Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

LA SOCIETA’

 

QUARTA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE

 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Gli Auspici per il 2021.

Le profezie per il 2021.

2020. Un anno di Pandemia.

Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.

Cosa resta dell’anno passato. Le Cazzate.

Cosa resta dell’anno passato. I Morti Illustri.

Perché febbraio ha 28 giorni ed è il mese più corto dell’anno?

109 anni dall’affondamento del Titanic.

84 anni dal Disastro dell’Hindenburg.

21 anni dalla fine del Concorde.

75 anni dalla nascita del Bikini.

75 anni dalla nascita della Vespa.

70 anni dalla nascita del Totocalcio.

60 anni dalla nascita di Diabolik.

200 anni dalla morte di Napoleone Bonaparte.

100 anni dalla morte di Enrico Caruso.

72 anni dalla morte del grande Torino.

66 anni dalla morte di James Dean.

61 anni dalla morte di Fred Buscaglione.

52 anni dalla morte di Rocky Marciano.

51 anni dalla morte di Jimi Hendrix.

50 anni dalla morte di Jim Morrison.

50 anni dalla morte di Fernadel.

50 anni dalla morte di Coco Chanel.

46 anni dalla morte di Joséphine Baker.

44 anni dalla morte di Charlie Chaplin.

44 anni dalla morte di Maria Callas.

44 anni dalla morte di Elvis Presley.

41 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.

40 anni dalla morte di Natalie Wood.

40 anni dalla morte di Rino Gaetano.

40 anni dalla morte di Alfredino Rampi.

39 anni dalla morte di Romy Schneider.

37 anni dalla morte di Truman Capote.

33 anni dalla morte di Christa Paffgen, in arte: Nico.

31 anni dalla morte di Sergio Corbucci.

31 anni dalla morte di Ugo Tognazzi. 

30 anni dalla morte di Pier Vittorio Tondelli.

30 anni dalla morte di Yves Montand.

30 anni dalla morte di Dino Viola.

30 anni dalla morte di Walter Chiari.

29 anni dalla morte di Astor Piazzolla.

28 anni dalla morte di Sun Ra.

28 anni dalla morte di Albert Sabin.

27 anni dalla morte di Ayrton Senna.

27 anni dalla morte di Moana Pozzi.

27 anni dalla morte di Giulietta Masina.

27 anni dalla morte di Massimo Troisi.

27 anni dalla morte di Domenico Modugno.

25 anni dalla morte di Marcello Mastroianni.

25 anni dalla morte di Dario Bellezza.

24 anni dalla morte di Ivan Graziani.

24 anni dalla morte di Gianni Versace.

24 anni dalla morte di Renzo Montagnani.

23 anni dalla morte di Frank Sinatra.

21 anni dalla morte di Nicola Arigliano.

20 anni dalla morte di Ferruccio Amendola.

17 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita di Nino Manfredi. 

17 anni dalla morte di Michele Profeta.

15 anni dalla morte di Mario Merola.

15 anni dalla morte di James Brown.

15 anni dalla morte di Oriana Fallaci.

14 anni dalla morte di Ingmar Bergman.

14 anni dalla morte di Guido Nicheli.

13 anni dalla morte di Paul Newman.

13 anni dalla morte di Heath Ledger.

10 anni dalla morte di Giorgio Bocca.

10 anni dalla morte di Amy Winehouse.

9 anni dalla morte di Marie Colvin.

9 anni dalla morte di Lucio Dalla.

9 anni dalla morte di Donna Summer.

8 anni dalla morte di Little Tony.

8 anni dalla morte di Ottavio Missoni.

6 anni dalla morte e 100 anni dalla nascita d Mario Cervi.

6 anni dalla morte di Anita Ekberg.

6 anni dalla morte di Laura Antonelli.

5 anni dalla morte di Prince.

5 anni dalla morte di Silvana Pampanini.

4 anni dalla morte di Hugh Hefner.

4 anni dalla morte di Jake La Motta.

4 anni dalla morte di Pasquale Squitieri.

4 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

3 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.

3 anni dalla morte di Fabrizio Frizzi.

3 anni dalla morte di Marina Ripa di Meana. 

3 anni dalla morte di Davide Astori.

2 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.

2 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

2 anni dalla morte di Mattia Torre.

1 anno dalla morte di Gigi Proietti.

1 anno dalla morte di Paolo Rossi.

1 anno dalla morte di Diego Maradona. 

1 anno dalla morte di Stefano D'Orazio.

1 anno dalla morte di Ezio Bosso.

1 anno dalla morte di Roberto Gervaso.

1 anno dalla morte di Ennio Morricone.   

1 anno dalla morte di Kobe Bryant.

Le Frecce Tricolori.

Chi erano Stanlio e Ollio.

I Queen.

I Beatles.

Gli ABBA.

Dire Straits.

Spice Girls.

La Notte di San Lorenzo.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Avvocato.

L’Operazione Stellantis.

John Elkann.

Lapo Elkann.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Famiglie Reali.

Lo stile dei reali inglesi.

Presagi nefasti.

La Regina Vittoria.

Elisabetta.

Filippo.

Carlo.

Diana.

William e Kate.

Harry e Meghan.

Andrea.

Sarah Ferguson.

 

INDICE TERZA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

L'Apocalisse.

La linea piatta del fine vita.

Sesto Senso: sentire i morti.

Coscioni ed il diritto a morire.

La razzia delle tombe.

La morte sociale: gli Eremiti.

La Successione.

Le morti “del cazzo”.

I Morti del 2021.

È morto l’attore James Michael Tyler.

E’ morto il rapper svedese Yasin.

Morto il grande direttore d'orchestra Bernard Haitink.

È morto il compositore Leslie Bricusse.

E’ morto il jazzista Franco Cerri.

E’ morto l'ex segretario di Stato Usa Colin Powell.

E’ morto il fumettista Robin Wood.

Morto Angelo Licheri, “l’uomo ragno” che si calò nel pozzo del Vermicino per salvare Alfredino Rampi.

È morto il pittore Achille Perilli.

E’ morto il giornalista Gianluigi Gualtieri.

E’ morto lo scienziato Abdul Qadeer Khan.

È morto l’attore Elio Pandolfi.

E’ morto il filosofo ultra comunista Salvatore Veca.

E’ morta l’attrice Luisa Mattioli.

Morto il rugbista Lucas Pierazzoli.

E’ morto il calciatore Daniel Leone.

Morto lo scrittore Antonio Debenedetti.

È morto Bernard Tapie.

E’ morto l’ex ministro Agostino Gambino.

Muore lo scrittore Takao Saito.

E’ morta la giornalista Marida Lombardo Pijola.

E’ morto l’attore Basil Hoffman.

Morto il pilota Nino Vaccarella.

E’ morto l’attore Robert Fyfe.

E’ morto il calciatore Romanino Fogli.

È morto l’attore Willie Garson.

E’ morto Carlo Vichi, il fondatore della Mivar.

Morto il compositore Sylvano Bussotti.

È morto l’inventore Clive Sinclair.

E’ morto l’ex presidente dell’Algeria Abdelaziz Bouteflika.

È morto l’editore Tullio Pironti.

Morto l’attore Art Metrano.

È morto il terrorista Abimael Guzmán.

E’ morto l’attore Carlo Alighiero. 

È morto l’attore Michael Constantine.

Morto l’attore Nino Castelnuovo.

Morto l’ex calciatore Jean-Pierre Adams.

E’ morto l’attore Michael K. Williams.

È morto l’attore Jean-Paul Belmondo.

È morta la cantante Sarah Harding.

E’ morta la giornalista Anna Cataldi.

Morto lo scrittore Daniele Del Giudice.

Morto il musicista Theodorakis. 

E' morto l’artista Paolo Ramundo.

E' morto l’ex calciatore Francesco Morini.

Morto il giornalista Gianfranco Giubilo.

Morto il cantante Lee “Scratch” Perry.

È morto l’attore Ed Asner.

E’ morto il giornalista sportivo  Mario Pennacchia.

E’ Morto Fritz McIntyre, tastierista dei Simply Red.

E’ Morto Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones.

E' morto il poeta rivoluzionario Jack Hirschman.

Morto Luca Silvestrin, storico pivot della Reyer Venezia.

È morta Nicoletta Orsomando, storica signorina buonasera.

È morto l'attore Nino D'Agata.

È morto l’atleta Albert Rienzo.

È morto l’atleta Giovanni Di Lauro.

È morto il senatore Paolo Saviane.

E’ morta la giornalista e scrittrice Gaia Servadio.

E’ morto l’avvocato Luca Petrucci.

E’ morto l’attore Sonny Chiba.

E’ morto il youtuber Omar Palermo.

E’ morto il calciatore Gerd Muller.

Morto il comico Gianfranco D'Angelo.

E’ morto il giornalista Ranieri Polese.

E’ morta l’attrice Piera Degli Esposti.

E’ morto Enzo Facciolo, il disegnatore di Diabolik.

E’ morto Gino Strada.

E’ morta Patricia Alma Hitchcock, figlia di Alfred.

E’ morto il doppiatore Giorgio Lopez.

È morto Nadir Tedeschi, ex esponente delle DC.

È morto il musicista Dennis "Dee Tee" Thomas, il leader di Kool & The Gang.

E’ morta l’editrice Laura Lepetit.

È morta «Mamma Ebe» Gigliola Giorgini.

È morto lo scrittore Antonio Pennacchi.

Morto il batterista Charles Connor.

È morta l’atleta cubana Alegna Osorio.

E’ morto Roberto Calasso, scrittore ed editore di Adelphi.

E’ morto il bassista degli ZZ top Dusty Hill.

E’ morto l’attore Jean-Francois Stevenin.

E’ Morto il cantante Gianni Nazzaro.

Morto Giuseppe De Donno, curò Covid con plasma iperimmune.

Morto l’attore Dieter Brummer.

Addio a Nicola Tranfaglia.  Storico, giornalista e politico.

E’ morta l’artista Sabrina Querci.

È morto il fisico Miguel Virasoro.

E’ morto lo scrittore Christian La Fauci.

E’ morta l’attrice Joyce MacKenzie: fu Jane in Tarzan.

È morto Kurt Westergaard, il fumettista danese della famosa vignetta su Charlie Hebdo.

E’ morto il sarto Mario Caraceni.

E’ morto il giornalista antimafia Peter de Vries.

E’ morto il fotoreporter Danish Siddiqui.

E’ morta l’ambientalista Joannah Stutchbury.

E’ morto l’attore Libero De Rienzo.

E’ morto l’ex presidente della Corte Costituzionale e dell’Antitrust Giuseppe Tesauro.

E' morto il pilota automobilistico Carlos Reutemann.

È morto il regista Richard Donner.  

Addio a Raffaella Carrà: la signora della tv.

E’ morto il regista Paolo Beldì.

È morto Donald Rumsfeld, ex segretario della Difesa USA.

E’ morto lo stilista Pino Cordella.

E’ morto il giornalista Giangavino Sulas.

E’ morto l’attore Antonio Salines.

E’ morto John McAfee, pioniere degli antivirus.

Morta la giornalista Diana De Feo, moglie di Emilio Fede.  

E’ morto l’editore Egidio Gavazzi.

E’ morto il pilota acrobatico Alex Harvill.

E' morto Paolo Armando, ex concorrente di MasterChef Italia.

E' morto Giampiero Boniperti.

Morta l’attrice Lisa Banes.

E’ morta la pornostar Dakota Skye.

E’ morto il fumettista Andrea Paggiaro in arte Tuono Pettinato.

Addio al giornalista Livio Caputo.

E’ morto l’attore Ned Beatty.

E’ morta l’atleta Paola Pigni.

E’ morto il politico e sindacalista Guglielmo Epifani.

E’ morto il cantante Michele Merlo.

E’ morto Angelo Piovano: l’uomo più tatuato d’Italia.

È morto Daniele Durante, della pizzica salentina.

E’ morto l’allenatore Loris Dominissini.

E’ morto il calciatore Seid Visin.

Morto il calciatore Silvio Francesconi.

Morto l’attore Robert Hogan.

E’ morto Amedeo Savoia d’Aosta.

È morto il regista Peter Del Monte.

E’ morto l’attore Joe Lara.

Morto l’attore Gavin MacLeod.

E’ morto l’attore Kevin Clark.

E’ morta Luciana Novaro, la più giovane étoile della Scala.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

E’ morto l'attore Paolo Calissano.  

E’ morto l’attore Renato Scarpa.

E’ morto Franco Ziliani.

E’ morta Assunta Maresca, detta Pupetta.

È morto Desmond Tutu.

E’ morto il regista e produttore Jean-Marc Vallée.

E’ morta la scrittrice Joan Didion.

È morta l’avvocato abortista Sarah Weddington

Morto il meccanico della tv Emanuele Sabatino. 

E' morta Lina Wertmuller.

Addio al giornalista Rai Demetrio Volcic.

È morto il cantante Toni Santagata.

E’ morto l’attore aborigeno David Gulpilil.

E’ morto il manager di F1 Frank Williams.

E’ morta la scrittrice Almudena Grandes

E’ morto il direttore creativo di moda Virgil Abloh.

E’ morta l’attrice Arlene Dahl.

Addio alla contessa Olghina di Robilant. 

È morto il compositore Stephen Sondheim. 

E’ morto il banchiere Ennio Doris.

Addio al cantautore Paolo Pietrangeli.

È morto lo scrittore Wilbur Smith.

E’ morto il giornalista Giampiero Galeazzi.

E’ morto il fotografo ritrattista Dino Pedriali.

È morto l’imprenditore Glen de Vries.

E’ morto l’ex presidente e premio Nobel Frederik de Klerk.

Morto il tronista Riccardo Ravalli.

E’ morto l’attore Dean Stockwell.

E’ morto il giornalista Enrico Fierro. 

E’ morto l’industriale Gianfranco Castiglioni.

E’ morto lo 007 Paolo Samoggia. 

Morto l’architetto Carlo Melograni.

È morta l’attrice Joanna Cameron.

È morto il cantante Terence Wilson.

E’ morta la stilista Federica Cavenati.

E' morta la cofondatrice di Italia Nostra Desideria Pasolini.

Morto il pasticciere Ado Campeol.

E’ morto Rossano Rubicondi.

E’ morto lo chef Alessio Madeddu.

E’ morta la modella Ivy Nicholson.

E’ morta l’attrice e doppiatrice Ludovica Modugno.

E’ morto l’industriale Renzo Salvarani.

E’ morto il sarto Ciro Paone.

E’ morta Carla Fracci.

E’ morta l’attrice Isabella De Bernardi.

E’ morto il calciatore Tarcisio Burgnich.

Morto Max Mosley, ex "Re" della Formula 1.

E’ morto l’attore René Cardona III rip.

E’ morto il calciatore Filippo Viscido.

E’ morto il fantino del Palio Andrea Mari.

E’ morto il cantautore Franco Battiato.

E’ Morto Alessandro Talotti, campione del salto in alto.

E’ morto Neil Connery rip.

E’ morto il serial killer Michel Fourniret.

E’ morta Beryl Cunningham, l’attrice, modella e cantante giamaicana.

E' morto il modello e cantante britannico Nick Kamen.

E’ morta la giornalista Rita di Giovacchino.

È morta Olympia Dukakis, premio Oscar per "Stregata dalla luna".

E’ morto il compositore Shunsuke Kikuchi.

È morto Filippo Mondelli, campione del mondo di canottaggio.

E’ morto Giulio Biasin, l'ultimo corazziere del Re.

Addio a Michael Collins, fu uno dei tre astronauti dell’Apollo 11.

E’ morta Milva.

E’ morta la star di burlesque Annie Blanche Banks.

E’ morto il regista Monte Hellman.

E’ morto il ballerino Liam Scarlett.

E’ morto lo l’inventore del pdf Charles Geschke.

E’ morta l’attrice Helen McCrory.

E’ morto l’attore Lee Aaker di Rin-Tin-Tin.

E’ morto il finanziere Bernie Madoff.

E' morto il truccatore Giannetto De Rossi.

E' morto il cartellonista cinematografico Enzo Sciotti.

E’ morto l’attore-cantante Harold Bradley.

E’ morto il regista Richard Rush.

E’ morto il filosofo Ernesto Paolozzi.

E’ morto il rugbista Marco Bollesan.

E’ morto il rugbista Massimo Cuttitta.

E’ morto il rapper Earl Simmons.

E’ morta la stilista Fiorella Mancini.

È morto il campione di pallavolo Michele Pasinato.

È morto il teologo Hans Küng.

E’ morto il Nobel economista Robert Mundell.

È morto Roland Thoeni, ex campione di sci.

E’ morto Gabriele Nobile, giornalista sportivo.

E’ morto Luca Villoresi, giornalista.

È morto il giornalista Rocco Di Blasi.

E’ morto il cantante Patrick Juvet.

E’ morto l’autore tv Enrico Vaime.

E’ morto lo sceneggiatore Larry McMurtry, rip.

E’ morto il regista Bertrand Tavernier.

E' morto l'attore George Segal.

E’ morto Moraldo Rossi, amico di Fellini.

E’ morto il musicista Pasquale Terracciano.

E’ morta la pilota Sabine Schmitz.

E’ morta Elsa Peretti, designer.

E’ morto il giornalista Mario Sarzanini.

E’ morto James Levine, direttore d'orchestra.

Addio a Ombretta Fumagalli Carulli.

E’ morto Bruno Tinti.

E’ morto Marco Bogarelli.

E’ morto l’attore Yaphet Kotto.

E’ morto Marvin Hagler.

È morto Raul Casadei.

E’ morto il fotografo Giovanni Gastel.

E’ morto il regista Marco Sciaccaluga.

E’ morta va l’attrice Isela Vega.

E’ morto Lodewijk Frederik Ottens, delle musicassette.

E’ morto Carlo Tognoli, l’ ex sindaco di Milano e ministro.

E' morto Bunny Wailer, leggenda del reggae.

È morto il dj Claudio Coccoluto.

Si è ucciso Antonio Catricalà.

E’ morto Lawrence Ferlinghetti, poeta della Beat Generation.

E’ morto il sociologo Franco Cassano.

E’ morta la giornalista Fiammetta La Guidara.

E’ morto il regista Giancarlo Santi.

E’ morto Fausto Gresini.

E’ morto l’attore Sandro Dori.

E’ morto il paroliere Luigi Albertelli.

E’ morto Mauro Bellugi.

E' morto lo scultore Arturo Di Modica.

E’ morto Gianni Corsolini, uno dei padri fondatori del basket in Italia.

E’ morto l'attore e doppiatore Claudio Sorrentino.

E’ morto l’attore Reginald Bernie Lewis.

E’ morto Johnny Pacheco, il musicista.

Morto l'ex presidente dell'Argentina Carlos Menem.

E’ morto Erriquez, il frontman della Bandabardò.

E’ morto Marco Dimitri dei “Bambini di Satana”.

E’ morto Maurizio Liverani.

E’ morto il critico musicale Paolo Isotta.

È morto Chick Corea, leggenda del jazz.

E’ morto il re del porno Larry Flynt.

E’ morto il politico George Shultz.

E’ morto lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière.

E’ morta la cantante Mary Wilson.

E’ morto l’ex presidente del Senato Franco Marini.

E’ morto Giuseppe Rotunno.

E’ morto Leon Spinks.

E’ morta l’attrice Haya Harareet.

Addio all’artista Felice Botta.

E’ morto l’attore Christopher Plummer.

È morta Tiana Tola, campionessa italiana di Judo.

E’ morta Nori Corbucci, moglie del grande regista Sergio.

E’ morto l’investigatore privato Jack Palladino.

E' morto l’attore Dustin Diamond.

E’ morta l’attrice Cicely Tyson.

E’ morta l’attrice Cloris Leachman.

Morto Francesco Cavallari.

E’ morto Michele Fusco.

E’ morto il produttore Alberto Grimaldi.

E’ morto Rémy Julienne. il più grande cascatore del mondo.

E’ morto Walter Bernstein, leggendario sceneggiatore americano.

È scomparso il re dei cristalli, Gernot Langes-Swarovski.

E' morto Larry King.

Morto l’attore Roberto Brivio dei “Gufi”.

E’ morta Francine Canovas, ossia: Nathalie Delon.

E’ morto l’alpinista Cesare Maestri.

Morto Emanuele Macaluso.

E’ morto lo storico produttore musicale Phil Spector.

E’ morto il ballerino di tango Juan Carlos Copes.

E’ morto il pianista/raider Adriano Urso.

È morto il senatore Romano Misserville.

E’ morto l’attore Antonio Sabato.

E’ morto il giornalista Giuseppe Turani.

E’ morto il sensitivo Paolo Bucinelli, in arte Solange.

E' morta l’attrice Tanya Roberts?

E’ morto Ernesto Gismondi.

 

 

 

 

 

LA SOCIETA’

QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

E’ morto l'attore Paolo Calissano.  

(ANSA il 31 dicembre 2021) - L'attore Paolo Calissano, trovato morto in casa nella tarda serata di ieri a Roma, era probabilmente deceduto da almeno un paio di giorni. E' quanto si ipotizza dopo i primi accertamenti. Sarà comunque l'autopsia a stabilirlo con esattezza. L'esame autoptico, che verrà effettuato al Gemelli, chiarirà anche le cause della morte. Al momento gli investigatori ipotizzano un abuso di psicofarmaci. I carabinieri, intervenuti sul posto, ne hanno trovate in casa diverse scatole.

Calissano: D'Urso, le tue fragilità hanno preso il sopravvento. (ANSA il 31 dicembre 2021) - "Ciao Paolo… Abbiamo lavorato tanti mesi insieme… Poi le tue fragilità hanno preso il sopravvento e ti sei perso… Nei miei ricordi sei il ragazzone gentile che sul set aveva sempre un sorriso per tutti #dottoressagio". Barbara D'Urso ricorda così su Twitter Paolo Calissano, l'attore trovato morto in casa a Roma nella tarda serata di ieri, con cui aveva condiviso il set della fiction 'La dottoressa Giò'. La conduttrice aveva ospitato l'attore nel 2014 a Domenica Live: nell'intervista, Calissano aveva raccontato la sua vita complicata e la sua voglia di riscatto. 

L'attore Paolo Calissano "era morto da giorni". AGI il 31 dicembre 2021.  E' stato trovato morto nella sua casa a Roma l'attore genovese Paolo Calissano, celebre volto soprattutto in serie tv di successo negli anni '90-2000, dalla 'Dottoressa Gio'' a 'Linda e il Brigadiere', fino a 'Vivere'. Secondo quanto si apprende, in casa sono state ritrovate, sia in flaconi che sparse per terra, numerose pillole di psicofarmaci. Gli inquirenti ipotizzano che il decesso sia dovuto a un'overdose di farmaci, ancora da accertare se fortuita o volontaria.

Calissano, 54 anni, era finito coinvolto nel 2005 in una drammatica vicenda di droga: una donna brasiliana morta nell'appartamento dell'attore a Genova per un'overdose di cocaina. Calissano era stato arrestato con l'accusa di averle ceduto la droga, venendo condannato a quattro anni di reclusione. Nel 2008 era di nuovo finito sulle pagine dei giornali per un incidente stradale a seguito del quale era stato trovato positivo alla cocaina.

Figlio di un ufficiale dell'aeronautica militare e di una nobile, Mercedes Galeotti dè Teasti dei conti di Mantova, Calissano inizia a lavorare negli anni '80 in uno spot televisivo, per poi perfezionare la tecnica di recitazione nel 1990 alla School of Arts dell'Università di Boston. Dopo alcune esperienze d'attore di fotoromanzi debutta nel cinema e in televisione. L'esperienza professionale cinematografica è molto ricca. In televisione lavora per diversi programmi, quali Giochi senza frontiere (1993-1994) per la TSI e Divieto d'entrata su Rete 4, insieme a Natalia Estrada.

Nel 1995-1996 è su Italia 1 al fianco di Samantha de Grenet, con il programma di video amatoriali 8 mm. è noto per aver recitato nelle due stagioni della serie televisiva La dottoressa Gio', nella miniserie televisiva Per amore, nella soap opera Vivere, e nelle due stagioni della serie televisiva Vento di ponente. Nel 2000 è stato protagonista del videoclip Mi amor di Ivana Spagna. Nel 2004 ha partecipato al reality show L'isola dei famosi, ma ha abbandonato volontariamente il programma prima del tempo a causa di un infortunio al ginocchio.

Dopo il tragico caso del 2005 che lo vede coinvolto, la morte in casa sua della brasiliana Ana Lucia Bandeira Bezerra per un'overdose di cocaina, l'attore viene condannato a 4 anni, che sconta nella Comunità per tossicodipendenti "Fermata d'Autobus" di Trofarello. Libero grazie all'indulto nel 2007, ritorna a recitare, debuttando al Teatro Brancaccio di Roma con il musical A un passo dal sogno, scritto da Maurizio Costanzo ed Enrico Vaime e ispirato dal romanzo di Chicco Sfondrini e Luca Zanforlin, ma la sua partecipazione viene interrotta improvvisamente nel febbraio del 2008 per un malessere. 

Nel 2014 ritorna in televisione dopo quattro anni in occasione di un'intervista di Barbara D'Urso durante il programma Pomeriggio Cinque. Nel 2008 torna sulle pagine di cronaca dopo un incidente automobilistico. Viene ricoverato nella divisione psichiatrica dell'ospedale San Martino di Genova con sintomi quali sudorazione fredda e dolore al petto. I primi accertamenti tossicologici evidenziano ancora tracce di cocaina nel suo organismo. Dai test clinici svolti nei giorni successivi emerge che Calissano era giunto in ospedale in stato di alterazione psicofisica per uso di allucinogeni ed era in possesso di una modica quantità di cocaina. 

Paolo Calissano morto a Roma: «L’attore ucciso da un mix di farmaci». Rinaldo Frignani e Fabio Postiglione su Il Corriere della Sera il 31 dicembre 2021. L’allarme lanciato dalla compagna. Accertamenti ancora in corso. L’attore, 54 anni, nato a Genova, aveva lavorato in numerose fiction televisive. Aveva precedenti per droga. È stato trovato senza vita disteso sul letto del suo appartamento alla Balduina a Roma. Sul comodino aveva due scatole di psicofarmaci. Le pillole erano a terra, altre sparse in cucina. L’ex attore Paolo Calissano, 54 anni, era morto da due giorni, probabilmente per un mix letale di quei farmaci che assumeva a causa di una forte depressione per la quale era in cura da mesi. È questa l’ipotesi sulla quale stanno lavorando i carabinieri che ritengono che Calissano possa aver assunto volontariamente i medicinali ed essersi tolto la vita.

Sul corpo non ci sono segni evidenti di violenza e la casa era in ordine. A dare l’allarme è stata la compagna che non avendo sue notizie, preoccupata, ha avvisato le forze dell’ordine. Calissano non rispondeva al cellulare, che dopo alcune ore ha anche smesso di suonare. In casa sembrava non esserci nulla fuori posto: finestre sbarrate, porta chiusa a doppia mandata, non aveva lasciato tracce, non aveva avvisato amici, parenti. Nessun messaggio, neanche una telefonata. Nessuno lo sentiva da diversi giorni. La compagna ha provato a contattarlo tutta la giornata senza riuscirci. Ieri notte dopo le 23 la tragica scoperta. Per Calissano non c’è stato nulla da fare.

La salma è stata sequestrata ed è stata disposta l’autopsia che chiarirà le cause della morte. L’ex attore era caduto in rovina dopo le vicende giudiziarie che lo hanno travolto nel 2005 quando fu arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti e per la morte di una ballerina brasiliana di 31 anni, madre di due figli, stroncata da un infarto dopo l’assunzione di una dose di cocaina presa nella casa dell’attore, che all’epoca dei fatti viveva a Genova.

Chi era Paolo Calissano. L’attore era molto amato dal pubblico femminile. Una laurea in Economia alla Boston University, ha avuto numerose esperienze cinematografiche, tra cui una parte in «Palermo-Milano solo andata». Il successo è arrivato però grazie alla fiction tv. Ha partecipato infatti alla serie americana «General Hospital» e poi ha recitato nella serie «La dottoressa Giò» con Barbara D’Urso su Retequattro. Poi la partecipazione alla soap opera «Vivere», in onda su Canale 5, lo ha consacrato al grande pubblico fino ad arrivare all’«Isola dei famosi».

Paolo Calissano: gli esordi, l’arresto, la fidanzata e l’incontro con Matilde Brandi. Chi era il celebre volto tv. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 31 dicembre 2021. Figlio di un ufficiale dell’aeronautica militare e di una nobile, l’attore aveva esordito in uno spot televisivo. Poi gli studi di perfezionamento in recitazione alla School of Arts di Boston.  

Era morto da almeno due giorni l’attore genovese Paolo Calissano , trovato senza vita nel suo appartamento nel quartiere romano della Balduina. 

Paolo Calissano, 54 anni, era un volto celebre di serie tv di successo negli anni ‘90-2000, dalla «Dottoressa Giò» a «Linda e il Brigadiere», fino a «Vivere», ma anche finito alla ribalta della cronaca per vicende di droga e per gli amori turbolenti.

La carriera e la famiglia

Figlio di un ufficiale dell’aeronautica militare e di una nobile, Mercedes Galeotti de’ Teasti dei conti di Mantova, Calissano ha un fratello maggiore di nome Roberto. L’attore inizia a lavorare negli anni ‘80 in uno spot televisivo, per poi perfezionare la tecnica di recitazione nel 1990 alla School of Arts dell’Università di Boston. Dopo alcune esperienze nei fotoromanzi, debutta nel cinema e in televisione. L’esperienza professionale cinematografica è molto ricca. In televisione lavora per diversi programmi, su tutti «Giochi senza frontiere» (1993-1994) per la TSI e «Divieto d’entrata» su Rete 4, insieme a Natalia Estrada. Nel 1995-1996 è su Italia 1 al fianco di Samantha de Grenet, con il programma di video amatoriali 8 mm. Calissano è noto per aver recitato nelle due stagioni della serie televisiva «La dottoressa Giò», nella miniserie televisiva «Per amore», nella soap opera «Vivere» (dove interpretava il personaggio di Bruno De Carolis) , e nelle due stagioni della serie televisiva «Vento di ponente» ambientata nella sua Liguria.

Gli anni Duemila

Nel 2000 è stato protagonista del videoclip «Mi amor» di Ivana Spagna. Nel 2004 ha partecipato al reality show «L’isola dei famosi», ma ha abbandonato volontariamente il programma prima del tempo a causa di un infortunio al ginocchio. Dopo il tragico caso del 2005 che lo vede coinvolto, la morte in casa sua della brasiliana Ana Lucia Bandeira Bezerra per un’overdose di cocaina , l’attore viene condannato a 4 anni, che sconta nella Comunità per tossicodipendenti «Fermata d’Autobus» di Trofarello. Libero grazie all’indulto nel 2007, ritorna a recitare, debuttando al Teatro Brancaccio di Roma con il musical «A un passo dal sogno», scritto da Maurizio Costanzo ed Enrico Vaime e ispirato dal romanzo di Chicco Sfondrini e Luca Zanforlin, ma la sua partecipazione viene interrotta improvvisamente nel febbraio del 2008 per un malessere. Nel 2014 ritorna in televisione dopo quattro anni in occasione di un’intervista di Barbara D’Urso durante il programma «Pomeriggio Cinque». Nel 2008 era tornato sulle pagine di cronaca dopo un incidente automobilistico a seguito del quale venne ricoverato nella divisione psichiatrica dell’ospedale San Martino di Genova con sudorazione fredda e dolore al petto dovuti all’uso di cocaina.

Gli amori e la fidanzata Fabiana Palese

La storia d’amore più nota di Paolo Calissano è quella con Matilde Brandi, la soubrette e ballerina alla quale fu legato nel 2002. Quando si incontrarono lei era la prima ballerina nello show di Panariello «Torno Sabato» ed era, come Calissano, già impegnata (con Mirko Sandoni, mentre Calissano frequentava la modella Giulia Salvemini): decisero di lasciare i rispettivi partner per vivere liberamente il loro amore. Una storia tormentata durata poco più di un anno. Calissano aveva avuto poi altri amori più o meno inquieti. L'ultimo legame con Fabiana Palese, nata nel 1978, che gestisce un B&B – Fabiola’s Home – situato nel Quartiere Prati, a due passi da Piazza San Pietro. Su Instagram, in occasione dell’ultimo compleanno dell’attore lo scorso 18 febbraio Fabiana aveva scritto: «Felice 54° compleanno… L’uomo che mi è stato accanto per tanti e difficili anni, con cui ho condiviso gioie e dolori e che oggi è il mio migliore amico… ti auguro tutto ciò che desidera il tuo cuore… perché te lo meriti tanto». Appreso della morte di Calissano, sui social Palese ha inveito contro il clamore mediatico suscitato dalla scomparsa del compagno: «Lasciatelo in pace almeno adesso!».

