 2015, è stata capo di gabinetto dell’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nell’aprile 2016 viene nominata Segretaria Generale del Ministero degli Affari Esteri, ruolo che ha mantenuto finora. Belloni era stata tra i nomi ipotizzati per il ruolo di ministro nel governo Draghi, qualora non vi fosse stata la riconferma di Di Maio. LA SCONFITTA DI CONTE – La scelta di sostituire Vecchione a sei mesi dalla naturale scadenza del suo mandato è di fatto uno “schiaffo” del presidente del Consiglio Mario Draghi al suo predecessore Giuseppe Conte, che aveva voluto con forza Vecchione, suo amico, al Dis. L’irritazione di Conte, spiegano i retroscena, sarebbe emersa anche durante le telefonate di rito durante le quali il premier informa i leader di maggioranza e opposizione della nomina. Vecchione però paga la volontà da parte di Draghi di un deciso cambio di rotta nella gestione dei principali dossier. Quello più spinoso per Vecchione risale ormai all’estate 2019, quando l’allora premier Conte incaricò il numero uno del Dis di incontrare l’allora ministro della Giustizia americano William Barr per condividere le informazioni che l’Italia aveva su Joseph Mifsud. Mifsud, professore dell’università romana Link Campus, aveva fatto sapere all’amministrazione Trump di avere mail segrete russe in grado di mettere in difficoltà Hillary Clinton, candidata democratica alle Presidenziali del 2016. Quell’incontro tra Vecchione e Barr, avvenuto fuori dalle regole, crearono un caso con l’avvio di una istruttoria del Comitato parlamentare di controllo.

Chi è Elisabetta Belloni, prima donna a capo dei servizi segreti: l’amicizia con l’ambasciatore Luca Attanasio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Elisabetta Belloni è la nuova direttore generale del Dis, il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. Si tratta della prima donna ai vertici dei servizi segreti italiani. Il suo nome era circolato nei mesi scorsi anche per il ministero degli Esteri, confermato a Luigi Di Maio nell’avvicendamento tra il governo Conte 2 e il governo Draghi, e per il sottosegretariato con nomina ai servizi segreti, carica poi andata a Piero Benassi. Belloni prende il posto del prefetto Gennaro Vecchione. L’ambasciatore Ettore Sequi, capo di gabinetto del ministro degli Esteri Di Maio, succede a Belloni come nuovo segretario generale della Farnesina. LA CARRIERA – Belloni ha 62 anni. Romana. Era alla guida della macchina della Farnesina dal 2016, prima donna segretario generale degli Esteri. Ha studiato al liceo Massimo di Roma, lo stesso frequentato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi. Si è laureata in Scienze Politiche all’Università Luiss nel 1982. LA DIPLOMAZIA – La sua carriera diplomatica è partita nel 1985. Ha ricoperto incarichi a Vienna e a Bratislava. Belloni è stata nominata nel 2004 capo dell’Unità di crisi del ministero degli Esteri. Anche in questo caso la prima donna a ricoprire tale incarico. Durante quel mandato si occupò di dossier delicati come i rapimenti di italiani in Iraq e Afghanistan e lo tsunami nel sudest asiatico. Dal 2008 al 2012 è direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo e poi dal 2013 al 2015 ha assunto le funzioni di direttore generale per le Risorse e l’innovazione. Promossa ambasciatore di grado nel 2014, nel 2015 è stata capo di gabinetto dell’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Da oggi coordinerà le due agenzie dei servizi segreti e si coordinerà con l’autorità delegata Franco Gabrielli. L’AMBASCIATORE ATTANASIO – “L’Ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, e il Carabiniere Vittorio Iacovacci sono rimasti vittime di una violenza che non riusciamo a capire e ad accettare”. Questo il cordoglio dell’allora segretario generale del ministero Belloni, in un intervento del 23 febbraio su Il Corriere della Sera, dopo l’attacco in Congo che aveva colpito il collega e amico Luca Attanasio. Con quelle parole aveva voluto salutare un “collega, amico e Ambasciatore d’Italia” di cui “siamo orgogliosi”. “Ieri non sono riuscita a esprimere ai familiari il dolore profondo di tutta la Farnesina e la vicinanza sincera perché è prevalso il silenzio e la commozione”, aggiungeva, scrivendo di ricorrere “quindi alla penna per lasciare traccia dell’esempio di Luca che spero non svanisca negli anni a venire e che possa, invece, ispirare i più giovani che hanno fatto la stessa scelta professionale”. Il suo ricordo di Attanasio, dal 2017 Ambasciatore a Kinshasa, corrispondeva a quello di “una persona buona, affettuosa con la stupenda famiglia che amava sopra ogni cosa e che lo ha accompagnato anche in Africa, nonostante la giovane età delle tre bambine” e al tempo stesso “anche un vero diplomatico che ha affrontato la ‘Carriera’ con l’entusiasmo di chi è consapevole della necessità di imparare e farsi le ossa affrontando senza scorciatoie le sfide che la Diplomazia mette dinanzi a ogni passaggio della vita professionale e personale”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. Se Nicole Kidman si disse felice, dopo il divorzio dall'aitante ma non altissimo Tom Cruise, di poter tornare a indossare i tacchi, Melinda Gates adesso potrà comprare tutti gli iPhone e i computer Apple che vuole. I soldi, nel cammino della separazione non solo dal marito ma dalla Microsoft, non le mancheranno: oggi la donna più potente del mondo non è Angela Merkel, né Ursula von der Leyen, né Christine Lagarde, ma Melinda Ann French Gates, nata il 15 agosto 1964 a Dallas, Texas, liceo dalle Orsoline e laurea (con master) all'ottima Duke, sempre col massimo dei voti tanto da scherzare sul suo essere una secchiona sposata con il secchione più famoso del mondo. Melinda French Gates è la più potente non solo perché gestisce (e continuerà a gestire) con Bill una Fondazione benefica da 50 miliardi di dollari che porta il nome di entrambi, ma perché il patrimonio dell'ex marito è di circa 150 miliardi di dollari e non è mai stato siglato, tra i due, un accordo prematrimoniale. Non c'era un contratto per determinare, in anticipo, quanti soldi sarebbero spettati alla moglie in caso di divorzio, neanche tra Jeff Bezos e Mackenzie Scott e sappiamo come è finita - il patrimonio del fondatore di Amazon, circa 129 miliardi di dollari, venne quindi diviso a metà. Difficile prevedere cosa succederà, in termini di accordi finanziari, tra i non ancora ex-coniugi Gates, ma è evidente che alcune legioni di avvocati stanno in queste ore lavorando agli aspetti più pratici della separazione (Melinda si è affidata allo studio del divorzista Robert Cohen che in precedenza ha lavorato per Ivana Trump, Michael Bloomberg e il comico Chris Rock). Bill & Melinda hanno passato trentaquattro anni insieme, ventisette dei quali come marito e moglie: si sono conosciuti nel 1987 a New York, e si sono sposati il 1° gennaio 1994. Tre figli - Jennifer, Rory e Phoebe - e una casa da 150 milioni di dollari soprannominata Xanadu 2.0, versione aggiornata (al mondo digitale) della megavilla del magnate protagonista di «Quarto Potere», il film di Orson Welles. La questione dei figli, sotto il profilo finanziario, è stata risolta da anni: Gates è convinto che «ereditare miliardi non aiuta a formare il carattere» e d'accordo con Melinda ha stipulato che ciascuno dei tre figli erediterà «soltanto» 10 milioni di dollari. Il resto finirà alla Fondazione. D'accordo, ma cosa sarà della Fondazione stessa: continueranno Bill e Melinda a lavorare fianco a fianco come nei decenni precedenti? L'intesa, tra i due, è sempre stata civile: Gates, uomo magari non straordinariamente carismatico ma di ammirevole pragmatismo, fece presente all'allora fidanzata Melinda che gli sarebbe piaciuto continuare con una tradizione alla quale era affezionato, un weekend all'anno passato in vacanza con un'amica (e ex fidanzata), l'ex programmatrice Microsoft e ora venture capitalist Ann Winblad. Melinda disse sì, e Bill anche da sposato continuò la tradizione. D'altronde c'è un aneddoto che fa capire bene l'indole precisina del personaggio: quando ancora erano fidanzati Melinda lo scoprì intento a annotare in un grafico, su una lavagna, i pro e i contro di un eventuale matrimonio con lei.

Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. Nel 2020, anno primo della pandemia, due figure tenevano testa alla linea minimalista di Donald Trump. Uno era il virologo Anthony Fauci. L'altro Bill Gates, fiancheggiato dalla moglie Melinda. Il New York Times scrive che per tutta la giornata di ieri, molti dei 1.600 collaboratori della Bill e Melinda Gates Foundation si sono scambiati messaggi preoccupati. «E adesso?». Il direttore esecutivo, Mark Suzman, ha provato a rassicurare tutti: «È chiaramente un momento difficile sul piano personale, ma entrambi mi hanno assicurato che continueranno a impegnarsi nella Fondazione». L'organizzazione, costituita nel 2000 dal fondatore di Microsoft insieme con la moglie, è considerata la più importante non profit del mondo. Naturalmente contano le risorse: il capitale ammonta a 50 miliardi di dollari. Ma ciò che spicca è l'approccio innovativo. Poca assistenza, poca filantropia consolatoria; tante iniziative di grande impatto politico. Bill e Melinda hanno chiamato a raccolta scienziati e manager di alto livello. Hanno intuito fin dal 2000 la pericolosità delle pandemie; hanno elaborato progetti concreti per contrastare il «climate change». Un modello da studiare, cui si sono ispirati, tra gli altri, Michael Bloomberg e l'attore Sean Penn con la sua Core. Non è esagerato sostenere che oggi la Fondazione dei Gates possa essere paragonata a uno Stato sovrano. L'anno scorso Donald Trump decise di bloccare i finanziamenti all'Organizzazione mondiale della Sanità, pari a 889 milioni di dollari, il 20% del capitale a disposizione dell'agenzia Onu, fondata nel 1948. L'ex presidente americano accusò il direttore dell'Oms, Tedros Adhanom, di essere «un pupazzo manovrato dai cinesi». Ci fu una grande polemica. Ma negli Stati Uniti solo i Gates fecero un passo concreto. Bill difese apertamente Adhanom e la Fondazione confermò la posizione di secondo finanziatore dell'Oms, con una quota di 531 milioni di dollari. La Fondazione ha ormai una funzione di guida mondiale nella lotta alla pandemia: ha investito 1,75 miliardi di dollari nella produzione e nella distribuzione dei vaccini, entrando in forze nel Covax, il consorzio costituito per aiutare i Paesi più poveri. Negli ultimi mesi c'è stato anche qualche contrasto tra i Gates e il neo presidente Joe Biden. La Casa Bianca ha teorizzato e attuato l'America First in materia di immunizzazione: prima gli americani, poi gli altri. Bill, invece, si è fatto intervistare regolarmente dalle tv statunitensi per chiedere «più generosità» e anche «più lungimiranza» a Biden. Senza una vaccinazione, rapida e universale, il contagio non sarà sconfitto. Adesso bisogna capire se e come il divorzio potrà cambiare qualcosa. Forse non sarà un problema di patrimonio. La ricchezza di Bill ammonta a 133 miliardi, quella di Melinda a 70 miliardi. I due hanno anche investimenti finanziari separati con cui alimentare la Fondazione. Il tema, invece, sarà quello della gestione. Bill, 65 anni, e Melinda, 56, hanno condiviso il lavoro per venti anni. Hanno studiato, esplorato; sono cresciuti politicamente, sono diventati protagonisti del dibattito pubblico. Sempre insieme: anche questa è stata la loro forza.

Il doodle di Google. Laura Bassi, la storia della prima donna al mondo a ottenere una cattedra universitaria. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Aprile 2021. È stata la prima donna al mondo ad ottenere una cattedra universitaria. Laura Bassi, nata a Bologna il 29 ottobre 1711, era fisica e accademica. È protagonista del doodle di oggi di Google. Viene considerata la seconda donna laureata in Europa; ricordata per la sua ricerca sulla dinamica dei fluidi, nell’elettricità, nell’ottica e nella fisica newtoniana. Bassi il 17 aprile del 1732 sostenne la disputa De universa re philosophica davanti a un pubblico di letterati, professori e religiosi presso il Palazzo Pubblico di Bologna. La sua argomentazione colpì i presenti e il 12 maggio, neanche un mese dopo il suo intervento, le venne conferita la laurea in filosofia. La cattedra onoraria le valeva 500 lire annue ma poteva insegnare soltanto in alcune occasioni. Sposò ed ebbe otto figli da Giuseppe Veratti, medico. I due intrapresero insieme studi di fisica sperimentale e matematica. Si sposarono nel 1738. In casa avevano un laboratorio di fisica sperimentale newtoniana. Dal 1749 cominciò a insegnare a universitari aggirando il divieto di insegnamento per le donne. Quella casa era un salotto culturale ricco e aperto a incontri e scambi scientifici e filosofici. Le venne assegnato nel 1776 il posto di professore di fisica sperimentale nell’Istituto delle scienze dell’Università di Bologna. Bassi era particolarmente dotata in diverse materie: biologia matematica, logica, filosofia, latino, greco e francese. Molte delle quali studiate e approfondite in autonomia a casa. Tra i suoi primi allievi Lazzaro Spallanzani, lontano parente, che grazie alla sua influenza lasciò gli studi in giurisprudenza per dedicarsi alle scienze naturali. Bassi è morta, improvvisamente, la mattina del 20 febbraio 1778. Fu onorata con solenni esequie e seppellita, rivestita con le insegne dottorali.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Chi è Laura Bassi, prima donna docente universitaria, cui Google dedica il doodle. Il Quotidiano del Sud il 17 aprile 2021. Oggi, sabato 17 aprile, Google dedica il suo doodle nella pagina di ricerca a Laura Maria Caterina Bassi, una delle prime donne laureate in Italia e in Europa, e certamente la prima in assoluto al mondo ad insegnare all’università: nel 1732 a Bologna, sua città natale (nel 1711) e dove morì nel 1778. Laura Bassi fu avviata agli studi dai genitori, benestanti ed entrambi istruiti, che dopo aver riconosciuto in lei delle doti non comuni le presero un insegnante privato, Gaetano Tacconi, docente di biologia all’Università di Bologna, con il quale studiò tutto quello che altrimenti le sarebbe stato vietato nei collegi e all’università, in quanto donna. Nel 1732, con il sostegno del cardinale Prospero Lambertini (dal 1940 divenne papa Benedetto XIV) Laura Bassi riuscì a laurearsi in filosofia a soli vent’anni, in seguito entrò a far parte del collegio dei dottori di filosofia e grazie a questo ingresso ottenne una cattedra onoraria di filosofia. All’inizio della sua attività accademica poteva tenere lezione solo in occasioni speciali, ma la volta arrivò nel 1749 divenne titolare di regolari corsi di fisica sperimentale, gli unici di questo tipo in città, nel laboratorio allestito in casa con il marito, Giuseppe Veratti, medico e lettore di fisica particolare all’università. Il suo corso venne successivamente riconosciuto a tutti gli effetti dall’Università di Bologna, che le assegnò uno degli stipendi più alti dell’ateneo. Nel 1766 divenne insegnante di fisica sperimentale al Collegio Montalto di Bologna, mentre nel 1776 le fu assegnata la cattedra di fisica sperimentale all’Istituto delle Scienze. Tra i suoi alunni ci fu anche quel Lazzaro Spallanzani, suo cugino e futuro biologo famoso soprattutto per gli studi sulla fecondazione artificiale, cui è dedicato l’ospedale forse tra i più noti oggi a causa dell’emergenza coronavirus covid 19. Si sposò con Giuseppe Veratti nel 1738 ed ebbe otto figli. Morì nel 1778 a 67 anni. A Bologna le sono stati dedicati un liceo linguistico, un liceo musicale e una via nei pressi dei Giardini Margherita.

Così l’ateneo bolognese ricorda la studiosa sul suo sito, a questa pagina: “Laura Maria Caterina Bassi Verati – o Veratti (1711-1778) è la più illustre tra le donne salite in cattedra, nata a Bologna il 29 ottobre 1711. Nel 1732, il Senato e l’Università di Bologna, dopo averle conferito una laurea in Filosofia, le assegnarono una cattedra universitaria per l’insegnamento della Fisica (allora denominata filosofia naturale), in tempi in cui le donne erano ovunque escluse dagli studi e dalle professioni intellettuali. Nello stesso anno fu cooptata come socia nell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, un consesso fino ad allora solo maschile. Laura Bassi condusse un’instancabile lotta per ottenere pari condizioni nell’insegnamento e percorse una carriera intellettuale e professionale nell’ambito di istituzioni pubbliche di ricerca e insegnamento in un periodo in cui, in Italia e nel mondo, le università e le accademie erano mondi senza donne. I numerosi studi, che negli ultimi anni le sono stati dedicati, hanno messo in risalto l’importante ruolo da lei svolto nella diffusione in Italia della filosofia naturale newtoniana e delle ricerche, allora pionieristiche, sull’elettricità. Brillante lettore di filosofia, nonostante avesse numerosi figli, continuò l’attività accademica e nel 1776 ebbe la cattedra di fisica sperimentale nell’Istituto delle Scienze fondato da Marsili. Fu considerata dai contemporanei donna di eccezionale ingegno, egualmente versata in latino, logica, metafisica, filosofia naturale, algebra, geometria, greco, francese. Fu in contatto con i più importanti studiosi del suo tempo, da Volta a Voltaire, e illustri personaggi dell’epoca -di passaggio per Bologna – vollero conoscerla. Le dissertazioni di Laura Bassi, conservate all’Accademia delle Scienze di Bologna (una di chimica, tredici di fisica, undici di idraulica, due di matematica, una di meccanica e una di tecnologia) rimangono a testimoniare il ruolo di questa studiosa nella discussione scientifica del suo tempo“.

La nomina. Chi è Alessandra Galloni, la prima giornalista donna alla direzione dell’agenzia Reuters. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Alessandra Galloni sarà la prima donna a guidare l’agenzia di stampa Reuters. Un’agenzia tra le più antiche, fondata nel 1851, e autorevoli al mondo. A farlo sapere la stessa società attraverso il suo sito. Galloni è una giornalista italiana, a Reuters dal 2013, dopo una precedente esperienza nella sezione delle news italiane. “Onorata di guidare la migliore redazione al mondo”, ha twittato la giornalista. Galloni ha 47 anni, è nata a Roma, parla quattro lingue e ha alle spalle una lunga esperienza. Prenderà il posto di Stephen J. Adler, alla guida negli ultimi dieci anni e prossimo alla pensione. Con la sua direzione la testata ha vinto sette premi Pulitzer. Prima di tornare alla Reuters Galloni era stata al Wall Street Journal. Si è laureata alla Harvard University nel 1995 e alla London School of Economics con un master nel 2002. “Per 170 anni, Reuters ha stabilito lo standard per l’informazione indipendente, affidabile e globale – ha detto la giornalista dopo l’annuncio della sua nomina – È un onore guidare una redazione di livello mondiale piena di giornalisti di talento, dedicati e stimolanti”. Al Wsj aveva lavorato da corrispondente da Londra, Parigi e Roma. Galloni entrerà in carica a partire dal 19 aprile. La Reuters conta uno staff di circa 2.450 giornalisti in tutto il mondo. “Galloni – si legge sul sito della Reuters – con base a Londra, è conosciuta internamente come una presenza carismatica con un appassionato interesse nelle business news. Ha detto ai colleghi che le sue priorità includeranno spingere la componente digitale di Reuters e quella economica. Prende il timone dopo aver servito come editor globale di Reuters, supervisionando giornalisti in 200 location in tutto il mondo. all’inizio della sua carriera, ha lavorato al servizio di news in italiano. Si è laureata alla Harvard University e alla London School of Economic. È tornata alla Reuters nel 2013 dopo circa 13 anni al The Wall Street Journal, dove si è specializzata in economia e finanza come reporter ed editor a Londra, Parigi e Roma”.

Margherita Incisa di Camerana: il primo ufficiale donna marciava a Fiume con d'Annunzio. Tenente degli Arditi e moglie dell'eroe Elia Rossi Passavanti. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 marzo 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Dopo il primo pilota militare nero del mondo - italiano e orgogliosamente fascista, tanto da diventare generale delle Camicie Nere QUI  - un altro personaggio manderà dallo psicanalista gli aedi della storiografia ideologizzata. Parliamo della marchesa Margherita Incisa di Camerana, il primo ufficiale-donna del mondo in età contemporanea: interventista, dannunziana, fiumana, monarchica e moglie di un podestà. Prima di lei, nel ‘7-‘800, già l’italiana Francesca Scanagatta, la russa Nadežda Durova, la prussiana  Eleonore Prochaska, la francese Marie-Thérèse Figueur avevano indossato l’uniforme, ma tranne l’ultima, (che restò sottufficiale), tutte dovettero dissimulare  il loro sesso.  All’epoca, infatti, gli eserciti non badavano molto alle autoconvinzioni degli arruolandi sul proprio genere. Nata a Torino nel 1879 dal marchese Alberto e dalla baronessa Amalia Weil Weiss, Margherita Incisa, dopo il collegio, si arruolò nelle Infermiere volontarie il 20 aprile 1909. “Interventista convinta - scrive Elisabetta David - prese parte attiva alla propaganda per la guerra a Torino contro il disfattismo giolittiano, avendo ereditato da suo padre il più profondo disprezzo per quell’uomo di governo”. Durante tutta la Grande Guerra, oltre ad essere dama di compagnia della principessa Laetitia di Savoia,  prestò servizio attivo al fronte in vari ospedali da campo e come addetta ai doni e alla propaganda per le truppe i prima linea. Ricorderà questa esperienza in un libro, “Nella tormenta”, pubblicato nel 1929. “La futura madrina degli arditi di Fiume – spiega lo storico della Grande Guerra Paolo Cavassini -  entra in contatto con le temibili “fiamme nere” già nel maggio del ’18. Incaricata di consegnare da parte delle donne di Torino un gagliardetto all’8° reparto d’assalto, gode da subito della stima e della simpatia dei vari comandanti degli arditi, dal generale Zoppi, al maggiori Freguglia, Nunziante e Vagliasindi.  Ritroverà questi ultimi fra i fedelissimi di d'Annunzio a Fiume. Nella travagliata atmosfera della “Vittoria mutilata”, l’ex crocerossina interventista s’infiamma di passione fiumana. “Ho parlato di Fiume – registra il 12 giugno 1919 -; mi si assicura che si stanno preparando bande di volontari per difendere la frontiera. Se potessi essere utile m’iscriverei anch’io”. L’occasione arriva esattamente te mesi dopo, quando il Vate, sollecitato dagli irredentisti fiumani, rompe gli indugi e  occupa Fiume avvalendosi soprattutto di arditi. Margherita, naturalmente, è fra di loro". Iniziava un sogno rivoluzionario che sarebbe culminato nella Carta del Carnaro,  un’epopea - come scriveva il legionario Eugenio Coselschi - composta da una variegata schiera di “uomini vivi, armati di armi vere e di sentimenti umanissimi”.  Ma non solo uomini, come dimostra la Incisa, che fu nominata Tenente degli Arditi, vale a dire il corpo precursore delle nostre Forze Speciali. Dal 4 ottobre 1919 fino all’11 giugno 1920, la marchesa fu all’ufficio propaganda del Comando, poi in forza alla compagnia della Guardia “La Disperata” con varie funzioni di “commissariato”. Scriveva di lei il poeta Leone Kochnitzky: “Fra gli Arditi c’è una donna che, sopra una succinta gonna grigio-verde, porta la giacca coi risvolti neri. Prende parte alla marce, alle esercitazioni; con una virile grazia, quest’anima ben temprata si piega alle necessità rudi del blocco vigilando alla salute morale e alla disciplina delle sue truppe”…Era, dunque, l’unica “ufficiala”, come qualcuno direbbe oggi, ma non unica donna. Spiega il presidente del Vittoriale Giordano Bruno Guerri: “Le donne  a Fiume venivano considerate legionarie alla pari degli uomini. Erano spesso mogli di legionari, o crocerossine, o signore che volevano partecipare all’impresa. Giravano con il pugnale e la pistola alla cintura e molte di loro combatterono anche durante il Natale di Sangue, quando l’occupazione dannunziana fu sgomberata dal Regio esercito italiano. La Carta del Carnaro anticipò di 26 anni il diritto per le donne di votare - ed essere votate - e di 70 anni quello di indossare le stellette. A Fiume potevano condurre una vita disinvolta e “da maschiacci”». Ancor più godibile, il fatto che uno dei moralisti-maschilisti più critici con la Incisa e le sue “commilitone” fosse un socialista, Filippo Turati, che, in una lettera alla compagna Anna Kuliscioff, scriveva: “Fiume è diventato un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high life. Nitti mi parlò di una marchesa Incisa che vi sta vestita con tanto di pugnale”. E proprio in quel crogiolo di animi ardenti Margherita conobbe il futuro conte Elia Rossi Passavanti. Era  uno degli eroi più decorati (e mutilati) della Grande Guerra, più giovane di lei di 17 anni, con il quale ebbe una splendida storia d’amore che, ad onta del bigotto Turati, regolarizzò un anno dopo con un matrimonio lungo e felice. “Dopo l’esperienza fiumana – spiega lo storico militare Leonardo Malatesta – la Incisa rientrò nelle Infermiere volontarie e fu ispettrice per la provincia di Terni; partì per l’Africa orientale insieme al marito e, al ritorno, lo aiutò a diventare deputato. Durante la Seconda guerra mondiale prestò servizio nella Campagna greco-albanese presso l’ospedale di Tirana e sulla nave ospedale “Trapani”. Dal dopoguerra fu attiva con associazioni monarchiche, civiche e benefiche. Morì a Roma il 5 febbraio 1964”. I cimeli di quest’eroina, come la divisa fiumana da tenente degli Arditi, sono conservati a Terni nella casa del marito che, amatissimo podestà della città umbra, alla sua morte, nel 1985, lasciò una  Fondazione, la Ternana Opera Educatrice, col preciso scopo di premiare i concittadini meritevoli e di aprire al pubblico la casa-museo. La sua volontà non fu mai esaudita: la fondazione, oggi legata alla Cassa di Risparmio di Terni, nonostante il bilancio da un milione di euro, sostiene che “mancano i fondi”. Ma i ternani vanno all’attacco con una sottoscrizione popolare QUI e, probabilmente, con la benedizione dal cielo di una coppia di soldati non da poco: Elia e Margherita.

Miriam Romano per “Libero Quotidiano” il 22 marzo 2021. Le orecchie sventolano lente e pesanti. La proboscide si arriccia e spruzza l'acqua che sgorga come da un'antica fontana. L'età non la scalfisce. Il peso degli anni è il vessillo del suo comando, indiscusso e ponderato. L'elefante femmina più anziana è la matriarca: la regina del branco, guida eletta per dirimere le controversie, assennata avventuriera della savana. I maschi non ci provano nemmeno a soffiarle lo scettro. Il sesso dominante è quello femminile. Ogni pronuncia della matriarca, che con zampe possenti marcia lungo la terra e segna il tragitto per tutti, è perentoria. Nessuna gara di forza. Nessuno che provi a mostrare i muscoli. Ci si affida al più saggio, come suggerisce l'istinto, infallibile timone degli animali. E la saggezza è femmina. In alto, elefanti e scimmie bonobo: specie animali in cui il dominio della femmina è indiscusso. Anche nei branchi di lupi le "donne" dominano, foto sotto Il predominio femminile non vale soltanto per gli elefanti. È una costante nel mondo animale che seleziona gli esemplari di quello che noi definiamo "gentil sesso" per affidargli le redini del branco. «Le femmine sono più vigorose, più in salute, vivono più a lungo dei maschi, in virtù dell'apparato riproduttore che le rende possenti», spiega l'etologo Roberto Marchesini. «Nel mondo animale essere la fonte riproduttiva del branco ha una valenza molto significativa: il potere di far andare avanti la specie si traduce automaticamente nel potere di prendere qualsiasi tipo di decisione sociale», spiega ancora l'esperto. Agli animali, in altre parole, non servono quote rosa. Semmai quote azzurre, come dimostrano diversi casi di sottomissione maschile. «Il fatto in sé di generare figli conferisce alle femmine il comando. Come non seguire le decisioni di chi detiene un potere così grande?». La natura sovverte le logiche umane. Per le donne mettere al mondo un figlio spesso significa abbandonare il lavoro o ridurlo o non tentare nemmeno la scalata verso ruoli apicali. Fare figli relega, ancora oggi, le donne a una dimensione domestica, unico cantuccio in cui possono esercitare il potere. Tutto il contrario di quello che accade tra quattro zampe, insetti e pesci: qui le femmine sono a capo di intere società, gestiscono le lotte, decidono tempi e luoghi della caccia. L'esempio più immediato e più vicino a noi è quello dei Bonobo, scimmie che si definiscono sagge, se non altro perché dirimano i conflitti con il sesso anziché tuffarsi in guerre di sangue. Tra questi primati non vige la legge del più forte, ma le leader dei Bonobo, sempre femmine, spiccano per le grandi capacità di mediazione. Secondo gli studi, le femmine hanno una così alta capacità di coalizione da riuscire a sottomettere gli uomini: la più pertinace battaglia femminista nel mondo animale è stata vinta. Anche le strutture familiari delle orche ruotano attorno alle femmine del gruppo. Le più anziane, come per gli elefanti, detengono il potere. Sono molto più longeve dei maschi, per questo non ci sarebbe partita tra i due sessi. La matriarca vede crescere figli e nipoti e i suoi anni avanzati le conferiscono lo scettro. Per non parlare dei lemuri, altri primati molto meno docili dei Bonobo. Tra questa specie le femmine dominano con la forza. Tolgono il cibo da bocca ai maschi, gli riempiono di morsi o schiaffi quando ne disapprovano i comportamenti. Tra le iene invece le femmine sono più forti e più grandi, così sottomettono i maschi. La caccia spetta al sesso maschile, ma non per una questione di virilità: loro procurano il cibo e lo danno in pasto alle femmine. Nessun maschio provi a fiondarsi per primo sullo spuntino: i primi morsi spettano alle regine. Il mito del maschio dominante è da sfatare anche per quanto riguarda i lupi. Ci vogliono arguzia e molte abilità per governare la società dei lupi e sono le "lupe" a primeggiare. Le femmine prendono tutte le decisioni più importanti: dove andare, quando cacciare, dove fare la tana. Una maggiore parità tra i sessi, invece, regnerebbe tra gli uccelli. «In diversi casi sia il maschio che la femmina covano insieme le uova e poi alimentano i pulcini», spiega Marchesini. Ma anche nel mondo dei volatili capita che ci possa essere un sovvertimento dei ruoli rispetto al nostro mondo. «Le femmine di Jacana, grandi uccelli che camminano sull'acqua con zampe affusolate e artigli incredibilmente lunghi, hanno veri e propri harem di maschi per cui depongono le uova», aggiunge l'etologo. Queste femmine difendono persino i maschi attaccati da altre femmine mentre covano. Sono i maschi, ancora, a occuparsi dei pulcini, li portano sotto le ali, gli insegnano a procurarsi il cibo. Mentre le femmine, immemori degli affari domestici, continuano la loro vita tra paludi e laghi. Non dimentichiamo le api. La società matriarcale per eccellenza, dove domina su tutti, fuchi e operaie, l'ape regina, padrona dei destini degli insetti e custode dell'alveare. Senza l'ape regina al comando nessuna colonia di api resisterebbe. Madre di tutti, viene nutrita con la pappa reale dai sudditi. La mantide religiosa, invece, è lo spettacolare insetto che divora il maschio dopo averlo sedotto. La femme fatale del mondo animale. Durante l'amplesso il povero maschio viene decapitato e poi fagocitato. Non è un atto di crudeltà femminile. È l'istinto materno che guida la femmina: si ciba del maschio per trarre le energie per far crescere le uova. Dura è anche la vita del maschio che si accoppia con la vedova nera, vere accalappiatrici che possono attirare fino a quaranta partner in una sola notte. Dopo aver fatto fuori la concorrenza e ottenuta la sua femmina, il destino dello sventurato non è molto diverso dal maschio della mantide: anche lui viene divorato in un sol boccone.

Da liberoquotidiano.it il 15 febbraio 2021. Il botta e risposta tra Concita De Gregorio e Nicola Zingaretti non si ferma. La prima “discussione” a distanza tra i due è nata qualche giorno fa, quando la giornalista di Repubblica ha criticato la performance del segretario del Pd al Quirinale, definendolo “un ectoplasma, tutto fuorché un leader”. Per il suo giudizio, la De Gregorio si era beccata della radical chic dallo stesso leader del Partito. Adesso invece la firma di Repubblica mette nel mirino il Pd per la mancanza di una donna tra i ministri espressi dal partito. “Si osserva che la più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna (e che le donne le porta Silvio)”, ha scritto la De Gregorio su Instagram. Un vero e proprio attacco alle recenti scelte del Pd. Come scrive il Tempo, probabilmente adesso si cercherà in ogni modo di impedire a Zingaretti di rispondere ancora una volta, evitando così di dare inizio a un botta e risposta infinito. All’interno del Pd, però, ci sarebbero – rivela il Tempo - molte  parlamentari dem schierate contro Zingaretti per la risposta data alla giornalista dopo le prime critiche: “Il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra", questa una delle frasi sussurrate al Nazareno.

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2021. Nemmeno la promessa di «rimediare» allo sgarbo con i posti da sottosegretario placa la rivolta delle donne del Pd, escluse dai tre ministeri che Draghi ha assegnato ai democratici. E la proposta di Nicola Zingaretti accontenta forse solo chi è in odore di nomina. «Nel partito esiste un problema di leadership, non di riconoscimento di ruoli, incarichi o di competenze specifiche non valorizzate, lettura questa che sconta un principio di subalternità», arringa l' onorevole dem Marianna Madia. «Il problema del partito è un correntismo esasperato che condiziona le scelte e riduce ogni passaggio alla ricerca di un equilibrio burocratico».

Concorda la collega Lia Quartapelle: «Ha ragione, il problema che emerge è la leadership. E anche la politica, aggiungo».

Realista Lucia Bongarzone, responsabile Pari opportunità del Pd: «Le aspettative stavolta erano alte, per questo il tonfo è ancora più pesante. La domanda è una: nel partito c' è una cultura di genere o no? Perché altrimenti le belle proposte restano carta straccia».

Indignata Simona Bonafè, eurodeputata e segretaria regionale Pd Toscana: «La scelta del gruppo dirigente del Pd di indicare solo figure maschili è una ferita aperta, uno sfregio alla storia della sinistra».

Sostiene Cecilia D' Elia, coordinatrice nazionale Donne democratiche, che «il tema non è un risarcimento per la scelta di aver nominato ministri uomini, ma è a monte: bisogna chiedersi perché le figure apicali del Partito democratico sono tutte maschili». E rilancia: «Se Andrea Orlando lascerà la vicesegreteria, spero possa esserci una donna al suo posto».

La senatrice Francesca Puglisi sposta la prospettiva: «Tra noi donne del Pd c' è poca capacità di promuovere una leadership femminile e molta timidezza a mettersi in gioco per cariche di primo piano, anche perché è difficile raccogliere il sostegno delle altre intorno ad una candidatura». Con inevitabili conseguenze: «Spesso il rinnovamento è stato fatto sulla pelle delle donne, tant' è che è difficile trovare in Parlamento politiche di lungo corso». Per lei, che nel Conte 2 era sottosegretario al Lavoro - ministero dove adesso è approdato Orlando, esaurendo la quota dem - sarebbe pronta la nomina a sottosegretario con delega allo Sport.

«Il problema bisognava porselo prima», ragiona l' onorevole Alessia Morani, sottosegretaria uscente allo Sviluppo economico. «Ci sono tre ministri per il Pd? E allora discutiamone, pretendiamo che uno sia donna, non che stiamo zitte e poi ci stupiamo se gli uomini si sistemano tra loro».

La ferita nei dem. Niente ministre e il Pd si spacca, la protesta: “Nessuna sottosegretaria”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Non era – a quanto pare – un capriccio, una nuvola passeggera, un malumore temporaneo: le donne del Partito Democratico stanno agitando il Partito Democratico. Una ferita partita venerdì sera, quando il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato la squadra di governo. Otto ministri su 23 donne, due di Forza Italia, una della Lega, una di Italia Viva, una del Movimento 5 Stelle, tre tecniche (le uniche con portafoglio). E nessuna del Pd. Una “ferita” l’hanno definita in tante. Ormai si parla di rivolta. E quindi è partito l’hashtag #graziemaNOgrazie, a indicare il probabile rifiuto, una specie di scintilla rivoluzionaria, a ricoprire incarichi da sottosegretarie o viceministre, un rimedio che a quanto trapelato il segretario dem Nicola Zingaretti aveva pensato di adoperare per placare la rivolta. “E se tutte le donne di centrosinistra cui verrà chiesto di fare da sottosegretarie, o viceministre, dicessero: ‘No, grazie, come se avessi accettato’, e cominciassero a costruire qualcosa per uscire dall’angolo davvero?”, aveva scritto sui social la giornalista Annalisa Cuzzocrea. Una proposta che non è passata inosservata. Dei problemi della leadership femminile nella politica ne aveva parlato in un’intervista a questo giornale la scrittrice Giulia Blasi. Il tema è scottante, e anima il Partito in queste ore. La portavoce della conferenza delle donne democratiche si riunisce oggi. La portavoce Cecilia D’Elia parla di “ferita”, l’ex Presidente della Camera Laura Boldrini sposa la campagna: “Non può bastare qualche posto da sottosegretaria”; l’ex ministro Livia Turco definisce la mancanza di donne dem “frutto di una logica maschilista e correntizia”; Debora Serracchiani fa notare come si tratti della prima volta “in cui nella delegazione di governo del Pd non c’è una rappresentanza femminile”; l’ex ministra Roberta Pinotti parla di una “sconfitta per tutti”; “un’assenza che stride molto” per Rosy Bindi; un “problema di coerenza per la presidente della commissione femminicidio Valeria Valente, Lia Quartapelle parla di occasione mancata per dare un “esempio sulla parità”, caustica Giuditta Pini: “Per il women new deal c’è tempo compagne, oggi no, domani neanche, dopodomani sicuramente, lo metteremo in un odg”. La sollevazione insomma è quasi unanime. Dal Nazareno si sforzano a far sapere che le scelte sui ministri dem – Dario Franceschini alla Cultura, Andra Orlando al Lavoro, Lorenzo Guerini alla Difesa – sono state di Palazzo Chigi e Quirinale. Zingaretti “si è speso moltissimo per le donne”, ha detto Valentina Cuppi, presidente del Partito dal febbraio 2020. Niente da fare: la crepa è partita. La protesta potrebbe esaudirsi nel rifiuto ai sottosegretariati – nel dibattito non manca chi fa notare che si tratti comunque di ruoli rilevanti. La questione centrale della polemica è il ruolo di leadership delle donne nel partito, non quote rosa ma argomento di subalternità complicato dal correntismo esasperato, come ha scritto l’ex ministra Marianna Madia su Huffington Post. Tutto un paradosso per chi promuove e si erge a paladino di diritti e parità mentre il centrodestra porta nell’esecutivo tre donne e sempre nella destra, in Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni siede sullo scranno più alto ed è la politica più influente in Italia. Matteo Renzi, l’ex segretario e fuoriuscito dal partito, che ha fondato Italia Viva, nel governo rappresentato alle Pari Opportunità da Elena Bonetti, gira il coltello nella piaga del Pd che “non riesce a proferire una parola credibile sul tema femminile”.

Concita De Gregorio umilia il Pd e Zingaretti: "La più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna, le donne le porta Silvio". Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Il botta e risposta tra Concita De Gregorio e Nicola Zingaretti non si ferma. La prima “discussione” a distanza tra i due è nata qualche giorno fa, quando la giornalista di Repubblica ha criticato la performance del segretario del Pd al Quirinale, definendolo “un ectoplasma, tutto fuorché un leader”. Per il suo giudizio, la De Gregorio si era beccata della radical chic dallo stesso leader del Partito. Adesso invece la firma di Repubblica mette nel mirino il Pd per la mancanza di una donna tra i ministri espressi dal partito. “Si osserva che la più a sinistra in questo governo è Mara Carfagna (e che le donne le porta Silvio)”, ha scritto la De Gregorio su Instagram. Un vero e proprio attacco alle recenti scelte del Pd. Come scrive il Tempo, probabilmente adesso si cercherà in ogni modo di impedire a Zingaretti di rispondere ancora una volta, evitando così di dare inizio a un botta e risposta infinito. All’interno del Pd, però, ci sarebbero – rivela il Tempo - molte  parlamentari dem schierate contro Zingaretti per la risposta data alla giornalista dopo le prime critiche: “Il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra", questa una delle frasi sussurrate al Nazareno. 

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 14 febbraio 2021. Una ferita che brucia, e non solo alle donne del Pd. Ascoltando la lista dei ministri, è stato Zingaretti per primo a rendersi conto che a sinistra erano tutti maschi. Lasciato al buio da Draghi, il segretario dem sperava che - al netto delle manovre dei capicorrente - la sua richiesta di rispettare «il valore della differenza di genere» avanzata in Direzione, avrebbe trovato orecchie più attente. E invece lo spettacolo offerto al Paese di una destra che premia le donne (due su tre Fi, una su tre la Lega) e di un centrosinistra che le mortifica (quattro uomini su quattro, Leu inclusa) è stato devastante. Una valanga rosa s' è staccata dal Nazareno, obbligando Zingaretti alla contromossa: se sui sottosegretari il premier darà libertà ai partiti, lui indicherà solo donne. E pazienza per i delusi: citofonassero ai capibastone, nel frattempo diventati ministri. «Non credo accadrà, ci sono troppi aspiranti. Se però lo facesse, sarebbe un bel segnale: la prova che Nicola vuol finalmente far saltare gli equilibri di corrente», reagisce Lia Quartapelle, una delle deputate più infuriate. «Il nostro statuto prevede metà delle cariche per le donne », spiega. «Se ci fossimo comportati come Forza Italia oggi avremmo un governo con dieci ministre e tredici ministri, in linea con la rappresentanza di genere a livello europeo ». Perciò «Berlusconi è stato più bravo di Zingaretti». Concorda Laura Boldrini: «Occorre scardinare l' assetto delle correnti che schiaccia il protagonismo femminile e impedisce il rinnovamento». Ma per Marianna Madia la questione è un' altra: «Le donne del Pd hanno un problema di leadership, che non si ottiene per concessione, ma si esercita con battaglie sulla linea politica. Se la risposta sarà la spartizione di qualche posto da sottosegretario resteremo al punto di partenza. Forse peggio », taglia corto l' ex ministra, criticando la gestione "machista" della crisi. È questo il nodo da sciogliere: le donne dem che vanno avanti solo per cooptazione, sperando di arrivare prima e meglio. «Si sono illuse che funzionasse essere "in quota" a capicorrente o inserite per prossimità, anziché per competenza o consenso », annuisce Debora Serracchiani. E guarda adesso: «Per la prima volta il Pd al governo non ha una rappresentanza femminile». E la colpa «non è semplicemente degli uomini, anzi», spiega Anna Ascani: «Spesso ci siamo relegate in correnti a guida maschile per comodità. Abbiamo lasciato che fossero gli uomini a "indicarci" in ruoli di responsabilità secondari. Abbiamo schernito chi di noi provava ad emanciparsi. Forse quanto è successo ci permetterà di cambiare passo». Brutalizza Monica Nardi, ex portavoce di Enrico Letta, segnalando «la corsa al tweet sdegnato delle donne pd, tutte inquadrate in correnti rette da uomini, cooptate senza un voto che è uno. Fatela la politica, scalateli i partiti, prendeteli i voti». Eccolo il punto: è arrivato il momento di esporsi, di lanciare la sfida alla segreteria, quando sarà. Prendendosi nel frattempo il posto di vice-leader che Andrea Orlando dovrà lasciare e poi uno dei due capigruppo in Parlamento. La controffensiva verrà lanciata già domani, alla Conferenza delle democratiche convocata «per decidere come agire». Perché «la misura è colma», sbotta la presidente Valentina Cuppi, scagionando però Zingaretti: «Il più scontento è lui, la scelta dei ministri l' ha fatta Draghi». Che ha pure suscitato «la profonda delusione » della rete "Donne per la salvezza". Mentre nel Pd resta l' amarezza per un' esclusione che, segnala Orfini, «non è un problema solo delle donne, ma di tutto il partito».

Zingaretti, su "Repubblica" sinistra elitaria e radical chic. (ANSA il 30 gennaio 2021) "Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l'eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo". Così il segretario del Pd Nicola Zingaretti su Facebook critica duramente l'articolo dal titolo "La sinistra timida pilotata dagli eredi della Dc". "Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazione al Quirinale - prosegue Zingaretti riferendosi ai giudizi su Matteo Renzi - è un esempio, chi rispetta quel luogo una nullità. La prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta".

Fulvio Abbate per Dagospia il 4 febbraio 2021. Alla fine, è stato un “uomo senza qualità”, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, a spezzare le brame di un piccino mondo di sinistra convinto d’essere intoccabile. In possesso dell’occorrente completo di ciò che altrove, dove esserlo è invece possibile, consente una dimensione da veri “radical chic”. Il medesimo mondo che nel corso dell’ultimo ventennio, svanito il Pci, ha ritenuto necessario dare a se stesso un proprio seguito professionale invidiabile e benefit ulteriori, forte dell’applauso perfino di signore acefale, ma in ogni caso di buone letture, sicure che Veronica Lario fosse “una compagna” e, più recentemente, che Melania nutra in cuor suo politico disprezzo per Trump. Dunque, anche lei una femminista quasi come, un tempo, Carla Lonzi. Che imbarazzante candore, supportato, s’intende, dall’Invece di Concita De Gregorio. Invece, con un semplice tweet, Zingaretti, amorfo ex quadro cittadino della Fgci di via dei Frentani, così ai loro occhi, ha abbattuto un castello di carta profumata d’Eritrea che nel tempo, anche grazie all'amico Walter, era convinto della propria esistenza, meglio, della propria invidiabile persistenza. Un’enclave forte dei propri riti: serate a sgranocchiare cipster davanti al Festival di Sanremo in case di edificanti narratori, ad applaudire recital letterari alla Basilica di Massenzio, a mostrarsi ai vernissage del MaXXI, anche questo affidato a una signora del medesimo contesto, Giovanna Melandri, a pronunciare frasi da anime belle, davvero ispirate, dagli studi di Radiotre di Marino Sinibaldi, un altro cooptato ancora nel circoletto. Con la sua reazione a calco, nel cupio dissolvi della sinistra romana (dunque, italiana) il negletto (sempre ai loro occhi) segretario Pd ha preso di fatto a calci un mondo che, sempre nel tempo, era convinto della proprio inscalfibile invincibilità. E dei propri benefit. Che pena e imbarazzo per l'autore stesso, la difesa d’ufficio di Michele Serra corso a supporto morale della collega di “Repubblica”. Chissà quante persone dovrà consolare in questi giorni Veltroni, che di quel mondo è stato garante e principe dispensatore di opportunità. La verità? Magari, si potesse vivere nei lussi da radical chic nel desolante mondo della sinistra italiana, dove, nel migliore dei casi, è concessa una dimensione da condomini.  Resta però che grazie a Zingaretti da oggi siamo tutti finalmente liberi!

Boldrini attacca: "Nel Pd potere a uomini". L'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, fa autocritica: "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini". Rosa Scognamiglio, Lunedì 15/02/2021 su Il Giornale. "Girl power", direbbero agli inglesi. Uno slogan che ben si addice alla ex presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, che in questi anni ha condotto fior fior battaglie femministe - o presunte tali - nell'aula parlamentare di Palazzo Chigi. Ma stavolta lo fa, con un pizzico di inaspettata autocritica, nei confronti del partito democratico dove è approdata appena 2 anni fa, nel 2019, dopo esser passata da SI (2017) e Futura (2018) nel giro di un biennio. "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini", dichiara in un'intervista all'agenzia stampa Adnkronos. Tira già aria di burrasca? Chissà. Le "rappresaglie di genere" della Boldrini, di certo, non sono una novità. Tuttavia, stupisce che "si armi" proprio contro il PD, di cui ha sempre tessuto le lodi. "Nel Pd la gestione del potere viene considerata una questione per soli uomini e in questa occasione il partito si è dimostrato per quello che è: un partito che non mette l'uguaglianza di genere tra le sue priorità. - dice ai microfoni di Adnkronos - Non fa parte della cultura di questo partito. Basta vedere i candidati alle regionali. Ora vedremo come andrà con le amministrative...". Che non abbia mai digerito l'assenza di una "quota rosa" consistente ai piani alti di Palazzo Chigi, era noto già da tempo. Lo conferma l'idea di adibire una "sala delle donne" in quel di Montecitorio dove ci sono "specchi appesi al posto dei ritratti mancanti di donne nei ruoli di presidenti della Repubblica, del Senato e del Consiglio". Ma adesso sembra avere tutta l'intenzione di dare seguito concreto ai suoi nobili propositi. La ex-presidente della Camera ha seguito oggi la riunione via remoto delle donne dem - dopo la rivolta per la delegazione dem di governo tutta al maschile - che è stata riaggiornata a domani. "specchi appesi al posto dei ritratti mancanti di donne nei ruoli di presidenti della Repubblica, del Senato e del Consiglio - ha spiegato - Qui noi siamo di fronte a uno scollamento dalla realtà: da una parte i documenti, gli odg, le iniziative, i materiali e poi niente di tutto questo si concretizza. E questo stride se messo a confronto con i partiti progressisti degli altri Paesi europei. Prendiamo la Spagna, paese latino come il nostro: al governo ci sono 6 ministri uomini e 11 donne. In Francia sono pari. Ma in Italia ancora il Pd non ha capito che questo è un tema imprescindibile anche in termini di consenso". E quindi, che cosa si propone? "Intanto occorre la compattezza delle donne, innanzitutto. I posti si devono ottenere combattendo e non per cooptazione. Ma serve anche uno sforzo culturale di questo partito: l'uguaglianza di genere deve essere una priorità. A partire dal vicesegretario. Ma sarebbe bene che" una dualità di genere "ci fosse per ogni incarico: un uomo e una donna per ogni incarico sul modello dei Verdi europei. Le proposte ci sono. Il punto è che così non si può andare avanti e quello che è accaduto non può essere derubricato come una cosa marginale".

Annalisa Cuzzocrea per "la Repubblica" il 16 febbraio 2021. Neanche lo shock di ritrovarsi tutti maschi al governo riesce a suscitare nelle donne Pd un moto d'orgoglio, la voglia di far pagare a caro prezzo l'onta subita. Dal partito tutto, non solo da loro: ostaggio di capicorrente che hanno azzerato la rappresentanza femminile, restituendo l'immagine di una forza retrograda e antistorica. «Un gravissimo problema a cui troveremo una soluzione», ha promesso ieri Zingaretti. Aggiornata a oggi per le conclusioni, il primo round della Conferenza delle democratiche finisce con un nulla di fatto. Consolidando la spaccatura tra chi, per fare un favore al segretario, preferisce annacquare il dibattito, buttandola sui posti di sottogoverno che vanno presi per attutire il colpo; e chi invece spinge per allargarlo, convocando subito la Direzione: il danno prodotto è troppo grave, non si può far finta di niente. Appartiene alla prima scuola la portavoce Cecilia D'Elia, zingarettiana di ferro. Dopo aver spiegato che «il pluralismo delle correnti ha prevalso, mettendo tra parentesi la questione di genere: una terribile sottovalutazione, una ferita, una battuta d'arresto», D'Elia ha incalzato sulle compensazioni. «Bisogna che qualcosa succeda subito. Non per risanare la ferita, o compensare l'assenza. Il tema della sottosegretarie o viceministre non è questione di risarcimento, non ci accontentiamo delle retrovie. È un dato di fatto, ci sono donne competenti, il Pd dia un segnale subito e netto su questo». Senza dimenticare gli incarichi di partito, dove però, attenzione, i maschi non devono fare un passo indietro, sono le donne che devono affiancarsi. «Non ho chiesto le dimissioni di Orlando, a cui rinnovo la mia stima», precisa infatti D'Elia, reduce da una ramanzina dei vertici. «Però penso che ci possa essere una vice donna, come aveva fatto Zingaretti all'inizio con la vicesegreteria duale di Orlando e De Micheli». E comunque se ne potrà parlare, propone, alla prossima assemblea. Parole che però fanno indignare Titti Di Salvo, numero 2 della Consulta che - come pure Marta Leonori e tante altre lì dentro - pensa che «quanto è accaduto è una sconfitta e un errore», altro che battuta d'arresto. «In un partito che ha tre luoghi per le donne - Conferenza, Dipartimento pari opportunità, Women new Deal - e zero ministre qualcosa non torna. Si dimostra l'inefficacia di questo assetto». Specchietti per le allodole, mentre i maschi si prendono tutto. «Noi abbiamo bisogno di ingaggiare una battaglia politica negli organismi di vertice per riaffermare l'idea di un Pd contemporaneo fatto di donne e uomini», che devono vedersi entrambi. Perciò va convocata la Direzione. Per parlarne tutti, guardandosi in faccia. Come ha fatto ieri, sfogandosi, l'ex ministra De Micheli. «Io al Mit ho sempre lavorato a testa bassa, senza preoccuparmi di intessere rapporti che potessero proteggermi», ha raccontato. «E forse è stato uno sbaglio. Quando mi hanno attaccato, anche nel mio partito, nessuna di voi mi ha difesa. Mi sono sentita sola». Perché nel Pd non è solo la leadership femminile che manca, come denuncia Anna Ascani. A mancare, fra le donne dem, è innanzitutto la sorellanza.

Annalisa Cuzzocrea per "la Repubblica" il 16 febbraio 2021. Marisa Rodano ha compiuto 100 anni e crede ancora nella lotta. Nei simboli, anche, lei che è nata nello stesso giorno del Partito comunista italiano, il 21 gennaio del 1921. Lei che - l'8 marzo 1946 - scelse la mimosa per festeggiare la festa internazionale della donna, un fiore povero, ma una pianta robusta, tenace. Risponde al telefono a ora di cena, l'ex dirigente del Pci, del Pds, dell'Unione donne italiane. Antifascista, partigiana, parlamentare, prima donna a ricoprire l'incarico di vicepresidente della Camera, Rodano ha 5 figli, 11 nipoti e un'idea precisa del perché il Pd non abbia nominato neanche una ministra: «Io penso che ci sia, anche a sinistra, per lo meno in una parte della sinistra, l'idea che in realtà più donne ci sono, meno posti ci sono per gli uomini».

Ancora? E soprattutto, perché?

«Perché malgrado tutto resiste quella vecchia convinzione per cui le donne debbano occuparsi della famiglia, dei bambini, di un'area solo parapolitica».

Siamo rimasti agli anni '50?

«Stupisce anche me, ma devo dire che l'impressione di chi vede le cose da fuori - attraverso i giornali, la televisione, stando chiusa in casa come devo fare io ora - è questa».

Ma non crede ci sia stata una regressione? Lei ha rivestito ruoli importanti, in Parlamento, nel partito ...

«Non tanto importanti, mi sono sempre occupata delle donne». ( Dalla cornetta arriva un sorriso, un cenno di ironia).

Ci sono state per anni troppe riserve indiane, a sinistra, luoghi specifici dove confinare il pensiero femminile?

«Per parecchio tempo gli uomini hanno pensato che le donne potessero occuparsi solo di materie particolari, relative ai bambini, alla famiglia, alla cura, non delle stesse cose di cui si occupavano loro».

Hanno paura?

«Non è che hanno paura, hanno la convinzione che spetti a loro».

Cosa bisogna fare, quindi?

«Continuare a battersi per una equilibrata presenza delle donne in tutti i luoghi in cui si decide. Una presenza paritaria».

Per anni si è affidata questa missione alle quote rosa.

«È una parola che non mi è mai piaciuta. Non vorrei si continuasse a parlare di quote, bisognerebbe concentrarsi sul fatto che le donne devono avere gli stessi diritti, le stesse opportunità. In tutti questi anni mi sono battuta per questo. E penso anch' io che le donne del Pd dovrebbero rinunciare a tutti i posti di sottogoverno che saranno loro offerti, fare un gesto simbolico forte che rimetta tutto in gioco».

Non pensa che questa situazione sia anche generata da una sorta di timidezza delle donne in politica. Dalla certezza di poter ottenere qualcosa solo mettendosi dietro al capo - uomo - di turno?

«Non credo questo. Penso che le donne siano state negli anni troppo occupate, impegnate a sostenere la loro attività sia dentro che fuori dalla famiglia. Una vita faticosa, difficile».

I tempi in cui si riteneva che il loro unico dovere fosse fare figli sono finiti, o no?

«C'è stato un avanzamento dal punto di vista intellettuale, ma da quello pratico, se guardiamo alle misure concrete per la vita quotidiana, che consentano di conciliare lavoro e famiglia, non è stato fatto quasi niente».

È una sconfitta della sinistra?

«Oggettivamente lo è. E non credo dipenda dalle debolezze delle donne, ma dal tipo di politica che i dirigenti del Pd hanno condotto negli ultimi anni e nelle ultime settimane».

Che consiglio darebbe alle donne che fanno politica nel Pd?

«Di continuare a battersi per avere il ruolo che spetta loro e per ottenere quelle misure che rendono possibile la conciliazione lavoro-famiglia. Perché se non vanno avanti le politiche che servono a tutte le donne, non vanno avanti neanche le donne in politica».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 15 febbraio 2021. Donne si, donne no. Poche, troppo poche in questo governo. E la pezza dei vertici del Pd che ora, giurano, le indicheranno in massa per il ruolo di numeri due non copre il buco, anzi. C' è sconcerto a sinistra, gode la destra di Giorgia Meloni. Un loop da cui non si esce, ammette la scrittrice Lidia Ravera, nume tutelare di una sinistra femminista rispetto a cui, pure, ha preso posizioni scomode, scandalizzando i perbenisti e anticipando i tempi. E chi ricorda solo il romanzo di formazione «Porci con le ali» si è perso una vita di battaglie in prima linea, compresa l' ultima, quella, fino al 2018, di assessore alla Cultura e alla Politiche giovanili nella Regione Lazio guidata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti.

Signora Ravera, cosa pensa della componente femminile nel nuovo governo Draghi?

«In questo sono radicale. Ho postato su Facebook il mio pensiero in proposito: le donne in politica dovrebbero imporre la loro diversità, le loro differenze. Invece vengono assunte per cooptazione e per somiglianza agli uomini. "Le uome" , le chiamo io».

Sarebbero, esattamente?

«Parlano la lingua maschile e non impongono mai la visione femminile del potere e della politica».

Vuol dire che anche stavolta dovevamo aspettarcelo un governo con poche donne?

«Personalmente vado oltre il contingente, mi pongo al di là delle scelte di questo Governo. Le donne del Pd sono state usate e poi emarginate. Non è neppure una interpretazione politica del famoso tetto di cristallo. E non si illudano di rappresentano le altre donne, non è così. Sono invece omogenee, fanno gli stessi giochi maschili che peraltro sono giochi che le vedono perdenti. Dovrebbero imporre un modello capace di aprire uno spazio diverso sul mondo. Non è che io voglia estirpare il maschile ma non credo in un nostro ruolo subalterno, non credo che ci dovremmo accontentare. Dovremmo essere equipollenti. Vado oltre le logiche della destra e della sinistra».

L' attualità è un luogo angusto?

«L'attualità è figlia di una mancata rivoluzione che ci poteva far raggranellare qualche briciola di dignità politica ma non è riuscita, perché queste geometrie seguono regole di una professione che non è delle donne. Non esiste una storia che possa raccontare le donne in politica».

Come siamo arrivate a questo punto?

«Le donne non hanno fatto irruzione nel Palazzo imponendo la loro diversità. Sono entrate e basta».

Un quadro senza speranze?

«No credo invece che la speranza ci sia, prima o poi l' irruzione ci sarà, rispettando altri tempi, altre lingue, altri riguardi. Imparare il gioco maschile è impossibile e masochistico».

Forse, se all' epoca del femminismo si fosse osato di più?

«Sull' onda del femminismo montante, forse sbagliando, non ci siamo mai misurate con la politica parlamentare del Palazzo, tranne sparuti casi. Negli anni Settanta la politica si combatteva fuori, mai affrontata come impegno professionale della rappresentanza. Esistevano altre parole d' ordine. Ora siamo in stallo».

E la speranza?

«La rivoluzione femminista è un fiume carsico, s' interrompe, s' inabissa, torna. Le donne che non hanno più coscienza di loro stesse devono passare il testimone ai movimenti che non tornano indietro, movimenti lontani da giochi lobbistici e narcisisti».

In che cosa sbagliano le donne in questo gioco?

«Gli uomini fanno rete e le donne no. Ogni posto dato a un uomo è una vittoria della specie perché si tratta di un posto tolto a una donna. Dunque non cedono nulla con cavalleria».

Questo in politica ma in altri ambiti la situazione è differente?

«La percentuale di peso è la stessa anche in mondi diversi. Prendiamo i premi letterari. Lo Strega, contiamo quante donne l' hanno preso rispetto agli uomini...»

Eppure era un premio inventato da una donna, condotto da una donna e per decenni tenuto in mano da un' altra donna.

«Appunto, le donne non fanno rete e non si proteggono a vicenda. A parte questo, esistono due soggetti non uno solo e non uno inferiore all' altro. Un principio che nella sua semplicità viene coniugato con emancipazione».

E si torna così alla rivoluzione di cui sopra?

«Se le donne si arrabbiassero e decidessero veramente forse la politica italiana potrebbe cambiare, addirittura si riuscirebbe a colmare la distanza che separa la politica dai cittadini comuni. La lingua delle donne, i loro tempi, la loro complessità potrebbe veramente travolgere le regole del gioco. Come vede è tutto molto più complesso di questo governo e della situazione interna al Pd».

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 15 febbraio 2021.

Luciana Castellina, perché la sinistra non ha portato nessuna donna al governo?

«La deluderò, ma non sono mai stata una grande appassionata delle quote femminili: non è che cambia la società se una donna s' infila nei ruoli maschili».