L'attore Paolo Calissano trovato morto in casa a Roma: "Ucciso da overdose di psicofarmaci". La Repubblica il 31 dicembre 2021. Genovese, aveva 54 anni. Gli inquirenti hanno trovato diverse confezioni di medicinali. Secondo i primi accertamenti il decesso risale a due giorni prima del ritrovamento.  E' stato trovato morto nella sua casa a Roma l'attore genovese Paolo Calissano, volto celebre delle fiction di successo negli anni '90-2000, dalla 'Dottoressa Gio" a 'Linda e il Brigadiere', a 'Vivere'. Secondo le prime informazioni circolate, nell'abitazione nel quartiere Balduina, sono state ritrovate diverse confezioni di medicinali, psicofarmaci che l'attore assumeva. Le pillole erano in camera, sul comodino accanto al letto, per terra e anche sparse n cucina. Gli inquirenti ipotizzano che il decesso sia dovuto a un'overdose di farmaci, ancora da accertare se fortuita o volontaria. Secondo i primi accertamenti, risalirebbe a due giorni prima del ritrovamento.

Il corpo senza vita del popolare attore è stato trovato dopo le 23 dalle forze dell'ordine, arrivate dopo una segnalazione al 112, pare della compagna. Nessun segno di effrazione o violenza sul corpo. La casa sembrava in ordine. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e il medico legale. Sarà l'autopsia ad accertare con esattezza le cause della morte. La salma è stata portata all'obitorio del Gemelli per un'ispezione cadaverica.

Calissano, 54 anni, era stato coinvolto nel 2005 in una drammatica vicenda di droga: una donna, Ana Lucia Bandeira, ballerina brasiliana madre di due figli, morì nell'appartamento dell'attore a Genova per un'overdose di cocaina. Calissano era stato arrestato con l'accusa di averle ceduto la droga, e fu condannato a quattro anni di reclusione. Nel 2008 era di nuovo finito sulle pagine dei giornali per un incidente stradale a seguito del quale era stato trovato positivo alla cocaina.

Paolo Calissano era nato a Genova il 18 febbraio 1967. Figlio di un ufficiale dell'aeronautica militare e di una nobile, Mercedes Galeotti de' Teasti dei conti di Mantova, aveva iniziato a lavorare negli anni '80 in uno spot televisivo, per poi perfezionare la tecnica di recitazione nel '90 alla School of Arts dell'Università di Boston. Dopo alcune esperienze con i fotoromanzi debuttò nel cinema ("Palermo-Milano solo andata") e in televisione. Diventò popolare grazie alle fiction: la serie americana 'General Hospital', "La dottoressa Gio" con Barbara D'Urso, le soap opera italiane "Vivere" e "Vento di ponente", girata proprio nella sua città. Nel 2004 partecipò anche alla seconda edizione dell'"Isola dei famosi", ritirandosi però a causa di un infortunio al ginocchio.

Negli ultimi anni il suo nome è stato legato ai fatti di cronaca. Per la morte di Ana Lucia Bandeira, l'attore scontò la condanna nella Comunità per tossicodipendenti "Fermata d'Autobus" di Trofarello. Libero grazie all'indulto nel 2007, tornò a recitare al Teatro Brancaccio di Roma nel musical "A un passo dal sogno", che lasciò per motivi di salute. Poi incidente automobilistico e ancora la cocaina, della quale in seguito Calissano parlò in diverse occasioni, raccontando il suo tormento e la voglia di riscatto.

Trovato morto in casa l'attore Paolo Calissano: "Ucciso da un mix di psicofarmaci". Valentina Dardari il 31 Dicembre 2021 su Il Giornale. Nell’abitazione sono state rinvenute diverse pillole di psicofarmaci. Il 54enne soffriva di depressione. L’attore genovese Paolo Calissano è stato trovato morto nella sua abitazione romana alla Balduina. Il corpo senza vita del celebre volto televisivo era disteso sul letto e sul comodino c’erano due scatole di psicofarmaci. Diverse pillole erano anche per terra, mentre altre erano sparse in cucina. La causa della morte, ancora da accertare, è stata probabilmente un mix letale di farmaci che l’attore assumeva per curare una forte depressione. Calissano era infatti in cura da mesi. Al momento sarebbe questa l’ipotesi più accreditata sulla quale stanno indagando gli investigatori. Non si esclude un gesto volontario estremo.

Calissano soffriva di depressione

Da quanto emerso fino a questo momento i carabinieri non hanno rinvenuto segni evidenti di lotta sul corpo e l’abitazione era in ordine. A chiamare le forze dell’ordine è stata la fidanzata di Calissano preoccupata perché non era riuscita per tutta la giornata a mettersi in contatto con il compagno. Il cellulare del 54enne che prima suonava a vuoto, improvvisamente aveva smesso di squillare, probabilmente si era scaricata la batteria. Nessun biglietto sarebbe stato trovato sul luogo del decesso e l’attore non aveva telefonato a conoscenti prima di morire. Erano giorni che non aveva contatti con amici o parenti. Il corpo senza vita di Calissano è stato scoperto nella tarda serata di ieri, giovedì 30 dicembre, verso le 23, ma ormai non vi era più nulla da fare. La salma è stata sequestrata e solo l’esame autoptico potrà dare delle risposte certe sull’orario e la causa della morte.

Una vita segnata dalla droga

Il celebre volto di molte serie tv di successo risalenti alla fine degli anni ‘90, dalla 'Dottoressa Giò’ a 'Linda e il Brigadiere’, fino a ‘Vivere’, nel 2005 era stato coinvolto in una tragica vicenda di droga: una donna brasiliana di 31 anni era infatti morta per overdose di cocaina nell'appartamento genovese dell'attore. Calissano era stato arrestato con l'accusa di averle ceduto la droga ed era stato condannato a quattro anni di reclusione. Nel 2008 era nuovamente finito sulle pagine dei giornali per un incidente stradale a seguito del quale era stato trovato positivo alla cocaina. Il 54enne, che era figlio di un ufficiale dell'aeronautica militare e di una nobile, Mercedes Galeotti dè Teasti dei conti di Mantova, aveva iniziato a lavorare negli anni '80 in uno spot televisivo, per poi perfezionare la tecnica di recitazione nel 1990 alla School of Arts dell'Università di Boston. Dopo alcune esperienze come attore di fotoromanzi aveva debuttato nel cinema e in televisione. Aveva anche conseguito una laurea in Economia alla Boston University.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Paolo Calissano, morto da giorni. "Corpo in decomposizione", come lo hanno ritrovato. Libero Quotidiano il 31 dicembre 2021. Paolo Calissano, trovato senza vita nel suo appartamento nel quartiere romano della Balduina, era morto da almeno due giorni. Il cadavere era infatti in stato di decomposizione, secondo quanto riportano le agenzie di stampa citando fonti investigative. A uccidere l'attore genovese, 54 anni, celebre volto di molte serie tv di successo negli anni '90-2000 - dalla Dottoressa Gio a Linda e il Brigadiere fino a Vivere - potrebbe essere stato un mix letale di psicofarmaci che assumeva per combattere la depressione. Sulla vicenda indagano i carabinieri di Medaglie d'oro, coordinati dalla procura di Roma.

Calissano, che aveva 54 anni, è stato trovato senza vita nel suo letto. I carabinieri, chiamati dopo la segnalazione della sua compagna che non riusciva a mettersi in contatto con lui, hanno rinvenuto delle scatolette di psicofarmaci sul comodino. Dai primi accertamenti il decesso sarebbe avvenuto proprio per un abuso di medicinali. Indagini dei carabinieri sono in corso e non è ancora chiaro se la morte sia avvenuta o meno per un gesto volontario dell'attore. La salma è stata quindi portata all'obitorio del Policlinico Gemelli di Roma per effettuare una ispezione cadaverica. Sul posto sono intervenuti anche i carabinieri del Nucleo investigativo di Roma per tutti i rilievi del caso. 

Paolo Calissano trovato morto in casa. Roma, choc nella notte: la tragica parabola del divo tv. Libero Quotidiano il 31 dicembre 2021. Paolo Calissano, attore di molte fiction, è stato trovato morto in casa nella tarda serata di ieri 30 dicembre nel sua casa nel quartiere Balduina a Roma. I carabinieri della stazione Medaglie d'Oro e i sanitari del 118 sono intervenuti nella casa dell'attore, dopo una segnalazione arrivata al 112, probabilmente della sua compagna. 

Calissano, che aveva 54 anni, è stato trovato senza vita nel suo letto. I carabinieri hanno rinvenuto delle scatolette di psicofarmaci. Dai primi accertamenti il decesso sarebbe avvenuto proprio per un abuso di psicofarmaci. Indagini dei carabinieri sono in corso e non è ancora chiaro se la morte sia avvenuta o meno per un gesto volontario. La salma è stata portata all'obitorio del Policlinico Gemelli per un'ispezione cadaverica. Sul posto sono intervenuti anche i carabinieri del Nucleo investigativo di Roma per i rilievi.

Figlio di un ufficiale dell'aeronautica militare e di una nobile, Mercedes Galeotti de' Teasti dei conti di Mantova, Calissano inizia a lavorare negli anni '80 in uno spot televisivo, per poi perfezionare la tecnica di recitazione nel 1990 alla School of Arts dell'Università di Boston. Dopo alcune esperienze d'attore di fotoromanzi debutta nel cinema e in televisione. L'esperienza professionale cinematografica è molto ricca. In televisione lavora per diversi programmi, quali Giochi senza frontiere (1993-1994) per la TSI e Divieto d'entrata su Rete 4, insieme a Natalia Estrada. Nel 1995-1996 e' su Italia 1 al fianco di Samantha de Grenet, con il programma di video amatoriali 8 mm. E' noto per aver recitato nelle due stagioni della serie televisiva La dottoressa Giò nella miniserie televisiva Per amore, nella soap opera Vivere, e nelle due stagioni della serie televisiva Vento di ponente. Nel 2000 è stato protagonista del videoclip Mi amor di Ivana Spagna. Nel 2004 ha partecipato al reality show L'isola dei famosi, ma ha abbandonato volontariamente il programma prima del tempo a causa di un infortunio al ginocchio. Dopo il tragico caso del 2005 che lo vede coinvolto, la morte in casa sua della brasiliana Ana Lucia Bandeira Bezerra per un'overdose di cocaina, l'attore viene condannato a 4 anni, che sconta nella Comunità per tossicodipendenti "Fermata d'Autobus" di Trofarello.

Libero grazie all'indulto nel 2007, ritorna a recitare, debuttando al Teatro Brancaccio di Roma con il musical A un passo dal sogno, scritto da Maurizio Costanzo ed Enrico Vaime e ispirato dal romanzo di Chicco Sfondrini e Luca Zanforlin, ma la sua partecipazione viene interrotta improvvisamente nel febbraio del 2008 per un malessere. Nel 2014 ritorna in televisione dopo quattro anni in occasione di un'intervista di Barbara D'Urso durante il programma Pomeriggio Cinque. Nel 2008 torna sulle pagine di cronaca dopo un incidente automobilistico. Viene ricoverato nella divisione psichiatrica dell'ospedale San Martino di Genova con sintomi quali sudorazione fredda e dolore al petto. I primi accertamenti tossicologici evidenziano ancora tracce di cocaina nel suo organismo. Dai test clinici svolti nei giorni successivi emerge che Calissano era giunto in ospedale in stato di alterazione psicofisica per uso di allucinogeni ed era in possesso di una modica quantità di cocaina. 

Paolo Calissano morto, "che cosa lo ha ucciso". Un dramma privato. Libero Quotidiano il 31 dicembre 2021. Era caduto in disgrazia nel 2005, Paolo Calissano, quando rimane coinvolto in una drammatica vicenda di droga: una ballerina brasiliana, madre di due figli, Ana Lucia Bandeira Bezerra, muore infatti nell'appartamento dell'attore a Genova per un'overdose di cocaina. Calissano viene arrestato con l'accusa di averle ceduto la droga, venendo condannato a quattro anni di reclusione. Libero grazie all'indulto nel 2007, nel 2008 finisce di nuovo sulle pagine dei giornali per un incidente stradale a seguito del quale viene trovato positivo alla cocaina. Viene ricoverato nella divisione psichiatrica dell'ospedale San Martino di Genova con sintomi quali sudorazione fredda e dolore al petto. I primi accertamenti tossicologici evidenziano ancora tracce di cocaina nel suo organismo. Dai test clinici svolti nei giorni successivi emerge che Calissano era giunto in ospedale in stato di alterazione psicofisica per uso di allucinogeni ed era in possesso di una modica quantità di cocaina.  

L'attore genovese è morto probabilmente per un mix letale di psicofarmaci che assumeva per curare una forte depressione per cui era in cura da mesi. È questa l'ipotesi sulla quale stanno lavorando i carabinieri, secondo quanto riporta il Corriere della Sera. Si pensa che Calissano possa aver assunto volontariamente una dose massiccia di medicinali per togliersi la vita. Sul suo corpo non sono stati riscontrati segni evidenti di violenza. L'attore non ha lasciato alcun messaggio. 

L'attore probabilmente era deceduto da un paio di giorni. Chi è la compagna di Paolo Calissano, Fabiola Palese e lo sfogo sui social: “Sciacalli, lasciatelo in pace”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. Sono ore di grande dolore per amici, parenti e fan di Paolo Calissano, 54 anni, l’attore trovato morto nel suo appartamento romano. A far scattare l’allarme è stata la compagna. Aveva provato più volte a contattarlo al telefono ma senza riuscire a parlare con lui. Nessuno aveva più sue notizie da giorni e così ha allertato i carabinieri. Poi, intorno alle 23 la terribile scoperta del corpo senza vita dell’attore disteso sul letto. Secondo le prime ipotesi. Calissano avrebbe assunto un mix letale di psicofarmaci.

Nella notte la notizia è diventata pubblica e per Fabiola Palese, compagna o ex dell’attore, al dolore per la perdita si è unita anche la rabbia: “Siete degli sciacalli, lasciatelo in pace almeno adesso”, ha scritto su Instagram. Estetista, 43enne, secondo quanto riportato dall’Agi, sarebbe l’ultima compagna di Calissano che da qualche tempo era completamente scomparso dai radar. Potrebbe essere lei la donna che ha fatto scattare l’allarme.

Su Instagram da tempo la donna non pubblicava foto con Calissano ma i due erano ancora legati. Lo scorso 18 febbraio aveva fatto gli auguri a Calissano per il suo compleanno definendolo “l’uomo che mi è stato accanto per tanti e difficili anni, con cui ho condiviso gioie e dolori e che oggi è il mio migliore amico”. “Ti auguro tutto ciò che desidera il tuo cuore perchè te lo meriti tanto”, aveva aggiunto Fabiola.

L’attore Paolo Calissano, trovato morto in casa nella tarda serata di ieri a Roma, era probabilmente deceduto da almeno un paio di giorni. È quanto si ipotizza dopo i primi accertamenti. Sarà comunque l’autopsia a stabilirlo con esattezza. L’esame autoptico, che verrà effettuato al Gemelli, chiarirà anche le cause della morte. Al momento gli investigatori ipotizzano un abuso di psicofarmaci. I carabinieri, intervenuti sul posto, ne hanno trovate in casa diverse scatole.

Intanto sui social in tanti ricordano l’attore tanto amato soprattutto dal pubblico femminile. Famoso per la sua partecipazione a diverse soap opera come “Vivere” e “La dottoressa Giò” aveva preso parte anche a “L’Isola dei famosi”. Poi era svanito nel nulla. Dopo la notizia della sua morte sono tanti i fan che lo hanno ricordato con affetto.

Tra questi anche Barbara D’Urso. “Ciao Paolo… Abbiamo lavorato tanti mesi insieme… Poi le tue fragilità hanno preso il sopravvento e ti sei perso… Nei miei ricordi sei il ragazzone gentile che sul set aveva sempre un sorriso per tutti #dottoressagio”. La show girl ricorda così su Twitter Paolo Calissano con cui aveva condiviso il set della fiction ‘La dottoressa Gio”. La conduttrice aveva ospitato l’attore nel 2014 a Domenica Live: nell’intervista, Calissano aveva raccontato la sua vita complicata e la sua voglia di riscatto.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi. 

·        E’ morto l’attore Renato Scarpa.

Marco Giusti per Dagospia il 30 dicembre 2021. L’ultima volta che avevo visto, anzi intravisto Renato Scarpa, scomparso improvvisamente oggi a 83 anni, fu alla mega-reunion di un anno fa al Palo della Morte, anzi ar Palo della Morte, assieme a Carlo Verdone per ricordare il primo film cultissimo film di Carlo, “Un sacco bello”, dove lui e Renato, nel ruolo dell’amico Sergio, si dovevano vedere per andare a rimorchiare all’Est.

Inutile dire che Sergio si sente subito male, e invece che all’Est finisce al Fatebenefratelli tra i portantini coatti. Devo dire che quel giorno, ar Palo della Morte, evento voluto e costruito da Christian Raimo, tra caldo e Covid, fu un bel rischioso bagno di folla, ma anche d’affetto vero, alla faccia del Covid, del pubblico romano sia per Carlo che per Renato.

Che fu tra i pochi in grado di reggere l’impatto dei nuovi grandi capocomici degli anni ’80, da Verdone al Troisi di “Ricomincio da tre” e de “Il postino”, ma anche del più serioso e drammatico Nanni Moretti, che ha incontrato tardi, con “La stanza del figlio” e poi con “Habemus Papam”, dove è in pratica il coprotagonista di Michel Piccoli, e “Mia madre”. 

Ma oltre a saper reggere l’impatto con un partner forte come Verdone o Troisi, Renato Scarpa sapeva rispondere a qualsiasi situazione con una umanità, un calore, un’umiltà che pochi attori pur considerati maggiori e superpremiati, a differenza sua, possiedono. 

Una umanità e un’umiltà che aveva anche nella vita, e che lo ha premiato con qualcosa come 160 titoli, tra film e tv, titoli anche importanti e internazionali, dove la sua partecipazione non è mai stata banale o facile. 

Del resto era tra i pochissimi attori considerati alti o drammatici, capaci di passare dai film dei Fratelli Taviani, Marco Bellocchio, Giuliano Montaldo, Liliana Cavani o da serissimi ruoli di prete, frate, cardinale, persino Papa, farmacista, medico, psichiatra a partner dei nostri Nuovi Comici degli anni ’80, perfino dei primi Giancattivi o di Jerry Calà. Nonché presenza fissa dei film all-neapolitans di Luciano De Crescenzo come milanese doc nel ruolo del Dottor Cazzaniga.

Nato a Milano nel 1939, inizia il cinema a trent’anni con film forti come “Sotto il segno dello scorpione” dei Taviani a fianco di Gian Maria Volonté, seguito poi da “Nel nome del padre” di Bellocchio nel ruolo di padre Corazza, “San Michele aveva un gallo” dei Taviani come Battistrada, “Giordano Bruno” di Montaldo come Frate Tragagliolo. 

Interrompe la catena di preti e frati il ruolo da ispettore nel bellissimo horror di Nicolaes Roeg “A Venezia un dicembre rosso shocking”. Non bello, non particolarmente caratteristico, gira di tutto, dal dottore della fabbrica in “Delitto d’amore” di Luigi Comencini al farmacista di “La poliziotta” di Steno con Mariangela Melato a poliziotto in “Piedone a Hong Kong” di Steno a fianco di Bud Spencer e Cannavale.

Passa da un ruolo minore, il fratello di Erode ne “Il Messia” di Roberto Rossellini a protagonista, in un ruolo da bello, in “I giorni della chimera” di Franco Corona, tipico, tristissimo esordio da film italiano dell’Italnoleggio, che non gli cambia certo la vita. 

Meglio trovarlo come professor Verdegast in “Suspiria” di Dario Argento, uno dei pochi ruoli maschili, o in “Un borghese piccolo, piccolo” di Mario Monicelli o “Al di là del bene e del male” della Cavani.

Le cose cambiano quando lo vediamo a fianco di Carlo Verdone in un episodio di “Un sacco bello” nel 1980 e subito dopo come Robertino a fianco di Massimo Troisi in “Ricomincio da tre”. A quel punto lo troviamo in tutti i film dei nuovi comici, da “Ad ovest di Paperino” di Alessandro Benvenuti a “Vado a vivere da solo” di Marco Risi con Jerry Calà. E con “Così parlò Bellavista” inizia il suo legame nei film di Luciano De Crescenzo come il “milanese” dottor Cazzanuga.

Un percorso che lo porterà a “Il postino”, il suo capolavoro da attore, perché riesce a risolvere tutte le scene di un Troisi già malato con una classe e un’amicizia davvero rari. Nel 2000, dopo tanta tv, lo chiama Nanni Moretti per “La stanza del figlio”, ma è come cardinale in “Habemus Papam” che avrà il suo ruolo migliore. Lo troveremo anche in “Diaz” di Daniele Vicari, dove ha un grosso ruolo di testimone della mattanza della polizia, mentre nel televisivo “Trilussa” arriverà a interpretare Papa Pio XI. Attivo fino a pochissimo, lo abbiamo visto in “Rocco Schiavone”, ma anche nella recente commedia di Paolo Costella “Per tutta la vita” e in quello che dovrebbe essere il suo ultimo film, “After the War” di Gavin J. Chalcraft con Giancarlo Giannini.

 Da leggo.it il 30 dicembre 2021. E' morto Renato Scarpa, l'attore entrato nel cuore degli italiani interpretando il ruolo di Sergio, l'amico di Verdone in "Un sacco bello", restio a partire con il protagonista per le vacanze di ferragosto improvvisate in Polonia. Ad annunciarlo è stato il Messaggero. Secondo quanto scrive il quotidiano romano "Renato Scarpa è morto nella sua casa a Roma, nel quartiere Monteverde".

Scarpa era un attore caratterista, aveva esordito sul grande schermo alla fine degli anni '70; con Trooisi aveva recitato nel ruolo di Robertino nel film "Ricomincio da tre". 

Da quanto ricostruito Scarpa si è sentito male nel primo pomeriggio; i familiari hanno chiamato subito un'ambulanza del 118. Sul posto sono arrivati anche i carabinieri. La morte è attribuita a cause naturali.

La carriera di Scarpa, però, non è riducibile a due - seppur importanti - film. Nella sua carriera ha lavorato in tantissimi film apprezzatissimi  e con molti registi importanti.

È il severo padre Corazza nel grottesco Nel nome del padre (1972) di Marco Bellocchio, l'inflessibile padre domenicano Alberto Tragagliolo nel Giordano Bruno di Giuliano Montaldo (1973), il misterioso professor Verdegast nell'inquietante Suspiria (1977) di Dario Argento, il direttore dell’ufficio postale superiore e amico del protagonista ne Il postino (l'ultimo film di Troisi) di Michael Radford; il prete alle prese con la quotidianità nell'agrodolce Ad ovest di Paperino (1982) di Alessandro Benvenuti, il dottor Cazzaniga in Così parlò Bellavista (1984) e in Il mistero di Bellavista (1985), entrambi di Luciano De Crescenzo.

Interpreta inoltre il padre apprensivo del protagonista nel divertente Stefano Quantestorie (1993) di Maurizio Nichetti, il compito preside nel drammatico La stanza del figlio (2001) di Nanni Moretti, il bancario con problemi gastroenterologici nella commedia culinaria partenopea Ribelli per caso (2001) di Vincenzo Terracciano, e il cardinal decano Gregori nel film Habemus Papam di Nanni Moretti (2011).

Carlo Verdone e il post più triste. Come ricorda l'attore Renato Scarpa: "Quella scena al palo della morte..." Il Tempo il 30 dicembre 2021. Renato Scarpa, volto conosciuto del cinema italiano di genere, è morto a 82 anni nella sua casa in zona Bravetta, a Roma. Si ipotizza la morte per cause naturali. A chiamare il 118 sarebbero stati i vicini di casa che non vedevano da qualche giorno l’82enne. Scarpa è stato il Robertino di Ricomincio da tre di Massimo Troisi ma il grande pubblico lo conosceva anche per la parte in Un sacco bello insieme a Carlo Verdone che lo ha ricordato con un post su Facebook. "Cari amici, chi ha amato Un Sacco Bello non potrà non esser triste per la scomparsa di Renato Scarpa per un improvviso malore. Aveva anche lavorato con Massimo Troisi in Ricomincio da tre, e con  tanti altri registi. Affettuoso, dotato di gran talento, aveva il dono della "misura", cosa che non tutti gli attori hanno. In questa scena tentavo di convincerlo a partire per Cracovia con le calze di seta e le penne a biro" scrive Verdone postando un fotogramma del film cult. "Fantastico compagno di lavoro lo ringrazio ancora per esser venuto il giorno dell'inaugurazione di una targa al 'Palo della morte' in Via Giovanni Conti (zona Val Melaina) a Roma, targa che celebrava quel film. Fummo molto orgogliosi perché non ci aspettavamo il grande bagno di folla che ci fu. Ringrazio ancora questo caro amico che mi ha aiutato nella mia opera prima con garbo, affetto e talento.  Persone così umili e gentili nel loro grande talento non ci sono più. Resterà  sempre nei miei più bei ricordi.  E credo anche, se avete amato quella pellicola, nella vostra memoria" scrive il regista e attore romano. 

Il decesso per cause naturali. È morto Renato Scarpa, addio al Robertino di ‘Ricomincio da Tre’ e Sergio di ‘Un sacco bello’. Redazione su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Ha prestato il volto a Robertino in “Ricomincio da Tre”, opera prima di Massimo Troisi. Ma anche a Sergio in “Un sacco bello” di Carlo Verdone e al Dottor Cazzaniga nei due film “Così parlò Bellavista” “Il mistero di Bellavista” di Luciano De Crescenzo.

Renato Scarpa, attore e cabarettista, è morto oggi a 82 anni nella sua casa a Roma, nel quartiere Monteverde, come riferito da Il Messaggero. Era nato a Milano il 14 settembre 1939. Scarpa si è sentito male nel primo pomeriggio: i familiari hanno chiamato subito un’ambulanza del 118. Sul posto sono arrivati anche i carabinieri. La morte è stata attribuita a cause naturali.

La carriera

Lunga la filmografia dell’attore, che aveva esordito alla fine degli anni ‘60. Ha recitato in circa un centinaio di film e in diverse serie tv lavorando, tra gli altri, anche con Maurizio Nichetti e Nanni Moretti.

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I romani lo ricordano in particolare per il suo ruolo nel film di Carlo Verdone “Un sacco bello”, quando in un caldo giorno di Ferragosto Enzo, interpretato dallo stesso Verdone, dà appuntamento a Sergio (ossia Renato Scarpa) per partire per la Polonia. Il luogo in cui i due si incontrano nella pellicola, il ‘palo della morte’ a Vigne Nuove, è ricordato da una targa del III Municipio: qui i fan del film si ritrovano il 15 agosto.

Il ricordo di Carlo Verdone: “Aveva il dono della misura”

“Cari amici, chi ha amato “Un Sacco Bello” non potrà non esser triste per la scomparsa di Renato Scarpa per un improvviso malore” scrive l’attore e regista Carlo Verdone sui social. “Aveva anche lavorato con Massimo Troisi in “Ricomincio da tre”, e con tanti altri registi. Affettuoso, dotato di gran talento, aveva il dono della “misura”, cosa che non tutti gli attori hanno”.

“In questa scena tentavo di convincerlo a partire per Cracovia con le calze di seta e le penne a biro. Fantastico compagno di lavoro lo ringrazio ancora per esser venuto il giorno dell’inaugurazione di una targa al “Palo della morte” in Via Giovanni Conti (zona Val Melaina) a Roma, targa che celebrava quel film. Fummo molto orgogliosi – aggiunge – perché non ci aspettavamo il grande bagno di folla che ci fu”.

“Ringrazio ancora questo caro amico che mi ha aiutato nella mia opera prima con garbo, affetto e talento. Persone così umili e gentili nel loro grande talento non ci sono più. Resterà sempre nei miei più bei ricordi. E credo anche, se avete amato quella pellicola, nella vostra memoria”.

·        E’ morto Franco Ziliani.

Da ansa.it il 26 dicembre 2021. È morto all'età di 90 anni Franco Ziliani, enologo e creatore nel 1961 insieme a Guido Berlucchi delle cantine Berlucchi di Borgonato, nel Bresciano. Marchio conosciuto in tutto in mondo, nel 2021 la cantina della Franciacorta ha celebrato i 60 anni di storia. Nel 2022 Berlucchi è stata premiata "cantina dell'anno" dalla guida Gambero Rosso. Le esequie di Franco Ziliani, pioniere e creatore del Franciacorta, fondatore della Guido Berlucchi, si terranno martedì 28 dicembre alle 11e 30 nella Parrocchia di Paratico (Brescia). Ziliani è considerato uno dei "padri" della moderna enologia italiana ed è scomparso, ricorda l'Azienda Berlucchi, nell'anno che ha celebrato il 60° anniversario dalla prima bottiglia di Franciacorta da lui creata. Franco Ziliani, il 90enne imprenditore che ha rivoluzionato le sorti di un'intera regione vinicola, creando i moderni vini di Franciacorta e dando così un nuovo destino al territorio delle colline intorno al Lago d'Iseo, era enologo determinato e imprenditore vulcanico. "Ziliani - ricorda la Cantina Berlucchi - ha vissuto la sua vita realizzando il sogno di creare vini spumanti italiani di qualità, che potessero essere al livello della grande tradizione francese. Fu così che nel 1955, giovane enologo chiamato dal conte Guido Berlucchi a Palazzo Lana in Borgonato (Brescia) per risolvere problemi di stabilità dei vini allora prodotti nella tenuta, propose la rivoluzionaria idea di "spumantizzare" quei vini, che non mostravano sufficiente "personalità'". Molti tentativi più tardi, finalmente nel 1961 nacquero le prime 3.300 bottiglie di "Pinot di Franciacorta", il "germe" di quello che sarebbe diventato in seguito uno dei "nuovi" territori enologici di qualità italiana più importanti e del successo odierno del Franciacorta DOCG.

Morto Franco Ziliani, fondatore della Cantina Berlucchi. Aveva 90 anni. Luciano Ferraro su Il Corriere della Sera il 26 dicembre 2021. Franco Ziliani è morto a 90 anni. Enologo e «fondatore di un sogno», nel 1961 ha lanciato le prime bottiglie di Franciacorta. Di recente il Gambero Rosso ha assegnato all’azienda il titolo di Cantina dell’anno 2022.

È morto a 90 anni, nel Natale in cui ha visto compiere la sua missione. Franco Ziliani è stato l’uomo che ha acceso i motori della Franciacorta del vino, «il padre fondatore di un sogno, creare spumanti italiani alla pari dei francesi», ricorda la sua famiglia. 

Il conte Guido Berlucchi nel 1958 gli chiese di migliorare il suo bianco e Franco, enologo già affermato, gli rispose che era arrivato il momento di seguire la strada dei francesi.

Nel 1961 nacque così il Franciacorta. Tutto quello per cui Franco Ziliani ha lottato, da uomo tenace e arguto qual era, si è pienamente realizzato: la Franciacorta è diventata una delle denominazioni più note nell’Europa degli spumanti. L’azienda Berlucchi ha una quota di mercato rilevante e una qualità che le ha fatto ottenere dal Gambero rosso il titolo di cantina dell’anno 2022; i figli Arturo, Cristina e Paolo hanno preso il posto del padre al comando. 

Anche nell’occasione del passaggio generazionale, Franco Ziliani ha lasciato il segno, con un l’insieme di forza, lucidità e tenerezza che lo ha accompagnato tutta la vita. Invece di trasferire le quote di Berlucchi all’ultima generazione, le ha vendute. «Perché dovete sentire il bruciore che si prova quando si gestisce un’azienda», ha detto ai figli.

Negli ultimi tempi, a chi lo incontrava, diceva di ricordare ancora il gusto dei vini bevuti da ragazzo, «quando ogni annata era riconoscibile, mentre adesso la qualità è migliorata ma i vini sembrano spesso tutti uguali». Ricordava che, agli inizi della sua carriera, non c’erano mezzi e tecniche di adesso, ma lui riusciva ugualmente a rendere limpidi i bianchi. Per questo venne chiamato da Berlucchi (che poi gli cedette la cantina), per togliere l’opacità al suo Pinot del Castello, un bianco fermo.

Ziliani, una vita (appassionata) per le bollicine

Ziliani aveva imparato i rudimenti del mestiere alla scuola enologica di Alba. La passione per le bollicine era iniziata presto: «Prima del diploma — ci aveva raccontato — mio padre a Natale aprì una bottiglia di Champagne. Mi innamorai». Poco prima di compiere 90 anni era tornato nella regione dello Champagne, con i soliti amici. «Mi sono fermato a parlare 4 ore con un vigneron incontrato per caso— rideva — : abbiamo bevuto di tutto». 

Il suo racconto sulla nascita del Franciacorta era pieno di aneddoti e di personaggi spesso scomparsi. «Non funzionò subito, per tre anni abbiamo sbagliato. Il vino non rifermentava in bottiglia, oppure il fondo dei lieviti si cristallizzava. Non avevamo le attrezzature. Ho costruito un cassone di metallo per immergere le bottiglie nel ghiaccio prima del degorgement, ma la temperatura era sempre sbagliata. Avevamo tappi orribili».

I tappi: una storia nella storia

«Anni dopo ne trovai di favolosi sulla mensola del caminetto, li aveva lasciati un rappresentante. Partii subito per la Francia, con l’auto di Guido. La riempii di sacchi con migliaia di tappi. Anche sul portapacchi. I sacchi si ruppero, i tappi invasero la strada, i camionisti ci aiutarono. Guidai con i finestrini aperti, quel sughero era esplosivo. Alla dogana piansi per evitare il sequestro, perché non c’erano i sacchi indicati nelle fatture». 

Tutto è iniziato con 3.300 bottiglie. «Vendute a 1.200 lire, sei volte più del Pinot del Castello che ne costava 200. Non tutti ci credevano. Beppe, il cameriere tuttofare di Guido Berlucchi, vedendo le prime 20 mila bottiglie mi disse: ci vorranno 20 anni per venderle. Ci rimasi male. Perché Beppe era anche il venditore. Con un’Ape portava il vino ai primi clienti, come il «Bar Piccolo» di Bergamo che restituiva sempre le bottiglie vuote chiedendo uno sconto».

Decennio dopo decennio, l’intuizione del pioniere Franco si è realizzata, l’azienda è ancorata con determinazione ai sui 135 ettari: nel 1970 la cantina Guido Berlucchi vendeva 120 mila bottiglie, nel 1980 un milione. «Ora vendiamo 4,2 milioni di bottiglie», aveva con orgoglio sorriso Franco Ziliani agli amici nei giorni della festa per l’anniversario della prima bottiglia di Franciacorta.

Addio a Franco Ziliani, l'uomo che ha osato sfidare lo Champagne. Andrea Cuomo il 27 Dicembre 2021 su Il Giornale. Morto a 90 anni l'enologo che nel 1961 creò il primo Franciacorta per Berlucchi. «Il maggiordomo mi scortò nel salotto di Palazzo Lana Berlucchi. Le note di Georgia on my mind vibravano nell'aria: Guido Berlucchi era al pianoforte. Il conte richiuse il piano, mi salutò con calore e iniziò a interrogare me, giovane enologo, sugli accorgimenti per migliorare quel suo vino bianco poco stabile. Risposi senza esitazione alle sue domande, e nel salutarlo osai: e se facessimo anche uno spumante alla maniera dei francesi?». Ecco come nacque uno dei grandi vini italiani, il Franciacorta, nel racconto forse leggermente romanzato di chi ne fu l'ideatore. Quel Franco Ziliani, di professione enologo e poi imprenditore, che è morto ieri in uno degli ultimi giorni dell'anno che in azienda, la Guido Berlucchi, era stato speciale per due anniversari: i sessant'anni della prima bottiglia di Franciacorta (che all'epoca nemmeno si chiamava così), celebrata da una collana di vini (la Berlucchi '61); e i novant'anni di Franco, uomo molto conosciuto e amato nel mondo del vino italiano, con cui ormai l'azienda si identificava quasi totalmente.

Ziliani era nato il 21 giugno 1931 a Travagliato. Formatosi alla scuola enologica di Alba, si era presto appassionato delle bollicine, scoperte un lontano Natale, giorno che era ben scolpito nel suo destino, quando suo padre gli fece assaggiare uno Champagne. Da allora fu ossessionato dall'idea di ricreare anche in Italia un vino prodotto con quel metodo e con le stesse caratteristiche di eleganza, potenza e freschezza. Una visione, una sfida, una follia. Che prese corpo quando negli anni Cinquanta conobbe Guido Berlucchi e gli propose di provare a realizzare grandi bollicine in quella terra della Lombardia orientale, tra l'Oglio, il lago di Iseo e le propaggini meridionali delle Alpi Retiche, che non aveva ancora una precisa identità enologica e che però sembrava prestarsi all'impresa per le caratteristiche morfologiche e climatiche. Per quello che insomma oggi si definisce terroir.

Raccontava Franco che la faccenda non era stata semplice. Non è che il Franciacorta si fosse fatto da solo. Un pugno di anni zeppi di inciampi, ideologici e tecnici: il vino non rifermentava in bottiglia, come deve accadere nel metodo classico, oppure qualcos'altro andava storto. Eppoi c'era la questione dei tappi, Ziliani non riusciva proprio a trovare quelli giusti finché, quando imbroccò il tipo che faceva al suo caso decise, come raccontò qualche mese fa al collega Maurizio Bertera in un'intervista per il suo novantennale, di importarli in maniera quasi illegale dalla Francia. Tutto per chiudere in modo corretto le prime 3.300 bottiglie di quello che venne chiamato Pinot di Franciacorta (il prezzo? 1.200 lire), e che sarebbe diventato Franciacorta doc nel 1967 e Franciacorta docg nel 1995.

Ziliani è uno di quegli uomini che può vantarsi di avere letteralmente «inventato» un vino che è probabilmente oggi il più noto e blasonato metodo classico italiano, anche se - per fortuna - ormai non si parla più di Champagne italiana, definizione che ha fatto più male che bene a quel territorio. Ma di questi equivoci Ziliani non si curava. Lui fece leivitare la sua azienda a braccetto con la crescita di tutto il movimento vinicolo del Franciacorta e con il rimpinguarsi della cultura enologica degli italiani. Quando venne il momento di lasciare, Franco non si fece pregare e passò il testimone a i tre figli Cristina, Arturo e Paolo, che portarono l'azienda sulla strada della sostenibilità totale e lanciarono le linee '61, Berlucchi '61 Nature e Palazzo Lana Riserva. Oggi la Guido Berlucchi produce 4,5 milioni di bottiglie l'anno e conta su 135 ettari di vigneti. E oggi nella carta dei vini Berlucchi c'è anche una Riserva dedicata a Ziliani, uno Chardonnay in purezza proveniente dal vigneto Arzelle con altissima densità d'impianto. Un 2008 da collezione, ancora di più oggi che Franco se n'è andato.

Che poi per lasciarci Franco ha scelto i giorni delle feste, quelli in cui le bollicine diventano protagoniste. Io tra qualche giorno, per salutare il 2022, stapperò un Berlucchi (magari un '61 Nature Blanc de Blancs) dedicando un pensiero a chi ha immaginato quel vino e con esso cambiato il destino di un intero territorio. Andrea Cuomo

·        E’ morta Assunta Maresca, detta Pupetta.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 30 dicembre 2021. oche donne hanno infranto il codice non scritto della mala (le donne a casa) come Assunta Maresca, detta Pupetta, morta ieri sera nella sua casa di Castellammare di Stabia, a 86 anni. Una donna che si trovò nel fuoco di due delle più spaventose guerre di camorra che la storia di Napoli ricordi, fu amata, odiata, disprezzata, lusingata.

Sposa del boss Pasquale Simonetti, detto Pascalone ‘e Nola, era incinta quando suo marito fu ammazzato da un uomo che era stato il loro testimone di nozze, Orlando Carlo Gaetano, mandato da Antonio Esposito, detto Totonno ‘e Pomigliano. Era il 15 luglio del 1955. 

Il 4 ottobre, pochi mesi dopo – quando Pupetta era incinta al sesto mese – andò lei stessa a ammazzare a sua volta per vendetta Esposito. Venne condannata a 13 anni e 4 mesi, anche se la corte le riconobbe come attenuante la «provocazione» dell’assassinio del giovane marito. 

L’opinione pubblica, napoletana e non solo, si divise. Pupetta rimandava un’immagine di Napoli totalmente stereotipata e adatta al clichè, ma era anche una donna, bella, in primo piano, che aveva ucciso forse per vendetta, si pensò all’inizio. 

Divenne una leggenda nera, un archetipo di donna camorrista che fu in seguito fronteggiato da poche altre figure, forse Rosetta Cutolo. Ma la sorella di Cutolo non aveva sovvertito così potentemente il codice della malavita entrando direttamente lei nella scena di un omicidio. Rosetta stava a casa, e comandava da dietro le quinte, Pupetta scendeva nel teatro dell’azione. 

Dieci anni dopo, Maresca ricevette la grazia. Era una donna molto bella, ancora giovane. Il cinema s’interessò a lei, con un mix di attrazione e pruderie che riassumeva quelle dell’Italia verso di lei, e certo non contribuì a darle una vita normale, del resto Pupetta Maresca non sembrava fatta per la normalità, come molte sue scelte successive confermarono.

La prima: sposare un criminale sanguinario della camorra, Umberto Ammaturo, detto ‘o Pazzo, che fu poi sospettato – la certezza non si ebbe mai – di averle ucciso il primo figlio, avuto dal boss Simonetti, un ragazzo che sparì in maniera misteriosa. A quel punto la scelta camorrista di Pupetta era stata fatta, e lei rimase in quella vita. 

Nella prima metà degli anni ottanta, quando Napoli era scossa dalla più grave guerra di camorra che la storia ricordi, con un morto ammazzato al giorno, e lo scontro truculento tra la Nuova Camorra di Raffaele Cutolo, e i clan napoletani che – coalizzatisi – cercavano di fermare il boss di Ottaviano, Pupetta Maresca divenne una delle più spietate nemiche di Cutolo. C’è chi dice fosse lei la capa, ma è leggenda, e la “Nuova Famiglia” non lo avrebbe consentito.

Certo è che poche volte si assistette a una rivendicazione così esplicita e lampante di camorrìa come quella che fece Pupetta Maresca, accusata (anche qui, la certezza non fu trovata) di aver ammazzato Ciro Galli, uno dei luogotenenti di Cutolo. Le chiesero, in un’incredibile conferenza stampa, se lei si sentiva parte della Nuova Famiglia. Rispose: «Sentite, se voi per Nuova Famiglia dite tutta quella gente che si difende dallo strapotere di quest'uomo (Cutolo, nda.), allora mi ritengo affiliata». 

Forse piaceva, a Pupetta Maresca, essere a un tempo personaggio noir, criminale, ma anche da rotocalco. Da anziana aveva concesso a Mediaset di fare una fiction che andò in onda nel 2013, in cui lei era interpretata da Manuela Arcuri.

Ci furono polemiche perché una criminale, con quel volto affascinante, facilmente finiva a sembrare un'eroina, per chi ormai nulla sapeva della sua storia (per capirci, Maresca invece disse che “Gomorra”, tratto dal libro di Roberto Saviano, era «una fiction diseducativa». 

Le piaceva finire su Mediaset, non la camorra ricostruita da Saviano). Molto fedele alla sua vita era stato invece “Il caso Pupetta Maresca”, di Marisa Malfatti e Riccardo Tortora, un film dell’82 che però fu visto solo quindici anni dopo, quando cadde la censura e i tagli che aveva subito. 

Lei stessa era stata attrice, in un film degli anni sessanta, “Delitto a Posillipo”, in cui c’è una scena in cui lei stessa canta una canzone di cui fu autrice, 'O bbene mio. Il crimine, la retorica di “o’ vasc”, la canzone napoletana, fusi insieme in un mix truffaldino e indistinguibile, che faceva di Napoli, sempre e per sempre, quella cosa lì. Una ribelle che, paradossalmente, inchiodava l’immagine della città ai suoi più triti clichè: la bella donna, la camorra, o sang.

Forse la psicologia della boss fu capita solo da Francesco Rosi, a caldo dopo l’omicidio di Esposito. Ma Maresca ebbe ancora una lunga e attiva carriera, dopo. Non ammise mai di aver avuto piacere nella sua vita criminale. Disse di aver ucciso solo perché era costretta: «Lui venne con una pistola, ma anch’io cominciai a girare armata, perché mi minacciava da tempo. Si avvicinò allo sportello della macchina per farmi scendere dall’auto e farmi uccidere dai suoi killer. Cosa avrei dovuto fare? Mi sono difesa, né più né meno. Potevo morire anch’io, ma sparai sei volte con una pistola calibro 7,65 che portavo nella mia borsetta piccola».

BIOGRAFIA DI PUPETTA MARESCA

Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

(Assunta) Castellammare di Stabia (Napoli) 27 aprile 1935. Camorrista. Almeno a stare a quanto disse lei, quando sfidò pubblicamente Raffaele Cutolo, dichiarando in una conferenza stampa: «Se per Nuova Famiglia si intende tutta quella gente che si difende dallo strapotere di quest’uomo, allora mi ritengo affiliata a questa organizzazione».

Da parte di padre discendente dei Lampetielli, così chiamati perché veloci come il lampo nelle decisioni e negli affari. In famiglia si festeggiava ogni anno la Madonna di Pompei, per celebrare il giorno in cui il padre di Pupetta, Alberto, era evaso di prigione calandosi con un lenzuolo dal finestrino di una latrina (la madre, per ricordare il fatto, organizzava un banchetto di cento coperti, con tanto di complesso musicale, e a fine serata mandava i figli a sparare i fuochi davanti all’immagine della Madonna esposta al lato della porta di casa). 

Era proprio bella (vinse un concorso di miss locale), quando si innamorò di lei Pasquale Simonetti (detto Pascalone ’e Nola per la sua mole). I Lampetielli benedissero il fidanzamento il giorno della Madonna di Pompei del 1954. Unico ostacolo al loro amore, Pascalone aveva una piccola condanna da scontare e Pupetta rifiutava di sposarlo se prima non si costituiva (lo accompagnò fino all’ingresso in caserma a Napoli, e lì rimase tutto il giorno per poterlo scorgere dietro le sbarre di una finestra della guardina ogni volta che la porta si apriva).

Ad aprile dell’anno successivo, quando si sposarono, lei era già incinta. Il giorno stesso si recarono al santuario della Madonna di Pompei, dove Pascalone si levò di tasca la pistola facendola scivolare nelle mani di Pupetta, con la promessa solenne che avrebbe cambiato vita. Invece tre mesi dopo (17 luglio 1955), venne sparato per ordine di Antonio Esposito, detto Totonno ’e Pomigliano, un contrabbandiere di sigarette. Portato agli Incurabili, prima di spirare fece in tempo a sussurrare all’orecchio della moglie il nome di Totonno. 

Pupetta andò a San Giovanni Rotondo a parlare con padre Pio e giurò vendetta. Il 4 ottobre 1955, vestita a lutto, noleggiò un tassì e, accompagnata dal fratello Ciro, andò dritta al bar “Grandone”, zona stazione di Napoli, dove ammazzò Totonno a pistolettate. Prima ancora di pensare a nascondersi si recò al santuario della Madonna di Pompei, che non ascoltò le sue preghiere: il 13 ottobre l’arresto, e poche settimane dopo il parto, nell’infermeria del carcere (nasce Pasquale junior, detto subito “ Pascolino ’o Pascalotto”).

Condannata a 13 anni e 4 mesi (con l’attenuante della provocazione), fu graziata e scarcerata il 17 aprile 1965, giorno di Pasqua.

Provò a rifarsi una vita. Sull’onda della celebrità nel 1967 interpretò se stessa nel film Delitto a Posillipo, trasposizione della sua biografia. Chiusa la parentesi cinematografica, si dedicò a due negozi di abbigliamento a Napoli, mentre riscopriva l’amore con il camorrista Umberto Ammaturo (ebbero due gemelli, Roberto e Antonella, ma lei non accettò mai di sposarlo).

Il 2 gennaio Pasqualino (che per emulare il padre aveva intrapreso la via della malavita) scomparve nel nulla. Pupetta ebbe a dire: «Il lavoro per me è una ragione di vita. Mi aiuta a non pensare, a cercare di non capire. Di Pasqualino non so più niente. Mi facessero sapere con una telefonata o con una lettera anonima. Se per mio marito ho trascorso undici anni in una cella, per vendicare mio figlio affronterei trent’anni di reclusione». Ma Pasqualino non comparve mai più. Si incrinò anche il rapporto con Umberto Ammaturo, quando fu incarcerato con l’accusa dell’omicidio del figliastro (nell’aprile del 1975 l’assoluzione, per insufficienza di prove).

Pupetta finì di nuovo in carcere, accusata in concorso con Ammaturo dell’omicidio di Ciro Galli (uomo di Cutolo) e dell’omicidio di Aldo Semerari, lo psichiatra che aveva fatto dichiarare pazzo Cutolo e lo stesso Ammaturo. Ma fu assolta, così anche dalle successive accuse di tentata estorsione (ad una banca), traffico di stupefacenti e associazione camorristica.

Quando Ammaturo fu arrestato in Perù, in compagnia della sua bellissima e ricca fidanzata, Yohanna Valdez: «Per me Umberto non esiste più, è morto; resta solo il padre dei miei figli che gli vogliono bene e lo rispettano come è loro dovere».

Chiusi i negozi di Napoli (per i continui furti e devastazioni), si ritirò a Castellammare, per aprire un nuovo esercizio commerciale, e stare più vicina ai figli (soprattutto alla figlia, cardiopatica).

La sua storia ispirò i registi Francesco Rosi (1958, La Sfida), Marisa Malfatti e Riccardo Tortora (1982, Pupetta Maresca, cronaca di un delitto: bloccato dal pretore su istanza dei legali della stessa Pupetta, che si riteneva lesa nella propria onorabilità, andò in onda sulla Rai solo nel 1994, attrice protagonista Alessandra Mussolini).

Nel 2013 anche Canale 5 ha prodotto una fiction ispirata alla sua storia (spettatori della prima puntata, 5 milioni). Pupetta: «Ho ritrovato nella Arcuri la mia tempra. Vorrei che la gente capisca chi ero al di là dell’immagine pubblica che mi è stata cucita addosso. Prima di arrivare a impugnare quella pistola, avevo denunciato più volte il mandante dell’omicidio di mio marito».

Il commento spietato di Aldo Grasso: «“Pupetta” è un racconto ultrapop, piace ai semplici per eccesso di sentimentalismo e piace anche ai più avvertiti perché permette loro meta-risate ironiche, un piacere proibito. Però, l’interpretazione di Manuela vale la serata. Per chi è affascinato dall’abisso. O dal comico» [Cds 8/6/2013].

Ha un fiore tatuato sul polpaccio destro. 

E' morta a 86 anni. Il figlio scomparso da 40 anni: "Mi farei 30 anni per lui". Pupetta Maresca, storia di Madame camorra: l’omicidio per vendicare il marito, il parto in carcere e la sfida a Cutolo. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Dall’omicidio per vendicare il marito, quando aveva appena 20 anni, al parto nel carcere di Poggioreale pochi mesi dopo. Dal cinema alla relazione con il boss dei due mondi, Umberto Ammaturo,  alla scomparsa del figlio per lupara bianca alla sfida a Raffaele Cutolo e al suo esercito mentre gestiva dei negozi di abbigliamento a Napoli.

La vita di Pupetta Maresca, all’anagrafe Assunta, ma ribattezzata così in senso affettivo dai familiari (Pupetta sta per bambola), è stata fonte d’ispirazione per scrittori e registi. Madame camorra, come è stata ribattezzata dai francesi di Le Figaro, è morta nella serata del 29 dicembre nella sua abitazione di Castellammare di Stabia, sua città natale. Era malata da tempo. A nulla sono valsi i soccorsi dei sanitari del 118. Il prossimo 19 gennaio avrebbe compiuto 87 anni. Su di lei fu prodotta anche una fiction con Manuela Arcuri protagonista. Da ragazza aveva anche vinto un titolo a un concorso di bellezza.

Nata in una famiglia di contrabbandieri, soprannominata Lampetielli, Pupetta è stata protagonista fin dalla giovane età di episodi eclatanti. Nel 1955 sposò Pasquale Simonetti, detto Pascalone ‘e Nola per la sua stazza. Era uno dei guappi del mercato ortofrutticolo di Napoli che all’epoca fruttava guadagni vertiginosi. All’Ippodromo di Agnano arrivò anche a schiaffeggiare pubblicamente, senza alcuna conseguenza, Lucky Luciano, rappresentante della mafia italo-americana a Napoli in quegli anni. Al matrimonio, celebrato in pompa magna il 27 aprile 1955, partecipò come testimone anche Antonio Esposito, detto Totonno ‘e Pomigliano, che sarà poi il mandate appena 80 giorni dopo (15 luglio) dell’omicidio di Pascalone, ammazzato in corso Novara a Napoli.

Prima di morire Pascalone riferì alla giovane moglie il nome di Esposito in qualità di mandante e il 4 ottobre successivo, altri 80 giorni dopo, Pupetta consumò la sua vendetta sempre nei pressi della stazione centrale di Napoli dove arrivò a bordo di un taxi in compagnia del fratello Ciro, all’epoca 14enne. In quella circostanza Maresca ha raccontato che Esposito si avvicinò armato verso l’auto. “Io avevo ucciso per amore, cioè per vendicare il mio uomo, e per non essere ammazzata, non soltanto io, ma anche il bambino che portavo in grembo. Cioè, avevo sparato per legittima difesa” ha raccontato la donna in una recente intervista a Giovanni Terzi su Libero. “Sul corpo di Esposito furono trovati altri colpi di pistola oltre a quelli che avevo sparato io. Chi furono quelli che gli spararono? Non è stato mai provato che fu proprio la mia pistola ad ucciderlo“.

Per quell’omicidio Pupetta venne arrestata pochi giorni dopo e a gennaio partorì in carcere Pasqualino (poi scomparso negli anni ’70). Doveva scontare una condanna di 13 anni e 4 mesi (con l’attenuante della provocazione) più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ma fu graziata dopo oltre dieci anni di detenzione. Nel 1967 ebbe un’esperienza come attrice cinematografica interpretando il ruolo della protagonista nel film Delitto a Posillipo, diretto da Renato Parravicini, vagamente ispirato alla sua vita ed in particolare alla vicenda giudiziaria che l’aveva resa nota e portata in carcere. Nel film è doppiata da Rita Savagnone, ma canta con la propria voce la canzone ‘O bbene mio’, scritta da lei. Anche il regista Francesco Rosi si ispirò a lei nel film “La Sfida” (1958).

La storia con il boss dei due mondi

Chiusa la parentesi cinematografica, che per la verità non ottenne molto successo, si dedicò a due negozi di abbigliamento a Napoli, e nel 1970 si innamorò di Umberto Ammaturo, dal quale ebbe due gemelli, Roberto e Antonella. Ammaturo ‘o pazzo, perché riuscì a ottenere l’infermità mentale più volte scappando successivamente da relativi manicomi, diventò uno dei più grandi narcotrafficanti in quegli anni avendo creato un canale diretto con il Perù per la cocaina.

La scomparsa per lupara bianca del figlio: “Per vendicarlo mi farei 30 anni”

Ma la relazione con Pupetta non era approvata dal figlio Pasqualino che nel 1974 sparì nel nulla: il suo corpo non venne mai ritrovato (secondo alcuni, venne rapito, legato ad un sasso e gettato in mare). Pasquale non aveva accettato la relazione della madre con Ammaturo e più volte lo aveva minacciato. Dell’omicidio fu subito sospettato Ammaturo, ma Pupetta non accettò mai del tutto questa ipotesi. Lo stesso Ammaturo fu incarcerato, ma nell’aprile del 1975 fu assolto per insufficienza di prove; ciononostante il rapporto tra i due s’incrinò. Quando Ammaturo fu arrestato in Perù, in compagnia di una nuova bellissima e ricca fidanzata, Yohanna Valdez, la Maresca disse: “Per me Umberto non esiste più; resta solo il padre dei miei figli, che gli vogliono bene e lo rispettano come è loro dovere”.

Pupetta sulla scomparsa del figlio disse: “Di Pasqualino non so più niente. Mi facessero sapere con una telefonata o con una lettera anonima. Se per mio marito ho trascorso undici anni in una cella, per vendicare mio figlio affronterei trent’anni di reclusione“. Oltre 40 anni dopo, nella recente intervista a Libero, alla domanda “cosa desidererebbe oggi?”, rispose: “Che i miei ragazzi siano felici. E sapere la verità su chi uccise mio figlio Pascalino”.

La sfida a Cutolo e la conferenza stampa al circolo dei giornalisti

In quegli anni viveva a Napoli e gestiva negozi di abbigliamento. Era il periodo dello strapotere della Nuova Camorra Organizzata e Pupetta, la cui famiglia era legata all’organizzazione rivale (Nuova Famiglia), indisse una conferenza stampa al circolo della Stampa nella villa Comunale di Napoli nel corso della quale sfidò apertamente Raffaele Cutolo: “Se per Nuova Famiglia si intende tutta quella gente che si difende dallo strapotere di quest’uomo, allora mi ritengo affiliata a questa organizzazione”.

Di recente ha precisato: “Desidero chiarire che, in quell’occasione, non dissi, rivolta a Cutolo: “Io ti ammazzo!”, ma dissi: “Se tocchi i mei fratellini io faccio la stessa cosa a te”. La mattina dopo, il telefono di casa mia prese a squillare. Alzavo la cornetta ed erano continue minacce di morte: “Devi morire!”, “Maledetta!”. Incominciai a rispondere per le rime: “Io alle nove, ogni mattina, vado ad aprire il mio negozio di abbigliamento. Ti aspetto là. O muoio io, o muori tu”. Non venne mai nessuno”.

“Non appartengo a nessun clan”

Pur ribadendo anche nel corso dei processi giudiziarie la sua estraneità ai clan di camorra, Pupetta venne condannata perché legata alla criminalità organizzata e alcuni beni (case e negozi tra Napoli e Caserta) vennero sequestrati. Nell’appartamento di 300 metri quadri, su tre livelli (con terrazzi e balconi), presente in via Leopardi a Fuorigrotta, hanno trovato ospitalità negli scorsi anni diversi migranti. L’immobile è gestito dal Comune di Napoli e da associazioni del terzo settore.

Fu accusata di aver ordinato l’omicidio di Aldo Semerari, il criminologo e psichiatra che aveva dichiarato pazzo Cutolo ma venne in seguito fu assolta. Fu assolta anche dalle successive accuse di tentata estorsione ad una banca e di traffico di stupefacenti.

In un’intervista del maggio 2010, Ammaturo, pentitosi agli inizi degli anni Novanta, confessò di aver ucciso Semerari e di aver successivamente depositato la sua testa mozzata davanti al castello di Cutolo: “Gli tagliai io la testa (…) perché si era impegnato con noi della Nuova Famiglia a seguire le nostre cose, ed era ben remunerato da me personalmente, ma Cutolo fece ammazzare uno giù alle camere di sicurezza del tribunale e Semerari gli fece una perizia falsa per farlo assolvere. Era un traditore, chi prende un accordo e non lo mantiene è un traditore”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Aveva 86 anni, una vita da film. Chi era Pupetta Maresca, lady camorra che sfidò Cutolo. Viviana Lanza su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. La vita l’aveva messa più volte davanti a un bivio. Aveva la bellezza e la prorompenza per fare l’attrice. Gli amori, le scelte fatte, il contesto in cui ha vissuto l’hanno resa invece un’icona della camorra. Pupetta Maresca è la figura più controversa della storia della criminalità napoletana. Ha incarnato un po’ tutte le contraddizioni del suo tempo: i valori confusi con l’opportunismo, l’onore scambiato per rispetto camorrista, il senso di giustizia tradito dalle istituzioni e spinto fino al gesto estremo di far da sé.

«Avevo denunciato quella persona una ventina di volte ma appena uscivo dalla Questura lui veniva a saperlo e mi mandava a minacciare. Il giorno che lo incontrai venne verso di me armato, si avvicinò allo sportello della macchina per aprirlo. Mi difesi con la piccola pistola che avevo nella borsetta. Dio ha voluto che a morire fosse lui, ma avrei potuto morire anch’io. Lui esplose dodici colpi, io solo sei». Così Pupetta Maresca ricordava uno dei momenti che più di altri aveva segnato la sua vita. Era giovane, bella e al quinto mese di gravidanza: si ritrovò precocemente vedova. Vide morire tra le sue braccia l’amato Pasquale Simonetti, detto Pascalone ‘e Nola, e si convinse che ad ucciderlo fosse stato Antonio Esposito, Totonno ‘e Pomigliano, loro testimone di nozze. Lo denunciò ma non servì. E undici settimane dopo, lo uccise. Fu condannata e ottenne la grazia. In carcere partorì e scontò dieci anni di reclusione.

Pupetta si era innamorata di Pascalone ‘e Nola che era poco più che una ragazzina. A diciotto anni, il 27 aprile 1955, lo sposò. Un matrimonio sfarzoso, un corteo di trecento invitati, la cerimonia nell’antica chiesa subito dopo Castellammare, il banchetto sulle colline di Pozzano con vista golfo, vino di Gragnano e piatti a base di pesce fresco. E poi la musica napoletana e gli ospiti d’onore, due sindaci e un deputato. Erano gli anni in cui la guerra era alle spalle e grandi opportunità si profilavano all’orizzonte. Anni in cui i confini tra lecito e illecito, tra politica e ambienti criminali, non erano poi così netti, un po’ come adesso. Nei paesi di provincia dell’hinterland napoletano (e Nola lo era), i guappi si conquistavano il rispetto della gente sostituendosi a Stato e istituzioni assenti, si cimentavano anche in questioni politiche e diventavano boss lanciandosi nel contrabbando di sigarette e nel controllo di qualunque cosa potesse creare commercio. Pascalone ‘e Nola puntò al mercato della frutta, arrivando a monopolizzarlo. Il potere, però, attirò presto i contrasti con altri guappi e aspiranti boss della zona, e la mattina del 16 luglio 1955 Pascalone fu ucciso in un agguato. Prima di spirare confidò a Pupetta chi aveva decretato la sua morte.

La donna riferì alla polizia le confidenze del marito ma, senza prove, le sue rimasero solo parole. Fu così che una mattina, mentre andava al cimitero sulla tomba del marito, Pupetta si fece giustizia da sola. Affrontò il processo senza negare le sue responsabilità: «Signor Presidente, sono sfinita. Non posso più lottare. Ho ucciso Esposito per amore di mio marito, perché lo aveva fatto assassinare. Se Pascalone ritornasse a vivere, se lo uccidessero un’altra volta, non potrei agire diversamente», ammise. Fu costretta a partorire il figlio Pasqualino in carcere e per tre anni la casa sua e del suo bambino fu una cella della sezione femminile di Poggioreale. Quando nel 1965 ottenne la grazia, poté riabbracciare il figlio che nel frattempo era cresciuto con la nonna. La vita le offrì a quel punto un’opportunità diversa. Nel 1967 ebbe un ruolo da protagonista nel film Delitto a Posillipo di Renato Parravicini, già nel 1958 Francesco Rosi lavorando a La Sfida si ispirò a lei e alla sua vita. Ma il futuro di Pupetta non era né su un palcoscenico né davanti a una macchina da presa. L’amore la legò ancora una volta, a filo doppio, alla camorra. Si innamorò, infatti, di Umberto Ammaturo, giovane camorrista che trafficava in armi e droga.

Da quella relazione nacquero due gemelli, ma fu un amore travagliato, attraversato e interrotto dal mistero della scomparsa di Pasqualino, il figlio che Pupetta aveva partorito in carcere, scomparso nel gennaio del 1974 dopo un appuntamento con lo stesso Ammaturo. Il suo corpo non fu mai trovato: caso di lupara bianca. Ammaturo fu processato e assolto. Pupetta non lo accusò mai ma lo lasciò, provando a ricominciare da imprenditrice con negozi di abbigliamento aperti nella sua Castellammare di Stabia. Mentre tutti continuavano a evocarla come lady camorra, lei convocò una conferenza nel circolo della stampa di Napoli per dire ai giornalisti e al mondo che non aveva paura di Raffaele Cutolo, allora potente capo della Nuova camorra organizzata che imponeva la tangente su tutto. Era il 13 febbraio 1982, la camorra a Napoli e provincia era divisa tra Nuova Famiglia e Nco. «Se Cutolo tocca qualcuno della mia famiglia, faccio ammazzare senza pietà i suoi killer, i suoi scagnozzi, le donne e i bambini in culla. La Campania è soffocata da un potere occulto, ma presente a tutti i livelli» tuonò Pupetta avvolta nella sua pelliccia di volpe nera. «Se per Nuova Famiglia si intende tutta quella gente che si difende dallo strapotere di quest’uomo, allora mi ritengo affiliata a questa organizzazione» disse col suo fare sfrontato. Poco dopo fu arrestata con l’accusa di aver ordinato l’omicidio di Aldo Semerari, il criminologo e psichiatra che aveva dichiarato pazzo Cutolo, accusa dalla quale fu poi assolta. Ed era stata già assolta dall’accusa di essere la mandante del delitto di Ciro Galli, un fedelissimo di Cutolo ucciso nel 1981 per una vendetta trasversale.

Nel 1986 la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli stabilì che Pupetta Maresca apparteneva alla camorra come affiliata alla Nuova Famiglia. Qualche anno prima, nel 1982, la Rai aveva prodotto una serie ispirata alla sua vita e trasmessa solo dopo dodici anni di contenziosi giudiziari tra la Maresca e la produzione (Il caso Pupetta Maresca). La popolarità di Pupetta tornò in tv, nel 2013 su Canale 5, con la minifiction Pupetta-Il coraggio e la passione, con Manuela Arcuri nei panni di lady camorra. Il giorno dopo la messa in onda della prima puntata Pupetta raccontò: «Ho pagato con lacrime e affanno le mie scelte. La prima volta perché l’uomo a cui sparai avrebbe fatto lo stesso con me. Ma – aggiunse – la reclusione che mi ha fatto veramente male è stata quella legata al secondo arresto, quando finii in carcere per aver parlato di Cutolo, che a quei tempi uccideva tutti i giorni, e per aver detto che era sostenuto dalla politica. È vero, l’avevo minacciato di morte, ma lui minacciava i miei fratelli e io, davanti agli occhi, avevo mio padre che piangeva. Crede che la camorra avrebbe mandato una donna a fare minacce in pubblico? Il mio è stato un impeto di rabbia che ho pagato amaramente. Desidero ancora una carezza da mia madre, una carezza che – concluse – non ho mai avuto».