Cosa intende dire?

«Potremmo anche occupare più posti in un governo, e ovviamente sono favorevole, ma se non modificheremo leggi, codici e orari, abbattendo il modello maschile che ci viene spacciato come neutro, non ne verremo a capo».

La politica non è fatta anche di simboli?

«Il 70 per cento delle donne manager non fa figli. Il problema quindi è fare in modo che tutte le donne che assumono responsabilità possano anche fare i figli e gestire una famiglia».

Come definirebbe la sua posizione?

«Semplicemente non m' interessa essere uguale all' uomo, l' ho capito tardi».

Non la pensava così da giovane?

«All' epoca tendevo a nascondermi le tette pur di non fare capire che ero una donna».

Come lo spiegherebbe oggi a una giovane?

«Con il fatto che una bella era spesso considerata anche stupida».

Quando ha cambiato idea?

«Grazie alla generazione di mia figlia, che ha fatto una battaglia per il femminismo della differenza. Loro hanno capito che serviva portare la nostra diversità al potere».

Il fatto che ci siano solo 8 donne su 23 come lo valuta?

«Non è bello, perché non ci hanno pensato, nemmeno Draghi. Ma non lo ritengo decisivo. Vantiamo un credito storico. E quindi allora bisognerebbe stabilire il 75 per cento della presenza femminile per risarcire la discriminazione millenaria, come affermava il codice della Repubblica popolare cinese, anche se poi se lo sono dimenticati».

È un' Italia più maschilista di un tempo?

«Al contrario. Gli uomini sono molto in crisi, anche perché le donne hanno imparato a pretendere che la comunità porti il segno della loro presenza».

Non ci sono troppi femminicidi?

«Non c' è dubbio, ma sono la prova della crisi di cui le parlavo, e infatti muoiono le donne che hanno osato fare una scelta di autonomia».

L' uomo ha perso potere?

«Ha perso autorità, non potere. Pensi al Me too, un tempo nessuno avrebbe creduto alla donna. I manager di Hollywood invece sono stati tutti condannati per molestie».

Lei è la prova che una donna di valore può arrivare in alto.

«In tante ce l' hanno fatta, anche meglio di me. A tutte è costata fatica, dolore, lotta, e infatti ne portiamo le cicatrici. Guardi la von der Leyen, fa un lavoro pesantissimo e ha sette figli, perciò l' ammiro».

La destra le donne però le ha nominate ministre.

«È una cosa che mi lascia freddina».

Le piace il governo Draghi?

« Sono molto scontenta. Alla transizione ecologica c' è uno che approva la politica dell' Eni, siamo al greenwashing, alla vanteria ambientale. Un fisico che si occupa di nanotecnologie, poi, non un ecologo».

Non va giudicato con i fatti?

«Mi fa impressione che ci sia Giorgetti allo sviluppo economico, un uomo vicino alla Confindustria, che vuole lo sblocca-cantieri: costruzioni e produzioni anche se nocive».

Draghi voleva pure sua figlia Lucrezia Reichlin nel governo.

«È candidata ogni volta e poi non accade mai».

Perché?

«Forse perché vive a Londra».

Insomma, boccia Draghi?

«È un uomo intelligente, e in Europa conduce le mie stesse battaglie. Ma mi sarei aspettata di più».

Su Dagospia il 15 febbraio 2021. Luciano Capone 14 feb: Molte donne di centrodestra si fanno strada e si affermano perché sono abituate a dover lottare per vincere stereotipi e pregiudizi, spesso alimentati anche da donne di sinistra. Un esempio è questo confronto dialettico tra Mara Carfagna e la Costamagna.

Selvaggia Lucarelli per "Libero" il 15 febbraio 2021. I momenti tv Eva contro Eva sono sempre imperdibili. E memorabile è stato anche lo scontro tra la conduttrice disperata Eva Longoria Costamagna e la sexy maliarda ex ministra Eva Mendes Carfagna. Ne è uscita, a pezzi, la Costamagna. Che ha sbagliato tutto. E più precisamente, punto per punto:

a) Le argomentazioni tipo "perchè dopo che lei è diventato ministro ha cambiato immagine?" non sono materiale con cui incalzare l'avversario Carfagna. Ovvio che ‘sta donna non poteva fare il ministro conciata come quando regalava il vaso cinese ai telespettatori. Era argomento da battuta, che andava detto per prenderla amorevolmente per i fondelli, non per costruirci un'accusa.

b) Io fossi stata la Costamagna, avrei applicato il metodo Carfagna. Un po' di trucco in meno, il boccolo più floscio, la gonna più lunga. Se sei lì a mettere i puntini sulle i in stile maestrina e l'argomento principe è che Mara è una showgirl promossa a ministro, l'abito fa il monaco. E alla prima occhiata, non devi sembrare tu, la showgirl che parlava col comitato e cantava "O sole mio" con Magalli.

c) La mimica facciale non è un'opinione. E la comunicazione non verbale neppure. La Costamagna faceva più smorfie di Jim Carrey in Ace Ventura-l'acchiappanimali tradendo un certo nervosismo, mentre la sfinge Carfagna incassava impassibile, sorrideva, deglutiva e poi lanciava il missile.

d) Di fronte a una che dice con piglio sicuro: "Non ho mai rinnegato il mio passato", c'è poco da stare a inzigare ulteriormente. L'avesse detto la Melandri, quando Briatore giurava di averla avuta ospite a casa sua a Capodanno a Malindi, l'avesse ammesso che faceva i trenini con Fede e la Zardo a suon di Brigitte Bardot Bardot, sarebbe stata più simpatica a tutti, la sora Giovanna.

e) Perchè dire calendario sexy se non era calendario sexy? Perchè andare a cercare lo stereotipo da camionista per svilire l'avversario? Cioè, aveva scheletri nell'armadio ben peggiori ‘sta Carfagna. Poteva dirle "Lei ha condotto un programma con Davide Mengacci!" e l'annichiliva. Altro che calendario sexy.

f) Che razza di domanda è "È più simpatico Berlusconi o è più simpatico Santoro?". Che minchia di domanda è "Berlusconi è brutto e vecchio?"? E perché non "preferisci mamma o papà" allora? "Meglio Branko o Paolo Fox"? o "Come nascono i bambini? o "Meglio al latte o fondente"? Ma chi gliele ha scritte le domande? Moccia?

g) Diciamocelo. La battuta sui pettegolezzi riguardanti la Costamagna e Santoro è stata un piccolo capolavoro di strategia bellica. Qui l'abilità della Carfagna è stata memorabile. La sensazione è questa: il modo in cui Mara l'ha appoggiata, buttata lì, quasi sussurrata ad occhi bassi, lascia intendere che era il suo asso nella manica. Che tutto sommato se la sarebbe anche risparmiata, se l'altra non fosse ricorsa ai colpi bassi. Della serie: io non la uso, ma se mi costringe, so' cazzi della bionda.

h) Che razza di difesa è : "Quando sono andata a lavorare con Santoro io ero già giornalista"?. Allora l'altra quando è stata nominata ministro era già consigliere regionale, se la vogliamo mettere su questo piano. Anzi, se la vogliamo mettere su questo piano, la Toffanin è giornalista, Iva Zanicchi ha scritto un romanzo e Sara Tommasi è laureata alla Bocconi.

i) Sempre a proposito di espressioni facciali. La vera notizia è che la Carfagna non ha più l'occhio sgranato di chi ha appena visto Boateng senza mutande. S'è ammorbidita. La Costamagna, invece, ha la faccia di quella che ha visto Telese, senza mutande. Della serie: meglio zitella.

E comunque, io una spiegazione sull'accaduto ce l'ho. Il programma su Rai 3 è una copertura. Luisella Costamagna è in realtà il nuovo ufficio stampa di Mara Carfagna. Neanche Lucherini, dopo tutto quello che s'è detto di lei, sarebbe riuscito a trasformarla, dopo sei minuti di intervista su Rai 3, in una gradevole, pacata, ragazza normale. Manco se l'avesse intervistata Mollica, ne sarebbe uscito un ritratto migliore. E come ha scritto qualcuno sul mio twitter: la Costamagna è alla deriva, come tutte le Costa, di questi tempi.

 Francesco Borgonovo per "la Verità" il 16 febbraio 2021. Fuori, nel mondo reale, deflagra la rabbia dei gestori degli impianti sciistici, dei ristoratori, degli albergatori, di gente che, nell'arco di una notte, si è vista letteralmente togliere il pane di bocca dai sedicenti esperti del governo. Ma dentro, nella bolla ideologico-mediatica in cui abita la gran parte dei politici e degli intellettuali italiani, il problema è uno solo: l'esclusione delle donne del Pd dai ministeri. La senatrice Monica Cirrinnà, ieri, ha avuto un accesso d'ira: «Siamo un partito che predica bene sui temi femministi ma poi razzola male, un partito falsamente femminista», ha detto a Un giorno da pecora. «Perché? Per debolezza assoluta e per egemonia degli uomini. Questo è un partito di correnti al cui capo ci sono tutti maschi». Pure le Signorine Grandi Firme progressiste della carta stampata sono sul piedino di guerra. Invocano addirittura una sorta di sciopero delle donne, come nella Lisistrata di Aristofane. Invitano cioè le esponenti del Pd a rifiutare il ruolo di sottosegretario qualora venisse loro offerto come compensazione. L'idea del contentino l'ha avuta Nicola Zingaretti: per ovviare al tremendo problema della sottorappresentanza femminile nell'esecutivo, ha proposto di indicare «solo donne» per i posti da sottosegretari. Una trovata che non si sa se sia più ridicola o più triste (del resto l'ha escogitata il segretario dem), che le intellettuali sinistre hanno respinto al mittente. «C'è da augurarsi che le donne del Pd, ammesso e non concesso che si offra davvero loro l'occasione per farlo, non si prestino ancora una volta a interpretare il più sessista dei modi di dire, accontentandosi di essere grandi sottosegretarie dietro a grandi ministri», tuona Michela Murgia dalle colonne della Stampa, «perché preferire la mediazione alla lotta è un lusso che si può permettere solo chi ha già voce in capitolo». Su Repubblica, invece, Concita De Gregorio ringhia non solo all'indirizzo degli uomini oppressori, ma perfino contro le donne che sono rimaste in «silenzio alla vigilia delle decisioni prese dai maschi bianchi che governano la specie» (perché, fossero neri cambierebbe qualcosa?). Secondo Concita, lo stesso termine sottosegretarie, in quanto composto da «sotto» e «segretarie», dovrebbe «di per sé suscitare diniego». Vedremo poi quante esponenti piddine saranno pronte a rinunciare a incarichi e prebende pur di tenere il punto e dare battaglia, ma che accettino o meno ci interessa relativamente. A irritare è, piuttosto, l'arroganza con cui la questione delle «democratiche al potere» sta rubando tempo ed energie, nonché spazio nel dibattito. Sul tema si è sentito in dovere di intervenire il sindaco di Milano, Beppe Sala, che manco a dirlo si è schierato sul lato delle vestali. A suo dire, le donne «hanno ragione. Arrabbiarsi è giusto. E una delusione». Il primo cittadino ha colto l'occasione per dire che lavorerà affinché «Milano diventi la città della parità». Certo, come no. La prima cosa di cui la capitale morale ha bisogno è più parità. Bar e ristoranti fanno la fame, il traffico è una catastrofe grazie alle innovazioni «verdi» del sindaco. Ma una bella spolverata di «diritti» renderà senz' altro la vita migliore a tutti. L'idea delle quote rosa ha raccolto anche un'altra adesione importante. Quella di Elena Bonetti di Italia viva, appena riconfermata ministro delle Pari opportunità e della Famiglia. Per la sua prima uscita ufficiale ha scelto proprio la questione femminile: «Sulle donne va fatto un passo avanti e vinta l'arretratezza italiana», dichiara a Repubblica. E annuncia «un pacchetto di misure per la parità, una sorta di Women act». A suo dire, «affrontare la questione femminile è prioritario». Ah, davvero? Viene il sospetto che forse una bella fetta di donne italiane, invece del Women act, preferirebbero la riapertura totale delle scuole, in modo da non dover farsi carico ogni santo giorno dei figli snervati dalla didattica a distanza e dei loro compiti. Supponiamo pure che molte donne - come del resto molti uomini - ritengano prioritaria la fine delle restrizioni, o l'arrivo di ristori decenti. O, ancora, un investimento una volta tanto efficace sull'occupazione. Tutto questo, però, passa in secondo piano, perché a dominare la scena è la «rappresentanza femminile». Il ministro Bonetti, già nel governo precedente, sembra essersi dimenticata di avere la delega alla Famiglia. Al di là di qualche parolina dolce, ripetuta anche ieri, per le famiglie italiane non ha fatto praticamente nulla di concreto. Non si capisce, poi, in che modo abbia portato a frutto la sua appartenenza al mondo cattolico (cosa di cui si vanta ogni volta, ribadendo di essersi formata negli scout). Se n'è stata tranquilla e beata nel governo più arcobaleno di ogni tempo, non ha fiatato per le iniziative di Roberto Speranza a favore dell'aborto facile, non ha certo protestato per la mordacchia che si vuole imporre tramite il ddl Zan. Però eccola qui, fulminea, a intervenire sul dramma delle donne piddine rimaste senza ministero. Intendiamoci: anche a noi dispiace che ci siano tre uomini del Pd al governo. Ma ci dispiace perché sono del Pd, non perché sono maschi. Il punto, infatti, sono le posizioni politiche che i ministri rappresentano, non gli interessi di genere. Soprattutto, non è garantendo posti di potere a qualche donna già potente e privilegiata che si risolveranno i guai delle donne comuni, quelle che - proprio come i maschi - devono faticosamente sopravvivere fra le macerie lasciate dai giallorossi. Se le donne del Pd vogliono maggiore rappresentanza, se la prendano. Facciano come Giorgia Meloni, smettano di lagnarsi e creino un partito, tanto per dire. Ma, sinceramente, dubitiamo abbiano l'umiltà di mettere da parte la superiorità morale che da sempre le caratterizza e di prendere esempio dalla destra. No, loro preferiscono restare dove sono, e fare le vittime allo scopo di ottenere qualche strapuntino. E mentre ministri, sindaci e segretari cianciano di quote rosa, le piste da sci restano chiuse, gli alberghi e i ristoranti vanno in malora, le partite Iva arrancano. E la crisi galoppa, fregandosene allegramente del sesso di chicchessia.

Da liberoquotidiano.it il 18 febbraio 2021. Vittorio Feltri affronta con i telespettatori di LiberoTv un tema prettamente femminile: "Oggi le donne sono in subbuglio perché sono state trascurate da Draghi in quanto il governo è composto prevalentemente da uomini. Io credo che le donne siano mediamente migliori degli uomini, lo dico per esperienza diretta. Per esempio nel mio giornale ci sono 7-8 donne che se la cavano molto meglio dei maschi: hanno più volontà, probabilmente hanno studiato meglio, e sono più tenaci e hanno e persino un fisico più forte. Questo lo devo dire perché l’ho sperimentato". "Ma questo concetto non riguarda solo il mondo del giornalismo, per esempio, alle università si iscrivono in prevalenza donne. Gli uomini sono meno numerosi e ottengono risultati più scadenti. Questo è un dato di fatto è statistico". "Poi se andiamo a vedere nelle professioni, nella professione medica, per esempio, le donne stanno eccellendo. Io per esempio ho una cardiologa che è primario al Niguarda, che è il maggiore ospedale di Milano, ed è un autentico fenomeno, forse anche perché non ho niente al cuore, ma con lei mi sono trovato bene e ho trovato un equilibrio che prima non avevo". "Anche mia moglie è in cura da lei ed è una donna di altissimo livello. Non solo, il suo reparto è costituito in prevalenza da donne che hanno imparato da lei che sono bravissime. Qualche anno fa soffrivo di diverticoli e mi sono rivolto a una donna che si chiama Perrone che nel giro di 15-20 giorni mi ha guarito, sono passati due lustri e non ho più neanche un sintomo. Dico queste cose perché servono a titolo di esempio". "Ma come mai in politica le donne non riescono ad eccellere? Il motivo è molto semplice: il mondo della politica è un mondo stupido, motivo per il quale gli stupidi fanno più carriera. Devo anche dire che le politiche italiane non svettano. Giorgia Meloni a parte non mi pare che ci siano altre fuoriclasse. Non mi sembra che ce ne siano molte che sono in grado di assumere posti di responsabilità". "Nel caso del governo Draghi c’è la Cartabia che è il ministro della Giustizia che è sicuramente una donna capace, una donna bravissima. Ma siamo a livello di eccezioni mentre tutte le altre donne che fanno la politica, la fanno senza avere attitudini particolari. Peraltro in politica vincono spesso i cretini e si vede che le donne non sono abbastanza cretine". 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 febbraio 2021. Le donne del Parlamento sono molto seccate poiché nella formazione del governo sono state trascurate. Non è falso che esse sono state snobbate da Draghi e anche dai partiti, e questo dimostra che il genere è ancora una questione d' attualità: favorisce i maschi mentre penalizza le femmine. Le quali nel mondo scientifico e della produzione in realtà eccellono e occupano giustamente posti importanti. Da quando l'istruzione universitaria è accessibile alle signore si sono aperti per queste orizzonti fino al secolo scorso impensabili. Tanto è vero che oggi le laureate e le laureande sono più copiose dei maschi, il che non può non avere ripercussioni sulla vita nazionale. Esemplifico. A Libero, il nostro giornale, lavorano parecchie ragazze (un tempo nelle redazioni erano eccezioni sopportate) e devo testimoniare che mediamente sono più brave (tenaci e talentuose) dei colleghi. Forse perché hanno studiato meglio, sono più fantasiose e dispongono altresì di un fisico forte. Non mi invento nulla, descrivo la realtà che ho sotto gli occhi ogni dì. Volendo essere generoso, affermo che, a parte le ovvie diversità anatomiche, tra un lui e una lei non vi sono differenze sostanziali. Un altro esempio che vi propongo. Negli ospedali le donne primeggiano per numero e perfino per capacità. Io, grazie al cielo, godo di discreta salute nonostante la non verde età. Tuttavia qualche volta ho bisogno di un "tagliando", come le auto vecchie. Ebbene, anni orsono soffrivo di diverticolosi. Un mio amico, pediatra insigne, mi consigliò di farmi visitare dalla dottoressa Perrone. La quale mi curò (non vi racconto il mio imbarazzo) e nel giro di un mese mi guarì. A distanza di un paio di lustri non patisco neanche un sintomo. Ancora. La mia cardiologa si chiama Giannattasio, primaria al Niguarda. Un fenomeno. È talmente capace da farmi impressione. Non sbaglia un colpo, come il mio cuore. Da notare che fumo quanto un assassino. A questo punto nelle discussioni con gli amici sostengo senza temere smentite che le dame sono più preparate e attente dei loro pari grado. Un' estrema annotazione riguardante il ramo ospedaliero: allorché qualcosa non funziona alla perfezione nel mio organismo, telefono alla mia amica Melania Rizzoli e lei mi fa la diagnosi a distanza azzeccandoci sempre. Un mostro. Ho scritto tutto questo allo scopo di fornire le prove che stimo le femmine senza riserve. E ciò spero mi consenta di dire che in politica, invece, tranne alcune eccezioni lodevoli (Giorgia Meloni si segnala la migliore), non svettano affatto. Certune sono autentiche asinelle e non sono in grado di aspirare a ruoli di rilievo. Sono cretine come gli uomini. Per cui vincono costoro che sono più abituati a gestire la loro stupidità.

Vittorio Feltri contro il matrimonio: "Un intralcio. Uomo e donna? Non sono fatti l'uno per l'altro". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 febbraio 2021. Natalia Aspesi, giornalista di talento, viene letta da decenni su vari giornali ed è apprezzata dal pubblico perché non scrive mai banalità. Ciò detto, ieri su Repubblica ho gustato un suo articolo riguardante le donne che sfondano e quelle che affondano. Conteneva osservazioni interessanti, però complessivamente ricalcava vecchi concetti, diciamo pure un po' scontati. Ai suoi ragionamenti, comunque non contestabili, vorrei aggiungere alcune riflessioni compiute esaminando la realtà. La maturazione femminile è avvenuta molto rapidamente dalla seconda guerra mondiale in poi. Le ragazze finalmente, spinte dalle famiglie, hanno spalancato le porte dell'Università e hanno a poco a poco conquistato le sfere più elevate della cultura. Oggi dimostra di essere inferiore nell'ambito della erudizione chi suppone che le signore non siano all'altezza degli uomini. Basta dare una occhiata ai livelli che esse hanno raggiunto nelle varie professioni un tempo riservate ai maschi. Inutile ricordare che le loro scalate sono state faticose e intralciate dai noti pregiudizi. Le più evolute, a mio giudizio, sono quelle che non hanno mitizzato il matrimonio, la convivenza con un compagno, e non sono ossessionate dal desiderio di maternità, assai diffuso per questioni naturali. Non è vietato sposarsi, ovvio, tuttavia ciò può essere un intralcio, una scocciatura, addirittura un peso. Due persone possono amarsi più a lungo e più intensamente se non campano sotto lo stesso tetto. La qualcosa comporta difficoltà insuperabili. Dopo un periodo in cui lui e lei stanno accanto di giorno e di notte, scatta l'insofferenza. Dormire in due nel medesimo letto poi è contro ogni logica. Basta uno sbadiglio a disturbare il partner, non parliamo poi se uno dei due russa, è la fine dell'affetto non solo del trasporto. La questione sessuale è molto delicata. Il desiderio viene ammazzato dall'abitudine, gli stessi esercizi ripetuti lo annullano senza soluzione. E qui scattano le corna che non aiutano certo la concordia coniugale, insomma o due sposi si conquistano spazi individuali (due stanze separate e due bagni sono il minimo sindacale) oppure lo sfascio è garantito al 90 per cento. Inoltre, la pace è assicurata soltanto da patti chiari. La moglie non è una serva, i lavori domestici devono essere svolti pure dal marito, altrimenti la parità va a farsi benedire. Nel caso poi ci siano di mezzo dei figli, la spartizione dei compiti va fatta col bilancino. Altrimenti le donne vengono penalizzate persino sul lavoro, il quale richiede impegno totale. Lo spirito che eventualmente deve sostituire l'attrazione fisica, mai duratura, è quello del mutuo soccorso. Le unioni matrimoniali per resistere devono obbedire alle stesse regole che governano una società imprenditoriale. In caso contrario il nucleo familiare diventa un inferno in cui germogliano perfino violenze. Per concludere veniamo alla prole. Non solo la educazione da impartire occorre sia concordata, ma altresì gli impegni che essa comporta o sono spartiti tra i genitori oppure anche i bambini cresceranno pieni di preconcetti. Uomini e donne sono uguali in tutto. Se non ce ne convinciamo la sofferenza sarà un prodotto ineliminabile. Le donne lo sanno. Gli uomini mica tanto.

Da lastampa.it il 18 febbraio 2021. Sarà Seiko Hashimoto, fino a oggi ministra per lo Sport con la delega alla preparazione delle Olimpiadi, la nuova presidente scelta al timone del comitato organizzatore di Tokyo 2020 dalla commissione ad hoc, istituita a seguito delle dimissioni repentine dell'ex presidente Yoshiro Mori. Dopo aver accettato l'incarico in mattinata, Hashimoto ha rimesso il suo incarico di ministra al premier giapponese Yoshihide Suga. Come atleta ha partecipato a sette Olimpiadi, quattro invernali ('84, '88, '92 e '94) nel pattinaggio di velocità e tre estive ('88, '92 e '96) nel ciclismo. Nel ‘92 ha vinto una medaglia di bronzo, la sua unica, nei 1.500 metri, nel pattinaggio. Yoshiro Mori, 83 anni, ex primo ministro giapponese, era stato costretto a dimettersi la scorsa settimana dopo aver fatto commenti sessisti sulle donne.

 (ANSA il 12 febbraio 2021) Il presidente del Comitato olimpico giapponese, Yoshiro Mori, conferma la decisione di farsi da parte, annunciando le sue dimissioni all'apertura del consiglio direttivo a Tokyo. L'83enne ex premier era stato messo sotto accusa dopo le sue dichiarazioni fatte a margine della proposta di allargare l'assemblea a un maggior numero di donne, definendola "problematica" per la tendenza delle stesse a "parlare eccessivamente". Nel corso della riunione Mori si è scusato per i suoi commenti "poco opportuni", aggiungendo di non voler essere un ostacolo all'organizzazione dei Giochi.

"Le donne? Parlano troppo". Olimpiadi senza quote rosa. Mori, presidente del comitato organizzatore ed ex premier, costretto a scusarsi. Ma non lascia l'incarico. Gaia Cesare, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. L'obiettivo parità di genere è fissato per le Olimpiadi di Parigi 2024, ma già da quest'anno le donne saranno poco meno della metà degli atleti in gara a Tokyo, il 48,8%. Eppure anche stavolta - come ogni buon evento che si rispetti - il copione si ripete. Le frasi sessiste - o ironiche, secondo qualcuno - di un uomo con ruolo e poltrona di primo piano, la bufera che ne consegue, le scuse postume di chi ammette di aver sbagliato, e poi tutto come prima. Fino alla prossima gaffe. Nell'occhio del ciclone stavolta è finito Yoshiro Mori, 83 anni, presidente del Comitato Organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo ed ex primo ministro, che con le sue dichiarazioni ha aggiunto altri guai all'appuntamento sportivo, già colpito dal rinvio per coronavirus e posticipato di un anno all'estate 2021, con il sospetto che l'emergenza sanitaria possa ancora costringere alla cancellazione. Ma ecco le frasi incriminate: «Nei consigli di amministrazione con tante donne si perde molto tempo». La ragione? Parlano troppo. «Hanno difficoltà a finire i loro interventi». Anzi peggio: «Le donne hanno spirito di competizione. Se una alza la mano (per intervenire, ndr), le altre credono che debbano esprimersi anche loro. E finiscono per parlare tutte», spiega Mori durante una riunione on-line i cui contenuti finiscono sui giornali. Apriti cielo. Passano pochi giorni e la marea anti-Mori si alza. La ferita è aperta in un Paese dove la parità di genere è ancora lontana. Il primo ministro Yoshihide Suga, che nel 2015 era il braccio destro dell'ex premier Shinzo Abe, si presentò in tv rivolgendosi direttamente alle donne: «Per favore, fate molti figli». E il suo attuale vice, Tar As, che è anche ministro delle Finanze, appena un anno fa ha dichiarato che il vero problema del Paese non sono gli anziani ma le donne senza figli. Secondo il report 2020 del World Economic Forum sul «gender gap» mondiale, il Giappone occupa il posto 121, su un totale di 153 Paesi, e questo nonostante il tasso di occupazione femminile sia cresciuto del 10% in quasi dieci anni e abbia raggiunto quota 72,6% nel 2019 (dati Ocse) contro il 63,2% del 2010. Le donne sono sottorappresentate in politica e nei consigli di amministrazione e sono ancora associate allo stereotipo che le vuole regine del focolare domestico. Ma il clima sta cambiando anche qui, dove il movimento #MeToo ha visto protagonista la giornalista Shiori Ito, che è riuscita a ottenere la condanna per stupro del suo ex capufficio, scoperchiando il vaso di Pandora delle molestie sessuali in Giappone. Così, dopo aver messo il dito nella piaga, il presidente del Comitato Olimpico Mori è stato costretto a scusarsi: erano dichiarazioni «contro lo spirito dei Giochi Olimpici e Paralimpici». Ma del suo futuro nel Comitato non si discute: «Non mi dimetterò». Eppure la sua stella rischia di venire definitivamente offuscata in patria, dove le Olimpiadi non sono viste di buon occhio a causa dell'emergenza sanitaria. I sondaggi dicono che l'80% dei giapponesi vorrebbe che i Giochi fossero rimandati o annullati. Il governo è stato costretto ieri a smentire indiscrezioni di stampa secondo le quali si prepara a cancellare le Olimpiadi. Mori promette: «Si faranno a ogni costo»

Le donne da palcoscenico di Verdi, Leonora e le eroine del melodramma. Le figure verdiane (e non solo) raccontate dal soprano Buratto nel 120° anniversario della morte del compositore. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 31 gennaio 2021. Le donne di Verdi? Un universo variegato. Basta un attimo e – per certe sfumature del carattere, per certe vicende, per certe passioni e certi destini – ti appaiono quasi in carne e ossa. Ecco Violetta Valéry protagonista de La Traviata ispirata dalla Marguerite Gautier de “La signora delle camelie” di Alexandre Dumas (figlio); ecco l’ Abigaille del Nabucco figlia (presunta) del re di Babilonia, in realtà schiava. Prese a prestito da Shakespeare sia Lady Macbeth che Desdemona vittima della gelosia di Otello. E poi Amneris figlia di Amonasro, re dell’ Etiopia e padre della principessa Aida; senza dimenticare Luisa Miller figlia di un vecchio soldato in ritiro. Ancora: Leonora de il Trovatore che si avvelena per amore, Elena dei Vespri siciliani sorella del duca Federigo d’Austria. Infine – ma si potrebbe continuare – Giovanna D’Arco, e Odabella figlia del signore di Aquileia che sfida e uccide Attila. Donne da palcoscenico che oggi – con i teatri chiusi – riemergono ancor più dai cassetti della memoria in occasione del 120° anniversario della morte di Giuseppe Verdi. Di eroine verdiane e non solo parliamo con il soprano Eleonora Buratto.

Signora Buratto come ricorda il suo primo incontro con il repertorio operistico del cigno di Busseto?

«Ricordo che Amelia del Simon Boccanegra fu il primo ruolo che mi fu proposto e creò anche un po’ di dubbi. Inizialmente pensai di non essere ancora pronta per affrontare un ruolo così impegnativo, ma a chiedermelo era il Maestro Muti e mi fidai della sua intuizione. Ancora oggi gli sono grata per avermi permesso di aprire un nuovo capitolo della mia carriera».

Ma chi è Verdi per Lei?

«Un compositore immenso, un musicista che con la purezza della sua musica ti obbliga all’onestà nell’affrontare le sue opere. Quando un cantante o un direttore non rispetta questa semplice regola, perde. Bisogna sapersi mettere a nudo, bisogna capire il suo cuore e rispettarlo».

Aida, Abigaille, Lady Macbeth, Desdemona, Leonora, Luisa Miller, Elena, Gilda …Quali tra le “donne” di Verdi lei ama di più e perché?

«Le donne di Verdi le amo tutte, non c’è possibilità di scelta se si pensa alla musica. Forzatamente potrei dire che il ruolo che amo di più è quello di Leonora. In alcune di loro forse posso anche trovare delle affinità, ma la “donna” alla quale più assomiglio è Alice».

Non si può parlare dei personaggi femminili verdiani senza accennare alla Traviata e Violetta Valéry… Quale – a suo giudizio – è la Violetta che tutti dovrebbero ascoltare almeno una volta nella vita?

«Nessun dubbio, quella di Maria Callas».

E veniamo al presente. L’Opera è tornata alla Scala: in scena “Così fan tutte” di Mozart con la regia di Michael Hampe (ripresa da Lorenza Cantini). Sul podio Giovanni Antonini. A lei è toccato il ruolo di Fiordiligi. Cosa le ha lasciato questo personaggio e quanto è stato emozionante cantare alla Scala sia pure senza pubblico per via delle restrizioni?

«Il personaggio non aspettava altro che essere debuttato. Era già pronto a marzo scorso, ma la pandemia mi ha fatto perdere la produzione a Tokyo. Sono molto felice che la Scala mi abbia dato questa possibilità e sono orgogliosa di aver fatto parte della prima opera rappresentata lì dopo la chiusura dei Teatri».

C’è però un precedente scaligero di soli pochi mesi fa: lei è stata anche tra gli ospiti di “A riveder le stelle” con la direzione di Chailly e la regia di Livermore lo scorso 7 dicembre. La Scala pur essendo “vuota” è entrato nelle case di moltissimi italiani grazie al piccolo schermo nel giorno deputato alla Prima. Che ricordo ne conserva?

«Un ricordo bellissimo. Me lo sono goduto dalla platea del Teatro alla Scala ed è stato molto emozionante, soprattutto pensare a quanto lavoro c’era dietro uno spettacolo così complesso, ma per il pubblico da casa fluido e omogeneo».

Palpiti, emozioni e opera non solo per melomani e addetti ai lavori. Del resto, La Scala ha scritto pagine importanti della Storia italiana. Basti pensare all’11 maggio del 1946 quando Toscanini dirige il concerto di riapertura del Teatro ricostruito…

«Sì, la storia della Scala è fortemente intrecciata con quella di Milano, della Lombardia e dell’Italia».

Che effetto le fa sapere e vedere i palcoscenici dei teatri col sipario chiuso a causa della pandemia?

«Per tutti noi artisti è una cosa tristissima. Le produzioni si sono ridotte ad una recita in streaming e non abbiamo certezze di quando potremo riavere il pubblico in sala. Non abbandoniamo la speranza di poter ricominciare la nostra vita, ma per ora non possiamo far altro che adattarci a questo periodo di transizione».

A parte Muti, lei è stata anche diretta da Daniele Gatti e da Zubin Mehta, c’è un direttore del passato con cui avrebbe voluto collaborare?

«Avrei voluto collaborare con molti direttori del passato. Passando nei corridoi della Scala si leggono i nomi dei direttori che hanno fatto anche la storia del teatro. Forse uno su tutti, Toscanini. E Karajan».

Qual è, se c’è, il suo rito scaramantico prima di salire sul palco?

«Non ho riti scaramantici, ma prego sempre Dio e la mia mamma».

Quanto le manca l’abbraccio dell’applauso del pubblico dalla platea o dai palchi?

«Manca moltissimo, il pubblico è parte integrante dello spettacolo. Senza pubblico è come se fosse solo una prova generale».

Stefano Semeraro per lastampa.it il 30 dicembre 2020. Le tenniste sono fra le sportive più agguerrite nel chiedere un pari trattamento economico rispetto ai colleghi maschi, ma finanziariamente non se la cavano comunque male. Una inchiesta di GoBankingRates sostiene infatti che 20 delle 26 più ricche atlete del pianeta, a partire dalla numero 1 Serena Williams, si guadagnano o si sono guadagnate le vita impugnando una racchetta. La Williams è accreditata di un patrimonio complessivo di 200 milioni di dollari: 93 incassati in montepremi, il resto frutto di sponsorizzazioni e investimenti. Serena è infatti anche una abile imprenditrice, che sa come differenziare i suoi interessi, fra la sua linea di abbigliamento e partecipazioni in varie società e start up. Alcune delle quali a sfondo «etico», cioè che sostengono iniziative di donne appartenenti a minoranze etniche (ad esempio nel campo della gioielleria). L’ultimo investimento dell’americana ha come beneficiaria Alchemy 43, una società californiana specializzata in trattamenti estetici facciali e microterapie per la conservazione della pelle. Dopo di lei viene la sua ex grande rivale, Maria Sharapova, altra businesswoman di successo che dopo 11 anni passati, secondo Forbes, da atleta più pagata del pianeta, anche da «pensionata» mantiene un patrimonio di 140 milioni di dollari, accumulati in montepremi (39) ma anche attraverso aziende di successo come Sugarpova, che produce caramelle e dolci. Sul podio, al terzo posto c’è la prima non tennista, ovvero Alexis DeJoria, la pilotessa made in Usa molto brava a conquistarsi un posto in un settore decisamente maschile come quello della NHRA, la National Hot Rod Association, che organizza corse di drag-car e altre vetture particolari. La DeJoria, che compete con le «Funny Car», ha un patrimonio stimato di 100 milioni di dollari. Un’altra diva del volante, la famosissima Danika Patrick, ex stella della IndyCar della Nascar, occupa il quinto posto (60 milioni) ma già dal quarto ricomincia la teoria delle tenniste-paperone, con Venus Williams, sorella di Serena, con 95, che precede al sesto Na Li, la più forte cinese di sempre: 50 milioni che valgono forse il doppio, visto che Na ha dovuto forzare i paletti imposti dal regime di Pechino. A pari merito con lei c’è un’altro nome famoso come quello di Anna Kournikova, che in campo ha vinto pochissimo, ma ha ottenuto molto in sponsor e relative attività. Sono in effetti parecchie le campionesse del passato che appaiono in questa speciale classifica: all’ottavo posto troviamo Caroline Wozniacki, al nono Steffi Graf, al 12esimo Martina Hingis, al 15esimo, a pari merito Billie Jean King, Monica Seles. Lindsay Davenport e Kim Clijsters (recentemente tornata alle gare dopo due gravidanze), al 19esimo Chris Evert e al 22esimo la sua grande rivale Martina Navratilova. Morale: fare la tennista conviene, anche come fondo pensione.   

La lista completa.

1) Serena Williams (tennis) 200 milioni di dollari

2) Maria Sharapova (tennis) 140 milioni

3) Alexis De Joria (automobilismo) 100 milioni

4) Venus Williams (tennis) 95 milioni

5) Danica Patrick (automobilismo) 60 milioni

6) Li Na (tennis) 50 milioni

7) Anna Kournikoa (tennis) 50 milioni

8) Annika Soerestam (golf) 40 milioni

9) Caroline Wozniacki (tennis) 30 milioni

Simona Halep (tennis), Steffi Graf (tennis) 

12) Agnieszka Radwanska (25 milioni), Naomi Osaka (tennis), Martina Hingis (tennis) 

15) Monica Seles (20 milioni), 16 Billie Jean King (tennis), Lindsay Davenport (tennis), Kim Clijsters (tennis)

19) Michelle Kwan (golf) 16 milioni, Ana Ivanovic (tennis), Chris Evert (tennis)

22) Karrie Webb (golf) 15 milioni, Lorena Ochoa (golf), Martina Navratilova (Tennis), Jelena Jankovic (tennis), Victoria Azarenka (tennis). 

·        Donne e Sport.

Dagotraduzione dal Sun il 2 novembre 2021. I fan della MMA sono rimasti disgustati dall’incontro che si è svolto in Polonia tra un uomo e una donna. Uno degli spettatori ha descritto la scena come «orribile», e l’arbitro è stato costretto a interrompere l’incontro. Ad affrontarsi sono stati Ula Siekacz, lottatrice di braccio di ferro e istruttrice di fitness, e Piotrek Muaboy, che si definisce «185 cm di puro sesso». L’incontro si è svolto in un hotel della città polacca di Czestochowa. I due all’inizio sferrano colpi abbastanza docili, finché Muaboy non assesta un paio di colpi in faccia a Siekacz. Le cose precipitano rapidamente e Muaboy prima la atterra, poi la monta e quindi inizia a sferrarle pugni, finché l’arbitro non interviene. Quando il video è apparso online, i fan della Mma si sono precipitati a commentare: «È orribile»; «Fanculo a tutti quelli che hanno preso parte a questo incontro. E a te per averne postato i momenti salienti»; «Cosa diavolo è questo, senza rivali?»; «Questo è assurdo» e «Questo non è Mma». Nella stessa sera si è svolto anche un altro incontro misto, vinto dal "Polish Ken Doll" Michal Przybylowicz contro Wiktoria Domzalska.

Valeria Palumbo per il "Corriere della Sera" il 29 giugno 2021. San Pietroburgo, 1902. Una donna, la britannica Florence Madeleine Cave (1881-1917), si presenta ai Mondiali di pattinaggio. Nessuno ha pensato di aggiungere «maschili» perché a nessuno è venuto in mente che una donna possa partecipare. Madge, come la chiamano gli amici, vince l'argento. Risultato? Dal campionato successivo, del 1908, le donne sono esplicitamente escluse. Si facessero il loro. Avviene già nel 1906 e Madge rivince. Però, pensateci, se ancora adesso «l'Italia» è per definizione la nazionale di calcio maschile, qualcosa non va. Soprattutto, se la storia dello sport femminile è pavimentata di tanti divieti e, nonostante questo, le donne li hanno sfidati tutti, vuol dire che il problema non è loro. Che lo sport lo hanno sempre praticato, come racconta Eva Cantarella, co-autrice con Ettore Miraglia di Le protagoniste. L' emancipazione femminile attraverso lo sport, edito da Feltrinelli. Certo, nell' antichità si è andati in ordine sparso. E perfino a Sparta, dove le ragazze si esercitavano regolarmente, perché così aveva voluto il leggendario legislatore Licurgo, l'obiettivo era fare di loro madri più forti, che producessero figli più sani. Così alla grande corsa annuale in onore di Elena, modello di moglie (gli spartani credevano che fosse stata calunniata a proposito di Paride), correvano in tante. Ma non veniva proclamata una vincitrice. Mentre gli uomini gareggiavano soltanto per quello, in barba a quanto riteneva Pierre de Coubertin, fondatore delle moderne Olimpiadi. A proposito di de Coubertin, contro le atlete e la «fisiologia» femminile ne disse di tutti i colori (in buona compagnia): sostenne, per esempio, che maternità e sport fossero incompatibili, e pazienza per Sparta o per successive campionesse come Fanny Blankers-Koen, strepitosa protagonista dell'Olimpiade di Londra del 1948, che ebbe anche lo stoicismo di tollerare il nomignolo di «mammina volante». Certo, la Chiesa infieriva, terrorizzata da tutto ciò che rendesse le donne più autonome. E gli pseudo-scienziati positivisti, dietro, a immaginare chissà che danni alla salute. Poi i danni ci sono stati davvero: ma per il doping, e Miraglia racconta bene il dramma delle atlete dell'Est, negli anni della Cortina di ferro. Ma anche il coraggio della nuotatrice Christiane Knacke, bronzo nei cento farfalla di Mosca 1980: diventò, alla caduta del Muro di Berlino, la principale accusatrice del suo Paese, la Germania dell'Est, e al processo buttò a terra, per sfregio, la sua medaglia olimpica e restituì le altre. Ma, a proposito di ormoni, in Le protagoniste si racconta molto bene la «strana» storia del testosterone: le atlete che ne hanno più di cinque nanomoli per litro, nel sangue, non possono gareggiare. Che questo sia lo sbarramento per essere «donne», che incida davvero sulle prestazioni sportive e che, tra gli uomini, si trovino enormi variazioni nei livelli di testosterone ma nessuno ci bada, non importa. Tanto che chi, in transizione di genere, ne ha livelli più bassi perché fa cure ormonali, è ammesso. Il problema sono e restano le donne. Dice bene Miraglia: la faticosissima battaglia delle donne per poter fare sport e gareggiare (il saggio elenca tutti i divieti, le censure e gli ostacoli e sembra incredibile che gli uomini ne abbiamo potuti inventare tanti) è stata politica, sociale e culturale. Così la ciclista Alfonsina Strada, che si piazzò tra i pochi superstiti del Giro d' Italia del 1924, ma anche Annette Kellerman, che pretese di nuotare in costume e non vestita e sopportò per questo l' arresto («Non posso nuotare con più abiti di quanti ce ne stiano su un filo per stendere i panni», fece mettere a verbale), o Wilma Rudolph, la «gazzella» dell' Olimpiade di Roma del 1960, che rifiutò di partecipare alle celebrazioni post olimpiche perché il governatore del Tennessee prevedeva un programma a parte per i neri, hanno aperto per tutte, e per tutti, tempi migliori. Lo slittamento dal 1° giugno 2021 al 2 marzo 2022 al professionismo femminile nello sport, in Italia, ci indica che la battaglia non è finita.

·        Le Dominatrici.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 novembre 2021. È diventata virale la foto di una donna mascherata che porta al guinzaglio un’altra donna mentre attraversano la strada. L’immagine è stata scatta da un automobilista che, sbalordito, ha immortalato la scena mentre era fermo a un semaforo di Adelaide, in Australia. Nella foto la donna che porta il guinzaglio indossa un passamontagna integrale. La foto ha generato più di 1.100 commenti su Reddit, dove è stata pubblicata.  Le reazioni sono state diverse. C'è chi si è preso gioco delle due donne - «È esilarante» - chi si è scandalizzato - «In quale sobborgo? Non voglio andarci mai più» - e chi le ha difese - «Non stanno facendo del male a nessuno, lasciale stare». 

Simonetta Sciandivasci per Specchio – la Stampa il 14 settembre 2021. Pay Pig. Paga maiale. È così che si chiama il subalterno, lo schiavo, che è poi il cliente, nel "findom", la dominazione finanziaria che viene descritta come pratica sessuale, feticista, sadomasochista negli articoli che ne parlano. L'Urban Dictionary, invece, salta queste categorie e lo definisce «scambio di potere che implica un trasferimento di denaro da un sub a una Domme come atto di sottomissione finale». Il sub è il pay pig, lo schiavo; la Domme è la mistress, la dominatrice - sì, nella maggior parte dei casi è una donna perché sì, i cultori della pratica sono, 9 su 10, benestanti maschi etero. La gamma di servizi che la Domme offre va dal controllo del conto in banca al suo prosciugamento, per mezzo di inviti all'acquisto e richieste di regali (bonifici, viaggi, beni inessenziali), inoltrati per messaggio, mail, dm, o rivolti direttamente durante videochiamate, anch'esse a pagamento. Nel findom, quindi, non è previsto contatto tra i contraenti, perché il cliente compra per comprare ancora, per farsi sfruttare: «Godevo dell'umiliazione di farmi svuotare il conto da principesse sadiche che si divertivano a sfruttare pervertiti come me», ha raccontato a Vice un rispettabile borghese, ricco e sposato, nessun vizio tranne il sesso in webcam con professioniste lautamente pagate, che però l'ha annoiato presto e allora s' è messo a cercare altro ed è finito nelle mani di ragazze che lo hanno ridotto sul lastrico (per comprare gioielli alle sue padroncine, ha rubato quelli di sua moglie, finché non le ha confessato d'essere diventato tossicodipendente e tante scuse, ottenendo lacrime e soldi per disintossicarsi: ora continua a staccare assegni per le padroncine, ma non supera mai i 100 dollari a settimana). Il finanziariamente dominato non è in cerca di personal shopper: desidera farsi impoverire, lo scalda il pensiero di azzerare il conto e di doversi industriare per trovare altro denaro da devolvere alla sua Domme - «Ho pensato di prostituirmi: considerare una possibilità tanto degradante mi ha eccitato». È una parte della questione: il successo del findom è l'ennesima prova della smaterializzazione del sesso, del suo legame con il potere e del bisogno maschile di liberarsene, facendosi guidare verso la propria rovina. Sono stufo di essere ricco, previdente, oculato e allora uso i miei soldi per straviziare qualcuno che non sono io: sembra una punizione, e di certo lo è, ma è anche manipolazione, perché lo schiavo rimpingua l'avidità della sua padrona e non la propria, come fa un demonio. Lo schiavo, insomma, è puro: si sacrifica, non vuole e non fa nulla per sé, è quasi ascetico, quasi si purifica. Dall'altra parte, lo schiavo agisce come un genitore che lava il senso di colpa della sua assenza regalando ai figli ciò che desiderano, soddisfacendo qualsiasi loro richiesta e traendo da questo non solo la pacificazione della propria coscienza, ma pure il piacere narcisistico di aver reso felice la prole, potendosi permettere di non dire no. Non c'è niente di più capitalistico. Certo, a un aperitivo tra amiche è facile dedurre il pensiero più facile, dire che queste Domme sono geniali perché sfruttano rammolliti terrorizzati dal sedurre una donna. Ma il findom è un contratto e i contratti non liberano: vincolano, talvolta riparano. Una pandemia e un biennio di seriosità dopo, in un'intervista al New York Times, Mistress Marley, dominatrice professionista, 27 anni, originaria di Harlem e attualmente domiciliata in Messico, in agiato appartamento con piscina e spiaggia privata, ha detto che per lei il findom è un risarcimento per gli anni di schiavitù cui gli afroamericani sono stati costretti, «dal momento che quasi tutti i miei clienti sono bianchi». A questa connotazione poteva riuscire a pensare soltanto una coetanea di quei ragazzi che riescono a trasformare in militanza politica anche pomeriggi trascorsi su Twitter a insultare un giornalista molto anziano. I nuovi servi, servi bianchi, raccontano tutti la stessa cosa: quanto piacere dia loro perdere il controllo e appaltarlo completamente alle donne. È storia vecchia, in fondo riassumibile in quel "amore, fai tu", con cui ci incastrano da sempre. 

Dagotraduzione da Rolling Stone il 31 luglio 2021. Quando all’inizio di quest’anno è uscito il vaccino contro il Covid, Bob, conosciuto anche come Mannish Boy, non era certo di volerlo fare. Si sentiva diffidente per la velocità con cui il vaccino era arrivato sul mercato. E aveva sentito parlare di alcuni dati preliminari che suggerivano che la versione AstraZeneca, in Europa, avesse un raro effetto collaterale: provocare coaguli di sangue. Tutto questo lo rendeva ansioso. «Penso di aver avuto le stesse riserve di molti altri» ha raccontato Bob, che ha chiesto di restare anonimo. Un giorno Bob ha letto un tweet di Goddess Alexandra Snow, una dominatrice professionista e proprietaria di Wicked Eden, una prigione BDSM con sede a Columbus, in Ohio. Il tweet annunciava che i sottomessi che avessero desiderato un appuntamento con Snow, avrebbero dovuto dimostrare di essere stati vaccinati. Bob si era abbonato due anni prima al suo canale su Onlyfans, e così l’ha contattata per discutere della sua situazione. «Non volevo tanto essere connvinto quanto che mi confermasse che era la cosa giusta da fare». Bob ha ricevuto la sua seconda dose di vaccino tre settimane fa. «Mi fa piacere sapere che sto contribuendo (si spera) ad evitare che gli altri si ammalino gravemente» dice. «E, naturalmente, è gratificante sapere che ho fatto qualcosa che Goddess Snow approva». Anthony Fauci probabilmente non ha mai preso in considerazione l’idea di passare dai dominatori sessuali per aumentare il tasso di vaccinazione negli Stati Uniti. Eppure i dominatori di tutto il paese, che stanno lentamente riaprendo le porte delle loro prigioni segrete, dicono che lo sforzo di costringere i sottomessi a vaccinarsi ha avuto un discreto successo. «Almeno una dozzina di persone mi hanno scritto: “Se questo è quello che devo fare per vederti, lo farò”. E questo mi rende felice» ha detto Snow. «Se qualcuno si vaccina per me, è una persona in meno ad avere impatto sulla comunità». Le dominatrici che usano i loro considerevoli poteri persuasivi sui loro sub per servire il bene comune non sono una novità: in vista delle elezioni del 2020, per esempio, alcune dominatrici hanno detto a Rolling Stone che stavano ordinando ai loro sub di votare per l'attuale presidente Joe Biden. Ma i dominatori con cui ho parlato non ne hanno fatta una questione politica, e neanche etica. Credono sia una misura di autoprotezione (in effetti, la maggior parte delle lavoratrici del sesso sono appaltatrici indipendenti, e quindi se si ammalano rischiano di dover pagare cifre esorbitanti di tasca propria per l'assistenza sanitaria). È anche un modo concreto per misurare la devozione dei sub. «Chi è al nostro servizio dovrebbe rispettare i nostri confini», afferma Daddy An Li, una domme con sede a Los Angeles che chiede la prova della vaccinazione dai suoi sub. «O vuoi servirci e ci rispetti, o non lo fai». Altri, come Goddess Snow, la vedono anche come un'opportunità educativa. «Io non voglio che qualcuno faccia quello che gli dico solo perché gli ho detto di farlo. Voglio che lo facciano perché ho ragione», dice. Per questo vuole fornire ai sub che esitano la letteratura che attesti la sicurezza del vaccino, in modo da farli decidere da soli. «Una cosa è dire a qualcuno, “non puoi masturbarti per una settimana”. E un'altra è dire “Voglio che tu prenda questa sostanza estranea nel tuo corpo”», dice. «Non voglio essere responsabile di questo. Gran parte del BDSM riguarda l'autonomia corporea, e ho bisogno che abbiano autonomia corporea lì». Anche Mistress Manouche, una domme con sede nell'East Sussex, nel Regno Unito, richiede la prova della vaccinazione se i sub desiderano fare una sessione con lei. Ha problemi di salute specifici: ex malata di leucemia, ha subito un trapianto di midollo osseo, vive con genitori anziani e gestisce la sua prigione dalla loro casa condivisa. Sebbene inizialmente avesse chiesto ai suoi sottomessi di indossare maschere, ha scoperto che non era fattibile in uno spazio sotterraneo. «Ciò che facciamo è molto intimo», dice a Rolling Stone. «Sputo in bocca ai miei sub. Li tocco. Io uso le fruste, ma non puoi semplicemente frustare qualcuno a 10 piedi di distanza. Sei in uno spazio chiuso e non è sempre pratico indossare solo le mascherine. Non potevo lavorare correttamente e fare quello che faccio normalmente se devo mantenere le distanze». In effetti, a seconda di quale sia la loro specialità, alcuni dominatori non si sentono abbastanza a loro agio nel fare il lavoro di persona a meno che i sub non siano vaccinati. «Sono specializzato nel gioco del bagno» - essenzialmente si tratta di «cacare sui tizi» - «e non posso farlo con persone che non sono vaccinate», dice Daddy An Li. Come molte dominatrici, l'attività di persona di Mistress Manouche è stata decimata dalla pandemia; anche se ha cercato di trasferire la sua attività all'online, ha scoperto di aver rapidamente esaurito il numero di contenuti ed è passata alla vendita di carte e cioccolatini solo per fare abbastanza soldi per comprare le sigarette. «È stato assolutamente terribile», dice. Dopo aver ricevuto il suo primo vaccino contro il Covid a gennaio e il secondo ad aprile, Mistress Manouche ha ricominciato ad aprire le sue porte e a richiedere la prova della vaccinazione durante le sue sessioni. All'inizio, «erano un po' incerti», dice, ricordandone uno in particolare che aveva chiesto un'esenzione, preferendo farsi un test al giorno se necessario pur di vederla. Ma è riuscita a convincere anche lui a vaccinarsi, così come altri cinque sottomessi che in precedenza erano incerti. La comunità BDSM si è organizzata in molti modi per affrontare la pandemia, afferma Mistress Marley, una dominatrice professionista con sede a Manhattan, anche lei intransigente sul requisito del vaccino. «L'industria del BDSM è davvero avanti sui protocolli di sicurezza. Si tratta di sicurezza e consenso. Abbiamo parole sicure e vogliamo assicurarci che le persone siano al sicuro. Ci prendiamo cura l'uno dell'altra perché le cose possano diventare davvero fisiche», dice a Rolling Stone. «L'industria in generale si occupava della sicurezza molto prima che arrivasse il Covid». Ma non tutte le dominatrici richiedono la vaccinazione, soprattutto se influisce negativamente sui loro profitti. Snow dice che l'argomento compare spesso in un canale Slack che gestisce per le prostitute e che durante il picco della pandemia, c'è stato un lungo dibattito sull'etica di vedere i clienti di persona. «La cosa tremenda è che le lavoratrici del sesso hanno avuto redditi decimati durante la pandemia», dice. «Alcune si vergognavano di confessare che avevano fatto qualche appuntamento». Da quando il vaccino è diventato disponibile, se ne è iniziato a discutere: «alcune persone non hanno la capacità di dire “Se non sei vaccinato, non puoi venire”. Devono prendere decisioni basate sul denaro piuttosto che sulla sicurezza», dice. In effetti, l'adozione di una politica di vaccinazione obbligatoria ha danneggiato i profitti di Wicked Eden e Snow stima di aver visto una riduzione del 30% circa delle prenotazioni dall’introduzione del requisito vaccinale. Dice anche che da quando ha annunciato la politica, è stata "inondata" di e-mail arrabbiate che citavano disinformazione relativa al vaccino. «Un link dopo l'altro, tutti che puntavano a strani siti web contro i vaccini», dice. Eppure la stragrande maggioranza dei sottomessi esitanti nel vaccino, racconta, ha accettato di proteggersi. E dopo, «gli dico sempre “ottimo lavoro, sono orgoglioso di te! Bravo ragazzo!”», dice.

Mauro Zanon per "Libero quotidiano" il 20 aprile 2021. Les italiens sono i suoi preferiti. «Sono i miei cocchini, amo coccolarli e loro amano ciò che offro. È sempre un piacere riceverli perché sono l'eleganza fatta persona, sono sensibili alla raffinatezza e hanno il senso della seduzione. È qualcosa di naturale per loro. Quando sono alla porta indovino sempre quando una coppia è italiana. Lo scriva ai suoi lettori: vi adoro». Inizia così la chiacchierata di Libero con Valérie Hervo, la proprietaria e regina de Les Chandelles, il club libertino più rinomato e raffinato di Parigi, oasi di piacere situata a rue Thérèse, nel cuore della capitale francese, a pochi passi dall' Opéra. «Les Chandelles è anzitutto il luogo del femminino, uno scrigno dedicato alle donne, alla loro sensualità e alla loro potenza», dice a Libero Valérie Hervo, che ha appena pubblicato un libro autobiografico, Les dessous des Chandelles. Une femme en quête de liberté (Le Cherche-Midi), dove racconta la genesi della sua creatura e i motivi che rendono Les Chandelles la boîte più concupita dai libertini francesi. E non solamente. Valérie ha 26 anni (nel 1993) quando decide di creare questo luogo in cui la donna «deve sentirsi libera, radiosa e al centro di tutte le attenzioni, non un trofeo da esibire o un bottino da condividere, ma una dea da onorare e una libertina da adorare».

PASSIONE Alle Chandelles è la donna a dominare i dibattiti e i momenti di passione, a imporre i suoi desideri e i suoi capricci, e il sesso è soltanto la ciliegina sulla torta, perché la cosa più importante, afferma Valérie Hervo, «è il preludio, ciò che viene prima dell' atto, ossia il gioco di seduzione, l' erotismo, l' eleganza e il mistero». Quando ci si presenta davanti alla facciata blu notte delle Chandelles, bisogna essere ben vestiti: completi ben tagliati per gli uomini e abito chic e tacchi alti per le donne.  Poco importa se ti chiami Mick Jagger: se sei vestito con jeans e scarpe da ginnastica e pensi di poter entrare lo stesso in ragione della tua celebrità, ti sbagli di grosso, perché Valérie non fa eccezione. «Da me non ci sono spazi vip. Tratto tutti allo stesso modo. Non faccio differenza tra persone famose e non. Il mio unico criterio è che la persona sia in un movimento di seduzione, abbia un gusto per ciò che è bello e sia elegante», spiega Madame Hervo. Delle Chandelles, è un habitué lo scrittore dandy Frédéric Beigbeder, autore del bestseller L' amore dura tre anni. Lui non lo ha mai nascosto, anzi lo ha più volte rivendicato. C' è chi invece preferisce mantenere l' anonimato, cosa a cui Valérie tiene molto, tanto che all' ingresso, prima di scendere le scale che portano alle alcove del piacere, bisogna imperativamente lasciare i telefonini: non sia mai che a qualcuno, inebriato dalla situazione, venga l' idea di scattare una foto o registrare un video. Ma nonostante lo sforzo per proteggere la privacy dei clienti, sono comunque usciti sulla stampa i nomi di due politici che alle Chandelles hanno trascorso notti di estasi: il primo è l' ex capo del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn, il secondo è l' attuale ministro dell' Interno Gérald Darmanin. «Ma qui viene qualsiasi tipo persona. Di recente, ho accolto una direttrice di scuola materna e suo marito, entrambi provenienti da un sobborgo chic fuori Parigi», dice la proprietaria delle Chandelles. Per Valérie, oggi, non c' è nulla di più femminista del suo club a Parigi. «È diventato un alto luogo del femminismo. Per me è sempre stato importante proteggere la donna dagli uomini che non la rispettano, dai seduttori maleducati e dai machi grotteschi che affollano le classiche discoteche. Da me la donna si sente al sicuro. È la mia principessa», spiega Madame Hervo. Il suo libro è anche il racconto di un percorso di riscatto, di una donna traumatizzata dagli abusi sessuali di cui è stata vittima quando era bambina, che a rue Thérèse, alle Chandelles, ha trovato il suo spazio di riparazione intima. «Creare Les Chandelles è stato un modo per ricostruirmi», racconta Valérie Hervo. Quando le chiediamo chi siano i suoi modelli femminili ci dice due nomi: Elisabeth Badinter, intellettuale laica in guerra contro il neofemminismo di importazione americana che sta creando una guerra tra i sessi, e Simone de Beauvoir, scrittrice e egeria del femminismo francese. Per la riapertura «bisognerà aspettare almeno l' estate», sostiene Valérie. Lei non vede l' ora di riaccogliere i suoi clienti libertini. Soprattutto quelli italiani.

Margaret Corvid per “The Spectator” il 15 aprile 2021. Quando ho cominciato a fare la dominatrice professionista, sentivo molti stereotipi: i clienti, in genere, sono uomini molto potenti che vogliono scaricarsi del fardello delle responsabilità e affidare corpo e desideri a qualcun altro per un’ora. Ho invece scoperto che i clienti sono di ogni tipo. Uomini sì, giovani e adulti, ma operai, studenti, marinai, pensionati. E politici. I media si sono scandalizzati quando hanno scoperto che John Whittingdale, Segretario alla Cultura, frequentava una dominatrice. Lo ritengono poco professionale. Secondo me è esattamente l’opposto. E’ perfettamente comprensibile che un uomo molto potente voglia perdere il controllo e abbandonarsi. Da me vengono persone che vogliono sfuggire alla routine. Altre perché sono imprigionate in una forzata recita di normalità. Il mio studio è il luogo dove tornano ad essere se stessi. Questa presa di distanza dal potere può essere molto utile, a volte serve a reclamarlo più forte. I politici che vengono da me differiscono l’uno dall’altro. Hanno il desiderio di sottomettersi, servire, essere puniti, frustati, umiliati e controllati. Non possono farlo sui siti preposti e quindi finiscono per esplorare le loro fantasie con operatrici del sesso. I politici sono indaffarati, lavorano fino a tardi, e vogliono soddisfare i loro impulsi sessuali senza troppo impegno. A volte, come i marinai, l’unico contatto umano che hanno nella giornata si limita ad una stretta di mano. Noi operatrici del sesso rispettiamo i loro orari e la loro privacy. Ci chiamano perché garantiamo la riservatezza. Se si venisse a sapere che vanno con le dominatrici, ci farebbero una pessima figura. Se mettessimo da parte il moralismo e li lasciassimo essere persone normali, credo che, da politici, ci renderebbero un servizio migliore.