Pupetta Maresca è morta l’altra sera a 86 anni, stroncata da un arresto cardiaco nella sua casa a Castellammare. In una delle sue ultime interviste si rammaricava per come la politica avesse gettato nel degrado la sua amata provincia. «Ma uno che deve fare per vivere nella propria città con dignità?», si chiedeva. E poi il rimorso di sempre: «L’errore mio è aver ucciso, ma se non lo avessi fatto non sarei qui a parlarne».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Morta Pupetta Maresca, lady camorra che lanciò la sfida a Cutolo  di Titti Beneduce. Aveva 86 anni e viveva nella sua dimora a Castellammare di Stabia. Il romanzo della sua vita tra criminalità e anche cinema. Titti Beneduce su Il Corriere della Sera il 30 dicembre 2021. morta ieri sera nella sua abitazione di Castellammare di Stabia, Pupetta Maresca. Aveva 86 anni. Malata del tempo, la donna non ha retto all’attacco cardiaco nonostante il soccorso dei medici dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia. I funerali si svolgeranno domani. Una vita da romanzo, la sua nel bene e nel male. Da spietata criminale ad attrice di cinema nel film “Delitto a Posillipo”, ispirato alla sua vita. Vedova del boss Pasquale Simonetti, stata protagonista della storia della camorra degli anni ‘80. Lanci la sfida a Raffaele Cutolo quando nel 1955, incinta al sesto mese di gravidanza, uccise a colpi di pistola Antonio Esposito, presunto mandante dell’omicidio del marito. Arrestata e condannata a 13 anni e 4 mesi, in carcere partor il primo figlio, Pasquale, ucciso in un agguato nel 1974. Quando usc spos Umberto Ammaturo, detto ‘o Pazzo, uno dei pi pericolosi criminali italiani di tutti i tempi. Nonostante i due figli avuti dall’uomo, il primo figlio Pasquale, nato da Simonetti, non ebbe mai buoni rapporti con Ammaturo. E quando il giovane spar in circostanze misteriose, tutti gli indizi portavano proprio al patrigno, sebbene prove non ne furono mai trovate. L’uomo fugg poi in Per dove si rifece una vita con una nuova compagna. 

La sfida a Cutolo

Pupetta Maresca manifest apertamente di essere rivale di Raffaele Cutolo e la sua camorra organizzata. Accusata dell’omicidio di Ciro Galli, uomo di fiducia di Cutolo dichiar: Se per Nuova Famiglia si intende tutta quella gente che si difende dallo strapotere di quest’uomo, allora mi ritengo affiliata a questa organizzazione. Nel 1986 venne arrestata nuovamente per affiliazione alla Nuova Famiglia, e i suoi beni vennero sequestrati. Una volta libera ritornata a vivere a Castellammare di Stabia.

I film sulla sua storia

Assunta, detta Pupetta, era la figlia di Alberto Maresca un pericoloso contrabbandiere. Gi da ragazzina si comportava con piglio e personalit: a scuola aggred una sua compagna di classe e fu incriminata per lesioni gravi. La vittima in seguito ritir la denuncia e lei non venne condannata. Da ragazza aveva anche vinto un titolo di Miss. A Napoli aveva due negozi di abbigliamento. Nel 1967 ebbe un’esperienza come attrice cinematografica interpretando il ruolo della protagonista nel film Delitto a Posillipo, diretto da Renato Parravicini, ispirato alla sua vita. Alla sua storia, sono stati dedicati anche diversi film. Fra tutti, “La sfida” di Francesco Rosi (1958), “Il caso Pupetta Maresca” di Marisa Malfatti e Riccardo Tortora (1982, ma trasmesso integralmente solo nel 1994, quando il Tribunale civile di Roma stabil che la trasmissione non dovesse subire tagli e censure perch il film non era “lesivo della reputazione della protagonista”), ed infine “Pupetta – Il coraggio e la passione”, di Luciano Odorisio (2013), fiction di 4 puntate nel quale Pupetta Maresca venne interpretata da Manuela Arcuri.

Pupetta Maresca, la miss che si fece camorrista. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 30 dicembre 2021. Dal delitto del killer del marito alla parte in un film, la parabola della prima donna boss che sfidò Cutolo. Pupetta Maresca è probabilmente la prima figura criminale che più d’ogni altra ha incarnato in pieno tutti gli elementi mediatici in grado di attirare sulla sua storia una curiosità appassionata e morbosa. Innanzitutto era molto bella, e con “bella” intendo dire che il suo viso e il suo corpo coincidevano con il canone imposto dalle aziende di moda dell’epoca, dagli sceneggiati televisivi, dalla cartellonistica pubblicitaria: aveva il viso gentile della brava ragazza, un corpo minuto che veniva raccontato; era descritta dai rotocalchi come la donna napoletana selvaggia e assassina, ma la sua era violenza per amore, l’amore che vendica il marito con in grembo il frutto di quell’amore. Una giovane sposa e mamma vendicatrice: il melodramma perfetto per gli italiani.

Riscatto protofemminista

In realtà la storia di Pupetta Maresca non incuriosì solo l’immenso pubblico da rotocalco, ma anche una parte di società civile che vedeva in lei una sorta di riscatto protofemminista. Non si era fatta proteggere o vendicare da alcun uomo: padre, fratello, marito, ma anzi aveva protetto suo figlio e vendicato suo marito con le sue stesse mani. Eppure, lungi dall’essere protofemminista, il suo comportamento era in perfetta coerenza con la logica del patriarcato mafioso, della faida di potere e della vendetta. Ne aveva solo cambiato il segno (sostituendo la mano femminile a quella maschile) non modificandone la struttura.

La famiglia dei «lampetielli»

Ma andiamo con ordine. Fu proprio la sua bellezza a darle il soprannome: Assunta Maresca, detta “Pupetta”, che significa “bambolina”. Nasce nel 1935 in un contesto criminale: la sua famiglia è soprannominata “I lampetielli”, piccoli fulmini, perché erano bravi a tirare coltellate. Tutto cambia quando ragazzina vince Miss Rovigliano, un concorso di bellezza a Torre Annunziata, comune vicino Napoli. Li la nota Pasquale Simonetti, camorrista conosciuto come Pascalone ’e Nola. Inizia il corteggiamento, ma quando Pascalone vuole sposare Pupetta, ha un debito in sospeso con la legge. Una condanna non andata in esecuzione. Pupetta conosce bene il ruolo delle donne nel mondo criminale, non vuole passare la vita a fare la vedova bianca, avere un marito che non c’è mai, aspettarlo anni mentre sta in carcere. Prima di sposarlo gli chiede di scontare la pena detentiva - sei mesi - che aveva in sospeso, e darle la prova che dopo non continuerà sulla strada che l’avrebbe tenuto continuamente in carcere.

Il matrimonio

Pascalone accetta, nel 1955 sposa Pupetta al Santuario di Pompei e consegna, con gesto solenne, la sua pistola ai piedi della Madonna, dando così il messaggio di voler diventare altro. Diventare un piccolo proprietario terriero e sottrarsi al crimine. Il suo testimone di nozze è Antonio Esposito, detto Tonino ’e Pomigliano, socio di Pascalone e camorrista al servizio dei latifondisti campani. Pasquale Simonetti aveva un ruolo determinante nella camorra agraria degli anni ’50, gestiva il mercato dei prodotti agricoli della Campania dal Vesuviano al Salernitano. Sostanzialmente, imponeva i prezzi delle patate, dei meloni, dei pomodori, della frutta, dei fiori, delle verdure tutte. Ottanta giorni dopo le nozze di Pupetta e Pasquale, il loro testimone dà l’ordine di morte e fa ammazzare Pascalone ’e Nola. Il killer spara un solo colpo, al polso dove qualsiasi fasciatura è impossibile per frenare l’emorragia. Morirà dissanguato. Antonio Esposito, “Tonino ’e Pomigliano”, fece uccidere il suo compare per tutelare le nuove grandi compagnie di import-export, che mal sopportavano i prezzi tenuti alti sul mercato da Pascalone, e farsi garante presso di loro.

Una vedova assetata di vendetta

Poche settimane dopo il matrimonio, quindi, Pupetta Maresca rimane vedova. Tutti sanno chi è il mandante, ma Antonio Esposito non viene arrestato. Pupetta, incinta di sei mesi, insieme a suo fratello Ciro, all’epoca quattordicenne, in pieno giorno entra nel bar e scarica addosso a Tonino ’e Pomigliano un intero caricatore di Smith&Wesson, quella stessa pistola che, dopo aver deposto ai piedi della Madonna, Pascalone aveva rimesso nel fodero. È dopo questo omicidio che nasce l’epopea: nel 1959 inizia il processo, c’è il New York Times, ci sono i giornali tedeschi e tutta la stampa francese, per la prima volta vengono messi i microfoni nel tribunale di Napoli per far ascoltare bene la voce di Pupetta Maresca. L’opinione pubblica si divide tra “Pupettisti”, secondo i quali l’omicidio era da considerarsi passionale e quindi propendevano per l’assoluzione, e “Antipupettisti”, per i quali era tutta una questione di criminalità.

Un processo mediatico

Pupetta nelle dichiarazioni spontanee del processo dichiarerà: «Ho ucciso per amore, ma anche perché volevano uccidermi. Se mio marito fosse tornato in vita e l’avessero ucciso di nuovo, avrei fatto la stessa cosa». Pronunciando queste parole, Pupetta afferma di stare, quindi, in una logica di camorra, uccidere per non essere uccisi. Veniva da una famiglia criminale, avrebbe potuto mandare chiunque ad attuare quell’esecuzione, ma volle invece farsene carico lei stessa. E qui c’è la peculiarità della camorra rispetto ad altre organizzazioni criminali i cui affiliati credono che, sottraendosi all’arresto, rimanendo impuniti proclamano il proprio potere. Per la camorra le cose stanno diversamente: per Pupetta l’essere arrestata, l’andare in galera, è prova di potere, è prova di coraggio. È la prova provata che sia stata proprio lei a commettere l’omicidio, e questo le dà il merito e la forza. Verrà condannata a diciotto anni, mentre suo fratello, minorenne, a dodici.

La nascita del mito

Dopo questa storia nasce il mito di Pupetta. Viene graziata dopo dieci anni di carcere e parteciperà a un film, oltre che a infinite interviste a pagamento. Il film si chiama Delitto a Posillipo: una pellicola modesta, del 1967, con la regia di Renato Parravicini, dove c’è Pupetta Maresca che canta in carcere una canzone che ha scritto lei. Hans Magnus Enzerberger scriverà delle pagine importantissime, raccolte nel saggio Politica e crimine, Bollati Boringhieri, sulle vicende di Pupetta Maresca, donna che si emancipa, laddove, mentre le donne borghesi attendono che i diritti concedano loro di fare cose, lei prende a due mani il suo destino e spara, con la violenza si prende il suo ruolo. Ma l’attenzione internazionale per Pupetta non finisce qui: una delle maggiori studiose di crimini al mondo, Clare Longrigg del Guardian, ne ha scritto in un libro, Mafia Women: la maggior parte delle informazioni più accreditate le abbiamo da lei, che l’ha incontrata e a lungo intervistata.

Il legame col mondo criminale

Che Pupetta fosse completamente interna al mondo criminale e che l’omicidio di Tonino ’e Pomigliano c’entrasse poco con una difesa unicamente sentimentale, lo mostra il fatto che, uscita dal carcere, si lega a un uomo che nelle storie di camorra ha avuto un grande spessore: Umberto Ammaturo. Ammaturo, detto Umbertino la volpe, per la sua infinita furbizia, non era un camorrista classico.

Il rapporto con Ammaturo

Anche in questo caso, Pupetta si lega a una figura del tutto particolare, che per ragioni di guerra si troverà contro Raffaele Cutolo: era infatti membro negli anni Ottanta del cartello nemico del boss, la Nuova Famiglia. Ma in fondo, più che un camorrista classico, Umberto Ammaturo è un narcotrafficante. In diverse documentazioni di quegli anni dell’Fbi e della DEA, viene considerato addirittura il maggiore importatore di cocaina; probabilmente, prima dell’egemonia calabrese, Ammaturo è l’ultimo napoletano ad avere il ruolo di re e monopolista dell’importazione di cocaina. È stato una figura potentissima. Per comprendere il valore di Ammaturo, basta dire che Francesco Schiavone, che poi diverrà il capo del clan dei Casalesi, gli è vicinissimo; Schiavone, a vent’anni, fa da autista ad Ammaturo, e fare da autista significa godere della piena fiducia del capo, sia per una questione di protezione militare, sia soprattutto perché si conoscono tutti gli spostamenti, non è un ruolo secondario. Il futuro capoclan si farà le ossa come autista di Umberto Ammaturo. Pupetta e Ammaturo non si sposeranno mai, ma avranno due gemelli. Invece il figlio, Pasqualino, avuto con Pascalone ’e Nola, sparirà nel gennaio del 1974: aveva intrapreso anche lui la via criminale. Pupetta sospetterà che sia coinvolto Umberto Ammaturo in questa sparizione perché Pasquale non aveva mai accettato di vedere il padre sostituito da Umbertino a’ volp. Per la giustizia italiana, Ammaturo fu assolto circa l’omicidio del figliastro, e Pupetta disse: »Ho sempre pensato che Pasqualino dava fastidio a Umberto, era troppo simile a suo padre». ma aggiunse che, se Umberto Ammaturo le avesse confessato l’omicidio, « lo avrei ucciso senza esitare».

Lo scontro con Cutolo

Dopo questo episodio, le cose andarono sempre peggio, e i due si separarono definitivamente nel 1982. Quello che fu l’errore più grande, comunicativamente, di Pupetta Maresca, avvenne proprio in quell’anno: sfrutta la sua fama mediatica per convocare i giornalisti al Circolo della Stampa di Napoli, il 13 febbraio 1982. In un bellissimo luogo, nella Villa Comunale di Napoli, fa una dichiarazione di guerra: «Se Cutolo mi tocca qualcuno della mia famiglia, faccio ammazzare senza pietà i suoi killer, i suoi scagnozzi, le donne e pure i bambini in culla. La Campania è soffocata dal potere occulto di Raffaele Cutolo». Questa dichiarazione non spaventò affatto l’NCO di Raffaele Cutolo, ma mostrò tutta la vulnerabilità in cui si trovava Pupetta, che non si sentiva più protetta da Umberto Ammaturo e si trovava a metà strada tra cutoliani e la Nuova famiglia: non era della Nuova Famiglia ed era allo stesso tempo nemica dichiarata di Cutolo. Pensò forse che quella dichiarazione potesse dare uno scudo mediatico a lei e i suoi fratelli, invece cambiò per sempre la percezione della sua figura: perse il romanticismo di cui si era ammantata sui rotocalchi e divenne una classica camorrista.

L’omicidio di Aldo Semerari

Molti pentiti, negli anni, la accusarono. Dopo la conferenza stampa, un giornalista intervenne dicendo: «Ci avete convocati per dare messaggi di morte. Noi abbiamo delle regole, rispettiamo la giustizia». Lei rispose: «Io e la giustizia non siamo mai stati grandi amici». Intendeva dire chiaramente che lei era stata vessata dalla vita, era stata sfortunata, e che quindi aveva tutto il diritto di gestirsela lei, la giustizia, e non di vederla gestita da altri. Questa mossa improvvisa ebbe conseguenze giudiziarie: fu arrestata per l’omicidio di Aldo Semerari, un criminologo psichiatra. Fu poi assolta, e venne in seguito indagata e assolta per estorsione a una banca, poi per traffico di stupefacenti... Sostanzialmente, dopo la dichiarazione in conferenza stampa, molti pentiti hanno avuto agio di accusarla. Venne accusata anche per l’omicidio di Ciro Galli, un uomo di Raffaele Cutolo. La condanna effettiva che ebbe fu la confisca dei beni, perché il Tribunale di Napoli dichiarò che era un’affiliata della Nuova Famiglia, e che in fondo, nello scacchiere tra NCO e Nuova Famiglia, anche per il legame con Ammaturo, che fu di fatto un anticutoliano, anche Pupetta apparteneva, anche se solo simbolicamente, a quella fazione.

Figura-simbolo

Pupetta Maresca ha così appassionato le cronache perché sembrava una figura da feuilleton, in grado di tenere dentro la contraddizione della giustizia, che attira il lettore sin dalla notte dei tempi. Una donna che, certo, commette ingiustizia, ma lo fa in nome di una giustizia che l’istituzione, l’apparato, non riconosce, soprattutto verso i deboli. Lei si frappone tra la povertà ignorata dalle istituzioni e il mondo criminale, tra l’ingiustizia di genere, la donna che subisce la perdita del marito, e il riscatto di genere, la donna che non aspetta tribunali o fratelli che la vadano a vendicare, ma si vendica con le sue mani. È lì che si crea il fascino, dove l’individuo si fa eroe caricandosi di un comportamento illegale per un fine presentato o percepito come giusto. Questa è stata la leggenda, mentre in realtà lei, la sua famiglia, il figlio scomparso, sono sempre stati dei criminali immersi in logiche di profitto criminale.

La sua antipatia per «Gomorra»

Ha avuto una vita lunga, Pupetta, è morta a ottantasei anni nel suo paese, a Castellammare di Stabia, coccolata e raccontata al punto che le è stato dedicato uno sceneggiato ( assai modesto) televisivo con Manuela Arcuri che ne fece una vera apologia. Mi ha sempre stupito che poco prima di morire avesse con disgusto guardato Gomorra, accodandosi a una vulgata, per la verità più borghese che popolare, di un’esaltazione del crimine, proprio lei che in realtà aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe ucciso persino bambini in culla come vendetta, proprio lei che aveva ricevuto una celebrazione con una fiction da prima serata, proprio lei accusava il racconto del crimine come un modo per affascinare e creare nuove leve. Vecchia e consumata storia. Pupetta porta con sé tutta la tragedia della recente storia napoletana: il crimine visto come escrescenza della miseria, con la punta di fascino che piace alla borghesia consentendole di osservare, con lo stesso sguardo che si dedica al folklore, una terra irrorata di sangue. Pupetta con la sua bellezza e il suo coraggio era riuscita ad appassionare anche e soprattutto la Napoli ( e non solo) non criminale. Un modo consolatorio per sentirsi estranei alle dinamiche criminali, guardarle con fascino... E invece Pupetta Maresca è stata decisamente altro, è la disperazione di una terra costretta sempre a essere raccontata con codardia, brandendo la bellezza del golfo contro chiunque ne racconti il sangue, pensando che descrivere una faida sia ignorare le sue chiese e i suoi Decumani. Tutt’altro: descrivere le faide significa invece onorare le sue chiese e i suoi Decumani, e ricordare che sono state costruite sul sangue. Non c’è verità, se la bellezza non viene raccontata nel profondo delle sue contraddizioni, se non si rifugge la tentazione di descrivere una cartolina inesistente, se non ci si impegna a cercare una traccia di verità.

Estratto del libro “Un giorno di questi” di Marco Ciriello - la memoria è di Francesco Palmieri il 30 dicembre 2021. «Ognuno si costruisce la sua sorte, la mia è di sofferenza. Guardi, guardi le mie rughe sono tutte di tristezza». E indica la fronte, sotto i capelli rosso fuoco. Le parole caricate con forza, la sento parlare e me la ricordo alla conferenza stampa del 13 febbraio ’82 quando Assunta Maresca, Pupetta, rese pubblica la sua ostilità a Raffaele Cutolo e alla NCO (la nuova camorra organizzata). 

Lanciò accuse contro i sicari, aveva paura per il fratello Ciro, forse quella conferenza-comizio gli salvò la vita, fu una grande intuizione, che le costò una mazzetta di ordini di cattura e comunicazioni giudiziarie. «Parlare mi è costato caro, per questo me ne sono stata zitta per quasi cinque anni, avevo bisogno di riflettere e pensare. Sapevo che dopo quella parlata dovevo aspettarmi conseguenze. Ma bisognava farla. E poi, chi deve morire muore, anche se rimane zitto».

Ha lavorato duro, almeno così racconta: «Sono in grado di trattare una compravendita perfino per telefono. Mi sono dedicata al commercio con più impegno di prima. Il lavoro costruito col tempo non poteva andare distrutto in questi tre anni di carcere. E poi la boutique mi fa vendere, soprattutto mi mantiene a contatto col pubblico». Quando le chiesi di parlare – andando nel suo negozio di abbigliamento uomo, donna, bambino, in via Leopardi a Fuorigrotta – prima disse no, poi sì, poi ancora no, e infine riuscimmo a sederci intorno a un tavolo per fare l’intervista, due giorni prima di Natale.

Mi ricevette in cucina, sempre cucine, come negli altri posti, pur avendo una bella casa. Non so se ricevere le persone in cucina significava dare una maggiore intimità o tagliarle fuori dalle altre stanze, di sicuro aveva un salotto. Andare a casa di queste persone significava andare nella loro cucina, anche i Bonanno nella loro casa sciatta mi ricevevano in cucina. Era quella la loro scena. 

E in mezzo una donna che emana potenza, una potenza della terra, che però la condanna a dominare, controllare quelli che le stanno intorno, essere sempre in testa. Mi appare come una cavalla imbizzarrita che però non commette errori, sa sempre cosa fare, anche se lo fa con l’intuito e non con la ragione. Sarà che quando le stai di fronte non puoi fare a meno di pensare che è la donna che a vent’anni uccise Antonio Esposito per vendicare la morte di Pascalone ’e Nola: «Ho pagato per questo, dieci anni di carcere. Ho sempre pagato ogni mia scelta. Anche per Ammaturo ho ricevuto molti fastidi».

Ammaturo è Umberto, boss. «Lo conobbi nel ’66 quando uscii dal carcere. Avemmo due gemelli, ed è finita lì. Lui ora è solo il padre dei miei figli. È di dominio pubblico il suo attuale rapporto con una donna di colore. Non c’ho mai vissuto insieme e mi meraviglia che qualunque cosa faccia Ammaturo la gente si rivolga a me. Io sto con i miei figli e basta, conduco vita appartata. Non vado a cinema né a teatro. E la sera per le nove sto a letto. Eppure, io voglio bene alla gente, sento il richiamo umano degli altri. Purtroppo pochi la pensano come me e ricambiano. E questo mi sconvolge». 

È il racconto di una donna che vuole mostrare che è dura, che è risorta, nonostante tutto, e che non ha paura mai: «Ho pellegrinato da un carcere all’altro, senza pace. Dopo le dichiarazioni, dopo quella parlata contro Cutolo su di me si è abbattuta la bufera. Ma era l’unico modo di salvare la vita dei miei fratelli. E in quelle condizioni, lo rifarei anche oggi, ora, domani. Non fu una passerella, come hanno detto. Volevo sollecitare magistratura, polizia e opinione pubblica a intervenire per porre fine a quella lotta sanguinosa, tante persone ammazzate senza motivo. Lo feci anche per loro». E la camorra? «La leggo dai giornali, penso che sia esistita sempre. Ma adesso si esagera. Oggi tutto fa camorra. Pure lo scippatore, i medici che rubano. Conviene così, fa più notizia».

Donna che poteva indossare molte maschere, non voleva sottolineare in alcun modo la sua valenza femminile, ma semplicemente si poneva al di là del sesso per le cose che diceva. Ha perso un figlio, quello di Pascalone. «Sono stati crudeli, dovevano tenere conto della sua giovane età, e che aveva una madre». 

Quasi che la camorra attraverso la morte dell’uomo che amava e del figlio avuto da lui le avesse sfilato tutto il legame con quella sua vita precedente. C’è una doppia Pupetta, forse tripla addirittura. Si porta dietro l’eredità dell’orgoglio di aver vendicato la prima delle due morti, e la rabbia di non poter replicare alla seconda, che diventa coraggio e rivendicazione verbale.

«Fui sposata con lui ottanta giorni. Meravigliosi. Poi il buio della cella. Era un gigante buono, l’uomo dei miei sogni. Ancora desidero le cose migliori, come se non fossero mai venute. Ero troppo giovane quando le ho vissute». Si sente la sua ricerca della spensieratezza, mentre parliamo penso che non mostra sensualità, nemmeno elementi di seduzione, è presa dalla missione principale: «Voglio essere scagionata. Non sono la Madame Camorra che hanno dipinto. Chi è innocente non può rassegnarsi. Amo disperatamente i carcerati, chiunque siano. Perché c’è chi non ha la forza o la possibilità di reagire come ho fatto io, e magari resta dentro anche l’innocente. Ho girato tanti istituti di pena. Orribili. Solo a Nisida e Avellino ho trovato rispetto per i detenuti».

E Napoli? «Forse la lascerò, non lo so. Prima non l’avrei abbandonata. Mi sembra che stia perdendo la solidarietà umana. Oggi si ammazzano gli uni con gli altri e nessuno interviene. Manca il coraggio: io darei la vita per uno sconosciuto. Sono un’istintiva, non condivido questa apatia. È come se anche il sole e la luna di Napoli non fossero più quelli che amavo». È davvero sola? «Sì, ma mi sento forte. Sono credente. È come se un esercito invisibile si schierasse con me».

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” l'1 novembre dicembre 2021.

"Le Figaro" l'aveva chiamata "Madame Camorra"; Manuela Arcuri la interpretò in una fiction. Lei, Pupetta Maresca, si descrive come una donna che amava cantare, vivere e che, se ha ucciso , l'ha fatto solo per senso di giustizia. 

Certo è che della vita di Pupetta Maresca rimangono saldi alcuni avvenimenti storici. Un matrimonio lampo con Pasquale Simonetti, boss del mercato di Napoll e amico di Lucky Luciano, freddato per motivi di controllo del territorio.

Un omicidio commesso per "giustizia " da Pupetta nei confronti di chi le portò via l'amore . Un secondo matrimonio con Umberto Ammaturo, boss della camorra e affiliato alla parte degli stabiesi, oltre che alleato con Escobar nel traffico internazionale di armi. 

Pupetta ha vissuto in prima persona la guerra tra clan a Napoli che in soli tre anni fece più di 1.500 morti all'inizio degli anni Novanta ed oggi, malata, racconta qualche stralcio di una vita vissuta sempre al limite ma, come dice lei, sempre con passione.

Parlando con Pupetta Maresca si comprende un pezzo di cultura della criminalità organizzata degli anni Ottanta e Novanta. Un pezzo di storia italiana, che sarebbe assur-do dimenticare. 

«Gomorra è diseducativa per i bambini. Ho visto una puntata, ma di fronte a certe scene anch' io ho spento la tv». A parlare è Pupetta Maresca, la donna della camorra che osò sfidare il capo della criminalità organizzata di Napoli Raffaele Cutolo negli anni Ottanta. 

Oggi Pupetta, una storia da film, non sta bene. La incontro nella sua casa di Castellammare di Stabia, all'ultimo piano di uno stabile che ha visto combattere i clan della Nuova Camorra Organizzata, quella di Cutolo, contro quelli della Nuova Famiglia, dei Giuliano, Bardellino e Ammaturo. 

Nonostante la malattia Pupetta è sempre una bella donna, la cui vita è passata dal carcere al cinema per terminare con le fiction. «Sono nata il 19 gennaio 1935 a Castellammare di Stabia, in via Tavernola 29. Eravamo sette figli: quattro maschi e tre femmine. Delle femmine, io ero la più grande. Due maschi erano più grandi me, gli altri due più piccoli»

Che tipo di famiglia eravate, Pupetta?

«Una famiglia agiata, la nostra, e un padre padrone. Anche la mamma, per dire la verità, non scherzava. Era autoritaria. Ma la severità di papà era unica. Se arrivava a casa una persona con la quale lui doveva parlare a quattr' occhi, bastava un suo sguardo e dovevamo scomparire tutte quante noi donne. Altrimenti, botte».

Cosa faceva tuo padre?

«Avevamo una salumeria molto avviata e, poco distante, la macelleria. Io tutte le mattine, alle sei in punto, prendevo servizio alla macelleria, per poi rientrare a casa per occuparmi delle faccende domestiche: fare i letti, lavare, stirare. Cantavo ad alta voce le canzoncine che andavano di moda e la gente passava davanti al negozio e mi ascoltava sorridendo. Eravamo in piena guerra e anche noi, a Castellammare, dovevamo subire i bombardamenti aerei americani». 

Che ricordi hai della Seconda guerra mondiale?

«Ero piccolina, ma ne ho tanti stampati nella mia memoria. Ricordo dopo l'8 settembre del 1943, il giorno dell'armistizio, arrivarono i tedeschi con i mitra spianati. La sera salivano sul monte a piedi e ci guardavano con occhi feroci. Una mattina, dal balcone di casa mia, vidi i tedeschi catturare i maschi ad uno ad uno per portarli nei lager. Feci in tempo ad urlare a papà: "Scappa! Scappa! Fùi, fùi, fùi". E si salvò. Avevo paura del buio...». 

Che ricordo hai degli americani?

«Tedeschi e fascisti avevano perso la guerra e gli americani erano simpatici, molto carini. Cantavano, ci rifornivano di cioccolato e di ogni altro cibo. C'era da mangiare per tutti. Si cominciava ad essere felici. Gli anni del dopoguerra furono gli anni che videro l'inizio della mia adolescenza. Ricordo con nostalgia il rock». 

...e il tuo primo amore?

«Un ragazzo tedesco, figlio di un esperto contabile che lavorava a Napoli, presso la direzione della flotta dell'armatore Achille Lauro, e che a Napoli aveva trasferito tutta la famiglia: la moglie e i quattro figli: Laura, Anna e Mattia. Del quarto non ricordo il nome.

Ma il mio primo ragazzo fu Mattia, che si era innamorato di me. Suo padre, durante l'occupazione, collaborava con i nazisti e faceva loro da guida quando si recavano ad arrestare i militari italiani che si erano nascosti con l'intenzione di resistere all'occupazione». 

E tu?

«Quando venni a saperlo, lo rinfacciai a Mattia, gli diedi del traditore. Non volli più saperne di lui. Poi ebbi un flirt con un ragazzo di circa diciott' anni, Bruno. Famiglia benestante, proprietaria di un importante caseificio. 

A Bruno piacevano le canzoni, come a me, e le cantavamo assieme. Ma lui era un po' violento. Troppo, per me. Una sera picchiò a sangue una ragazza che ci aveva molestato. Lo lasciai. Mi accadrà poi di incontrarlo casualmente alcune volte, a Napoli, in compagnia della moglie e della loro figlia. E finalmente conobbi Pasquale Simonetti...». 

Pascalone O' Nola.

«Pochi giorni dopo esserci conosciuti mi disse che ero bella, che gli piacevo, che mi voleva sposare. Non potei resistere più di sei mesi. E ci sposammo. Per poco tempo riuscimmo ad essere felici assieme. Perché e affiliato alla parte degli stabiesi, oltre che alleato con Escobar nel traffico internazionale di armi. me lo ammazzarono».

Come accadde?

«La macchina, a volte la guidava l'autista, a volte Pascalone, e ricordo come fosse ieri la mattina in cui un'automobile prese a inseguirci. Pascalone era al volante e appena se ne rese conto frenò bloccando l'inseguitore, scese, aprì la sua portiera e lo tirò fuori come se fosse una borsa. Io ebbi paura e lo supplicai di lasciarlo andare. Così lo lasciò andare.

Era il primo segnale del conflitto che stava aprendosi tra Pascalone e Antonio Esposito, "Totonno 'e Pomigliano", per il controllo del mercato ortofrutticolo. Il conflitto riguardava il prezzo delle patate. 

Esposito voleva abbassare i prezzi. Pascalone era di parere opposto: li voleva più altio. Due punti di vista, e due personalità, inconciliabili. Finchè si giunse a quel terribile 16 luglio 1955, esattamente ottanta giorni dopo il nostro sì matrimoniale». 

Lei era già incinta?

«Sì. Ottanta giorni erano trascorsi tra le nostre nozze e l'assassinio di Pascalone. E ottanta esatti ne trascorsero tra la morte del mio amato marito e la mia vendetta, anzi giustizia, che si concretizzò con l'uccisione, a colpi di pistola, di colui che aveva ordinato di uccidere Pascalone. Non capivo niente.

Ero una ragazza che voleva andare a ballare, che voleva essere felice. Sul corpo di Esposito furono trovati altri colpi di pistola oltre a quelli che avevo sparato io. Chi furono quelli che gli spararono? Non è stato mai provato che fu proprio la mia pistola ad ucciderlo». 

Perché uccise?