Greta Sclaunich per “Sette - Corriere della Sera” il 14 aprile 2021. Racconti hot, podcast erotici e, quando le restrizioni lo consentono, appuntamenti dal vivo come prima del Covid (ma con qualche accortezza in più sull’igienizzazione degli ambienti). Quello di dominatrice è un lavoro difficile da reinventare in smart working, così Misungui Bordelle (al secolo Marion, 32 anni, francese di Aix-les-Bains che vive tra Parigi e la Borgogna) ha deciso di puntare sulla sua penna e sulla sua voce. E su Zoom, dove organizza workshop per insegnare lo shibari, l’antica forma artistica di bondage nata in Giappone. Di rado, però. «Perché ho bisogno di incontrare i partecipanti di persona. Lo stesso per il mio lavoro di Padrona», puntualizza al telefono con 7.

Come si diventa dominatrici?

Per me il percorso è partito dal femminismo. Il tema centrale della mia tesi all’università era capire se le donne che guardano film porno potessero essere considerate femministe oppure no: lavorandoci ho fatto molte ricerche e conosciuto tante persone che facevano parte di quel mondo. Così mi sono approcciata al burlesque, al bdsm, allo shibari. Sono passata alla pratica un po’ per caso e un po’ per curiosità: una mia amica dominatrice aveva un cliente che le chiedeva due Padrone e un giorno mi ha proposto di farle da assistente. Non avrei dovuto fare nulla, solo starle accanto e osservare. È stata un’esperienza profonda e toccante, straordinaria. Quest’uomo si è mostrato a noi in tutta la sua vulnerabilità, ci ha aperto la sua dimensione più intima: la prova, per me, che non si può fare sesso senza metterci testa e cuore. Questo incontro mi è piaciuto e mi ha emozionato. Ecco perché ho continuato.

Come svolge il suo lavoro?

Ci sono molti modi di fare la dominatrice. Io mi baso su ciò che mi chiedono i clienti, sia uomini che donne: prima di incontrarci discutiamo tutto, da cosa loro vorrebbero a cosa io sono disposta a fare passando per come gestire la comunicazione durante l’incontro. Perché non sempre si è pronti a realizzare le proprie fantasie e bisogna sapere quando interrompersi e cambiare programma. Discuterne prima serve anche a costruire una sorta di copione. Me ne hanno chiesti di molto particolari, per esempio finti rapimenti che richiedono un’organizzazione complicata. Allora mi devo organizzare: mi serve un complice che mi aiuti, un’auto per trasportare il cliente imbavagliato, una cantina dove rinchiuderlo. In genere, però, le sedute normali le faccio a casa mia e durano circa due ore, con una pausa in mezzo per rilassarci davanti a un the.

A casa sua? Non sarà facile tenere nascosto questo lavoro ai suoi cari.

E perché dovrei? La mia famiglia, genitori compresi, sa tutto e non si stupisce di niente: ho sempre messo in discussione i tabù, fin da quando ero bambina. Gli amici, se sono diventati tali, è perché mi accettano per come sono. Fidanzati? Sono piuttosto nota e quando conosco qualcuno di solito già sa chi sono e cosa faccio

E adesso, con il Covid, com’è cambiato il suo lavoro?

Quando le norme lo consentono continuo con gli appuntamenti dal vivo, facendo però molta attenzione all’igiene: biancheria pulita, giochi igienizzati, doccia prima e dopo l’incontro. Per il resto, ho sperimentato un’attività nuova: scrivere e registrare racconti erotici, sia per clienti privati che per piattaforme di podcast.

Anche i costi saranno cambiati.

Le tariffe degli appuntamenti sono sempre le stesse: dai 250 (quando faccio solo bondage e non c’è alcun tipo di contatto sessuale) ai 450 euro (quando invece includono alcune pratiche sessuali). I racconti erotici per i privati, invece, costano circa 150 euro. Le piattaforme di podcast mi offrono dai 50 ai 100 euro per la scrittura delle puntate e altri 200 per la registrazione.

C’è una differenza fra i racconti che scrive per i privati e quelli per le piattaforme di podcast?

Quando scrivo per un privato mi baso sulle sue richieste come farei per un incontro dal vivo e, a volte, inserisco anche elementi tratti dalla mia esperienza personale. Per i podcast, invece, cerco di unire l’eros con la consapevolezza del corpo. Tante donne, ancora oggi, non conoscono il proprio corpo: per questo penso che nella battaglia per la parità il sesso abbia un ruolo centrale. Anch’io, quando ho cominciato, mi sentivo fuori posto nel ruolo di dominatrice. Poi ho capito che il mio corpo mi appartiene e, come donna, ho il diritto di farne ciò che voglio.

Però non è così per tutte.

La mia è una situazione particolare: ho scelto io, liberamente, di fare questo lavoro. In generale, però, osservo che nella nostra società molto spesso il sesso tra uomo e donna viene usato come merce di scambio. Quando fai un lavoro come il mio almeno il lato economico è chiaro e quindi è possibile avere il controllo della situazione. Sono io a decidere il mio prezzo e quando dire sì e quando no.

Tutto gira intorno al tema del femminismo, insomma. Mi pare di capire che per il suo lavoro lo considera cruciale.

Prima del Covid organizzavo una decina di corsi diversi, aperti a tutti: il fatto che il più frequentato fosse quello sull’anatomia e la salute delle parti intime femminili la dice lunga. Il mio impegno comunque non era solo organizzarli ma anche renderli accessibili a tutti. Perciò non avevo fissato un prezzo, chi partecipava lasciava ciò che poteva. Ho ricevuto disegni, candele, saponi…a casa mia ho una mensola dove li raccolgo tutti. A volte, anche cibo fatto in casa. Purtroppo ora, a causa del Covid, ho dovuto interromperli.

Ha già dei progetti per quando l’emergenza Covid sarà finita?

Quelli non sono cambianti, anzi. Già prima della pandemia avevo comprato una vecchia fattoria in Borgogna: vorrei diventasse un luogo bello e accogliente per riunire un collettivo artistico. È il mio progetto a lungo termine. Con il Bdsm e con il sesso non c’entra niente, ma è parte della mia scelta di vivere in modo libero. Frustini, latex, tacchi alti? Quando immagino il mio futuro, mi vedo con un mazzo di carote in mano e una capretta al fianco mentre, a piedi nudi, sistemo l’orto.

·        La Rivoluzione Sessuale.

Francesco Borgonovo per “La Verità” il 7 agosto 2021. Che la rivoluzione sessuale avrebbe in breve tempo rivelato il suo oscuro doppio se n'era già accorto Julius Evola alla fine degli anni Cinquanta. La pretesa di abbattere il senso del pudore, spiegava, avrebbe riportato l'uomo a «considerarsi come nulla più che una delle tante specie naturali», e la potenza, la bellezza e la sensualità del corpo nudo sarebbero state sacrificate sull'altare di una medica freddezza, capace di annichilire persino «il potere elementare del sesso». Scriveva Evola che «l'esibizionismo impudico delle grandi spiagge estive è, in effetti, la migliore delle scuole di castità []. Lungo codesta linea, più che maggiore corruzione, può attendersi dunque il formarsi di uno sguardo dal quale, alla fine, una giovane donna nuda può essere osservata come si osserva un pesce o un gatto siamese, con naturalezza, curiosità e estetico disinteresse». A questo genere di sguardo metallico e gelido si è sempre sottratto Helmut Newton (1920-2004), uno dei più grandi cantori del corpo che abbiano mai praticato l'arte della fotografia. E infatti, per quasi tutta la sua carriera, egli fu avversato dal puritanesimo femminista, dalla sessuofobia dei progressisti che, prima, hanno abbattuto il pudore e poi l'hanno sostituito con il moralismo. «C'è una categoria di donne che mi irrita profondamente, è la razza delle donne dette "liberate", le pseudo militanti del Women's lib», disse una volta il fotografo, che fu accusato dai movimenti femministi di essere un razzista, un «alto prelato della pornografia», perfino un fascista. Tutto questo perché? Perché faceva esplodere la sensualità, e ritraeva donne forti, eroiche, piene di quella «fatalità primordiale» che tanto entusiasmava Valentine de Saint-Point, autrice del Manifesto della donna futurista. Newton si prese del «misogino» da Susan Sontag, nientemeno. Si disse che le sue erano «donne oggetto». Ma in realtà, come ha scritto Michel Guerrin, «con Newton la donna raramente è una vittima. Anche se nuda, è lei che decide, non perde mai la propria dignità. Sta dritta, sorride raramente, quasi mai. Percepiamo anche che porta avanti una storia. Non è più una modella». Gli assalti che Newton subì per decenni non erano che l'antipasto della burocratizzazione del sesso giunta all'apice negli ultimi tempi. Dalle allucinanti scomposizioni tecnologiche del gender alla psicosi sulle molestie, siamo ormai giunti all'approdo che Evola aveva previsto. Ogni tanto, però, spuntano qua e là piccoli fuochi reattivi. Uno di questi lo ha acceso, con sorprendente originalità, una donna di una certa fama che di nome fa Claudia Schiffer. Fu amica e musa di Newton, e ora lo celebra in una lunga intervista concessa alla rivista francese Marianne e, soprattutto in una grande mostra intitolata Captivate! dedicata alla fotografia di moda degli anni Novanta nel Kunstpalast di Düsseldorf. Curiosi rivolgimenti della storia. Un tempo si pensava che le top model rappresentassero l'apice della commercializzazione del corpo, e che con i loro tratti tendenti all'anoressia ne avrebbero infine eliminato il potenziale erotico. Oggi, infatti, le valchirie da passerella sono state sostituite dalle modelle che celebrano la «diversità» e l'inclusione. Eppure, a ben vedere, tutta questa ossessione per le minoranze e i corpi (apparentemente) «imperfetti» non ha affatto contribuito al ritorno di una fisicità più viva e vitale. Anzi, ha solo creato nuovi segmenti di mercato, ha completato la politicizzazione e commercializzazione dei corpi e, in fondo, ha contribuito pure a spegnerne la forza erotica. In questo quadro, la Schiffer appare come una orgogliosa avversaria del politicamente corretto quando prende le difese di Newton in opposizione alla sessuofobia dominante. Il giornalista di Marianne, a un certo punto dell'intervista, le fa notare che «nella nostra epoca divenuta impermeabile alla leggerezza», il già mal visto Helmut «non avrebbe chance d'essere esposto». L'osservazione non è inopportuna, visto che oggi si arriva a censurare perfino le statue e si bandiscono opere letterarie. Ed ecco la risposta orgogliosa della Schiffer: «La mostra che sto preparando avrebbe tutto un altro senso senza l'inclusione del lavoro di Helmut». E tanti saluti alla censura. Non solo: la bionda Claudia ci tiene a far capire da che parte stia: «Le fotografie di Helmut mostrano il potere femminile attraverso lo spirito e il corpo»; «le sue foto sono belle, eleganti, uniche». Chissà, forse davvero ci voleva una top model per riportare in scena la carica dirompente del corpo. Alla faccia del sessismo.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 16 giugno 2021. Se c’è una cosa che sappiamo per certo sulla storia dell’umanità, è che fare sesso non è una cosa di oggi. Nelle società di tutto il mondo, il romanticismo tra individui è stato a lungo oggetto di interesse sia per le autorità religiose che per quelle statali. L'esperta Eleanor Janega ha raccontato che i nostri antenati del Medioevo «non fossero affatto interessati» alla visione della chiesa medievale secondo cui l'unico tipo di sesso accettabile era quello che produceva bambini. Parlando con il collega storico Cat Jarman nel podcast “History Hit's Gone Medieval”, la dottoressa Janega ha invece spiegato che nel periodo medievale, il sesso «non finalizzato alla procreazione», per esempio i preliminari, era considerato «la roba buona». Janega è autrice del nuovo libro “Il Medioevo: una storia grafica”, che è stato pubblicato all'inizio di questo mese. Quando pensiamo alla sessualità nel periodo medievale, dobbiamo immaginare le pressioni della Chiesa nel convincere le persone a considerare il sesso procreativo l'unico tipo di sesso che valeva la pena sperimentare. «Quello che penso sia abbastanza divertente è che le persone medievali non sembrano essere affatto interessate a questa visione. Vogliono invece molto sesso non procreativo, sembrano considerarlo migliore». Secondo Janega le persone che vivono oggi hanno «interiorizzato» meglio quella che lei chiama «la visione della chiesa sul sesso», che è «reale» solo quando si parla di «pene nella vagina». «Le persone medievali sembravano davvero interessate al tipo di sesso che chiamiamo preliminari», ha detto. «La chiesa si è sforzata molto, ma l’impressione è che abbiano fatto un lavoro migliore con noi che con i medievali». La dottoressa Janega ha detto che allora si credeva necessario che sia uomo che donna raggiunsero l’orgasmo per concepire un bambino, ma le coppie erano invitate a non andare «troppo oltre». Ha aggiunto che l'influente teologo Tommaso d'Aquino si scagliava nei suoi scritti contro ciò che chiamava «baci lascivi». All’epoca la chiesa chiedeva di «non eccitarsi troppo, non fare troppo, ma la giusta quantità, farla finita e avere il bambino». Oltre a imporre il sesso solo ai fini della procreazione, la Chiesa sosteneva anche che il sesso andava evitato di domenica, giorno del Signore. Era proibito anche il giovedì e il venerdì, perché dovevano essere giorni in cui ci si preparava alla Santa Comunione della domenica. E durante la Quaresima, che poteva durare fino a 62 giorni, ci si aspettava che la gente comune fosse astinente. Il dottor Janega ha spiegato che i giocattoli sessuali erano popolari anche nel periodo medievale. «Sappiamo ad esempio che esistevano molti dildo perché abbiamo le ricevute per il loro acquisto: i lavoratori della pelle facevano dildo davvero intricati per le persone. E tendiamo a pensare che siano stati usati in quelle che chiameremmo “circostanze lesbo” per la maggior parte del tempo. Sappiamo che potevano essere venduti con finimenti e cose del genere». I nostri antenati medievali non vedevano la sessualità nello stesso modo in cui la vediamo noi: «Per loro non esistevano cose come l'omosessualità o l'eterosessualità, o eri un sodomita o non lo eri. La sodomia comprendeva tutti i rapporti sessuali che non portavano a una possibile gravidanza».

Dall'articolo di Kathy Benjamin per cracked.com il 13 giugno 2021. Si parla spesso dei grandi Casanova della storia, personaggi diventati famosi solo per quanto hanno scopato in giro. Eppure ci sono molte donne che hanno fatto di più e meglio dei Don Giovanni. La differenza è che le storie di tizi impegnati a fare sesso tutto il tempo sono di solito vanterie, mentre quelle di donne che hanno avuto rapporti sessuali giorno e notte sono quelle tragiche che fanno vincere un Oscar ad Anne Hathaway. Ma non è sempre una questione di quantità. Ecco qui alcune donne della storia la cui creatività sessuale avrebbe fatto impazzire qualsiasi uomo. 

5. La Contessa di Castiglione fu così brava a letto da unire un Paese. Virginia Oldoini nacque da nobili minori in Toscana nel 1837. Quando aveva diciassette anni, la diedero in sposa a un uomo di dodici anni più grande di lei. Un anno dopo, suo cugino decise che sarebbe stato molto più conveniente per la sua carriera e il Paese se Virginia fosse stata disposta a fare sesso con qualcun altro. Quel qualcuno era Napoleone III. Infatti, in quel momento, quella che oggi noi chiamiamo Italia, non era che un raggruppamento di piccoli stati e staterelli, e il cugino di Virginia faceva parte del gruppo che voleva unificarla. Dopo avere dato un’occhiata a quella seducente e giovane parente stretta, realizzò che il piano migliore era di convincerla a tradire suo marito con Napoleone III sperando che un po’ di conversazioni da letto potessero aiutare la causa. Questo perché nel 19 °secolo, l'Europa era praticamente una specie di universo alla “Trono di Spade”, completa di nano e relazioni familiari raccapriccianti. Virginia riuscì a diventare l'amante dell'imperatore per oltre un anno, e poco dopo la fine della relazione, Napoleone III inviò delle truppe per unire la penisola. Gli storici non sono d'accordo su quanto influente sia stato l’intervento della contessa in questa decisione, dal momento che erano in corso, in quello stesso periodo, varie battaglie, trattati e intrighi; ma lei si attribuì praticamente tutti i meriti e si scocciò che tutti gli altri non lo fecero. Anche se la contessa fu meno influente con le sue pudenda di quello che abbia voluto credere, gli uomini trovavano piacevole averla attorno ed erano disposti a pagare per il piacere. La contessa ha continuato a tradire il marito e ha guadagnato bene. Alla fine, si sparse la voce che arrivò all’incredibilmente ricco, ma notoriamente avaro Lord Hertford, che le fece la prima proposta indecente della storia: 1 milione di franchi per una notte con lei.

4. Peggy Guggenheim, l’arte unita al sesso. Potreste aver visitato uno dei vari musei Guggenheim in giro per il mondo, ma quello che la guida non vi dirà è che una dei mecenati ha avuto una vita sessuale folle. Peggy si sposò due volte ed ebbe due figli, ma è solo la punta dell’iceberg. Quando una volta le chiesero quanti mariti avesse avuto, rispose: "Vuol dire i miei o quelli di altre?" Le sue biografie raccontano che ebbe circa 1.000 amanti. La sua autobiografia ‘s’intitola “Memoirs of an Art Lover”, eppure non parla di arte fino a pagina 110 su un totale di 200 pagine, certamente perché aveva molto da dire sugli uomini e il sesso. Le piaceva, soprattutto, darsi da fare con personaggi famosi, tra cui la maggior parte degli artisti moderni che scoprì e il drammaturgo Samuel Beckett. Quando non riusciva a portarsi gli uomini a letto seducendoli, cercava di usare il suo denaro. Anche quando invecchiò, aveva ancora voglia di scoparsi bei ragazzi: a settant’anni ci provava con quelli di venti. Purtroppo per Peggy, non era bella come i dipinti della sua collezione. Jackson Pollock disse che avrebbe dovuto mettere un asciugamano sopra la sua testa per scoparla, ma non è che stiamo parlando di sto gran fico, quindi chi se ne frega della sua opinione. In effetti, aveva un enorme naso a patata e i commentatori le hanno attribuito una bassa autostima sia a causa del suo aspetto fisico, che per avere perso il padre in giovane età (era sul Titanic) come giustificazione del fatto che la desse così tanto allegramente in giro. Perché a quanto pare, le donne vogliono fare molto sesso solo se non stanno bene di testa.

3. La regina Nzinga aveva un harem di uomini costretti a combattere fino alla morte in suo nome. Nzinga Di Ndongo E Matamba è nata in quella che oggi è l'Angola, nel 1583. Ha trascorso tutta la sua vita a dare calci in culo a chi non le andava a genio e a fare sesso. Quando il padre morì nel 1618, i portoghesi commerciavano in schiavi in tutta l'Africa. Il fratello di Nzinga divenne sovrano, ma concesse agli invasori tutto quello che volevano. Quando i portoghesi iniziarono a strappare le persone dalle loro case per inviarle a lavorare in Brasile, la tribù Mbundu si rivolse a Nzinga per essere salvata. Così, lei fece quello che una signora tosta avrebbe dovuto fare: uccise suo fratello e assunse il potere. Poi iniziò a combattere. Una cosa apparentemente folle, dato che il Portogallo era una delle più grandi potenze mondiali, ma in effetti Nzinga guidò le sue armate in guerriglia e mantenne il potere per quarant’anni. Con tutte queste battaglie, non doveva avere molto tempo a disposizione per trovarsi degli uomini. Ovviò a questo problema mettendo su un harem gigantesco. Sì, anche le donne possono avere centinaia di schiavi per scopi sessuali. In passato, intendo. Non andate a controllare nel mio seminterrato. E doveva essere anche un’appassionata di fetish, perché li faceva vestire tutti da donna. La leggenda vuole che riuscì a coniugare le sue due cose preferite. E 'difficile scegliere ogni sera con quale bel ragazzo fare sesso, così escogitò una soluzione infallibile: due uomini avrebbero combattere fino alla morte e chi avesse vinto avrebbe potuto dormire con lei. Poi, la mattina dopo sarebbe, comunque, stato ucciso. Nessuna pressione circa la propria performance sessuale, in questo modo. L’età, tuttavia, ha la meglio su tutti noi, ad un certo punto della vita. A settantacinque anni, Nzinga decise di non avere più bisogno dell'harem e lo sciolse, sposandosi poi con uno dei suoi giovani schiavi sessuali. Ha vissuto altri sette anni, presumibilmente come una ‘cougar’ sino alla fine.

2. Le mogli di Filippo V di Spagna scopavano per Dio e per il Paese. Se sei il capo di una nazione, uno dei vantaggi è che nessuno può dirti di smettere di scopare in giro. Questo è il motivo per cui quasi tutti i re della storia hanno fatto tonnellate di sesso al di fuori del matrimonio. In realtà, così pochi re erano fedeli alle loro mogli, che è degno di nota il fatto che uno di questi lo fosse. Re Filippo V di Spagna era uno di questi monarchi. Non è che a Filippo non piacesse il sesso. Lo adorava. Voleva farlo tutto il tempo e dichiarò che si deprimeva se passava troppo tempo dall’ultimo rapporto. Tuttavia, Filippo era un fervente cattolico e crebbe nei precetti della Chiesa, interiorizzando le idee sul sesso sconveniente fuori dal matrimonio. Prese tutto molto seriamente, tanto che persino il suo pene non riuscì ad avere la meglio sul suo cervello. Sua moglie, quindi, doveva essere disponibile al coito ogni volta che lui ne aveva voglia. Filippo voleva avere la moglie sempre sotto mano, tanto che dormivano nello stesso letto in un periodo della storia in cui era considerato strano e che lei frequentò tutti i suoi incontri con i consiglieri durante il giorno, nel caso in cui lui volesse farsi una sveltina all’ora di pranzo. Filippo si sposò due volte, nel 1701 con Maria Luisa di Savoia e poi, nel 1714, con Elisabetta Farnese. Entrambe queste donne furono enormemente influenti nella gestione del Paese, per un solo motivo: tenevano, letteralmente, il marito per le palle. Maria era sposata con lui durante la guerra di successione spagnola. Quando il marito parlava dell’argomento, lei esprimeva la sua opinione su quello che lui avrebbe dovuto fare e se non era d'accordo, allora il sesso era fuori questione. Nel giro di poche ore, di solito, si faceva a modo suo. Non c'era un attimo di tregua per queste povere donne. Anche sul letto di morte, Maria dovette rendersi disponibile tre volte al giorno per fare felice il marito. Appena dieci mesi dopo, Filippo sposò Elisabetta, perché la frustrazione sessuale provata in meno di un anno di solitudine era così forte che egli riusciva a malapena a concentrarsi sulla gestione del Paese.

1. Talullah Bankhead non poteva essere fermata. Ho accennato in precedenza a Tallulah come una delle molte, molte amanti di Leslie Hutchinson, l’uomo col pene più grosso e famoso degli anni '30, ma lei aveva un curriculum sessuale che sminuiva quello di lui, e il vostro e, probabilmente, quello di molte generazioni future. Tallulah nacque nel 1902 e iniziò a recitare a quindici anni. Già a quel tempo, andava a letto con varie persone. E non le interessavano solo gli uomini. In principio, infatti, iniziò fare sesso nel convento per sole ragazze dove studiava, perché mettere un sacco di adolescenti in una stanza durante la notte dopo aver ripetuto loro per tutto il giorno che il sesso è sbagliato, ha sempre prodotto buoni risultati. Una volta che divenne famosa, però, le sue relazioni lesbiche diventarono più A-list. In un periodo in cui le relazioni sia interrazziali che gay erano punibili con il carcere, Tallulah ebbe legami con donne come Greta Garbo, Marlene Dietrich, Hattie McDaniel e Billie Holiday. Tuttavia, a Tallulah piacevano gli uomini. Una volta, in un'intervista esclusiva a una rivista si lamentò del fatto che non avesse avuto rapporti con nessuno da sei mesi, dicendo: "Sei mesi sono un lungo, lungo periodo. Voglio un uomo!" (Non si sa se poi saltò addosso al giornalista.) Tallulah non stava mai troppo a lungo senza fare sesso, però, e non deve essere stata molto attenta al riguardo, dato che a trent’anni ebbe bisogno di un isterectomia causata da malattie sessualmente trasmissibili. Mentre lasciava l'ospedale, disse al suo dottore che non aveva imparato nulla dall'esperienza. Mantenne il suo ritmo abituale e nel 1948 affermò orgogliosamente che "non era colpita dal rapporto Kinsey" e tutto ciò che vi era scritto era "antiquato" per quanto la riguardava. Riuscì a rimanere sposata per quattro anni a un attore minore di nome John Emery. Tallulah basò questa importante decisione riguardante la sua vita sentimentale sul fatto che lui era estremamente ben dotato. Ma, dichiarò, "L'arma può essere anche di proporzioni ammirevoli, ma se il tiro è debole…", e lo mollò. Tallulah è morta a sessantasei anni con un tempismo perfetto, dato che sembrava essersi annoiata del suo hobby preferito, tanto da dichiarare: "Il sesso? Mi annoia. Di cosa si tratta, dopotutto? Se si va verso le parti basse di una donna, ti fa male il collo. Se si va giù, nelle parti basse di un uomo, ti fa male la mascella. E scopare mi provoca solo la claustrofobia ".

Dagotraduzione dal DailyMail il 12 giugno 2021. È in uscita per l’editore inglese Hodder & Stoughton Hardback il libro “Sex: Lessons from History” (Sesso: lezioni dalla Storia) in cui Fern Riddell, storica, cerca di scoprire «le vite sessuali dei nostri antenati» attraverso i grandi temi sessuali: dai flirt, alle relazioni lesbiche alla masturbazione ai giocattoli sessuali. «Questo libro è costruito sui registri pubblici e privati di coloro che hanno vissuto e amato prima di noi. È un tentativo di reimpostare la narrativa, di cambiare la nostra memoria culturale che ritrae il sesso come qualcosa di cui i nostri antenati si vergognavano, per dimostrare che in realtà il sesso è sempre stato in prima linea nelle nostre vite», scrive Riddell. Ecco alcuni dei casi raccontati nel libro. 

Sposata con una donna. Nel novembre del 1746 Mary Hamilton, anche nota come Georges o Charles Hamilton, fu processata per essersi finta uomo e aver contratto matrimonio con una donna, Mary White. Hamilton era nata nel Somerset, ma la famiglia si trasferì in Scozia. A 14 anni prese in prestito gli abiti del fratello e, travestita da maschio, si trasferì nel Northumberland dove si fece assumere a servizio di un medico. Secondo alcuni rapporti dell’epoca, Hamilton, fingendosi uomo, sposò 14 donne. Mary Price si accorse dell’inganno solo 3 mesi dopo il matrimonio. «Le pratiche ingannevoli si basavano probabilmente sull’uso di giocattoli sessuali e vibratori che imitassero l’atto di penetrazione» racconta Riddell. La storia fece scalpore in tutto il paese e ispirò un romanzo. 

Le monache lesbiche. Nel primo Medioevo la comunità clericale temeva che tenendo chiuse insieme le monache, si sarebbero abbandonate a «lussuria carnale, atti lesbici e uso di giocattoli sessuali per la penetrazione». Suor Benedetta Carlini, badessa del convento della Madre di Dio, in Toscana, all’inizio del 1600 costrinse un’altra suora ad atti sessuali sostenendo di essere posseduta da uno spirito divino maschile. «Questa Suor Benedetta, poi, per due anni continuativi, almeno tre volte la settimana, la sera dopo essersi spogliata ed essere andata a letto aspettava che la sua compagna si spogliasse, e fingendo di aver bisogno di lei, chiamava. «Quando arrivava Bartolomea [l'altra suora], Benedetta la prendeva per un braccio e la gettava a forza sul letto. Abbracciandola, l'avrebbe messa sotto di sé e baciandola da uomo, le avrebbe rivolto parole d'amore». Le parole sono state tratte da una testimonianza resa da Bartolomea durante un'indagine sulle false affermazioni religiose di Benedetta. Nel frattempo, nel XII secolo, una monaca bavarese di Tegernsee scrisse un versetto appassionato a un'altra sorella. Il breve verso indica esplicitamente una relazione fisica e sessuale tra le due donne. Si legge: «Sei solo tu che ho scelto per il mio cuore... Ti amo sopra ogni altra cosa, tu solo sei il mio amore e il mio desiderio... Quando ricordo i baci che mi hai dato, e come con tenere parole mi hai accarezzato i piccoli seni, voglio morire, perché non posso vederti».

Preservativi al primo sexy shop. Teresia Constantia Phillips (1709-1765) era una bigama benestante e figlioccia della duchessa di Bolton che gestiva The Green Canister a Covent Garden, dove vendeva contraccettivi e ausili sessuali che all'epoca non venivano venduti pubblicamente. La sua specialità erano i "Bandruches Superfines", preservativi di budello di pecora o di capra fatti a mano e «modellati su stampi di vetro, lunghi otto pollici (20 centimetri), e decapati o profumati». «Quelli della migliore qualità erano "assicurati al collo con un nastro, che poteva essere nei colori del reggimento"; mentre per il gentiluomo deciso a evitare a tutti i costi o la gravidanza o la malattia, il suo “Superfine Double” era costituito da "due estremità cieche dell’intestino della pecora, sovrapposte e gommate"». Teresia, conosciuta come 'Mrs Phillips', è ricordata per le sue memorie, An Apology for the Conduct of Mrs TC Phillips, che furono pubblicate in 18 parti diverse nel 1748–9 e scandalizzarono l'alta società.  La cortigiana sposò Henry Muilman, un mercante olandese, nel 1724. Lasciò Londra per la Giamaica nel 1751 sulla scia della pubblicazione delle sue memorie. La signora Phillips è morta in Giamaica.

Le case di Molly. Nel 18° e 19° secolo, i luoghi di incontro per uomini omosessuali erano conosciuti come Molly House, dal termine popolare per gli uomini gay, Miss Molly, o semplicemente "Molly". «Questi club hanno offerto ai loro membri l'opportunità di incontrarsi, amare ed essere se stessi in un ambiente apparentemente fuori dalla portata della legge», scrive Riddell. Fino al 1861, il sesso penetrativo tra uomini era punibile con la morte. All'inizio del XVIII secolo c'erano più di 40 case di Molly sparse per Londra.  Alcuni degli uomini di questi club si vestivano da donne e assumevano nomi femminili come "Miss Fanny Knight" o Princess Seraphina. Riddell scrive: «A Sukey Bevells, il club era rinomato per le sue grandi stravaganze, "Gli steward sono Miss Fanny Knight e zia England; e la graziosa signora Anne Page officia come Clark». Sebbene inizialmente visitate da uomini della classe operaia, le case dei Molly finirono per attirare anche i benestanti.

Istruzioni per un orgasmo. Nel capitolo dedicato all'orgasmo, Riddell riporta l’estratto di una pubblicazione del XVIII secolo che offre consigli su come sedurre una donna. «Pubblicato in inglese per la prima volta nel 1709, An Apology for a Latin Verse in Commendation of Mr Marten's Gonosologium Novum, conteneva una traduzione inglese del presunto lavoro del chirurgo del sedicesimo secolo, Ambroise Paré». Ecco l’estratto: «Quando un marito entra nella camera di sua moglie, deve intrattenerla con ogni tipo di distrazione, comportamento sfrenato e lusinghe; ma se percepisce che è lenta e più fredda, deve accarezzarla, abbracciarla e solleticarla, e non irromperà bruscamente nel Campo della Natura, ma anzi si insinuerà a poco a poco, mescolando baci più sfrenati a parole e discorsi lascivi, maneggiando le sue parti segrete e i suoi scavi, affinché possa prendere fuoco e infiammarsi...».

LA RECENSIONE. COSÌ È NATA LA RIVOLUZIONE SESSUALE. Domenico Bonvegna su ilsudonline.it il 27 marzo 2021. «Nessuno finora ha scritto una storia della rivoluzione sessuale». Lo scrive Lucetta Scaraffia nel suo «Storia della liberazione sessuale. Il corpo delle donne tra eros e pudore», Marsilio Editori (2019). «Il motivo si può ben capire: si tratta di scrivere la storia di una forma di pensiero che ha causato una trasformazione radicale nei comportamenti, ma che è stata fatta passare come inevitabile. Quasi fosse un momento obbligato del progresso, dell’affermazione della libertà individuale, un’altra tappa sulla strada che porta alla felicità». In questo studio Scaraffia individua il passaggio epocale tra il declino del pudore e il trionfo del corpo che diventa protagonista nella società. E’ il tema che occupa i primi capitoli (Liberi dal pudore). Si parte dall’immagine dei figli dei fiori di Woodstock, il grande festival del 1969, ormai è diventato il simbolo decisivo del cambiamento sia nel percepire il corpo, che nel comportamento sessuale. Un avvenimento che richiama al mito dell’innocenza ritrovata, del paradiso perduto. «I partecipanti alla manifestazione volevano credere – e soprattutto far credere – di avere ricostituito il mondo puro e libero da violenza e aggressività quale doveva essere stato l’eden, dove la felicità sarebbe stata garantita a tutti grazie alla libertà da ogni proibizione sessuale». La novità di Woodstock non è tanto la nudità, ma il fatto che i rapporti sessuali avvenissero sotto gli occhi di tutti: sostanzialmente assenza di pudore e liberazione di quelle regole che avevano costituito il cuore del pudore dei secoli passati, almeno per quanto riguarda la cultura occidentale di matrice cristiana. Infatti, la rivoluzione sessuale, fin dagli inizi, è una pretesa di affrancamento dal senso del pudore, «ritenuto un condizionamento negativo della cultura borghese che blocca la spontaneità degli istinti, e quindi impedisce la felicità individuale, creando nella psiche degli esseri umani nevrosi e aggressività». Pertanto per i fautori della rivoluzione sessuale, «il tradizionale senso del pudore incentrato sulla sessualità – inculcato nei bambini fin dall’infanzia – viene considerato un mezzo subdolo per garantire la repressione sessuale». La fine del pudore, ha soprattutto interessato lo svelamento progressivo del corpo femminile. Ma il risultato per la Scaraffia è stato contraddittorio: «da un lato, le donne si sono liberate dalle costrizioni e pregiudizi, dall’altro, il corpo femminile svestito è diventato il più frequente oggetto di marketing pubblicitario». Come del resto appare con la rivoluzione sessuale, soprattutto le donne sembrano perdere da una parte quello che conquistano dall’altra. Tutto questo cambiamento, che cosa ha comportato? Ogni ostacolo alle immagini ritenute offensive al senso del pudore è considerato non solo sbagliato, ma inutile. Lo vediamo nel cinema, in televisione, in internet, che ormai trasmette a chiunque, qualsiasi tipo di pornografia. Siamo giunti al punto che «la mancanza di pudore, equiparata a coraggiosa e moderna apertura a una vita libera, fa sì che oggi addirittura ci siano persone che diffondono immagini pornografiche di se stesse, salvo poi pentirsene, soprattutto se giovani donne». A questo proposito la Scaraffia commentando le dichiarazioni di Saviano, favorevole alla normalizzazione di certa trasgressione, può scrivere che oggi ormai il concetto di pudore, il suo significato è stato completamente impoverito. «Secoli di riflessioni teologiche e antropologiche nonché filosofiche sul concetto di pudore sono infatti stati dimenticati a favore di un’interpretazione, che si vorrebbe ‘liberatoria’ da un concetto che ha radici antichissime e così profonde da definire la stessa natura umana». A questo punto la scrittrice torinese si avvia a trattare come è stato considerato il pudore nella storia dell’umanità, a partire dalla nudità di Adamo ed Eva. Passando da come veniva visto il pudore nell’antichità, nell’antica Grecia, fino alla Bibbia ebraica. Per arrivare al Novecento e qui la Scaraffia dedica un capitolo al pudore femminile nella tradizione islamica. La questione del velo, che rappresenta il pudore per eccellenza, «protegge quello delle donne, impedendo al tempo stesso agli uomini di trasgredire il loro, mostrando l’eccitazione sessuale». Scaraffia fa riferimento anche al mondo cattolico come le donne fino a un certo periodo erano velate, coprivano i capelli. Comunque a dare un’espressione negativa del pudore, almeno in Occidente ci ha pensato la psicanalisi, disciplina portante dei profeti della rivoluzione sessuale. Tuttavia come la morale anche il pudore si oppongono alla soddisfazione sessuale, entrambi creano nevrosi e perversioni, secondo i guru della rivoluzione sessuale. «Disgusto, morale, pudore costituiscono una triade che impedisce il piacere: l’energia sessuale, costretta, può quindi dare origine a nevrosi, perversioni[…]». Forse la parte più interessante dello studio, è la seconda (Una guerra alla libertà). Qui si affronta la Rivoluzione Sessuale con tutti i suoi aspetti aggiuntivi, l’eugenetica, la psicanalisi, il “falso antropologico” che promuove il libero amore. Sono gli aspetti pseudoscientifici che l’autrice confuta. La rivoluzione sessuale si incontra presto con quella femminista, entrambi condividono il problema del «controllo delle nascite: solo la possibilità di controllare la fertilità, infatti, può permettere sia la liberazione sessuale che l’emancipazione delle donne». L’alleanza tra i due movimenti risale alla fine del XIX secolo, nell’ambiente scientifico che sostiene l’eugenetica. Infatti la contraccezione viene accettata nella prospettiva di avere un mondo migliore, di persone sane. Ancora non si ha il coraggio di giustificarla come un desiderio individuale, di fatto egoistico. Il controllo delle nascite, nel secondo dopoguerra, prende un nome più scientifico e più positivo: pianificazione familiare. Sostanzialmente, la motivazione più gettonata per convincere le masse ad adottarla è ancora di tipo utopico: «l’idea che i bambini desiderati e voluti diventeranno esseri umani migliori, più sani e più intelligenti, ma anche più equilibrati e più felici di quelli nati per ‘caso’». La svolta per i sostenitori del controllo delle nascite si è avuto con la pillola, scoperta dal dottor Pincus, che apre nuove e inedite prospettive per le teorie della liberazione sessuale. Scaraffia, fa nomi e cognomi di chi ha finanziato le ricerche e poi la diffusione della pillola. E’ tutto un mondo americano impregnato di teorie utopiche intorno al controllo delle nascite. Margaret Sanger, Havelock Ellis, George Drysdale, e poi tante associazioni destinate a diffondere la contraccezione, e poi l’aborto, fino alla Planned Parenthood Federation of America. Le fondazioni Rockefeller e Ford. Tutti questi pseudo scienziati, sono legati alla prospettiva eugenistica. Scaraffia non nasconde che questi signori sono legati all’eugenismo della Germania nazista. Con la pillola, le donne separano la sessualità dall’amore, dalla famiglia. Adesso sono sole a scegliere se concepire un figlio. La rivoluzione sessuale «non solo era destinata a separare definitivamente la sessualità dalla procreazione, ma anche dal matrimonio e dall’amore, per legittimarla come semplice ricerca di piacere individuale». In questo modo la sessualità perde la sua dimensione sociale e pubblica, per divenire un’attività privata e insindacabile, da questo momento ognuno rivendica il diritto di fare le scelte che preferisce. La rivoluzione sessuale e la contraccezione a partire dagli anni sessanta sono le questioni per eccellenza, che si scontrano subito con la Chiesa, che risponde con l’enciclica Humanae vitae, di san Paolo VI. Tuttavia questo mondo della rivoluzione sessuale ha partorito anche la sessualità LGBT, che «a guarda bene sono solo i gay a realizzare, senza supporti biotecnologici, l’obiettivo desiderato». Infatti nel sesso senza riproduzione si colloca la sessualità omosessuale. A fronte di questo paradiso di libertà sessuale, arriva il serpente dell’Aids che rovina tutto. E chi ricorda che per vincere il contagio di questa malattia si può fare soltanto con la fedeltà di coppia o con l’astinenza. Chi lo dice o lo scrive viene tacciato di conservatorismo o di bigottismo. L’essere umano non è fatto per la promiscuità. La Scaraffia affronta anche la squallida questione del sesso con i minori, che fa parte della rivoluzione sessuale, delle “conquiste” del sessantotto. Ricordate lo slogan “vietato vietare”, si pensava che la rivoluzione sessuale dovesse abolire ogni concetto di perversione, fino ad arrivare alla liberazione della pedofilia. Altro tema legato alla rivoluzione sessuale, è quello dell’esplosione della pornografia. Attenzione la Scaraffia ricorda che i guru della rivoluzione sessuale avevano garantito che la liberalizzazione dei comportamenti erotici avrebbe comportato la fine della pornografia, considerata solo un effetto della repressione. Nessuno aveva previsto il suo trionfale aumento. Interessante il capitolo (Alle origini della rivoluzione), forse quello per cui vale la pena leggere il pamphlet della storica, giornalista e professoressa torinese. E’ importante perchè Scaraffia sostiene e documenta come la rivoluzione sessuale è nata negli ambienti dei rigidi scienziati ottocenteschi dell’eugenismo. Questi «pensavano di poter migliorare l’umanità impedendo la nascita degli esseri umani deboli e malati, e favorendo invece quella dei sani, belli e intelligenti». In pratica significava proibire alle persone sospettate di trasmettere malattie o condizioni fisiche considerate inadeguate al miglioramento della razza. In molti paesi si sterilizzarono uomini e soprattutto donne, considerate portatori di malattie. Il primo scienziato ad affrontare la questione fu un medico caro agli eugenisti, lo psichiatra austro-ungherese, Richard von Krafft-Ebing. Le sue teorie hanno avuto successo, si trattava di classificare le deviazioni sessuali, alla quale veniva data una spiegazione medica, totalmente opposta alla morale cattolica. Altro professore citato è Havelock Ellis, questi propone la vita sessuale degli animali come modello. Concludo l’argomento con una tesi significativa di Scaraffia: «E’ interessante scoprire quanto sia stata proprio la scienza eugenetica a diffondere principi che poi saranno fatti propri dalla rivoluzione sessuale, contribuendo a renderli opinione diffusa […] Questa contiguità fra trasformazione del comportamento sessuale e teorie eugenetiche è confermata dall’inquietante simultaneità fra l’introduzione della prassi eugenetica e la legalizzazione dell’aborto e della contraccezione in quasi tutti i paesi in cui l’eugenetica è stata applicata. Quella che oggi appare e viene raccontata come una vittoria della libertà individuale, un allargamento dei diritti e della democrazia, deve una parte importante delle sue origini a una falsa scienza, oggi caduta completamente in discredito perchè apparentata al nazismo». Collegata alla rivoluzione sessuale c’è la psicanalisi di Sigmund Freud, che si sviluppa accanto all’eugenetica con lo schema: perversione-ereditarietà-degenerazione. Freud porta alla nuova utopia, quella della necessità del piacere per tutti. Scaraffia affronta anche il tema della “naturalità” nel comportamento sessuale delle cosiddette società primitive. Si fa l’esempio del paese di Otaiti e poi dei villaggi nella Melanesia nord-occidentale e poi di Samoa. Gli antropologi erano convinti che in queste popolazioni c’era una totale assenza di inibizioni sessuali. Soltanto poi si scoprì che si trattava di favole, non c’era libertà sessuale. Nella migliore delle ipotesi si trattava di malintesi. Innanzitutto la Scaraffia sentenzia che la rivoluzione sessuale è stata soprattutto una rivoluzione di carta: è la nuova utopia, attivata nel secondo dopoguerra da un gruppo di libri, in prevalenza di matrice anglosassone. Gli ideologi, i padri nobili, di questa rivoluzione furono principalmente Wilhelm Reich (1857-1957) e Herbert Marcuse (1898-1979). Sono quelli che hanno fornito la finalità politica e la speranza di miglioramento nella vita individuale. Per Scaraffia, rileggendoli, questi libri, si nota una certa infondatezza, superficialità utopistica, colpevole cecità della natura umana. Tuttavia negli anni sessanta, questi libri sono stati il vangelo della rivolta. La Scaraffia si sofferma su entrambi delineando gli aspetti principali dei due leader della rivoluzione sessuale. Reich creatore del termine rivoluzione sessuale, da cui è nato il testo più conosciuto della sua opera. L’altro testo di notevole successo è stato La psicologia di massa del fascismo. Ha criticato in modo particolare la famiglia che rende l’individuo spaventato e timoroso davanti all’autorità. «Il fascismo sfrutta ed esalta la struttura familiare autoritaria, repressiva e antisessuale, proprio perchè questa offre il terreno ideale per il suo sviluppo». Per uscire dalla deriva fascista per Reich bisogna sostituire la famiglia patriarcale autoritaria con quella sperimentata dalla rivoluzione russa. Ma il pensiero più seguito e più letto dal movimento studentesco del ’68 è quello di Marcuse, attraverso i suoi due libri principali, Eros e civilta e L’uomo a una dimensione. Nel capitolo (Il piacere sotto inchiesta) la Scaraffia affronta le teorie dell’ematologo Alfred Kinsey, un profeta-scienziato che con le sue ricerche ha avuto un grande impatto sociale. Le sue opere furono tradotte in tutto il mondo e divenne la bandiera di coloro che chiedevano una liberalizzazione della morale sessuale. I suoi studi forniscono le basi per una nuova morale sessuale, molto permissiva. Uno dei suoi allievi più fedeli Hugh Hefner ne coglie l’importanza e fonda un periodico di grande successo, “Playboy”. Nel capitolo (Il sesso immaginato) si affronta l’era del sesso, mentre «le scienze umane contribuivano in modo decisivo a cambiare la mentalità nei confronti del comportamento sessuale presso i ceti intellettuali e quindi presso le élite occidentali, la rivoluzione sessuale raggiungeva i ceti popolari attraverso una serie di scandali al cui centro vi erano appunto romanzi, ma anche film e canzoni». Un ruolo fondamentale nella trasformazione della mentalità lo hanno svolto il primo Lp dei Beatles e un libro scritto da H. D: Lawrence, L’amante di Lady Chatterley. Ma non solo la Scaraffia ricorda l’uscita alla fine degli anni ’70 del disco-scandalo per l’epoca di “je t’aime…moi non plus”. Il film di Bernardo Bertolucci,“L’ultimo tango a Parigi”. Un ulteriore altro scandalo è procurato da un libro edito da una piccola casa editrice legata al movimento studentesco, di“Porci con le ali”. Comunque la Scaraffia documenta una serie di opere letterarie che praticamente si sono impadronite dei temi erotici. Il volume si avvia alla conclusione tentando di fare un bilancio con lo sguardo critico di quelle scelte e nelle scelte successive del percorso della rivoluzione sessuale o della liberazione delle donne. E’ una critica serrata da femminista, appartenente al mondo cattolico. Sostanzialmente per la Scaraffia sono state le donne a pagare il prezzo più alto per una liberazione che si è mossa in una direzione opposta a quella dei loro desideri più profondi. Quanto tempo c’è voluto perché le donne capissero. “Si è raggiunta la felicità prospettata per le donne e gli uomini del nostro tempo?” Alla domanda non possiamo dare una risposta totalmente affermativa. «Piuttosto è vivo il sospetto che anche questa promessa utopica abbia fallito […] confermata dalla costante crescita della depressione che, secondo l’Oms, entro il 2030 potrebbe diventare la malattia cronica più diffusa nel mondo». DOMENICO BONVEGNA

·        La Verginità.

Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica” il 21 ottobre 2021. No, la verginità non esiste, almeno non da un punto di vista medico-anatomico. Su questa base il Royal College of Obstetricians and Gynecologists (Rcog), che rappresenta gli ostetrici e i ginecologi inglesi, ha pubblicato un appello sul British Medical Journal per chiedere al governo di bandire i test di verginità, visite «invasive e prive di basi scientifiche» volte a verificare l'integrità dell'imene. Il test, si legge nell'editoriale, è offerto da diverse cliniche private del Regno Unito. Ma è praticato in tutti i Paesi occidentali. A richiederlo sono soprattutto donne e famiglie di religione musulmana, ma non solo: ha fatto scalpore il caso del rapper americano T.I., che ha dichiarato di imporlo ogni anno alla figlia. All'appello dei ginecologi inglesi ha risposto l'italiana Eugenia Tognotti, docente di Storia della medicina e della sanità pubblica all'Università di Sassari: la sua lettera, pubblicata dal British Medical Journal, ricostruisce le origini storiche di un mito. «Verginità non è un termine medico» dice. «Non lo si trova nei grandi trattati di anatomia. È una costruzione sociale. Nel Medioevo l'unica incerta prova della verginità era la tendenza delle donne a sanguinare al primo rapporto». Poi, nel XVI secolo, il fiammingo Andrea Vesalio, considerato il padre dell'anatomia moderna, ebbe l'opportunità di dissezionare il corpo di due donne certamente vergini. «La certezza gli derivava dal fatto che una fosse suora e l'altra deforme» spiega Tognotti. «Notò un setto di tessuto membranoso attorno all'ingresso della vagina e si convinse di aver trovato la prova fisica della verginità». La descrizione dell'imene apparve nel 1543 sul suo De humani corporis fabrica. In seguito, Vesalio avrebbe precisato che «non tutte le vergini hanno l'imene». Ma ormai era troppo tardi. «Si tratta forse dell'unico caso nella storia della medicina in cui l'evolversi della conoscenza non ha cancellato convinzioni errate. Ancora oggi l'imene è feticizzato. Test non scientifici vengono eseguiti regolarmente anche nei Paesi occidentali. E il fatto che il mondo medico non sia riuscito a farli bandire la dice lunga sulla posta in gioco sociale, morale e simbolica della verginità». Insomma il problema, oltre che etico, è scientifico, perché l'imene non è un indicatore affidabile di verginità. Secondo la ginecologa Jennifer Gunter, autrice del bestseller The Vagina Bible (la Bibbia della vagina), circa il 50 per cento delle adolescenti sessualmente attive presenta un imene intatto. Altri specialisti, invece, sostengono che chi ha avuto rapporti presenta quasi sempre un imene lacerato. Questo disaccordo, secondo diversi medici, deriva dal fatto che le pubblicazioni scientifiche sull'imene sono quasi inesistenti. «Non si lacera sempre al primo rapporto» dice Nicola Colacurci, presidente dell'Associazione ginecologi universitari Italiani. «E di certo non si "rompe" perché, salvo rari casi, non ostruisce l'ingresso della vagina. Non è un sigillo che la occlude, ma una membrana che ne circonda l'apertura esterna». In Svezia hanno addirittura proposto di sostituire "corona" al termine "membrana", che evoca l'immagine di un'ostruzione; e la richiesta dei ginecologi è stata accolta dallo Språkrådet, il Consiglio per la lingua svedese. Come spiega Colacurci, il mito dell'integrità imenale nuoce anche alla clinica: «Tra i medici vige ancora la consuetudine di non visitare le donne vergini. Quindi se arriva in ospedale una paziente con sospetta patologia ovarica non posso farle un'ecografia transvaginale. E neanche un controllo vaginale: sono costretto a farlo rettale. Con grande disagio per la paziente ed evidenti limiti per la diagnosi».  Il test di verginità, dunque, è solo la prima di molte questioni su cui la comunità medica comincia a riflettere. In Francia, dopo un dibattito iniziato nel 2020, è appena diventato illegale. Mentre è di agosto la notizia che l'Indonesia non lo imporrà più alle reclute dell'esercito. Ma l'appello inglese aggiunge un tassello importante: la messa al bando dei test «è compromessa senza il divieto di imenoplastica, visto che le due pratiche sono inestricabilmente legate». Si tratta della ricostruzione chirurgica dell'imene, e non riguarda solo le donne musulmane: è parte del grande business della chirurgia intima femminile, una branca della chirurgia estetica sempre più diffusa, che offre interventi di rimodellamento e rigenerazione dell'area vaginale. In Italia, l'imenoplastica è sponsorizzata da una grande quantità di siti che offrono interventi di chirurgia intima. Alcuni ne illustrano i vantaggi in italiano e arabo. Uno spiega: «La chirurgia moderna può restituire lo stato di verginità. Dopo questa operazione, alla prima penetrazione si presenteranno nuovamente la difficoltà e il dolore tipico della lacerazione con conseguente perdita di sangue». In realtà la perdita di sangue non è una costante della prima penetrazione. Ciononostante, come spiega Andrea Garelli, chirurgo plastico che opera tra Roma e Milano, «le donne che si rivolgono all'imenoplastica vogliono la garanzia del sanguinamento, soprattutto quelle di religione musulmana. Questa richiesta può essere soddisfatta chirurgicamente. Ma, in condizioni naturali, il sanguinamento dipende dalla morfologia e dall'elasticità dell'imene. Molte donne, infatti, non hanno alcuna perdita». Garelli, diversamente da altri chirurghi, sostiene di avere tra le sue clienti anche diverse italiane. «Le tipologie sono due. Una è la ragazza minorenne: a volte viene da sola e poi, quando scopre che serve l'autorizzazione di un genitore, rinuncia; altre volte è accompagnata dalla madre. Poi c'è la donna di 45-50 anni. Qui l'imenoplastica è spesso abbinata a un altro intervento estetico: il seno, la liposuzione. Dovendo fare un'anestesia generale, ne approfittano. Magari sono donne al secondo matrimonio, che vogliono fare un "regalo" al marito. C'è un'agenzia specializzata in liste di nozze che per un periodo proponeva ai suoi clienti questa idea. Alcune donne sono arrivate così». In Francia lo hanno definito «il business della verginità». Ma di fatto è difficile farsi un'idea del numero e della tipologia di questi interventi. ricostruire è una cosa seria Secondo Massimiliano Brambilla della Sicpre, Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva, «le imenoplastiche non sono affatto comuni. In ospedale arrivano pochi casi (Brambilla dirige il servizio di chirurgia plastica genitale al Policlinico-Mangiagalli di Milano). Sono donne che hanno subito violenza o ragazze inviate dai servizi sociali, principalmente di origine nordafricana. Ogni caso deve essere valutato da un'équipe di psicologi. Certo, se un chirurgo si mette a pubblicizzare l'imenoplastica sul web, è chiaro che riuscirà ad attrarre anche altri tipi di persone. Ma il ripristino dell'imene non è un gioco. Quindi la procedura deve essere motivata».

Sfatiamo un mito: la verginità non esiste. Francesca Favotto il 15 aprile 2021 su Vaniy Fair. La verginità è solo un costrutto sociale: per esempio, lo sapevate che l'imene non si rompe? E che la sua forma è simile a uno scrunchie? In quanto a sesso, a noi generazioni Millennials e anche Boomer (per usare due definizioni da giovani, appunto!), ci hanno allevato a pane, miti e tabù. Per esempio, a chi non è stata raccontata la storia del preservare la verginità per essere poi impalmate dal bravo ragazzo? O a chi non è stato detto che la perdita della verginità era simboleggiata dalla rottura dell’imene con conseguente perdita di sangue durante la prima volta? Ebbene, sono tutte fandonie. O meglio, la verginità è solo un costrutto sociale e non ha nulla a che fare con il corpo. Abbiamo chiesto delucidazioni alla dottoressa Silvia Gioffreda, medico che si occupa di salute e benessere sessuale da molti anni, anche attraverso il suo profilo Instagram (seguitissimo!), dove la trovate come @lapopdoc.

Parliamo di verginità: esiste o non esiste?

«Siccome non c’è alcun modo per provare scientificamente se qualcuno è vergine oppure no, allora la verginità non esiste, è solo un costrutto sociale. Il termine “vergine” indica di solito chi non ha mai avuto esperienze sessuali in generale. Ma in realtà spesso si usa riferito a una persona con la vulva, per indicare che questa non ha mai avuto un rapporto sessuale penetrativo».

Quindi l’imene che si rompe e sanguina è una leggenda?

«L’imene è una struttura che si trova a circa 1-2 cm all’interno della cavità vaginale. Quando me l’avevano spiegata all’università, me l’avevano definita come una membrana che si trova all’ingresso della vagina, immaginandomela come una sorta di pellicola che la sigilla, garantendone la freschezza e l’originalità.

In realtà è molto più simile a uno scrunchie, l’elastico per capelli in tessuto tipico degli anni Ottanta-Novanta (il famoso fermacoda che cita Carrie Bradshaw quando litiga con Berger, vi ricordate?, ndr): è un tessuto ripiegato più volte, appoggiato alle pareti della vagina che presenta uno o più fori al centro. Tutti questi ripiegamenti gli permettono di essere molto elastico e proprio per questo motivo può favorire l’ingresso di pene/dita/sex toys senza rompersi.

A quanto emerge dagli studi, l’imene può variare in forma, colore, dimensione e flessibilità, da donna a donna, in base all’età o ai livelli ormonali. Studi fatti in differenti contesti e in differenti Stati hanno ormai messo in luce che l’imene non può essere indicativo di sessualità attiva o meno. Come tutte le altre parti del corpo anche l’imene si può rompere. La maggior parte delle volte, però, succede durante i parti o le violenze sessuali.

Per quanto riguarda i rapporti penetrativi in generale, invece, l’imene certo può subire delle microlacerazioni, ma essendo un tessuto non particolarmente vascolarizzato, è difficile che sanguini durante il primo rapporto sessuale. Le microlacerazioni poi guariscono da sole senza lasciare traccia: ecco perché è impossibile distinguere tra l’imene di chi ha avuto rapporti penetrativi e quello di chi non ne ha avuti».

Allora il sanguinamento da dove deriva durante la prima volta?

«Sfatiamo il mito che sia normale sanguinare durante il primo rapporto sessuale. Non solo non è normale, ma non è nemmeno così comune. Le statistiche riportano che tra il 40 e il 63% delle donne non ha avuto sanguinamenti durante il primo rapporto.

Se il sanguinamento avviene, è difficile che sia per colpa dell’imene che si rompe perché come dicevo prima oltre a essere una struttura molto elastica, è anche povera di circolazione sanguigna (quindi sanguina poco) e priva di terminazioni nervose (quindi non può essere responsabile del dolore della prima volta).

Il sanguinamento (e il dolore) invece è spesso dovuto a delle lacerazioni che il pene determina all’interno delle pareti vaginali. Questi sanguinamenti sono dovuti al fatto che spesso durante i primi rapporti si saltano dei passaggi fondamentali che permettono alla vagina di prepararsi alla penetrazione. Quindi succede che la vagina non è abbastanza lubrificata e dilatata e per questo il pene può causare delle microlesioni. Tutto risolvibile con un bel lubrificante e la pazienza necessaria per fare le cose con calma».

Ho sentito parlare del certificato di verginità: che cos’è? In cosa consiste?

«È un certificato che può essere emesso in seguito al test della verginità, che tutt’ora viene fatto in moltissimi Paesi del mondo (anche in Italia) per garantire la verginità di una persona. Il test consiste nell’andare a esplorare con due dita la vagina della paziente. Il medico di turno andrà a verificare la presenza o meno dell’imene e soprattutto la lassità delle pareti vaginali.

Anche questo falso mito purtroppo è ancora molto diffuso: la credenza che più si pratica sesso penetrativo e più la vagina si allargherà e perderà la sua tonicità. Tutti questi criteri non sono affidabili scientificamente per determinare la verginità di una vulva, ma nonostante questo i certificati ancora vengono rilasciati, andando a violare molti diritti umani delle donne.

La comunità scientifica e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sono d’accordo nel dire che non ci sono metodi scientificamente attendibili per conoscere la vita sessuale di un’altra persona. E soprattutto che la ricerca di altri test che possano garantire la verginità di una persona è da sfavorire in quanto causa traumi e viola i diritti di chiunque debba subire queste pratiche. Bisogna controllare che una donna sia vergine come se la sua parola non fosse abbastanza o come se non fosse in grado di scegliere autonomamente con chi e quando fare sesso. Ancora, davvero?».

Arriviamo al punto, quindi: come si fa a capire se una donna è “vergine” davvero?

«Solo esclusivamente chiedendoglielo. Anche se sei il più alto esponente della medicina mondiale, un luminare delle vulve, anche in quel caso l’unico modo per sapere se una persona è vergine oppure no bisogna chiederglielo».

Diciamoci la verità: la scusa della verginità chi l’ha inventata, a questo punto, se non ha fondamento scientifico?

«Penso che si cerchino modi per controllare la sessualità delle donne dall’inizio dei tempi: partendo da quella provocatrice di Eva che ci ha tolto il posto dal paradiso, passando per le mutilazioni genitali femminili, le leggi contro l’aborto e i test della verginità: sono infiniti i modi che si possono utilizzare per controllare la sessualità delle donne.

Delle volte non c’è nemmeno un capro espiatorio preciso: sono i padri che vogliono che la loro figlia arrivi pura al matrimonio, ma sono anche le madri che hanno paura che venga additata e derisa per le sue scelte. Che sembra una storia di altri tempi, ma in realtà qualcuno che ancora mette fuori il lenzuolo sporco di sangue dalla prima notte di nozze c’è. Ma soprattutto sono tantissime le adolescenti che mi scrivono per chiedermi se durante la visita ginecologica la loro madre verrà a sapere se hanno avuto dei rapporti sessuali oppure no.

Proprio per questa paura, spesso le visite vengono rimandate all’età adulta, rischiando di ritardare l’inizio di una corretta educazione sessuale, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e delle volte anche la diagnosi di molte patologie legate alla sfera genitale/sessuale.

Il terrore che gira intorno alla libertà sessuale è ancora tantissimo. Il fatto che ancora oggi una donna con una sessualità libera e soddisfacente sia vista con un occhio di giudizio ci fa capire che siamo ancora tutti responsabili dell’esistenza di questi concetti, come appunto la verginità.

Smettiamola di dire alle ragazzine che qualcuno si prenderà la loro verginità, o che perderanno la verginità. Altrimenti sembra che il primo rapporto sessuale ti porti via qualcosa che non ritroverai più. Invece il sesso dovrebbe essere all’insegna di cose che si acquisiscono e si imparano: una maggiore conoscenza del proprio corpo, del proprio piacere e della propria libertà.