«Io avevo ucciso per amore, cioè per vendicare il mio uomo, e per non essere ammazzata, non soltanto io, ma anche il bambino che portavo in grembo. Cioè, avevo sparato per legittima difesa». 

Lei andò in carcere, e lì nacque Pascalino, il figlio del suo marito assassinato.

«Pascalino nacque a gennaio e per me fu un momento bellissimo, di grande gioia, anche se già immaginavo il dolore che mi avrebbe aggredito quando, dopo il periodo di allattamento, avrei dovuto separarmi da lui».

La sua fama divenne internazionale, addirittura ricevette in regalo abiti per suo figlio dalla regina di Persia.

«Fu così, un gesto molto bello che ricordo con affetto». 

Uscita dal carcere si fidanzò con Ammaturo, uno dei boss della camorra. Come andò?

«Umberto lo avevo conosciuto a casa di una mia amica, poco tempo dopo essere tornata in libertà. Mi sentivo sola. Avvertivo di essere incompresa anche da parte dei miei genitori. Una sera venne a prendermi e mi portò a cena a Pompei. Poi, correttissimo, mi riportò a casa. Mi corteggiava, mi telefonava con insistenza. Ci sposammo e dal nostro amore nacquero due figli». 

Ammaturo poi si è pentito e ha dichiarato che è stato lui a uccidere Semeraro, tagliandogli la testa perché aveva tradito.

«Se lo ha detto lui... Quel periodo fu terribile, e in tre anni ci furono più di 1500 esecuzioni nella lotta tra Cutolo e la Nuova Famiglia». 

E la sua conferenza stampa contro Cutolo al circolo della stampa di Napoli?

«C'era in palio la mia vita. Se avessi taciuto, sarei morta nel silenzio e nell'indifferenza generale. Desidero però chiarire che, in quell'occasione, non dissi, rivolta a Cutolo: "Io ti ammazzo!", ma dissi: "Se tocchi i mei fratellini io faccio la stessa cosa a te". 

La mattina dopo, il telefono di casa mia prese a squillare. Alzavo la cornetta ed erano continue minacce di morte: "Devi morire!", "Maledetta!". Incominciai a rispondere per le rime: "Io alle nove, ogni mattina, vado ad aprire il mio negozio di abbigliamento. Ti aspetto là. O muoio io, o muori tu". Non venne mai nessuno.

E tuttavia trascorsi giorni di tensione, di paura, soprattutto pensando alla tutela dei miei due figli gemelli, allora dodicenni, che frequentavano le medie e ogni mattina dovevano recarsi na scuola». 

I giornalisti, la stampa, l'avevano idealizzata, era diventata una "tagliatrice di teste": nacque il mito di Pupetta. Oggi Pupetta cosa desidererebbe?

«Che i miei ragazzi siano felici. E sapere la verità su chi uccise mio figlio Pascalino».

·        È morto Desmond Tutu.

Da open.online il 26 dicembre 2021. L’arcivescovo Desmond Mpilo Tutu, famoso oppositore dell’apartheid in Sudafrica, è morto all’età di 90 anni. Primo arcivescovo di colore a Città del Capo, Tutu vinse il premio Nobel per la pace nel 1984. Ha coniato la famosa espressione «Rainbow Nation» per riferirsi al suo paese d’origine poi ripresa da Nelson Mandela. Ha superato una diagnosi di cancro alla prostata nel 1996. La sua visione politica era ispirata al concetto africano di ubuntu, ovvero quello di una società senza divisioni e nella quale ciascuna persona ha un ruolo. Dopo la fine dell’apartheid guidò la Commissione per la verità e la riconciliazione, si è battuto anche contro le discriminazioni dei gay nella chiesa e si è detto favorevole all’eutanasia. In suo onore Miles Davis chiamò “Tutu” il suo album pubblicato nel 1996, mentre gli U2 lo citarono espressamente nella canzone Silver and Gold, polemizzando con le nazioni che non volevano appoggiare il boicottaggio economico del Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

È morto Desmond Tutu, l’arcivescovo che sconfisse l’apartheid in Sudafrica. Carlo Baroni su Il Corriere della Sera il 26 Dicembre 2021. Desmond Tutu è morto oggi all’età di 90 anni: con lui si chiude il capitolo più importante della storia del Sudafrica. È stato il volto sorridente nella lotta contro l’apartheid. Ha demolito il razzismo con la forza delle sue parole. Alle quali non sapevi controbattere. Desmond Tutu è morto oggi, 26 dicembre, a Cape Town. Aveva 90 anni. E con lui si chiude il capitolo più importante della storia del Sudafrica. 

«Il presidente Cyril Ramaphosa esprime, a nome di tutti i sudafricani, la sua profonda tristezza per la morte dell’Arcivescovo emerito Desmond Mpilo Tutu», si legge in una nota della presidenza della Repubblica sudafricana. «La sua scomparsa è un altro capitolo del lutto della nostra nazione: diamo l’addio a una generazione di formidabili concittadini che hanno contribuito a lasciarci in eredità un Sudafrica libero». 

Come religioso, Tutu aveva potuto esporsi di più. Ma anche le responsabilità erano aumentate. La sua voce era il megafono di una sofferenza che non si poteva urlare. 

Veniva da una famiglia povera, ma non indigente, dell’etnia Xhosa, la stessa di Nelson Mandela. Studi in Inghilterra ed esperienze in giro per il mondo. Aveva capito che il sistema di segregazione razziale non si poteva abbattere con la violenza, anzi il terrorismo dei gruppi armati giustificava la repressione. Ma comprendeva la rabbia di chi veniva oppresso. «Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore. Se un elefante ha la zampa sulla coda di un topo e voi dite che siete neutrali, il topo non apprezzerà la vostra neutralità». 

La comunità internazionale aveva colto nei gesti di questo piccolo vescovo i germi di un cambiamento che sembrava impossibile a tutti gli analisti politici. 

Nel 1984 gli era stato conferito il premio Nobel per la Pace. Un avvertimento per gli architetti dell’apartheid. 

Ma la firma indelebile di Desmond Tutu sarà quella scritta sulle pagine del dopo apartheid. Quando era il momento di provare a lacerare le ferite e a non permettere che i nuovi padroni diventassero a loro volta oppressori. 

L’intuizione geniale della Commissione per la Verità e la Riconciliazione metterà vittime e carnefici intorno allo stesso tavolo. Gli uni a chiedere un perdono che non lavava via le macchie del passato ma era pur sempre una ripartenza, gli altri ad accettare di rinunciare a una vendetta più che comprensibili secondo i canoni umani. 

In questo Desmond Tutu è stato grande.

È morto Desmond Tutu, l’arcivescovo che lottò contro l’apartheid in Sudafrica. Primo vescovo nero di Johannesburg e premio Nobel per la pace, Tutu ha sempre lottato per difendere gli oppressi. Aveva 90 anni. Il Dubbio il 26 dicembre 2021. È morto all’età di 90 anni l’arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu, icona della lotta contro l’apartheid e premio Nobel per la pace. Ad annunciarlo in una nota è il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, esprimendo «una profonda tristezza a nome di tutti i sudafricani». «La scomparsa dell’arcivescovo emerito Desmond Tutu – ha detto – è un altro capitolo del lutto nell’addio della nostra nazione a una generazione di eccezionali sudafricani che ci hanno lasciato in eredità un Sudafrica liberato». Primo arcivescovo anglicano nero di città del Capo, Tutu ha sempre lottato per difendere gli oppressi e coloro che non avevano diritti. Sono diverse le sue iniziative politiche rivolte ad abbattere le differenze tra bianchi e neri nel Paese che lo hanno portato a ricevere il Nobel per la Pace nel 1984. È stato anche presidente della commissione Truth and Reconciliation Commission che aveva il compito di indagare sulla violazione dei diritti umani. Suoi gli scritti Crying in the wilderness (1982) e Hope and suffering (1983), No future without forgiveness (1999) e God has a dream: a vision of hope for our time (2004). Sarebbe stata coniata da lui la frase Rainbow Nation, nazione arcobaleno, per descrivere il suo paese. Nemico giurato dell’apartheid, Tutu ha lavorato instancabilmente, in modo non violento, per la sua sconfitta. Il prelato dalla voce schietta usò il suo pulpito come primo vescovo nero di Johannesburg e in seguito arcivescovo di Città del Capo, nonché frequenti manifestazioni, per galvanizzare l’opinione pubblica contro l’iniquità razziale sia in patria che a livello globale. Desmond Mpilo Tutu è nato il 7 ottobre 1931 a Klerksdorp, una città a ovest di Johannesburg, ed è diventato insegnante prima di entrare al St. Peter’s Theological College di Rosetenville nel 1958 per la formazione sacerdotale. Fu ordinato sacerdote nel 1961 e sei anni dopo divenne cappellano dell’Università di Fort Hare. Si trasferisce nel minuscolo regno dell’Africa meridionale del Lesotho e di nuovo in Gran Bretagna, con Tutu che torna a casa nel 1975. Diventa vescovo del Lesotho, presidente del South African Council of Churches e, nel 1986, primo arcivescovo anglicano nero di Cape Town. Tutu fu arrestato nel 1980 per aver preso parte a una protesta e in seguito gli fu confiscato il passaporto per la prima volta. Ha recuperato il documento per effettuare viaggi negli Stati Uniti e in Europa, dove ha tenuto colloqui con il segretario generale delle Nazioni Unite, il Papa e altri leader della chiesa. 

Aveva 90 anni. E’ morto Desmond Tutu, il premio Nobel per la pace che ha lottato contro l’apartheid in Sudafrica. Redazione su Il Riformista il 26 Dicembre 2021. Il Sudafrica e il mondo intero piange la scomparsa di un’icona della lotta contro l’apartheid. È morto all’età di 90anni l’arcivescovo anglicano del Sudafrica Desmond Tutu, che vinse il premio Nobel per la Pace nel 1984 per la sua opposizione non violenta al governo razzista della minoranza bianca in Sudafrica.

Ad annunciarlo in una nota è il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, esprimendo “una profonda tristezza a nome di tutti i sudafricani”. Ramaphosa lo ha descritto come “un patriota senza eguali; un leader di principio e pragmatismo che ha dato significato all’intuizione biblica che la fede senza le opere è morta”.

“Il decesso dell’arcivescovo emerito Desmond Tutu è un altro capitolo di lutto nell’addio della nostra nazione a una generazione di sudafricani eccezionali che ci hanno lasciato in eredità un Sudafrica liberato”, ha aggiunto il leader del Sudafrica.

Il prelato, soprannominato ‘the Arch’, era malato da mesi. Non parlava più in pubblico, ma sorrideva ancora alle telecamere che lo seguivano nei suoi spostamenti, come quando è andato a ricevere il vaccino anti-Covid in un ospedale del Paese.

La morte di Tutu arriva poche settimane dopo quella dell’ultimo presidente sudafricano dell’era dell’apartheid, FW de Clerk, morto all’età di 85 anni.

L’impegno nella lotta contro il razzismo

Il prelato dalla voce schietta usò il suo pulpito come primo vescovo nero di Johannesburg e in seguito arcivescovo di Città del Capo, nonché frequenti manifestazioni, per galvanizzare l’opinione pubblica contro l’iniquità razziale sia in patria che a livello globale.

Con la fine della triste parentesi dell’apartheid, dopo che Nelson Mandela era stato eletto presidente del nuovo Sudafrica, Tutu ideò e presiedette la Truth and Reconciliation Commission, creata nel 1995 con il compito di indagare sulla violazione dei diritti umani.

La commissione, impegnata in un doloroso e drammatico processo di pacificazione fra le due parti della società sudafricana, mise in luce la verità sulle atrocità commesse durante i decenni di repressione da parte dei bianchi. Il perdono fu accordato a chi, fra i responsabili di quelle atrocità commesse avesse pienamente confessato: una forma di riparazione morale anche nei confronti dei familiari delle vittime.

Il percorso religioso

Nato il 7 ottobre 1931 a Klerksdorp, una città a ovest di Johannesburg, Tutu è diventato insegnante prima di entrare al St. Peter’s Theological College di Rosetenville nel 1958 per la formazione sacerdotale. Ordinato sacerdote nel 1961, sei anni dopo diventa cappellano dell’Università di Fort Hare. Poi il suo impegno tra Sudafrica e Regno Unito. Si trasferisce prima nel minuscolo regno dell’Africa meridionale del Lesotho e poi di nuovo in Gran Bretagna. Ritorna nuovamente a Lesotho nel 1975, dove diventa vescovo e presidente del South African Council of Churches. Nel 1986 è il primo arcivescovo anglicano nero di Cape Town.

Tutu fu arrestato nel 1980 per aver preso parte a una protesta e in seguito gli fu confiscato il passaporto per la prima volta. Ha recuperato il documento per effettuare viaggi negli Stati Uniti e in Europa, dove ha tenuto colloqui con il segretario generale delle Nazioni Unite, il Papa e altri leader della chiesa.

Autore di numerosi scritti con cui ha divulgato la sua idea di lotta non violenta contro il razzismo, Tutu avrebbe coniato la frase Rainbow Nation, nazione arcobaleno, per descrivere il suo paese.

·        E’ morto il regista e produttore Jean-Marc Vallée.

Jean-Marc Vallée rip. Marco Giusti per Dagospia il 27 dicembre 2021. Ci ha fatto piangere con “Dallas Buyers Club”, e ha dirette le migliori serie al femminile degli ultimi tempi, “Sharp Objects” e “Big Little Lies”. Ha diretto grandi attori, da Laura Dern a Nicole Kidman, da Jake Gyllenhaal a Naomi Watts, dando nuova vita alle carriere di Matthew McConaughey e Jared Leto, entrambi premiati con l’Oscar, per le loro interpretazioni in “Dallas Buyers Club”. Se ne va a 58 anni il regista e produttore canadese Jean-Marc Vallée, un talento unico nella direzione degli attori e nella costruzione di personaggi problematici. Nato a Montreal nel Quebec nel 1963, aveva studiato cinema all’Università del Quebec e aveva esordito girando una serie di videoclip di successo nei primi anni ’90. Dirige il suo primo film in Canada, “Liste noire”, ma si sposta presto in America per il curioso western “Posse II” con Mario Van Peebles, seguito da “Loser Love”. Ma il film che lo segnala all’attenzione del cinema internazionale è “C.R.A.Z.Y”, ritratto di un giovane franco-canadese, interpretato da Marc-André Grondin, che nei primi anni ’60, cerca di crescere da omosessuale in un paese ancora represso e cattolico. Passa a tutt'altro genere con il ricco “The Young Victoria”, filmone inglese scritto da Julian Fellowes e interpretato da Emily Blunt nei panni della giovane Regina Vittoria, Rupert Friend come Principe Albert, Paul Bettany come Lord Melbourne, Miranda Richardson come Lady Kent, che vince un Oscar per i costumi di Sandy Powell. E’ un film d’amore molto riuscito il successivo “Café de Floré” con Vanessa Paradis, ma il vero successo arriva solo nel 2013 con “Dallas Buyers Club”, 6 nominations agli Oscar e 3 vinti, potente ritratto di Ron Woodroof, semplice elettricista che nel 1985 lotta per far riconoscere i diritti dei malati di Aids e poter disporre delle medicine per curarsi. Con “Wild”, interpretato da Reese Witherspoon e scritto da Nick Hornby, due nomination, mette in scena il viaggio in solitaria per 1500 miglia di una donna che deve riprendersi da una vita di merda, un padre alcolista che menava, una madre morta di cancro, un marito molliccio che ha tradito con tutti, brutte abitudini di crack e di eroina. Anche in questo caso tutto ruota attorno alla caduta e al recupero di un personaggio che deve rivedere la propria vita e trovare la propria dignità. Sarà il tema anche del suo ultimo film, “Demolition” con Jake Gyllenhaal, dove un uomo di successo, distrutto dalla morte della moglie in un incidente stradale, reagisce facendo a pezzi la propria casa. Questo sarà di fatto l’ultimo film di Jean Marc Vallée. Dopo aver lavorato per un paio di anni a un progetto sulla vita di Janis Joplin, che doveva essere interpretata da Amy Adams, Vallée passerà alla regia di due serie di grande successo, “Big Little Lies” con Nicole Kidman, Reese Witherspoon, Laura Dern, Shailene Woodley nel 2017 e “Sharp Objects” con Amy Adams e Patricia Clarkson nel 2018. Al centro delle due serie sono complesse figure femminili. Ma molto del personaggio autodistruttivo di Janis Joplin si può ritrovare nella figura della reporter, interpretato da Amy Adams in “Sharp Objects”, che si confronta con il proprio passato e con un recente delitto in un ritorno a casa per nulla facile. 

·        E’ morta la scrittrice Joan Didion.

Morta la scrittrice Joan Didion: il suo stile nitido sulle orme di Hemingway. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2021. Vinse il National Book Award nel 2005 per la saggistica con L’anno del pensiero magico. Un suo articolo di crudele franchezza mandò su tutte le furie la first lady Nacy Reagan. Da bambina ricopiava i racconti di Hemingway in cerca del segreto che nessuno era mai riuscito a rubare, la magia della sintesi fulminante e del linguaggio trasparente che avevano cambiato la letteratura americana. Da grande dimostrò al mondo che quel segreto a lei era stato svelato. Il gigante con i baffi di Oak Park, Illinois, si era reincarnato nella minuta ragazza-bene di Sacramento, California. Joan Didion, morta ieri a New York pochi giorni dopo il suo ottantasettesimo compleanno e dieci anni dopo l’uscita del suo ultimo libro, Blue Nights, uno dei capolavori di terribile bellezza e infinito dolore della sua vecchiaia, soffriva da tempo del morbo di Parkinson (un bel documentario-lettera d’amore a lei dedicato dal nipote attore Griffin Dunne ce la mostrò su Netflix quattro anni fa senza fare sconti al declino fisico, sempre più sottile nel corpo e nella voce).

Come Hemingway, Didion ha preso la lingua inglese degli americani e l’ha portata su un piano diverso, nel quale la chiarezza dello stile illumina ogni cosa: i personaggi, i dettagli, le idee dell’autore. Superando anche il maestro in materia di analisi politica, che a lui non interessava (troppo preso da caccia e pesca e dall’inseguimento della sua idea di mascolinità) e alla quale lei ha dedicato alcune delle sue pagine più strabilianti, passando ai raggi X gli uomini di potere di Washington degli ultimi quarant’anni (un suo articolo di devastante, crudele franchezza provocò nell’allora first lady della California Nancy Reagan un odio per i giornalisti che non la abbandonò mai più).

Didion è stata giornalista e narratrice fondendo le tecniche e le regole dei due mestieri proprio come Hemingway prima di lei, e applicando un senso dell’osservazione quieto e spietato. Leggendo Didion si prova la stessa sensazione che si prova, da miopi o da presbiti, infilando gli occhiali: tutto diventa improvvisamente, finalmente, nitido. La ragazza che sognava di fare la giornalista vinse un concorso di «Vogue» e dalla natìa California andò a New York a scrivere didascalie di moda (palestra fondamentale: Didion ci insegna, tra le tante cose, che per capire una donna non si può non considerare anche come si veste e come si trucca).

Una foto famosa — gli scrittori americani hanno chissà perché il dono della fotogenia: ottantenne, fu testimonial di Céline — la ritrae ragazza chic in giacca cerata inglese da caccia e foulard Hermès accerchiata dai fricchettoni della San Francisco della Summer of Love, l’estate dell’amore (e soprattutto dell’Lsd). Più avanti, eccola con la tunica fluente nella casa Malibu con la sua Stingray coupé. E nella bella cucina luminosa con la figlia adoratissima Quintana Roo e il marito-mentore John Gregory Dunne, bravo romanziere e critico sagace che molto la fece soffrire ma senza il quale, come vedremo, non poteva vivere.

Strutturalmente incapace di sentimentalismo e proprio per questo ancora più emozionante, come il cinema di Michelangelo Antonioni, Didion nel 1970 pubblicò un romanzo — Prendila così, tradotto in Italia da Bompiani e poi da Il Saggiatore — che ha lanciato, oltre alla sua, anche la carriera di una generazione di scrittori americani dopo di lei (il giovane Bret Easton Ellis la idolatrava, ricopiandone i testi come lei faceva con Hemingway), e la cui scena più famosa è quella, terrificante, di un aborto (allora ancora illegale).

Doveroso ricordare Didion come la creatrice di frasi indimenticabili e molto citate — «È facile vedere l’inizio delle cose, più difficile vederne la fine», «raccontiamo storie a noi stessi per vivere», «la vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita», «questa città che svanisce rapidamente nell’abisso tra la sua vita reale e le sue narrazioni preferite», riferendosi a New York — ma in lei lo stile lapidario e difficilissimo da tradurre (per fortuna in Italia abbiamo Vincenzo Mantovani e Delfina Vezzoli) è sempre lo strumento per raccontarci senza fronzoli la verità. I politici? Pupazzi, cinicissimi, spiazzati dagli eventi. A volte in buona fede, altre meno. La sua California? Rievocata senza nostalgie, con la bravura con la quale descrive le sue spaventose emicranie.

Gli articoli di Verso Betlemme e The White Album e Nel paese del Re pescatore (Il Saggiatore) prendono a prestito le tecniche della narrativa e i suoi romanzi come Miami sono prodigi di giornalismo. Lavorò, con John, anche per il cinema ma Hollywood, nella sua inevitabile volgarità, ne capiva a fatica la sottigliezza e non riuscì a tradurla davvero sullo schermo per commercializzarla: lei non se ne dolse.

Gli ultimi anni, quelli della vecchiaia, sono aperti e chiusi da due libri brevi e devastanti, nei quali la profondità assoluta dello sguardo didioniano si rivolge all’immagine dello specchio, l’autrice e la sua vita. Sono due racconti di perdite irrimediabili: L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore) è quello della morte improvvisa di John, a cena, una sera come tante, lui che si accascia, lei all’ospedale (Didion viene descritta al medico come «un osso abbastanza duro»), e dopo la morte del marito la malattia della figlia Quintana, un calvario che la porterà alla morte in giovanissima età raccontato nel libro finale della carriera di Didion (le uscite successive furono raccolte e riedizioni), Blue nights (edito dal Saggiatore).

Adesso che non c’è più, adesso che la grande casa sulla Settantunesima est a pochi passi dal parco è vuota, è giusto ricordare Joan Didion con le ultime parole del suo ultimo libro: «So cos’è la fragilità, so cos’è la paura. La paura non è per ciò che è andato perso. Ciò che è andato perso è già murato in una parete. Ciò che è andato perso è già chiuso dietro porte sbarrate. La paura è per ciò che c’è ancora da perdere. Potreste dire che non vedete cosa ci sia ancora da perdere. Eppure non c’è giorno della sua vita in cui io non la veda».

L’anno del pensiero magico, d’ora in poi, sarà ogni anno nel quale crederemo di vedere uno scrittore simile a Joan Didion. 

Mario Platero per “Robinson - la Repubblica” il 23 dicembre 2021. Cominciamo con una premessa: prima di essere la più grande scrittrice americana del nostro tempo, Joan Didion è stata una donna che dal suo debutto, alla fine degli anni Cinquanta ha bruciato le tappe dell' emancipazione femminile in un mondo occupato da uomini. Lo ha fatto in modo originale, solitario, determinato, efficace. Le chiedo quanto fosse decisa a farcela in questo mondo dominato dai maschi, se si rendeva conto di aprire con la sua opera, con la sua vita, nuove frontiere per le donne: «Non avevo coscienza di essere una donna che apriva nuove strade per altre donne, non pensavo a me stessa in quell' ottica», mi dice in un' intervista a New York dalla sua casa sulla 71 East dove è in prudente lockdown dall' inizio della pandemia e da dove si concede al massimo una puntata a Central Park. Mi torna in mente una sua frase in una delle sue prime collezioni di saggi, ‘’Verso Betlemme’’ (riuscito in Italia, come gli altri titoli, da il Saggiatore): «Sono così piccola fisicamente, così discreta per temperamento e così nevroticamente inarticolata che la gente tende a dimenticare che la mia presenza va contro i loro migliori interessi». È un tema ricorrente. Lo ripropone in uno dei saggi del suo ultimo libro e quando le chiedo di commentare mi conferma: «La mia apparente fragilità era davvero la mia arma segreta». Dietro questa fragilità solo apparente, fisica, di allora, c'erano anche incertezze, insicurezze, disperazione, sentimenti ricorrenti nella sua opera e nei suoi umori. Ma su tutto, sul lutto, sulle paure, sul senso di vuoto, hanno sempre prevalso la tenacia, il carattere, la precisione, il metodo. Anche per questo - pur provata fisicamente come è oggi - Joan Didion è riuscita a darci a 86 anni questo altro libro, Let Me Tell You What I Mean, pubblicato a New York da Knopf appena poche settimane fa, una collezione di saggi scritti fra il 1968 e il 2000. I più vecchi, quelli del 1968, ci portano a un passato remoto denso di nostalgia per il lettore di oggi. In "Pretty Nancy" nella cornice di un' intervista con Nancy Reagan, quando Ronald era ancora governatore della California, c' è una descrizione puntuale dell' America contemporanea di allora, che non esiste più. In "Non essere scelta dall' università preferita" c' è il ricordo, umiliante e deprimente, della lettera con cui veniva respinta la sua domanda di ammissione a Stanford. Fu poi ammessa a Berkeley e, come ci racconta, andò anche meglio. In " Why I Write" confessa che ci volle del tempo, anche all' università, per capire che la sua era una vocazione da scrittore. Solo dopo, dopo le raccolte di saggi, a partire da White Album ci avrebbe dato alcuni capolavori. Penso a ‘’L' anno del pensiero magico’’ del 2005. È scrivendo il Pensiero magico che Joan riesce a superare la disperazione per la perdita improvvisa nel 2003 di suo marito John Gregory Dunne, del compagno della sua vita, dello scrittore amico, irascibile, con cui confrontare opere e pensieri. Proprio nel 2005 muore anche sua figlia Quintana Roo a 39 anni. Un altro immenso dolore. A Quintana, unica figlia, adottata a Hollywood, dedica un altro libro, Blue Nights. Ma è con ‘’L' anno del pensiero magico’’ che ha vinto il National Book Award ed è intuitivo pensare che questa sua opera sia adatta a questo momento terribile per l' America, travolta dal più grande lutto collettivo della sua storia. La fuga nel "pensiero magico" potrebbe aiutare, ma di questo nella nostra intervista Joan non ne vuole parlare, non vuole fare confronti o collegamenti tra il suo libro e questa tragedia contemporanea. Piuttosto, come spesso le succede (pensiamo a quante anticipazioni ci sono nella sua opera!) preferisce guardare in avanti, al dopo, e, pensando al futuro, non può fare a meno di essere angustiata: «Sono preoccupata per quel che succederà quando il Covid sarà superato - mi dice - lo sono per quel che, per molti, potrà essere la conseguenza in termini di stabilità mentale » . Se ne parla ovviamente, quanto del nostro equilibrio pre Covid resterà intatto nel post Covid? La domanda è profonda e spaventosa allo stesso tempo. E per ora non abbiamo risposte. Quella con Joan non è stata un' intervista facile. Già, in generale, tutto avviene a distanza, via Zoom o al telefono. Ma con Joan neppure Zoom è possibile. È oltremodo affaticata. Parla pochissimo. Le sue frasi sono brevissime, spesso monosillabiche. L' ultima volta che la vidi, un paio di anni fa, la sua fragilità era preoccupante. Oggi è ancora più magra, sembra un fuscello pronto a volare con un soffio di vento. È di nuovo un' apparenza, perché poi, come abbiamo visto, lavora e pubblica ancora. Il suo pensiero, come mi sono accorto dall' interazione su domande e risposte, è arguto e selettivo. Alla fine, con l' aiuto della sua editor storica, Shelley Wanger di Knopf, siamo arrivati all' unica soluzione possibile, quella di contattarci via mail. Mi dispiaceva non ascoltare la sua voce esitante ma chiara, non sorprendermi per la sua risata gioiosa e improvvisa o non seguire il suo gesticolare teatrale e complementare al movimento del suo pensiero. Lo avevo seguito in altre occasioni. Ci si vedeva, ormai molti anni fa a casa di Camilla e Earl McGrath, sulla 57esima West, proprio davanti alla Carnegie Hall. Era uno dei grandi salotti intellettuali di una New York di un altro tempo. Oltre a John Dunne e Joan Didion c'erano il fratello di John, Nick e suo figlio Griffin. Griffin è un regista, alcuni anni fa ha girato uno splendido e commovente documentario su Joan che potete trovare su Netflix. C' erano Ahmet Ertegun, di origine turca, il leggendario raffinatissimo fondatore della Atlantic record - che lanciò tra gli altri Ray Charles e i Rolling Stones in America - e sua moglie Mica; artisti come Larry Rivers o Cy Twombly, se era di passaggio a New York. Editori come Sonny Mehta e molti altri. Earl, un mercante d' arte, era un amico da sempre, dai tempi della California, nella seconda metà degli anni Sessanta, ben prima del ritorno a New York. Joan lo ricorda più volte nell' Anno. E pensando al momento difficile che stiamo passando mi concede due riflessioni, una sull' amicizia e l' altra sulla nostalgia che diventano elementi chiave per il conforto e per la fuga mentale in questi lunghi momenti di isolamento. « L' amicizia o la famiglia sono un pilastro quando si affronta una perdita - dice Joan - se penso a Earl penso a un' ancora, lo stesso vale per Harrison». Harrison è Harrison Ford, il grandissimo attore. Prima della sua orbita fra le stelle di Hollywood, faceva il falegname. Come racconta lui stesso in varie occasioni, andò a vivere con John e Joan per ampliare la loro casa. Erano già celebrità, lui, invece, uno sconosciuto. Ma lo invitavano con la moglie e i figli alle feste comandate. E lui andava con riconoscenza. Il rapporto, dopo, non è mai più cambiato. Chiedo a Joan se un balzo nostalgico nel passato può aiutare, se può essere un balsamo per i momenti di sconforto, anche quelli dal lockdown pandemico. « Non so se la nostalgia sia un balsamo per curare lo spirito quando sei giù - risponde, confermando quanto la sua concezione di nostalgia sia avulsa dal rischio di cadere in un romanticismo sdolcinato - ma so che per me le cose importanti nella nostalgia sono l' insieme del ricordo di un posto, di un umore, di una luce, di un singolo momento particolare, di una interazione con amici o con altra gente » . Al momento nostalgico non poteva mancare la sua città, New York. Le manca la città di un tempo? La ritroveremo nel post Covid? « Certo che mi manca New York come la conoscevo prima della pandemia. E sì, credo che New York ce la farà, tornerà alla sua grandezza come ha fatto in passato » . Qui Joan risponde indirettamente anche a un editoriale di Peggy Noonan uscito giorni fa sul che definisce New York come una città finita. Ma Joan con questa città ha intrecciato un rapporto creativo e di vita indimenticabile: pensare a una sconfitta non è possibile. E c' è da capirla, basta leggere il ricordo del suo arrivo a Manhattan dopo aver vinto un concorso di il Prix de Paris, che la portava a lavorare al più importante mensile "intelligente" per la donna. Scrive: « Arrivando avevo vent' anni, sentivo l' aria calda dell' estate e un qualche istinto programmato da tutti i film che avevo visto, da ogni canzone che avevo sentito cantare e da ogni storia che avevo letto su New York, mi informava che niente sarebbe stato davvero più lo stesso. E infatti nulla poi è più stato lo stesso». Didion viene risucchiata dal vortice di energia della città e dal lavoro. È a New York che incontra John alla fine degli anni Cinquanta. È a New York che capita per caso la svolta letteraria: manca un articolo di copertina e lo affidano a lei. Titolo "Il rispetto di sé: la sua origine, il suo potere". Esce il 1° agosto 1961. Per le donne lettrici di scrive: « Coloro che hanno rispetto di sé mostrano una certa durezza, un certo coraggio mortale, esibiscono quello che una volta si chiamava carattere, una qualità che, sebbene sia apprezzata in astratto, a volte perde terreno rispetto ad altre virtù più negoziabili. Eppure, il carattere, la volontà di prendersi la responsabilità della propria vita, è la fonte da cui sprizza il rispetto di sé » . Joan diventa un autore di cui si parla. È il momento in cui, « senza averne coscienza » come mi ha detto, si inserisce in un mondo di uomini. Gli scrittori del suo tempo erano presenze forti: Norman Mailer, Truman Capote, Tom Wolfe, Philip Roth, Hunter Thompson. Ma in quello spazio occupa una casella importante. Con John si sposano nel 1964 e decidono di trasferirsi in California. E quasi subito lei viene intervistata da un giovanissimo Tom Brokaw per la rete Nbc sulla meravigliosa terrazza della casa di Hollywood, su Franklin Avenue. Vediamo Joan giovane, bella, capelli al vento, occhialoni neri da sole anni Sessanta. Non sempre tutto è facile sul piano personale. Il suo percorso continua con una riflessione sulla sua condizione di donna, di moglie di un "irlandese" con "temperamento", di madre di una bambina di tre anni, Quintana Roo, adottata a Hollywood: nel 2005, dopo L' anno del pensiero magico, Didion perderà improvvisamente anche lei. Ma intanto, negli anni Sessanta, Joan vive in bilico all' interno di un rapporto matrimoniale che si è fatto difficile e scrive: «Voglio che tu sappia che cosa ho in mente. Voglio che tu capisca quello che hai, hai una donna che per qualche tempo si è sentita separata in modo radicale da gran parte delle idee che sembrano interessare le altre persone. Hai una donna che a un certo punto lungo il cammino ha perduto quel poco di fiducia che poteva avere nel contratto sociale, nei principi per migliorare, nel complessivo grande modello dell' avventura umana». Nel saggio "Nelle isole", incluso nel suo libro Didion racconta il posto dov' erano in vacanza, il Royal Hawaiian Hotel: le onde e il vento che fanno da cornice al momento: «Siamo qui, in quest' isola nel mezzo del Pacifico - annota - invece di chiedere il divorzio». Poi, anni dopo, tornano a New York. Le chiedo di alcune sue immagini del periodo californiano, del servizio fotografico di Julian Wasser. Nella foto è in piedi, sigaretta in mano, appoggiata alla sua Corvette Stingray giallo Daytona, un elemento scenografico normalmente maschile. Lei è molto cool. C' è un' aria di sfida. Forse, senza quella foto, Thelma & Louise, che viene girato 23 anni dopo, non sarebbe stato possibile. Il suo vestito, una tunica lunga, leggera, morbida, attillata, rivela una flessuosità inaspettata per una donna che dice di essere piccola fisicamente, discreta per temperamento e nevroticamente inarticolata. Le chiedo perché ha comprato la Corvette: « I just loved it » , risponde. Le chiedo se gli stilisti avevano organizzato la foto e il vestito: «Quello era il mio vestito - dice - l' ho scelto io».

Goodbye to all that. Joan Didion era una figa pazzesca che scriveva di sé e per sé. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Dicembre 2021. Raccontava i momenti più intensi della sua vita con gelido autocontrollo. Sapeva trasformare in prosa le sue tragedie e indossava con brillantezza il fatto di essere più brava del marito. Scrivere è un atto ostile. Lo diceva Joan Didion, che è morta ieri, tre settimane dopo aver compiuto 87 anni, dopo una vita di atti ostili. E dopo aver obbedito all’altro suo comandamento: in caso di problemi, rivolgiti alla scrittura.

Non è poi un così fitto mistero la ragione per cui «è tutto materiale» sia concetto del quale continuiamo a ritenere incarnazione Nora Ephron, che della propria vita si era limitata a usare come materiale il divorzio (pubblico, d’alto profilo, burrascoso, ma pur sempre solo un divorzio); e non Joan Didion, che fece racconto di tutto: del coma della figlia, del marito che durante quel coma muore, della figlia che si risveglia orfana e poi si riammala e muore anche lei.

Se c’è stata una che non ha mai vissuto una tragedia troppo tragica per farne prosa è stata Joan Didion, santa protettrice di tutte noialtre che eravamo assenti il giorno in cui è stato distribuito il ritegno.

La ragione per cui, quando parliamo di rilegare le nostre vite e ricavarne diritti d’autore, parliamo di Ephron e non di Didion è che Ephron ci spaventa meno: era meno gelida nell’esposizione, e soprattutto era bruttina. Didion era una figa pazzesca, che è una frase che avrebbe dovuto aprire quest’articolo: Didion era clamorosa persino a ottant’anni, quando venne fotografata per la campagna pubblicitaria di Celine.

Ed era una figa pazzesca quando, poco più che ventenne, era una redattrice di Vogue, e su un set il fotografo – un tizio di nome Irving Penn, magari ne avete sentito parlare – le chiese di prestare il suo vestito di lino blu alla modella. Ed era una figa pazzesca in posa davanti alla Corvette nella sua foto più famosa, ed era una figa pazzesca in dolcevita nero nella pubblicità di Gap per cui posò negli anni Ottanta – cinquantacinquenne con cui qualunque trentenne avrebbe fatto a cambio – assieme alla figlia.

Se pensate che lo stia dicendo perché era una donna, se siete convinti di credere davvero che l’aspetto d’uno scrittore o d’un intellettuale sia irrilevante, cercate per favore di rendervi conto che state mentendo a voi stessi. Lo dico per voi: non vorrete davvero credere che “Il vecchio e il mare” valga più della foto di Hemingway che ha appena pescato quel colosso ittico assieme a Inge Feltrinelli. Su. Siamo seri.

Il fatto è che, prima, essere una strafiga che gelidamente riversa le sue tragedie nella scrittura faceva di te un pezzo di storia della letteratura; adesso fa di te una cui tocca essere un po’ meno gelida altrimenti il pubblico di Instagram non empatizza.

Se invece pensate che l’autobiografismo sia limitativo e che di Didion vadano citati i reportage a Cuba o a El Salvador, vi prego nuovamente di smetterla di raccontare a voi stessi stronzate che vi fanno sentire persone colte che badano ai contenuti e non all’ombelico dell’autore. Oriana Fallaci avrebbe potuto scrivere altri cento testi sullo scontro di civiltà, e sarebbe sempre e comunque rimasta quella della quale ricordavamo che aveva abortito e che quello stronzo d’un greco le aveva spezzato il cuore. Volevamo sapere i fatti degli autori anche prima dei social, solo che allora non li valutavamo misurandoli a cuoricini, solo che allora distinguevamo tra quelli che sapevano farne letteratura e quelli che sapevano farne solo lagna.

C’è stato un tempo, e Didion ha avuto la fortuna d’abitarlo, in cui non tutto era sentimentalismo, anche l’intelletto; in cui tutto era intelletto, anche i sentimenti. Stroncando Manhattan, il film di Woody Allen, in un articolo del 1979, Didion notava che nell’elenco che il protagonista fa di cose per cui valga la pena vivere c’è L’educazione sentimentale di Flaubert. Ne traeva una precisissima conclusione su Allen, e sul suo pubblico, e forse su di sé: gente terrorizzata di scoprire che ha sbagliato tutto, nella vita, preferendo Madame Bovary. 

Poiché la vita è sceneggiatrice, Didion è morta nella settimana in cui è uscito “Being the Ricardos”, il film di Aaron Sorkin che viene malamente sintetizzato in un film su “I love Lucy”, forse il titolo più importante nella storia della tv americana, e sui suoi protagonisti. Ma in realtà è un film sul problema di Didion e Dunne, oltre che su quello di Lucille Ball e Desi Arnaz, oltre che su quello di Huma Abedin, e di Raffaella Carrà, e di Elsa Morante, e di Nicole Kidman: come sopravvive una coppia al fatto che lei abbia più successo, più talento, più mercato di lui?

Didion applicò il proprio precetto: aveva un problema, e lo risolse con la scrittura. Assieme al marito, John Gregory Dunne, scrisse due film in cui lei è molto più capace di lui, ma deve continuare a sbattere gli occhioni come un Giotto civettuolo, acciocché Cimabue non si senta superato e la sua virilità non venga meno.

Uno dei due film era un remake di “È nata una stella” (quello con Barbra Streisand), un altro s’intitolava “Qualcosa di personale”, e fu uno dei film che più mi fecero piangere da ragazza. Un turpe polpettone kitsch con tanto di canzone strappalacrime di Céline Dion, in cui alla fine Robert Redford moriva (inviato di guerra: l’avevo detto che bisognava stare sul divano a scrivere delle proprie disfunzioni erettili) e Michelle Pfeiffer faceva carriera come inviata.

Joan Didion è sopravvissuta a tutti: al marito, alla figlia, agli intervistatori. Nel 1978 la Paris Review le fece una di quelle meravigliose interviste lunghissime montate a botta e risposta.

Le risposte sono piene di meraviglie: lei scrive per sé, del lettore non gliene importa niente; voleva fare l’attrice, poi capì che era lo stesso mestiere, si trattava di far credere qualcosa a qualcuno; le frasi di Hemingway sono come acqua limpida che scorre sul granito; Anaïs Nin scriveva come un uomo che finga d’essere una donna; niente tempra la tua prosa come scrivere le didascalie per un giornale di moda, dove ogni virgola deve funzionare; il mito della sua fragilità era dovuto al suo aspetto gracile e al fatto che non le piaceva parlare con gli sconosciuti.

L’intervista ha una particolarità. L’introduzione l’ha scritta l’intervistata. L’intervistatrice è morta dopo aver trascritto le risposte, e prima di consegnarla. Joan Didion ha avuto altri quarantatré anni per dimostrare al mondo che, ecco, la notizia della sua fragilità non era proprio fondatissima.

La scrittrice aveva 87 anni. È morta Joan Didion, addio all’icona del New Journalism americano. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. Joan Didion è morta, a 87 anni. Giornalista e scrittrice statunitense, era nata a Sacramento nel dicembre del 1934. Era diventata un’icona, anche pop, nota soprattutto per essere tra le firme più celebri del cosiddetto New Journalism. La sua casa editrice ha fatto sapere che da anni soffriva del morbo di Parkinson. “Non esiste davvero un modo per fare i conti con tutto ciò che perdiamo”, scriveva nel suo romanzo memoir Da dove vengo.

Didion ha scritto tra gli altri per Life, Esquire, il Saturday Evening Post, il New York Times e The New York Review of Books. Scriveva commenti politici, reportage sociali, teatro, cinema, e libri. Alcuni dei suoi titoli più famosi e noti: Verso Betlemme, Diglielo da parte mia, L’anno del pensiero magico, Prendila come viene, John Wayne: a Love Song e Blue Nights. Ha vinto nel 2005 il National Book Award for Nonfiction per The year of Magical Thinking, pubblicato in Italia da Il Saggiatore con il titolo L’anno del pensiero magico. Dall’allora presidente Barack Obama ricevette la National Medal of Arts and Humanities.

Didion diceva che la scrittura era un processo per scendere a patti con la meaningless, l’assenza di significato da cui si sentiva circondata. Per New Journalism si intende un movimento di grande intensità e richiamo globale che nel giornalismo, nei primi anni Settanta, introduceva la letteratura, o almeno suoi elementi narrativi: un’innovazione nel linguaggio, nella forma, nei contenuti tramite. Il termine venne coniato dal giornalista americano Tom Wolfe, il celebre autore Il Falò delle Vanità. Aveva sposato nel 1964 Dominick Dunne dal quale non si separò mai fino alla morte dell’uomo nel 2004. Era diventata anche icona di stile e di fashion grazie alle foto di una campagna di Céline diventata virale.

Cominciò a Vogue e si trasferì a New York. Si era laureata in Lettere all’Università di Berkeley nel 1956. Il primo romanzo, Run, River, nel 1963 seguito da Verso Betlemme, la prima raccolta di saggi. Con il marito adottò la figlia Quintana. L’uomo e la figlia morirono nel giro di due anni, una cesura lacerante nella sua vita.

Alla sua vita e alla sua attività era stato dedicato il documentario Joan Didion: il Centro non reggerà di Netflix. Scritto e girato dal nipote Griffin Dunne. Ricordava la scrittrice e amica Susanna Moore: “Veniva in cucina la mattina tardi […] Prendeva una bottiglia di Coca Cola dal frigorifero e indossava gli occhiali da sole. Era silenziosa”. Nel suo libro Da dove vengo, edito da Il Saggiatore, scriveva: “Questo libro è una ricerca sui miei equivoci circa il luogo e il modo in cui sono cresciuta, equivoci che riguardano l’America così come la California, fraintendimenti e malintesi a tal punto insiti nella persona che sono diventata che ancora oggi mi riesce di affrontarli solo per vie indirette”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        È morta l’avvocato abortista Sarah Weddington

Monica Ricci Sargentini per il Corriere della Sera il 28 dicembre 2021. È morta nel sonno a 76 anni Sarah Weddington, l'avvocata texana che nel 1973, quando aveva 28 anni, vinse la celebre causa Roe v. Wade che rese di fatto legale l'interruzione di gravidanza negli Stati Uniti. La notizia della sua scomparsa arriva proprio mentre i giudici della Corte Suprema, che oggi sono in maggioranza conservatori, stanno esaminando i ricorsi contro i divieti alle interruzioni di gravidanza varati dal Texas e dal Mississippi e il loro pronunciamento, previsto per giugno, potrebbe ribaltare o intaccare proprio Roe v. Wade. Un evento che l'avvocata ha sempre considerato nel novero delle possibilità: nel 1998 paragonò la sentenza «ad una casa in riva a una spiaggia che rischia di essere invasa dall'acqua». E quando nel 2017 Donald Trump nominò Neil Gorsuch alla Corte disse: «Se la sua nomina verrà confermata, l'aborto non diventerà illegale il giorno successivo perché un giudice non fa la differenza. Ma due o tre giudici potrebbero farla». Detto, fatto. Nel 2018 è arrivato Brett Kavanaugh e nel 2020 Amy Coney Barrett.

A Sarah Weddington sono sempre piaciute molto le sfide, a 18 anni aveva scelto di studiare legge all'università perché avevano tentato di scoraggiarla dicendo che per una donna sarebbe stata una carriera troppo difficile. Quando nel 1965 si iscrisse alla University of Texas law school le studentesse erano 40 su 1600 alunni. E a laurearsi insieme a lei furono solo in quattro. 

Ma nei primi anni 70 gli studi legali assumevano solo maschi così la giovane avvocata si trovò con molto tempo libero e tanta voglia di fare. Incontrò un gruppo di neo-laureate che collaboravano con il giornale «underground» The Rag. Furono loro a chiederle se non si sarebbe potuto impugnare in una corte federale la legge del Texas che proibiva l'aborto.

Weddington, che aveva avuto un aborto clandestino in Messico nel 1967, si sentì subito attratta dall'impresa impossibile: sfidare il procuratore distrettuale di Dallas su una materia così delicata. Così chiamò Linda Coffee, una sua ex compagna di classe all'università, che era stata assistente di un giudice federale nella capitale texana. Le due si misero alla ricerca di una ricorrente. La trovarono nel 1969: Norma McCorvey, incinta, stava tentando di abortire ma la legge vigente in Texas consentiva l'interruzione di gravidanza solo per salvare la vita della madre.

Nel marzo del 1970 McCorvey, assistita da Weddington e da Coffee, presentò un'azione legale contro il procuratore di Dallas Henry Wade. L'identità della ricorrente fu protetta e per tutti diventò Jane Roe. Nel 1971 la Corte Suprema accettò di ascoltare il caso una prima volta. La giovanissima Weddington, emozionata, descrisse così al Guardian la sua esperienza: «Era come camminare in una strada senza luci ma non c'era altro da fare e io non avevo alcuna nozione preconcetta che non avrei vinto». 

E, infatti, nel 1972 ci fu una nuova udienza e i suoi argomenti portarono alla sentenza che, con 7 voti favorevoli e 2 contrari, ha legalizzato l'aborto in tutto il Paese. Weddington è stata la legale più giovane della storia americana a vincere un caso davanti alla Corte Suprema ma lei si è sempre schernita. «Non c'è una persona che abbia vinto la Roe v. Wade. La sentenza è il risultato dello sforzo di tantissime donne. Io ero in prima fila ma se non ci fossi stata io ci sarebbe stata qualcun'altra».

La sua è stata una lunga carriera: deputata per tre legislature in Texas è stata assistente di Jimmy Carter dal 1978 al 1981. Poi si è dedicata all'università dove ha insegnato corsi sulla leadership e le discriminazioni di genere. Ma lei lo sapeva benissimo: «Qualsiasi cosa farò nella mia vita, il titolo del mio necrologio sarà sempre "l'avvocata della Roe v. Wade è morta"». E così è stato.

·        Morto il meccanico della tv Emanuele Sabatino. 

Morto Emanuele Sabatino, il meccanico star del web. Redazione Tgcom24 il 10 dicembre 2021. E' stato trovato morto, nella sua officina di Broni (Pavia), Emanuele Sabatino, 45 anni, noto al grande pubblico come "Ema Motorsport". Sabatino, youtuber di successo e anche conduttore televisivo, era diventato il meccanico più famoso d'Italia grazie ai suoi video. Aveva superato un periodo di difficoltà economiche grazie a video legati al mondo dei motori. Secondo una prima ipotesi investigativa, si tratterebbe di un suicidio. Sabatino aveva pubblicato il suo ultimo video su YouTube (un canale con oltre 270mila iscritti) l'8 dicembre, dal titolo "Idrogeno, lavaggio iniettori e lavaggio olio motore in un colpo solo". "Esprimiamo il nostro profondo cordoglio per la prematura scomparsa di Ema, collega e amico prezioso per tutti noi. La sua storia e le sue iniziative lo hanno portato a diventare un riferimento nel web amato e stimato da milioni di persone - si legge in un post pubblicato sulla pagina "Ema Motorsport". Ciononostante, il successo non lo ha cambiato: Ema è sempre rimasto un uomo dal cuore grande, un amico prezioso che si è preso cura di tutti noi senza pretendere nulla in cambio". I funerali si terranno lunedì 13 dicembre alle 11 presso la chiesa di San Francesco in Siziano, nel Pavese. 

Morto Emanuele Sabatino, il meccanico youtuber star di internet. L'annuncio sui social. È stato trovato nella sua officina di Broni, nel Pavese. Si ipotizza un gesto volontario. La Stampa l'11 Dicembre 2021. Ema Motorsport, il nome da youtuber di Emanuele Sabatino, che nei suoi video parlava con passione di meccanica e di automobili, è stato trovato morto ieri nella sua officina di Broni (Pavia). Lo ha reso noto la moglie attraverso i social. «Nel pomeriggio di ieri - si legge nel post - si è spento improvvisamente Ema. Ne danno il triste annuncio la moglie, i figli e il team di EmaMotorsport. I funerali si terranno lunedì 13 dicembre alle 11 presso la chiesa di San Francesco in Siziano». Sabatino aveva 45 anni. Era seguito da centinaia di migliaia di persone sui suoi canali social dove parlava di meccanica e automobili. Secondo le prime informazioni, si sarebbe tolto la vita. Aveva pubblicato il suo ultimo video su YouTube (un canale con oltre 270mila iscritti) l'8 dicembre scorso, dal titolo "Idrogeno, lavaggio iniettori e lavaggio olio motore in un colpo solo". Tantissimi i messaggi di cordoglio da parte di chi lo seguiva con affetto e passione. «Ema rimarrai sempre nei nostri cuori, sei stato fonte di ispirazione e di alimentazione per la passione che accomunava tutti noi» scrive Beker. «Ci mettevi sempre tanta passione in quello che facevi e sembravi sempre felice» commenta Luca Mazzalai. «Spero che lassù tu potrai viaggiare come non lo hai mai fatto» scrive Lorenzo Pagliai. 

Morto Emamotorsport, il meccanico star del web Emanuele Sabatino: «Un uomo dal cuore grande». Davide Maniaci su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. Morto nella sua officina di Broni (Pavia) Emanuele Sabatino detto Emamotorsport, l’influencer dei motori. Onda di commozione sui social network. Emanuele Sabatino, noto al grande pubblico come Emamotorsport, è stato trovato morto nella sua officina nel pomeriggio del 9 dicembre. Era il meccanico (social) più seguito d’Italia. A dare l’annuncio, sul suo sito web e sui profili online, la moglie, i tre figli e il team. Sabatino, pavese di Broni, aveva 45 anni.

La sua storia

Dalla tuta blu sporca d’olio a meccanico star del web. Milioni di visualizzazioni su Youtube. Comparsate e programmi in tv. Da «In officina con Ema» a «Cortesie per l’auto». Nel giro di pochi anni Sabatino era passato dal fallimento della sua officina ad essere protagonista di tre programmi televisivi, diventando l’influencer dei motori. «Ho iniziato a riparare auto all’età di 21 anni — aveva raccontato al Corriere —. Avevo aperto un’officina a Melegnano in cui preparavo auto sportive. Una serie di circostanze non si sono incastrate e, complice la crisi, il castello di carta è crollato». L’attività chiusa, il conto in rosso, l’officina allagata, il danno insostenibile. Tutto da rifare.

La seconda fase

A quel punto, Ema si era buttato nel ciclismo, aprendo un negozio di bici da corsa ed e-bike. Altro sogno spezzato. «Mi svaligiarono. Non mi rimase nulla. Mio padre trovò un capannone abbandonato a Broni, sulle prime colline pavesi». La vita di Sabatino era ripartita così. A fatica. Con i fornitori e le banche a chiedere soldi. «Non mi sono fermato — ha raccontato al Corriere — Il mio mantra è: fai tutte le cose che non faresti. Così ho seguito corsi di marketing e di comunicazione, e ho fatto il mio esordio sui social». Da lì in poi, successi e popolarità: «Comprendi con facilità gli straordinari funzionamenti meccanici della tua auto, scopri il loro funzionamento e viaggia sempre sereno», il suo slogan. Qualcosa, forse, negli ultimi tempi era andato storto nella vita privata di Sabatino. Ema è stato trovato morto in officina.

Gli amici e i funerali

I funerali si svolgeranno lunedì 15 dicembre nella chiesa di San Francesco in Siziano (Pavia). I familiari: «Ringraziamo tutti per il rispetto del ricordo di Ema e del dolore dei suoi cari». La squadra: «La sua storia e le sue iniziative lo hanno portato a diventare un riferimento nel web amato e stimato da milioni di persone. Ciononostante il successo non lo ha cambiato: Ema è sempre rimasto un uomo dal cuore grande, un amico prezioso che si è preso cura di tutti noi senza pretendere nulla in cambio». Sono centinaia i messaggi di cordoglio su Facebook. «Non ci sono parole. Una persona fantastica. Un genio. Profonde condoglianze alla famiglia», scrive tra gli altri Marco Camisani Calzolari. Così Justin Pinolo: «Una sconfitta per tutti gli appassionati del settore... Mi dispiace moltissimo, era una brava persona. Che possa trovare la pace che merita».

Morto Ema Motorsport, lo youtuber mago dei motori: aveva 45 anni. E' stato trovato nella sua officina di Broni, nel Pavese. Si ipotizza un gesto volontario. A comunicarlo la sua famiglia e il suo team: "Era un uomo dal cuore grande, il successo non lo aveva cambiato". La Repubblica il 10 Dicembre 2021. Era conosciuto come Ema Motorsport, youtuber seguito da centinaia di migliaia di persone sui suoi canali social dove parlava di meccanica e automobili: Emanuele Sabatino, questo il suo nome, è stato trovato morto ieri pomeriggio nella sua officina di Broni, in provincia di Pavia. Aveva 45 anni e, da quanto si è saputo, si è tolto la vita. A comunicarlo la sua famiglia - la moglie e i tre figli - e i suoi amici, con un comunicato sui canali social. "Esprimiamo il nostro profondo cordoglio per la prematura scomparsa di Ema, collega e amico prezioso per tutti noi. La sua  storia e le sue iniziative lo hanno portato a diventare un riferimento nel web amato e stimato da milioni di persone. Ciononostante, il successo non lo ha cambiato: Ema è sempre rimasto un uomo dal cuore grande, un amico prezioso che si è preso cura di tutti noi senza pretendere nulla in cambio. Il suo sorriso e la sua vicinanza hanno saputo ristorarci ogni volta che abbiamo avuto bisogno". Sul posto oggi i carabinieri, che hanno eseguito i rilievi e che adesso dovranno ricostruire quanto accaduto. I funerali si svolgeranno lunedì 13 dicembre alle 10,30 a Siziano, nella chiesa di San Francesco, sempre in provincia di Pavia. Emanuele Sabatino era nato a Milano nel 1976 e aveva portato la sua passione per la meccanica su Youtube, con un canale seguito da quasi 270mila persone, e su Facebook, con oltre 700mila persone sulla sua pagina. Un successo che lo aveva portato anche in tv con programmi su canali dedicati ai motori.

·        E' morta Lina Wertmuller.

(ANSA il 9 dicembre 2021) - E' morta Lina Wertmuller. La grande regista che aveva 93 anni si è spenta nella notte a Roma. Era nata il 14 agosto 1928 ed aveva firmato film come Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare di agosto, Pasqualino settebellezze, Mimì metallurgico segnando la storia della commedia italiana. 

Da cinquantamila.it

• (Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Espanol von Braucich) Roma 14 agosto 1926. Regista. Tra i suoi film (su cui vedi anche più avanti), Pasqualino Settebellezze ebbe nel 1976 la nomination all’Oscar per la regia e la sceneggiatura. Nel 2007 ha curato la regia lirica de Le nozze di Figaro di Mozart a Viterbo (una decina d’anni dopo la Carmen al San Carlo di Napoli). Nel 2008 ha diretto in teatro La vedova scaltra di Goldoni. Nel 2010 ha ricevuto il David alla carriera. «Se in Paradiso si dovesse stare da soli, preferisco non andarci». 

• Discendente da una nobile famiglia svizzera, figlia di Federico, giornalista nato a Palazzolo San Gervasio (Potenza) costretto a cambiar mestiere per le sue idee antifasciste (divenne avvocato). Madre romana. Infanzia nella capitale, quartiere borghese di Prati, fu cacciata da undici scuole per cattiva condotta. Trascinata da Miriam Mafai, s’infiammò alle manifestazioni politiche degli anni Quaranta: «Eravamo delle ragazzine, leggevamo tanto. La mia prima volta, al processo di Sasà Bentivegna, partigiano dei Gap, imputato davanti al tribunale militare, urlavamo» (a Barbara Palombelli). Al liceo Cicerone incontrò Flora Carabella, futura moglie di Marcello Mastroianni con cui s’iscrisse all’Accademia teatrale diretta da Pietro Scharoff. 

• Già animatrice e regista degli spettacoli dei burattini di Maria Signorelli, fu aiuto regista di Fellini per Otto e mezzo, nel 1963 fece il suo esordio dietro la macchina da presa con I basilischi (premiato al Festival di Locarno), nel 1964 diresse per la tv il Giamburrasca con Rita Pavone. Poi Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia: ovvero stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza (1973), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) ecc. 

• Sull’abitudine (poi in parte abbandonata) di dare ai suoi film titoli lunghissimi: «I produttori volevano titoli brevi perché secondo loro funzionavano di più, e io invece glieli facevo lunghi. Per uno scherzo quasi ottocentesco; mi divertiva che non se li ricordassero tutti» (da un’intervista di Silvana Mazzocchi).

• Dopo una serie di film di non grande risonanza (tra questi nel 1984 Sotto... sotto... strapazzato da anomala passione, su cui vedi Veronica Berlusconi), nel 1990 diresse Sabato, domenica e lunedì, con Sophia Loren, che ottenne un grande successo. Poi Io speriamo che me la cavo (1992), dall’omonimo libro di Marcello Dell’Orta, che fu accusato di dare un’immagine del Sud distorta e da terzo mondo: «In alcune zone del Napoletano dove l’ignoranza invece, è una cosa seria, vorrebbero linciare scrittore e regista con crudele piacere» (Pietrangelo Buttafuoco). Seguono Ninfa plebea (1996) e Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica (1996). 

• Comunista fino al 1956, dopo i fatti d’Ungheria si allontanò dal Pci. «Essere di sinistra era, ed è stata per cinquant’anni, una moda culturale, ma anche una necessità per fare parte del giro giusto». Già craxiana, non le dispiace Berlusconi. Gli americani la idolatrano, per Henry Miller come regista era meglio di qualsiasi uomo. Goffredo Fofi definì molti suoi film «bidoni pieni d’immondizia» (la regista gli chiese un risarcimento miliardario, poi archiviato perché la querela fu presentata dopo i tre mesi previsti dalla legge). Tullio Kezich ha inserito I basilischi tra i film della sua vita. Per Lietta Tornabuoni «Wertmüller è una dei rari registi nostri che abbiano il senso e l’amore della bellezza d’Italia».

• Nel 2004 il suo Peperoni ripieni e pesci in faccia, con Sophia Loren, ottenne il contributo più alto mai versato dallo Stato a un film: 3 milioni e 718 mila euro. Al botteghino, nell’estate 2005, ne incassò 6 mila 567. 

• Vedova del pittore, scenografo e scrittore Enrico Job (1934-2008, stavano insieme dal 1965): «Ho avuto il dono di stare con lui 44 anni, siamo stati due compagni di gioco». «All’epoca (del matrimonio, ndr) circolò la battuta “per sposare Lina ci voleva la pazienza di Job”, ma a sorpresa l’unione tra queste due persone immerse in una sorta di ammirazione reciproca riuscì felicissima pur nella diversità di gusti e abitudini» (Kezich).

• Una figlia, Maria Zulima (Marsiglia 17 gennaio 1991), attrice in Francesca e Nunziata (interpretava un’orfanella).

• «Cambierei tutto di me: vorrei gambe lunghe, occhi azzurri. Insomma tutto diverso, tranne i piedi. Mi piacciono i miei piedi».

• Completando un precedente lavoro, nel 2006 pubblicò da Frassinelli la sua autobiografia, Arcangela Felice Assunta Job Wertmüller von Elgg Espanol von Braucich, cioè Lina Wertmuller, con cui vinse il premio Efebo d’oro (assegnato dai giornalisti cinematografici).

• Nel 2008 ha preso molto a cuore l’emergenza rifiuti a Napoli: «Ho chiamato il direttore del Tg1 Gianni Riotta e gli ho proposto di fare un documentario su questa storia tremenda (Monnezza e bellezza – ndr): un’analisi, non un processo, che parlasse sì della monnezza, ma anche della bellezza di Napoli. Due giorni dopo sono partita con Francesco Branchitella, del Tg1, e con il sociologo Domenico De Masi. Sono convinta che sia pericolosissimo come i media hanno trattato l’argomento, il danno d’immagine alla città è più grave di quello fatto dai rifiuti da soli» (da un’intervista di Rita Cirio). Sempre a Napoli è ambientato il suo film, Mannaggia alla miseria, girato nell’estate 2008. Nel 2013 ha recitato un cameo nel film Benvenuto Presidente, con Claudio Bisio, regia di Riccardo Milani.

Marco Giusti per Dagospia il 9 dicembre 2021. Da che parte stavamo e, soprattutto, da che parte stiamo oggi, con Lina Wertmuller o con Nanni Moretti? Perché ben ci ricordiamo, almeno quelli della mia generazione, la celebre scena di "Io sono un autarchico" dove Fabio Traversa spiega a un incredulo e appena svegliato Nanni Moretti "Lo sai che in America dall'università di Berkeley è stata offerta a Lina Wertmuller la cattedra si cinema?". E Moretti ironico: "Ma chi... quella di Mimi' metallurgico... di Travolti da un insolito destino... di Pasqualino Settebellezze?". E Traversa insiste... "Era ora, vedrai che finalmente il cinema italiano ha trovato il suo alfiere...". E intanto Nanni Moretti sbava, sbava...Rivista oggi questa scena ci riporta intatto il problema che non solo la critica italiana, ma un po' tutto il cinema italiano aveva con l'incredibile fortuna critica americana di Lina Wertmuller, prima donna a ricevere nel 1977, alla faccia di Moretti, una nomination all'Oscar come miglior regista della storia del cinema con Pasqualino Settebellezze, per il quale ebbe anche la nomination come sceneggiatrice. I critici americani la amavano, mentre qua ricordo che solo Adriano Apra' la apprezzava. Dopo tanti anni, temo che proprio il fatto di essere donna, anzi una delle poche donne registe italiane degli anni 60 e 70, pesasse negativamente su di lei. Che, inoltre, faceva un cinema molto legato a Fellini e alla commedia all'italiana che ci sembrava decisamente maschile, pieno di culi femminili esagerati e resi mostruosi, ricordate Elena Fiore? Pieni di Mimi', Pasqualini, interpretati da Giancarlo Giannini come risposta al supermacho del periodo, Lando Buzzanca, ma anche al super-attore della sinistra impegnata, Gian Maria Volonte'. E intanto costruiva, oltre alla grande carriera del suo protagonista Giannini, eterno meridionale,  quella di Mariangela Melato come prima star moderna, eterna settentrionale, capace di farci ridere come pochissime altre attrici. E allora, magari, ci stava soprattutto prendendo in giro, a noi spettatori maschi che riempivamo le proiezioni delle commedie sexy, con la parodia immediata dei nostri gusti e dei nostri supermachi. Forgiata militarmente dal teatro e dalle riviste di Garinei e Giovannino, alle quali aveva segretamente collaborato, ma anche alla scuola di Carosello, scrivendo anonimamente centinaia di sketch (me lo disse lei), bazzica il cinema negli anni 50 come assistente di un piccolo film musicale di Giacomo Rondinella, "E Napoli canta" diretto da Armando Grottaminarda per diventare nel 1960 terzo assistente di Fellini per "La dolce vita" per poi passare a "Otto e mezzo". E' Fellini, assieme a Garinei e Giivannini, che più la forma nella professione di regista. Decisamente anche più dei suoi colleghi della commedia all'italiana, che, almeno penso, non la vedevano esattamente come una di loro. Loro, i Montecelio Risi Scola, erano veramente un mondo chiuso e impenetrabile di maschi. La Wertmuller era un'altra cosa. Adatta alla televisione si disse subito. Perché il suo "Il giornalino di Gian Burrasca" con Rita Pavone e le musiche di Nino Rota fu una pagina clamorosa della RAI. Non c'era un bambino che non cantasse "W la pappa-pappa-pappa col po-po-po-pomodoro". E se sorvoliamo sui suoi esordi, l'opera prima felliniana "I basilischi , la prima commedia costruita come anti-scoliana, "Questa volta parliamo di uomini", i due musicarelli che firmò col nome di Giorgio O'Brien (solo oggi mi è chiaro il gioco di allusione con  Giorgia O'Brien, trans con due voci...), o sul suo quasi western  "The Belle Star Story", firmato Nathan Witch, cioè Strega, il suo vero cinema nasce davvero solo con  Mimi' metallurgico" e con l'invenzione della coppia Giannini - Melato e tutto quel che ne  segue. Un cinema cioè che prende di punta la commedia maschile dei maestri, la commedia sexy buzzanchiana, il grottesco alla Petri e li trita in un modello Wertmuller da esportazione. Un cinema così maschile come il nostro e una critica così maschile come era la nostra non riuscivano a vedere quella che era la realtà del cinema grottesco e antimaschilista della Wertmuller. Pauline Kael, la più celebre critica americana del tempo, odiava il cinema macho di Clint e amava il grotesque vaudeville show di Pasqualino Settebellezze di Lina. Moretti, che allora era in piena sintonia con  i suoi spettatori e la sua generazione  di critici la detestava non capendo perché gli americani fossero così ottusi. E noi, ahimè, gli andavamo dietro. Non vorrei dire quello che penso, che cioè c'era del razzismo nei confronti della regista donna da parte di tutti noi maschi, giovani e vecchi. Potrei rifugiarmi nell'odio per il grottesco alla Petri, che c'era, o nell'odio per queste costruzioni barocche con primi piani, trucco pesante, sederoni subfelliniani. Ma ripeto. Temo che il problema fosse che, allora, ci dava noia che in America venisse candidata all'Oscar una regista donna. Punto e basta. Anche se, ammetto, andando avanti negli anni seguitavo a aver non pochi problemi col cinema della Wertmuller. Così eccessivo, con punte trashissime... "Sotto sotto...", "Un complicato intrigo" mi sembravano e mi sembrano ancora film terrificanti. Quello che credo l'avesse capita meglio era Ciro Ippolito che da produttore le fece fare un film di grande successo come "Io speriamo che me la cavo" che non aveva nulla di grottesco wertmulleriano e esaltava Paolo Villaggio fuori da ogni macchiettismo. Detto questo credo che il suo cinema vada rivisto e riletto. Soprattutto in chiave critica. E ci sarà da chiedere scusa. 