Una sessualità sana arricchisce le persone. La verginità non è un mazzo di chiavi, non si perde. E nessuno sarà mai in grado di dire con certezza, guardando una vulva, se questa ha mai avuto rapporti sessuali oppure no. No, nemmeno controllando l’imene».

·        Il Gang Bang.

Dagospia il 22 aprile 2021. Da "la Zanzara - Radio 24". Valentina Neri, nome reale, moglie di un senatore della Repubblica, poetessa e scrittrice, ha curato un libro per Santelli editore, appena uscito. Il titolo è Gang White, Senza Veli, e racconta la storia di un gruppo di uomini milanesi che anni fa hanno formato un gruppo per organizzare Gang Bang, ossia un’attività sessuale in cui una donna si concede a più uomini contemporaneamente. A La Zanzara su Radio 24 Valentina Neri racconta: “Dobbiamo uscire dalla paura dello stigma sociale, la paura di venire allo scoperto. Più lo facciamo, più questa cosa diventa normale e accettata”. Dice ancora: “Ho fatto gang bang prima del matrimonio. Poi mi sono presa un periodo di pausa, e dopo ho ricominciato. Mio marito lo sa, mi conosce, siamo ancora sposati. E poi ne scrivo apertamente nei miei libri. Ma non ha mai partecipato, no. Adesso ho smesso di nascondermi, di mettermi i veli. Quante ne ho fatte? Di gang ne avrò fatte una decina, per adesso”. Sei consapevole che le donne che hanno queste esperienze sessuali e lo confessano sono considerate da puttane, nel senso più spregevole del termine?: “Sì, certo. Proprio per questo bisogna raccontare. E poi ci sono insulti peggiori di puttana. Una cosa è sicura: se tu confessi di fare sesso in modo trasgressivo te lo dicono come un insulto e hai addosso uno stigma sociale, invece è solo un divertimento come un altro. La gente si deve abituare, ci sono molte cose che non erano permesse, molte cose che non erano considerate normali”. “Come hanno fatto le battaglie i gay – continua – bisogna che le donne trasgressive vengano fuori. Oggi chi dice cose del genere rischia di essere emarginato sul posto di lavoro. Guarda il caso dell’insegnante siciliana che era stata cacciata per un video hot che circolava, non certo per colpa sua”. “Va considerato normale – insiste – che una possa giocare con più uomini e avere una vita trasgressiva”. Con quanti uomini sei andata al massimo in una gang?: “Non ricordo, credo dieci. Si possono fare tante cose con dieci maschi. Le persone si alternavano, gente che viene, gente che esce, roba che ti resta addosso. E’ un gioco, un divertimento, è come fare una giornata al luna park, una specie di antidepressivo”. E poi?: “Mi da un senso di potere, i maschi di solito sono quelli dominanti, invece mi sento dominante in quella situazione. Sono io che devo gestire quei maschi, sono io a dare soddisfazione al maschio”. Questi di gang White chi sono?: “Sono i principi azzurri della Gang Bang per educazione, gentilezza, intuito, capacità di mettere a fuoco le situazioni, di comprendere gli attimi giusti, entrare in sintonia con una donna”. 

Barbara Costa per Dagospia il 7 novembre 2021. Una gang-bang 5 contro 1? E se fosse 1 contro 5? E se quell’1 fosse femmina? Chi ve l’ha detto che le gang-bang sottomettano, senza tregua e sul serio dominino quella donna sola là in mezzo, con tutti i suoi buchi a disposizione, aperti, sconci, e alcuni più volte riempiti a due, e a tre? Una gang-bang non soggioga una donna, men che mai la degrada, e specie nei porno di fascia alta: essi raffigurano la fantasia dell’occhio e del sesso di chi guarda, e soprattutto di uno sguardo e di un sesso maschili, che si eccitano alla vista della carne di una donna illusoriamente passiva alle ingordigie di più maschi. Ma la verità è che l’ingorda è lei, l’avida è lei, è che lo vuole lei, quello che gli fanno lo decide lei, e sempre se al centro di un tale quadro porno c’è lei: Angela White. Miei cari Dago-lettori, allegri, che si ricomincia: nel porno USA hanno ricominciato a girare gang-bang, un segno non di un vero ritorno ai tempi pre-Covid, bensì di un ritorno al sesso plurimo, multiplo, permesso da vaccini e tamponi. E si ricomincia come meglio non si potrebbe, con Angela White che ha firmato una esclusiva con Brazzers e ha scelto come porno di apertura una gang-bang di quelle che piacciono a lei, con gli stalloni che ha imposto lei. Il risultato è "Take Control", scena scala classifiche, gang-bang dove ogni ambizione sessuale di questa australiana femmina insaziabile è di penetrazione in penetrazione riempita, come ne vengono ristorate brame maschili le più abiette ma nel porno interpretativamente lecite da affermare. Tu guarda la scena e dimmi chi comanda, chi si diverte di più tra Angela e i cinque uomini che la sc*pano (e che sono: Mick Blue, Isiah Maxwell, John Strong, Zac Wild, e Oliver Flynn). Cinque uomini potenti, bravi a porno-sc*pare non c’è dubbio, ma occhi a lei: chi comanda lì? I ruoli sono delineati fin dall’inizio, quando Angela White scende dalla macchina che loro le devono lavare, e quando lei entra nella maison e li squadra e soqquadra. Sono uomini che servono sesso, servono al sesso, servono le intenzioni non comuni di una donna non comune. È Angela che ha deciso di eliminare ogni preliminare, ogni dialogo, futile convenevole. Lei non ha rivali nel concretizzare i pensieri più immorali dei maschi spettatori suoi ammiratori. Quando il suo corpo viene afferrato, alzato, posizionato, e trasformato incavo, e quando lingue e peni dalle sue sapienti mani passano e entrano nella sua bocca, ne escono per infilzarla, e poi ancora, senza stacchi, né soste, quasi senza fiato fino a essere due, e tre, nello stesso caldo, invitante spazio… chi comanda una tale scenografia di carni arrossate, mischiate, accese, incastrate? Lei, la donna che se ne crede preda. Se non vi ho persuaso, lascio la parola alla stessa Angela White: “È un 1 contro 5. Sono io che sto sc*pando 5 uomini, non 5 uomini che fanno gang-bang con me”. Ma in questo caso chi comanda è anche un’altra, di donna, quella che è vicino ai 6 in azione e che giustamente non si vede, ovvero Lea Texis, regista scelta apposta da Angela White affinché la coordinasse in un tal chiasso pornografico. Lea Texis, rumena, è nel porno da 15 anni, dove ha eccelso in tutto, dal trucco ai costumi, dalla produzione alla regia. È la prima volta che dirige Angela White, e insieme a lei ha scelto una lussuosa e appartata villa di Malibu come più adeguato scenario di "Take Control". Ci aspettano altre rintronanti scene con Angela White, ed è un paradosso ma la gang-bang "Take Control", con le sue vigorose fellatio, e le sue doppie e triple penetrazioni, anali e vaginali, è un goloso antipasto. E adesso va detta questa verità: nel mondo del porno, le gang-bang girate sono in realtà molte molte meno di quelle che possiamo scrollare sui siti porno-free. Lì troviamo di una stessa ludica, grandiosa gang-bang più scene spezzettate, ad arte rimontate, tagliate, rese altro da sé, e però più frutti della medesima radice primaria. E questo non a causa Covid, che ha fermato il sesso di gruppo da subito e per primo e che riprende ora con ogni accortezza sanitaria possibile. Ma perché realizzare una gang-bang è, nel porno, un lavoro tra i più costosi. Girare una gang-bang costa, tanto, e specie se la giri con nomi di grido. Non tutte le attrici sono disposte né in grado di girare amplessi di tal sorta, e né tutti gli attori ne sono all’altezza. Occorrono “consumati professionisti”, precisa Angela White, pornoattori con valevole tecnica, gran allenamento, flessibilità di corpi, inusuale dominio dei peni. E dalla erettile resistenza massima. Una gang-bang di qualità non può essere garantita da novellini. Se nel porno non esistono paghe standard, e se l’attrice nella gang-bang onorata è pagata assai di più dei maschi che la spupazzano, i protagonisti di una gang-bang non prendono meno di 1000 dollari ciascuno, e questa spesso è nient’altro che la cifra base. 

IL “MANIFESTO” DI GANGWHITE SU COME SIA DAVVERO IL MONDO DELLA GANG BANG E COSA VOGLIA DIRE PARTECIPARVI - da gangwhite.com il 22 aprile 2021. Aprile 2021.“GangWhite Senza Veli” di GangWhite, a cura di Valentina Neri (Santelli editore, 2021) sarà presto disponibile online e in tutte le librerie. Per parlare del libro “GangWhite Senza Veli” è necessario prima introdurre i suoi “autori”. Alcuni lettori avranno già riconosciuto il nome di Valentina Neri, che recentemente ha pubblicato, sempre con Santelli editore, Ridi di me ti prego. Tuttavia, qui la Neri è solo la curatrice: i veri autori sono anonimi e si presentano come un gruppo sotto il nome di GangWhite (che non ha niente a che fare con una possibile accezione razzista). Il libro parla di questa organizzazione informale, dei suoi scopi, della sua storia e dei suoi obiettivi, quelli veri, al di là dei pregiudizi. In questo senso si potrebbe quasi dire che questo saggio è “un’autobiografia” del gruppo.

L’appello di GangWhite. GangWhite si è formato dieci anni fa dall’impulso del fondatore GangWhite L. e raccoglie individui che vogliono partecipare a «gang bang». Questa è una pratica molto antica in cui una donna si offre a più uomini. GangWhite opera nel milanese per far partecipare in sicurezza le donne e le coppie interessate. Il gruppo, infatti, rispetta un rigido codice etico che pone al centro dell’attenzione il rispetto della donna in quanto individuo e della sua privacy. Il pubblico di lettori a cui si rivolge il testo, quindi, sono tutti gli adulti interessati, in particolare coloro che già appartengono al mondo Swinger. Tra le sue pagine, infatti, è possibile trovare testimonianze da entrambi i sessi su questa esperienza sessuale. Il volume ha un contenuto molto forte e complesso, ma anche un obiettivo ancor più deciso: sfatare i pregiudizi e gli stereotipi che accompagnano la gang bang. Infatti, spesso le donne che prendono parte a incontri di questo tipo, aprendosi alla trasgressione, sono vittima di intolleranza e stigma sociale. Per evitare questo, il libro ripercorre la storia del GangWhite e indaga i rigidi dettami etici alla base del gruppo. Le pagine mettono in chiaro come questo mondo non sia necessariamente legato alla droga e al porno, ma possa essere praticato nel rispetto della salute dei partecipanti e della donna in quanto persona. Questa, come tante altre pratiche sessuali trasgressive, non è necessariamente frutto della perversione o di un rapporto non “sano” con il corpo e la sessualità: a dimostrazione del fatto che “trasgressivo” non voglia dire “malato”.

Cosa c’è in “GangWhite Senza Veli“. Il saggio, per mostrare “senza veli” questo modo di vivere la sessualità, è diviso in due parti: una più sociologica e l’altra più narrativa. La prima è condotta attraverso le testimonianze dei partecipanti. La seconda, invece,raccoglie alcuni racconti più romanzati, intervallati alle citazioni dei grandi maestri dell’eros, come Bukowski, Anais Nin, Simone de Beauvoir e Garcia Marquez. Le interviste, in particolare, fanno emergere il punto di vista di alcune donne che, attraverso l’esperienza della gang bang, sono riuscite a rafforzare il proprio carattere, superando la paura degli uomini e trovando il coraggio di essere sé stesse. Questo approccio, comunque, non è né la norma né una regola di buona condotta: le partecipanti scelgono di esprimere in questo modo la propria sessualità per molti motivi, nessuno dei quali è da etichettare negativamente a priori. Dalla testimonianza di GangWhite emerge un mondo poliedrico da cui traggono giovamento tanto le donne single, quanto le coppie. Un mondo in cui possono nascere nuove amicizie e storie d’amore, che non hanno nulla di diverso da quelle nate in modo più convenzionale. Ufficio Stampa Santelli editore

La moglie del senatore ex 5S: "Con 10 uomini? Antidepressivo". Francesca Galici il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. La moglie di un senatore ex M5S ha scritto un libro sul sesso trasgressivo e sui piaceri carnali estremi, praticati anche da sposata ma senza il marito. Valentina Neri è una scrittrice e poetessa che è da poco uscita in libreria con il volume Gang White, Senza Veli. È un racconto erotico e disinibito sulle abitudini sessuali di un gruppo di milanesi. Apparentemente si tratta di un libro per adulti come un altro, come tanti se ne trovano negli scaffali più nascosti delle nostre pudiche librerie. È la sua autrice a non essere una firma come altre, perché lei è la moglie di un senatore ex Movimento 5 Stelle, che negli ultimi tempi ha effettuato numerosi cambi di casacca politica. Tutto si può dire, non che la moglie del senatore non sia disinibita. Valentina Neri ha raccontato il suo libro a La Zanzara, in onda su Radio24, spingendosi anche oltre nella narrazione della sua vita privata e sessuale. Qualcuno potrebbe anche pensare che il nome utilizzato per firmare il volume sia di fantasia, uno pseudonimo come si usa spesso quando si vuol celare la propria identità, ma lei no: Valentina Neri ha firmato nero su bianco il libro sul sesso trasgressivo con il suo nome. E il marito? Bhe, il senatore pare sia consapevole e consenziente, anche se a quanto dice sua moglie non partecipa agli incontri sessuali multipli di sua moglie con altri uomini. Valentina Neri è una novella Giovanna D'Arco del sesso, pronta a rivendicare la libera trasgressione carnale senza vergogna e senza censura: "Dobbiamo uscire dalla paura dello stigma sociale, la paura di venire allo scoperto. Più lo facciamo, più questa cosa diventa normale e accettata". La moderna paladina delle libertà sessuali ha rivelato di praticare il sesso multiplo e non per sopraggiunta noia coniugale, visto che era un'estimatrice anche prima del matrimonio col senatore: "L'ho fatto prima del matrimonio. Poi mi sono presa un periodo di pausa, e dopo ho ricominciato. Mio marito lo sa, mi conosce, siamo ancora sposati. E poi ne scrivo apertamente nei miei libri. Ma non ha mai partecipato, no. Adesso ho smesso di nascondermi, di mettermi i veli". Per la scrittrice e moglie del senatore, inoltre, il sesso di gruppo al di fuori del matrimonio è da considerare semplicemente come "un divertimento come un altro". L'obiettivo di Valentina Neri è quello di abbattere pregiudizi ed etichette sociali, anche se la donna ha un'idea molto personale di cosa sia un insulto grave, visto che per lei "ci sono insulti peggiori di puttana". Punti di vista discutibili. Per la moglie del senatore ex 5Stelle la battaglia per sdoganare il sesso trasgressivo dev'essere equiparata a quella delle correnti Lgbt+: "Come hanno fatto le battaglie i gay bisogna che le donne trasgressive vengano fuori". Un paragone quanto mai azzardato per la scrittrice senza pudori e chissà se il marito concorda con questa visione. La pasionaria del sesso rivela anche dettagli sui suoi incontri, tra cui uno con dieci uomini: "Si possono fare tante cose con dieci maschi. Le persone si alternavano, gente che viene, gente che esce, roba che ti resta addosso. È un gioco, un divertimento, è come fare una giornata al luna park, una specie di antidepressivo". E il senatore? Non esce sicuramente vincente dal racconto di sua moglie, che invece di concedersi il classico aperitivo con gli amici o una giornata a in un parco divertimenti si concede a tanti uomini diversi che non sono il marito. Ma se va bene a lui, deve andare bene a tutti. Senza giudizi, evviva la faccia.

"Siamo separati". Spiazzato dalle dichiarazioni della scrittrice, il senatore ex M5S è stato raggiunto telefonicamente dall'Adnkronos. Come riporta l'agenzia, in un primo momento ha preferito scegliere la strada del no comment ma in un secondo momento ha preso le distanze: "Siamo separati da un paio d'anni. Cosa faccia è un problema suo. Io non giudico".

·        Il Cinema Femmina.

Se l’icona è femminile è grande cinema. Il grande schermo privilegia protagonisti maschili. Quando compare l’eroina il successo è assicurato. Gabriele Tornatore su Il Quotidiano del Sud il 29 marzo 2021. Ci sono voluti decenni per iniziare a concepire il cinema non solo come sequenza di immagini in movimento, ma di un’unità omogenea in cui le stesse, oltre a scorrere, raccontino una storia. Ha richiesto ancora più tempo l’eliminazione dello stereotipo che pone la figura maschile come unica protagonista di un film, indipendentemente dalla natura della trama. È innegabile che molte delle grandi glorie creatrici della settima arte siano di sesso maschile, ma grazie a stimoli come il personaggio di Gilda Farrel (Miriam Hopkins) che, nella commedia di Lubitsch Partita a quattro (1933), non sa chi scegliere tra i due uomini che la corteggiano, o l’immortale Ellen Ripley (Sigourney Weaver) che nel capolavoro di Ridley Scott Alien (1979) rimane l’unica superstite dopo l’attacco di una creatura aliena, è nata l’idea che il corpo del cinema può avere forme più delicate e sinuose rispetto a quelle che ci sono sempre state proposte, ma il percorso che ha reso la donna protagonista, non è stato semplice. Sia per l’idea in cui la figura maschile è associata a una primordiale sensazione di sicurezza, che per una radice di pensiero patriarcale, la donna è sempre stata relegata ad un certo tipo di comportamenti e modi, perciò il cinema non ha quasi mai conferito ai ruoli femminili la giusta identità. Ciò che emergeva era una realtà in cui la donna trovava il suo spazio all’interno dei film, vincolata però nell’interpretazione di figure legate solo alla sessualità o alla famiglia. Il cambiamento avvenne con l’evoluzione sociale che, nella seconda metà del Novecento (in particolare negli anni 60 con l’elevato numero di movimenti culturali e moti di rivolta), permise alla figura femminile di emergere, ma la svolta fu l’abolizione del codice Hays, una serie di linee guida morali che fino agli anni 50 governò e limitò le produzioni cinematografiche, isolando la donna in schemi recitativi e parti prestabilite. Con questa mutazione si iniziarono a produrre molte più pellicole che ponevano la donna al centro della storia, creando trame basate sulle loro gesta, infatti, dalla metà del secolo scorso, nacquero le grandi icone femminili del cinema, alla pari di quelle maschili, non più così uniche. Molte sono le pellicole che rappresentano questo passaggio, si guardi, ad esempio, il film Aurora del 1927 di Murnau, antecedente all’evoluzione prima citata, importante, infatti, non solo per l’unicità della trama ma anche per il periodo in cui è uscito. In questa pellicola un uomo, annoiato dalla monotonia della vita contadina, subisce il fascino di una giovane donna che lo induce a compiere azioni terribili per fuggire insieme. L’elemento femminile è, chiaramente, il nodo centrale della vicenda, in grado di plasmare l’abitudinarietà di un uomo radicato nei propri principi che, fino al suo arrivo, non avrebbe mai modificato. Andando avanti nel tempo è impossibile non citare la grande interpretazione di Rita Hayworth che, ne La signora di Shangai di Orson Welles del 1947, assume la forma della donna infedele che ricerca la sua libertà tentando di togliersi di dosso il modello di “femme fatale” imposto da una società vissuta solo dal punto di vista maschile. Passando a ruoli più drammatici, è unica l’interpretazione di Sophia Loren che, nel film La Ciociara di Vittorio De Sica del 1960, interpreta Cesira, una povera vedova romana che, insieme alla figlia, tenta di sopravvivere ai bombardamenti dei tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale. La diva romana ci regala una prova attoriale che è passata alla storia, riuscendo a rinchiudere tutti i dolori e le frustrazioni di un’epoca all’interno della figura che rappresenta: una madre preoccupata per la sopravvivenza della figlia. Il già citato Alien è un altro caso in cui la figura femminile è al centro del racconto, ma la peculiarità del film è proprio il ruolo che Sigourney Weaver rappresenta, quello del tenente. Nel film, infatti, viene descritto un personaggio che già dall’inizio è un elemento di forza, determinato proprio dal grado militare a cui appartiene. Ultimo, ma non meno importante, è un altro capolavoro di Scott, ovvero Thelma e Louise del 1992. Vera e propria metafora dell’emancipazione femminile, raggiunta attraverso un percorso di distaccamento dalla routine che vive giorno dopo giorno. I volti del film sono le bellissime Geena Davis (Thelma Yvonne Dickinson) e Susan Sarandon (Louise Elizabeth Sawyer) che incarnano perfettamente il prototipo di donna senza paura, in grado di compiere anche gesti estremi per non perdere la libertà che ha ottenuto.

·        San Valentino.

DAGONEWS il 13 febbraio 2021. Mentre le coppie si preparano a celebrare il giorno di San Valentino, l'esperta di appuntamenti australiana Louanne Ward è pronta a sfatare alcuni luoghi comuni sul giorno degli innamorati: toglietevi dalla testa che le rose rosse siano i fiori più romantici da regalare e non è nemmeno vero che gli uomini pensano di più al sesso rispetto alle donne.

1. Più coppie si lasciano prima (e il giorno di San Valentino) - VERO. Se è vero che "stagione delle rotture" è comune intorno a Natale e Capodanno, il nuovo sondaggio mostra che il giorno di San Valentino "manda tutto all’aria". «Se molti single sono alla disperata ricerca di un appuntamento prima del 14 febbraio, le persone in coppia non vedono l’ora di farla finita. Le festività natalizie possono generare tensioni e problemi che, se lasciati irrisolti nel nuovo anno, si traducono in un accresciuto desiderio di rompere». La metà degli australiani intervistati ha rivelato di aver litigato con il proprio partner il 14 febbraio, dimostrando che la stagione delle feste "rappresenta un momento di accese discussioni per molte coppie". Ward ha scoperto che la causa principale della rottura è la mancanza di romanticismo.

2. Gli uomini sono meno romantici delle donne - FALSO (MA ANCHE VERO). Ward sostiene che questa affermazione sia molto controversa: il 58% degli intervistati crede che le donne siano in realtà più romantiche degli uomini, mentre quasi l'altra metà è irremovibile sul fatto che sia il contrario. Secondo la principale antropologa Helen Fisher, gli uomini hanno maggiori probabilità di innamorarsi a prima vista perché il loro cervello e il loro sistema ormonale conferiscono loro tendenze romantiche più visive rispetto alle donne. Secondo Ward le donne “selezionano” il partner, rendendo gli uomini più inclini a dire prima “ti amo”. In sostanza c’è una sorta di parità.

3. Gli uomini si preoccupano di più del sesso rispetto alle donne - FALSO. Non sono solo gli uomini a interessarsi di più al sesso. Sia donne che uomini si preoccupano del sesso, dell'affetto e dell'intimità. In effetti, due terzi dei partecipanti al sondaggio lo hanno valutato come importante il giorno di San Valentino.

4. La lingerie rende felici sia gli uomini che le donne - VERO. Cosa sarebbe una festa di San Valentino senza la lingerie? Più di tre quarti degli uomini la comprerebbe per la loro dolce metà e quasi il 70% spera di vedere il proprio partner in abbigliamento sexy. Un 64% delle donne sarebbe felice di riceverla in dono dal proprio partner.

5. Acquistare un regalo per dimostrare il tuo amore è importante - FALSO. Dimentica rose, orsacchiotti e cioccolatini, il 63% degli uomini e delle donne preferisce sentirsi amati il 14 febbraio piuttosto che ricevere un regalo obbligatorio. Mentre un regalo può essere apprezzato, i risultati indicano che è il sentimento che c'è dietro che conta veramente (non quanti soldi spendi).

6. Le rose rosse sono il fiore più romantico - FALSO. Le rose rosse sono una scelta sicura per San Valentino, ma non è sempre la prima scelta per una donna. Il sondaggio ha rilevato che quattro donne su cinque preferiscono il loro fiore preferito alle tipiche rose rosse che fanno parte di ogni campagna di marketing di San Valentino.

 DAGONEWS il 13 febbraio 2021. Chi ha perso il proprio partner a causa del Covid si starebbe rivolgendo al mercato delle sex doll per riempiere il vuoto e tentare di alleviare il dolore. È quanto rivelato da Silicone Lovers, produttrice di bambole, che ha assistito a un’impennata delle richieste durante la pandemia. Oltre ad aver ricevuto richieste bizzarre, con alcuni clienti che chiedevano bambole con scheletri umani o ibridi animale- umano, chi ha sofferto di solitudine ha deciso di acquistare una sex doll: «Si è parlato molto sul Web del fatto che le persone sono bloccate nelle loro case e sono sole e bisognose di compagnia – ha detto co-fondatrice di Silicone Lovers, Louie Love - Fortunatamente, le nostre bambole soddisfano questa esigenza. Alcuni hanno perso il partner a causa di Covid e vogliono una bambola che li aiuti a metabolizzare il lutto, quindi è gratificante far parte di quel processo di guarigione e sapere che stiamo davvero aiutando le persone. Molte persone che normalmente non avrebbero mai pensato alle bambole come un'opzione, hanno rivolto la loro attenzione a questo mercato. Abbiamo visto un enorme aumento di interesse anche da parte delle coppie che vogliono sperimentare introducendo un nuovo elemento nella coppia». Il mese scorso, un'altra azienda di bambole del sesso ha rivelato che i suoi prodotti stavano sostituendo gli umani durante la pandemia. Sex Doll Genie (SDG), un'azienda statunitense ed europea ha affermato che l'interesse dei maschi single è aumentato del 51,6% tra febbraio e marzo 2020.

·        Il Femminismo.

La rana e lo scorpione. Crescere figli femministi è la nuova moda, ma questa storia non finirà bene. Assia Neumann Dayan su l'Inkiesta il 13 Novembre 2021. Le maestre nelle scuole propongono di smantellare la separazione tra maschi e femmine e la diffusione di stereotipi di genere. E lo stesso fanno i genitori a casa. Quando diventeranno adolescenti i ragazzi avranno i loro momenti di ribellione. Dopo la prova ontologica dell’esistenza di Dio di Sant’Anselmo, il chupacabra e il delitto di via Poma, nella mia mente il più grande mistero irrisolto rimane come facciano i genitori che lavorano a partecipare alle riunioni di classe alle 17 di un giorno feriale. C’è un’intera collezione autunno/inverno di sfondi pazzerelli di zoom, non si capisce se per far finta di essere al lavoro o a casa. Fatto sta che con una certa vergogna e con una certa apprensione aspetto il verbale della riunione, con quello stato d’animo proprio dello stare in caserma per una denuncia, fatta o subita non importa, cosa che mi sembra più un segno premonitore che altro. Arriva il sacro resoconto, e siamo ancora ai monopattini che non si lasciano in giardino. Mio Signore, dammi la forza di non prendere tutti quei monopattini e farne un falò, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza di non lasciare tracce dell’incendio che appiccherò fuori da scuola. E fin qui tutto benino. Ma, all’improvviso, il dramma. Le maestre si propongono di smantellare la separazione tra maschi e femmine e “la diffusione di stereotipi di genere”. Pare che i maschi dicano che il rosa è da femmine e che non vogliano giocare a pettinare le bambole. Dove sono le famiglie? È emergenza stereotipi? È entrata la filosofia gender nelle scuole? Questi bambini non hanno Twitter? Non seguono i profili attivisti, transfemministi, antispecisti su Instagram? Stiamo allevando il patriarcato, e io onestamente vorrei evitare di ritrovarmi la gente coi cartelli sotto casa. Cos’è che fa dire ai maschi che le femmine sono inferiori? È biologia? È retaggio culturale? È vuoto delle istituzioni? Il mio metodo educativo empirico mi fa dire che tutto è solo scorpione e rana. Io da bambina mi rifiutavo di mettere i pantaloni, mica volevo sembrare un maschio, ed ora eccoci qui a fare le giornate con i maschi in gonna al liceo. Lo sapevamo già che il mondo sarebbe finito così, non con un botto ma con una lagna, ma così sta diventando ingestibile. Puoi crescere un “figlio femminista”, cosa oramai molto alla moda, così come è alla moda vestire i figli con colori neutri buttando via anni e anni di studi in armocromia, oppure lasciare ai maschi i capelli lunghi, se non per poi dare di matto se qualcuno scambia il bambino per una bambina; ma caro genitore progressista, se hai un figlio maschio odierà comunque le femmine, anche se a casa tua usate gli asterischi per dirvi che è pronta la cena. Io già me li vedo i momenti di ribellione adolescenziale di questi figli, che se tanto mi dà tanto diventeranno tutti dei piccoli negazionisti dei diritti di chiunque anche solo per dispetto. Idea per un film: famiglia con casa di proprietà in Piazzale Dateo manda il figlio in una scuola pubblica. Un giorno il padre legge il verbale di classe, prende il piccolo Paride (in Piazzale Dateo vanno molto di moda i nomi di antichi eroi) e gli dice: «Figlio mio, è vero che non vuoi giocare con le femmine?». Il bambino dice di sì, che le femmine sono diverse dai maschi, e il padre gli tira una serie di schiaffoni urlando che non bisogna avere stereotipi di genere. Per il finale scrivetemi in privato.

Femminismo metaverso. Perché ci indigna più il maschilismo cisgender delle afghane ammazzate. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 26 Ottobre 2021. Il movimento per i diritti delle donne è sempre più la caricatura di se stesso. Passato da una dimensione politica a una puramente mediatica, l’unica identità femminile per cui si batte è quella rappresentata, mai quella vissuta. C’è qualcosa di grottesco nella nonchalance con cui tutto l’occidente democratico ha riconsegnato milioni di afghane ai tagliagole talebani, pure giudicando per eccesso di zelo le ostagge il prezzo giusto per la “decisione epocale”, e nell’acribia e nella suscettibilità, che le questioni di genere declinate secondo il canone del sessualmente corretto – tanto impalpabile nella sostanza, quanto implacabile negli effetti – continuano contestualmente ad accendere nel discorso pubblico occidentale. Da una parte la cancellazione delle donne dalla realtà di una fetta di mondo e la loro segregazione nelle galere dell’islamofascismo, dall’altra un vasto programma di igienizzazione delle dispute e dei conflitti di genere con l’amuchina della cancel culture e le contro-discriminazioni decretate dal tribunale dell’Inquisizione del popolo social indignato. Visto dall’Italia, questo processo di alienazione ideologica e di isteria opportunistica assume caratteri bizzarri – un mix di intransigenza moralistica e oltranzismo esibizionistico – ma probabilmente abbastanza rappresentativi di una tendenza generale. Però, tra le ore di discussioni e le tonnellate di byte, per stare all’ultimo caso, sulle esternazioni del professor Barbero in tema di spavalderia femminile e le ore di silenzio e i deserti di pagine bianche guadagnate su giornali, tv e social media progressisti dalla normalizzazione talebana a colpi di burqa e di mannaia non c’è solo un’evidente contraddizione. C’è una correlazione più profonda, come tra due sintomi del medesimo male, che è la “disincarnazione” della discussione sulle questioni di genere – comprese quelle LGBT, che ora lasciamo a parte – e l’abbandono del corpo delle donne e dei suoi diritti come centro della riflessione e dell’iniziativa politica femminista, non solo e non necessariamente al femminile. Il cuore della lotta si è spostato dai temi dell’auto-determinazione a quelli della etero-rappresentazione (cosa si dice delle donne, come si parla di loro, come si rispetta la loro autopercezione e la loro immagine sociale) e quindi è scivolato dalla dimensione propriamente politica a quella puramente mediatica, col risultato che l’unica identità femminile rilevante è quella rappresentata, non quella vissuta. Una deriva ideologica in piena regola, con manifestazioni poliziesche e disarmanti, tra il massimo dell’arroganza e il massimo dell’impotenza, perché se il “mediatico” e il “politico” finiscono per coincidere, le donne invisibili cessano di esistere e l’universo femminile finisce per comporsi solo di avatar digitali. Un femminismo “metaverso”, che, come il nuovo progetto di Zuckerberg, rappresenta un ecosistema virtuale: non un modo per guardare e cambiare la realtà, ma per surrogarla, adattandola alle esigenze del gestore e non degli utenti. E in questo caso i gestori sono proprio i softwaristi della macchina ideologica del femminismo virtuale, i padroni del vapore della correttezza di genere. Visto che l’unica legge ferrea della storia è l’eterogenesi dei fini, come Zuckerberg con Facebook non voleva creare una piattaforma totalitaria, ma solo fare quattrini (e forse, come tutti i nerd, fare colpo sulle ragazze), così anche gli amministratori di sistema del femminismo virtuale volevano solo fare del bene (e forse, come tutti gli ideologi, si sono pure convinti di incarnarlo). Ma il dato di fatto è che questo femminismo è diventato solo un teatro di ombre nella caverna dei media di massa. Tutto ciò spiega la relazione tossica tra il pregiudiziale sospetto di maschilismo cisgender in qualunque deviazione dal codice obbligato di social, giornali e tv e la disponibilità ad accettare la misoginia politica fuori dalle mura protette del bla bla bla mediatico-accademico. La stessa relazione, per intendersi, che porta Michela Murgia a essere insieme paladina dello schwa e simpatizzante di Hamas e a non avvertire alcuna contraddizione tra le due scelte politiche. Se il femminismo è stata la rivoluzione universalistica più riuscita nel Novecento occidentale e la più radicale negli effetti, trasformando in profondità la struttura stessa della società, a partire dalla famiglia, le sue derive finiscono per sacrificare insieme all’attributo della corporalità anche quello dell’universalità, cioè del riguardare le donne in quanto donne, secondo un principio di uguaglianza prevalente su ogni differenza nazionale, culturale e religiosa. Una violenza quotidiana, efferata e programmatica contro il corpo delle donne è perpetrata anche al di là dei confini dei paesi islamisti, ma non è al centro di nessuna azione e riflessione politica da questo lato di mondo, in cui il femminismo si è perso per strada la questione del pane e discute animosamente sulla qualità delle brioches. Per fare un esempio pazzesco, quanto a rilevanza e invisibilità, le donne cinesi sono state negli ultimi decenni al centro di un mostruoso esperimento sociale. Prima costrette agli aborti forzati e alle sterilizzazioni di massa in obbedienza alla politica del figlio unico, poi condannate a aborti selettivi per giocare quell’unica fiche procreativa sul maschile anziché sul femminile (nelle nuove generazioni, ci sono 120 nati maschi ogni 100 nate femmine). Ora che il regime nazionalcomunista ha deciso il dietro front per contrastare il violento calo demografico (con decine di milioni di feti abortiti e indesiderabili in quanto femminili), si passerà alla restrizione del diritto all’aborto per ragioni “non terapeutiche”, cioè si proseguirà la politica dell’aborto di Stato (imposto) in quella del non aborto di Stato (vietato). Però la cattività delle donne cinesi – uno dei fattori determinanti degli equilibri demografici, economici e politici mondiali dei prossimi decenni – non sembra proprio, diciamo così, al centro delle attenzioni, dei discorsi e degli studi dei fanatici dei gender studies. Non è cattiveria, appunto, è autoreferenzialità.

Gloria Steinem: «Difendiamo i nostri diritti dai maschi bianchi al potere». La legge del Texas contro l’aborto. La deriva misogina polacca. La leader femminista americana analizza il backlash contro le conquiste delle donne. E invita alla resistenza. Insieme a Laura Boldrini, già presidente della Camera, Steinem sarà protagonista il 24 ottobre di un dialogo sul femminismo, a conclusione del Festival “L’eredità delle donne”. Francesca Sironi su L'Espresso il 30 settembre 2021. Un dialogo sul femminismo tra l’attivista statunitense Gloria Steinem e l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, a partire dalla storia del movimento di liberazione delle donne, con lo sguardo rivolto alle giovani generazioni e alle ragazze di domani. È l’appuntamento conclusivo (domenica 24 ottobre alle ore 18,15 nella Sala Festa – Manifattura Tabacchi) del Festival “L’eredità delle donne”, realizzato da Elastica, con la direzione artistica di Serena Dandini, dal 22 al 24 ottobre dal vivo alla Manifattura Tabacchi di Firenze. Gloria Steinem, scrittrice e attivista statunitense, è una delle figure più influenti e autorevoli del movimento femminista mondiale. La sua vita e le sue battaglie sono state avanguardia e ispirazione per molte generazioni di ragazze, a partire dagli anni Sessanta. Oggi, a 87 anni, ripubblica con la casa editrice VandA un suo bestseller, “Autostima”. Mentre l’ultimo libro di Laura Boldrini, “Questo non è normale. Come porre fine al potere maschile sulle donne” (2021), è pubblicato da Chiarelettere. Dal primo settembre di quest’anno gli abitanti del Texas sono invitati a segnalare cliniche, medici o anche solo tassisti che si mostrino disposti ad aiutare donne che devono abortire. Se la segnalazione ha successo, il cittadino-denunciante riceve un premio di almeno 10mila dollari. Quest’invito a farsi polizia diffusa contro l’aborto è uno degli aspetti inquietanti fra i molti della nuova legge che impedisce le interruzioni volontarie di gravidanza in Texas, divieto che agisce dopo la sesta settimana dalla fecondazione, senza eccezioni per stupro o incesto. Sta succedendo ora, nel 2021, in una delle più grandi democrazie dell’Occidente. Non in una dittatura o in un qualche Paese comunemente tacciato di oscurantismo. In Europa lo stesso: dopo il partecipatissimo referendum che in Irlanda ha introdotto il diritto all’aborto nel 2018, in Polonia le donne si sono viste togliere quello stesso diritto a gennaio del 2021, nonostante le oceaniche manifestazioni popolari degli anni scorsi per impedire che accadesse. Il mondo non fa che ricordarci insomma che non c’è traguardo sociale che possa esser dato per scontato. Non c’è vittoria civile di fronte alla quale non si debba scegliere continuamente da che parte stare, e mobilitarsi per questa. Essere partigiani. «La cosa positiva, che va sottolineata con forza ogni volta, è che queste mobilitazioni popolari esistono. E che la maggioranza delle persone è più aperta e inclusiva di quanto non voglia un manipolo di uomini bianchi che continua a pretendere il potere sul corpo delle donne». Gloria Steinem è una delle più famose leader del femminismo mondiale. La sua vita e le sue battaglie sono state avanguardia e ispirazione per generazioni, a partire dagli anni ‘60. Oggi a 87 anni è veloce e propulsiva come a trenta nel ragionare, durante una video-intervista che le piace immaginare circolare, dice, anche se siamo in due, ma circolare perché è interrogandosi alla pari che emergono nuove possibilità, sulle conseguenze e le radici di quanto sta accadendo intorno al ruolo sociale e politico delle donne. Steinem sarà a Firenze per l’evento di chiusura del festival “L’Eredità delle Donne”, che si terrà dal 22 al 28 ottobre. Per l’occasione la casa editrice Vanda pubblica una nuova edizione di uno dei suoi bestseller, “Autostima. La rivoluzione parte da te”.

Cominciamo da quanto sta succedendo in Texas. Come lo interpreta?

«Ci sono tre aspetti che evidenzierei. Il primo: ci troviamo di fronte, di nuovo, a cosa accade quando una manciata di uomini bianchi di potere possono esprimere liberamente i loro sentimenti rispetto al controllo delle donne e delle facoltà riproduttive. Il secondo: che la maggioranza è già andata avanti rispetto a questi temi. La risposta popolare è stata enorme e diffusa. Tassisti texani hanno offerto le corse per le donne che dovranno abortire in Stati vicini. È la natura della legislazione a livello statale che permette a politici poco rappresentativi ed eletti purtroppo con maggior indifferenza da parte dell’elettorato, rispetto a quanto accade a livello centrale, di orientare la legge locale e avere effetti di questo tipo».

C’è un tema fondamentale di rappresentanza e di partecipazione politica quindi.

«Esatto, è il terzo elemento cruciale per capire quello che sta succedendo. I governanti del Texas in questo momento non rappresentano la maggioranza del loro Stato, così come è stato per Trump. Siamo di fronte a una classe di potere minoritaria che non accetta la nuova diversità del Paese. È una minoranza pericolosa di bianchi, al comando, che non vuole fare i conti con il presente e il futuro della popolazione: fra i nuovi nati i bambini di colore sono più numerosi dei bianchi. E questa è una grandissima promessa, che ci permetterà di conoscere meglio il mondo. Ma loro si rivoltano contro la nostra stessa popolazione. Lo stesso vale per l’uguaglianza fra uomo e donna: è avanzata in moltissimi settori della società, e per le nuove generazioni la solidarietà è enormemente più diffusa. Ma ancora siamo di fronte a possibili leggi come quella in Texas».

Razzismo e politiche anti-abortiste sono questioni così legate?

«Totalmente. Sto lavorando adesso a un saggio che mette in luce come la primissima legge promulgata da Hitler fosse la condanna dell’aborto quale crimine contro lo Stato, e il controllo dei destini delle donne. Voleva che la popolazione bianca si riproducesse a forza, mentre sterminava ebrei e persone di colore nei campi di concentramento. Anche per Benito Mussolini la famiglia, intesa alla riproduzione, era essenziale, e le donne dovevano solo produrre figli. Tutto questo per via dell’utero: perché noi abbiamo l’utero e loro no. E allora vogliono controllare le donne e le loro scelte, per costringerle».

Penso a papa Francesco che ha detto pochi giorni fa che «l’aborto è un omicidio». Già nel 2018 d’altronde diceva che abortire «è come affittare un sicario». Fin dal concepimento.

«Di fronte a frasi come queste, bisogna ricordare che il papato non l’ha sempre pensata in questo modo. Anzi. Fino a papa Pio IX - siamo nella seconda metà dell’Ottocento - prevaleva la dottrina di Gregorio XIV, ripresa da Tommaso d’Aquino e da Aristotele, secondo la quale il feto assumeva un’anima solo quando iniziava a muoversi. Quindi non dal concepimento. L’interruzione volontaria di gravidanza quindi era regolata, semplicemente. Non vietata del tutto. Penso che il cambio di dottrina a riguardo sia stato una scelta politica, un accordo con Napoleone III per forzare la popolazione a crescere, visto che c’era bisogno di giovani da esercito».

È politica insomma. Politica imposta sul corpo delle donne. E ogni volta, mascherata da argomento di moralità. Ma decidere al posto di tutte le donne, di ogni singola donna di fronte al suo corpo e al suo futuro, è morale? O politico, appunto?

«Penso a quanti negli Stati Uniti si dichiarano anti-aborto e sostengono queste leggi, e poi sono a favore della pena di morte. Non ha senso, evidentemente. A meno di non accettare il paradosso per cui una vita “colpevole” vale meno».

E sono faglie di fronte alle quali non tengono, a pensarci, le grandi divisioni fra Oriente e Occidente, ad esempio, oppure fra una fede e l’altra, fra un sistema culturale e un altro. Tiene solo la democrazia esercitata o la solidarietà. È così?

«La tendenza egualitaria si trova dappertutto, così come la ricorrenza del potere, dei pochi uomini intesi a controllare i corpi di tutte le donne. Penso all’Afghanistan: i talebani sono un gruppo di suprematisti maschili. E allo stesso tempo, appunto, la forza dell’egualitarismo attraversa i continenti. Io ho imparato il femminismo in India, è lì che ho conosciuto le donne che supportavano Ghandi ma anche si contrapponevano a lui su temi come la contraccezione e il controllo delle nascite. È lì che ho capito che questa dinamica sul controllo dell’utero era politica. Le stesse suffragette statunitensi impararono dalle donne native americane le prime pratiche di controllo della fertilità e l’uso dei pantaloni per muoversi. L’apporto delle identità e delle culture non-bianche nel movimento femminista è assolutamente sotto-rappresentato. Ne ho avuto esperienza personalmente».

In che senso?

«Da ragazza venni messa sulla copertina di magazine e settimanali, come simbolo delle lotte femministe. Non mi venne chiesto il permesso, ovviamente, ma il problema principale era lo sforzo di alcuni media di caratterizzare il movimento delle donne come un movimento bianco, quando le donne nere erano forse più numerose, e più determinate, nei cortei. Ci fu una sorta di divisione: il movimento femminista era rappresentato con donne bianche, quello per i diritti civili con uomini neri. Così le donne nere che erano la maggioranza delle leader di entrambi i fronti, scomparivano».

In Texas circa il 70 per cento degli aborti praticati nel 2019 era stato chiesto da donne di colore.

«C’è un enorme problema di accesso alle cure, alle strutture mediche, agli strumenti di prevenzione. Il Covid-19, se ci pensiamo, ci ha messo di fronte alla stessa evidenza. Da una parte ha rivelato la natura arcaica dei confini nazionali, aumentando la nostra percezione dell’essere parte di una umanità comune. Dall’altra la differenza dell’impatto del virus e delle misure di restrizione sulle diverse classi sociali è stata fortissima, e inaccettabile».

Fra le conseguenze delle restrizioni per la pandemia, c’è stato anche l’aumento della violenza domestica.

«Prima degli anni ‘70 la polizia che veniva chiamata a intervenire durante casi di violenza in famiglia aveva come ruolo quello di convincere la coppia a tornare insieme. C’era questa idea che la legge si fermasse sulla porta della famiglia. Adesso siamo lontane: ci sono rifugi per le donne, le norme sono migliori, gli strumenti a disposizione sono molti, ma dobbiamo continuare a investire, e aumentarli. Dobbiamo formare nuove generazioni che abbiano vissuto in famiglie diverse, e quindi possano cambiare il discorso pubblico, normalizzando la parità».

È da casa che parte tutto, no?

«È così. Solo se bambine e bambini vengono educati a credere nella loro libertà, nelle loro aspirazioni, a sentire se stessi come unici, non ci saranno più basi per il patriarcato».

C’è chi dice che il femminismo ha stufato, che se ne parla troppo, che ormai la parità è dappertutto. Cosa rispondere?

«Beh, banalmente, con una dose di realtà. Solo 26 Paesi hanno donne presidente. Gli Stati Uniti hanno avuto un solo presidente di colore nonostante la popolazione. Le donne leader, nelle organizzazioni come nelle aziende devono ancora vergognarsi di essere sincere, semplicemente perché lo standard della leadership è graniticamente maschile, e penso ad esempio al piangere quando si è arrabbiati o alle dinamiche di tempo e potere. C’è una cosa che ho imparato in questi anni di insegnamento, ad esempio, ed è quella del mettersi in cerchio, di ripartire da un discorso alla pari, lasciarci alle spalle il modello frontale della Chiesa, dove delle persone guardano un ragazzo con una gonna che parla da un palco o da pulpito accentrando su di sé il potere di parola. È condividendo questo potere che cambieremo».

“Eleonora di Aquitania. Una femminista del Medioevo”. Lunedì 6 settembre 2021 - Chiostro dell’ex Convento degli Agostiniani, Manduria. La Voce di Manduria martedì 31 agosto 2021. Nell’immaginario collettivo, senza dubbio, la donna del Medioevo è vista o come “domina”, relegata ad un ruolo ben definito, in casa con altre donne, in una condizione di sudditanza, con scarsa possibilità di accesso all’istruzione e nessuno alla vita pubblica, contemplata al massimo come oggetto d’amore e destinataria di rime da parte dei poeti, oppure è ritenuta fonte di ogni male, demonizzata e perseguitata, come testimonia la famigerata “caccia alle streghe”. Lunedì 6 settembre alle ore 19:30, nel chiostro dell’ex Convento degli Agostiniani, nell’ambito del ciclo di eventi che Archeoclub Manduria ha voluto dedicare a Dante e al Medioevo, il dottor Cristian Guzzo, invece, proporrà la singolare figura femminile di Eleonora d’Aquitania, una femminista ante litteram, colta e raffinata, che si accostò allo studio del latino, della musica e della matematica, moglie e madre di re, donna di potere, non certo l’unica, come dimostrano Matilde di Canossa e Adelaide reggente di Sicilia, solo per citare qualche esempio. II Medioevo non fu, dunque, dominato esclusivamente da figure maschili, indubbiamente preponderanti, ma vide protagoniste anche alcune donne che in un certo qual modo segnarono il loro tempo, come Eleonora, che conosceremo attraverso le parole del medievista Guzzo. Spirito libero dall’intelligenza viva, una delle donne più potenti d’Europa, emancipata, tanto da non voler vivere solo di luce riflessa, Eleonora d’Aquitania è una figura del XII secolo decisamente moderna e attualissima, proprio in questi giorni in cui, in alcune zone del mondo, il destino delle donne è quanto mai incerto ed oscuro. Si auspica una massiccia partecipazione da parte della cittadinanza, nel rispetto delle norme anticovid. Archeclub d’Italia - Sede di Manduria 

Meloni contro le femministe: “Vi indignate per la Spigolatrice e non per la Madonna a forma di vagina”. Alberto Consoli giovedì 30 Settembre 2021 su Il Secolo d’Italia. Giorgia Meloni interviene sulla statua della Spigolatrice di Sapri “formosa” che tiene ancora banco tra mille ipocrisie. La leader di Fratelli d’Italia commenta con un’osservazione pungente: “Ho saputo che alcune femministe avrebbero chiesto la rimozione di una statua perché “troppo formosa”. E – a loro dire – offensiva per le donne. Mi chiedo – ragiona la leader di Fratelli d’Italia  – : ma per caso sono le stesse che hanno promosso o difeso l’imbarazzante iniziativa nella quale veniva esposta una Madonna a forma di vagina?”. La domanda contiene già la risposta: “Qualcuno di voi ricorda qualche loro parola di condanna nei confronti di una squallida rappresentazione che, sì, offendeva le donne?”. Mai una critica giunse dalle femministe sulla blasfemia grave commessa. Era l’8 marzo scorso. La spigolatrice di Sapri in abiti succinti, aderenti, con le forme del corpo in evidenza resta, intanto,  dove sta: sul lungomare della cittadina in provincia di Salerno. I commenti sulla pagina Fb di Giorgia Meloni mettono in luce l’ipocrisia enorme di chi sta suscitando un finimondo: “È una statua bellissima, ma perché queste donne se la prendono tanto; invece per quella pubblicità della nuvenia che fanno sempre nelle ore quando si pranza o si cena tutti zitti mah!!”. C’è l’ironico: “Beh…le critiche, leggo, arrivano da Cirinnà e Boldrini…Eh…niente…fa gia ridere cosí”. Tra i commenti c’è chi fa un’esegesi della statua oggetto di polemiche: “La donna mediterranea, ed in questo caso cilentana, ha le forme. Non è una donna androgina. Cosa c’è di male?  L’ autore ha spiegato che il vestito è in movimento per rappresentare il vento e la brezza marina”. Scrive un altro utente: “La sensualità, non ha epoca. Abiti succinti, e diventa scandalosa? Ma perché la donna deve essere giudicata per questo?E si dicono pure femministe?”. E a proposito dell’iscena rappresentazipne della Madonna rappresentata come un vagina un’uutente di Fb sottolinea: “Non offendeva solo le donne, quella manifestazione offendeva una religione, il pudore, la sensibilità, chiunque non la pensasse come loro”. Ma allora tutte zitte. Le femministe si scaldano a corrente alternata. Ricordiamo bene lo scempio accaduto al quartiere Montesacro di Roma: dove un gruppo di femministe di due centri sociali protestò contro il parroco dei Santi Angeli Custodi portando in processione una Madonna a forma di vagina. La colpa di don Mario era di essere «fascista ed omofobo» per essersi opposto al progetto di pedonalizzazione di piazza Sempione. Che per chi non è della zona, prevedeva lo spostamento della statua della Madonna che è lì da una vita.

Femministe fanno la festa alla Madonna con una statua a forma di vagina. La Meloni: «Blasfemia». Michele Pezza lunedì 8 Marzo 2021 su Il Secolo d’Italia. Un accordo in extremis Peppone e don Camillo riuscirono trovarlo. Il Comune doveva costruire otto alloggi popolari su un terreno ceduto dalla parrocchia su cui insisteva l’antica edicola raffigurante la Madonna. Fallito ogni tentativo di disfarsene con la forza, il sindaco comunista si rassegnò a inglobarla nella nuova costruzione. Gli appartamenti si ridussero così a sette. E qui fu il parroco a far la sua parte: gli spettava assegnare la metà degli alloggi, ma ne considerò uno già occupato da un’Inquilina di suo gradimento. Questi erano i racconti che il Grande Fiume affidava alla pena di Giovannino Guareschi in altri tempi e in un’altra Italia. Ben diversa da quella di oggi, intossicata da ideologie di pseudo-liberazione, il cui unico obiettivo è quello di riportare l’uomo nel suo stato di natura. Non libero, ma primitivo.  Basta vedere quanto accaduto al quartiere Montesacro di Roma, dove un gruppo di femministe di due centri sociali ha protestato contro il parroco dei Santi Angeli Custodi portando in processione una Madonna a forma di vagina. La colpa di don Mario, subito bollato come «fascista ed omofobo»? Essersi opposto al progetto di pedonalizzazione di piazza Sempione che prevedeva lo spostamento della statua della Madonna subito prima della scalinata della chiesa. E aver definito «uno scempio» la bandiera Arcobaleno. Da qui la reazione femminista e la vigilia della festa della donna trasformata in oltraggio alla Madonna. Era rosa shocking e a forma di vagina quella portata in processione fino alla scalinata che porta al sagrato della chiesa. Che cosa volessero dire con questa blasfema carnevalata è un mistero che certamente svelerà uno di quei so-tutto-io che di solito troviamo appollaiati nei talk-show o nelle pagine culturali dei giornali. Hanno una toppa per ogni buco e beccano applausi ad ogni rammendo. Non da tutti, per fortuna. «Qualcuno si sente rappresentato da questi personaggi che fanno della blasfemia e del cattivo gusto una bandiera?», chiede Giorgia Meloni in un post nel quale mostra la foto pubblicata su “Il Giornale” (in alto). In appoggio alla leader di FdI anche Provita, associazione molto impegnata nelle campagne antiabortiste: «Ma le donne poi, sarebbero solo la propria vagina?».

Il femminismo non è bianco. Djarah Kan su L’Espresso il 29 settembre 2021. Per rispondere alla violenza patriarcale bisogna analizzare l’intersezione tra le varie forme di discriminazione. E dare un nuovo volto alle battaglie: indigeno, nero, messicano, arabo, magrebino, sudamericano. Sono cresciuta con l’immagine della donna bianca emancipata e accattivante che si contrappone orgogliosamente a quella della straniera del Terzo mondo, fragile, ignorante e incapace di rispondere alla violenza del sistema patriarcale. Per come viene raccontato, il femminismo sembra essere una roba da donne bianche. Un sistema di pensiero troppo in là per queste donne del Terzo Mondo troppo impegnate a sfornare figli e a badare alle galline in qualche sperduto villaggio semi deserto a Sud del Mondo. Tutte le volte che le nostre madri africane ci accompagnavano a piedi fino a scuola, portandosi le conseguenze della loro marginalizzazione sociale ed economica alle spalle, così manifeste nella qualità dei libri e dei pessimi vestiti usati che indossavamo, non potevo fare a meno di sentire addosso il disprezzo e il pietismo con i quali le donne bianche, madri dei nostri compagni di classe, guardavano alle nostre famiglie. A volte potevi persino sentirle chiacchierare tra loro, chiedendosi come mai le nostre madri non facessero niente per ribellarsi alla misera vita che conducevano. Poi magari tornavano nelle loro case, e se lo spaghetto al sugo era leggermente più al dente del solito venivano battute come un tappeto indiano, ma ho sempre pensato che l’idea di essere bianca e più fortunata ed emancipata di una donna afghana o africana, in qualche modo fungesse da lenitivo per tutte le botte e i divieti che il patriarcato nostrano ti riserva. Per la serie «quando vuoi stare bene pensa a chi sta peggio di te». Vivere alla occidentale è diventato un modo velatamente razzista – ma nemmeno troppo velato – per affermare l’idea che solo occidentalizzandosi, ovvero mettendo da parte la propria cultura in favore di una migliore, noi selvaggi del Terzo mondo potremo considerarci a pieno titolo delle proto-scimmie in giacca e cravatta che nel fine settimana giocano a golf e la domenica vanno in Chiesa. Ma questo approccio alla questione di genere fuori dai confini occidentali è stato anche il peccato originale del femminismo liberale, che è sempre stato velenosamente bianco, razzista, e che con quel suo sguardo paternalista non ha mai voluto considerare sufficientemente progressiste o degne di nota le battaglie di tutte quelle storiche, filosofe, scrittrici, attiviste e politiche non bianche considerate piuttosto come “sorelle minori un po’ abbronzate” di una battaglia tutta da apprendere. Poi è arrivato il femminismo intersezionale ed è tutto cambiato. Ad oggi l’approccio che analizza l’intersezione tra le varie forme di discriminazione si presenta come la cura più efficace contro il femminismo bianco che continua ad essere un sistema di pensiero volente o nolente al servizio dell’imperialismo. Angela Davis, bell hooks e Nawal El Saadawi sono solo alcune delle grandi assenti che figurano a stento nel panorama mainstream del dibattito sul femminismo. Eppure è stato il loro attivismo di accademiche e pensatrici instancabili, a strappare dalle mani dell’ideologia razzista e coloniale un femminismo che veniva utilizzato come giustificazione per le discriminazioni razziali di quanti sostenevano che l’immigrazione dai Paesi in via di sviluppo era un pericolo soprattutto per le donne. Ed è stata quella stessa mancanza di intersezionalità che porta il femminismo a prestare il fianco all’ideologia razzista a trasformare Giorgia Meloni, delfina del centro destra e instancabile islamofoba da manuale, nella finta paladina dei diritti delle donne, arrivando a strumentalizzare in chiave razzista, anti-immigrati e islamofoba il caso del femminicidio di Saman Abbas; morta perché voleva liberarsi dal giogo di una famiglia che, con la scusa della religione, aveva provato a fare della ragazza un dono per stringere un accordo tra famiglie. Giorgia Meloni che si risveglia suffragetta, nonostante gli ideali del suo partito deraglino totalmente dall’idea del mondo pensato da una femminista intersezionale, è il risultato di un femminismo bianco, che senza le donne del Sud è destinato ad essere totalmente cooptato dal patriarcato suprematista bianco, un sistema di potere che era stata la stessa bell hooks, scrittrice, sociologa e afroamericana ad individuare, partendo dalla sua storia personale di bambina costretta a fare la spola tra la zona bianca e quella nera della città, per andare a scuola. Il volto del femminismo è indigeno, nero, messicano, arabo, magrebino, sudamericano. Non c’è futuro per il femminismo senza le Marielle Franco, le Berta Càceres, le Losana McGowan, le Catherine Han Montoya, le Guadalupe Campanur Tapia. Loro e le altre, tutte cadute per mano del patriarcato armato. La lezione sull’intersezionalità, insegnata dalle donne del Sud del Mondo all’Occidente tutto, salverà le donne bianche dalla loro stessa bianchezza.

Gloria Steinem: «Difendiamo i nostri diritti dai maschi bianchi al potere». La legge del Texas contro l’aborto. La deriva misogina polacca. La leader femminista americana analizza il backlash contro le conquiste delle donne. E invita alla resistenza. Francesca Sironi su L’Espresso il 30 settembre 2021. Dal primo settembre di quest’anno gli abitanti del Texas sono invitati a segnalare cliniche, medici o anche solo tassisti che si mostrino disposti ad aiutare donne che devono abortire. Se la segnalazione ha successo, il cittadino-denunciante riceve un premio di almeno 10mila dollari. Quest’invito a farsi polizia diffusa contro l’aborto è uno degli aspetti inquietanti fra i molti della nuova legge che impedisce le interruzioni volontarie di gravidanza in Texas, divieto che agisce dopo la sesta settimana dalla fecondazione, senza eccezioni per stupro o incesto. Sta succedendo ora, nel 2021, in una delle più grandi democrazie dell’Occidente. Non in una dittatura o in un qualche Paese comunemente tacciato di oscurantismo. In Europa lo stesso: dopo il partecipatissimo referendum che in Irlanda ha introdotto il diritto all’aborto nel 2018, in Polonia le donne si sono viste togliere quello stesso diritto a gennaio del 2021, nonostante le oceaniche manifestazioni popolari degli anni scorsi per impedire che accadesse. Il mondo non fa che ricordarci insomma che non c’è traguardo sociale che possa esser dato per scontato. Non c’è vittoria civile di fronte alla quale non si debba scegliere continuamente da che parte stare, e mobilitarsi per questa. Essere partigiani. «La cosa positiva, che va sottolineata con forza ogni volta, è che queste mobilitazioni popolari esistono. E che la maggioranza delle persone è più aperta e inclusiva di quanto non voglia un manipolo di uomini bianchi che continua a pretendere il potere sul corpo delle donne». Gloria Steinem è una delle più famose leader del femminismo mondiale. La sua vita e le sue battaglie sono state avanguardia e ispirazione per generazioni, a partire dagli anni ‘60. Oggi a 87 anni è veloce e propulsiva come a trenta nel ragionare, durante una video-intervista che le piace immaginare circolare, dice, anche se siamo in due, ma circolare perché è interrogandosi alla pari che emergono nuove possibilità, sulle conseguenze e le radici di quanto sta accadendo intorno al ruolo sociale e politico delle donne. Steinem sarà a Firenze per l’evento di chiusura del festival “L’Eredità delle Donne”, che si terrà dal 22 al 28 ottobre. Per l’occasione la casa editrice Vanda pubblica una nuova edizione di uno dei suoi bestseller, “Autostima. La rivoluzione parte da te”.

Cominciamo da quanto sta succedendo in Texas. Come lo interpreta?

«Ci sono tre aspetti che evidenzierei. Il primo: ci troviamo di fronte, di nuovo, a cosa accade quando una manciata di uomini bianchi di potere possono esprimere liberamente i loro sentimenti rispetto al controllo delle donne e delle facoltà riproduttive. Il secondo: che la maggioranza è già andata avanti rispetto a questi temi. La risposta popolare è stata enorme e diffusa. Tassisti texani hanno offerto le corse per le donne che dovranno abortire in Stati vicini. È la natura della legislazione a livello statale che permette a politici poco rappresentativi ed eletti purtroppo con maggior indifferenza da parte dell’elettorato, rispetto a quanto accade a livello centrale, di orientare la legge locale e avere effetti di questo tipo».

C’è un tema fondamentale di rappresentanza e di partecipazione politica quindi.

«Esatto, è il terzo elemento cruciale per capire quello che sta succedendo. I governanti del Texas in questo momento non rappresentano la maggioranza del loro Stato, così come è stato per Trump. Siamo di fronte a una classe di potere minoritaria che non accetta la nuova diversità del Paese. È una minoranza pericolosa di bianchi, al comando, che non vuole fare i conti con il presente e il futuro della popolazione: fra i nuovi nati i bambini di colore sono più numerosi dei bianchi. E questa è una grandissima promessa, che ci permetterà di conoscere meglio il mondo. Ma loro si rivoltano contro la nostra stessa popolazione. Lo stesso vale per l’uguaglianza fra uomo e donna: è avanzata in moltissimi settori della società, e per le nuove generazioni la solidarietà è enormemente più diffusa. Ma ancora siamo di fronte a possibili leggi come quella in Texas».

Razzismo e politiche anti-abortiste sono questioni così legate?

«Totalmente. Sto lavorando adesso a un saggio che mette in luce come la primissima legge promulgata da Hitler fosse la condanna dell’aborto quale crimine contro lo Stato, e il controllo dei destini delle donne. Voleva che la popolazione bianca si riproducesse a forza, mentre sterminava ebrei e persone di colore nei campi di concentramento. Anche per Benito Mussolini la famiglia, intesa alla riproduzione, era essenziale, e le donne dovevano solo produrre figli. Tutto questo per via dell’utero: perché noi abbiamo l’utero e loro no. E allora vogliono controllare le donne e le loro scelte, per costringerle».

Penso a papa Francesco che ha detto pochi giorni fa che «l’aborto è un omicidio». Già nel 2018 d’altronde diceva che abortire «è come affittare un sicario». Fin dal concepimento.

«Di fronte a frasi come queste, bisogna ricordare che il papato non l’ha sempre pensata in questo modo. Anzi. Fino a papa Pio IX - siamo nella seconda metà dell’Ottocento - prevaleva la dottrina di Gregorio XIV, ripresa da Tommaso d’Aquino e da Aristotele, secondo la quale il feto assumeva un’anima solo quando iniziava a muoversi. Quindi non dal concepimento. L’interruzione volontaria di gravidanza quindi era regolata, semplicemente. Non vietata del tutto. Penso che il cambio di dottrina a riguardo sia stato una scelta politica, un accordo con Napoleone III per forzare la popolazione a crescere, visto che c’era bisogno di giovani da esercito».

È politica insomma. Politica imposta sul corpo delle donne. E ogni volta, mascherata da argomento di moralità. Ma decidere al posto di tutte le donne, di ogni singola donna di fronte al suo corpo e al suo futuro, è morale? O politico, appunto?

«Penso a quanti negli Stati Uniti si dichiarano anti-aborto e sostengono queste leggi, e poi sono a favore della pena di morte. Non ha senso, evidentemente. A meno di non accettare il paradosso per cui una vita “colpevole” vale meno».

E sono faglie di fronte alle quali non tengono, a pensarci, le grandi divisioni fra Oriente e Occidente, ad esempio, oppure fra una fede e l’altra, fra un sistema culturale e un altro. Tiene solo la democrazia esercitata o la solidarietà. È così?

«La tendenza egualitaria si trova dappertutto, così come la ricorrenza del potere, dei pochi uomini intesi a controllare i corpi di tutte le donne. Penso all’Afghanistan: i talebani sono un gruppo di suprematisti maschili. E allo stesso tempo, appunto, la forza dell’egualitarismo attraversa i continenti. Io ho imparato il femminismo in India, è lì che ho conosciuto le donne che supportavano Ghandi ma anche si contrapponevano a lui su temi come la contraccezione e il controllo delle nascite. È lì che ho capito che questa dinamica sul controllo dell’utero era politica. Le stesse suffragette statunitensi impararono dalle donne native americane le prime pratiche di controllo della fertilità e l’uso dei pantaloni per muoversi. L’apporto delle identità e delle culture non-bianche nel movimento femminista è assolutamente sotto-rappresentato. Ne ho avuto esperienza personalmente».

In che senso?

«Da ragazza venni messa sulla copertina di magazine e settimanali, come simbolo delle lotte femministe. Non mi venne chiesto il permesso, ovviamente, ma il problema principale era lo sforzo di alcuni media di caratterizzare il movimento delle donne come un movimento bianco, quando le donne nere erano forse più numerose, e più determinate, nei cortei. Ci fu una sorta di divisione: il movimento femminista era rappresentato con donne bianche, quello per i diritti civili con uomini neri. Così le donne nere che erano la maggioranza delle leader di entrambi i fronti, scomparivano».

In Texas circa il 70 per cento degli aborti praticati nel 2019 era stato chiesto da donne di colore.

«C’è un enorme problema di accesso alle cure, alle strutture mediche, agli strumenti di prevenzione. Il Covid-19, se ci pensiamo, ci ha messo di fronte alla stessa evidenza. Da una parte ha rivelato la natura arcaica dei confini nazionali, aumentando la nostra percezione dell’essere parte di una umanità comune. Dall’altra la differenza dell’impatto del virus e delle misure di restrizione sulle diverse classi sociali è stata fortissima, e inaccettabile».

Fra le conseguenze delle restrizioni per la pandemia, c’è stato anche l’aumento della violenza domestica.

«Prima degli anni ‘70 la polizia che veniva chiamata a intervenire durante casi di violenza in famiglia aveva come ruolo quello di convincere la coppia a tornare insieme. C’era questa idea che la legge si fermasse sulla porta della famiglia. Adesso siamo lontane: ci sono rifugi per le donne, le norme sono migliori, gli strumenti a disposizione sono molti, ma dobbiamo continuare a investire, e aumentarli. Dobbiamo formare nuove generazioni che abbiano vissuto in famiglie diverse, e quindi possano cambiare il discorso pubblico, normalizzando la parità».

È da casa che parte tutto, no?

«È così. Solo se bambine e bambini vengono educati a credere nella loro libertà, nelle loro aspirazioni, a sentire se stessi come unici, non ci saranno più basi per il patriarcato».

C’è chi dice che il femminismo ha stufato, che se ne parla troppo, che ormai la parità è dappertutto. Cosa rispondere?

«Beh, banalmente, con una dose di realtà. Solo 26 Paesi hanno donne presidente. Gli Stati Uniti hanno avuto un solo presidente di colore nonostante la popolazione. Le donne leader, nelle organizzazioni come nelle aziende devono ancora vergognarsi di essere sincere, semplicemente perché lo standard della leadership è graniticamente maschile, e penso ad esempio al piangere quando si è arrabbiati o alle dinamiche di tempo e potere. C’è una cosa che ho imparato in questi anni di insegnamento, ad esempio, ed è quella del mettersi in cerchio, di ripartire da un discorso alla pari, lasciarci alle spalle il modello frontale della Chiesa, dove delle persone guardano un ragazzo con una gonna che parla da un palco o da pulpito accentrando su di sé il potere di parola. È condividendo questo potere che cambieremo».

La rete delle “zie d’Europa” che aiuta chi non può abortire in sicurezza. Finanziano viaggi, spediscono farmaci. A chi le contatta dalla Polonia, da Malta, ma ultimamente anche dall’Italia. E risparmiano a tante giovani i rischi della clandestinità. Claudia Torrisi su L’Espresso il 30 settembre 2021. Ai primi di settembre la Corte Suprema degli Stati Uniti ha reso sostanzialmente illegali la quasi totalità degli aborti in Texas, decidendo di non bloccare la legge che vieta l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) oltre la sesta settimana. È l’ennesimo atto di una guerra all’aborto che viene da lontano, ma che è tutt’altro che localizzata. Anche in Europa si contano Stati con normative molto restrittive, e altri in cui l’accesso è molto limitato. Malta è il paese con la legislazione più dura: l’aborto è illegale in ogni circostanza e senza eccezioni, con una pena fino a tre anni di carcere. Interrompere volontariamente una gravidanza è vietato anche nei piccoli Stati di Andorra e Liechtenstein. A San Marino e a Gibilterra l’aborto è stato recentemente depenalizzato grazie al voto popolare, ma le maglie restano strettissime. E poi c’è la Polonia, dove nell’ottobre del 2020, dopo diversi tentativi parlamentari, una sentenza della Corte Costituzionale ha ulteriormente ridotto l’accesso all’Ivg, eliminando i casi di gravi malformazioni fetali (che costituivano la gran parte di quelle censite). A questi si aggiungono paesi come l’Irlanda, l’Ungheria o la Romania, dove l’aborto seppur legale è di difficile accesso. O l’Italia, con l’altissimo tasso di obiezione di coscienza e gli ostacoli al metodo farmacologico, specialmente durante la pandemia. I divieti, le restrizioni e le difficoltà, però, non hanno mai fermato gli aborti. Negli ultimi anni si è formata una rete di gruppi che garantiscono informazioni, finanziamenti e supporto per organizzare i viaggi delle donne che devono abortire verso Paesi dove è possibile farlo in sicurezza o per permettergli di farlo in casa grazie alla telemedicina. Mara Clarke, trasferitasi in Inghilterra nel 2005 dagli Stati Uniti (dove c’è una lunga tradizione in questo senso), è una pioniera in Europa: nel 2009 ha fondato Abortion support network, un’associazione non profit per finanziare i viaggi delle donne da Irlanda, Irlanda del Nord, Isola di Man e recentemente Gibilterra e Malta per abortire nel Regno Unito, dove il limite per l’Ivg è di 24 settimane. Nel 2020 si sono rivolte all’organizzazione circa 780 persone. «Le legislazioni restrittive sull’aborto non hanno effetti sulle persone ricche, ma su quelle più povere o marginalizzate. Quello che facciamo è aiutare chi ne ha bisogno ad accedere all’aborto, specialmente nel secondo trimestre di gravidanza. Suona come una cosa facile, ma ci sono molti ostacoli», spiega Clarke. Gli ostacoli a cui si riferisce riguardano ad esempio i documenti di viaggio, situazione peggiorata con Brexit, o le condizioni particolari delle donne che devono spostarsi: alcune escono da una relazione violenta o vivono con un partner controllante, la maggior parte ha già dei figli. E poi la pandemia, con tutte le limitazioni. Abortion support network opera ufficialmente con alcuni Paesi, ma secondo la sua fondatrice l’organizzazione «è pronta ad aiutare chiunque, caso per caso». Nel dicembre 2019 ha aperto anche alla Polonia, lanciando insieme ad attiviste di cinque organizzazioni con sede in diversi Paesi d’Europa l’iniziativa Abortion without borders. Le richieste arrivano a una helpline gestita da volontarie che da anni lavorano per diffondere informazioni corrette sulla salute riproduttiva in Polonia. Da qui, a seconda della settimana di gestazione, le utenti vengono smistate tra gruppi che organizzano viaggi in altri Paesi europei e Women help women, una non profit che si occupa di fornire consulenza e assistenza medica per l’aborto farmacologico in telemedicina nei Paesi in cui l’Ivg è illegale, inviando le pillole a casa. Nel 2021 le richieste finora arrivate ad Awb sono state 4.135. La speranza di Clarke è che sorgano sempre più gruppi di questo tipo, così come sta accadendo negli ultimi anni soprattutto ad opera di attiviste polacche. «Siamo un esercito in crescita», commenta. Esiste una rete di collettivi, alcuni dei quali nati dopo la decisione della Corte Costituzionale di Varsavia dello scorso ottobre, con nomi simili tra loro: Ciocia Basia (che fa parte di Abortion without borders e ha sede a Berlino), Ciocia Frania (a Francoforte), Ciocia Monia (a Monaco di Baviera), Ciocia Wienia (a Vienna), Ciocia Czesia (Repubblica Ceca). «Ciocia» significa «zia» in polacco e quello che queste volontarie fanno è mettere a disposizione contatti, informazioni, organizzare supporto psicologico, prendere appuntamenti e aiutare anche economicamente chi ne fa richiesta ad accedere all’aborto in Germania, Austria o Repubblica Ceca, paesi con normative più elastiche. La stessa attività viene svolta da Abortion network Amsterdam (anch’essa nel network di Awb) con sede nei Paesi Bassi, dove la legislazione permette l’Ivg fino a 22 settimane. «La maggior parte delle persone che ci hanno contattato venivano dalla Polonia, ma abbiamo ricevuto richieste anche da Stati molto lontani», spiega Kasia, una delle volontarie. Tra le utenti ci sono anche donne immigrate o senza documenti. Altre organizzazioni si occupano di aborto farmacologico in telemedicina, nelle prime settimane di gravidanza. Oltre a Women help women, è attiva Women on web, non profit fondata nel 2005 dall’attivista olandese Rebecca Gomperts. «L’Europa costituisce almeno metà del traffico delle email che riceviamo, parliamo di almeno 70 mila email all’anno. Ci contattano soprattutto da Polonia, Malta, Irlanda. Occasionalmente anche da Paesi in cui l’aborto è legale, ma le persone non hanno accesso alle strutture per varie ragioni: questioni di documenti, privacy, situazioni di violenza. Alcune mail sono arrivate anche dall’Italia, specialmente durante la pandemia», afferma Kinga Jelinska, co-fondatrice e direttrice esecutiva di Women help women. «L’equivoco è pensare che se l’aborto è legale, allora va tutto bene. Ma più che alle normative, bisognerebbe guardare quante persone riescono ad accedere: ci sono posti con buone leggi e un pessimo accesso al servizio».

Il delirio della Murgia: vietato ringraziare le mogli. Roberto Vivaldelli il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Per la nota scrittrice, il mito della musa ispiratrice è uno dei "fondamenti essenziali dell’immaginario del patriarcato". Gli uomini che dedicano un premio alla moglie come Benigni sottolineano di aver raggiunto traguardi "preclusi alle donne". I maschi devono stare attenti, d'ora in poi: perché dietro un semplice "grazie" può nascondersi, in realtà, una concezione discriminatoria della donna figlia della società patriarcarle. Se nella vostra carriera avete raggiunto un traguardo importante e volete ringraziare pubblicamente per il sostegno la vostra moglie, fidanzata o amante, attenzione: potrebbe trattarsi di un traguardo precluso alla vostra metà. A sostenere questa bizzarra tesi è la scrittrice Michela Murgia, che ha preso in esame la dedica alla moglie di Roberto Benigni al Festival del Cinema di Venezia. Il problema, in questo caso, non sono le accuse di plagio o le citazioni nascoste Jorge Luis Borges ma, secondo Murgia, il concetto stesso di musa ispiratrice. Roba da Medioevo. "Il mito della musa ispiratrice, scrive Murgia in un articolo pubblicato su L'Espresso, "creatura ultraterrena che nel segreto guida l’uomo alle imprese epiche", è uno dei "fondamenti essenziali dell’immaginario del patriarcato". Il racconto della donna in ombra, che con la sua "silente forza sostiene il percorso luminoso del suo compagno", è retto da due "pilastri retorici" che Benigni, certamente in buona fede, ai microfoni veneziani ha "evocato alla perfezione". Il primo di questi "dispositivi retorici si può sintetizzare nella frase" devo tutto a te. È molto frequente che gli uomini che raggiungono un traguardo personale affermino pubblicamente che senza la loro compagna non ci sarebbero mai arrivati". Sembra un riconoscimento, ma in realtà, spiega la Murgia, specie in un contesto come quello cinematografico, dove "le donne non hanno mai avuto le stesse possibilità di emergere dei loro colleghi o compagni" è la "dimostrazione plastica della sua negazione". In un sistema dove le "donne possono dare luce, ma mai avere luce, se non riflessa", devo tutto a te equivale a dire "mi sto intestando per intero quello che in un mondo equo avremmo dovuto dividere". Si può dire tutto di Roberto Benigni, si può apprezzare o meno come artista, ma non c'è nulla di male né di potenzialmente discriminatorio in ciò che ha detto e nelle parole d'amore per la moglie. Quella della Murgia è una dietrologia inutile e senza né capo né coda: chi lo dice che che dietro a quel "grazie" vi siano traguardi irragiungibili dalle donne? Nicoletta Braschi ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti nella sua lunga e proficua carriera di attrice tanto da non invidiare quasi nulla al merito e di sicuro non ha mai vissuto di "luce riflessa". È la realtà stessa a smentire l'assurda teoria di Michela Murgia e la sua ossessione per il patriarcato. Sembra quasi che tutto ciò che fanno gli uomini sia sbagliato a prescindere - persino dire "grazie" - o sia il riflesso di una società maschilista che ai salotti delle femministe progressiste non piace. Pazienza.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in v 

Cosa si nasconde dietro quel “grazie”. Michela Murgia su L'Espresso il 13 settembre 2021. Gli uomini che dedicano, come Benigni a Venezia, un premio alla moglie sottolineano in realtà che hanno raggiunto traguardi preclusi alle donne. C’è una storiella che si raccontava negli Stati Uniti durante la presidenza Obama. Narra di come, durante uno dei viaggi della coppia presidenziale in giro per gli stati del nord, Michelle e Barack si siano fermati a mangiare in un grosso fast food, cibo di cui colpevolmente il presidente, in barba alle campagne da lui stesso promosse per l’alimentazione corretta, andava in realtà ghiotto. A servirli venne il padrone in persona e Michelle riconobbe in quell’uomo un ex compagno di liceo con cui aveva avuto un flirt. Dopo una breve conversazione in cui i due si ricordarono scherzosamente a vicenda i trascorsi, la storiella vuole che Obama, rimasto solo con la moglie, abbia commentato dicendo: «pensa, se avessi sposato lui, oggi saresti la padrona di questo fast food». «Non credo. Se lo avessi sposato», replicò Michelle sorridendo, «oggi sarebbe lui il presidente». L’aneddoto, vero o falso che sia, ha una sua efficacia retorica e a raccontarmelo fu una donna tutta orgogliosa, suggerendomi di servirmene come esempio per spiegare l’empowerment femminile. Non ebbi il coraggio di dirle che piuttosto era vero il contrario: se c’è una cosa che questa storiella spiega bene è proprio il modo in cui nel sistema patriarcale le donne sostengono e rafforzano il potere degli uomini. Non a caso mi è tornata in mente quando Roberto Benigni, ritirando a Venezia il leone d’oro alla carriera, ha ringraziato la moglie Nicoletta Braschi nel suo discorso di accettazione. Al netto dell’entusiasmo coniugale di Roberto Benigni, della cui genuinità nessunə dubita, dal punto di vista della rappresentazione pubblica del rapporto uomo-donna le parole dell’attore riproducono un cliché secolare, quello della grande donna dietro al grande uomo, dove la parola che fa scattare il meccanismo tossico non è “grande”, ma “dietro”. Il mito della musa ispiratrice, creatura ultraterrena che nel segreto guida l’uomo alle imprese epiche, è uno dei fondamenti essenziali dell’immaginario del patriarcato. Il racconto della donna in ombra, che con la sua silente forza sostiene il percorso luminoso del suo compagno, è retto da due pilastri retorici che Benigni, certamente in buona fede, ai microfoni veneziani ha evocato alla perfezione. Il primo di questi dispositivi retorici si può sintetizzare nella frase «devo tutto a te». È molto frequente che gli uomini che raggiungono un traguardo personale affermino pubblicamente che senza la loro compagna non ci sarebbero mai arrivati. Sembra un riconoscimento, ma in realtà - specie in un contesto come quello cinematografico, dove le donne non hanno mai avuto le stesse possibilità di emergere dei loro colleghi o compagni - è la dimostrazione plastica della sua negazione. In un sistema dove le donne possono dare luce, ma mai avere luce, se non riflessa, «devo tutto a te» equivale a dire «mi sto intestando per intero quello che in un mondo equo avremmo dovuto dividere». Se accade una volta è romantico e ci si può anche commuovere. Se però accade tre volte al giorno in tutti gli ambiti di riconoscimento, diventa necessario chiedersi perché le donne siano sempre le persone ringraziate per i premi altrui e mai quelle che ringraziano per i propri. Il secondo meccanismo retorico di questa narrazione è conseguenza diretta del primo: è quello che racconta il genio femminile, o - per dirla con le parole di Benigni nel suo discorso - l’enigma della femminilità, che vuole che le donne siano creature che «hanno qualcosa che noi uomini non comprendiamo, un mistero senza fine». Il pregiudizio che le donne siano esseri alieni che procedono per vie incomprensibili, oltre ad apparentare gli uomini alla semplicità degli organismi unicellulari che evidentemente non sono, le porta in un empireo dove esse possono solo ispirare, mai agire. La storiella perfetta non è quindi quella in cui una donna straordinaria fa diventare presidente o premio Oscar qualunque uomo finisca per sposare. È quella in cui nessunə trova romantico vivere in un sistema dove una donna viene ringraziata per aver fatto raggiungere a un uomo traguardi che a lei sono negati.

FRANCESCO BORGONOVO per la Verità il 12 settembre 2021. Una settimana fa era stato il settimanale britannico The Economist a lanciare l'allarme riguardo l'ascesa della «sinistra illiberale», che ampia riempirsi la bocca con i diritti ma, alla prova dei fatti, si rivela più propensa che mai alla censura. Ebbene, forse è ora che qualcuno si accorga dell'esistenza del fenomeno (e della sua pericolosità) anche dalle nostre parti, soprattutto dopo quanto accaduto al Festival della letteratura di Mantova. La nota kermesse letteraria aveva in programma un incontro con Rebecca Solnit, autrice femminista americana divenuta celebre per l'invenzione del «mansplaining». In un libro che ha avuto grande successo, denunciava una orribile discriminazione: gli uomini sono così arroganti e sessisti che pretendono di «spiegare le cose» alle donne. A quanto pare, però, la suscettibile autrice ha lo stesso vizietto: pretende di spiegare le cose agli altri (maschi e femmine) senza accettare non soltanto il contraddittorio, ma persino una normalissima interlocuzione. La faccenda si è svolta più o meno così. Gli organizzatori del Festival di Mantova avevano chiesto a Marina Terragni, nota intellettuale femminista, di presentare la Solnit al pubblico e di intervistarla. La Terragni ha accettato, e si è preparata per l'incontro, previsto ieri sera. La Solnit, come spesso fanno gli intellettuali radical, si è mostrata parecchio esigente. Ha chiesto che le fosse mostrata in anticipo la lista delle domande che le sarebbero state poste durante l'intervista, ed è stata accontentata. Poi, però, alcune ore prima di andare in scena ha fatto sapere ai vertici del Festival che non si sarebbe fatta intervistare: si sarebbe limitata a tenere un discorso, rispondendo alla fine a una domanda dal pubblico. Qual è stato il problema? Semplice: la presenza di Marina Terragni. Come i nostri lettori sanno, Marina da anni conduce battaglie molto coraggiose contro l'utero in affitto, per la modifica del ddl Zan e contro le derive del cosiddetto «transfemminismo». Combatte, da sinistra, l'ideologia Lgbt, rifiutandosi di accettare il dogma secondo cui un transessuale sarebbe una donna a tutti gli effetti. Ecco, questo è il motivo per cui la Solnit non l'ha voluta accanto a sé. In alcune mail private inviate agli organizzatori mantovani, la simpatica Rebecca ha indicato la Terragni come una pericolosa «Terf», acronimo che sta per «femminista radicale trans escludente». Capito? Poiché la Terragni sostiene che un uomo operato non sia una donna, non deve avere diritto di parlare, deve essere considerata una razzista e messa a tacere.«Per "chiamare le cose con il loro nome" (citando un titolo di Solnit), il nome di questa cosa è "bavaglio" e non somiglia affatto a quello che lei scrive nei suoi saggi», ha commentato la Terragni. «Li ho letti tutti anche se non potrei dire che Solnit sia esattamente la mia passione. Ma Solnit è certamente una voce eminente, gode di un grande seguito, e mi era sembrato interessante poter dialogare con lei. Abbiamo esperienza del no-debate praticato con fermezza dal mondo Lgbtq, l'abbiamo sperimentato anche in Italia con i sostenitori del ddl Zan che si sono metodicamente sottratti a ogni confronto: ma da Rebecca Solnit non me lo sarei aspettato». Purtroppo, come sempre più spesso avviene, chi cerca il dialogo e il confronto viene puntualmente respinto. Gli intellettuali come la Solnit, grandi sostenitori della massima libertà per la galassia arcobaleno, fanno di tutto per togliere spazio a chi dissente, e nella gran parte dei casi ci riescono, come dimostrano innumerevoli storie che arrivano da Stati Uniti e Inghilterra. Nel mondo anglosassone lo chiamano «no platforming», noi preferiamo chiamarla censura. E forse i responsabili del Festival di Mantova avrebbero dovuto mostrare un poco più di coraggio, e rifiutare di far parlare Rebecca Solnit: o il confronto o niente. Bisogna smettere di farsi dare lezioni di tolleranza dagli intolleranti, non è più possibile permettere ai razzisti del pensiero come la Solnit di accusare gli altri di razzismo. L'Economist, ad esempio, rifiuta di utilizzare il termine Terf. Lo considera offensivo, e non tollera che gli attivisti trans lo usino per intimidire i loro nemici. Il Guardian, notoriamente schierato a sinistra, ha preso una posizione leggermente diversa in una vicenda che ha riguardato un'altra illustre portavoce della Cattedrale del Politicamente corretto: Judith Butler, la madrina del gender.Nei giorni scorsi, il quotidiano britannico ha pubblicato una intervista alla Butler firmata da Jules Gleeson. Già il titolo era raccapricciante: «Dobbiamo ripensare la categoria di donna» (la cara Judith, tra le altre cose, pretende che con la parola «donna» si indichino anche maschi operati). Il contenuto della conversazione, ovviamente, era anche peggio, ma nessun intellettuale vip ha pensato di indignarsi per le scemenze proferite dalla Butler. A risentirsi invece è stata proprio lei, la Madre Superiora della Cattedrale. Proprio così: la Butler ha frignato di essere stata censurata dal Guardian e immediatamente la notizia ha fatto il giro del mondo, ripresa con un certo sussiego anche dal Corriere della Sera. In effetti, i redattori del Guardian hanno ritenuto di tagliare un passaggio dell'intervista. Diceva così: «L'ideologia anti-gender è uno dei ceppi dominanti del fascismo dei nostri tempi. Quindi le femministe radicali trans escludenti non faranno parte della lotta contemporanea contro il fascismo». La frase era evidentemente insultante e violenta verso le presunte Terf, ma il Guardian non l'ha tolta per questo. L'ha levata perché faceva parte di una risposta più ampia riferita a una storia che ha suscitato parecchio scalpore negli Usa. Si tratta del cosiddetto «Wi Spa Incident»: una donna di Los Angeles ha pubblicato un video, divenuto virale, dichiarando che un maschio si aggirava nella zona riservata alle donne con il pene in bella vista. Come è facile intuire, si trattava di un trans che, seppur dotato di genitali maschili, si è riservato il diritto di stare nudo nell'area femminile. Nella conversazione incriminata, Judith Butler ha presentato il caso della «Wi Spa» come un esempio dell'intolleranza dei fascisti omofobi e transfobici. Sia lei che la sua intervistatrice, tuttavia, si sono dimenticate di dire che il trans «vittima di odio» era in realtà un signore di 52 anni registrato nelle liste dei «sex offender» e con due condanne per atti osceni alle spalle. È per questo che il Guardian ha eliminato un passaggio dell'intervista: per evitare di difendere un molestatore con la scusa della battaglia contro l'accusa di transfobia.Comunque sia, la censura inesistente subita da Judith Butler ha ottenuto titoloni. Quella vera subita da Marina Terragni ne otterrà molti meno. Tocca prenderne atto: viviamo in un modo in cui i molestatori sono trattati da vittime e gli intellettuali seri sono considerati molestatori.

Annalisa Chirico contro Michela Murgia: "Voi indignate con Berlusconi dove siete ora coi talebani?" Annalisa Chirico su Libero Quotidiano il 18 agosto 2021. Se non ora quando? Quale sarà il momento giusto per dire che il patriarcato islamista fa a pugni con i diritti delle donne, che non c'è spazio per compromessi con chi intende imprigionare il corpo delle donne in un sudario di pietra? Se non scendiamo in piazza adesso, a Roma come a Parigi e a Londra e a New York, per protestare contro il ritorno dei barbuti, quale sarà il momento giusto? Forse quando sarà troppo tardi. In questi giorni di immagini da Kabul, di conferenze stampa in mondovisione, di uomini ammassati attorno agli aerei in partenza, sui carrelli e sulle ruote, di uomini che cadono dagli aerei in volo, le donne afghane sono le grandi assenti, come tutte le grandi vittime della storia. Le donne afghane non si mostrano, anzi si nascondono in attesa di capire che cosa riserverà loro il destino, e le donne occidentali più valorose in battaglie epocali come quella sulle desinenze da declinarsi rigorosamente al femminile si chiudono in un silenzio ipocrita e colpevole. In alcuni casi, forse, contano le aperte simpatie per gruppi terroristici come Hamas che ha accolto trionfalmente la restaurazione talebana, di certo conta la prudenza di chi teme le accuse di razzismo e islamofobia. 

ONTOLOGICAMENTE INFERIORI - Il risultato è il silenzio, il "missing in action" che unisce insieme le femministe per comodità e i ministri degli Esteri che nei giorni della crisi se ne stanno a mollo in acque pugliesi (è il caso dello spensierato Di Maio) o in acque cipriote (assai gradite all'omologo britannico Raab). Le donne afghane non si vedono, stanno mute e nessuno parla per loro, neanche le pseudofemministe in servizio permanente effettivo, quelle pronte a fare tanto rumore per difendere le donne occidentali che, per fortuna nostra, sono libere di vivere come vogliono, di andare a scuola e di lavorare, di abbronzarsi in topless, di scegliere se e quando copulare con qualcuno, per amore o peraltre ragioni. Le pseudofemministe che affollavano le piazze contro il Cav e firmavano articolesse agguerritissime, assecondando la narrazione delle giovani vergini vittime del Caimano (risate), sembrano ignare di ciò che accade in Afghanistan; forse le signore non aprono i giornali, forse non guardano la tv, eppure sarebbe questo il momento di scendere in piazza contro il ritorno del patriarcato talebano che a Kabul, prima dell'arrivo degli occidentali nel 2001, governava ininterrottamente da quindici anni. Con il ritorno dei barbuti al potere, torna la sharia, il primato della legge coranica, che considera la donna un essere ontologicamente inferiore. Vent' anni di presenza militare, di soldati morti ammazzati, di ingenti risorse investite on the ground non hanno realizzato una struttura statuale accettata e sostenuta dagli afghani ma hanno postole condizioni per un sistema di vita rispettoso dei diritti di donne e bambine. Il diritto all'istruzione, a girare in istrada con il capo scoperto e senza l'obbligo di un guardiano maschile, il diritto al lavoro e alle cure mediche, la libertà di indossare i tacchi con le caviglie in bella mostra, tutte queste cose bellissime, per noi occidentali così dannatamente scontate, erano tornate realtà in Afghanistan grazie a una guerra imperfetta ma giusta. Adesso, le lancette della storia tornano indietro, le afghane piangono in preda alla paura di subire violenze, soprusi, matrimoni forzati, e le intellò occidentali sembrano guardare da un'altra parte.  

UN PAESE «LIBERATO» - Nella prima conferenza stampa in mondovisione, i barbuti affermano, con orgoglio, di aver "liberato" il Paese, in effetti hanno ragione: costoro liberano il Paese per imprigionare le donne, liberano il Paese per legittimare agli occhi del mondo una visione teologicamente totalitaria della società. Di fronte allo scempio dei diritti e della democrazia, è il momento di scendere in piazza, di mobilitare l'opinione pubblica internazionale affinché i governi occidentali si uniscano nella condanna unanime dell'occupazione afghana e dicano chiaramente che mai il regime degli usurpatori avrà un riconoscimento internazionale. Mai alcun compromesso sarà possibile con i talebani che a parole aprono alla presenza di donne nel governo ma "sotto la sharia", puntualizzano. Se la Cina è pronta ad integrarli nella via della Seta, l'Occidente sta da un'altra parte. La legge islamica è incompatibile con i diritti delle donne, l'identificazione tra legge di dio e legge dello stato fa a pugni con lo stato di diritto. Non sarà allora qualche presenza femminile in un futuro esecutivo a legittimare il potere fondamentalista che sogna il nuovo Emirato islamico nella ex centrale del terrore. Con i talebani a Kabul, nessuno di noi può dirsi al sicuro.

Michela Murgia per “La Stampa” il 23 agosto 2021. Se qualcuno ci dicesse che ci offrirà un'ora d'aria purché da domani andiamo a vivere in galera, chi di noi accetterebbe? Se gli stessi che abbiamo visto uccidere i nemici politici, perseguitare le minoranze e violentare le donne per sottometterle ci promettessero col mitra in mano che da domani smetteranno, noi gli crederemmo? Se la risposta ovvia è no, è facile immaginare lo stato d'animo di chi da Kabul ha sentito i tagliagole talebani dichiararsi pronti a garantire un governo inclusivo e diritti alle donne, purché «in accordo» con quello sgorbio dell'islamismo che è la Sharia. Le diplomazie europee stanno però già facendo finta di crederci, perché la realpolitik vince su ogni altra logica quando c'è di mezzo un territorio ricco e strategico come l'Afghanistan. Non appena è partita la smobilitazione militare e la storiella dei liberatori occidentali si è rivelata per la panzana che era, in meno di due settimane lo scenario politico ha mostrato tutte le possibili sfumature dell'ipocrisia e del cinismo, tanto in Afghanistan quanto nei nostri parlamenti. I taleban che ora hanno preso Kabul detenevano già il controllo di metà del paese e in questi anni lo hanno governato indisturbati secondo i loro principi, nella piena consapevolezza degli occupanti occidentali, che sapevano benissimo che le donne afghane nelle zone rurali il velo dalla faccia non lo hanno mai potuto togliere. Ora che i taleban sono dichiaratamente i nuovi padroni, con loro si tratterà anche sulla pelle delle donne, tanto i nostri eserciti non erano andati certo là per promuovere l'emancipazione delle afghane. Se è vero che la democrazia non si esporta, ma si testimonia, verrebbe da pensare che la testimonianza occidentale in Afghanistan debba essere stata veramente poca cosa se dopo dieci anni una parte non piccola della popolazione ha più voglia di dare credito ai taleban piuttosto che ai nostri governi. I numeri che conosciamo ci dicono il perché: dei miliardi occidentali investiti in Afghanistan, solo il 10% ha finanziato infrastrutture e progetti di sviluppo. La quota restante è servita a comprare armi per rafforzare i corrotti poteri locali, quelli che si sono dati alla fuga appena gli eserciti stranieri hanno levato le tende. A noi, cittadini atterriti dallo scenario di oppressione che si prospetta, resta solo la solidarietà fattiva e la pressione sulle istituzioni perché accolgano quanti più esuli è possibile. A chi invece in questi giorni dalle file della destra nostrana ha gridato «dove sono le femministe?», Linda Laura Sabbadini ha risposto ieri da queste pagine con la consueta forza e precisione: sono dove sono sempre state, cioè a cercare di fortificare le reti internazionali delle donne, le associazioni contro la violenza e le Ong che con i loro progetti di educazione e di empowerment hanno reso possibile un futuro per donne e bambine che altrimenti non lo avrebbero mai avuto. Non hanno tempo, le femministe, per curare anche la strana malattia intermittente del sovranismo locale, che si manifesta invocandole quando c'è da criticare gli abusi stranieri, ma sbeffeggiandole in tutte le circostanze in cui si occupano degli abusi in casa nostra. Le penne che in queste ore hanno provato a depotenziare il lavoro delle donne italiane a sostegno delle afghane sono le stesse che tutti i giorni dai loro social e testate irridono alla richiesta di pari opportunità e alle lotte contro violenza, obiezione all'aborto, linguaggi sessisti e divario salariale. Non è un caso: come una matrioska, la cultura patriarcale ha gabbie che variano di dimensione a seconda del luogo e dei tempi. La forma però, a Kabul come a Roma, la riconosci sempre.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 23 agosto 2021. Dallo chador al menefreghismo è un attimo. Facile attaccare il politico o il volto famoso di turno. Ma se c'è da muovere le labbra per la violenza dei talebani, il burqa, l'islam, la sharia e i diritti delle donne (e madri) afghane violati, allora scatta il silenzio, anzi peggio, si fa finta di niente. Le femministe di Mee too, sempre pronte a scendere in piazza con i soliti slogan e a dare battaglia, sono in ferie. Dalle loro barche, dalle spiagge private in Sardegna o a mollo nelle spa in montagna, hanno perso il loro proverbiale scilinguagnolo e stanno ferme a guardare in tv le orrende immagini provenienti da Kabul. Da parte delle femministe di sinistra sono arrivati solo messaggi di opportunità: «aiutiamo le donne afghane», «apriamo a corridoi umanitari», «accogliamole». Da loro ci aspettavamo una rivoluzione femminile in piena regola e, invece, niente. Nessuna levata di scudi. Nessun sermone sui diritti e le libertà violati. Cosa fa ad esempio per l'Afghanistan la pasionaria palestinese Rula Jebreal dai suoi palazzi dorati di New York? Pronta ad indossare l'abito da sera sul palco dell'Ariston per sentenziare contro i maschi che sfruttano le donne ma altrettanto decisa nello scaricare le colpe su altri: «La destra ha appoggiato e finanziato questa guerra. Le femministe non la volevano. Questo è un fallimento di tutto l'Occidente, non delle femministe». E dov' è in questi giorni la rossa di capello e di idee Fiorella Mannoia? In tour con «Padroni di niente», sempre pronta a fare politica dai suoi palchi, l'unica voce che tira fuori adesso è quella per cantare le sue canzoni. Niente in favore delle donne afghane ad eccezione di qualche tweet di circostanza. Dalle pagine del Giornale Maria Elena Boschi fa appello alle compagne: «Vorrei che si facessero sentire», lamentando lei stessa questo imbarazzante silenzio. E che dire dell'ex presidenta della Camera Laura Boldrini, che ha fatto dello chador il suo secondo abito negli anni in cui lavorava per l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, pronta a stracciarsi le vesti per i diritti delle donne e adesso fuggevole, se si esclude la sua partecipazione alla festa dell'Unità di Grottammare per parlare della parità di genere insieme alla deputata Pd Patrizia Prestipino. Tutto si riduce ad un mieloso tweet: «Conosco e amo l'Afghanistan. La presenza militare multinazionale non è mai stata la soluzione. Penso alle minoranze, alle donne: che ne sarà di loro?». Anche Lucianina Littizzetto ha smesso di farci piangere con i suoi monologhi faziani e al Mee too per le donne preferisce il relax in Costa Azzurra. Lo stesso per il volto Rai Giovanna Botteri, corrispondente da Pechino, che dopo aver difeso il diritto alla sua capigliatura poco curata, non trova parole per tutto il resto. Battagliere per discussioni marginali, si fermano davanti alla regina di tutte le lotte che la Storia offre loro. Più facile indignarsi per le performer alla festa di Diletta Leotta, per i testi di Sfera Ebbasta e per il ddl Zan che per le donne afghane. Pure la femminista chic Michela Murgia tace. E per una che fa la scrittrice e si è sempre spesa come attivista della parità di genere e dell'antifascismo, ciò stride un po'. «Bella ciao» è ciò che ha detto Joe Biden, idolo della sinistra italiana, alle afghane dopo averle lasciate nelle fauci dei talebani. A Kabul stilano gli elenchi delle donne non sposate per scegliere che carne dare in pasto ai generali e qui sembra di assistere alla scena del Titanic quando ad un elegante lord viene offerto il giubbotto di salvataggio e lui gentilmente lo rifiuta: «No grazie, siamo vestiti con i nostri abiti migliori e ci prepariamo ad affondare da signori. Però gradiremo un brandy».

Michela Murgia “il pistolotto sulle donne afghane”: Nicola Porro, parole disastrose sui talebani. Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. “Finalmente Michela Murgia si è svegliata e sulla Stampa scrive un pistolotto sulle donne afghane”. Così Nicola Porro nel corso della sua zuppa quotidiana si è espresso sulla nota scrittrice, che dopo giorni di silenzio ha deciso di affrontare la questione dell’Afghanistan, soprattutto in relazione al Medioevo in cui sono ripiombate le donne per colpa dei talebani. “La Murgia riesce a scrivere che ‘noi donne lottiamo per le sorelle afghane’, allora siamo apposto”, ha commentato Porro. Che poi sobbalza leggendo la riga successiva: “‘I nostri eserciti non erano certo andati lì a promuovere l’emancipazione femminile’, ecco perché le nostre femministe non si inginocchiano per l’Afghanistan. Il motivo lo svela chiaramente la Murgia, lì c’erano gli americani e gli eserciti occidentali che non promuovevano l’emancipazione”. “L’idea fondamentale - ha aggiunto Porro - è che gli eserciti fanno solo schifo e che agli occidentali interessa solo trafficare oppio e fare affari di guerra. Nel frattempo, però, negli ultimi 20 anni le donne afghane erano libere, lavoravano, avevano i centri bellezza e soprattutto sono andate a scuola anziché in ospedale per partire a 13 anni. Hanno potuto studiare, sanno cos’è la scuola e le classi miste. Gli eserciti saranno pure cattivi ma adesso non esageriamo”, ha chiosato.

Chi si inginocchia per le donne afghane? Serena Pizzi il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Nessuna lezioncina, nessuna tirata d'orecchie, nessuna condanna al fondamentalismo islamico. Dove sono finite le femministe e la sinistra? Il 15 agosto i talebani sono entrati a Kabul. In un attimo, ci siamo trovati di fronte a una drammatica crisi umanitaria, ingestibile con i soliti slogan. Dal 15 agosto, i giornali, i social, le tv stanno informando i cittadini su ciò che sta accadendo in Afghanistan. Fra corridoi umanitari e ritorno alla sharia, il Paese si trova ancora una volta nel caos più totale. Interpreti, collaboratori, giornalisti, civili, qualche migliaio di afghani e militari sono già riusciti ad abbandonare la terra dell'inferno, ma purtroppo sono molti di più quelli che si ritrovano fra le grinfie di invasati islamici. Come è ormai risaputo, a pagare il prezzo più alto di questo cambio di potere sono le donne. "Siamo impegnati a rispettare i diritti delle donne sotto il sistema della sharia", ha detto il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, durante la sua prima conferenza stampa in favor di telecamera. Una conferenza stampa fuffa, volta a ingannare tutto il mondo. Perché le loro intenzioni sono altre (le donne non possono più uscire di casa, andare a scuola, vestirsi all'occidentale etc) e perché il loro volto violento non è mai cambiato (giorno e notte ammazzano civili e funzionari di Stato come fossero mosche). Ma per capire la loro tattica da quattro soldi non ci vuole un genio. Solo sentendo pronunciare "donne", "sharia" e "diritti" nella stessa frase deve suonare più di un campanello d'allarme. Ma questo non è accaduto a Giuseppe Conte che ha creduto ai talebani ben accomodati nel Palazzo presidenziale. Giuseppi, infatti, ha trovato nelle loro parole, nelle fucilazioni, nei rastrellamenti un "atteggiamento abbastanza distensivo" tanto da sentirsi in dovere di intavolare un dialogo con questi soggetti. E se l'ex presidente del Consiglio per un attimo (ha fatto marcia indietro poi) ci ha creduto, i talebani no. Ci spieghiamo. Dopo "l'atteggiamento distensivo" - per non sembrare troppo buoni - hanno voluto precisare: "Sotto il dominio dei talebani, l'Afghanistan non sarà una democrazia ma seguirà la legge della sharia. Non ci sarà affatto un sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro Paese. Non discuteremo quale tipo di sistema politico dovremo applicare in Afghanistan perché è chiaro: è la legge della sharia e basta". Parole inequivocabili e vergognosamente vere. Ecco, tutto questo discorso per dire cosa? Per evidenziare un silenzio assordante. Da parte delle femministe e della sinistra sono arrivati solo pochi messaggi monotoni "aiutiamo le donne afghane", "apriamo a corridoi umanitari, "accogliamole". Messaggi sporadici. Eppure, eravamo convinti che le Boldrini di turno avrebbero iniziato a stracciarsi le vesti per le condizioni disumane nelle quali vengono costrette a vivere le donne. Eravamo convinti che dal 15 agosto in poi avremmo trovato su tutti i social mani scarabocchiate con l'hashtag Afghanistan. Addirittura, eravamo convinti di imbatterci nel Letta-maestrino che ci sgrida perché non ci siamo inginocchiati di fronte a tale tragedia. E invece... niente. Qualche condanna qua e là, qualche tweet di solidarietà, qualché pensierino della sera senza mai pronunciare quella parola: islam. Nessuno è stato in grado di dire che il fondamentalismo islamico sta ammazzando migliaia di persone. Nessuno si è inginocchiato per queste donne che vogliono solo essere libere. Che non vogliono più essere trattate come bestie. Ps: questa sera è ricominciato il campionato di Serie A. Non ho visto fasce con la bandiera dell'Afghanistan, non ho visto calciatori inginocchiati. Ma non ho nemmeno visto lo sdegno della politica per la mancanza di tutto ciò.

Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone. Del resto sono i dettagli a fare

Il silenzio delle femministe chic. Valeria Braghieri il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. E nel 2021 è forse il caso di ammettere che le femministe sono finite. Disponibili come sono solo, ormai, per i lavori già fatti, per le battaglie marginali, per i tic dell'Occidente. E nel 2021 è forse il caso di ammettere che le femministe sono finite. Disponibili come sono solo, ormai, per i lavori già fatti, per le battaglie marginali, per i tic dell'Occidente. Forse le femministe sono finite se nel momento in cui la Storia offre loro una causa degna di questo nome, si trasferiscono in guardiola. Gonfie di certezze fino a ieri, quando si trattava di indignarsi per le performer alla festa di Diletta Leotta, per i testi di Sfera Ebbasta, o quando si incendiavano di battaglia per il Ddl Zan. Tutte barricate sul MeToo. Quella sì è una causa glamour: vip, slogan, volti famosi, retroscena succulenti. Niente femministe per le donne afghane. Si sono fatte evanescenti come se avessero preso un'enorme boccata di elio. Troppo faticose o troppo scomode le vite diversamente complicate delle donne di Kabul. I Talebani, il burqa, la sharia, le botte e la sottomissione: e poi il peggio. Perché c'è ancora un peggio: anni di emancipazione scorticati in un istante. Tutto daccapo, da rifare. Lo sfregio della democrazia le risputa indietro di anni. Ma non ci sono parole di solidarietà e di indignazione. Nessun sermone sui diritti e l'uguaglianza violati, che di solito leccano la pelle come bava di lumaca. A Kabul stilano gli elenchi delle donne non sposate per sapere che carne dare in pasto a quale comandante, per capire quale trofeo distribuire a chi. Ma non si tratta di produttori cinematografici, di attrici o di figlie d'arte. Non ci sono hashtag e braccia alzate mentre si ritira una statuetta, nulla per cui riconoscersi e far vedere che si appartiene. A una causa ganza, tra gente ganza. Non ci sono microfoni o telecamere aperti, non c'è nulla di aperto lì, in realtà. A parte la finestra sul baratro, l'unica cosa spalancata su Kabul. Qui sono chiuse le bocche, inspiegabilmente. Le pasionarie, le arrabbiate perenni, le «contro». Tutte sparite. Tutte silenziosamente uguali e omologate nelle loro diversità. Intanto la vernice bianca imbratta le pubblicità di parrucchieri e centri estetici a Kabul. Si chiude. Finita, la strada per «indietro» è di qui. Si torna al «prima». Ed è solo l'inizio. Certo che è solo l'inizio. E quelle protestano, a rischio di essere massacrate. Perché mostrare un cartello con slogan a Kabul non è come mostrarlo alla consegna degli Oscar. Lì ci sono la polvere, le mitragliette e i rastrellamenti. Hashtag un bel niente. Non ci sono le femministe dove si fa sul serio. Quindi non ci sono più le femministe. Immerse come sono, in silenzio, nello sciroppo vischioso dell'indifferenza. Valeria Braghieri

Femminismo da cortile. In Afghanistan la donna ritorna agli Anni 50, ma in Italia si lotta contro #tuttimaschi. L’avvelenata Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 agosto 2021. Le trentenni che si chiedono cosa abbiano fatto mai, le novantenni, per i diritti delle donne, danno per scontato che i diritti ci siano sempre stati, eppure non potevano votare, abortivano con un ferro da calza e la società si aspettava da loro solo che si trovassero un marito. Ma oggi, mentre a Kabul torna il burka, ci indigniamo perché in quel talk show non hanno invitato nessuna delle nostre amiche. La seconda scena della Guerra di Charlie Wilson, l’ultimo film che girò Mike Nichols, è ambientata in un idromassaggio nell’aprile del 1980. Ci sono Tom Hanks, il parlamentare Charlie Wilson, un tizio che vuole convincerlo a fargli avere i finanziamenti per girare «un Dallas ambientato a Washington», e tre mignotte (scusate: belle ragazze). In tv c’è Dan Rather, e Charlie Wilson è abbastanza alieno da chiedere, in un bordello di lusso, d’alzare il volume del tg. «C’è Dan Rather con un turbante» «Sta facendo una cosa dall’India» «È l’Afghanistan». Oggi Aaron Sorkin, che scrisse la sceneggiatura, verrebbe accusato di maschilismo per aver fatto la mignotta così scema da confondere l’India e l’Afghanistan. Ma, se sospendiamo per un istante le segnalazioni di virtù, l’ovvia verità è che, se la scena fosse ambientata oggi, quarant’anni dopo, e al posto della mignotta ci fossero un assessore, un cardiochirurgo, uno studioso di matematica, nessuno di loro saprebbe trovare l’Afghanistan sul mappamondo, o mettere in fila i rivolgimenti dall’81 a oggi (a parte quelli più clamorosi: ah, già, i talebani; ah, già, l’undici settembre). La verità è che dell’Afghanistan non ci importa niente (in formulazione più citazionista: la verità è che l’Afghanistan non ci piace abbastanza). Sorkin lo sapeva, e infatti alla scena successiva è la segretaria di Wilson a dire «Uzbekistan?» quando lui nomina Kabul, e questo ci dice non che gli uomini sono più svegli ma che Wilson è un ossessivo: nomina Kabul perché è uno che corre a leggersi le agenzie appena battute invece di, com’era normale fare quarant’anni fa, aspettare i giornali del mattino dopo. La segretaria ha il lusso di non leggere le agenzie, di non sapere dove sia Kabul, di decidere cosa vuole sapere e cosa no, se vuole studiare o no, se vuole fare la mignotta o no: è una donna occidentale. Molti anni fa, quando i giornali non venivano indicizzati sull’internet, scrissi un articolo su una tizia ammazzata di botte da quello con cui stava: sostenevo ci fossero donne cui piace farsi menare. Ci ripenso ogni tanto, più che altro per dirmi che certo, i miei detrattori sono proprio scarsi: neanche sono capaci di rintracciare la più formidabile fesseria che abbia mai scritto e usarla per sputtanarmi. Ma in questi giorni ci ho ripensato chiedendomi se il feticcio del multiculturalismo non sia gemello di «le piace farsi menare, chi sono io per oppormi»; non sia lo stesso tic, solo meno impresentabile giacché tipico di gente che si posiziona sempre e solo dalla parte giusta, e quindi sostiene il diritto delle donne a essere fondamentaliste per scelta e non per costrizione, il che è bislacco considerato che le fondamenta d’ogni fondamentalismo consistono nel non lasciar scelta alle donne.

Dice: eh ma come la mettiamo con quelle che si vogliono mettere il velo anche quando vivono libere in occidente. Of course ci saranno donne cui piace non poter uscire senza che un maschio le accompagni, but maybe quelle donne vanno salvate da sé stesse. Nel 1981, quarant’anni fa, l’Italia somigliava così poco all’idromassaggio di Charlie Wilson e così tanto all’Afghanistan, che c’era ancora il matrimonio riparatore. Fu abolito quell’anno, quindici anni dopo la vicenda di Franca Viola. Ogni tanto mi chiedo se oggi si potrebbe girare, due anni dopo Franca Viola e col matrimonio riparatore in vigore per tredici anni ancora, uno dei miei film preferiti, La ragazza con la pistola. Carlo Giuffré dà mandato di rapire una ragazza chiatta che gli piace, ma si sbagliano e gli rapiscono la cugina secca, Monica Vitti. Che è innamorata di lui («tua sono, e con me ti porterò, fino alla tomba») e a quel punto pretende il matrimonio riparatore, ma lui non ne vuole sapere. È una commedia, e oggi ci indignerebbe: le ragazze sono costrette a sposare i loro stupratori e voi ne ridete. Oggi non c’indigneremmo con la legge, o almeno non quanto con la commedia. Oggi –- in Italia, in occidente, nel paese in cui ci balocchiamo col considerare il fondamentalismo una scelta – abbiamo risolto così tanti problemi pratici che ci concediamo il lusso di crearne di immaginari. Of course si può essere suscettibili allo sberleffo, but maybe ti resta più tempo libero per farlo se i tuoi diritti fondamentali sono assicurati. Quei diritti che dai così tanto per scontati da esser convinta le donne li abbiano sempre avuti, da essere insofferente nei confronti di donne che sono nate quando le donne italiane non potevano votare, quando si abortiva con un ferro da calza, quando tutto quel che la società si aspettava da noi era che ci trovassimo un marito. Ogni tanto sento chiedere da trentenni convinte d’essere informate cos’abbiano fatto mai, le novantenni, per i diritti delle donne, e penso che ci meriteremmo un po’ di talebani. Ci meriteremmo di ricordare come funziona in quei luoghi del mondo che ci prendiamo il lusso di considerare folkloristici, anche se siamo troppo colti per usare l’espressione “folkloristico”, ma quello è: il lusso di pensare che carucci questi sud del mondo coi turbanti, che riposante questa cosa che se sei donna stai a casa ad aspettare il marito, che mancanza di stress questi matrimoni combinati, che scelta interessante il velo. Noialtri che straparliamo di vessazioni patriarcali se in un programma televisivo parlano deputati e giornalisti maschi, non essendoci mai venuto in mente che ci sono posti in cui le femmine non diventano proprio deputate e giornaliste. Noialtri che cancellettiamo #AllMenPanel se a un dibattito non ci sono signore perché l’organizzazione non ne ha trovata nessuna disponibile, non perché viviamo in una società in cui non è previsto che le signore parlino in pubblico. Noialtre così prive di discriminazioni specifiche – è se sei donna che non puoi comparire in pubblico, andare a scuola, fare quel che ti pare – da inventarcene: immaginiamo un mondo in cui sono sempre gli uomini a star seduti scomposti e interrompere chi parla, mai noi. Noialtre del femminismo da cortile. In una puntata di vent’anni fa di The West Wing, la serie televisiva scritta anch’essa, come Charlie Wilson, da Aaron Sorkin, la portavoce della Casa Bianca dà in escandescenze per il rinnovo degli accordi col Qumar, una nazione di fantasia che Sorkin usava per dire tutte le cose che voleva dire sui fondamentalismi senza che a nessuno di nessuna nazione realmente esistente venisse voglia di farsi esplodere in Times Square. In Qumar le donne venivano trattate come nell’Afghanistan dei talebani, per capirci. CJ, la portavoce, discuteva con Nancy, la consigliera per la sicurezza nazionale, che le diceva di darsi una calmata, che avevano bisogno della base militare in Qumar per fare rifornimento ai voli. Nancy, oltre che donna, era nera, e quando chiedeva perché CJ fosse così agitata quella rispondeva ricordando a lei e a noi quant’è miserabile che ci freghi solo delle cose che ci riguardano: «L’apartheid era una grigliata agli Hamptons, in confronto a come trattano le donne in Qumar, e se quindici anni fa avessimo venduto armi al Sudafrica tu avresti dato fuoco all’edificio: meno male che non abbiamo mai dovuto fare rifornimento a Johannesburg». Non c’importa niente delle donne afghane, se non per portarci la mano al giro di perle e sospirare «poverine», perché esse sono lontane da noi almeno quanto la Julia Roberts di Charlie Wilson, la miliardaria assai anticomunista che è responsabile dei quarant’anni successivi, avendo ingiunto a un deputato di far sul serio contro i russi in Afghanistan; l’unica che sapesse davvero cosa stesse succedendo lì, e non perché terzomondista ma perché attenta agli equilibri del mondo, che sono sempre economici.

Le donne senza diritti e quelle con troppo potere non sono il nostro specchio, quindi perché interessarcene? È tanto meglio stare qui, e indignarci perché in quel talk show non hanno invitato nessuna delle nostre amiche. Quel talk show in cui si parlava del nostro cortile, perché l’Afghanistan mica fa share.

La storia di “Donna Circo”, il primo disco femminista: fu inciso 50 anni fa, ma esce solo oggi. Aborto, femminicidio, disparità salariale. Le canzoni incise nel 1974 da due musiciste d’avanguardia non vennero pubblicate per ragioni di mercato. Ma sono ancora attuali e ora finalmente si possono ascoltare. Patrizio Ruviglioni su L'Espresso l'8 luglio 2021. Come suona “Donna Circo”, il primo disco femminista della musica italiana? «Come una fotografia scattata da due donne della loro condizione nel 1974, cioè quando è stato scritto. Infatti nelle sue canzoni si parla di aborto, femminicidio, disparità salariale. Insomma, il dibattito di allora; ma senza militanza ideologica, solo per necessità di raccontare noi stesse e le nostre difficoltà». Gianfranca Montedoro – cioè Giulia Zannini Montedoro, cantante jazz classe 1940, catanese poi trapiantata a Roma – su quell’album ha messo faccia, voce, musica. I testi, invece, li ha firmati Paola Pallottino, paroliera già al fianco di Lucio Dalla in “4/3/1943” nel 1971. E che oggi ricorda all’Espresso: «Io e lei, insieme, eravamo un’eccezione, un’assurdità negli anni Settanta dei cantautori maschi impegnati nel sociale». Un’eretica, Paola Pallottino. «All’epoca le donne in Italia venivano considerate solo come interpreti, mai come autrici. Di conseguenza venivo vista come un’aliena perché scrivevo le parole per Lucio». E quali parole: nella sua versione, “4/3/1943” si intitola “Gesù Bambino” e descrive una ragazza madre che gioca “alla Madonna” con un bambino che, da adulto, “bestemmia” fra “i ladri e le puttane”. Poi, prima di presentarsi all’Ariston, la censura avrebbe edulcorato quei passaggi, ma senza impedirle di arrivare al pubblico in una veste un minimo fedele all’originale, fino a diventare un classico di Sanremo. E dire che «il Festival, se proprio dovevo guardarlo, lo vedevo per riderne». Tradotto: «Come ragazza non mi sentivo rappresentata da quel modo di intendere lo spettacolo». È anche da questo distacco che nascono le liriche “Donna Circo”, che manda all’amica Montedoro con la richiesta di far loro ciò che di solito faceva Dalla – «Prendere le mie poesiole, trasformarle in canzoni». Risultato: due donne appena più che trentenni, per la prima volta, mettono in musica la loro condizione. O meglio, ci provano. Perché poi le parole si perdono, di nuovo. Non per censura stavolta, ma per questioni di mercato: l’lp dopo essere stato registrato non viene mai pubblicato. «E io», spiega Pallottino, «conosco solo la versione ufficiale dei fatti: la nostra etichetta di allora, la Basf Fare, a giorni dall’uscita si ritira non ritenendo più conveniente investire nella musica. Col tempo mi hanno raccontato di altri lavori pronti alla distribuzione che hanno subito lo stesso destino». Certo è che, al posto loro, degli uomini avrebbero avuto meno difficoltà a far arrivare il disco sulla scrivania di un editore disposto a offrirgli una seconda chance. Problema di contatti? «Non so. Col senno di poi avrei potuto presentarlo ad altri, è vero. Ma per la delusione non riuscivo a ragionare su come rimediare a quanto successo». Tant’è che da lì si sarebbe defilata dal mondo dello spettacolo per dedicarsi allo studio dell’illustrazione, mentre Montedoro si sarebbe ritirata dalle scene per una decina d’anni, prima di tornare al jazz e non pubblicare più un album solista. Giusto adesso ne parla volentieri: «Fu una crisi profonda, che coincise con problemi personali. In realtà avevo provato a far girare un po’ quei nastri. Ho bussato a qualche porta. Nessuna risposta». Rimpianti? «Che fossi sola in tutto ciò: il produttore dell’epoca, Roberto Marsala, non fece nulla per aiutarci a trovare un’altra etichetta. Al tempo stesso io e Paola eravamo cani sciolti: mentre si formavano i primi clan, non frequentavamo salotti e amici potenti, e in questo senso partivamo svantaggiate; a me interessava solo la musica, ed è inutile dire che la strada era tutta in salita». Così, nell’indifferenza generale, “Donna Circo” rimane un album fantasma di cui si perdono le tracce. Nessuno ne parla, tantomeno lo si può ascoltare, e questa mosca bianca della nostra musica resta sepolta per quarantasette anni. Fino alla scoperta recente: fra amicizie e passaparola, nel 2019 la cantante Suz – cioè Susanna La Polla – e Pallottino stessa riescono ad aprire una raccolta fondi per pubblicare i nastri originali e un loro remake, “Donnacirco”, a opera di artiste. Entrambi sono finalmente in uscita proprio in queste settimane per La Tempesta dischi. E fra i nomi che hanno partecipato, ci sono voci come Angela Baraldi e Alice Albertazzi, Eva Geatti e Francesca Bono, Enza Amato, NicoNote, Vittoria Burattini dei Massimo Volume, per un totale di dodici interpreti, quattro musiciste, l’illustratrice Francesca Ghermandi per la copertina ed Ezra Capogna – l’unico uomo nel progetto – alla produzione. «A livello di suoni, l’originale è un po’ invecchiato, con arrangiamenti progressive, barocchi in stile anni Settanta, su cui com’è normale che sia, siamo intervenute», spiega Burattini. Poi puntualizza: «Come molte colleghe non sapevo niente di questa storia; ma ci ha colpite subito l’attualità dei testi». «La sensazione», precisa Baraldi, «è che la musica da allora si sia evoluta, mentre la condizione femminile sia rimasta la stessa». «E infatti “Donna Circo” parla ancora a tutti, ma questo non è certo un bel segnale», sorride amara Pallottino. I suoi versi, ribadisce, non sono militanti ma surreali, pieni di metafore, concreti più che idealisti. «E nati non dalla rabbia, ma dall’imbarazzo di essere ragazza nell’Italia degli anni Settanta, dal non sentirmi rappresentata, né protetta. Dalle contraddizioni che vedevo. Basti pensare che era ammesso il delitto d’onore. Volevo rispondere a un’urgenza, parlare della nostra situazione». Il risultato è senza precedenti, spiazzante, con pochi riferimenti a cui aggrapparsi anche oggi. E oltretutto figlio di un periodo in cui le donne erano ai margini della musica specie dal punto di vista autorale. «Ma direi proprio della canzone stessa», precisa Montedoro. «Eravamo ritratte in maniera superficiale dentro storie d’amore piatte, oppure sempre col filtro di cantautori uomini. Facevamo finta di niente, ma nel registrare l’album eravamo isolate: era un sistema maschilista. In questo senso, i testi di Paola mi avevano folgorato perché avevano una profondità diversa rispetto al resto». Appunto, quegli stessi testi che – nel Paese degli anni di piombo che scopre i primi diritti civili, il divorzio, l’emancipazione – avrebbero dovuto funzionare da bussola, con la metafora del circo e dei suoi numeri a mascherare una corsa a tappe su aborto, femminicidio, disparità salariale e stereotipi di genere, sempre dal punto di vista di chi viene discriminato. Per esempio, fra i brani c’è “A cuore aperto” che allude all’interruzione di gravidanza clandestina fra corpi tagliati e illusionisti («Lei gli dà il bisturi senza lamento / e lui comincia l’esperimento»), mentre “La tigre del Bengala” è un’allegoria di uomini che uccidono le compagne (come pure “Trenta coltelli”, in cui l’immagine dei prestigiatori si presta al racconto dei rischi della convivenza forzata) e “Che pazzi i pagliacci” se la ride del patriarcato. «Siamo nel 2021, e non è cambiato nulla rispetto 1974», dice Pallottino. «C’è bisogno di un lavoro come questo. Spero possa arrivare a un pubblico giovane», compiere la sua missione originale, «sensibilizzare, magari indurre all’autocoscienza le ragazze». Anche per questo è uscito “Donnacirco”, remake aggiornato nel suono e volutamente intatto nei testi, più vicino all’indie-rock delle interpreti che al progressive di allora. Un’operazione che, per Burattini, ha pure «un valore simbolico». Cioè? «L’originale è scritto e composto da donne, è vero, ma ha avuto “bisogno” di uomini – cioè dei componenti della band Murple – per essere suonato e registrato. Stavolta invece gli aspetti della produzione sono tutti al femminile, segno che nel frattempo si sono formate quelle musiciste che prima mancavano». Pure per questo, sostiene, per le ragazze che oggi salgono su un palco è tutto «difficile ma non difficilissimo», perlomeno rispetto agli anni Settanta. «L’ambiente non è misogino in senso attivo; è gestito da maschi che per cultura e abitudine ne chiamano altri quando serve qualcosa. Ma finalmente stiamo alzando la voce, andando oltre stereotipi come quelli che ritengono che il rock sia un genere da uomini. Il prossimo passo è un aumento della nostra presenza nelle professioni tecniche, come il fonico. Ne vedremo delle belle. E un disco che fotografa una situazione come questo, per me, è schierato anche più di uno “politico” in senso stretto». Perché «una canzone può e deve essere impegnata, non solo intrattenimento», puntualizza Baraldi. Che poi riflette: «“Donna Circo” ci insegna che nel dibattito cambia la forma, non il contenuto. Il femminismo serve ancora, eccome. Quando io ho iniziato a cantare, nel 1990, sentivo diffidenza intorno; ora ho vissuto parte del cambiamento sulla mia pelle, qualcosa si sta sbloccando. Ma la strada è lunga». «Se ripenso che all’epoca non potevo affidarmi a delle musiciste semplicemente perché non ce n’erano», conclude Montedoro, «mi sembra assurdo. Ora che tutti possono ascoltare quest’album, credo si chiuda un cerchio. Mi sento meglio. E vorrei che le donne continuassero a unirsi come me e Paola nel 1974. Anche per dimostrare ai maschi che è ora di “darsi una calmata”». E per chiudere per sempre il “circo” in cui, dopo quarantasette anni, la protagonista dell’album è ancora intrappolata.