Marco Giusti per Dagospia il 12 dicembre 2021. Torno a parlare di Lina Wertmuller perché ieri notte ho visto “Pasqualino Settebellezze”, che non avevo mai osato vedere. Quattro nomination all’Oscar, fra le quali quella di miglior regista, che però non diventarono premi. E la nascita di un vero e proprio caso Wertmuller, più in America che in Italia, dove non era davvero molto amata, che non conoscevo abbastanza. Così, oltre a guardare il film, mi sono riletto parecchia stampa americana per cercare di capirci qualcosa. Siamo a metà degli anni ’70. Una critica importante come Pauline Kael del New Yorker fa il bello e il cattivo tempo sulla scena americana. Ha la capacità di rendere un film che ha molto amato, come “Taxi Driver” o “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci, un successo globale. Certo, come sostiene Mel Brooks, riesce a far questo con i film d’arte stranieri o coi piccoli film indipendenti. “Mi piacerebbe avere una buona critica da lei”, sostiene, “ma non smuoverebbe per un mio film molto più di una rozza critica di mio fratello Bernie, che non c’entra niente col cinema”. Beh. La raffinata e potente Pauline Kael del New Yorker ha in realtà scatenato una faida che ha coinvolto tutti o quasi i critici americani. In molti hanno scoperto di essere innamorati pazzi dei film di Lina Wertmuller, da “Mimì metallurgico” a “Travolti da un insolito destino” a “Pasqualino Settebellezze”. John Simon, critico del New York Times, le ha dedicato la copertina del giornale e l’ha descritta come “Il più importante regista dai tempi di Ingmar Bergman”. Boom! Scrive di lei che è una vera artista e una umanista. La Kael, al contrario, la vede come una misogina e una misantropa che si crogiola nel disgustoso. La definisce “hopeless”, senza speranza. E scrive: “Non farà mai un buon film”. E anche: “E’ terribile. I suoi film sono molto reazionari o brutalmente antifemministi”. Certo, la Kael non è nuova a queste stroncature forti. Ha definito John Wayne “un clown”, Clint Eastwood “L’attore più ridicolo che abbiamo. Un uomo vuoto”. Ma la battaglia va avanti non solo sulle pagine del New Yorker e del New York Times, ma su tutti i giornali del paese e si diffonde, guarda un po’, nei salotti newyorkesi più alla moda. Un sofisticato raccontino di uno scrittore americano, Gerard Nachnam descrive una delle tante serate degli intellettuali newyorkesi trascorsi a parlare dei film della Wertmuller. Quando lo scrittore rivela alla ragazza che ha puntato che non gli piace “Travolti” che ha finalmente visto per poterne parlare ai cocktail, lei gli risponde che non può amare un uomo che non gli piacciono i film di Lina Wertmuller. Ma ne parla benissimo un critico importante come Rex Reed. E sia Kevin Kelly del Boston Globe che Vince Canby del New York Times inseriscono “Travolti” tra i dieci migliori film del 1974. Canby lo preferisce perfino a “Professione reporter” di Michelangelo Antonioni con Jack Nicholson. “Non dico che lei sia superiore a Antonioni come regista”, scrive Canby, “ma per un paio di ragioni del tutto arbitrarie preferisco il suo film a quello di Antonioni”. Come è possibile, si dirà? A molti critici piace molto il fatto che il film unisca farsa politica e farsa sul sesso, che la sottomissione della ricca borghese al tanghero proletario sia una commedia. Nessun regista americano ha mai osato trattare così sesso e politica. Per gli stessi motivi, però, “Travolti” è percepito da alcuni critici come uno dei film più sessisti e misogini mai realizzati, e il fatto che regista sia una donna è visto come uno schiaffo al dilagante movimento femminista del tempo. “Io non sono una donna”, dirà ai giornali americani quando arriverà di persona insieme ai suoi attori, “Io sono un essere umano. Le femministe non mi piacciono”. E ancora: “Il film è un servizio sociale, non un un’arte aristocratica. Io faccio film per le masse, ma qui in America i miei film sono mostrati nei cinema d’arte con i sottotitoli. Mentre aspetto che si vedano doppiati, come da noi, dove doppiamo tutto”. Lei sogna, insomma, di diventare come Fellini non come Bertolucci o come Antonioni. Mentre Lina concede interviste a una stampa affamata, confonde ulteriormente i critici con alcune delle sue opinioni che sembrano contraddittorie o essere decisamente in contrasto con quel che dicono i suoi film. Un suo storico sostenitore come Vince Canby, osserva che forse Lina Wertmüller potrebbe non capire i suoi stessi film. "Ha sabotato con successo i suoi sostenitori e confermato le opinioni dei peggiori dei suoi detrattori, dando un'interpretazione dei suoi film che aveva poco o nulla a che fare con quello che pensavamo di aver visto". Le cose non solo non migliorano, ma esplodono proprio un anno dopo con “Pasqualino Settebellezze”, il suo film più controverso, dove non solo non c’è commedia, ma il sesso è sempre grottesco, perturbante. Il personaggio di Giancarlo Giannini, rinchiuso in un campo di concentramento nazista, se vuole salvarsi la vita, deve soddisfare sessualmente un’aguzzina tedesca di un quintale e mezzo. Il fatto che il film, così duro e così estremo, riceva non solo quattro nomination, ma in assoluto la prima nomination all'Oscar come miglior regista assegnata a una donna, cosa non concessa né a Ida Lupino né a Dorothy Azner, fa ancor di più esplodere il conflitto che da qualche anno andava avanti. Il critico Lou Cedrone se la sbriga così: “E’ ovvio che sua stata influenzata da Fellini e nel modo peggiore”. Ma William Mootz scriverà di “Pasqualino Settebellezze”, che è “sorprendente. Nessun altro film ha mostrato così da vicino il male del regime nazista”. In tutto questo Lina Wertmuller e i suoi occhiali bianchi diventano un personaggio da parodiare in tv. Lo farà negli anni ’70 Laraine Newman rendendola ancora più popolare. E gli italiani in tutto questo? Sappiamo bene come la pensava Nanni Moretti a riguardo. Bernardo Bertolucci non è meglio. Quando arriva in America mentre sta preparando “900”, gli chiedono che ne pensa dei film di Lina Wertmuller e risponde che non ha mai visto un film di Lina Wertmuller. Un facile modo per non entrare nella polemica o una sincera risposta di un intellettuale italiano? Va detto che da noi non esisteva un vero caso Wertmuller come in America. Da molti era vista esattamente come voleva lei, cioè come una regista che non faceva film d’arte da mostrare nei cineclub, ma film popolari per le masse. Intanto gli americani, forti dell’esperienza di “Pasqualino Settebellezze” vorrebbero che lei girasse il già folle e provocatorio “Caligola” scritto da Gore Vidal. Alla fine ci penserà Brass. Ma è evidente che la percezione che avevano di lei gli americani e gli italiani non è mai stata la stessa. Tutto questo, inoltre, va avanti fino a quando Lina Wertmuller non gira in inglese con Candice Bergen e Giancarlo Giannini il suo primo film “americano”. Lui è un giornalista comunista… lei è una fotografa femminista americana. C’è un gran bel cast di amici e di intellettuali, Il grande gallerista napoletano Lucio Amelio, la moglie di Dustin Hoffman, la moglie di Furio Colombo, perfino Lilli Carati in una particina. Agli americani non piace. E tutta questo amore per Lina Wertmuller finisce un po’ lì, visto che non verrà più né paragonata a Bergman né riportata agli Oscar. Quanto a “Pasqualino Settebellezze” che devo dire? Sono rimasto sbalordito, perché è davvero un film eccessivo e grottesco.  Super-super-super stracult. In anni, però, dove l’eccessivo e il grottesco erano di casa in Italia, a cominciare proprio da “900” di Bernardo Bertolucci che non piacque a molti critici italiani per gli stessi motivi di violenza, disgusto e sessualità spinta. Ma le scene con la aguzzina tedesca, la Shirley Stoler già protagonista di “I killer della luna di miele”, sono terrificanti, per non parlare dell’uso delle canzoni di Enzo Jannacci (i titoli con Hitler e Mussolini commentati da “Quelli che…”) o delle sub-fellinate improvvise, il numero di avanspettacolo di Elena Fiore, il bordello, l’omicidio del guappo, il gigantesco caratterista Variano Ginesi nudo col pisello di fuori, Fernando Rey che si uccide nella merda, l’eccessivo uso del primo piano sugli occhi di Giannini che è davvero qualcosa di strano. Qualcosa di così eccessivo lo troviamo nel cinema di Nando Cicero e di Tinto Brass, pensiamo a “Salon Kitty”, oggi ritenuto il più brutto film italiano di sempre da parte di Tarantino, che non è però meno efferato di “La caduta degli dei” del maestro Visconti. Credo che il cinema della Wertmuller vada riletto all’interno di tutta la follia del cinema italiano degli anni ’70, così libero e così estremo, così ammalato di sesso e di politica. Certo. Non credo che oggi un film così potrebbe finire con quattro nomination agli Oscar. Ma, nel bene e nel male, non esiste più un tipo di cinema così libero oggi in Italia. E la libertà di Paolo Sorrentino, diciamo, è qualcosa che spesso dà noia alla critica. La depista. Diventa un non-rigore. E, allora, la non comprensione della critica e della industria italiana nei confronti del cinema di Lina Wertmuller diventa una non comprensione spiegabile all’interno di una logica assolutamente misogina di tutto il nostro cinema. Ma si trasforma in un grande momento di interesse quando esce da ogni problema di femminismo e antifemminismo, di maschio/femmina, perché vedo nel suo anarchismo anni ’70, che nessuno di noi critici amava particolarmente, qualcosa che invece unisce nell’eccesso, nell’osare, tutto il cinema italiano del periodo, da Cicero a Fellini, da Fulci a Bertolucci, da Visconti a Cavani, che osava provocare con il suo “Portiere di notte”, dove si dava spazio ai rapporti d’amore sadomaso tra carnefice e vittima, cosa oggi, credo, impossibile. Temo, inoltre, che l’orrore dell’Italia e del mondo descritto dalla Wertmuller, ahimé, fosse molto più realistico di quanto si pensasse allora o di quanto oggi ci appare conturbante. Un orrore di un paese che tira a campà e non vuole accorgersi di niente.

Giampiero Mughini per Dagospia l'11 dicembre 2021. Caro Dago, a mio giudizio il Nanni Moretti degli esordi aveva tutto il diritto _ fra i suoi tanti eccessi _ di condannare all’inferno la Lina Wertmuller che non gli andava a genio. Ciascun creatore ha un suo Corano, una sua lista tanto dei peccatori quanto degli eletti. E’ un suo diritto, è la vita, è così che si svolge la storia della cultura e la lotta delle idee che le è consustanziale. Io ho immensamente amato quel Moretti lì, con il quale per un tempo sono stato un amico fraterno. Se il suo giudizio inficiasse di un ette il fatto che io da spettatore cinematografico avevo adorato quella meraviglia che è il film della Wertmuller in cui Giannini e la Melato si strapazzano a vicenda su una barca? Ma nemmeno di un ette, quel film era un capolavoro. E del resto quando ero il presidente del Centro Universitario Cinematografico nella Catania dei Sessanta, figuratevi se non c’era “I basilischi” fra i film che abbiamo amorosamente proiettato. Se la sentivo diffusa una qual certa puzza sotto il naso nei confronti della filmografia della Wertmuller da parte di qualche imbecille che si sentiva troppo snob nei confronti di quei film pur talmente rifulgenti di intelligenza e di ironia? Forse sì, e di quello snobismo italiota mi ci pulivo le scarpe. Chi ama il cinema, chi corre a vedere i film che lo attraggono, lo percepiva a pelle il valore di quei film. Lo percepiva a pelle il rango che quella donna geniale ha nel cinema italiano di questi ultimi quarant’anni. Ho incontrato in tutto e per tutto un paio di volte la Wertmuller, con la quale oltretutto ho condiviso per un certo periodo di tempo una montatura degli occhiali quanto di più bianca. Io che dopo i miei anni acerbi non ho quasi mai più scritto di cinema, le ho sorriso alla grande quelle due volte. A ringraziarla di quanto mi fossi divertito ai suoi film, di cui non finivo di infischiarmene del fatto che qualcuno li sottovalutasse. Quanto a Nanni, non possiamo certo rimproverarlo di essere stato Nanni, con tutti quei suoi eccessi e spigoli acuti. A sua volta un genio della nostra cinematografia. La Wertmuller ha raccontato che nemmeno la salutava quando la incontrava? Anche in fatto di “stronzaggine” Nanni ha sempre toccato vertici elevatissimi.

Wertmüller & the City. Lina se ne va, e a noi restano i telefilm corretti di un’epoca imbecille. Sono lontani i tempi in cui Giancarlo Giannini poteva prendere per i capelli Mariangela Melato insultandola: adesso ci sono le varie Miranda e Charlotte alle prese con i problemi di questo secolo ridicolo. Marco Cantile su L'Inkiesta il 10 dicembre 2021. Ieri mattina, quando è arrivata la notizia della sua morte, stavo pensando a Lina Wertmüller, anche se non lo sapevo. Stavo guardando le nuove puntate del nuovo “Sex and the City”, quello che non è come mi aspettavo, quello che somiglia a noialtre del Novecento: che non lo vogliamo dire, che questo è proprio un secolo ridicolo, ma si vede che lo pensiamo. Stavo pensando: beate noi. Beata Lina Wertmüller, che ha avuto più o meno l’età che ho io adesso in anni in cui poteva far prendere per i capelli l’odiata industriale dal marinaio rabbioso senza venire accusata di rappresentare un modello negativo di dialettica tra i sessi, che poteva farle dare della bottana socialdemocratica senza finire travolta dal femminismo instagrammatico che l’accusa d’usare un linguaggio che non permette alle donne d’emanciparsi. Cioè: senza che andasse come andrebbe oggi.

Tempo fa Lena Dunham aveva messo su una newsletter, faceva fare editoriali e interviste a trentenni emancipate del mondo dello spettacolo americano. Insomma: a una versione del nostro femminismo da Instagram, ma con commercialisti più indaffarati.

A intervistare Lina Wertmüller mandò una regista, nata nel 1985, l’incipit del cui articolo, mi viene da piangere mentre lo trascrivo, è questo: «Ho studiato teoria filmica alla triennale e poi nel mio corso di specializzazione. Scrivo e dirigo film. Mi piace anche pensare che ne so molto di, nello specifico, cinema europeo degli anni Settanta. Ma non avevo mai sentito il nome della prolifica signora del cinema italiano, l’icona nominata all’Oscar Lina Wertmüller, finché non mi hanno chiesto d’intervistarla».

La seconda cosa cui penso leggendo quest’incipit è la generazione nun-sape-mai-nu-cazz’ non si smentisce mai. La prima cosa cui penso è la ragazza protagonista di “Un giorno di pioggia a New York”, la studentessa di cinema che Woody Allen manda da un regista a dirgli «ho una passione per il cinema europeo, specialmente Kurosawa». Chissà se Woody leggeva la newsletter di Lena.

La seconda domanda che quell’augusta rappresentante di quella derelitta generazione (che non è la peggiore di tutti i tempi perché la peggiore di tutti i tempi è la mia, che ha prodotto ventenni e trentenni che hanno enciclopedie d’ogni settore in tasca e tuttavia resistono con ogni forza alla possibilità d’emanciparsi dal non sapere un cazzo), la seconda domanda che la tapina trentaequalcosenne fa alla Wertmüller fa così: «Tu non giudichi i tuoi personaggi, sono esseri umani imperfetti. Ho provato a farlo anch’io, ma mi sembra che si venga messe in stato d’accusa se si rappresentano personaggi femminili negativi, mi sembra che in quanto regista donna IO DEBBA sempre far fare bella figura alle donne». Maiuscole nell’originale. Non è dato sapere se Wertmüller avesse pensato «ma chi m’avete mandato, ma per forza poi fate dei film inutili», ma le rispose che era una regista, mica «una regista donna».

La tapina, sentendosi probabilmente coraggiosissima, le diceva che in effetti per lei – lei la tapina – rappresentare donne che sbagliano era un gesto femminista, ma invece come la facevano sentire (come facevano sentire lei Wertmüller) le accuse d’antifemminismo? W rispondeva che a lei del femminismo non fregava niente. (Lo dico sempre che le interviste migliori sono quelle con domande imbecilli). Che invidia: «Del femminismo non me ne frega niente» è una frase che possono dire quelle della generazione che ha fatto i fatti, invece di perder tempo con gli slogan.

Guardavo il nuovo “Sex and the City” in cui Miranda si copre di ridicolo cercando di far capire in tutti i modi a una docente universitaria nera che lei non è affatto razzista, anzi si è iscritta al suo corso proprio perché è nera, no cioè volevo dire, e più spiegava a giustificarsi e più quella alzava il sopracciglio, «Si è iscritta perché sono nera?», e più io pensavo a “Scappa”, il film di quattro anni fa in cui il suocero bianco usa come significante d’antirazzismo «Se si fosse potuto, avrei votato per Obama una terza volta», e poi è un mostro che i ragazzi neri in effetti li uccide, acciocché il messaggio sia che se ci tieni troppo a far sapere che non sei razzista sei come minimo del Ku Klux Klan; e se cerchi di dire le cose giuste ti tirano le pietre, se dici quelle sbagliate ti tirano le pietre, poi per forza parliamo del tempo (che inverno freddo).

Guardavo il nuovo “Sex and the City” (che è su Sky in contemporanea con l’America, mentre “Scappa” si trova su varie piattaforme e “Travolti da un insolito destino” su nessuna, acciocché i giovani d’oggi non si turbino a sentire Giannini dare della bottana industriale alla Melato); lo guardavo e pensavo che a parte Charlotte – che è la solita imbecille e l’amica da incubo che crea problemi invece di risolverli, l’amica che tutte le donne sensate temono di essere e le altre disinvoltamente sono – sono tutte cresciute. Si trovano tutte in un secolo in cui la gente ha pretese assurde – che una ascolti i podcast, che specifichi quaranta volte che non voleva offenderti per ogni parola usata, che si ricordi perché qualcuno le ha messo il muso anni fa – e non è il loro secolo, ma non è per questo che sembra imbecille: è che è un secolo imbecille in un modo speciale.

A un certo punto delle riprese di questo “Sex and the City” senile è arrivata la notizia della morte dell’attore che fa Stanford, che nelle prime puntate è presentissimo, e io guardavo le puntate e pensavo tantissimo alla morte, che è una cosa che succede con l’età (morire, ma soprattutto pensarci: «È andata un po’ tanto in fretta, cazzo», scriveva Martin Amis nella “Vedova incinta”), e sullo schermo moriva un personaggio, e io sfogliavo un prontuario di “Sex and the City” che uscì nel 2002 e «the men», gli uomini della serie, sono tutti accorpati in un unico capitolo, c’è Stanford e c’è Big e ci sono tutti, è vent’anni fa e sono tutti vivi, e poi non rimase nessuno.

E intanto moriva Lina Wertmüller e non trovavo il dvd in cui sì, Gennarino Carunchio che ti maltratta è divertente da naufraga, ma alla fine torni col marito ricco perché ti piace scopare con gli stronzi ma mica far la vita da proletaria, e sospiravo «Pensa oggi», e pensavo meno male che è morta, Lina, pensa se finiva a dover fare i giri di parole e dover chieder scusa ogni due per tre come le povere adulte di “Sex and the City”, e pensavo al mio cardiologo, che mi dice «Lei ha un’obesità di tipo 1» e poi, terrorizzato, s’affretta a specificare «è un termine medico, non un insulto», e pensavo che non quanto la Wertmüller ma un po’ sono stata fortunata anch’io: la fortuna d’aver vissuto prima di adesso, di questo tempo fragile, di questa scemenza collettiva.

Una vita d'amore e anarchia come i titoli dei suoi film. Stefano Giani il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Da allieva regista di Fellini all'Oscar alla carriera. Leggendari i suoi scontri con la Vitti e De Crescenzo. «Quando guardo verso il futuro mi dico solo. Boh». Eppure Lina Wertmüller, mancata ieri nella sua casa di Roma a 93 anni, di idee e progetti ne aveva eccome. Una conferma Giancarlino, come lo chiamava lei. Quel Giannini, forse la più importante delle sue creature: «Mi ha telefonato ultimamente, dicendo che presto avremmo iniziato un altro film insieme. Ho accettato senza nemmeno sapere di che cosa si trattasse. A un genio non vanno chiesti troppi dettagli. E, senza di lei, io non sarei stato niente. Ero solo l'esecutore della sua creatività». Fervida e brillante. Sempre sul filo di un'ironia pungente e raffinata che è stata la cifra stilistica del suo personaggio, anche quando, nel 2020 targato covid e lockdown, Hollywood le ha reso omaggio con un Oscar onorario alla carriera e una stella sulla Walk of fame «per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa».

«Bisognerebbe chiamarla Anna, questa statuetta. O, se proprio volete, Oscarina. Perché un nome maschile e pure brutto». Parole che oggi suonano come autodeterminazione rosa ma con le femministe ebbe il suo bel dire. Anzi il suo bel fare. La elessero a simbolo e, alla prima riunione, lei chiese chi avesse visto il suo Questa volta parliamo di uomini. Nessuna alzò la mano così si alzò e se ne andò. Un bel caratterino, deciso e severo, che Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, nome e cognome lunghi come i titoli di alcuni suoi film, aveva forse ereditato da papà, potentino di Palazzo San Gervasio ma di remote origini aristocratiche svizzere.

Coincidenza di opposti. Serietà e sarcasmo. Austerità monella. L'ex ragazzina che aveva collezionato espulsioni scolastiche, arrivando a undici, era la stessa ad aver indicato «passione e pazienza» come ricetta per il successo a quella platea di Los Angeles che, a 92 anni, la premiava ma nel '77 le aveva rifiutato il riconoscimento, lasciandola con la sola candidatura, seppur sotto forma di poker (regia, film straniero, sceneggiatura e recitazione maschile a Giannini). Non portò a casa niente. Pasqualino settebellezze, il guappo finito nel lager diventato kapò e sbattuto faccia a faccia con il compromesso, non ce l'aveva fatta ma anche quella sera, la bizzarra Lina fece uno scherzo dei suoi. E, sulla poltrona riservatale dall'Academy mandò Lella Kezich con il risultato che ogni inquadratura televisiva era sulla persona sbagliata. Ci fu chi disse che l'Oscar le sfuggì per questo ma lei non diede mai troppo peso.

L'allieva di Fellini - era stata aiuto regista per La dolce vita e Otto e mezzo - non aveva superato il Maestro che lei stessa definì inarrivabile. Però fu la consacrazione. L'affermazione a Locarno per I basilischi, opera di esordio con cui fu acclamata «nuovo genio del cinema» precedeva cult come Mimì metallurgico ferito nell'onore, Film d'amore e d'anarchia - Ovvero Stamattina alle 10 in via dei fiori nella nota casa di tolleranza. Era il 1973 e, oltre alla collaudatissima coppia Mariangela Melato - Giancarlo Giannini, era nata l'era dei titoli sterminati con i quali andava controcorrente a un sistema che voleva in cartellone sempre meno parole.

La Wertmüller ci rideva sopra, come suo costume. E proseguì imperterrita. Vennero La fine del mondo nel nostro letto in una notte piena di pioggia, Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto con l'indimenticabile «Puttana industriale» icona di uno scontro Nord-Sud. E soprattutto Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici. Nel cast un mostro sacro e un amico. Mastroianni altri non era se non il marito di Flora Carabella, la ragazza con cui Lina recitava poesie sul terrazzo. A 16 anni. Finendo sedotte dalla recitazione. Quando i sogni sembrano a portata di mano e, nel suo caso, lo furono.

Il suo carattere schietto ma senza arroganza fece capolino a chi le domandò il solito consiglio per fare il suo mestiere. «Se si ha talento lo si fa, altrimenti». Lei di numeri ne aveva fin troppi e sconfinò. S'inventò Rita Pavone, protagonista maschile en travesti nel televisivo Giornalino di Giamburrasca. Scrisse i testi di uno dei successi di Mina, Mi sei scoppiato dentro il cuore. Firmato con il maestro Bruno Canfora che compose le musiche. Non si sottrasse al doppiaggio, prestando la voce a Nonna Fa in Mulan. Si permise un due di picche a Woody Allen al quale mandò un paio di suoi occhiali in regalo. Fece teatro e si scontrò con Monica Vitti che, al contrario di tutto il cast, fece a pezzi la tuta per indossare uno splendido abito azzurro. Finì che la Wertmüller ridusse a brandelli il vestito e ordinò rammendi alla divisa sportiva. Poi esplose: «Mettiti questa, Ceciarelli, altrimenti ti spacco la faccia» chiamando la musa di Antonioni per cognome. Quello vero, però. A Luciano De Crescenzo morse un dito sul set di Sabato, domenica e lunedì. «L'avevo avvisato di non sottolineare le battute con quell'indice alzato e alla quarta volta rimediai da sola».

A sconfiggerla è stata solo la vedovanza. Non l'accettò mai, lei che per amore del marito adottò la figlia illegittima di lui. «È nata da Enrico, quindi è figlia mia» rispose a chi le chiese lumi, insinuando stranezze perché Lina aveva 62 anni. E questo è forse il senso della vita. E della sua vita. La definì «una grande festa. E allora festeggiamola». Stefano Giani

Adriana Marmiroli per "la Stampa" il 10 dicembre 2021. «Se non ci fosse stata lei non sarei qui. La sua morte è per me un grande dolore». Giancarlo Giannini ha parole appassionate, per non dire devote, per l'amica Lina Wertmüller . «È lei che mi ha costruito. Sono stati i suoi primi piani, in cui era maestra assoluta, ad avermi reso quello che sono.A lei devo un Oscar, una Palma d'Oro, e pure la stella sulla Walk of Fame». 

Pochi sodalizi nel cinema sono stati così duraturi. Eravate giovanissimi quando vi incontraste I basilischi. Che ricorda di quel periodo?

«Avevo poco più di vent' anni, avevo fatto l'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico e qualche spettacolo teatrale. Lei mi vide a un saggio e mi cercò per Gian Burrasca. Poi vennero i film, i musicarelli, come Rita la zanzara. Mi ha insegnato tutto del cinema: a stare davanti a una macchina da presa. Li girammo in una ventina di giorni, durante l'estate, mentre io recitavo a teatro. Ci lavoravano attori straordinari: Giulietta Masina, Romolo Valli, Peppino De Filippo, Rita Pavone...». 

Ma è soprattutto la stagione a metà Anni 70, che tutti ricordano. Cosa ricorda di Mimì, il capostipite?

«Avevo fatto "Dramma della gelosia" con Scola. Mi chiamò dicendomi: "Nessuno lo vuol fare". Le dissi che io lo volevo fare assolutamente. Coinvolsi Mariangela Melato, anche lei attrice teatrale, che non aveva mai fatto nulla di simile. È lì che nacque il trio Wertmüller/Melato/Giannini.  Per Pasqualino invece accadde il contrario: fui io a convincerla a raccontare quella storia, la storia vera di un signore di Cinecittà. Lo vedevo come una specie di Pulcinella tragico». 

In tutto avete fatto 9 film. L'ultimo Francesca e Nunziata, nel 2001. Mai pensato di fare ancora qualcosa insieme?

«Continuava a fare progetti. L'ultima volta che l'ho sentita, qualche mese fa, mi disse con la sua vocina: "Giancarlino, sto scrivendo una sceneggiatura, la fai con me?" Le risposi subito di sì».

In Italia è stata una regista di successo, commerciale, e quindi sottovalutata. Per gli americani era invece un genio. Come mai?

«Gli americani l'hanno capita: è stata la prima donna a ricevere una nomination agli Oscar. E nel 2020 le hanno dato un meritatissimo l'Oscar alla carriera. Quando siamo stati a Cannes nel 2019, Di Caprio ha fatto carte false per sedersi con lei e conoscerla: da non crederci. Allen, Coppola, la adoravano. È grazie a lei se ho conosciuto Warhol. In Italia invece non è stata così apprezzata: premiavano sempre me e lei veniva messa da parte. È vero, da noi non l'hanno capita, l'hanno snobbata». 

Che persona (e che regista) era?

«Viveva in simbiosi con la macchina da scrivere: sceneggiature per il cinema, per il teatro alcune commedie musicali, scrisse persino delle canzoni. Come regista era decisa, brava con gli attori e ancora di più con i non-attori. Io facevo tutto quello che mi diceva. Aveva un'inventiva straordinaria, una fantasia pazzesca e coraggiosa, le sue storie erano bellissime: fece grandi commedie all'italiana, ma intinte nel grottesco e molto politiche. Era dotata di un grandissimo senso dell'umorismo. Se lavorare con lei era un piacere e ci si divertiva sempre, non era però un gioco, era anzi molto faticoso: come tutti i grandi aveva una cura maniacale per ogni cosa. Era capace di tenerti sul set fino a notte fonda per ottenere quello che voleva. Abbiamo viaggiato insieme in un momento bellissimo per il nostro cinema. Che purtroppo non c'è più. Come lei. Ma sono stato fortunato a conoscerla».

Gloria Satta per “il Messaggero” il 10 dicembre 2021. Ha la voce rotta, Sofia Loren, quando parla della scomparsa di Lina Wertmüller, regista di 4 suoi film e da mezzo secolo amica nella vita, complice, quasi una sorella. «Sono addoloratissima», sussurra al telefono dalla sua casa di Ginevra, «è come se fosse morto un mio familiare». A 87 anni, due Oscar e una carriera leggendaria alle spalle, la grande attrice è stata diretta dalla regista in 4 film: per il cinema Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova - si sospettano moventi politici (1978), Sabato domenica e lunedì (1990), Peperoni ripieni e pesci in faccia (2004, ultima regia) e, per Canale 5, Francesca e Nunziata (2002). Ed è stata proprio Sofia che il 27 ottobre 2019, a Los Angeles, ha consegnato a Lina l'Oscar onorario alla carriera. 

Cosa ricorda di quella serata?

«Un'emozione che mi accompagnerà finché sono in vita. Lina, una donna di solito molto spiritosa, sul palco della Ray Dolby Ballroom appariva molto commossa. E lo ero anch' io che ho dovuto fare il discorso davanti al gotha di Hollywood. C'erano tra gli altri Quentin Tarantino, Leonardo Di Caprio, Isabella Rossellini, Harvey Keitel...». 

E cosa ha pensato quando la regista ha proposto di chiamare la statuetta Anna?