I dirigenti politici a scuola di parità di genere: debutta “Femministi!” Ilaria Donatio, Giornalista freelance, su Il Riformista il 30 Giugno 2021. Ma davvero alle donne manca qualcosa per avere successo in politica o è, piuttosto, la politica, in particolare i partiti in quanto organizzazioni che selezionano la leadership, che funzionano secondo logiche che allontanano le donne? A questa domanda proverà a rispondere una scuola di formazione politica per la parità di genere rivolta a dirigenti politici uomini che debutta venerdì 2 luglio e prosegue il venerdì successivo, 9 luglio 2021, presso la sede dell’Istituto Luigi Sturzo, vicino al Pantheon a Roma. Dal nome provocatoriamente declinato al maschile, “Femministi! – Laboratorio per un altro genere di politica” è promosso da +Europa, grazie alla quota del 2×1000 che per legge tutti i partiti dovrebbero (il condizionale è d’obbligo!) destinare a iniziative dedicate alla promozione della parità di genere, e partecipato, per ora, anche da PD, Azione, Verdi, Italia Viva, M5S e Lista Sala. Un’iniziativa transpartitica, dunque, che fa seguito alla prima esperienza di formazione realizzata, lo scorso anno, da +Europa – “Prime Donne” – che aveva formato 23 aspiranti leader politiche. “Alla fine dell’esperienza dello scorso anno ci siamo rese conto che non sono le donne ad avere bisogno di una formazione specifica per fare politica” – spiega Costanza Hermanin, fellow dell’Istituto universitario europeo e fondatrice della scuola – “Ci sono prassi escludenti e politiche pubbliche che rendono difficile il raggiungimento della parità, soprattutto in politica. Questi elementi devono essere portati all’attenzione degli uomini politici, perché ne prendano coscienza e affianchino le donne nella battaglia per la parità in politica, su cui l’Italia sconta un ‘gap’ più grande che in qualsiasi altro settore”. La prima edizione di “Femministi!” prevede 15 ore di formazione, con laboratori che spaziano dalla valutazione d’impatto di genere delle politiche pubbliche – una metodologia richiesta dalla stessa Commissione europea per i programmi di spesa del Recovery Fund – all’applicazione della politica delle quote, passando per il “trattamento” che i media riservano alle campagne elettorali delle donne. “Parleremo di stereotipi e pregiudizi di genere che applichiamo inconsciamente e di come la comunicazione tradizionale e sui social media esiga più dalle candidate donne che dagli uomini”, prosegue Hermanin. “Ci occuperemo delle regole elettorali e di partito e di come queste siano costantemente aggirate riproducendo una leadership maschile. Affronteremo le questioni dell’analisi economica e dei bilanci di genere, nonché delle politiche pubbliche, mostrando dati, ricerche ed esempi concreti di come una leadership paritaria porti a risultati politici più efficaci e a politiche più efficienti”. Lo schema del laboratorio non sarà quello classico: la prima delle due giornate si aprirà con una performance di “forum teatro” – un genere di teatro dell’oppresso in cui si mette in scena una situazione che rappresenta una condizione oppressiva – in cui “i performer riprodurranno le dinamiche tipiche della politica attuale per aumentare la consapevolezza nei partecipanti”. A cui sarà richiesto, alla fine, un impegno preciso, volto a riprodurre i modelli condivisi durante il laboratorio, nell’ambito delle rispettive formazioni politiche. “Femministi! Lab” sarà l’evento finale, pubblico e in diretta streaming, che includerà anche le donne “per mettere in scena le dinamiche che vorremmo per un altro genere di politica, a partire proprio da spezzoni di dibattiti parlamentari e conferenze stampa tradizionali”. Il 9 luglio, dopo l’intervento della ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, saranno consegnati 10 riconoscimenti per la parità di genere. Tra i premiati, la direttrice del Giornale Radio Rai e Radio1 Rai Simona Sala, per la promozione della campagna “No Women No Panel – Senza donne non se ne parla”. A seguire, la senatrice Emma Bonino risponderà alle domande del conduttore radiofonico Carlo Pastore.

Il corso per farci diventare femministi convinti. Roberto Vivaldelli il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. S'intitola "Femministi!" ed è la scuola di formazione nata "per colmare il divario di genere in politica". Ennesimo tentativo della sinistra italiana di importare l'Identity Politics. Femminismo, minoranze etniche ed Lgbt, politicamente corretto: sono i nuovi mantra ideologici di una sinistra italiana che, a dirla tutta, non è mai stata troppo originale né creativa, e che prende come modello e ispirazione tutto ciò che fa la sinistra liberal Usa. Nello specifico, sta tentando di importare e replicare nel nostro Paese il modello identitario che sta polarizzando il dibattito politico americano: come lo definisce Mark Lilla, si tratta di un credo professato da un'élite urbana, isolata dal resto del Paese, la quale vede i problemi di ogni giorno attraverso la lente dell'identità. Lilla, nel suo saggio di qualche anno fa L'identità non è di sinistra. Oltre l'antipolitica (Marsilio) accusava il "panico morale su razza, genere, identità sessuale che ha distorto il messaggio del liberalismo e impedito che divenisse una forza unificante". Anziché rafforzare il concetto di comunità, infatti, il progressismo identitario divide la società in tribù e minoranze in costante competizione fra loro, senza peraltro apportare alcun vantaggio specifico alle minoranze interessate da questo nuovo catechismo ideologico in salsa politically correct.

Il corso di femminismo di + Europa. È nell'ottica dell'identity politics, dunque, che va visto il corso di femminismo per i politici promosso da +Europa, il partito fondato da Emma Bonino. Seminari di economia o altri temi che potrebbero essere - davvero utili - per i nostri politici? No, +Europa pensa ad indottrinare i politici della sinistra italiana nel nome del femminismo chic. "Femministi! - si legge sul sito web del partito -nasce per colmare il divario di genere in politica. Cerchiamo uomini già impegnati in politica, per superare barriere e stereotipi spesso nascosti. Il laboratorio offrirà, grazie ad un programma innovativo, gli strumenti necessari per navigare attraverso l’arcipelago giuridico, organizzativo e semantico che ruota attorno alla parità di genere". E ancora: "Perché ci focalizziamo proprio sui partiti politici? I partiti, infatti, sono unanimemente identificati dalla letteratura scientifica come i principali canali inibitori della carriera politica di donne, persone Lgbt e minoranze etniche". Il progetto, prosegue la descrizione della scuola di formazione, è stato elaborato sulla base di esperienze dirette all’interno di partiti politici italiani ed europei e un focus group tra dirigenti ed elette di partito, un sondaggio su un campione di 1000 persone, e la conduzione di Prime Donne.

La sinistra italiana inciampa nell'Identity Politics. La prima giornata del seminario si è svolta ieri - 1° luglio - a Roma, mentre la seconda è in programma il 9 luglio, per un totale di cinque sessioni tutte dedicate alla parità di genere. Come riporta La Repubblica, "alla fine dell'esperienza dello scorso anno ci siamo rese conto che non sono le donne ad avere bisogno di una formazione specifica per fare politica- dichiara Costanza Hermanin, fellow dell'Istituto universitario europeo e fondatrice della scuola -. Ci sono prassi escludenti e politiche pubbliche che rendono difficile il raggiungimento della parità, soprattutto in politica. Questi elementi devono essere portati all'attenzione degli uomini politici, perché ne prendano coscienza e affianchino le donne nella battaglia per la parità in politica, su cui l'Italia sconta un 'gap' più grande che in qualsiasi altro settore". Hermanin, che è anche docente di politica e istituzioni europee al Collegio d'Europa di Bruges, ha collaborato anche con l'Open Society Foundations, la rete filantropica fondata da George Soros: questo tanto per far capire qual è l'humus culturale dietro questo tipo di iniziative. L'obiettivo è sempre il medesimo: imporre un'egemonia culturale politicamente correttissima secondo la quale il nemico è la società patriarcale e il maschio bianco - ovviamente eterosessuale - è il diavolo in carne e ossa. Esattamente ciò che sta tentando di fare la sinistra Usa. E la "nostra" sinistra che fa? Copia. La nuova religione della sinistra liberal è, infatti, la politica dell'identità e queste forme di rivendicazioni identitarie che di certo non contribuiscono a risolvere i problemi reali e rimangono sul piano retorico.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

Dagotraduzione dal Daily Mail il 29 giugno 2021. «Femminista con capelli corti e piercing cerca marito che non scoreggia, non rutta e possiede una fattoria di almeno 20 acri per invertire abilmente gli stereotipi di genere nel mercato matrimoniale indiano». L’ironico annuncio è stato pubblicato su 12 giornali del nord dell’India ed è stato rilanciato dalla comica Aditi Mittal, di Mumbai, che l’ha condiviso su Twitter. L’annuncio è molto dettagliato. La donna cerca un uomo «bello, ben fatto, figlio unico di 25-28 anni con un’attività stimata e che sappia cucinare. Parlando con la Bbc, la donna che ha inviato l’annunciato ha spiegato che era solo uno scherzo per un trentesimo compleanno. All’annuncio, ha raccontato poi, hanno risposto una sessantina di persone. «Molti pensavano che fosse uno scherzo e lo hanno trovato divertente». Un uomo si è definito «perfetto» perché «docile e non supponente» mentre altri l’hanno etichettata come «cercatrice d’oro», l’hanno insultata per il suo fisico o le hanno scritto che «tutte le femministe sono idiote», fino ad arrivare anche ad alcune minacce di morte. «Gli uomini chiedono sempre spose alte, belle e magre, si vantano della loro ricchezza, ma quando le cose sono cambiano, non possono sopportarlo. Come potrebbe una donna stabilire tali criteri?» dice la femminista.  «Presumo che le persone che si attivano siano le stesse che pubblicano questo tipo di annunci del tipo "cerca una sposa magra, bionda e bella" in primo luogo». In India, il 90% dei matrimoni è ancora combinato, con razza, religione e casta come fattori importanti nelle decisioni.

Mattia Cialini per arezzonotizie.it l'11 giugno 2021. "Mi sono dimessa dalla commissione Pari Opportunità, sono uno spirito libero e l'uso di una terminologia soft non è nelle mie corde. Ho usato parole incompatibili con un incarico istituzionale". Dalle frequenze di Radio Effe Rossella Angiolini annuncia le proprie dimissioni dopo le polemiche nate a seguito del suo post facebook, in cui aveva scritto: "Delitto di Saman, ma quelle zoccole femministe di sinistra dove sono?". Intervistata dal collega Massimo Pucci, Angiolini ha detto: "La presidente della Provincia Silvia Chiassai non ha chiesto le mie dimissioni, sono io che ho insistito. Non volevo metterla in difficoltà. Era giusto e corretto fare così, lei era dispiaciuta della mia scelta". Anche se poi in un post di questa mattina, la presidente della Provincia e sindaca di Montevarchi ha scritto: "Le ho chiesto io, responsabilmente, di dare le dimissioni dal ruolo che occupa".

Il post facebook sulle "zoccole femministe di sinistra". Tutto è nato da una pubblicazione sul proprio profilo facebook di un giorno e mezzo fa. Rossella Angiolini, avvocata e insegnante che corse nel 2006 per il centrodestra come sindaca di Arezzo in contrapposizione a Giuseppe Fanfani, da un paio di anni ricopre il ruolo di presidente della commissione Pari Opportunità della Provincia di Arezzo, scelta dalla presidente dell'ente Silvia Chiassai. Nel post si richiama la tragedia di Saman, la ragazza di origine pakistana e residente a Novellara (Reggio Emilia), che è scomparsa dopo aver rifiutato un matrimonio combinato. Gli inquirenti sospettano che siano stati parenti a ucciderla, proprio per aver rifiutato le nozze imposte. Secondo Angiolini si sarebbero viste poche prese di posizione sul caso nell'alveo politico di sinistra e per lamentarsi della cosa ha usato parole sessiste: "ma quelle zoccole di femministe di sinistra dove sono?". Proprio lei che era, fino a quel momento, presidente della commissione Pari Opportunità. Il post ha raccolto peraltro numerosi commenti di sostegno, ma parallelamente è sorta l'indignazione e la conseguente richiesta di dimissioni.

La bufera social. Sul caso, in breve esondato dall'ambito provinciale, è intervenuta ieri anche la giornalista Selvaggia Lucarelli, riportando il post originale ha scritto: "Rossella Angiolini, presidente della commissione per le pari opportunità della Provincia di Arezzo, avvocata, candidata sindaca di Arezzo nel 2006 per il centrodestra. Anche duchessa, a quanto pare". Tra le prime dichiarazioni di denuncia quella del segretario della federazione del Pd di Arezzo Francesco Ruscelli: "Mi chiedo se questo linguaggio, gravemente sessista, possa essere utilizzato dalla presidente della commissione provinciale pari opportunità e soprattutto se una persona che utilizza questo linguaggio possa continuare a rivestire quel ruolo". A stretto giro di posta è arrivata la presa di posizione di Silvia Russo, segretaria Cisl di Arezzo: "Sono consigliera di parità da 4 anni e segretaria generale della Cisl di Arezzo. Non posso essere annoverata come femminista di sinistra, né come femminista di destra. Sono fortemente "femminilista", schieratissima contro ogni forma di violenza sulle donne, che purtroppo non ha pregiudizi politici di nessun colore. Stasera però mi sento più triste perché la presidente provinciale del comitato pari opportunità certi epiteti non può permetterseli. Mai! #Siamotuttezoccole". E anche la sindaca di Talla Eleonora Ducci è intervenuta: "Da consigliera provinciale e componente della commissione non posso che chiedere le dimissioni di Rossella Angiolini o la sua rimozione da parte della residente della Provincia che l'ha nominata in questo importante ruolo. Il fatto è intollerabile. Provvederò domani stesso a inviare una lettera a Chiassai".

Mugnai (Cgil): "Sdoganato il sessismo. Ora si potrà dare della zoccola?" C'è poi il commento di Alessandro Mugnai, segretario Cgil: "Avvocata, insegnante, presidente della Commissione pari opportunità. Non una qualsiasi militante di destra. Non una qualsiasi leonessa della tastiera. E’ una donna che può aprire strade e sdoganare linguaggi e comportanti. Perché un giovane non potrà dare della zoccola ad una coetanea visto che questa parola viene usata dalla presidente della Commissione pari opportunità? Perché uno studente non potrà definire zoccola un’insegnante che gli ha dato un brutto voto, visto che un’insegnante ha pubblicamente usato questa parola? E non mi permetto di entrare nei riflessi penali che può avere il dare della zoccola ad una donna che ha un pensiero divergente dal suo". Quindi l'appello alla presidente della Provincia, Silvia Chiassai: "Se condivide quanto detto da Angiolini, la tenga al suo posto e condivida con lei tutte le responsabilità. In caso contrario, le revochi il mandato. A lei la scelta. Infine un’ammissione personale di angoscia: tutto questo nasce in seguito all’omicidio di una giovane donna che voleva semplicemente vivere libera. Forse chi l’ha uccisa, nella sua mente ha usato la stessa parola di cui parliamo oggi rivolgendosi alla vittima. Dovremmo pensare a Saman e alle ragazze come lei ma stiamo facendo altro. Strano e preoccupante paese, il nostro".

La formale richiesta di dimissioni. Una slavina, tanto che ieri sera la conferenza provinciale delle donne democratiche ha inviato alla presidente della Provincia di Arezzo, Silvia Chiassai Martini, una lettera con la quale veniva chiesta la revoca dell’incarico a Rossella Angiolini. "Abbiamo letto le sue parole nel post che ha pubblicato su Fb - hanno scritto Donella Mattesini e Alessandra Nocciolini - parole di una violenza inaudita, non solo scritte nel post, ma ribadite dalla stessa Angiolini nelle risposte al post stesso , altrettanto violente, che sono rivolte alle “zoccole femministe di sinistra” come ci ha definito, ma che in realtà offendono tutte le donne e disegnano una deriva pericolosa in cui la libertà di pensiero lascia il posto all’arroganza, al buio dell’inciviltà e della becera strumentalizzazione politica. Per non parlare del livello degli oltre 240 commenti sottostanti, che usano lo stesso livello di violenza e sessismo. Ci domandiamo come può la Presidente di una Commissione provinciale per le pari opportunità svolgere tale ruolo essendo essa stessa protagonista di linguaggi e contenuti discriminatori e sessisti. Come può una avvocata che dovrebbe osservare dignità, decoro per salvaguardare l’immagine della professione forense, scrivere un post così? Come può una insegnante svolgere un ruolo educativo quando scrive frasi così violente? Come può una persona “usare” la tragedia di Saman per puri scopi politici? Una politica becera, violenta che uccide Saman una altra volta. Una politica che non si ferma neanche di fronte al dolore della morte di una ragazza che voleva scegliere la propria vita. Una caduta di stile? No, questo è il vero volto di una certa destra, non di tutta. È per questo che ci aspettiamo prese di distanza dalle parole di Angiolini e anche la remissione del suo incarico".

Azione rincara la dose. Nella notte, anche Azione Arezzo è intervenuta con un comunicato parlando di violenza verbale "inaudita". "Non ha alcun senso - si legge nella nota inviata alla stampa - avallare un messaggio politico apparentemente a tutela di una donna, Saman, attraverso l’uso di stereotipi femminili ad alto contenuto denigratorio contro altre donne. La comunicazione politica finalizzata alla contestazione della cultura dell’accoglienza e della gestione dell’immigrazione, come quella espressa attraverso il post, ha quale fine quello di consolidare una politica di odio e di scontro. A fronte del gravissimo messaggio relativo ad un contesto femminile dove si mettono a contrasto per scopi di propaganda elettorale donne vittime di violenza con donne che hanno sempre lottato per contrastare questa violenza, Arezzo in Azione chiede che Rossella Angiolini di dimetta immediatamente dal suo ruolo pubblico di presidente della commissione pari opportunità della Provincia di Arezzo e che tale esito, difettando l’iniziativa personale della Angiolini, sia comunque immediatamente preteso dalla presidente della Provincia che l’ha nominata Silvia Chiassai Martini".

L'annuncio del passo indietro. E stamani, infine, è arrivato il passo indietro di Rossella Angiolini. "Le dirò che io sono molto dispiaciuta di essermi fatta prendere dalla rabbia - ha detto a Massimo Pucci su Radio Effe - chiedo scusa a tutte le donne che si sono sentite offese, è montata la rabbia per un omicidio per cui non ho visto alcuna manifestazione, rispetto a quelle per il Ddl Zan o quelle fatte in ginocchio nei mesi scorsi". Il riferimento è alle manifestazioni a seguito della morte di George Floyd in America. "La stampa ha avuto una grande attenzione, ma non chiedo scusa alle femministe di sinistra. Per Saman ci sono state prese di posizione molto fredde e molto contenute a sinistra. Sollevazione popolare non c'è stata".

Chiassai: "Ho chiesto ad Angiolini di dare le dimissioni". Questa mattina è arrivato un lungo post facebook di Silvia Chiassai Martini sull'episodio, pubblicato sul suo profilo istituzionale di sindaco di Montevarchi. E ha parlato in qualità di presidente della Provincia spiegando che "il comportamento" di Rossella Angiolini nella circostanza è "inaccettabile ed è per questo motivo che le ho chiesto responsabilmente di dare le dimissioni dal ruolo che occupa". Si tratta però della conclusione di un lungo intervento, che dedica poche righe alla questione del linguaggio sessista, per concentrarsi sul delitto Saman, ribadendo, in sostanza, quanto detto da Angiolini, con altre parole. "Non ho sentito nessuno in questi giorni indignarsi per Saman, una ragazza 18enne pakistana sparita nel nulla da oltre un mese, sulla cui scomparsa gli inquirenti sono ormai certi che si tratti di omicidio premeditato. Una giovane donna, vittima della sua famiglia, dell'integralismo, della assenza di libertà, di matrimoni combinati. Una vicenda raccapricciante di una ragazza sola contro una cultura che considera le donne come merce di scambio senza dignità. Una cultura che può arrivare perfino ad uccidere se non si rispettano quelle regole, con l'incapacità di integrarsi. Il silenzio su questa vicenda da parte della politica è stato evidente perché non possono esserci casi dove indignarsi e altri dove indignarsi di meno per non dare 'ragione' a chi sostiene la necessità di condannare e di non tollerare 'culture' della violenza". E poi la chiosa: "Su Rossella Angiolini - ha concluso Chiassai - il linguaggio da lei utilizzato è inaccettabile, ma non ho sentito nessuno di quelli che oggi pubblicamente si indignano, indignarsi per Saman che resta una vittima. Non ci si può indignare ad orologeria. Su le offese a Giorgia Meloni la politica non si è espressa a sostegno, anzi, oggi invece vedo attivarsi e tornare a parlare contro Angiolini, il cui comportamento resta inaccettabile ed è per questo motivo che le ho chiesto responsabilmente di dare le dimissioni dal ruolo che occupa". Successivamente, attraverso una nota stampa diffusa dalla Provincia, Chiassai ha aggiunto: "Mi preme anche precisare che appena diventata presidente della Provincia ho voluto fortemente ricostituire la commissione Pari Opportunità che per anni era stata soppressa, tanta era l’attenzione dei miei predecessori verso le donne”. Infine l'epilogo, come spiegato dalla Provincia: "Le dimissioni da parte di Rosella Angiolini dall’incarico di presidente della commissione Pari Opportunità sono già pervenute questa mattina alla presidente della Provincia Silvia Chiassai Martini".

La condanna delle Acli: In giornata si è aggiunto il commento delle Acli di Arezzo: "Il linguaggio istituzionale deve ritrovare dignità ed etica: questa urgenza è evidenziata dalle Acli provinciali di Arezzo in seguito all’agghiacciante dichiarazione di Rossella Angiolini relativa al delitto di Saman. L’associazione, preso atto delle dimissioni della stessa Angiolini dal proprio ruolo alla guida della Commissione Pari Opportunità, da tempo evidenzia il degrado della comunicazione da parte di soggetti con ruoli politici e istituzionali aggravato ancor di più dall’utilizzo dei social network su cui spesso i pensieri vengono condivisi senza filtro. La dimostrazione più recente e più grave arriva proprio dal linguaggio e dai concetti espressi sul caso Saman da parte dell’avvocato Angiolini che sono caratterizzati da sessismo e che risultano fortemente lesivi della dignità delle donne, con messaggi diametralmente opposti a quello che dovrebbe essere lo scopo della commissione Pari Opportunità di rimozione di comportamenti discriminatori e sessisti. Le Acli ribadiscono la necessità delle istituzioni di ogni grado (politiche, sociali, sindacali ed economiche) di tornare ad essere un punto di riferimento anche etico e morale del territorio a partire dalla comunicazione, acquisendo credibilità e recuperando il ruolo di esempio per le giovani generazioni".

Crociata contro il femminicidio? No, razzismo. La vicenda di Saman ha scatenato l’ira contro l’Islam, ma noi siamo meno violenti? Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 17 Giugno 2021. I “cattivi” stanno “sicuramente” tutti dalla parte dell’Islam. È l’ultima parola nel dibattito che infiamma il web, i giornali, i social: la ragazza pachistana uccisa dai suoi parenti perché ha rifiutato un matrimonio combinato è l’ultimo esempio di violenza in nome della religione da parte dei crudeli musulmani. Già, ma siamo davvero sicuri che la violenza religiosa stia tutta e sempre da una parte sola? Siamo sicuri che la nostra Italia dove i femminicidi imperversano e gli incidenti sul lavoro ogni giorno riportano casi allucinanti, sia indenne da matrimoni combinati o forzati o da stigmatizzazioni in base alle preferenze sessuali, religiose, culturali? C’è da andarci più piano con i giudizi: il fondamentalismo religioso non è mai sconfitto una volta per tutte e risorge con motivazioni economiche, politiche, sociali, o peggio ancora per strumentalizzazioni partigiane. Intanto guardiamo storicamente la “cosa”. Ogni religione è una galassia tutt’altro che monolitica. L’Islam ad esempio è sciita o sunnita – e già sono due. Ma consideriamo che la fascia del Nord Africa, lo stesso Medio Oriente, o il Bangladesh, il Pakistan, diverse zone della Cina, dell’India, tutta l’Indonesia, sono portatici di forme diverse e di pratiche diverse nei rapporti tra società e religione con lo Stato. A guardare meglio esplodono differenze teologiche ed ermeneutiche notevoli. I “coranisti” ad esempio negano l’importanza della “Sunna”, la raccolta di detti e precetti che indicano come vivere da buon musulmano e formano, dopo il Corano, il secondo “pilastro” della religione. Per i “coranisti” vale solo il Libro Sacro e hanno come principale esponente il principe ereditario dell’Arabia Saudita: in un’intervista televisiva il 27 aprile ha richiamato il Corano come fonte suprema di governo, la Costituzione del paese. Sarebbe una rivoluzione perché significherebbe lasciarsi alle spalle tutti i testi normativi elaborati nei secoli e attenersi al solo Libro, lasciando uno spazio molto più ampio di adeguamento della fede alla realtà in costante trasformazione. In qualche misura – con le dovute cautele, ovviamente – i “coranisti” assomigliano al protestantesimo del Lutero in versione “sola Scriptura” che voleva fare piazza pulita delle interpretazioni successive e dare alle persone la possibilità e la libertà di leggere la Bibbia senza passare per la casta del clero. Nel mondo cattolico – per limitarci solo a questo – siamo sicuri di essere immuni dall’estremismo nel nome della religione? Può rispondere di sì solo chi faccia finta di non vedere le varie forme di “alleanza cattolica” o le sigle che inneggiano a “Lepanto” e alla sua attualità – grande battaglia che ha rigettato in mare la progettata invasione islamica – o a chi non si imbatta in rete e nei social in quei gruppi di “chiesa militante” che nel nome di un’interpretazione rigida della “legge naturale” condannano qualsiasi “differenza” politica, religiosa, culturale o – eresia! – la differenza di “genere”. E nel nome dell’ortodossia più compatta danno dell’eretico al Papa e fermano l’orologio della storia al Concilio di Trento, tollerando il Vaticano I. Il Vaticano II semplicemente non esiste. Lavorano in maniera sotterranea, ed emergono nei casi in cui serve, tipo quando a Roma il terzo Municipio vorrebbe ristrutturare Piazza Sempione e spostare un po’ la statua della Madonna. Mal gliene incolse all’improvvido presidente di Municipio, che ha dovuto fare marcia indietro rispetto alle manifestazioni di protesta. Un po’ vere manifestazioni, un bel po’ strumentalizzate. Perché dietro il simbolismo religioso si cela un forte senso di appartenenza culturale. Poi nella pratica i dettami della religione non si seguono affatto e a messa ogni domenica non ci si va. Però l’appartenenza religiosa è sentita come identitaria. Ed è avallata da un clero e da una gerarchia cui piacciono le folle, poco importa il resto. Basta che si veda gente attorno tipo processione, altrimenti si soffre della paura di estinguersi. Esiste naturalmente un potente antidoto, anzi più di uno. A patto di saperli usare e dosare. Ad esempio il cristianesimo (ambito più grande del cattolicesimo) sarebbe (dovrebbe essere) pluralista e non monolitico per definizione e per caratteristiche fondative. La Trinità è garanzia di pluralismo, nella dialettica tra Spirito – “carisma”, ispirazione, passione – e la razionalità del Padre che è Creatore di tutti e del Figlio che ci rende partecipi e consapevoli della presenza di Dio nella storia. Oltre alla teologia ci sono i Vangeli: ci sarà un motivo se per i cristiani ce ne sono 4 ufficiali più gli Atti degli Apostoli e le Lettere (soprattutto San Paolo), mentre altre religioni hanno un unico testo sacro. Anche così la pluralità dei testi non ha messo al riparo i cristiani dal macchiarsi di tante atrocità storiche, dai genocidi allo sterminio dei dissidenti. Dimenticando la vicenda della pagliuzza nell’occhio dell’altro per non guardare la trave nel mio, o quel fulminante “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Come la psicologia della religione sa bene, dietro l’appartenenza religiosa si giocano complessi e sofisticati meccanismi identitari e debolezze di personalità, che possono venire sfruttate da agitatori senza scrupoli, in cambio delle promesse del paradiso a portata di mano. Se l’istinto “gregario” può dominare chi appartiene a una religione – farsi dire dal prete di turno cosa è giusto o sbagliato – esiste per fortuna una generazione nuova che vuole coniugare appartenenza religiosa a capacità di giudizio e trova nella fede uno stimolo per la libertà. Come la giovane pachistana che voleva riaffermare un modo di credere, senza per questo dover per forza obbedire a decisioni prese da altri, sia pure i genitori, e sempre nel nome della fede. Come spesso ripete Papa Francesco, la religione è libertà interiore per ascoltare la voce di Dio nella vita; la religione è misericordia e dialogo; meno precetti rigidi e più attenzione al prossimo. Già, ma non a tutti piace, soprattutto quando si toccano interessi finanziari ed economici o quando “ne va” della reputazione di una famiglia o della libertà di una figlia o di un figlio. Lì scatta la religione intesa in senso repressivo, con esiti drammatici. O forse si dovrebbero chiamare le “cose” con il loro vero nome: chi uccide, umilia, delinque mettendosi addosso un manto religioso, non è un fanatico. È un criminale, un furbo che cerca alibi e giustificazioni per far sembrare meno grave il suo delinquere. E i leaders religiosi – tutti insieme, papi, rabbini, parroci, imam – dovrebbero prenderlo e consegnarlo alle autorità. Forse così finirebbe il terrore nel nome di qualche Dio.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

"Troppo silenzio sul caso. Razzismo delle femministe". Manila Alfano l'8 Giugno 2021 su Il Giornale. Il "mea culpa" della giornalista: "Fosse stata una ragazza italiana ne avremmo parlato molto di più". Ha puntato il dito perché attorno alla storia di Saman ha sentito troppo silenzio. Ma prima lo ha puntato contro se stessa. «Niente giustifica noi femministe» ha scritto in un lungo post su Facebook. Delusa e scandalizzata, così si è sentita Ritanna Armeni, classe 1947, giornalista e scrittrice, che di battaglie femministe ne ha fatte tante e che continua a interrogarsi sul movimento di liberazione della donna, lo ha fatto anche con il suo ultimo libro, Per strada è la felicità (Ponte alle Grazie).

Cosa le ha dato fastidio nella storia di Saman?

«Il non trovare il dramma. Che la storia di una ragazza di diciotto anni scomparsa, probabilmente uccisa dalla sua stessa famiglia, sia passata così, senza clamore, come una notizia normale. Ma incolpo anche me stessa, e lo dico con grande umiltà. Sento ancora il rimorso per non aver detto nulla».

Perché questo silenzio?

«Razzismo. Un sottile razzismo è scattato in me come in molte di noi».

Non mi dica che lei è razzista...

«Credo che inconsciamente lo siamo un po' tutti. Certo, se me lo domandassero risponderei di no, ovvio che non sono razzista. Eppure esistono dei condizionamenti sociali che entrano in gioco quando meno ce lo aspettiamo. Quando ho letto della sua storia, dentro di me non è scattato nulla. Come se non mi riguardasse. Come se fosse altro dalla mia vita. Come se avesse a che fare solo e soltanto con il modo di vivere di questa famiglia di immigrati».

Se fosse stata italiana non sarebbe successo?

«Credo proprio di no. Anzi, avremmo parlato di femminicidio. Con lei no. Come se per lei la parola non dovesse essere scomodata. Terribile».

Eppure non che il femminicidio non sia una piaga nel nostro Paese...

«Eppure qualcosa sta cambiando. Culturalmente intendo. Le donne continuano a essere uccise ma nessuno osa più dire che lui l'ha fatto per amore. Le parole cambiano la cultura, cambiano l'essere umano. E noi femministe serviamo anche a questo. A squarciare il velo. A far riflettere su cose che ci sembrano normali, ma che di normale non hanno niente».

Perché una femminista si dovrebbe sentire più in colpa?

«Questa ragazza voleva quella libertà che il nostro mondo occidentale le aveva mostrato e offerto. Poi l'abbiamo lasciata sola. Eppure in Italia abbiamo dovuto attendere fino al 1981 per buttare nel cestino il delitto d'onore. Se le femministe, e le donne in generale, non riescono a vedere uno stretto collegamento tra la battaglia per i loro diritti e la morte di una ragazza che voleva difendere la sua libertà, allora abbiamo perso qualcosa di fondamentale per strada».

Cosa è successo alle femministe?

«Purtroppo credo che la battaglia delle donne si sia ristretta alle proprie ragioni».

Le femministe di oggi sono più egoiste di ieri?

«Rinchiuse nella difesa delle nostre libertà abbiamo perso di vista il resto. Noi lottiamo per temi sacrosanti e terribilmente seri: le molestie, la parità di genere, il divario salariale. Ma in questo dibattito occorre trovare uno spazio anche per storie così drammatiche come quelle di Saman. Perché invece nessuna ne ha parlato? Perché si racconta il fatto senza scavare come se fosse un quadretto da lasciare così, senza scavare a fondo?».

Abbiamo forse perso la speranza di integrazione?

«Ci sono stati altri casi purtroppo in Italia. La storia di Hina Saleem ad esempio, uccisa nel 2006 dal padre che non la accettava perché voleva vivere da occidentale, ma allora c'era stata una attenzione diversa. Noi dobbiamo tornare a farci domande».

"Saman? A sinistra femministe a giorni alterni", "E per la destra son tutti cattivi". Francesco Curridori il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Per la rubrica Il bianco e il nero, sul caso di Saman Abbas, abbiamo intervistato la deputata dem Lia Quartapelle e la forzista Gabriella Giammanco. Fa ancora discutere caso di Saman Abbas, la 18enne d'origine pachistana scomparsa da un mese dopo essersi rifiutata di accettare un matrimonio combinato. Per la rubrica Il bianco e il nero, su questo tema, abbiamo intervistato la deputata dem Lia Quartapelle e la forzista Gabriella Giammanco.

Cosa pensa del caso Saman?

Giammanco: "Una tragedia, una storia terribile ma più comune di quanto si immagini. Sono tante le giovani donne vittime di violenza di matrice islamica, costrette a sposarsi dalla famiglia che sceglie per loro il futuro marito. Se si ribellano a un matrimonio combinato vengono rapite o, addirittura, uccise. Ricordo il caso di Hina, a cui il padre tolse brutalmente la vita perché voleva vivere da occidentale, o la terribile fine di Sanaa, uccisa perché voleva sposare un italiano. C’è da chiedersi quante siano in realtà le storie di costrizioni e soprusi sommerse...L’Italia dovrebbe aprire una seria indagine su questo fenomeno, per capirne la portata e mettere a punto misure efficaci per contrastarlo".

Quartapelle: "Continuo a sperare, anche contro l’accumularsi di notizie, che Saman sia ancora viva. È un crimine orrendo, contro natura, quello che porta dei genitori a uccidere la figlia per tutelare il proprio onore. Spero che la storia di Saman finisca in modo diverso dalla storia di Hina Saleem, la ragazza di origine pachistana uccisa in provincia di Brescia nel 2006 dai parenti per essersi sottratta a un matrimonio combinato, o di Sana Cheema, la ragazza italo-pachistana uccisa nel 2018 in Pakistan dopo aver rifiutato un matrimonio combinato".

Perché le femministe si stracciano le vesti sul sessismo, sulla Rai e altro, ma tacciono su questo tema?

Giammanco: "Evidentemente sono femministe a giorni alterni. C’è molta ipocrisia, si glissa su eventi così gravi ma si grida allo scandalo per questioni insignificanti. Il testo di una canzone o un complimento suscitano indignazione ma sarebbe bene guardare alla sostanza più che alla forma. La difesa dei diritti non dovrebbe avere colore politico né etichette. Femministe o meno, dovremmo difendere le donne oppresse dall’estremismo islamico. In nome di questa religione si diventa ciechi. Si commettono attacchi terroristici, si uccidono persone innocenti, si considerano le donne schiave degli uomini e se ne calpesta la volontà. Alcune donne, ho notato con sconforto, sono arrivate a fare apologia del burqa perché lo considerano espressione di libertà quando, al contrario, è simbolo dell’oppressione per eccellenza. Oriana Fallaci ha raccontato bene cosa fosse questo indumento nel suo primo reportage sull’Islam: 'Vi sono donne nel mondo che ancora oggi vivono dietro la nebbia fitta di un velo come attraverso le sbarre di una prigione'”.

Quartapelle: "Perché i giornali non danno spazio a quanto femministe e persone di buona volontà stanno dicendo e facendo sul caso Saman? C’è stata una grandissima mobilitazione civile e politica sul caso. Venerdì 28 maggio nel comune di Novellara, il comune di Saman, è stata organizzata dalla sindaca una fiaccolata di solidarietà. Ci sono state dichiarazioni di tante e tanti, tra cui il collega Andrea Rossi, a sostegno di Saman. Non ne ho visto traccia né sul vostro giornale, né su tanti altri mezzi di informazione. Non è abbastanza tragica la vicenda in sé? Che senso ha strumentalizzare politicamente la scomparsa di una giovane donna?".

Perché una parte della sinistra sembra sempre voler proteggere l'islam a prescindere? 

Giammanco: "È una difesa meramente ideologica. Si difende il multiculturalismo a prescindere, dimenticando che una società multiculturale funziona se tutti ne accettano i valori e i principi fondanti altrimenti si rischia il caos. Una certa sinistra ha nei confronti del tema 'donne e Islam' lo stesso approccio che ha con gli omosessuali: in Italia spinge per dare loro, giustamente, maggiori tutele ma poi fa finta di non vedere che in alcuni Paesi islamici vengono perseguitati e lapidati. Dobbiamo smetterla di avere paura di rivendicare la nostra cultura occidentale, la nostra identità, il nostro stile di vita. Mi viene in mente il paradosso della tolleranza di Popper, non possiamo tollerare gli intolleranti perché corriamo un grande rischio: una collettività caratterizzata da tolleranza indiscriminata è destinata ad essere dominata dalle frange più intolleranti presenti al suo interno".

Quaratapelle: "La lotta contro il terrorismo di matrice islamista, contro i matrimoni forzati, i delitti d’onore, contro ogni forma di oscurantismo, estremismo religioso e fanatismo, devono vedere unita la politica. In questi anni ho partecipato a varie manifestazioni di ragazze musulmane che si ribellavano a imam che avevano proibito l’uso della bicicletta alle musulmane, a iniziative di associazioni di donne musulmane contro la violenza sulle donne. Non ho mai visto esponenti della destra. Come mai? Forse perché per una certa destra è più semplice dire che tutti i musulmani sono cattivi, e così si occultano e dimenticano le giuste battaglie di donne musulmane che lottano per essere libere?".

Può esistere un islam moderato?

Giammanco: "Sono molto scettica su questo...".

Quartapelle: "Esistono gli imam che ieri in Italia emesso una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l'altrettanto tribale usanza dell'infibulazione femminile. Più che le etichette mi interessano i fatti, e questi sono fatti importanti".

Come si possono prevenire altre situazioni di questo tipo?

Giammanco: "L’Italia con il PNRR sta affrontando seriamente la questione di genere, c’è grande attenzione alla parità salariale, al gender gap, alle quote rosa, alle misure a sostegno della natalità, alla conciliazione dei tempi di vita familiare coi tempi del lavoro. Le istituzioni possono fare molto così come la scuola. Nel 2021 ci sono donne che nel nome di un credo religioso vengono ancora sottoposte a coercizione fisica e morale. Ecco, credo che la politica dovrebbe iniziare ad accendere un faro su di loro, lasciando da parte ogni ideologia per mettere in campo ogni strumento possibile per prevenire certi abusi".

Quartapelle: "Quello che colpisce del delitto di Hina, e quello che colpisce della storia di Saman, è che in entrambi i casi le ragazze, dopo un periodo di lontananza, sono tornate a casa. Ed è in quel frangente che Hina è stata uccisa e Saman è scomparso. Sono ragazze che si sono rese conto del pericolo, che hanno cercato aiuto, e che poi però hanno risposto alla chiamata della famiglia. È su questo che si deve lavorare. Sulla prevenzione, sulle misure di sostegno, e sul non lasciare mai sole queste ragazze, che vivono un dramma esistenziale che fatichiamo a capire. Queste ragazze sono ragazze che vivono divise tra la propria voglia di libertà e l’affetto che provano per la propria famiglia, per quanto questa possa essere soffocante e pericolosa. Vanno aiutate, sostenute, liberate. È a loro che dobbiamo pensare, non a fare una polemica politica basata sul nulla che non serve davvero a evitare altre morti".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”.

Se credi che il femminismo islamico non esista fai un salto virtuale a Glasgow. Attiviste e scrittrici. Per dieci giorni di dibattiti sui diritti delle donne musulmane. Che non sono affatto zitte e sottomesse come crede l’Occidente. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso/La Repubblica il 15 giugno 2021. Si parla molto di femminismo islamico in questi giorni in Italia: è un effetto delle discussioni – accese e non sempre condivisibili ma comunque positive – che hanno accompagnato la scoperta del tragico destino di Saman Abbas, la diciottenne italo- pachistana di Novellara fatta uccidere dai genitori perché non accettava che fossero loro a decidere chi farle sposare. O meglio, si ripete sempre lo stesso concetto: il femminismo islamico non esiste, sono due termini che non possono stare nella stessa frase. È innegabile che la via dell'emancipazione femminile sia particolarmente difficile nei Paesi islamici, e anche nelle comunità islamiche sparse nel resto del mondo. Ma non è un buon motivo per negare gli sforzi delle donne – attiviste, avvocate, mediche, scrittrici – che lavorano in questo senso, nei paesi arabi e nel resto del mondo. Per rendersi conto di quanto lavoro è stato fatto non bisogna andare lontano. Basta aprire “Femminismo interrotto” dell'afrodiscendente inglese Lola Olufemi (Giulio Perrone Editore). Un saggio che fa il punto sulle lotte per i diritti delle donne, che in un capitolo particolarmente denso chiarisce punto per punto le difficoltà che le femministe di origine araba incontrano perché combattono su due fronti: il patriarcato islamico e il paternalismo “bianco”, che le vede sempre bisognose di un salvatore europeo capace di liberarle da pregiudizi più forti di loro. Arriva dalla Gran Bretagna un'altra occasione per rendersi conto di quanto sia effervescente il campo di quel femminismo islamico che tanti e tante occidentali considerano morto in culla. Inizia venerdì 18, e andrà avanti per dieci giorni, la nuova edizione del Dardishi Festival, evento annuale di una no-profit di Glasgow dedicata alla produzione culturale di donne arabe e nordafricane. Quest'anno il festival sarà su zoom, quindi a disposizione di una platea virtualmente infinita. In programma, incontri e conferenze centrati su ogni aspetto dei diritti delle donne e delle minoranze di genere e tenuti da persone arabe o nordafricane. Molti sono centrati sulla letteratura: “Nawal El Saadawi: Fierce, Fearless, Feminist!” è un omaggio alla scrittrice, psichiatra e attivista egiziana scomparsa nel marzo scorso. Lo terrà Ebtihal Mahadeen, che cura anche un focus su “Leggere voci femministe dal Medio Oriente e dal Nordafrica”, dedicato ad autrici e testi impegnati su temi di sessualità, identità di genere e vita quotidiana nei Paesi della zona. Politica, guerra e vita quotidiana si mescolano anche in “Palestine is a Feminist Issue” con Jennifer Mogannam e Nesreen Hassan, mentre “Mainstream Subaltern Writing” incrocia le esperienze di quattro scrittrici provenienti da Gran Beratgna, Canada, Egitto e Sudan per tracciare una via di espressione per donne che vivono in un contesto di profonda inferiorità sociale. Film e documentari racconteranno gli sforzi delle comunità che combattono «sorveglianza e censura» nei paesi arabi e nella diaspora. “Jasad and the Queen of Contradictions” racconta le controversie nate intorno alla rivista “Jasad” (il corpo) fondata dalla scrittrice e giornalista libanese Joumama Haddad, conosciuta in Italia per saggi come “Ho ucciso Shahrazad. Confessioni di una donna araba arrabbiata” e Superman è arabo. Su Dio, il matrimonio, il machismo e altre invenzioni disastrose". L'organizzazione segnala gli incontri che non sono consigliati a un pubblico di minorenni, e propone al pubblico abbonamenti a prezzi diversi, da zero a 10 sterline, da decidere in base ai propri interessi e alle possibilità economiche: «Non ci sarà nessun controllo, ma vi chiediamo solo di essere onesti perché tutti possano godere di questi eventi». In programma, anche appuntamenti più leggeri. Come un documentario sulla rappresentazione dell'harem nei film di Hollywood, lezioni di yoga e di “terapia somatica”. Per finire, una passeggiata in podcast, una colonna sonora da ascoltare mentre si cammina in qualsiasi posto sentendosi immersi in un paesaggio ancestrale. L'accompagnamento è fatto da suggestioni auditive scelte da Layla Feghali, libanese cresciuta in California che studia culture e medicina ancestrale della zona d'origine della sua famiglia e delle comunità nativo-americane dell'ambiente in cui è cresciuta: un mix di cultura araba e degli indiani d'America che può dare risultati sorprendenti.

Quelle Saman uccise in nome della sharia. Serenella Bettin il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Quante Saman ancora? In Italia e in Europa l'elenco delle donne vittime della Sharia o dell'immigrazione incontrollata è lungo. Quante Saman ancora ci dovranno essere prima che una certa parte politica arrivi a chiamare le cose con il loro nome senza ricorrere a espedienti ridicoli, ingannevoli, persuasivi, che non tengono conto della realtà. Saman Abbas è sparita, o è stata fatta fuori, non perché vittima di femminicidio come ha esordito qualcuno dopo giorni di imbarazzante silenzio, ma è sparita perché Saman Abbas negli occhi aveva la voglia di vivere, voleva vivere all’occidentale, ma era stata promessa in sposa. E si è ribellata. Saman Abbas non è l’unica. Sono vittime di mariti padroni, schiave di estremisti islamici. Figlie di padri padroni, mogli di uomini con altrettante mogli. Sono madri di quelle figlie che a loro volta diventeranno vittime. Dietro l’universo femminile concepito dall’Islam violento c’è tutto un palcoscenico dell’orrore. Ci sono donne in Afghanistan costrette a vivere dentro a sacchi di stoffa, dove il niqab, che molti in Italia hanno sbandierato come simbolo dell’integrazione e del rispetto verso le altre culture, lascia scoperti soltanto gli occhi. Ci sono donne anche in Italia che preferiscono farla finita anziché finire condannate a spose di chi è stato loro destinato. E ci sono donne in Italia morte ammazzate seviziate e stuprate da mani e occhi che le vedevano troppo occidentalizzate. O prese e ammazzate da riti tribali ancestrali, messi in pratica da chi ha abusato di loro e poi le ha lasciate lì agonizzanti a morire. Le ha tagliate a pezzi. Le ha fatte fuori. Ha squarciato loro il ventre come si squarciano gli animali. Pamela Mastropiero è stata ammazzata da un nigeriano il 30 gennaio 2018, il suo corpo venne ritrovato mutilato in due valigie. Desirée Mariottini, 16 anni, drogata, stuprata, violentata a turno. Si erano messi in fila per dilaniarle il corpo. Poi quando hanno visto che non dava più cenni di vita l’hanno lasciata lì agonizzante a morire. Due ragazze vittime della stessa mano: l'immigrazione incontrollata. Rachida Radi invece, 35 anni, egiziana, rientra nei delitti d’onore. Voleva integrarsi, avvicinarsi al Cristianesimo ma è stata uccisa a martellate dal marito nel 2011 perché viveva all’occidentale. Lui le ha sfondato il cranio. Hina Saleem, classe 1985, pachistana, è stata ammazzata dai parenti a coltellate l’11 agosto 2006 perché non voleva adeguarsi agli usi tradizionali della cultura d'origine. Venne sgozzata e sepolta nell'orto di casa a Brescia. Quando la trovarono aveva la testa rivolta verso la Mecca e il corpo avvolto in un sudario. Sanaa Dafani, di origini marocchine, a Pordenone è stata ammazzata dal padre a coltellate in un bosco, mentre era in compagnia del fidanzato italiano. La tradizione non consente di vivere con un uomo senza sposarsi. Souad Alloumi invece è scomparsa nel 2018. E ce ne sono tante altre. Sono ragazze belle, solari, radiose, con quegli occhi luminosi e raggianti. Le loro colpe: rifiutarsi di indossare il velo islamico, vestire all'occidentale, fumare qualche sigaretta, farsi qualche selfie, indossare jeans, frequentare amici cristiani, avere amici non musulmani, studiare o leggere libri “impuri”, ascoltare musica o suonare, voler divorziare, essere troppo indipendenti emancipate. Portare disonore alla famiglia. Accade in Italia e anche nel resto d’Europa. Sohane Benziane è stata torturata e bruciata viva il 4 ottobre del 2002 in Francia. Le hanno dato fuoco con un accendino. La gente in diretta assisteva alla sua morte. Aveva 17 anni. In Svezia Fadime Sahindal è stata uccisa a colpi di pistola perché si era avvicinata alla cultura occidentale. È stata uccisa dal padre dopo essersi segretamente incontrata con la madre e le due sorelle più piccole, alle quali era stato vietato di vederla. Morì tra le braccia della madre. Era stata espulsa dalla famiglia quattro anni prima per una sua relazione con un giovane svedese-iraniano. Ci hanno fatto un libro. Il The Guardian riporta come Sahindal, 26 anni, abbia “pagato il prezzo più alto per essersi innamorata dell'uomo sbagliato e aver sfidato i valori patriarcali della sua cultura. Suo padre era un contadino curdo analfabeta che si trasferì in Svezia nel 1980. La sua famiglia arrivò quattro anni dopo, quando Fadime aveva sette anni. I suoi genitori la scoraggiarono dal parlare ai bambini svedesi a scuola. Invece, le è stato detto che l'importante era tornare in Turchia e sposarsi. È cresciuta sotto il controllo di suo padre e del fratello minore”. Anche a Heshu Yones, curda irachena, molto bella, hanno tagliato la gola perché aveva un fidanzato cristiano. Aveva 16 anni. La figlia secondo il padre era diventata troppo “occidentalizzata” e aveva intrattenuto una relazione contro i suoi ordini. Rukhsana Naz a Londra, addirittura ancora nel lontano 1998, è stata uccisa perché aveva rifiutato un matrimonio combinato. Aveva 19 anni. Per non parlare dei padri padroni che tengono segregate in casa le mogli, le picchiano, le violentano, non accettano che le figlie possano diplomarsi. Questo fenomeno che per i sordi viene derubricato come violenza domestica, si chiama Sharia. Quello che la sinistra si ostina a chiamare femminicidio. Serenella Bettin

"Una "cultura" che punisce le donne", Samira sparì come Saman. Rosa Scognamiglio il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. La procura di Ivrea ha archiviato il caso di scomparsa di Samira Sbiaa. Il marito della 32enne era stato indagato per omicidio 17 anni dopo. Nessuna verità per Samira Sbiaa, la 32enne di origini marocchine residente a Settimo Torinese di cui si sono perse le tracce dal 7 aprile del 2002. Lo scorso 8 giugno la Procura della Repubblica di Ivrea ha deciso di archiviare il fascicolo per le indagini di scomparsa dopo che, appena tre anni fa, il caso sembrava fosse giunto a una svolta decisiva. Nel 2017 il marito della donna, Salvatore Caruso, ex guardia giurata convertita all'Islam con il doppio degli anni di Samira, era finito nel registro degli indagati con l'ipotesi di reato per omicidio volontario. Ma la pista delittuosa, nel contesto della relazione coniugale, è scemata a fronte di un carico probatorio inconsistente. "Le indagini sono state tardive e Caruso non è stato correttamente interrogato sui fatti", spiega alla nostra redazione la criminologa Ursula Franco, esperta in Statement Analyst, una tecnica di analisi del linguaggio che permette di ricostruire i fatti relativi a un caso giudiziario attraverso lo studio di ogni parola presente nelle dichiarazioni di sospettati, indagati e testimoni. Resta il dubbio e il "giallo" di una scomparsa misteriosa. Dov'è finita Samira? "Dato che Samira è scomparsa improvvisamente senza lasciare traccia, l’accusa dovrà dimostrare che sia stato il marito a essere l'autore di un presunto reato. E non sarà facile poiché non abbiamo una vittima, né una scena del crimine. In questi anni non vi è stata alcuna traccia della sua esistenza: un bancomat, una carta di credito, nulla. Scomparsa", spiega a ilGiornale.it il professor Simone Borile, antropologo della violenza, criminologo e docente di antropologia della violenza presso il corso di studio triennale in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale del Campus Ciels di Padova Brescia e Roma.

La scomparsa. Samira Sbiaa è scomparsa da Settimo Torinese il 7 aprile del 2002. Era approdata in Italia a seguito del matrimonio con Salvatore Caruso, una ex guardia giurata col doppio dei suoi anni, convertito all'Islam. Lui e Samira si erano conosciuti in Marocco tramite un parente della donna e, dopo le nozze in Africa, si erano stabiliti nell'hinterland torinese. Lei, appena 32enne, usciva pochissimo di casa e mai da sola. Era stato Caruso, nel 2002, pochi giorni dopo la sua scomparsa, a segnalare l'allontanamento denunciando la moglie per appropriazione indebita di denaro. A suo dire, Samira avrebbe abbandonato volontariamente il tetto coniugale portando via con sé via poco più di un milione di vecchie lire. Poi però, qualche mese dopo, aveva ritirato la denuncia e chiesto il divorzio. "Io sono stato bidonato. Sono io la vittima", rispondeva Caruso ai cronisti che lo incalzavano con le domande quando, tre anni fa, finì sotto la lente d'ingrandimento degli investigatori. Ma la sua versione dei fatti, spesso contraddittoria, non ha mai convinto fino in fondo nessuno.

Le indagini 17 anni dopo. Dopo 17 anni di silenzi, il giallo della scomparsa di Samira sembrava fosse giunto a un punto di svolta. La procura di Ivrea aveva deciso di aprire un fascicolo per omicidio volontario in cui risultava indagato Salvatore Caruso. Era stato il padre della 32enne a chiedere di indagare sull'ex guardia giurata tramite un'amica della figlia. "Samira raccontava alla sorella di essere stata segregata, di mangiare cibi scaduti – spiegò al tempo, Touria Bouksibi, dell'associazione 'Donne e bambini in difficoltà' – Per questo la famiglia si era rivolta a me. Vogliono sapere che fine abbia fatto la figlia". Così nella primavera del 2017 i carabinieri avevano eseguito un primo sopralluogo nell'appartamento coniugale, sequestrando 4 pistole, una carabina e diversi proiettili, tutti detenuti regolarmente. Agli inizi di marzo, i militari dell'arma, guidati dal capitano Luca Giacolla, assieme alla polizia locale, erano tornati nella palazzina a due piani al civico 12 di via Petrarca, a Settimo Torinese, nella speranza di trovare qualche traccia della donna. Dapprima avevano svuotato la fossa settica poi, avevano perlustrato il garage della proprietà: il sospetto era che Samira fosse stata uccisa e sepolta in casa. Alcuni vicini, anni prima, avevano raccontato di aver sentito dei rumori provenire dalle mura di una delle rimesse. E Caruso, accumulatore seriale, da tempo non le utilizzava più lasciando il suo Doblò sempre in cortile. Raggiungere i box, strapieni di oggetti accatastati l'uno sopra l'altro, non era stato facile. All'interno erano accatastate finestre rotte, secchi sporchi, televisori inutilizzabili, persino stracci e vecchi vestiti. Per non parlare dei sacchi della spazzatura maleodoranti, comodo rifugio per topi e altri animali.

Le ricerche coi cani molecolari. Il 21 marzo del 2017 la verità sembrava fosse a un passo. In casa di Caruso intervennero nuovamente i carabinieri, stavolta in compagnia dei cani molecolari del nucleo cinofilo dell'Arma di Bologna e degli esperti Sis (Sezione investigazioni scientifiche). Dopo circa 8 ore di attività, Aska e Simba, due pastori tedeschi in grado di segnalare la presenza di cadaveri in stato di decomposizione nel sottosuolo, fiutarono tracce sospette nel giardino e al piano terra dell'abitazione. A quel punto gli investigatori decisero di rivangare la superficie circostante la palazzina di via Petrarca nella speranza di ritrovare il corpo di Samira. Sul luogo arrivò anche una squadra di operai, muniti di picconi e martelli, un escavatore e un camion per lo spurgo delle acque nere. Dal cortile furono recuperate una scarpa da donna e una serie di "ossa piatte", verosimilmente uno sterno e una testa d'omero. I reperti furono analizzati dalla genetista Monica Omodei del laboratorio di analisi di Orbassano che accertò trattarsi di frammenti ossei di animali. Da quel momento le indagini subirono una battuta di arresto. Lo scorso 8 giugno il procuratore di Ivrea Giuseppe Ferrando, a capo dell'inchiesta, ha annunciato l'archiviazione del caso. "Ad oggi non abbiamo elementi per sostenere in giudizio che Samira sia stata uccisa dall'ex marito", ha riferito alla stampa. Eppure troppe cose ancora non tornano.

Le dichiarazioni di Caruso. Durante gli scavi nell'appartamento di via Petrarca, Caruso spiava i lavori degli uomini con le tute bianche da dietro le imposte chiuse. Quando gli dissero che era indagato per omicidio, si sfogò coi cronisti dicendo che erano "soltanto balle" che "Samira era fuggita" e lo aveva pure derubato. "Scappata dove, signor Caruso?" gli domandarono. E lui spiegò che era tornata in Marocco: "L'ho accompagnata io stesso a Torino a prendere il bus per tonare giù. Voleva raggiungere la famiglia per il Ramadan". "Guardate che sono io la vittima di questa storia", si difendeva. Poi, raccontò di averla cercata dopo qualche mese che era partita. Di aver chiamato i parenti e gli amici. Disse di averla denunciata per i "beni spariti" – a suo dire, circa 1 milione di vecchie lire - e per "abbandono del tetto coniugale". Le sue dichiarazioni furono spesso contraddittorie, a tratti confuse e approssimative. Mentiva? "Caruso non ha mai negato in modo credibile di aver ucciso sua moglie Samira e ha preso le distanze da lei - spiega la criminologa Ursula Franco - Si è riferito a lei con 'questa persona', gender neutral, un modo per prenderne le distanze. È poi inaspettato che il Caruso abbia detto 'Dovevo impiccarmi pure io. Dovevo impiccarmi?' e 'non si è fatta più viva' e 'non s’è fatta viva', viene da chiedersi a cosa stesse pensando. Servirebbe un interrogatorio ben condotto sui suoi movimenti del giorno della scomparsa di Samira".

Analogie con la vicenda di Saman Abbas. La storia di Samira Sbiaa suggerisce delle analogie - seppur marginali - con la scomparsa di Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane residente a Novellara di cui non si hanno più notizie dallo scorso 30 aprile. La procura di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo per omicidio premeditato e occultamento di cadavere in cui sono indagati il padre, la madre, lo zio e due cugini della giovane. "Ciò che è avvenuto a Saman è definito reato culturalmente orientato. Donne che vengono punite, e uccise poiché infrangono codici e riferimenti della cultura di origine - spiega il professor Simone Borile - Una vergogna cui solo la stessa famiglia, per evitare il propagarsi dell’onta ricevuta, può porvi rimedio. Sono reati commessi con chiara predeterminazione, in modalità collegiale, posti in essere dagli stessi membri della famiglia, obbligati culturalmente a ripristinare un disonore derivante da una condotta ritenuta immorale e inadeguata. Questi episodi di maltrattamenti e di violenze intradomestiche sono, ahimè, frequentissimi e provengono da un conflitto culturale scatenato tra aderenza ai valori della cultura di origine e apertura e verso patrimoni culturali nuovi, in cui non sempre però i processi di inclusione e di incorporazione valoriale hanno dato esiti positivi". Resta il mistero e il dramma di due giovani donne che potrebbero aver pagato a caro prezzo il sogno della libertà negata. "Scomparse".

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini.

Cosa è cambiato per le donne in Afghanistan dopo vent’anni di presenza militare della Nato e dell’Italia. La guerra, almeno nelle dichiarazioni, è stata combattuta anche in nome dei diritti femminili. Ma oggi resta il Paese più maschilista del mondo. E con il ritiro degli occidentali torna la paura, non solo dei talebani. Giulia Ferri su L'Espresso il 15 giugno 2021. Vent’anni dopo, la missione in Afghanistan è finita. Ma ora c’è da capire cosa resterà davvero di questa guerra. Il ritiro dei contingenti Nato sarà completato entro luglio 2021 e lo scorso 8 giugno anche la bandiera italiana è stata ammainata. Se in questi anni i militari italiani hanno contribuito alla costruzione di strade, ospedali e scuole, restano non pochi interrogativi sul raggiungimento degli obiettivi della missione, quelli più volte ripetuti da tutte le forze politiche in campo: portare stabilità, garantire i diritti umani e liberare le donne dalla condizione di sottomissione in cui versavano sotto il regime talebano. Sì perché, almeno a parole, la ventennale guerra d’Afghanistan è stata combattuta anche per le donne. «Sono intervenuti per cacciare i talebani e difendere i diritti delle donne. Dopo vent’anni vanno via con un accordo con i talebani e certamente le donne saranno abbandonate al loro destino». L’amaro bilancio lo traccia la principessa Soraya d’Afghanistan, nipote di re Amanullah e della regina Soraya, di cui orgogliosamente porta il nome, sovrani di Afghanistan dal 1919 al 1929, prima di dover lasciare il Paese e venire in esilio in Italia. «I miei nonni furono i primi a tentare di modernizzare il Paese e garantire i diritti delle donne», racconta, «emanando la prima Costituzione afghana, e di tutta l’Asia, puntando sull’istruzione e sull’associazionismo femminile». La regina Soraya è stata considerata una delle prime femministe, tanto influente che il Time Magazine le dedicò la sua copertina nel 1927. Ma quel progresso fu bloccato allora, come nei decenni a seguire. Perché la storia si ripete sempre, spiega la principessa Soraya, e questo vale ancor di più per le donne afghane, che più volte hanno acquisito e poi visto svanire le loro libertà nel corso del tempo. Oggi la nipote della regina porta avanti quel processo, sostenendo l’artigianato femminile afgano e le cooperative come “Azezana”, dove lavorano oltre 400 donne per produrre foulard di seta o “Kandahar Treasure”, che produce i pregiati ricami di Kandahar, e promuovendoli in Italia e in Europa. Ci tiene però a sottolineare che quei pochi diritti conquistati finora dalle donne in Afghanistan, si devono agli sforzi delle associazioni femminili locali. Proprio con operatrici afghane lavora Pangea, una delle associazioni italiane presenti sul territorio da più tempo. A Kabul dal 2003, porta avanti il programma “Jamila”, implementato grazie a più di trenta ragazze e donne afghane, che oggi lavorano in una decina di distretti per l’empowerment femminile. Nella capitale Pangea ha anche aperto la prima scuola per bambini e bambine sordi del Paese, che accoglie circa 600 ragazzi, con classi miste e una squadra di calcio femminile. Le ragazze che si diplomeranno quest’anno saranno le prime donne sorde afghane a poter accedere all’università. «La chiave è l’economia, fare in modo che le donne possano essere indipendenti e autonome, per questo i nostri interventi sono di microcredito e cerchiamo di fare in modo che tutte abbiano un conto corrente in banca» spiega Luca Lo Presti, presidente e fondatore dell’associazione. Il processo di auto emancipazione per migliaia di donne che Pangea ha assistito, è passato anche da una serie di altri servizi, come l’educazione ai diritti umani, igienico sanitaria, sessuale, o il supporto ginecologico. Ma passa anche dall’istruzione maschile. «Le ragazze che sono state nostre beneficiarie, quando sono diventate mamme, non hanno forzato le figlie al matrimonio, questo perché abbiamo iniziato con le donne ma abbiamo lavorato poi anche con i mariti e i figli maschi, altrimenti si sarebbe creato un percorso di consapevolezza sbilanciato e ulteriore conflitto tra i generi», sottolinea Lo Presti. «In questi anni abbiamo visto un cambiamento ma solo nelle città, e neanche in tutti i distretti: al centro di Kabul si vedono donne truccate o sedute al ristorante. Quello però non è lo specchio dell’Afghanistan: già nelle cittadine ai margini della capitale non c’è una donna senza velo», spiega ancora il presidente di Pangea. Che racconta poi come le donne afghane oggi siano più forti, ma anche che tra le operatrici a Kabul, ci sono diverse paure per il futuro. Il più comune è che con il ritiro degli occidentali scoppi una guerra civile e che il ritorno dei talebani possa cancellare i diritti acquisiti. Perché quei diritti sulla carta ci sono. Dal 2004 l’Afghanistan ha una Costituzione avanzata anche sul fronte dei diritti: sancisce l’uguaglianza tra i sessi, la parità di trattamento davanti alla legge, stabilisce una quota minima di deputate. Nel 2008 è stata approvata una legge nazionale contro la violenza e nel 2018 è stato rinnovato il codice penale con un’intera sezione dedicata alla protezione delle donne. È vietato il matrimonio tra minori di 16 anni, proibito quello forzato o compensatorio e i delitti d’onore, in cui gli uomini uccidono mogli, donne o sorelle, devono essere puniti come qualsiasi altro omicidio. Tutto cambia però se si sposta lo sguardo dalla forma alla sostanza. Lo dicono i dati e i rapporti internazionali. Il Gender Inequality Index 2020 del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, posiziona l’Afghanistan al 157esimo posto su 162 Paesi, con solo il 13,2% delle donne che ha accesso a un’educazione secondaria e solo il 21,6% che lavora o cerca lavoro. Ultimo addirittura su 156 Stati secondo le stime del Global Gender Gap Report 2021. E critico sull’effettiva applicazione della legge è anche il report di dicembre 2020 dell’Unama, la Missione Onu in Afghanistan, che ha segnalato come i delitti d’onore continuino, così come gli stupri, e che molte donne ricorrono all'auto-immolazione o al suicidio per fuggire alla violenza, ritenendo che il sistema giudiziario non offra loro reali garanzie. Ma lo conferma anche la cronaca quotidiana. Il video diffuso lo scorso aprile di una donna condannata da un tribunale talebano a 40 frustate in una zona rurale alle porte di Herat, così come l’uccisione di almeno 55 giovani ragazze lo scorso 8 maggio all’uscita di una scuola nella capitale, sono solo l’ultima parte di un racconto di violenza estrema nei confronti delle donne che purtroppo resta la norma. «L’Afghanistan è il Paese più maschilista del mondo». Ne è convinta la principessa Soraya, che spiega come il problema non siano solo i talebani, ma una cultura spesso ancora basata su codici tribali, fondati sul possesso e la difesa delle tre zeta: zan, zard e zamin, rispettivamente donna, oro e terra. C’è molta violenza, di cui le donne pagano il prezzo più alto, anche in termini di vite perse: tra il 2010 e il 2020 secondo l’Unama, sono state uccise 3.219 donne, 390 solo nel 2020. Secondo Soraya l’obiettivo è alimentare questa violenza negando l’accesso alla cultura: «Per questo si continua a far esplodere le scuole, a non volere l’istruzione femminile e molti uomini continuano ad avere maggior interesse a vendere o far sposare le proprie figlie piuttosto che mandarle a scuola». Al tempo stesso però è convinta che un miglioramento ci sia stato: «Qualcosa è cambiato se oggi oltre 3 milioni di bambine possono andare a scuola, se le donne possono essere giornaliste, speaker radiofoniche o televisive, parlamentari. Non credo invece che i talebani siano cambiati», conclude. Una delle cose che preoccupa maggiormente le donne afgane è proprio l’avanzata dei talebani, le cui dichiarazioni sulla volontà di continuare a garantire i diritti delle donne, ma “sulla base della sharia”, hanno suscitato più di qualche timore. Non è però l’unica preoccupazione, come spiega Emanuele Giordana, presidente dell’associazione “Afgana”, giornalista e scrittore che in Afganistan ha vissuto a lungo e che ha approfondito le dinamiche del Paese anche nel suo ultimo libro, “La grande illusione”. «C’è la possibilità che i talebani decidano di dare una spallata perché non riconoscono il governo di Kabul» spiega, «ma preoccupa anche la debolezza del governo, per di più delegittimato con l’esclusione dai colloqui di Doha, condotti tra americani e talebani. Così come la presenza di gruppi regionali guidati da vecchi signori della guerra, che stanno organizzando la “seconda resistenza” per contrastare i talebani, ma in realtà per occupare il vuoto di potere. E infine le schegge di Daesh, ciò che resta dell’ex stato islamico». Per la società civile e le donne afghane sono state spese troppe parole e pochi soldi. «Dopo 20 anni l’Italia ha speso in cooperazione civile circa 320 milioni di euro e in operazioni militari 8 miliardi e mezzo: l’impegno nei confronti della società è stato pari a meno del 5% di quello militare. Cosa può restare di quel misero 5%?» si domanda Giordana. Secondo l’esperto sarebbe stato meglio investire sull’economia reale del Paese, mentre i soldi sono stati usati prevalentemente per le armi e proprio la presenza di troppe armi oggi è uno dei problemi principali di un Paese in guerra da 40 anni. Sul futuro dell’Afghanistan c’è incertezza, e la direttiva dell’ambasciata italiana, che consiglia anche ai civili di lasciare il Paese, non è certo un segnale positivo. «Ciò che servirebbe è un progetto politico internazionale. Ma per ora non ci sono notizie su questo fronte», afferma ancora Giordana. Per questo con l’Atlante delle guerre sta organizzando per l’autunno una conferenza a Trento, con associazioni, esperti e diplomatici, per discutere su cosa si può e si vuole fare, se non altro a livello italiano: «Siamo un Paese piccolo ma che può giocare un ruolo importante», e conclude: «I movimenti femminili in Afghanistan oggi sono molto forti, si tratta di vedere se continueremo a sostenerli oppure no».

Cosa insegna alla sinistra la tragedia di Saman Abbas. Sofia Ventura su La Repubblica il 15 giugno 2021. Il relativismo culturale ha finito per indebolire la difesa dei principi universali. E questa terribile vicenda potrebbe essere l’occasione per riscoprirla. La società nella quale i singoli sono chiamati a prendere decisioni personali, scriveva Karl Popper, (è chiamata) società aperta». La giovane Saman Abbas, probabilmente uccisa nel contesto familiare, una famiglia immigrata pakistana, voleva essere libera di assumere proprio quelle decisioni personali. Voleva uscire dalla «società chiusa» di provenienza per vivere con le libertà offerte dalle società aperte occidentali, non sottostare a un matrimonio combinato, essere una «Italian girl», come aveva scritto su Facebook. La tragica vicenda di Saman, scomparsa, e probabilmente uccisa, alla fine di aprile, sta diventando un caso. Anche perché, a fronte delle scarse reazioni iniziali, donne di sinistra, come Ritanna Armeni e Giuliana Sgrena, si sono fatte sentire, denunciando la difficoltà della loro parte a trattare quel tipo di eventi; difficoltà che rischia di assumere la forma di un più o meno velato razzismo. Da destra, come già in analoghi casi, sono invece subito provenute accuse di colpevole silenzio. Quelle accuse sono fondate, anche se troppo spesso viziate non solo dal desiderio di stigmatizzare gli immigrati e la loro religione, l’Islam, ma da un errore non troppo diverso da quello che si compie sovente a sinistra: ipostatizzare la diversità. A sinistra, proprio il timore che illuminare le violenze che originano nei contesti di immigrazione, soprattutto islamici, dia spazio al razzismo, è proposto come giustificazione della «prudenza». Questa assomiglia però a un alibi, più o meno consapevole, che cela una ragione più profonda: un relativismo culturale che nel momento in cui porta a valorizzare tradizioni altre, spesso perché viste come vittime di un Occidente imperialista, conduce a tollerare comportamenti che non sono invece tollerati nella società in generale. Come se gli immigrati avessero meno diritti. Vi è una via di uscita? Sì, anche se nulla è facile. La via di uscita è nelle potenzialità della società aperta, in quei valori universali sui quali poggia. E che non possono essere distrutti dalla pluralità delle visioni. I cittadini (e i residenti) condividono doveri e diritti. Il dovere di rispettare la legge e il diritto di essere tutelato dalle autorità pubbliche. Non vi possono essere recinti entro i quali immaginare altri diritti e doveri. Non sono dunque necessarie misure diverse, più o meno tolleranti, verso chicchessia. E non sono tollerabili arretramenti verso la tutela dei diritti di chiunque. Nei fatti questo, certo, porta a conseguenze diverse quando si affrontano casi collocati in contesti diversi: laddove l’individuo è inserito in ambiti più chiusi, la lacerazione necessaria, così come lo sforzo di educazione e socializzazione, sono inevitabilmente maggiori. Per intenderci: il diritto di una giovane a non essere forzata a un matrimonio o a uno stile di vita va tutelato in nome di principi universali e in prima battuta con gli strumenti che si adottano per ogni cittadino; la realtà dell’immigrazione va affrontata con uno sforzo di socializzazione ed educazione (che sino ad oggi non appare soddisfacente) che prenda in considerazione lo iato tra culture. Questo comporterebbe una politica che per integrare in parte «assimila»? Sì, ed è inevitabile che una integrazione non conflittuale e che estenda agli immigrati i diritti liberali richieda un certo grado di assimilazione, quella ai valori e comportamenti fondamentali della società aperta occidentale. La sempre più illiberale destra italiana sfrutta tragedie come quelle di Saman per stigmatizzare (e far apparire come immodificabile) la diversità altrui, ma ha gioco facile nel denunciare le contraddizioni di una sinistra che si perde nei particolarismi. L’una e l’altra hanno perso di vista la dimensione universale alla base del nostro vivere civile. La tragica vicenda di Saman Abbas potrebbe essere l’occasione per riscoprirla.

Vittorio Feltri, lezione di femminismo alla sinistra: "Cosa dovrebbero guardare oggi". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 maggio 2021. Le cronache famigliari, cioè delle nostre famiglie, siamo erroneamente convinti siano poco o niente interessanti, pertanto difficilmente esse trovano ospitalità sui giornali. Tuttavia, in alcuni casi, sono invece meritevoli di essere raccontate poiché significative, utili per ricostruire mentalità superate, epoche di cui abbiamo perso memoria. Ricordare il passato aiuta a capire il presente. Ecco perché oggi ho deciso di rendervi nota una vicenda risalente all'inizio del secolo scorso. Riguarda l'ambiente in cui crebbero mio padre e le sue due sorelle, i cui genitori erano nati entrambi nell'Ottocento. Allora soltanto i figli maschi avevano il diritto di studiare, le femmine al massimo potevano frequentare la scuola fino alla terza media, poi dovevano arrangiarsi, in quanto i genitori erano persuasi che fossero destinate a sposarsi e a fare le schiave di un marito. Cosicché solamente il mio papà, Angelo, ebbe modo di completare studi superiori regolari, le due ragazze, Narcisa, la più grande, e Armida, di qualche anno più giovane, vennero addestrate per compiere lavori domestici. Ma Narcisa aveva un temperamento da combattente, non si rassegnò al ruolo di sg**ra e pretese di guadagnarsi da vivere sgobbando per conto suo. Si fece prestare una carretta da un contadino e cominció a trasportare merci in vari negozi. Caricava qualsiasi cosa sul carro trainato da lei mediante le due stanghe, aiutata in questa attività dalla sorella minore. Per due anni si sfiancò come un mulo finché non riuscì ad accantonare una somma di denaro sufficiente per riprendere gli studi. Si iscrisse alle magistrali e le terminò in un battibaleno, animata come era da sacro fuoco. Nessuno in casa le impedì di fare di testa sua. Quindi si trasferì a Pavia dove frequentò con successo la facoltà di pedagogia. A laurea conseguita, conquistò una cattedra e insegnò. Era talmente brava o, meglio, volonterosa, che a furia di schiaffoni obbligò anche Armida a studiare e a garantirsi un avvenire migliore di quello che si attendeva. In effetti, fu assunta all'ospedale Maggiore di Bergamo come capo dell'amministrazione. Narcisa nel giro di pochi anni fece carriera e divenne direttrice didattica. Mio padre invece era trionfalmente entrato alla Banca diocesana e percepiva uno stipendio discreto. Peccato che l'istituto di credito dei preti di lì a qualche anno fallì e lui rimase disoccupato. Mia nonna, Ester, non disse nulla al marito, Daniele, pertanto vendette una parte delle sue proprietà, ereditate dal babbo, e col ricavato dava l'equivalente dello stipendio perduto al suo erede affinché ogni mese potesse consegnare la busta col denaro a suo papà, il quale non si accorse mai che il figlio fosse rimasto senza impiego. Non passò molto tempo prima che Angelo vincesse un concorso all'Amministrazione provinciale e si rimettesse alla scrivania nel ruolo di segretario aggiunto, qualifica non disprezzabile. Mia zia Armida morì a 70 anni, era tifosa dell'Atalanta oltre che lesbica, però per le sue preferenze sessuali nessuno osò mai criticarla, erano affari rigorosamente suoi. La zia Narcisa invece spirò a oltre 90 anni ancora in forma, aveva la postura di un generale dei carabinieri, impartiva ancora lezioni private di latino e italiano e, dal momento che mi sapeva direttore di quotidiani, mi trattava da collega, con rispetto. Quanto a mio nonno, egli campò fino a 87 anni senza mai distruggersi dalla fatica, ma vantandosi della abilità e dell'impegno della sua prole. La nonna lo raggiunse presto nella tomba, pure lei orgogliosa delle due ex bambine sue. Questa breve narrazione nel mio intento ha un unico scopo: quello di dimostrare che il femminismo d'antan, quello dei tempi che furono, era glorioso e merita di essere celebrato. Un femminismo di fatti e non di retorica bolsa per quanto ridondante. Le donne sono sempre state un esempio di forza e di carattere e quelle di oggi guardino a quelle di ieri, grandiose, esempi da imitare.

Chi sono le «Terf», le femministe «critiche del genere» che si oppongono al ddl Zan. Elena Tebano il 6/5/2021 su Il Corriere della Sera. Uno dei luoghi comuni nella discussione del Ddl Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia e gli altri reati d’odio, è che vi si oppongano anche «le femministe» e «le associazioni lesbiche». Come molti luoghi comuni non è vero: vi si oppone una minoranza di femministe, con una netta connotazione generazionale (sono soprattutto, anche se non solo, donne over 50), e un’unica associazione lesbica, Arcilesbica, rimasta ormai isolata nell’associazionismo lgbt+. La maggior parte delle associazioni lesbiche italiane infatti ha preso posizione a favore del Ddl Zan, così come lo ha fatto la parte più corposa dei gruppi e delle militanti femministe, soprattutto quelle più giovani. Le femministe critiche del genere, meglio conosciute come Terf («Trans Exclusionary Radical Feminists», «femministe radicali trans escludenti») — un acronimo nato nei circoli femministi degli anni 70 che loro rifiutano definendosi solo «femministe radicali» — hanno infatti una visibilità sovradimensionata rispetto alla loro diffusione reale nel movimento delle donne e in quello lgbt+, soprattutto nei media tradizionali, grazie a due motivi principali. Uno è il fatto che le sue esponenti di punta vengono per lo più dal mondo dei media, di cui conoscono bene i meccanismi, come la regista e scrittrice Cristina Comencini e la giornalista Marina Terragni (autrice di «Gli uomini ci rubano tutto»). L’altra è l’alleanza con il mondo del cattolicesimo di destra: Arcilesbica, per esempio, era quasi scomparsa negli ultimi anni sia in termini numerici — l’associazione non rende pubblici i dati sulle sue tesserate — che di visibilità pubblica. Ma grazie alle sue posizioni critiche nei confronti delle persone transgender e contro la gestazione per altri, rilanciate spesso da siti e testate che si riconoscono nel conservatorismo cattolico, ha acquisito una rilevanza mediatica che non aveva mai avuto. Il conflitto tra questa minoranza e il resto del movimento femminista e lgbt+ però non è irrilevante, perché mette in luce alcuni dei nodi principali che riguardano la condizione delle donne in Italia e in generale nel mondo più ricco. Per capirlo appieno è utile vedere come si è sviluppato questo «femminismo radicale». L’attivismo delle «femministe critiche del genere», o Terf, italiane è legato infatti a doppio filo con quello britannico, che infatti esso cita costantemente come proprio riferimento politico e culturale, e che vede nella scrittrice JK Rowling la propria esponente più nota. Mentre negli Stati Uniti l’opposizione alle istanze lgbt+ e in particolare transgender è guidata soprattutto dalla destra religiosa, in Gran Bretagna è portata avanti da attiviste che vengono dal mondo progressista e della sinistra. Come è possibile? In un’inchiesta su Lux la giornalista Katie J.M. Baker spiega che la fazione femminista «critica del genere» si è sviluppata quando nel Paese veniva discusso il Gender Recognition Act («Legge per il riconoscimento di genere», o Gra) del 2004, una legge che sul modello di altri Paesi, come Argentina, Irlanda e Portogallo, avrebbe permesso alle persone trans di cambiare il loro genere legale sui documenti senza l’obbligo della sterilizzazione forzata e senza una diagnosi medica. La cosa interessante è che in Gran Bretagna la legge per il riconoscimento di genere — come già il matrimonio egualitario, le nozze gay — era stata proposta dal governo conservatore dei Tory, allora guidato da Theresa May. E quindi anche per questo trovava “naturalmente” opposizione a sinistra. A diffondere le idee delle femministe trans-escludenti in Gran Bretagna, però, è stato soprattutto un sito, Mumsnet, la «rete delle mamme», un social network creato 21 anni fa che verteva soprattutto — scrive Baker — su «consigli su come disincrostare la lavastoviglie e associato a mamme compiaciute e snob che confrontavano passeggini di fascia alta e si lamentavano del cane del vicino che mangiava le loro begonie». Mumsnet si definisce «la comunità online più popolare del Regno Unito “per i genitori”», ma le ricerche mostrano che quasi tutti i 7 milioni di Mumsnetters (le utenti di Mumsnet) sono donne. «Più specificamente — spiega ancora Baker —, si ritiene che siano per lo più donne bianche, borghesi ed eterosessuali» di reddito medio alto. La sua base di utenti «è considerata ricca e influente, ed è molto attraente sia per i commercianti che per i politici» (vi ha tenuto incontri anche Hillary Clinton).

Ddl Zan e il dibattito su genere e sesso. È proprio l’esperienza della maternità condivisa online, secondo Baker, che ha portato le utenti di Mumsnet a radicalizzarsi contro le donne transgender, che non considerano tali e definiscono spesso «uomini mascherati». «Leggendo una discussione dopo l’altra, ho notato che molte delle donne che postavano hanno scritto di essersi sentite di nuovo prive di diritti e isolate dopo aver partorito; buttate fuori da una società in cui avevano precedentemente goduto di potere in virtù della loro relativa ricchezza e istruzione. Organizzandosi intorno a questo tema “tabù” stavano sperimentando la solidarietà e il senso di avere uno scopo che era mancato nelle loro vite post parto — racconta Baker — . “Non sto dicendo alle persone trans che sono sbagliate perché sono trans, sono arrabbiata perché le donne vengono chiamate transfobiche se dicono che le loro funzioni biologiche sono solo loro”, ha scritto una donna in un thread di giugno 2020 intitolato “Pro Women, Not Anti Trans - Why Biology Is Important” (“Pro donne, no anti trans. Perché la biologia è importante”). Ha continuato: “Non si tratta di genere, si tratta di sesso e anatomia e di come influenzano le donne ogni giorno, e di quanto sia dannatamente ingiusto per gli altri negare i nostri corpi, come funzionano o le nostre opinioni perché non sono considerate inclusive per coloro che non potranno mai essere biologicamente gli stessi”». «Essere incinta, partorire e allattare sono l’unico momento della mia vita in cui ho sentito una giusta consapevolezza di essere femmina» scrive un’altra utente. «Non intendo in senso di identità di genere, ma in senso di “ho un corpo femminile e sto facendo qualcosa che solo una persona con un corpo femminile può fare”». L’insistenza sull’importanza del legame biologico nella maternità è anche il tema ricorrente delle attiviste Terf italiane. In Italia però, a differenza che nel Regno Unito, lo hanno sostenuto soprattutto a proposito della gestazione per altri (gpa). Non è un caso che le «femministe radicali» italiane se la siano presa soprattutto con i gay che ricorrono alla maternità surrogata, che pure sono una minoranza rispetto alle coppie etero. Non dipende solo dal fatto che i gay sono più visibili (non possono fingersi genitori biologici dei bambini che nascono da madri surrogate). Ma anche perché — come ha detto con la chiarezza intellettuale che la contraddistingue la filosofa Luisa Muraro —: la gpa dei gay «fa sparire le mamme». Priva l’atto biologico del partorire di quel valore simbolico — il Materno — intorno al quale questa corrente femminista costruisce l’identità delle donne. Secondo Baker insomma le community online hanno radicalizzato le donne fornendo loro un «capro espiatorio» (le persone transgender) a un malessere che è motivato da questioni molto reali. «Alcune di queste nuove Mumsnetters “gender critical” erano donne relativamente privilegiate che non si erano mai sentite emarginate fino a quando non hanno partorito e si sono sentite isolate nelle loro famiglie nucleari e (giustamente!) indignate per la mancanza di sostegno alle madri nel Regno Unito» scrive. «Il forum sui diritti delle donne di Mumsnet non ha solo offerto alle donne uno spazio sicuro per organizzarsi. Fornendo una piattaforma che tollerava l’ideologia Terf, ha anche consegnato alle utenti un comodo capro espiatorio per tutti i loro problemi: non l’austerity, non la misoginia, ma la relativamente piccola ed estremamente marginalizzata e oppressa popolazione trans». In una società in cui le donne hanno fatto passi avanti nella rivendicazione di diritti e opportunità, la gravidanza e la maternità rimangono ancora uno scoglio che le rigetta nella solitudine (e nella sensazione di una condizione unica) perché non ci sono servizi adeguati per chi ha figli piccoli. Manca una cultura della condivisione e della responsabilità comune — anche sociale (gli asili, una società che non sottometta la vita al lavoro) —nei confronti della genitorialità. Ed è proprio qui l’equivoco di fondo delle «femministe critiche del genere». Non è tornando all’idea di sesso che riusciranno a uscire dall’isolamento a cui la società consegna le donne facendone le uniche depositarie della cura dei figli. La soluzione non sta nell’attribuire alla riproduzione biologica la fonte di legittimità del valore delle donne, ma nel condividere la cura dei bambini (e degli anziani) a prescindere dal genere di appartenenza. Il concetto di genere, storicamente, è stato il più grande strumento di emancipazione delle donne. Sintetizzato nella famosa frase di Simone de Beauvoir («Donne non si nasce, si diventa») è servito a emancipare le donne dal loro destino biologico. Ha permesso di capire che nascere con i cromosomi XX o i genitali femminili non significa avere un libretto di istruzioni per la vita che verrà: le donne sono libere di riempire quella vita come vogliono. Le nuove generazioni hanno portato questa emancipazione un passo più in là: sanno che quei cromosomi o quell’anatomia non obbligano a un orientamento sessuale. E neppure necessariamente a definirsi donne (o uomini). E infatti ci sono sempre più persone transgender che rifiutano di essere definite in base a una dicotomia di genere. Questo spiega la frattura delle «femministe radicali» con le nuove generazioni. Questo spiega perché un rapper maestro dei social come Fedez ha potuto dare voce alle istanze di quei ragazzi e quelle ragazze: «rappresenta — come nota lo scrittore Jonathan Bazzi su Domani — anche una nuova generazione di genitori, più liberi, in grado di anteporre il bene dei figli al copione che la società ha predisposto per loro». Perché parlare di genere non significa negare la libertà delle donne, ma potenziarla.

(Questo articolo è tratto dalla newsletter «Il Punto» del Corriere della Sera.)

Dagotraduzione da France24.com l'1 maggio 2021. C'è una nuova generazione di attiviste in Francia, donne lesbiche che sulla scia del #MeToo stanno abbracciando il femminismo per denunciare secoli di oppressione maschile. Hanno ispirato una marcia ma anche innescato polemiche. Domenica a Parigi migliaia di persone hanno partecipato a una marcia lesbica, la prima dal 1971, ispirata alle «Dyke March» statunitensi (marce di protesta delle lesbiche). Le manifestanti hanno chiesto l'approvazione di una legge che consenta alle coppie lesbiche e alle donne single di accedere ai trattamenti per la fertilità. Tra le bandiere arcobaleno hanno sfilato anche l'attrice Adele Haenel, la regista Celine Sciamma e la politica Alice Coffin, tutt'e tre celebrate da numerosi striscioni e cartelli. Adele Haenel è diventa un simbolo del movimento #MeToo in Francia quando ha denunciato le molestie subite tra i 12 e i 15 anni dal regista Christophe Ruggia. Mesi dopo contestò, al grido di «Vergogna», i premi Césars, gli Oscar francesi, per la decisione di premiare Roman Polanski come miglior regista nonostante la condanna per stupro (di una tredicenne). Un gesto che ha raccolto l'adesione di molte donne, tra le quali la scrittrice francese Virginie Despentes, una delle più influenti e popolari femministe (lesbiche) francesi. Haenel e Despentes sono alcune delle figure di prestigio che stanno iniziando a promuovere il femminismo dal punto di vista delle lesbiche in Francia. Ma il movimento è una novità di adesso. Tanto che l'autrice e attivista Monique Wittig, che negli anni Settanta cercò di creare una sezione lesbica del Movimento di liberazione delle donne, fu costretta a fuggire negli Stati Uniti. Oggi invece le teorie di Wittig sono diventate popolari. Ma c'è chi è critico. La filosofa Elisabeth Badinter, da sempre voce del femminismo, ha denunciato un emergente «odio per gli uomini» e un «neofemminismo bellicoso». Ad accendere ancora di più il dibattito è stata la pubblicazione a settembre del saggio "The Lesbian Genius" di Alice Coffin, giornalista e politica. Un passaggio in particolare ha scatenato le proteste della classe politica francese. Recita così: «Non basta aiutarci a vicenda, dobbiamo cancellare (gli uomini) dalle nostre menti, dalle nostre immagini, dalle nostre rappresentazioni».

I testi dell'autrice Usa. Gloria Watkins, la scrittrice che smonta i luoghi comuni del femminismo. Filippo La Porta su Il Riformista il 29 Aprile 2021. «Non sono una donna, io?» («And ain’t I a woman?»): il punto di partenza di Scrivere al buio, intervista di Maria Nadotti a Gloria Watkins, alias bell hooks (scritto con le iniziali minuscole), intellettuale militante afroamericana nata nel Sud povero e rurale, è semplice e insieme illuminante. Si tratta di una frase enunciata nel 1851 da una schiava di colore, poi liberata, in una convention di donne nell’Ohio. Commenta acutamente Nadotti che quella frase interroga la problematicità della parola-concetto “donna” e ne suggerisce una definizione mai conclusa, “mai stabile”, uno sguardo altro che vede altre cose e “produce un pensiero critico”. Il libro si compone di testi prodotti dal 1991 al 1998 e poi da una intervista di Nadotti all’autrice. Soffermiamoci sull’intervista, uno scambio ricco di stimoli teorici e di interrogativi non convenzionali. Ricostruendo le origini del movimento femminista americano bell hooks nota come il limite di Betty Friedan consistesse nell’identificare libertà femminile e potere di classe (le donne devono solo trovarsi un lavoro, guadagnare bene, e così acquisire un controllo sulla propria vita) mentre lei rivendica puntigliosamente un’ottica “di classe” e, tra l’altro, dichiara di credere soprattutto nel valore della condivisione, e perfino nel dare una parte dei propri guadagni ai meno fortunati (visto che il criterio che domina la vita sociale è quello della “acquisizione”). Quando andò a insegnare a Stanford non volle assimilarsi alla classe media, all’ambiente professionale-manageriale, per non voltare le spalle alla propria classe. Un equivalente maschile che mi viene in mente è Orwell. Poi se la prende con il linguaggio oscuro, metalinguistico di molta teoria femminista (ad es. Donna Haraway), nato dal desiderio di legittimazione all’interno delle strutture accademiche, riproducendo le stesse barriere gerarchiche ed elitarie. In genere diffida di libri “femministi” che non nascono dal «processo trasformativo dell’autocoscienza e della relazione con altre donne», come quelli di Camille Paglia, superficialmente provocatori e filo-patriarcali. Ancora una volta, per la diffidenza verso l’esoterismo della lingua. A proposito della propria attività prolifica di scrittura (dalla poesia alla saggistica) fa una osservazione spiazzante. In genere si ritiene che si scriva per reagire alla depressione, per elaborare il disagio. Questo aspetto della scrittura è ineliminabile, però lei invece “scrive per pienezza”. In che senso? Colpisce in bell hooks un’attitudine costruttiva, il rifiuto di qualsiasi deriva nichilista: vorrebbe che il femminismo parlasse più di liberazione sessuale che di antipornografia o di aborto, temi questi «che costruiscono il corpo come luogo di pericolo e minaccia, invece che come sito di possibilità e di piacere». Inoltre sottolinea la natura politica del femminismo: così sul piano individuale una donna può anche essere contro l’aborto ma come femminista, e dunque sul piano pubblico, non può che difendere il diritto alla libertà di riproduzione delle donne. Certo, la sua idea di politica riguarda più la coscienza personale che l’appartenenza a un partito politico: è anzitutto un invito alla responsabilità: «quando aprite un rubinetto provate a pensare al gesto che state facendo e alle conseguenze che può avere». Altre posizioni andrebbero discusse approfonditamente ma costituiscono pur sempre uno sguardo appunto “altro” sulle cose, come quando contrappone alla maternità la genitorialità, per impedire la sopravvalutazione della madre e la conseguente associazione patriarcale tra donne, determinismo biologico e maternità. Filippo La Porta

La fecondità simbolica della differenza sessuale. Il dualismo sessuale e il potere maschile. Una risposta a Christian Raimo. Lea Melandri su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Nell’articolo uscito il 27 aprile sul blog letterario minima et moralia scrive Christian Raimo: «La fecondità simbolica della differenza sessuale rimane ancora una promessa». Certo, ma per chi? Sicuramente per quel sesso vincente che lacerando l’organismo unico da cui è nato ha riservato solo a sè stesso la parte vincente, la consegna di figlio unico inseparato e inseparabile in quanto parte di un organismo considerato il suo necessario complemento. Le costruzioni di genere del maschile e del femminile che si sono via via succedute nel corso dei secoli, con una fissità sempre maggiore tanto da sembrare dati naturali, sono in realtà, a guardare bene, soltanto delle “funzioni” rispetto a quell’organismo unico che è il corpo materno: non organismi viventi, non corpi, né passioni, né carne costrette al medesimo tempo a reclamare, in condizione di servitù, la loro parte mutilata. Alla base di quella preistoria che sta tra inconscio e coscienza, tra l’immaginazione del figlio nella sua infantile dipendenza e l’onnipotenza femminile, si colloca quel dualismo sessuale che in forme diverse attraversa la storia privata e pubblica, portando dentro il sogno di una appartenenza intima a un altro essere, ma anche la certezza della propria esistenza e il desiderio della sua integrità. Del possesso della donna l’uomo si è impadronito prima ancora di sapere che parte aveva nel processo generativo, lo ha fatto stuprando, violentando, pensando di aver visto nascere da quel corpo materno un altro se stesso, inerme e poi armato contro quella carne che gli ha assicurato vita, cura, riconoscimento, poi famiglia, continuità della specie. La centralità della figura della donna madre è stata esaltata e vilipesa dal patriarcato: legame con la materia vivente di tutti gli umani, portatrice dei segni della vita e della morte, della coscienza e della radice biologica degli umani. È stata il grande feticcio, per non dire il fondamento stesso del patriarcato: esaltata per un verso e dall’altro sottoposta a un rigido controllo del dominio maschile. Prima del principio materno legato alla terra, al corpo e ai suoi limiti c’è quello che Bachofen chiama “principio paterno spirituale”, che non solo si è già di fatto impadronito del corpo materno ma ha preteso di essere l’unico erede. Comincia così il possesso del corpo femminile, la pretesa maschile di controllarlo e di tenere insieme parti tra loro inscindibili (appunto come corpo, natura, cultura). Il dualismo sessuale e la complementarietà delle sue parti è la maledizione di un dominio che ha confuso il desiderio, la violenza, la libertà e le necessità. Nella rigidità fisica essenzialista con cui sono stati definiti i caratteri sessuali del maschio e della femmina si perde la possibilità di ogni possibile cambiamento e disgregazione, si perde soprattutto quel carattere di naturalità che si è voluto dare loro. La Ragione di Otto Weininger, che lo porterà al suicidio giovanissimo nel 1903, è aver visto agli inizi del secolo crollare quell’edificio platonico che sembrava avere fermato per sempre la storia al mistero del dualismo sessuale. Sotto la razionalità e la modernità dei secoli, non era la prima volta che si scopriva l’azione sotterranea e devastante delle viscere della storia che hanno continuato a dirigerla, a spingerla, suo malgrado e che ci riporta ogni volta “a quelle acque insondate delle origini”, a cui va ricondotto l’enigma della relazione controversa e duratura tra i sessi. Lea Melandri

Dagospia l'11 marzo 2021.

Dall'account twitter di Giuseppe Candela. Da qualche tempo la Panicucci si veste come una persona normale. #mattino5

Dall'account facebook di Federica Panicucci. Stamattina un giornalista che si chiama Giuseppe Candela, ha pubblicato questo tweet che mi riguarda. Permettetemi qualche considerazione. Verrebbe naturale chiedere innanzitutto al Signor Candela quali sono secondo lui le “donne  non normali“ e come si vestono, sempre secondo lui, le “donne non normali”. Ma vado oltre perchè la questione secondo me e ben piu seria e a questo proposito vi chiedo: ma davvero ancora oggi, nel 2021, si può giudicare una donna basandosi su come e vestita? Dalla lunghezza della sua gonna o dai suoi pantaloni aderenti? Ma davvero ancora oggi, nel 2021, l’aspetto esteriore di una donna, o meglio, il suo guardaroba, può essere motivo di giudizio? Può davvero ancora accadere che un uomo, un giornalista come in questo caso, giudichi la “normalita” di una donna attraverso i suoi vestiti? Intendiamoci, un vestito può piacere o meno, ed e lecito ma la “normalita” di una donna non può certo passare da questo. Varrebbe la pena ricordare al Signor Candela, che oggi fortunatamente le donne non sono più “oggetti” da valutare in base alla misura del tacco che portano. Sono stanca di leggere ancora messaggi come questi dopo anni di battaglie, stanca come tutte le donne che vengono giudicate sulla base di criteri idioti e insensati. La prego Signor Candela, la prossima volta che vorrà scrivere di me, critichi la mia professionalità ed eviti di scivolare in stereotipi che oggi, mi lasci dire, sono francamente inaccettabili. Perchè Lei, oggi, con il suo tweet, non ha offeso me, ma ha offeso tutte le donne giudicandole “normali” o non “normali” in base al vestito che indossano. Vogliamo essere libere, noi donne, di vestirci e di mostrarci come più ci piace. Buona vita Signor Candela.

Dall'account facebook di Giuseppe Candela. Faccio questo lavoro da tempo, ne ho viste di tutti i colori e ho smesso di stupirmi. Il post che la signora Panicucci mi ha dedicato ha suscitato sorrisi e battutine, messaggi di solidarietà ma anche numerose offese. So di non essere molto simpatico alla signora Panicucci e, come molti possono immaginare, questo non mi ha tolto il sonno. Non sento il bisogno di rispondere a chi come metodo sceglie di darmi in pasto a due milioni di follower senza cercare alcun confronto privato, senza coinvolgere la comunicazione dell'azienda e scrivendo un pippone insensato, esagerato e fuori luogo. Lo spiego a chi mi legge ma soprattutto alle persone che nei commenti dei post della signora Panicucci mi stanno riservendo i peggiori insulti. Da molti anni tra gli addetti ai lavori, sui social e non solo, i look mattutini della conduttrice fanno "notizia", talvolta in onda con abiti serali alle otto del mattino, così come spesso si è parlato dell'eccesso di illuminazione (ricordo numerosi servizi di Striscia la notizia, in quel caso non ci furono post ad hoc). Per me la Panicucci può vestirsi come vuole, tutti possono scegliere come vestirsi. Doverlo precisare mi offende. Questa mattina nel tweet sottolineavo il cambio di look con tono ironico "da persona normale": inteso come un look forse più consono alla fascia di messa in onda. Se la Carlucci va in onda con il pigiama in prime time, se Magalli si presenta in smoking alle undici del mattino, se Mentana al tg va in onda con un maglioncino io lo segnalo, magari con il sorriso. È la logica del contesto, non una questione di libertà. E lei può scegliere come vestirsi, può scegliere come condurre, come comportarsi in onda con gli ospiti e con i colleghi, anche dietro le quinte (il rispetto vale anche per gli uomini). Alla signora Panicucci dico solo una cosa: non si permetta di dirmi che ho offeso le donne. Le sue battaglie le faccia su cose serie, magari dopo aver letto e capito quanto scritto.

Federica Panicucci è troppo intelligente per cadere nella trappola femminista. Paolo Gambi il 12 marzo 2021 su Il Giornale. Federica Panicucci è una donna che ha saputo seminare e raccogliere un’indiscussa stima e ammirazione fra gli italiani. Sempre garbata, sempre dotata di un impeccabile stile – oggi rarissimo a trovarsi – continua a mostrare un volto dell’Italia che non può non piacere. Io sono fra coloro che l’hanno sempre stimata e apprezzata, pur non avendola mai conosciuta di persona. Ecco perché sono rimasto molto perplesso per la polemica che è scoppiata sui social. Un giornalista di Dagospia, Giuseppe Candela, ha pubblicato su Twitter un commento: “Da qualche tempo la Panicucci si veste come una persona normale”. Certo, non era un commento carino.

Ma la reazione di Federica, lo confesso, mi ha lasciato molto perplesso. Ha infatti scritto un post su Facebook, in cui si legge tra l’altro:

“ma davvero ancora oggi, nel 2021, si può giudicare una donna basandosi su come è vestita? Dalla lunghezza della sua gonna o dai suoi pantaloni aderenti?

Ma davvero ancora oggi, nel 2021, l’aspetto esteriore di una donna, o meglio, il suo guardaroba, può essere motivo di giudizio?

Può davvero ancora accadere che un uomo, un giornalista come in questo caso, giudichi la “normalità” di una donna attraverso i suoi vestiti?

(…)

Sono stanca di leggere ancora messaggi come questi dopo anni di battaglie, stanca come tutte le donne che vengono giudicate sulla base di criteri idioti e insensati.

La prego Signor Candela, la prossima volta che vorrà scrivere di me, critichi la mia professionalità ed eviti di scivolare in stereotipi che oggi, mi lasci dire, sono francamente inaccettabili.

Perché Lei, oggi, con il suo tweet, non ha offeso me, ma ha offeso tutte le donne giudicandole “normali” o non “normali” in base al vestito che indossano.

Vogliamo essere libere, noi donne, di vestirci e di mostrarci come più ci piace”.

Se non fossi sicuro che quello è il suo profilo facebook avrei potuto pensare che a scrivere queste parole, che riassumono gli assunti base del femminismo, fossero la rabbia e l’odio di Michela Murgia.

Invece no.

E qui mi sono preoccupato.

Mi permetto allora, molto sommessamente, di condividere un solo pensiero rivolto a Federica: non hai bisogno di questo. Non hai bisogno di “murgismo”, né di ideologia. Anzi. Ci piaci per ciò che sei, ci piace il tuo sorriso. Non ci piacciono i ringhi delle femministe che oramai affollano ogni pulpito.

Chiunque ti stima e ti apprezza, come il sottoscritto, anche per questo. Non cadere nella trappola dell’odio che sta minando il rapporto fra uomini e donne. Io non conosco Candela, ma un commento poco simpatico resta semplicemente un commento poco simpatico.

Rispondi con il tuo sorriso. Continua a regalarcelo.

Resta ciò che sei sempre stata. Perché di Murgia è ahinoi già pieno il mondo.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2021. La forza della televisione e la cultura del tempo. Ancora una volta, la tv si rivela essere un formidabile campo di prova di un principio ermeneutico: quello che oggi appare volgare domani potrà tramutarsi nel suo contrario o viceversa. Al posto di «volgare» possiamo usare un altro aggettivo, ma il principio non cambia. Penso alle moltissime polemiche suscitate dal commissario Salvo Montalbano che nell'episodio Il metodo Catalanotti si è innamorato di una collega, Antonia, molto più giovane di lui, e in maniera laconica e telefonica ha liquidato Livia, dopo tanti anni di relazione a distanza. È stato un duro colpo, come se Montalbano avesse tradito milioni di spettatori, non solo Livia. E ce n'è anche per Anna, bella e passionale, la nuova responsabile della Scientifica. Per tutto il tempo parla di indipendenza e di emancipazione e poi cede al fascino dell'uomo maturo. Tutto questo, nonostante Andrea Camilleri parlasse degli «ultimi fuochi» del suo eroe, nell'intervista che ha preceduto la messa in onda dell'episodio. Tutto questo, nonostante la sceneggiatura fosse molto fedele al libro uscito da Sellerio nel 2018. All'epoca, se la memoria non mi tradisce, non c'è stata nessuna rivolta contro il tradimento, anzi le critiche parlavano di fragilità del commissario, di «una sorta di crisi di mezza età che lo porterà non solo ad accrescere le sue malinconie ma, forse, anche a prendere decisioni importanti che cambieranno il corso della sua vita». Non so quanti abbiamo letto il libro, forse qualche decina di migliaia di fedelissimi. In tv, l'episodio è stato visto da più di nove milioni di spettatori. Però in tre anni sono cambiate anche molte sensibilità, sta cambiando lo «spirito dei tempi», molti/e si ribellano alle stereotipie dei comportamenti e dei ruoli. Insomma, se cambia il punto di vista cambia il testo, con buona pace dei «traditori» Montalbano e Camilleri.

Elena Stancanelli per "la Stampa" l'11 marzo 2021. Prima di tutto non dovevano baciarsi in quel modo. Siamo tutti saltati sul divano guardando "Il metodo Catalanotti", l' ultima puntata di Montalbano. Come se per sbaglio avessimo aperto la porta della stanza dei nostri genitori e li avessimo sorpresi nell' ardore dell' amplesso. Non lo vogliamo sapere come fanno sesso i nostri genitori, né com' è Montalbano quando si abbandona alla passione. Ci imbarazza. La serie televisiva che ha per protagonista il commissario è, da sempre, un luogo confortevole. Come una vecchia poltrona, ne conosciamo pregi e difetti, sempre gli stessi. E' un prodotto televisivo un po' antico, ma ha la solida lealtà dei classici. E in più c' è Montalbano, il personaggio che ci ha regalato Andrea Camilleri.

In tutti questi anni Luca Zingaretti lo ha impersonato perfettamente e in milioni ce ne siamo innamorati. Perché?

Perché Montalbano è uno degli ultimi esemplari di una razza in estinzione: l' uomo adulto. Che non si lagna, non si sposa, non ha una madre che lo reclama, non si sdilinquisce per la paternità, mangia, beve e preferisce dormire da solo. Lo abbiamo visto allontanarsi a nuoto e abbiamo pensato, un po' come Livia, vai vai, tanto non è l' amore che va via E invece stavolta se n' è andato. Mai lo avevamo visto sbavare per qualcosa, mai lo avevamo visto farfugliare scuse ai colleghi Mimì Augello e Fazio. Ma l' altra sera Montalbano si è innamorato. Dopo tanti anni di relazione a distanza con una donna, Livia, ne ha incontrata un' altra, Antonia, e si è innamorato. Capita. Come capita, quasi sempre, di sbagliare tutto nel momento della separazione. Ma quel momento lì è sempre sgraziato, volgare, spesso violento. Non abbiamo ancora imparato a dirci addio senza rabbia, non sappiamo trovare le parole giuste. Anche perché le parole giuste non ci sono e quindi tanto vale, come ha fatto Montalbano l' altra sera, tacere. Camilleri voleva che questo Montalbano del tramonto sperimentasse lo sgomento, e la felicità di un avvenimento inaspettato. La follia di quando si pensa che la vita non ci riserverà più alcuna sopresa e invece ci si innamora di nuovo. Come ragazzini, o forse anche di più, visto che da ragazzini siamo meno vulnerabili rispetto al desiderio e la passione. Montalbano dunque, trafitto, si comporta in maniera sconclusionata, irrazionale, diventa vulnerabile e fanciullo. E saremmo anche stati disposti ad accettarlo, anzi, forse addirittura a invidiarlo. Sarà che siamo tutti chiusi in casa, ma chi non ha sognato, in questo anno, un amore fou, una sterzata della vita tutta strepito e passione? Il fatto è che Montalbano si innamora di una donna, Antonia, che ha 25 anni meno di lui. Cosa che probabilmente è una delle ragioni per cui la bacia con tanto trasporto e lingua, e bocca proprio davanti ai nostri occhi. E quei 25 anni di differenza, che in un altro momento della Storia l' avrebbero fatta franca, adesso sono un' insegna al neon che lampeggia davanti ai nostri occhi. La pelle di lei, fresca e luccicante, il volto di lui, con le rughe legittime di un sessantenne. Qualcosa è cambiato, penso mentre mi infurio contro Montalbano ma soprattutto contro Antonia che alla fine scende dal treno, e dopo tutto il suo discorsino sull' indipendenza, la carriera e la giovinezza si arrende al fascino del sessantenne. L' arte fa quello che vuole, per carità, ma Montalbano è Montalbano. Mi chiedo: sono io che ho interiorizzato l' odio verso il patriarcato, o il patriarcato che ormai è impresentabile, persino nascosto dove abbiamo sognato di nasconderci in tanti, dentro la camicia bianca perfettamente stirata del nostro commissario preferito?

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" l'11 marzo 2021. Vorrei dare il mio personale benvenuto al commissario Montalbano nella sterminata congrega dei maschi vili e indecisi a tutto. Il modo in cui la sera dell' otto marzo si è fatto lasciare al telefono da Livia, storica fidanzata a distanza, attinge a un repertorio perfezionato nei secoli. L'archetipo resta il marito interpretato da Vittorio Gassman ne «I Mostri», quello che convinceva l' amante a mollarlo («per il tuo bene, cara») e subito dopo raggiungeva la nuova fiamma. Però Luca Zingaretti - che rispetto a suo fratello come collaboratore ai testi annovera Camilleri, mica Bettini - non è stato da meno nell' indurre Livia a toglierlo dall' imbarazzo, trascinandola a pronunciare la frase-tabù, «Forse è meglio che ci lasciamo», di fronte alla quale lui non ha potuto fare altro che prendere dolorosamente atto. A leggere i commenti sui social, le donne invece l' hanno presa malissimo. Dopo trentasette episodi si erano convinte che il commissario fosse diverso da noi, patetici maschi-coniglio, e riuscisse ad affrontare i marosi sentimentali con lo stesso coraggio con cui si tuffa tra le onde che lambiscono il suo terrazzo. Erano persino disposte ad accettare che, atrofizzato da una relazione infinita e sempre più virtuale, perdesse la testa per una collega giovane e tosta. Ma pretendevano che saltasse sul primo aereo per andare da Livia a dirglielo di persona, guardandola negli occhi. Figuriamoci. Camilleri replicherebbe che Montalbano è un romanzo giallo, non di fantascienza. 

Estratto dell’articolo di Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica” il 28 marzo 2021. (…) Cambiando registro: lei, in tivù, è la fidanzata "storica" di Montalbano, Livia, e nell'ultimo episodio il commissario l'ha lasciata. «Quell'abbandono ha provocato una specie di rivoluzione (ride). Tutti indignati contro Salvo! Tutti a favore di lei! L'Italia è insorta. A dire il vero Livia non era mai stata simpatica al pubblico. Un po' perché Camilleri si divertì a farla "distante" e un po' in quanto legata a Salvo malgrado la lontananza, il che destava gelosie. Ma il fatto che Salvo si sia innamorato di una giovane e vilmente l'abbia piantata al telefono è stato considerato inammissibile. In tal modo Camilleri ha reso Livia una gloriosa eroina. Il paradosso è che, nei libri successivi, Livia torna in campo come se niente fosse».

Gianni Bonina per “Libero quotidiano” il 28 marzo 2021. Nell' estate in cui Camilleri moriva, nel Ragusano si girava Il metodo Catalanotti, regia di Luca Zingaretti, e si tradiva l' autore per il ribaltamento di una vicenda, quella tra Montalbano e Livia, che ha indignato l' Italia televisiva per il modo come il commissario la lascia: al telefono, senza aprire bocca se non per dire sì, e cioè di essere in linea. Da mascalzone. A "Che tempo che fa" l' interprete dell' eterna fidanzata Sonia Bergamasco ha proposto di pensare a una specie di sogno fatto da Camilleri, giacché della nuova fiamma non c' è traccia nel romanzo successivo, Il cuoco dell' Alcyon, sicché Fabio Fazio ha potuto gridare allo spoiler supponendo il seguito, fermato però dalla precisazione dell' attrice che "è tutto pubblicato". Infatti. Ma non è stato perché la differenza tra il ciclo letterario e la serie televisiva - come diceva Camilleri - è in rapporto di migliaia di lettori e milioni di telespettatori se la reazione di questi è stata così vistosa, il motivo essendo la diversità della storia raccontata da Zingaretti, che ha voluto una Livia abbandonata mentre gira le spalle al pubblico come uscendo di scena. Nella versione di Camilleri è piuttosto Livia a piantare infuriata Montalbano dicendogli al culmine di una sfuriata: «Perdonami, forse non è giusto dirtelo per telefono ma sono esausta. Per me la nostra storia è alla fine»: senza peraltro sapere niente di Antonia, la nuova dirigente della Scientifica della quale il commissario si innamora. Nel romanzo, al contrario, Montalbano sta tutt' altro che zitto perché più volte ripete di non potere parlare mentre Livia rivendica le proprie ragioni, reclama la libertà e dichiara che vuole pensare a se stessa. Nulla c' è peraltro nello sceneggiato della sentita riflessione che Montalbano fa giorni prima della telefonata quando si interroga sul legame con Livia e si propone di andare quanto prima a Boccadasse, non bastando parlare al telefono circa un legame invero precario già da La luna di carta che è del 2005 quando solo un anno prima, nel 2004, in La pazienza del ragno, quel legame aveva portato Montalbano, preda di un attacco di panico, a trovare aiuto proprio nelle braccia di Livia che gli dice «Non lo senti che sono qui?». A ben vedere non è comunque la prima volta che Montalbano tradisce Livia. Senza contare il rapporto con la svedese Ingrid, sempre tenuto ambiguo, benché abbiano dormito più di una notte insieme, è stato con la ventenne Adriana in La vampa d' agosto, poi con la quarantenne Rachele in La pista di sabbia (dove Livia ha comunque tradito Salvo andando con il cugino in barca) e ancora con Angelica Cosulich in Il sorriso di Angelica. E molto più che di Antonia, ma riuscendo a fermarsi a un passo dall' alcova, è stato davvero innamorato di Laura della quale in L' età del dubbio si sono infatuati pure i lettori. La Antonia del Metodo Catalanotti non è allora che la Laura dell' Età del dubbio sommata alle altre con cui Montalbano è stato in intimità: e come Salvo era allora tornato al suo difficile rapporto con Livia, è da supporre che avrebbe anche ora ripreso il tran tran con la donna della sua vita. La supposizione non viene, come suggeriva Sonia Bergamasco, dal ritorno di Livia in Il cuoco dell' Alcyon, dove Antonia scompare, ma dal fatto che questo romanzo (che precede l' avulso Riccardino) risale a una decina di anni prima il 2019 per stessa ammissione di Camilleri e per la presenza di figure come gli agenti Gallo e Galluccio, il dottore Lattes, lo stesso questore Bonetti-Alderighi, Ingrid, i giornalisti Zito e Ragonese, che sono tutti usciti di scena negli ultimi episodi. Ne è passato di tempo, ma mentre Camilleri ha sempre tenuto insieme Salvo e Livia, pur spingendoli a lasciarsi, ma poi riavvicinandoli, non sentendosela mai di dare loro un taglio definitivo e un dolore ai lettori, Zingaretti proprio questo ha fatto, benché in programma fossero altri due episodi da girare, con Livia nel suo ruolo, La rete di protezione e addirittura un "Salvo amato", "Livia mia" tratto da un racconto che avrebbe riportato in superficie un amore da lui invece cinicamente affondato.

Il decalogo femminista delle frasi "proibite". Michela Murgia elenca le locuzioni da eliminare e rinchiude le donne in "aree linguistiche protette". Giulia Bignami - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. È da poco uscito il nuovo, fiammante, decalogo femminista di Michela Murgia con tutte le frasi che «noi donne» (generalizzazione che già mi fa rabbrividire) non vorremmo più sentirci dire. Si inizia con «Stai zitta» che, oltre a dare il titolo al libro (Einaudi, pagg. 128, euro 13), è anche il modo in cui un palesemente maleducato interlocutore ha apostrofato l'autrice durante una trasmissione radiofonica. Si continua con analoghi esempi, citando poco eleganti frasi pronunciate dall'onorevole La Russa o dallo scrittore Corona ai danni delle loro interlocutrici televisive. Mi pare evidente che gli esemplari di maschio in questione non si possano esattamente definire dei gentiluomini di antico stampo, ma mi pare altrettanto evidente che una generale vittimizzazione femminile sia un po' inopportuna, soprattutto per quanto riguarda i dibattiti televisivi. Recentemente, oltre agli usuali berciamenti e zittimenti tipici di entrambi i sessi su qualsiasi rete o programma, mi riferiscono ci sia stata in prima serata anche una raffinata minaccia femminile di lancio di stiletto con annesso conficcamento del medesimo nel cranio dell'interlocutore, maschio. Vi invito a riflettere su cosa sarebbe successo se fosse stato un uomo a compiere un simile gesto, minacciando in diretta televisiva di zittire a scarpate la sua interlocutrice. Anzi, non c'è neanche bisogno di starci troppo a riflettere, probabilmente sarebbe già partita una cavalcata di valchirie social armate dell'hashtag #shoetoo. Ma andiamo avanti con un altro capitolo del libro, dedicato ad un'altra deprecabile frase maschilista, «Ormai siete dappertutto». Qui si inizia a fare la conta delle donne in posizioni di visibilità o di rilievo e si scopre che «Contare è essenziale e rivoluzionario, perché rileva immediatamente il tasso di biodiversità sociale e quindi di giustizia». Dunque, a parte che «biodiversità sociale» non si può sentire e fa sembrare la presenza femminile una questione ecologica, contare è sempre importante nella vita, ma non è su semplici conteggi che si costruisce il merito. Come si dice a scuola, per il voto finale quello che conta non è solo il risultato, ma soprattutto come ci si è arrivati, ossia lo svolgimento del problema. Bisogna partire dall'inizio, facendo in modo che sia data a tutti la stessa possibilità di avere accesso ad una determinata posizione. Chi poi ci si siederà sarà scelto per le sue competenze e non dovrebbe certo rispondere o sottostare a generali e generiche esigenze di conteggi. Si passa poi ad affrontare lo spinosissimo tema del «Come hai detto che ti chiami?», cioè come chiamare una donna, e qui ci si incastra subito: non bisogna usare nomi o soprannomi (espressioni di paternalismo), solo cognomi, ma senza articoli, sennò si potrebbe finire nella sgradevole situazione dell'autrice, il cui cognome, se preceduto da articolo determinativo femminile, risulta assimilabile ad un altopiano della Puglia. Mi raccomando anche niente «signora» o «signorina», le donne devono prima di tutto avere un «perché» e non essere definite «per chi». Attenzione anche ai «brava» e ai «bella», pericolosissimi complimenti usati dal patriarcato per stabilire la propria superiorità sessuale nella gerarchia del pensiero. Un'altra delle frasi stigmatizzate è «Le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne», che invece mi trova in totale accordo, in particolare quando si tratta di certi nazi-femminismi. Ma l'amara realtà è che non vi potete fidare neanche della femmina che vi sta scrivendo perché, Murgia ci svela, il patriarcato, servendosi di tattiche astute e subdole, ha bisogno di ottenere la complicità di un piccolo numero di donne per poter fare funzionare i suoi sordidi e perversi meccanismi di potere. Morale della favola, se criticate il femminismo e siete femmine allora siete state plagiate, mentre se la critica viene da un maschio, ovviamene sarà marchiato come maschilista. E cari maschi non provateci neanche a dire «Io non sono maschilista», perché Murgia ci spiega: «Ogni maschio eterosessuale che nasca dentro il patriarcato deve essere consapevole di abitare lo scalino più alto di una gerarchia di ingiustizia». Niente, non avete scampo, se non forse un'unica via di redenzione: quella di innamorarvi di una femminista dimostrando così di voler espiare i vostri peccati patriarcali. «Patriarcato» che, pagina dopo pagina, diventa come le logge della massoneria, come i microchip dentro i vaccini, come le onde del 5G, come i poteri forti, cioè la scusa perfetta, in mancanza di altre argomentazioni, per una vittimizzazione fine a sé stessa. L'obiettivo dichiarato di questo libro è quello di scardinare l'impianto verbale che sostiene e giustifica il maschilismo, con la speranza che tra dieci anni nessuno più dica le frasi catalogate. Ma mi chiedo se questo sia quello che realmente vogliamo e, ancora più significativamente, quello a cui dovremmo aspirare. Vogliamo veramente trattare le donne come una specie in via di estinzione piazzandole in aree protette del linguaggio, trasferendole in riserve innaturali di frasi controllate o addirittura censurate? È questo il terreno su cui vogliamo portare le battaglie per la parità dei diritti? Per inciso, l'articolo avrei potuto scriverlo anche senza leggere l'imperdibile decalogo murgico, ma il mio rigore scientifico me lo ha impedito e il libro l'ho letto tutto e pure sottolineato. Questo per dire che non sono io ad essere prevenuta, ma sono questi femminismi ad essere diventati stucchevolmente prevedibili. E comunque, quando qualcuno, maschio o femmina, mi chiede come voglio essere chiamata, tipicamente offrendomi la scelta tra «signora», «signorina» o «dottoressa», io rispondo sempre senza esitazione «principessa».

Uomini, noi non siamo il nostro lato B. Scoprite i lati (gli altri) migliori delle donne. Ogni commento che riduce a una parte o evoca un atto è un colpo alla fragile unità dell’essere. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 7 marzo 2021. Di recente ho comprato un jeans nuovo. È un jeans morbido, ma dalla bella linea. Un modello espressamente pensato per “esaltare le curve”, come dice l’etichetta. Non amo fare shopping e non compro spesso vestiti, ma entrare in quel jeans mi ha fatta sentire felice, a mio agio, la stessa sensazione di quando mi calo nell’acqua calda della vasca. Inutile dire che è diventato presto il mio indumento preferito. Ora, i jeans, oltre ad avere molteplici usi pratici o psicologici, hanno anche un’altra funzione che fino a oggi tendevo a sottovalutare: ricoprono, sostengono e contengono il culo umano. Il culo è un’appendice meravigliosa di cui la natura ci ha dotato per ammantare di bellezza una funzione naturale piuttosto disgustosa. È un tempio morbido e carnoso il cui ingresso remoto cela infiniti, oscuri misteri e che, come l’oracolo di Delfi, può dispensare gioie e dolori. Bisogna saperlo capire e interpretare. A parte i suoi usi più profondi, il culo ha altre utili funzioni. La mia preferita è quella di essere un comodo cuscino termico, portatile, imbottito di lipidi e riscaldato da vasi sanguigni, che rende agevole la seduta su quasi tutte le superfici su cui vogliamo poggiarlo. È una parte del corpo tra le più simpatiche. Con quella fessura che lo percorre tutto come un sorriso sornione e le chiappe che sembrano due belle guance tonde e paffute. O magre o cadenti o grandi o rientranti. Perché i culi, come le facce, sono tanti e differenti e si può preferire un culo come si preferisce una faccia. Solo che il culo ce lo portiamo dietro senza controllo e, per quanto possiamo contorcerci davanti allo specchio, avrà sempre per noi il fascino dell’ignoto: esempio costante di come gli altri possano avere l’accesso a una visione di noi che non potremo mai avere. Il culo è per il corpo l’equivalente del punto cieco della nostra anima. I culi a me piacciono. Non ho un particolare feticismo ma ne apprezzo uno ben fatto, di uomo o di donna, e il contemplarlo mi attiva gli stessi neuroni che si esaltano nel godimento dell’arte. Per quanto riguarda quello che mi porto dietro, gli sono grata per una serie di ragioni. Ma non avendolo spesso sott’occhio tendo a dimenticarlo, salvo quando si fa dolorosamente sentire se lo schiaccio per ore su una sedia rigida. Ci sono dei momenti in cui, però, sono altrettanto dolorosamente consapevole di avere un culo. Uno di questi è stato qualche tempo fa. Sono stata fuori tutto il giorno e ho camminato a lungo da sola. Il mio culo sempre con me. Avevo messo il jeans, quello comodo ma carino, e la cosa mi faceva sentire piacevolmente fasciata ma libera nei movimenti. Ero in uno stato d’animo raro ma benvenuto di buona intesa di tutto il mio corpo. Ora, è molto facile mandare in frantumi l’armonia e l’unità di un corpo o di una persona, quando di lei si isola una parte e si dà peso e importanza solo ad essa. Non avendo usato da tempo jeans aderenti, mi ero dimenticata come la mera e ovvia circostanza di avere un culo, provochi in alcuni uomini pensieri e atteggiamenti irrazionali e atavici. Ho ricevuto dei commenti, del tutto gratuiti e non richiesti, sul mio culo. E all’improvviso sono stata consapevole in modo abnorme di averne uno. Non importa fossero positivi o meno. Hanno avuto l’effetto di farmi diventare un culo che cammina. Di rompere la mia unità e armonia. Di deformarmi, schiacciando il resto di me e gonfiando come una mongolfiera una parte, utile ma limitata, del mio corpo. Non ho mai avuto la reazione pronta, avrei voluto girarmi, tornare indietro, e gridare in faccia a quei tipi che io non sono il mio culo. Che non lo porto in giro per il loro piacere o perché sia valutato per consistenza e rotondità come fosse una cassetta di pomodori. Ognuno ha il diritto di avere i propri gusti sull’estetica di un corpo, ma nessuno può arrogarsi quello di gettare apprezzamenti o commenti su di te per la sola ragione di avere una protuberanza di carne e vasi sanguigni in mezzo alle gambe. Il loro genere ce l’ha da millenni e quest’unica casuale circostanza li ha resi erroneamente convinti, forse da generazioni, che la cosa rendesse le donne un piacevole fodero da scegliere, valutare, stimare. Il fatto che anche loro avessero un culo valutabile non li ha sfiorati neanche. Perché non hanno mai visto nessuno degradare un uomo a quella sola parte del corpo, mentre, ci scommetto, avranno visto molte volte una donna ridotta a mera portatrice di culo o tette. E l’avranno imitato. Sono cresciuti con questa mai intaccata convinzione che un culo femminile abbia bisogno del loro giudizio, anzi che sia lì senz’altro scopo che permettergli di valutarlo e classificarlo, non importa se lo vedranno per dieci secondi nella vita e poi mai più. Devono avere in testa vasti schedari pieni solo di accurate valutazioni di culi femminili. E probabilmente nient’altro. Complici le infinite e tramandate guerre di spogliatoio ingaggiate dai fautori del culo contro gli apologeti delle tette o viceversa, che fanno sembrare, in confronto, la guerra di Troia una scaramuccia durata poche ore, la maggior parte degli uomini ha preso a cuore la faccenda di trovare propri, solidi, canoni per stabilire la conformità dei vari culi (o tette) femminili a quello che è il proprio Ideale culico, l’eterno femminino – fondoschiena edition. Il che, se compiuta con le migliori intenzioni, potrebbe anche essere una ricerca lodevole e remunerativa. Ognuno, poi, nei meandri della propria mente è libero di fare quello che più gli piace. Ma deve essere una ricerca interiore, un viaggio spirituale che ti innalza, e non uno sputo del proprio limitato e limitante senso estetico sulla pelle di un’altra persona, che accidentalmente è una donna. Non portiamo le nostre parti del corpo in giro perché voi possiate appuntarci le vostre considerazioni. Nulla vi dà il diritto di apprezzarci o non apprezzarci solo perché ci vedete per la strada. Questo è un discorso femminista solo perché non ho mai visto una donna gridare dietro a un uomo sconosciuto per strada che bel pacco che ha o quello che avrebbe fatto col suo culo. Detto così sembra bellissimo. Ma, credeteci, ne soffrireste: ogni commento che ti riduce a una parte di te o all’evocazione di un atto o di una funzione è un colpo assestato a quella fragile unità che tiene insieme in un equilibrio precario corpo, coscienza, autostima, sessualità, senso di sé. Unità fragile e difficile che avete anche voi uomini, ma che nessuno vi nega, con faciloneria, con distrazione, quasi automatismo, un giorno qualsiasi, mentre portate in giro per strada tutto questo pericolante, sfaccettato, complesso, personalissimo apparato che è il vostro io.

L'EVENTO. 8 marzo, la «festa della donna» attraverso i femminismi. Libri e idee: filosofia dell’essere. Pietro Polieri su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Marzo 2021. Avvertenza generale preliminare: questo articolo è pieno di -ismi! Quelli che, nel solco di una tradizione denominativa ormai inveterata, servono a rappresentare le innumerevoli declinazioni che il femminismo ha assunto nel corso del tempo, e che si ripromettono di esaltare una particolare componente della cultura/ prassi femminista, giudicata centrale da una specifica sua corrente. Ma gli -ismi, recentissimi, qui introdotti, sono o già ampiamente formati o proposti per la prima volta per mostrare linee tendenziali che già suggeriscono un evidente orizzonte di senso e un territorio operativo di approdo. Composto e rigoroso è l’oblativismo di Genevieve Vaughan, che propone con i suoi studi sul legame tra dono e donna una delegittimazione dell’economia dello scambio, ma anche l’affermazione di un principio comunitaristico fondato sulla donatività unidirezionale (non contra-cambiata) e di cura, emergente dal ruolo sociale femminilmente materno che riconosce alla donna. Spigoloso e irriverente si presenta invece l’anti-patriarcalismo di Mariam Irene Tazi- Preve, che nella famiglia cosiddetta tradizionale e naturale legge non solo una costruzione del capitalismo maschiocentrico, ma anche il dispositivo privilegiato della sua stessa riproduzione, finalizzata addirittura allo sfruttamento della capacità procreativa della «femmina » per eliminare la madre dallo scenario socioantropico e insediare definitivamente al suo posto la «creazione maschile ». La Tazi-Preve come la Vaughan è pienamente convinta che un’articolazione femminile della società sulla base di un potere totalmente gestito dalle donne sarebbe capace di imporre valori e paradigmi del tutto antitetici a quelli competizionali e conflittuali sorgenti dall’esercizio di un potere concepito maschilmente. Tale convinzione, poi, non tarda a essere robustamente confermata proprio dallo studio sul cosiddetto «regno delle donne» di Ricardo Coler, di recentissima ripubblicazione in Italia, ovvero sul probabile ultimo matriarcato storico incarnato dalla società/cultura matrilineare cinese dei Mosuo, in cui dissidi, violenze e ansie da prestazione, mostrine del maschile, lasciano il posto a un godimento indeterminato e a un salutare ozio condiviso che distendono le relazioni interumane. Su questa strada si incammina, in modo più filosofico-politico, l’anti-familismo riformista di Carole Pateman che, interpretando il matrimonio come contratto sessuale, svela che sia questo in realtà, e non quello sociale, il luogo di fondazione della civiltà occidentale asimmetrica del diritto maschile sulle donne. E che dire dell’anti-maternalismo, diversamente graduato, di Corinne Maier, Lina Meruane, Flavia Gasperetti, Valeria Arnaldi, Elena Rosci, o quello dell’israeliana Orna Donath, che inaugura il filone del pentitismo post-partum, capace di far affiorare con determinazione lo sguardo scettico e polemico della donna ebrea (e non solo!) moderna sulla sacralizzazione della maternità-per-legge-morale? E si vorrebbero trascurare l’elettrismo corporale di Jennifer Guerra, che poggia su un soggetto carnale, intonato su un desiderio liberante, o lo xenofemminismo di Helen Hester, inteso come oltre-femminismo tecnomaterialista, che, come l’elettrismo, chiede l’abolizione del genere? Per non parlare del deformismo, declinato sull’idea di «mostruositrans» di Filomena «Filo» Sottile o sull’anti-grassofobi - smo, crititico rispetto allo stigma normo-estetico della «vergogna grassa». Tanti -ismi: ma per quante donne attuali?

Mirella Serri per “la Stampa” l'8 marzo 2021. Oggi ricorrono 75 anni dalla prima festa della donna bell'Italia post-bellica con le strade e le piazze piene di mimose. E il 10 di questo stesso mese ricordiamo il trionfale battesimo delle donne che nel 1946, per la prima volta nella storia d'Italia, divennero elettrici ed entrarono anche come protagoniste nell'agone della politica con incarichi decisionali, di responsabilità e di prestigio. Le prime dieci che indossarono la fascia tricolore di sindaco erano Ninetta Bartoli, Elsa Damiani, Margherita Sanna, Ottavia Fontana, Elena Tosetti, Ada Natali, Caterina Tufarelli Palumbo, Anna Montiroli, Alda Arisi e Lydia Toraldo Serra. Con la tornata elettorale che coinvolse 5722 tra città e paesi irruppe nei consigli comunali la carica delle duemila neonominate. Errore o lapsus freudiano? L'orgoglio femminile per questa doppia ricorrenza era alle stelle ma la parità di genere rimaneva un miraggio. Si inaugurò in quel primo momento di gloria una tradizione che arriva ai nostri giorni: dal governo De Gasperi II, il primo della Repubblica, al Conte II, su 4.864 presidenti del Consiglio, ministri e sottosegretari, le esponenti di sesso femminile sono state solo 319, il 6,56 per cento del totale. Le donne occupano oggi solo un terzo delle cariche politiche nazionali e nei governi in cui sono entrate non hanno mai ottenuto alcuni ruoli chiave come il ministero dell'Economia, e tantomeno, la carica di presidente del Consiglio. L'avventura nell'emiciclo parlamentare e in generale nelle istituzioni si è trasformata in un perenne braccio di ferro poiché, come ha affermato la storica Michelle Perrot, in Italia le donne in politica non sono facilmente accettate. Questo si capì fin dal primo approccio: le candidate che si presentarono alle amministrative del 1946 furono ammesse per il rotto della cuffia. Il decreto legge del primo febbraio 1945 che sanciva il suffragio femminile per un errore (o lapsus freudiano? chissà!) riconosceva alle donne l'elettorato attivo ma non quello passivo, cioè potevano votare ma non essere elette. Rimediata la svista, le deputate entrate a far parte dell'Assemblea Costituente furono uno sparuto gruppetto, 21 su 556 membri. Nel discorso per l'insediamento a Montecitorio la democristiana Angela Maria Guidi Cingolani rivendicò che il voto alle italiane non era «un premio ma un diritto». La partigiana Teresa Mattei Non la pensavano così gli onorevoli colleghi: nella commissione composta da 75 membri incaricati di stendere il progetto generale della Costituzione le donne furono solo 5. Nel comitato di redazione che scrisse il testo finale vi erano solo uomini. Alle deputate furono assegnati come temi peculiari «la famiglia e l'uguaglianza dei coniugi», ricordò Nilde Iotti, nonché «il diritto al lavoro e la tutela dei figli anche illegittimi». Ma le grandi madri costituenti erano state protagoniste della lotta partigiana, del mondo del lavoro e dell'impegno sindacale. I giornali ne sminuivano continuamente l'autorevolezza. Di Alcide De Gasperi sottolineavano il «piglio onesto e infaticabile», Luigi Longo lo descrivevano come «laborioso e diligente» e Palmiro Togliatti come un grande leader persino attento alla famiglia. Ma della deputata venticinquenne Teresa Mattei ricordavano solo che i partigiani la chiamavano Chicchi. Sorvolavano sul fatto che, durante un'azione di combattimento, la Mattei era stata catturata, torturata e selvaggiamente violentata dai tedeschi. Quando Chicchi rimase incinta di un uomo sposato, Togliatti giudicò sconveniente che proseguisse l'esperienza politica. L'«onorevolessa» Le maggiori testate si deliziavano poi per il vestito à pois di Nilde Iotti, trascurandone l'adesione ai Gruppi di difesa della donna; della Cingolani, definita per «scherno l'«onorevolessa», deprecavano l'abito nero senza rilevarne la competenza sul mondo del lavoro, e della socialista Bianca Bianchi dicevano che era la più bionda di Montecitorio ma non rammentavano il curriculum di valente giornalista. Tutte le signore, inoltre, erano accomunate dal fatto «che non fumano e vestono con sobrietà». Le deputate, anche se di orientamenti politici diversi, riuscirono a imporsi e a fare squadra: per esempio, fu esclusivamente loro il merito di aver introdotto il principio dell'uguaglianza dei diritti con l'articolo 3 il quale recitava che «i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». I padri costituenti non volevano comunque lasciare libero il campo alle esigenze femminili. Le onorevoli Maria Maddalena Rossi e Teresa Mattei proposero l'emendamento secondo cui «le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura». Per battersi a favore di questa soluzione la Rossi evocò Teresa Labriola e pure il personaggio di Porzia nel Mercante di Venezia di Shakespeare perché dotate «di sensibilità e di conoscenza profonda del diritto». Femminilità vs razionalità Ma il democristiano Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica, ebbe la meglio discettando che la «femminilità» era in conflitto con la «razionalità» maschile necessaria per operare nei tribunali. Insomma le donne non avevano una testa e un cervello adatte a presiedere una Corte. Solo nel 1965 venne varato il primo concorso perché la magistratura potesse tingersi di rosa e adesso il numero delle donne magistrato ha superato quello dei colleghi maschi, mentre sono ancora poche le toghe femminili che accedono agli incarichi di vertice. Passi avanti e passi indietro Bisognò poi aspettare il 1976 per avere la prima donna ministro, con Tina Anselmi al dicastero del Lavoro e della Previdenza sociale, ma l'Italia è ancora oggi tredicesima in Europa per percentuale di donne ministro, decisamente sotto la media dell'Ue. Per le donne in politica a ogni passo avanti ne corrispondono parecchi indietro. L'esecutivo guidato da Matteo Renzi raggiunse la parità tra i due sessi ma solo per otto mesi. Nei governi successivi l'incremento della rappresentanza femminile ha avuto di nuovo varie battute di arresto e oggi nel governo presieduto da Mario Draghi le donne sono 8 contro 15 uomini: una partita squilibrata.

Le sindache in Italia sono solo il 15 per cento. E buon otto marzo. Fabiana Martini su L'Espresso l'8 marzo 2021. Perché nel nostro Paese è così difficile per le donne fare politica? Lo abbiamo chiesto a chi ci ha provato. Da Nord a Sud. Come la ex prima cittadina di Rosarno: «Ogni giorno entravo in Comune e dicevo adesso mi metto il casco per fare la guerra». Sono passati settantacinque anni da quando le italiane hanno votato per la prima volta e dal decreto che il 10 marzo 1946 ha sancito la loro eleggibilità; quarantacinque da quando Tina Anselmi è divenuta la prima ministra della Repubblica. Nel frattempo un’italiana è andata nello spazio e sembra che nel nostro Paese sia un’impresa più semplice che governare una città. Nel 2021, infatti, soltanto il 15 per cento dei Comuni italiani è guidato da una donna; sono decisamente di più le assessore, che raggiungono il 44 per cento, ma solo per merito della legge 56/2014, la così detta Delrio, che prevede che nelle giunte dei Comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento; se poi andiamo a rilevare le consigliere e le presidenti dei Consigli comunali, le percentuali scendono nuovamente al 34 e al 26 per cento (secondo i dati del ministero dell’Interno, dati aggiornati al 27/01/2021). Ma perché in Italia è così difficile per le donne fare politica, tentare di erodere quel privilegio maschile ormai istituzionalizzato, che nei secoli ha fatto incetta di posti e non è disponibile a mollarli? In un viaggio che ha attraversato tutte le regioni lo abbiamo chiesto a chi ci ha provato: donne al primo incarico o politiche di lungo corso, espressione dei vari partiti o della società civile, con o senza figli. Tutte si sono candidate per dare un contributo mettendo le proprie competenze a servizio del territorio, un territorio spesso difficile e “in salita” non solo geograficamente, dove hanno deciso di restare nonostante tutto: un modo — dicono — per andare oltre la lamentela e la critica sterile, per esercitare responsabilità e agire il cambiamento in prima persona. «In fondo per una donna entrare in politica non significa fare qualcosa di lontano dalla propria quotidianità, ma lavorare per il territorio nell’interesse collettivo», dice Elena Meini, consigliera comunale a Cascina (Pisa). Emilia Delli Colli, prima cittadina di Rocca d’Evandro (Caserta), da vent’anni lavora nella farmacia del paese e da dieci fa politica, ma per essere eletta ha dovuto fare il triplo degli sforzi, perché «nella mentalità il sindaco è una figura autorevole e un sindaco donna non si può sentire»; eppure — racconta Francesca Arcadu, consigliera comunale a Sassari dal 2014 al 2019 — dove le donne governano dimostrano che «sanno fare, hanno visione, sono capaci di andare dal problema alla soluzione; sono in quei posti per fare delle cose, non per occupare spazi di potere». La pensa allo stesso modo Luisa Guidone, presidente del Consiglio comunale di Bologna: «Quando le donne s’impegnano, sono imbattibili: le sindache che lavorano sui territori sono difficili da demolire, resistono, hanno più pazienza, savoir faire». Entrambe credono che il cambiamento vada accelerato e sostengono con forza le quote e la doppia preferenza di genere, perché secondo Guidone «quello maschile è un sistema che si autorigenera e si autoalimenta e le leggi sono l’unico modo per scardinarlo». Nessuna pensa che si debba votare una donna perché è donna, ma perché lavorano bene, sono più sintetiche, più mediatrici, non si fanno governare dal consenso, hanno obiettivi ambiziosi a lungo termine che forse non vedranno realizzati ma per i quali s’impegnano con la stessa determinazione, sono meno portate alla ribalta. A volte ci finiscono loro malgrado, ora più di un tempo, grazie alla macchina del fango alimentata dai social. Confessa Arcadu: «Tu fai tanto, poi basta un post a caso per distruggere tutto. Se non hai le spalle forti e sei un po’ sensibile, questa roba ti asfalta». Motivo per cui anche una millennial come Alice Chanoux, sindaca di Champorcher (Aosta), 393 abitanti divisi tra 27 frazioni, è molto diffidente nei confronti della Rete: «Sui social è sempre in agguato il rischio di fraintendimenti con maggiori disagi rispetto ai benefici». E se i fraintendimenti possono intossicare la comunicazione, gli attacchi personali possono fare davvero molto male e non solo a chi è in prima linea. È il caso ad esempio di Elisabetta Tripodi, sindaca di Rosarno dal 2010 al 2015, che definisce la sua esperienza un Vietnam, devastante soprattutto sul piano umano: «Ogni giorno entravo in Comune e mi dicevo: mi metto il casco per fare la guerra». Contro la cosca dei Pesce, che l’hanno costretta alla scorta, un’esperienza dura in particolare per i suoi figli: «Abbiamo sperimentato un isolamento totale: ho perso tante amicizie, che forse è più corretto definire conoscenze, ma non sono pentita, perché quando sei in ballo devi ballare», ma anche nei confronti dei suoi consiglieri e dei compagni di partito, responsabili della conclusione anticipata del mandato. Con il rammarico che si sia parlato di lei solo in relazione alla tutela ottenuta, offuscando i non pochi risultati conseguiti: opere per 30 milioni di euro e non solo. Anche Sumaya Abdel Qader, consigliera a Milano, durante la campagna elettorale è stata travolta da un’ondata di cattiveria, che l’ha fatta stare molto male: «Il momento in cui ho avuto veramente paura è stato quando hanno cominciato a toccare i miei figli, lì non ci ho più visto: li ho chiusi in casa, non li lasciavo uscire; poi ho capito che non potevo farli vivere così e dopo aver creato una rete di protezione ho allentato la presa. Inoltre non volevo che odiassero il mondo perché il mondo odia la mamma». Un prezzo molto alto l’ha pagato anche Cettina Di Pietro, sindaca di Augusta dal 2015 al 2020 dopo trenta mesi di commissariamento a causa di presunte infiltrazioni mafiose: «Ho ricevuto una quantità incredibile di attacchi personali, che non credo avrei ricevuto in egual misura se fossi stata un uomo. Dimenticando che sono anche una mamma, hanno dato sfogo non solo a critiche, ma a vere e proprie dicerie: ero naturalmente l’amante di tutti, ero un’ubriacona, chi sa poi cosa significava il fatto che avessi nominato una giunta prevalentemente femminile…». Insinuazioni che non entrano nel campo degli uomini, a cui non viene chiesto di dimostrare la loro irreprensibilità, al pari dei loro meriti, regolarmente dati per scontati, quasi facessero parte del patrimonio genetico. Se poi aggiungiamo il fattore tempo, il vantaggio irrecuperabile è servito. Per Simona Lembi, presidente della Commissione Pari Opportunità dell’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani), infatti, «fino a quando le donne non avranno un tempo sufficiente per sé e per scegliere, se lo desiderano, di rappresentare una parte della cittadinanza, parliamo di niente. E il tempo delle donne è un tempo ancora non libero. Quando va bene hanno un lavoro pagato (ce l’ha meno di una su due), ma la cura è ancora tutta sulle loro spalle». Aggiunge Angela Fiore, assessora a Matera dal 2018 al 2020: «Per quanto si possa cercare di delegare, il tempo che ci rimane a disposizione è troppo poco, perché la gestione e il controllo spettano sempre a noi». In un contesto caratterizzato da riunioni infinite a orari improbabili, con tempi scomodissimi tutti decisi dagli uomini, nel quale capita però che il numero legale in giunta lo garantiscano le donne, gli esempi possono avere una grande forza. Stefania Proietti, sindaca di Assisi, ingegnera impegnata in una svolta green dalla sua postazione in municipio, in alcune occasioni pubbliche sceglie di portare i suoi figli: «È un modo per incoraggiare le altre donne, per dire loro che impegno politico e maternità possono convivere». Ed è un messaggio anche per le più giovani, che spesso hanno poca fiducia in se stesse: «È importante far capire loro che valgono mentre sui ragazzi bisogna lavorare per superare la rigida divisione dei ruoli», dice Elisabetta Anversa, vice sindaca di Camogli. Un lavoro che per molte comincia in famiglia con i propri figli e i propri mariti e compagni: Antonella Matticoli, assessora ad Isernia, sostiene che «è fondamentale trasmettere che mamma e papà devono avere gli stessi diritti. La cosa più difficile è stata rieducare mio marito, abituato al fatto che io ero a casa, ma mi ha sostenuto molto». Esigenze di conciliazione in risposta alle quali servono, secondo la maggior parte delle nostre amministratrici, cultura e servizi. Ma c’è anche chi pensa, come Paola Pisano, assessora a Torino e poi ministra nel Conte 2, — una che non si spaventa davanti alla complessità e che è riuscita a organizzare uno spettacolo di droni in piazza San Carlo, che non si ferma di fronte ai «non si è mai fatto così» o alla mancanza di risorse, perché «i soldi ti ammazzano la fantasia» — che «una soluzione non c’è: anche ci fossero gli asili per tutti, i bambini si ammalano. Ma questo non significa che una volta cresciuti non si possa far carriera». E poi c’è chi, come Francesca Toffali, assessora a Verona, è convinta che «la prima conciliazione te la devi trovare in casa: devi prima chiederlo a chi dorme con te e non pretenderlo da altri. Se quando torni la sera non hai nessuno che ha preparato la tavola o fatto la spesa, come fai a trovare il tempo per impegnarti in politica?». Il tempo, tuttavia, non è l’unico problema: «Noi donne scontiamo un complesso d’inferiorità, che ci fa sentire perennemente inadeguate. Abbiamo due strade per superarlo: adottare uno stile autoritario per sopperire alla mancanza di autorevolezza oppure impegnarci al massimo per far emergere al meglio le nostre competenze», dice Laura Marzi, sindaca di Muggia (Trieste). Quasi sempre scelgono la seconda strada e non si sottraggono a sfide apparentemente impossibili: semplificare una realtà ipercomplessa come Roma, progettare di sfamare il territorio con la canapa anziché con gli elettrodomestici, riattivare una centrale idroelettrica, decretare l’uscita di Bari dalla situazione di povertà estrema attraverso la promozione di reti a sostegno delle persone fragili. Queste le scommesse accettate rispettivamente da Flavia Marzano, assessora della giunta capitolina dal 2016 al 2019, a servizio della quale ha messo tutto il suo bagaglio di analista dell’impatto sociale e organizzativo dell’innovazione; dall’assessora di Fabriano Barbara Pagnoncelli, che con una disoccupazione al 30 per cento ha smesso di guardare al glorioso passato; dalla sindaca di Villetta Barrea (L’Aquila) Giuseppina Colantoni, che non si è arresa alla burocrazia; dall’assessora Francesca Bottalico, che ha ridisegnato il sistema di welfare barese lavorando sull’analisi dei dati e dei fenomeni in cambiamento, con un’attenzione particolare al bisogno non esplicitato: «È un lavoro partito dal basso, senza soluzioni predefinite e proponendo sempre un patto educativo con gli attori coinvolti. Welfare per me ha a che fare con benessere e non può ridursi a una borsa della spesa o a un sussidio mensile». Un investimento di speranza nel futuro, che non necessariamente porta voti. E benessere, inteso come sentirsi a casa, riconoscersi in una comunità, è una parola chiave anche per Rosmarie Burgmann, sindaca di San Candido (Bolzano) dal 2015 al 2020, che durante il suo mandato ha organizzato periodicamente delle assemblee aperte alla cittadinanza, convinta che «ci dev’essere spazio in una democrazia per esprimere opinioni diverse, non solo al bar o dietro una porta chiusa», come spesso fanno gli uomini nelle segreterie di partito o addirittura negli spogliatoi, dopo aver giocato a calcio. Uno stile fatto di ascolto ma anche molto concreto: potremmo azzardarci a definirlo femminile, ma non vogliamo ingabbiare le donne, neanche in veste di amministratrici, in un unico cliché. Perché le donne sono tante e diverse, ma in politica ancora troppo poche per fare la differenza. E la sotto rappresentazione di più di metà della popolazione non è un problema delle donne, ma incide sulla crescita dell’intero Paese, alimentando le disuguaglianze sociali. «La presenza femminile in politica, nei posti cosiddetti “di potere”, non serve soltanto alle donne, serve a migliorare la qualità della società. Per tutti». Lo diceva Tina Anselmi e non lo abbiamo ancora capito.

Agnès Varda, la gioia di essere femministe. La lezione di una grande artista scomparsa due anni fa: trovare la propria identità femminile nella società, nella vita privata, nel rapporto con il proprio corpo. Carolina Germini su Il Quotidiano del Sud l'8 marzo 2021. Agnès Varda si fece strada coraggiosamente in un universo di uomini nel 1955, con un film che il critico André Bazin definì “miracoloso”, per quanto fosse lontano dal cinema francese contemporaneo, fissato su rigidi schemi filmici e narrativi. Si tratta di La Pointe Courte, che, per la sua struttura, anticipa già i suoi lavori successivi: immagini documentarie di un villaggio di pescatori si alternano alla storia di una coppia parigina. Quando Agnès Varda con il suo caschetto bianco e rosso varcò la soglia dell’aula, in cui ogni martedì i ragazzi dell’École Normale Supérieure di Parigi organizzavano il Cineforum, capimmo immediatamente che si trattava di un essere straordinario.

Aveva 89 anni ma l’energia di una ragazza. Quella sera venne proiettato Le Bonheur, il suo primo lungometraggio a colori. Come lei stessa spiega in Varda by Agnès – retrospettiva del suo lavoro di artista – le scene che incontriamo in questo film, per l’uso dei colori, richiamano i quadri dei pittori impressionisti. Varda, nella stessa retrospettiva, racconta che nel suo lavoro è sempre stata mossa da tre elementi: ispirazione, creazione, condivisione. L’ispirazione è il motivo per cui si fa un film: le motivazioni, le idee e gli eventi che scatenano il desiderio. La creazione è il modo in cui si realizza: la scelta dei mezzi e della struttura. La terza parola è condivisione: i film non sono fatti per essere guardati da soli, ma per mostrarli agli altri. Varda è profondamente cosciente del processo creativo che accompagna il suo lavoro. La sua formazione filosofica e la professione di fotografa l’hanno portata a creare nel tempo una forma del tutto personale di cinema, che lei stessa ha definito “cinécriture”: un metodo che prevede la scrittura del soggetto insieme alla lavorazione del film. Questa scelta si rivelerà fondamentale poiché farà dell’imprevedibile la cifra distintiva del suo lavoro, rendendola fin da subito riconoscibile. Conquisterà così un preciso stile cinematografico, non confondendosi con il filone della Nouvelle Vague, a cui viene spesso associata. La sua originalità va ricercata nella totale libertà di sperimentazione, nel modo unico in cui intreccia la finzione al documentario. Ne è un esempio Cléo de 5 à 7, il suo secondo film e il primo di una lunga serie in cui le donne sono le protagoniste assolute della scena. Non avendo a disposizione un grande budget per realizzarlo, Varda scelse di girarlo a Parigi in una sola giornata. Ma, una volta iniziate le riprese, l’idea si fece ancora più radicale: concentrare tutto il tempo del film in sole due ore. La centralità assegnata alle figure femminili trova la sua massima espressione nel film L’Une chante l’autre pas (1975), che racconta la storia di due amiche molto diverse che si ritrovano dopo dieci anni ad una manifestazione per la legalizzazione dell’aborto in Francia, che venne approvata nell’anno in cui fu realizzato. Sempre nel 1975, a Varda venne chiesto da una rivista femminista di girare sette minuti sul tema “Che cos’è essere una donna?”. Il risultato di quel lavoro è Réponse de femmes, in cui undici donne, nude in alcune scene, rispondono a questa domanda. Mostrare il corpo nudo per Varda ha un significato preciso. Ciò che le interessa non è tanto parlare della condizione femminile quanto scoprire la donna fisicamente, analizzando come reagisce a ciò che la società occidentale chiede al suo corpo. Una richiesta quasi schizofrenica: “Copriti, sii pudica” e allo stesso tempo “Mostra le gambe per vendere collant”. La Varda, scomparsa due anni fa all’età di 91 anni, è stata originale non solo nel suo lavoro di cineasta ma anche nel modo di essere femminista. Potremmo dire che il suo cinema e il suo femminismo appartengono alla stessa ricerca: trovare la propria identità femminile nella società, nella vita privata, nel rapporto con il proprio corpo.  

Mario Platero per “Robinson - la Repubblica” l'8 marzo 2021. Cominciamo con una premessa: prima di essere la più grande scrittrice americana del nostro tempo, Joan Didion è stata una donna che dal suo debutto, alla fine degli anni Cinquanta ha bruciato le tappe dell' emancipazione femminile in un mondo occupato da uomini. Lo ha fatto in modo originale, solitario, determinato, efficace. Le chiedo quanto fosse decisa a farcela in questo mondo dominato dai maschi, se si rendeva conto di aprire con la sua opera, con la sua vita, nuove frontiere per le donne: «Non avevo coscienza di essere una donna che apriva nuove strade per altre donne, non pensavo a me stessa in quell' ottica», mi dice in un' intervista a New York dalla sua casa sulla 71 East dove è in prudente lockdown dall' inizio della pandemia e da dove si concede al massimo una puntata a Central Park. Mi torna in mente una sua frase in una delle sue prime collezioni di saggi, ‘’Verso Betlemme’’ (riuscito in Italia, come gli altri titoli, da il Saggiatore): «Sono così piccola fisicamente, così discreta per temperamento e così nevroticamente inarticolata che la gente tende a dimenticare che la mia presenza va contro i loro migliori interessi». È un tema ricorrente. Lo ripropone in uno dei saggi del suo ultimo libro e quando le chiedo di commentare mi conferma: «La mia apparente fragilità era davvero la mia arma segreta». Dietro questa fragilità solo apparente, fisica, di allora, c'erano anche incertezze, insicurezze, disperazione, sentimenti ricorrenti nella sua opera e nei suoi umori. Ma su tutto, sul lutto, sulle paure, sul senso di vuoto, hanno sempre prevalso la tenacia, il carattere, la precisione, il metodo. Anche per questo - pur provata fisicamente come è oggi - Joan Didion è riuscita a darci a 86 anni questo altro libro, Let Me Tell You What I Mean, pubblicato a New York da Knopf appena poche settimane fa, una collezione di saggi scritti fra il 1968 e il 2000. I più vecchi, quelli del 1968, ci portano a un passato remoto denso di nostalgia per il lettore di oggi. In "Pretty Nancy" nella cornice di un' intervista con Nancy Reagan, quando Ronald era ancora governatore della California, c' è una descrizione puntuale dell' America contemporanea di allora, che non esiste più. In "Non essere scelta dall' università preferita" c' è il ricordo, umiliante e deprimente, della lettera con cui veniva respinta la sua domanda di ammissione a Stanford. Fu poi ammessa a Berkeley e, come ci racconta, andò anche meglio. In " Why I Write" confessa che ci volle del tempo, anche all' università, per capire che la sua era una vocazione da scrittore. Solo dopo, dopo le raccolte di saggi, a partire da White Album ci avrebbe dato alcuni capolavori. Penso a ‘’L' anno del pensiero magico’’ del 2005. È scrivendo il Pensiero magico che Joan riesce a superare la disperazione per la perdita improvvisa nel 2003 di suo marito John Gregory Dunne, del compagno della sua vita, dello scrittore amico, irascibile, con cui confrontare opere e pensieri. Proprio nel 2005 muore anche sua figlia Quintana Roo a 39 anni. Un altro immenso dolore. A Quintana, unica figlia, adottata a Hollywood, dedica un altro libro, Blue Nights. Ma è con ‘’L' anno del pensiero magico’’ che ha vinto il National Book Award ed è intuitivo pensare che questa sua opera sia adatta a questo momento terribile per l' America, travolta dal più grande lutto collettivo della sua storia. La fuga nel "pensiero magico" potrebbe aiutare, ma di questo nella nostra intervista Joan non ne vuole parlare, non vuole fare confronti o collegamenti tra il suo libro e questa tragedia contemporanea. Piuttosto, come spesso le succede (pensiamo a quante anticipazioni ci sono nella sua opera!) preferisce guardare in avanti, al dopo, e, pensando al futuro, non può fare a meno di essere angustiata: «Sono preoccupata per quel che succederà quando il Covid sarà superato - mi dice - lo sono per quel che, per molti, potrà essere la conseguenza in termini di stabilità mentale » . Se ne parla ovviamente, quanto del nostro equilibrio pre Covid resterà intatto nel post Covid? La domanda è profonda e spaventosa allo stesso tempo. E per ora non abbiamo risposte. Quella con Joan non è stata un' intervista facile. Già, in generale, tutto avviene a distanza, via Zoom o al telefono. Ma con Joan neppure Zoom è possibile. È oltremodo affaticata. Parla pochissimo. Le sue frasi sono brevissime, spesso monosillabiche. L' ultima volta che la vidi, un paio di anni fa, la sua fragilità era preoccupante. Oggi è ancora più magra, sembra un fuscello pronto a volare con un soffio di vento. È di nuovo un' apparenza, perché poi, come abbiamo visto, lavora e pubblica ancora. Il suo pensiero, come mi sono accorto dall' interazione su domande e risposte, è arguto e selettivo. Alla fine, con l' aiuto della sua editor storica, Shelley Wanger di Knopf, siamo arrivati all' unica soluzione possibile, quella di contattarci via mail. Mi dispiaceva non ascoltare la sua voce esitante ma chiara, non sorprendermi per la sua risata gioiosa e improvvisa o non seguire il suo gesticolare teatrale e complementare al movimento del suo pensiero. Lo avevo seguito in altre occasioni. Ci si vedeva, ormai molti anni fa a casa di Camilla e Earl McGrath, sulla 57esima West, proprio davanti alla Carnegie Hall. Era uno dei grandi salotti intellettuali di una New York di un altro tempo. Oltre a John Dunne e Joan Didion c'erano il fratello di John, Nick e suo figlio Griffin. Griffin è un regista, alcuni anni fa ha girato uno splendido e commovente documentario su Joan che potete trovare su Netflix. C' erano Ahmet Ertegun, di origine turca, il leggendario raffinatissimo fondatore della Atlantic record - che lanciò tra gli altri Ray Charles e i Rolling Stones in America - e sua moglie Mica; artisti come Larry Rivers o Cy Twombly, se era di passaggio a New York. Editori come Sonny Mehta e molti altri. Earl, un mercante d' arte, era un amico da sempre, dai tempi della California, nella seconda metà degli anni Sessanta, ben prima del ritorno a New York. Joan lo ricorda più volte nell' Anno. E pensando al momento difficile che stiamo passando mi concede due riflessioni, una sull' amicizia e l'altra sulla nostalgia che diventano elementi chiave per il conforto e per la fuga mentale in questi lunghi momenti di isolamento. « L' amicizia o la famiglia sono un pilastro quando si affronta una perdita - dice Joan - se penso a Earl penso a un' ancora, lo stesso vale per Harrison». Harrison è Harrison Ford, il grandissimo attore. Prima della sua orbita fra le stelle di Hollywood, faceva il falegname. Come racconta lui stesso in varie occasioni, andò a vivere con John e Joan per ampliare la loro casa. Erano già celebrità, lui, invece, uno sconosciuto. Ma lo invitavano con la moglie e i figli alle feste comandate. E lui andava con riconoscenza. Il rapporto, dopo, non è mai più cambiato. Chiedo a Joan se un balzo nostalgico nel passato può aiutare, se può essere un balsamo per i momenti di sconforto, anche quelli dal lockdown pandemico. « Non so se la nostalgia sia un balsamo per curare lo spirito quando sei giù - risponde, confermando quanto la sua concezione di nostalgia sia avulsa dal rischio di cadere in un romanticismo sdolcinato - ma so che per me le cose importanti nella nostalgia sono l' insieme del ricordo di un posto, di un umore, di una luce, di un singolo momento particolare, di una interazione con amici o con altra gente ». Al momento nostalgico non poteva mancare la sua città, New York. Le manca la città di un tempo? La ritroveremo nel post Covid? « Certo che mi manca New York come la conoscevo prima della pandemia. E sì, credo che New York ce la farà, tornerà alla sua grandezza come ha fatto in passato». Qui Joan risponde indirettamente anche a un editoriale di Peggy Noonan uscito giorni fa sul che definisce New York come una città finita. Ma Joan con questa città ha intrecciato un rapporto creativo e di vita indimenticabile: pensare a una sconfitta non è possibile. E c' è da capirla, basta leggere il ricordo del suo arrivo a Manhattan dopo aver vinto un concorso di il Prix de Paris, che la portava a lavorare al più importante mensile "intelligente" per la donna. Scrive: « Arrivando avevo vent' anni, sentivo l' aria calda dell' estate e un qualche istinto programmato da tutti i film che avevo visto, da ogni canzone che avevo sentito cantare e da ogni storia che avevo letto su New York, mi informava che niente sarebbe stato davvero più lo stesso. E infatti nulla poi è più stato lo stesso». Didion viene risucchiata dal vortice di energia della città e dal lavoro. È a New York che incontra John alla fine degli anni Cinquanta. È a New York che capita per caso la svolta letteraria: manca un articolo di copertina e lo affidano a lei. Titolo "Il rispetto di sé: la sua origine, il suo potere". Esce il 1° agosto 1961. Per le donne lettrici di scrive: « Coloro che hanno rispetto di sé mostrano una certa durezza, un certo coraggio mortale, esibiscono quello che una volta si chiamava carattere, una qualità che, sebbene sia apprezzata in astratto, a volte perde terreno rispetto ad altre virtù più negoziabili. Eppure, il carattere, la volontà di prendersi la responsabilità della propria vita, è la fonte da cui sprizza il rispetto di sé » . Joan diventa un autore di cui si parla. È il momento in cui, « senza averne coscienza » come mi ha detto, si inserisce in un mondo di uomini. Gli scrittori del suo tempo erano presenze forti: Norman Mailer, Truman Capote, Tom Wolfe, Philip Roth, Hunter Thompson. Ma in quello spazio occupa una casella importante. Con John si sposano nel 1964 e decidono di trasferirsi in California. E quasi subito lei viene intervistata da un giovanissimo Tom Brokaw per la rete Nbc sulla meravigliosa terrazza della casa di Hollywood, su Franklin Avenue. Vediamo Joan giovane, bella, capelli al vento, occhialoni neri da sole anni Sessanta. Non sempre tutto è facile sul piano personale. Il suo percorso continua con una riflessione sulla sua condizione di donna, di moglie di un "irlandese" con "temperamento", di madre di una bambina di tre anni, Quintana Roo, adottata a Hollywood: nel 2005, dopo L' anno del pensiero magico, Didion perderà improvvisamente anche lei. Ma intanto, negli anni Sessanta, Joan vive in bilico all' interno di un rapporto matrimoniale che si è fatto difficile e scrive: «Voglio che tu sappia che cosa ho in mente. Voglio che tu capisca quello che hai, hai una donna che per qualche tempo si è sentita separata in modo radicale da gran parte delle idee che sembrano interessare le altre persone. Hai una donna che a un certo punto lungo il cammino ha perduto quel poco di fiducia che poteva avere nel contratto sociale, nei principi per migliorare, nel complessivo grande modello dell' avventura umana». Nel saggio "Nelle isole", incluso nel suo libro Didion racconta il posto dov' erano in vacanza, il Royal Hawaiian Hotel: le onde e il vento che fanno da cornice al momento: «Siamo qui, in quest' isola nel mezzo del Pacifico - annota - invece di chiedere il divorzio». Poi, anni dopo, tornano a New York. Le chiedo di alcune sue immagini del periodo californiano, del servizio fotografico di Julian Wasser. Nella foto è in piedi, sigaretta in mano, appoggiata alla sua Corvette Stingray giallo Daytona, un elemento scenografico normalmente maschile. Lei è molto cool. C' è un' aria di sfida. Forse, senza quella foto, Thelma & Louise, che viene girato 23 anni dopo, non sarebbe stato possibile. Il suo vestito, una tunica lunga, leggera, morbida, attillata, rivela una flessuosità inaspettata per una donna che dice di essere piccola fisicamente, discreta per temperamento e nevroticamente inarticolata. Le chiedo perché ha comprato la Corvette: « I just loved it » , risponde. Le chiedo se gli stilisti avevano organizzato la foto e il vestito: «Quello era il mio vestito - dice - l' ho scelto io».

Così sono cambiate le eroine delle serie tv. Dai primi del '900 a oggi, le donne sono cambiate, così come le eroine delle serie tv. La Donna Bionica è stata sostituita da personaggi più umani e reali. Qual è la vostra eroina moderna preferita? Marina Lanzone - Lun, 08/03/2021 - su Il Giornale.  Anche quest’anno è arrivata la festa della donna. È il secondo 8 marzo passato senza grandi eventi, a distanza, probabilmente a casa, ma non in silenzio. Dopo tanti anni, le donne lottano ancora per far rispettare i loro diritti, le loro scelte e il loro corpo. Dagli scioperi delle operaie fuori dalle fabbriche statunitensi nei primi anni del ‘900 al Movimento del Me too, ci sono stati degli innegabili passi avanti (o indietro in alcuni casi): le donne sono generalmente più consapevoli, giustamente più pretenziose ed ambiziose, soprattutto meno sole a combattere queste battaglie. In tutti questi anni, il piccolo schermo è stato testimone dei cambiamenti e anche le eroine delle serie tv hanno subito un’evoluzione, passando dalla fintissima Donna bionica alla complessa ma quanto mai vera Annalise Keating. Le eroine moderne hanno perso lo status di semi-dee, non combattono più i mostri ma le loro fragilità: soffrono per amori sbagliati, si ammalano di depressione, hanno delle dipendenze, a volte tradiscono la fiducia dei loro cari. Sbagliano, cadono e si rialzano tutte le volte e per questo possono diventare un modello da seguire per le telespettatrici. Quali sono le migliori eroine delle serie tv? Difficile dirlo, è una scelta soggettiva: ogni donna è diversa per età, carattere e stile di vita, tutte hanno la loro gatta da pelare. In questa lista di dieci personaggi (più uno), dal più giovane al più anziano, ogni lettrice potrà rivedersi trovando la propria protagonista del cuore.

La regina degli scacchi. Beth Harmon è l’eroina del momento (specie dopo la recentissima vittoria al Golden Globe di Anya Taylor-Joy come "miglior attrice in una serie drammatica" per la sua interpretazione nella serie Netflix): giovane, ribelle, affascinante più che bella, tormentata dal suo passato e dai ricordi della madre suicida, volutamente sola perché fatica a fidarsi delle persone. Ha un grande talento per gli scacchi, attività a cui si appassiona perché "prevedibile". Entra in diretta competizione con una lunga schiera di uomini, e gara dopo gara diventa la migliore. Da lei, possiamo imparare la capacità di non arrendersi davanti al primo ostacolo.

Buffy-L’ammazza vampiri. Un po’ attempata (la serie è stata trasmessa dal 1997 al 2003) ma sempre di moda, Buffy rimane una delle eroine più amate. Come le protagoniste delle serie tv anni ’70-’80, ha dei poteri sovrannaturali che le permettono di riconoscere e affrontate vampiri e demoni. Quello che piace di questa storia, però, è la parte più umana. Buffy è prima un’adolescente e poi una donna come molte: soffre per la fine del suo primo amore, non sa fuggire dai rapporti tossici, cade in depressione dopo la perdita di una persona cara e tenta di scappare dai problemi piuttosto che affrontarli. Ma alla fine cresce e impara, come tutti, a gestire le sue ferite.

L’allieva. Alice Allevi, protagonista della serie tv Rai "L’allieva", ispirata ai romanzi di Alessia Gazzola, all’inizio è la tipica universitaria indecisa sul futuro. Studia medicina ma teme di non essere un bravo medico, fino a quando trova la sua strada, la medicina legale. La curiosità l’aiuterà, puntata dopo puntata, a trovare tutti gli assassini, portando un po’ di giustizia là dove non c’è. Tra un’autopsia e un’indagine, troverà anche il tempo di innamorarsi, regalando una punta di romanticismo a questo giallo.

Le amiche geniali. Lila e Lenu, le protagoniste della saga de "L’amica geniale", la fiction Rai tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, ci mostrano quanta fatica è necessaria per "riscattarsi" e quanto sia più facile farlo con un’amica a fianco. Sono una l’opposto dell’altra: Lila è bruna, Lenu bionda; la prima è sfacciata e impulsiva, l’altra timida e razionale; Lila ha studiato per strada, Lenu tra i libri della Normale di Pisa. Eppure riescono a trovare un loro equilibrio, a perdonarsi ogni qualvolta si feriscono, rimanendo un punto di riferimento costante l’una per l’altra.

Jane The Virgin. Jane Villanueva è l’esuberante protagonista della soap opera americana "Jane the Virgin" (visibile sulla piattaforma Netflix). La serie racconta la storia di una 23enne che vuole arrivare vergine al matrimonio, perché profondamente credente. Jane sogna delle nozze da favola con il suo storico fidanzato Michael e di diventare una scrittrice, nonostante non possieda un eclatante talento. La sua esistenza di ragazza comune viene stravolta da una gravidanza non desiderata: durante una banalissima visita ginecologica di controllo, viene inseminata artificialmente. Questo avvenimento cambia i suoi piani, ma non li sconvolge. Jane the Virgin riesce a realizzare i suoi sogni e a trovare il tempo per se stessa, non perdendo mai di vista i valori in cui crede. Non ha paura di essere anticonvenzionale e incompresa e la sua tenacia alla fine viene premiata.

L’ancella guerriera. June Osborne di "The Handmaid's Tale" (su TIMVision e Amazon Prime Video) è una madre a cui è impedito di crescere sua figlia. Per la società in cui vive, l’immaginaria Repubblica di Gilead, lei è solo un corpo. June Osborne sarebbe un’ancella, cioè una donna fertile, assegnata a una famiglia, il cui unico scopo è quello di dare degli eredi ai padroni. Ma l’eroina di "The Handmaid's Tale" sa bene di non essere solo questo: è intelligente, coraggiosa, determinata e ironica. Sa cosa vuole e probabilmente riuscirà a riprenderselo.

Una moderna Xena. La regina Lagertha di "Vikings" (anche questa serie è visibile su TIMVision) è una guerriera, ma con la sua predecessora Xena ha davvero poco in comune. Lagertha ha delle incredibile doti belliche, ma è anche una moglie, una madre e poi una donna divorziata, un modello raggiungibile rispetto alla vecchia Xena. Affronta ogni difficoltà, dalla perdita della sua bambina al tradimento e separazione dal marito, con grande dignità. Sono queste le caratteristiche che fanno di lei una donna con la "D" maiuscola.

AK, la regina del foro e del riscatto. L'avvocatessa Annalise Keating, protagonista de "Le regole del delitto perfetto", visibile su Netflix, è probabilmente una delle eroine più amate e complesse dell’era moderna. Pantera astuta e spietata nelle aule di tribunale, trae la sua forza dalle mille battaglie che ha dovuto combattere nella vita: ha subito violenze e molestie tra le mura domestiche, ha dovuto affrontare il dolore per la maternità mancata, ha lottato contro la dipendenza dall’alcool che è arrivata quasi a ucciderla in più occasioni, ha sopportato tradimenti e la perdita dell’amato marito Sam. Non importa quanto sia profonda la ferita inferta, Annalise Keating riesce ad alzarsi tutte le volte. Nonostante non viva in una realtà perfetta, crede e lotta per un mondo migliore.

La fantastica signora Maisel. Un’altra maestra indiscussa del "riscatto" è Miriam Maisel, la protagonista della serie visibile sulla piattaforma streaming di Amazon Prime Video. Miriam è un modello per qualunque donna che a una certa età deve reinventarsi. Dopo anni, passati ingiustamente all’ombra del marito, un comico che non fa ridere, la fantastica signora Maisel riesce a trovare la sua strada, conquistando il pubblico e l’indipendenza.

The Crown. La regina Elisabetta II non poteva certamente mancare in questa carrellata perché, data la veneranda età, ha molto da insegnare. Innanzitutto la sovrana immaginata da Netflix in "The Crown" incarna più di tutte il senso del dovere, dimostrando che essere regina non ha niente a che vedere con i cartoni della Disney. Non destinata fin dalla nascita a regnare, ha indossato la corona all'età di venticinque anni, dopo la morte prematura del padre, re Giorgio V, e da quel momento è diventata regina prima che donna, moglie e madre, con tutte le difficoltà che questo comporta. Ha affrontato e sopportato le scappatelle del marito, le gelosie famigliari, i colpi di testa dei figli: con una classe surreale ha saputo "aggiustare" situazioni che chiunque altro avrebbe fatto naufragare. Un personaggio a cui si può solo aspirare.

Franca Giansoldati Alessia Marani per "il Messaggero" il 9 marzo 2021. «Dobbiamo lottare per la dignità delle donne, sono loro che portano avanti la Storia». Tornando dall'Iraq, con ancora negli occhi le immagini delle ferite alla città di Mosul dove i jihadisti stupravano e vendevano al mercato le ragazze yazide, Papa Francesco ripercorre tanto orrore e - non a caso - sceglie l'8 Marzo per denunciare con forza le violenze cui sono soggette, persino «nel Centro di Roma», tante giovanissime straniere. Una piaga sommersa e molto remunerativa per il racket che ben conoscono tante associazioni che operano nella Capitale. Talitha Kum, la Giovanni XXIII, le Scalabriniane e l'eroica suor Eugenia Bonetti, 80 anni ma ancora attiva, l'emblema mondiale di questa campagna di salvezza. Tutte realtà religiose sostenute concretamente dal Papa per salvare dal marciapiede ragazzine spesso minorenni, senza documenti, ricattate, schiavizzate. Praticamente fantasmi.

L'APPELLO. Ai giornalisti Francesco ha affidato un appello rendendo omaggio al mondo femminile senza nascondere la preoccupazione per un fenomeno che non accenna a diminuire. «Le donne sono più coraggiose degli uomini, è vero, ma la donna anche oggi è umiliata, e vorrei andare all'estremo». L'estremo a cui fa riferimento è la storia di Nadia Murad, la yazida ex schiava, fuggita miracolosamente fino a diventare la testimone all'Onu dei crimini contro l'umanità commessi dal Califfato a Mosul. Il suo libro autobiografico ha pietrificato il Papa. «C'era la lista dei prezzi delle donne. Non ci credevo. Le donne si vendono, si schiavizzano. Ma succede anche nel Centro di Roma. E il lavoro contro la tratta è un lavoro di ogni giorno». Lo sanno bene le realtà cattoliche. Durante il Giubileo della Misericordia Francesco ha visitato con monsignor Fisichella una casa protetta dove ha incontrato una ragazza mutilata. «Le avevano tagliato l'orecchio perché non aveva portato i soldi giusti. Era stata trasportata da Bratislava nel bagagliaio della macchina. Una schiava, rapita. Quindi questo succede anche fra noi, i colti». Francesco ha destinato alcuni edifici destinandoli al recupero delle ragazze, ha finanziato progetti e ha messo all'asta una Lamborghini Huracane che gli era stata regalata. Aveva persino scomunicato gli uomini che alimentavano questo turpe fenomeno («sono dei criminali»). Don Aldo Bonaiuto, il sacerdote anti-tratta, non ha dubbi che con il Covid il fenomeno a Roma sia più nascosto. «Quando il Papa si riferisce al Centro di Roma parla della zona dentro al Raccordo. Ne abbiamo discusso assieme qualche settimana fa: sono andato a trovarlo e assieme abbiamo fatto una videochiamata con alcune di queste ragazze salvate. Il racket in questo periodo di pandemia ha solo spostato le ragazze nelle strade laterali alle grandi arterie, la Colombo, la Salaria eccetera. Se il fenomeno della schiavitù a Roma è esteso la colpa è dei clienti. Se non ci fosse la domanda non ci sarebbe nemmeno questo mercato ignobile, frutto di una mentalità maschilista e vergognosa».

B&B E VIDEOCHIAMATE. A Roma, stando ai dati dell'associazione anti-tratta Parsec, si cela la più grande fetta del mercato delle schiave del sesso, circa il 15% di quello nazionale. Un esercito di 2500 donne e trans che sono letteralmente vendute in strada, a cui se ne aggiungono almeno altre 1500 costrette a farlo nelle case o nei centri massaggi. Si contano più di trenta differenti nazionalità, con in cima le potenti mafie nigeriana e albanese che gestiscono le rotte dall'Africa e dall'Est. Nel migliore dei casi le schiave con la loro attività si comprano il costo del viaggio e poi tornano libere. Ma, spesso, non riusciranno mai a sottrarsi al giogo. Il Covid, però, ha imposto, prima una battuta d'arresto, poi dei cambiamenti. I pattuglioni della polizia lungo le consolari con tanto di multe, ostacolano e spostano il fenomeno. Solo pochi giorni fa i carabinieri di piazza Dante, rione Esquilino, hanno scoperto e chiuso tre centri massaggi a luci rosse gestiti da cinesi tra San Giovanni e il Nomentano, ma le indagini erano partite da una casa d'appuntamento in zona Prati. Nel Centro di Roma, appunto. E in Centro, adesso, trans e schiave del sesso cominciano il loro calvario già nel primissimo pomeriggio. «Ma scalfire il sistema delle tratte è difficile - spiega un investigatore di lungo corso - perché difficile è rompere il muro dell'omertà e della paura».

L’8 marzo è la Festa dell’Ipocrisia. Gianluigi Nuzzi su Notizie.it l'08/03/2021. Il Papa, nella sua omelia, dice parole che accudiscono e coccolano tutti noi, ma se c'è una società maschilista questa è proprio la Città del Vaticano. Buon 8 marzo. Questa dovrebbe essere la festa della donna, ma in realtà è la festa dell’ipocrisia. Ognuno dice la sua sventolando una bandiera di diritti come se questi non dovessero essere già naturali, connaturati, sedimentati nelle coscienze. Ma così purtroppo non è. Ho riascoltato le parole di un’omelia di Papa Francesco nella quale il pontefice dice che la donna è armonia, che il suo compito non è lavare i piatti ma dare poesia e bellezza alla vita. La donna, continua, è stata creata da Dio perché sia madre di tutti. Ma se c’è una società maschilista e assolutamente incentrata sull’uomo, questa è proprio la Città del Vaticano, una monarchia assoluta dove le donne sono figure marginali. Le suore lavano le mutande e i piatti ai vecchi porporati e, più in generale, la donna nella storia della Chiesa non ha mai ricoperto un ruolo di rilievo. Non ci sono donne che hanno potere nello Stato Pontificio. I cardinali e i vescovi detengono strettamente il comando e tutta la struttura di potere è formata da uomini. Il Papa, nella sua omelia, dice parole che accudiscono e coccolano tutti noi, ma qualche passo (vero) nel suo mondo andrebbe ancora fatto.

Gianluigi Nuzzi. Giornalista, ha iniziato a scrivere a 12 anni per il settimanale per ragazzi Topolino. Ha, poi, collaborato per diversi quotidiani e riviste italiane tra cui Espansione, CorrierEconomia, L'Europeo, Gente Money, il Corriere della Sera. Ha lavorato per Il Giornale, Panorama e poi come inviato per Libero. Attualmente conduce Quarto Grado su Rete4 ed è vicedirettore della testata Videonews. È autore dei libri inchiesta "Vaticano S.p.A." (best seller nel 2009, tradotto in quattordici lingue), "Metastasi", "Sua Santità" (tradotto anche in inglese) e "Il libro nero del Vaticano".