«Quell'uscita fu un'espressione della sua ironia e della sua intelligenza. Lina era una donna piena di vita, accogliente, dotata di una memoria prodigiosa: le piaceva raccontare storie e incontri legati alla sua vita nel cinema. Insieme abbiamo lavorato con impegno ma ci siamo anche fatte tante risate». 

Quando vi siete incontrate?

«A metà degli anni Settanta mi arrivò il copione di Fatto di sangue, una commedia ambientata negli anni Venti in Sicilia. A me era destinato il ruolo di una vedova napoletana divisa tra due uomini interpretati da Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini.  Rimasi folgorata e dissi a mio marito Carlo Ponti: Questo film devo assolutamente farlo. Lina, reduce dai trionfi di Mimì Metallurgico, Travolti da un insolito destino e Pasqualino Settebellezze, per me era un mito, quasi un'immagine sacra». 

Aveva mai lavorato con una regista?

«Mai prima di allora. E in tutta la mia carriera Lina è rimasta l'unica. Negli ultimi tempi mi confessava il desiderio di girare un altro film con me. Avrei accettato senza esitare».

E farsi dirigere da una donna le è sembrata un'esperienza diversa dalle altre?

«Senza alcun dubbio. Sul set, con Lina si creava ogni volta un rapporto più intimo, ravvicinato. Lavoravamo seriamente ma c'era anche spazio per parlare di cose di donne come la bellezza, i vestiti, la famiglia. E, perché no, ci concedevamo anche il piacere di qualche pettegolezzo». 

È vero che sul set era autoritaria?

«Con me non è mai stata aggressiva, per carità, abbiamo sempre lavorato in piena sintonia. Certo, era una regista esigente e pretendeva il massimo. Ma anche Vittorio De Sica lo era, come tutti i grandi».

Cosa amava di lei, al di là del talento cinematografico?

«La sua intelligenza, la sua sensibilità fuori del comune, il suo gusto per il lato comico della vita. In fondo i suoi film erano delle tragedie, ma di ogni storia Lina riusciva a mettere in evidenza l'aspetto esilarante, addirittura grottesco. Non ti faceva mai pesare il suo talento, la sua cultura. Aveva sempre voglia di divertirsi. Ed era sempre con te: accanto a lei io non mi sono mai sentita sola». 

L'ultima immagine che conserva di Lina?

«La sua gioia nella notte dell'Oscar. Quasi non credeva di aver conquistato quel riconoscimento a 91 anni. Ma nessuno come lei l'ha mai meritato. E ora mi mancherà moltissimo». 

Lina Wertmüller, il ricordo di Rita Pavone: “Era la mia mamma artistica, sono distrutta”. Debora Faravelli l'11/12/2021 su Notizie.it. Distrutta per la scomparsa di Lina Wertmüller, Rita Pavone ha raccontato quello che la regista ha rappresentato per lei. Sono tantissimi i messaggi di cordoglio condivisi dopo la morte Lina Wertmüller, regista e scrittrice italiana scomparsa giovedì 9 dicembre 2021 all’età di 93 anni: tra questi quello di Rita Pavone, che ha parlato di un dolore enorme e ha definito la donna definita una seconda mamma. Intervistata dall’AdnKronos poco dopo la triste notizia, la cantante ha raccontato di aver incontrato Lina a casa sua a novembre: “Le avevo telefonato per dirle che ero a Roma e lei mi ha risposto che per me la porta era sempre aperta“. Stava benissimo, ha spiegato, ed era in forma sul suo divano. Legatissima alla regista romana sia dal punto di vista umano che professionale, ha parlato di lei come di una mamma artistica con la quale ha iniziato la sua carriera. Tra le tante collaborazioni, la Wertmüller la diresse nel Gianburrasca televisivo del 1964 e l’aveva anche inclusa nel docufilm di Valerio Ruiz sulla sua vita, Dietro gli occhiali bianchi. Nel trasmettere tutto il so affetto alla figlia Zulima, la Pavone ha infine ricordato che la regista è stata la prima donna ad aver ricevuto una nomination agli Oscar nella categoria di miglior regia (Pasqualino Settebellezze, 1977).

“E’ stata un caposaldo: aveva un’intelligenza, una simpatia, un umorismo e nello stesso tempo era romantica e sentimentale“, ha concluso.

Morte di Lina Wertmuller, il ricordo di Fausto Bertinotti: “Nei suoi film la lotta di classe”. Federico Fumagalli su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. «Diamoci “del tu”. Ti va?». Chiede Fausto Bertinotti al telefono, mentre si trova «in campagna, a guardare la pioggia». Abbatte i formalismi l’ex Presidente della Camera, firma del Riformista. Anche quando alla domanda «possiamo parlare della signora Wertmuller?», Bertinotti risponde: «Se fosse viva e ci avesse sentito chiamarla “signora”, Lina di certo ci avrebbe riso su». Verissimo. Le etichette non facevano per lei. Può dimostrarlo chiunque l’abbia incontrata, intervistata, conosciuta più o meno bene. Lui la conosceva bene: «Eravamo amici – spiega Bertinotti –. Insieme a mia moglie Lella, sono stato spesso a casa sua. Non ci vedevamo da un po’, sapevo fosse molto provata. Ma – continua – facciamola ridere ancora, anche adesso che non c’è più. Continuiamo a chiamarla “signora Wertmuller”».

Parafrasiamo il titolo di un recente e fortunato film, “Qui rido io” di Mario Martone. Qui ride (ancora) Lina.

La risata di Lina contagiava anche la sua opera. Pensiamo, ad esempio, a Pasqualino Settebellezze. Racconta una storia drammatica (l’avventuroso peregrinare di un giovane proletario della Napoli fascista, che finisce in un lager tedesco ndr.). Ma se scavi un po’, avverti l’eco del ridere. Una reazione non consolatoria, né di fuga. È invece un distacco ironico dalla realtà.

A proposito di titoli. I suoi, interminabili, sono leggendari.

Titoli che non finiscono mai. Proprio come il suo nome (all’anagrafe: Arcangela Felice Assunta Wertmuller von Elgg Spanol von Braueich ndr.). Vale lo stesso per i personaggi dei suoi film. Rappresentano una natura doppia, o tripla. E così, riescono a mantenersi sempre a debita distanza dalle persone vere.

Vale lo stesso per gli attori, spesso grandissimi, che hanno interpretato i suoi film?

Certo. Giancarlo Giannini ad esempio, era fuori dai canoni tradizionali. Così diverso da Marcello Mastroianni, un interprete del tutto risolto. Forse è anche per questo che Lina, pur essendo ottimi amici, diresse poco Mastroianni (una sola volta, nel 1978, in coppia con la Loren per Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici, ndr.). Irrisolta, allo stesso modo di Giannini, era invece la gigantesca Mariangela Melato.

Giannini e Melato sono i protagonisti di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”. Una commedia sulla lotta di classe, datata 1974.

In quel decennio, gli anni Settanta così segnati dalla divisione della società in classi, Lina guardava ai proletari e ai borghesi allo stesso modo. Con disincanto e critica.

Questo tipo di conflitto, oggi pare meno attuale. Lo sono anche i film di Wertmuller?

Il nostro è un mondo rovesciato, in cui anche la lotta di classe è alla rovescia. La combatte chi detiene il potere. In un’epoca che la sociologia definisce fluida, tanto cinema di Lina Wertmuller non avrebbe cittadinanza. E farebbe fatica a trovare una produzione.

L’essere donna è stata un’altra cifra importante, nella sua carriera cinematografica.

Una regista molto di confine. Non saprei dire se fosse femminista. Certo, resta famosa la sua battuta sul nuovo nome da dare all’Oscar. «Bisogna cambiare il nome a questa statuetta. Chiamiamola con uno di donna: Anna».

Parole pronunciate a Los Angeles, quando nel 2020 le viene assegnato l’Oscar onorario. Facendole visita a casa, ti è mai capitato di vedere il premio esposto?

Non ricordo di averlo visto. Magari l’aveva nascosto. Era solita spostare il campo di osservazione. Nel suo cinema, così come nel privato. Anche i suoi occhiali bianchi fungevano da schermo, secondo me. In questo modo, l’attenzione non cadeva su di lei ma su ciò che indossava.

Per farla meglio conoscere alle nuove generazioni, un titolo che – prima di altri – suggeriresti agli spettatori più giovani?

Dico Pasqualino Settebellezze. Non secondo una mia personale preferenza, ma perché ormai questo film è un classico.

Nel 1977, quando ebbe la candidatura come migliore regista per Pasqualino, fu Rocky a trionfare agli Oscar…

Non ricordavo. Questo un po’ fa ridere me…

Federico Fumagalli

Amata dalla critica e dal pubblico. Chi era Lina Wertmuller, una carriera iniziata come aiuto di Fellini. Federico Fumagalli su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. È la vita. Passati i novant’anni può sembrare che la non mortalità si sia manifestata. Per la prima volta, stando alle cronache. È l’arte. Quando è stata grande, prepotente, premiata, popolare e di successo, continuerà a vivere. Diventata cristallo, è destinata a restare. E l’arte cinematografica, la più simile alla vita che filma e racconta, è il migliore fra gli elisir. Vale, eccome, per l’opera di Lina Wertmuller, la grande regista scomparsa ieri a novantatré anni, nella sua Roma. E nella capitale era nata, il 14 agosto del 1928, da una famiglia della borghesia benestante, con gocce di sangue nobile di discendenza svizzera. Gli occhialoni bianchi, distintivi e iconici, li avrebbe indossati presto. Nel 2015 il giovane regista Valerio Ruiz è partito proprio da lì, per il documentario biografico Dietro gli occhiali bianchi, che con affetto ha dedicato a lei e a chi ha amato il suo cinema. Tanti. Più il pubblico della critica? Falso. La lista dei riconoscimenti, molti alla carriera, dimostra il contrario. Allora, è vero l’opposto? Falso anche questo. Lina Wertmuller ha sempre avuto feeling con gli spettatori, di cinema e tv. I clamorosi successi forse non sono molti, ma fondamentali (Gian Burrasca, Mimì metallurgico, Film d’amore e d’anarchia, Travolti da un insolito destino, Pasqualino Settebellezze…). La coerenza del suo cinema, il suo graffio di autrice insieme profonda e popolare, è inattaccabile e imprescindibile. Anche quando l’esito, artistico e commerciale, non è di prima grandezza. Metalmeccanico e parrucchiera, in un turbine di sesso e politica, con Veronica Pivetti e Tullio Solenghi, nel 1996 sembrava essere uscito fuori tempo massimo dagli anni Settanta. Che, per materiale socioculturale, per Wertmuller rappresentano il gran decennio. Se nei primi Sessanta perde il treno dei signori colleghi maschi, che debuttano (come Bellocchio e Olmi, che le produce il suo film d’esordio, dall’inedito sapore neorealista: I basilischi del 1963, premiato a Locarno) o si consacrano (è stata aiuto regista di Federico Fellini, sui set di La dolce vita e 8 e mezzo), i Settanta le sono davvero congeniali.

Si trova benissimo con la coppia Giancarlo Giannini–Mariangela Melato. Dirigendo loro e altri colleghi (anche internazionali, come Harvey Keitel e Angela Molina in Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti del 1985), decide di mettere alla prova la memoria dei più incalliti cinefili, con titoli dalla lunghezza monstre. I già citati, ma stavolta (se lo meritano) in tutta la loro interezza titolistica: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia – Ovvero Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza… (1973), Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. E ancora, La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia (1978), Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano motivi politici (1978). Alla regista, interessano i conflitti: Nord vs Sud (Mimì), ricca borghesia vs proletariato (Travolti da un insolito destino. Epocale, al punto da spingere Madonna a farne un brutto remake quasi omonimo, Travolti dal destino nel 2002). E ama fare, a suo modo, i conti con la Storia non da molto passata e con il suo strascico: Film d’amore d’anarchia, che regala a Giannini il meritato premio a Cannes, come migliore attore.

Seguendo gli stessi principi di quel successone, e affidandosi al medesimo protagonista, tre anni dopo Wertmuller alza la posta. Pasqualino Settebellezze (1976) è un ottimo film. Ma, soprattutto, scrive statistiche immense per il cinema italiano nel mondo. Giannini ottiene la nomination all’Oscar, come migliore protagonista. Vince la statuetta, postuma, Peter Finch per Quinto potere (fra i candidati, anche De Niro in Taxi Driver e Stallone in Rocky). Il film è nominato come migliore pellicola straniera (e ancora ci si domanda come il dimenticato Bianco e nero a colori di Jean-Jacques Annaud, abbia potuto fare meglio). Ma è Wertmuller a fare l’impensabile. Due candidature: migliore sceneggiatura originale e, udite udite, migliore regia. Mai nessuna donna ci era riuscita prima. La seconda dopo di lei sarebbe stata Jane Campion, nel 1994, per Lezioni di piano. L’Oscar onorario, che doverosamente l’Academy le assegna nel 2020 (una delle ultimi luci dello spettacolo internazionale, prima dello scoppio della pandemia) non vale come risarcimento e non cancella la enormità di quanto successo più di quarant’anni prima.

L’ultimo film, nel 2004, è stato il dimenticabile (ma il titolo, ancora una volta è divertente) Pomodori ripieni e pesci in faccia con Sophia Loren (altra attrice di riferimento. Ma nella professione le due non si sono date il meglio, l’una all’altra). E in tv Mannaggia alla miseria, nel 2010, con Sergio Assisi e Gabriella Pession. Come passa il tempo, come cambiano gli attori. Proprio in televisione, Wertmuller ebbe il suo primo trionfale successo. Il giornalino di Gian Burrasca, da Vamba, con Rita Pavone. Gioiosissima preistoria. In quella occasione, per una giovane mamma Rai, la regista finì per bene adattarsi a qualcosa che negli anni non sarebbe più stato congeniale alla sua poetica. Da cui, almeno in parte, si discostano due capolavori della avanzata maturità. Il delicatissimo Io speriamo che me la cavo (1992), dal libro di Marcello D’Orta, con un prezioso Paolo Villaggio maestro elementare. E, divertentissimo, il doppiaggio italiano della nonna di Mulan, nell’omonimo cartoon Disney del 1998.

La vita privata è stata il più possibile riservata e di moltissimo amore. Per la figlia adottiva Maria Zulima ed Enrico Job. Marito e grande scenografo, anche dei film della moglie, scomparso nel 2008. Lina Wertmuller è scomparsa ieri, ultranovantenne, quando sembrava essere scesa a patti con l’immortalità. Resterà, immortale, tutta la sua opera e il suo cinema. In ricordo di una donna di talento, pioniera senza ribadirlo. Di esempio per tanti e, soprattutto, libera. Federico Fumagalli

Lina Wertmuller: sangue lucano, sguardo meridionale, talento internazionale. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 9 Dicembre 2021. Sangue basilisco, sguardo meridionale, fama e riconoscimento internazionale (prima donna candidata all’Oscar e Oscar alla carriera), tempra da cinematografara romana (ci dava con il linguaggio romanesco a sferzare le maestranze della capitale), una regista colonna del cinema italiano che spesso non ha ricevuto il rispetto critico che le si doveva in vita.

Lina Wertmuller è morta all’età di 93 anni. Ha molto contribuito nel modificare il cinema del Novecento, prima donna regista italiana ad imporsi in un mondo maschile e maschilista.

All’anagrafe si chiamava Arcangela Felice Assunta Wertmüller Von Elggspand Von Braucich, quasi a parafrasare quel marchio di fabbrica di molti titoli dei suoi film chilometrici e wertmulleriani per antonomasia, girati con gli occhialetti che aveva sempre sul naso a testimoniare un altro suo sigillo personale che ha sempre accompagnato uno stile registico molto originale.

Ha sempre scritto bene Lina, fin da giovane quando si cimentava con i copioni di Canzonissima. Galeotta fu la sua amica, Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, a presentarla a Federico Fellini e a darle l’opportunità di diventare aiuto del grande regista ne “La Dolce vita”, raro caso per il cinema dell’epoca.

L’esordio nel cinema di Lina è travolgente. “I basilischi” racconta l’immobilismo (si ipotizzò d’intitolarlo “Oblomov”) del Meridione interno di mezzo secolo fa. Il film non amato da tutti i lucani (per il dialetto pugliese e una certa visione nordista) si apre con un ordinario pranzo quotidiano prima della controra in cui tutti andranno a dormire. La carrellata morbida mostra le diverse bottiglie di vino sul tavolo nella silenziosa scena che scopre la tipica famiglia del ” Si vuo’ campà a luongo, mangia, vivi e ruormi”.

“I basilischi” nasce per caso. Lina Wertmuller, ha fatto da poco l’aiuto della “Dolce vita” ed ha conosciuto Tullio Kezich e insieme vanno in Sicilia sul set di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Galeotta fu la sosta a Palazzo San Gervasio, paese originario di Lina, per far scoccare la scintilla di Kezich nel proporre la nascita del fortunato esordio wertmulleriano subito ben acclamato al festival di Locarno.

Si racconta che Lina scrisse il copione in una notte. Una sceneggiatura perfetta che cita anche Giustino Fortunato nel finale. E a quel tempo una buona idea diventava un film a basso costo di gran qualità. Girato tra Puglia e Basilicata; Minervino Murge, Spinazzola e Palazzo San Gervasio le location che con orgoglio ne rivendicano le genesi.

“I basilischi” prende il nome da certi lumaconi sempre fermi al sole, che daranno un neologismo lucano che ha persino ribattezzato la poco conosciuta mafia locale.

Con la sua brillante carriera Lina Wertmuller, figlia di un aristocratico professionista svizzero-tedesco, è diventata personaggio identitario lucano, spesso omaggiata dalla Basilicata e dalle sue istituzioni pubbliche e cinematografiche con affetto molto ricambiato in manifestazioni celebrative in ogni dove.

Romanissima per nascita e formazione ma molto coinvolta in un meridionalismo grottesco e audace. La Sicilia del Mimì Metallurgico rappresentata a Sud e Nord, lo scontro di classe tra la milanese capitalista e il siciliano comunista in splendidi luoghi della Sardegna, luogo molto amato per le vacanze da Lina Wertmuller, che non disdegnava di frequentare. Ma era anche solita trovare riposo a Ravello complice il suo amico antropologo De Masi, o a Scario dal senatore Lino Jannuzzi, ma anche a Sangineto in Calabria ospite di Giacomo Mancini.

Lina è stata un’intellettuale di area socialista (ha fatto parte dell’assemblea nazionale su designazione di Craxi) con spirito libertario e femminista. Trasformò Rita Pavone in Gian Burrasca in televisione e non esitò a salire sui palchi della campagna referendaria a favore del divorzio nel 1974. Tentò anche una riflessione ironica sulla tragedia del terrorismo con il film “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante di strada” ma negli anni Ottanta non si sapeva ancora scherzare sulla lotta armata italiana.

È stata sorella più che amica di Piera Degli Esposti, sodale di Sophia Loren, Giancarlo Giannini e Mariangela Melato diventarono celebri negli Stati Uniti grazie ai suoi film. Ha diretto Paolo Villaggio in “Io speriamo che che me la cavo” fortunata trasposizione del best seller di Marcello D’Orta.

E l’anno prossimo un documentario “Noi che ce la siamo cavata” con gli ex bambini protagonisti del film celebreranno i vent’anni del film grazie ad Adriano Pantaleo, il protagonista, il regista lucano Giuseppe Marco Albano e l’allora esordiente sceneggiatore Andrej Longo che collaborò con la mitica coppia Benvenuti e De Bernardi.

Un rapporto intenso con Napoli a partire da “Pasqualino Settebellezze” e continuato con molti film e una serie che le sono valse anche una cittadinanza onoraria da parte della municipalità partenopea.

Ha realizzato opere liriche, ha lavorato per la televisione, è sempre stata autentica e vera nella sua estetica filmica. Dotata di enorme talento. Una grande donna italiana. Magnificamente travolta da un insolito destino: Lina Wertmuller.

F.C. per “la Stampa” l'11 dicembre 2021. Le rose della Loren, la «tua Sophia» come scritto sul nastro, riempiono il vuoto di un'assenza. Dalla camera ardente in Campidoglio, ieri, mancava una generazione di registi, attori e sceneggiatori italiani. Molto più giovani di Lina Wertmüller, ma comunque in una fascia d'età che esclude l'ipotesi di non-conoscenza. Magari saranno tutti presenti oggi, per il funerale, ma la latitanza di ieri fa pensare. Il nostro cinema, poco coeso e poco abituato a tifare unito per il successo di qualcuno, ha un debito nei confronti della Wertmüller. Un peccato originale, che si riallaccia allo stigma lanciato contro la regista da una parte della critica togata, e anche molto ideologizzata, quella che non le aveva mai riconosciuto la patente di autrice a tutto tondo. Il portabandiera di questo dissenso radical-chic fu il giovane Nanni Moretti e, in tanti, da allora, sentirono il bisogno di allinearsi, di ignorare il talento della regista venerata in Usa, di bollare le sue opere con il marchio, all'epoca infamante, del qualunquismo. La vena grottesca, il coraggio di porre le donne al centro di tutto lasciando gli uomini di sfondo, contribuirono a rafforzare giudizi frettolosi. Emessi in una stagione che, all'industria cinematografica, fece molto più male che bene.

Marco Ciriello per mexicanjournalist.wordpress.com l'11 dicembre 2021.  

1) Gli occhiali più belli del cinema italiano, a metà tra la montatura ironica di Woody Allen e la lente deformante di Federico Fellini. 

2) Una nave corsara: estranea e guerriera, intransigente sul set quanto empatica con i personaggi che ha creato, Lina Wertmüller è stata così diversa da non appartenere a nessuno.

3) Una lotta ad oltranza contro le domande del cavolo delle interviste, le impreparazioni dei giornalisti, le analisi senza aver visto i suoi film. Lina è come dovrebbe essere, tutto, ma voi vi accontentate. 

4) Doveva tutto alla sua compagna di banco, Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, che seguì per studiare insieme all’accademia teatrale diretta da Pietro Sharoff. E poi dite che in Italia la scuola non serve. 

5) Il carnevale di Martin Scorsese, la gioia del cinema per Harvey Keitel, la libertà che Hollywood non ha mai potuto permettersi per Henry Miller. Wertmüller nel suo corpo piccolo e all’apparenza fragile, conteneva la meraviglia di tanti mondi possibili.

6) Se Gesù baciò i piedi ai suoi apostoli, Robert Altman durante la cerimonia dei Golden Globe, fece tacere la sala e baciò i suoi. Non ci sarebbe da stupirsi per l’adorazione di un apostolo per la filmografia, ma Wertmüller si è solo inorgoglita dei suoi piedi bellissimi. 

7) Goffredo Fofi le diede dell’“artista dell’era di Craxi che mai pagherà per nessuna delle sue malefatte artistiche e morali”. E Wertmüller lo querelò, realizzando forse il suo capolavoro più grande: Goffredo attivista ferito nella critica. 

8 ) Per capirne la grandezza, basta prestarsi ad una rapida analisi: va bene Liliana Cavani, quasi sua coetanea, ma della nuova generazione di grandi registe, ne ricordate qualcuna? Ecco, vi siete dati una risposta. 

9) Ha diretto il miglior film sul terrorismo, chiudendo tutta la società italiana in una macchina, tra dc, brigatisti e ignavi, fino a farli soffocare, il miglior film sul sud, bocciando con sessant’anni di anticipo tutta la paesologia e il miglior film sulla borghesia italiana, regalandoci l’erotismo della donna più affascinante del cinema italiano, Mariangela Melato. 

10) È stata la prima in tante categorie, non solo come donna candidata all’Oscar e pioniera nel ridimensionamento dell’egemonia maschile nel lavoro e nell’arte, ma soprattutto per la filmografia sull’Olocausto, anticipando l’orrore di Claude Lanzmann e il tentativo di introdurre nel dramma la commedia, come Mel Brooks. 

11) Non era napoletana ma grazie al suo sguardo totale, che sapeva analizzare complessità, linguaggi e differenze, aveva capito bene Napoli senza dover rivendicare nulla. 

12) Libera e senza inganno, aristocratica senza bisogno di un kolossal ma mai sorda e cieca nei confronti del popolo, divertita dallo stereotipo e dalla banalità di chi non lo capisce.

13) Così femminista da non essere capita dalle femministe, così regista da non essere capita dai registi, così sceneggiatrice da non essere capita dagli sceneggiatori, così Lina da poter essere solo Wertmüller. 

14) Se gli operai erano condannati alla fatica della fabbrica e ai cineforum per la lotta di classe, lei seppe farli ridere e Mimì metallurgico divenne il loro eroe. 

15) Arcangela Felice Assunta Job Wertmüller von Elgg Esapañol von Brauchich. I suoi titoli, dannazione per generazioni di cartellonisti, erano anche biografia: condivideva con i film la disgrazia della firma all’anagrafe. 

16) A parte essere l’unica a saper dirigere Sophia Loren, dopo De Sica, proprio perché spogliata dello scudo oleografico della bellezza, con Giannini e Melato crea uno dei più bei tridenti della storia del calcio. 

17) Il cinema italiano di oggi non può ricordarla, se l’avesse vista e studiata oggi avremmo un altro cinema e per fortuna un’altra memoria da preservare per il futuro e di cui avere cura. 

18) Una colonna sonora che si regge sull’impalcatura melodica di uno fischio, meno celebre del classico Morricone – Leone, ma che lega Wertmüller al mondo epico del western e alla sua capacità di dipingere affreschi, esaltando con la macchina da presa ogni componente. 

19) Una che se n’è sempre fottuta, come diceva lei stessa, tanto da mordere il dito a Luciano De Crescenzo, mandare a fanculo Nanni Moretti e cambiare l’ordine dei posti a sedere durante la cerimonia degli Oscar. Perché l’unica cosa che conta sono il set e il talento, divertirsi e fare le cose a proprio modo. 

20) Grida, litigi e sfuriate durante le riprese per lasciare spazio alla tranquillità del quotidiano e alla costruzione di un amore per quarant’anni. Altrimenti non avrebbe potuto scrivere canzoni per Mina, soprattutto Mi sei scoppiato dentro al cuore all’improvviso, dopo aver conosciuto Enrico Job. 

21) Svizzera – Palermo, la linea degli alieni dal mondo intellettuale, di chi appartenendo al sud lo comprende senza superficialità e non si abbandona al conformismo. Sarà per questo che da svizzera di origine, divenne amica di Leonardo Sciascia. 

22) Non le avanzò tempo, tra sceneggiatura e regia, altrimenti come cantante avrebbe potuto essere Paolo Conte. Eppure la sua elegante leggerezza nella voce si trasfuse in Rita Pavone e Luis Bacalov, per diventare la voce narrante per eccellenza del novecento italiano. 

23) Lei era un fumetto, amava Flash Gordon di cui era figlia, e lo fa leggere al geometra Satta Flores ne “I basilischi”. 

24) La storia del passato ormai ce l’ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion ragion per cui affamati abbiamo combattuto perciò buon appetito facciamo colazion. Viva la pappa pappa col po po po po po po po mo do ro.

25) Ingrandire, deformare, tragedizzare la realtà per poi riderne. Con semplicità e soprattutto col sesso. Senza la furbizia di Fellini, la ridondanza del corpo di Pasolini, ma esibendo i culi di Brass, ridendo. 

26) Prima di uccidere Mussolini, tre giorni in un casino. Perché l’anarchia è un sogno senza speranza. 

27) Fece Adamo ed Eva molto meglio della Bibbia perché Adamo parlava siciliano ed Eva era bionda. Scopavano, litigavano, si picchiavano. Esattamente come a nostra immagine e somiglianza. 

28) Il più grande insegnamento della sua filmografia è che i ricchi ti fottono sempre. Non avrebbe mai immaginato che anche per le strade di San Francisco i tassisti, riconoscendola, l’avrebbero chiamata: bottana industriale. Aveva capito che tra il sesso e la televisione, l’uomo stava scegliendo la seconda, facendo iniziare a precipitare tutto. 

29) Pasqualino Settebellezze era odissea nell’orrore, e John Simon, l’uomo più incontentabile di Hollywood si perse dietro a questa Omero donna. Nacque Santa Lina da NY. 

30) Perché scopare una nazista, una kapó più inchiavabile della Merkel, è una delle più grandi vittorie dell’antifascismo. 

31) L’uomo nel disordine è l’unica speranza.

Alla Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo. Addio a Lina Wertmuller, applausi e lacrime al funerale per la “regista del popolo”. Redazione su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. L’applauso dalla folla ha accompagnato l’arrivo del feretro di Lina Wertmuller nella Chiesa degli Artisti a Roma. Maria Zulima Job, figlia adottiva della regista scomparsa il 9 dicembre a 93 anni, è arrivata ai funerali della madre tenendosi per mano con i famigliari e gli amici più stretti. Tra i primi volti noti giunti per l’ultimo saluto alla grande artista, Giancarlo Giannini: “Una grande donna e una grande regista. Senza di lei non avrei fatto nulla io”. Anche Giuliana De Sio, regista Cinzia Torrini, Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo, il professore Domenico De Masi alla produttrice Caterina D’Amico. In tantissimi hanno voluto salutare per l’ultima volta Lina Wertmüller, i cui funerali si sono svolti oggi nella chiesa degli Artisti di piazza del Popolo, a pochi passi dalla casa dove viveva la grande regista scomparsa.

Sulla bara c’è una foto ma ci sono anche un paio di grandi occhiali bianchi, come quelli che portava sempre Lina. “Si fa fatica a pensarla chiusa lì in una bara di legno, si sarà già rotta di restare chiusa lì dentro…”. Usa l’ironia, la stessa amata da Lina, l’attore Massimo Wertmuller nipote della regista, nell’elogio funebre pronunciato nella Chiesa degli Artisti a Roma, al termine della cerimonia religiosa. “Rendere pubblico un dolore così intimo un po’ lo inflaziona – confessa – quando ci lascia un maestro, come era Lina Wertmuller, si rimpiange il suo genio ma anche un modo di vivere e di essere da grande intellettuale: una figura che manca molto in questo periodo”.

Sul presbiterio sale anche una commossa Rita Pavone. “E’ stata la mia mamma artistica – dice la cantante -. Mi ha portato a fare cose che mai avrei pensato di poter fare. Era frizzante e spumeggiante con un carattere che adoravo” aggiunge, ricordando qualche aneddoto delle riprese de Il giornalino di Gian Burrasca. La cerimonia è stata celebrata da don Walter Insero, che era amico personale della regista: “Ha raccontato umili e oppressi, mettendosi sempre dalla loro parte, con intelligenza e ironia, ‘cantando per chi non aveva fortuna’, come recita il brano di ‘Film d’amore ed anarchia’. La sua straordinarietà era nel raccontare l’ordinarietà della gente comune. Ricordiamo una grande artista, una donna che esprimeva e comunicava la sua gioia di vivere, che si era definita ‘regista del buonumore’ e che amava Papa Francesco perché diceva che lui arrivava al cuore delle persone con la sua simpatia. Lei ha trasmesso simpatia attraverso le sue opere, anche con quegli occhiali bianchi che erano il suo segno distintivo”. Lina Wertmüller, ha continuato don Walter Insero, “aveva una naturale tendenza a camminare dal lato assolato della strada, come sottolineava parafrasando Louis Armstrong. Mi colpiva di lei il suo essere una donna semplice, nonostante il grande successo e i premi internazionali: non badava ai riconoscimenti pur apprezzandone il valore”. Don Walter osserva che “Lina ha conservato per tutta la sua vita la sua anima di scugnizza, non ha mai soffocato la bambina che era dentro di lei. Ricordava, citando Fellini, che la vita è una festa e va vissuta insieme. Diceva di non lasciare che sia la vita a giocare con te ma di giocare tu con la vita”.

Funerali di Lina Wertmüller, la commozione di Rita Pavone e la poesia di Giancarlo Giannini: “Che piccola cosa una vita…” di Agenzia Vista Alexander Jakhnagiev l'11 dicembre su Il fatto Quotidiano. Ecco la poesia scelta dall’attore Giancarlo Giannini per la cerimonia funebre di Lina Wertmüller alla Chiesa degli Artisti di Roma.

Che piccola cosa, una vita!

La mia, come tutte, è una goccia.

Voglio si perda in un mare d’amore,

perché è l’unica via, altrimenti

è una goccia sprecata: troppo piccola

per essere felice da sola, e troppo grande

per accontentarsi del nulla.

“Mamma Wertmuller? Una grande donna, con una genialità speciale e due palle così...” La figlia della regista: «Era curiosa di tutto, diceva sempre andiamo a informarci». Fulvia Caprara l'11 Dicembre 2021 su La Stampa. Quanto è difficile parlare della propria madre, a poche ore di distanza dalla scomparsa, accanto al feretro esposto al saluto della gente, nel clima ufficiale del Campidoglio, in una giornata di pioggia che sembra fatta apposta per piangere. Quanto è difficile accogliere gli amici, i parenti, i conoscenti, le celebrità come Mara Venier, Milena Vukotic, Veronica Pivetti, Leopoldo Mastelloni, le autorità come il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, l'assessore alla Cultura Miguel Gotor e il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini che parla di «una grande donna, regista coraggiosa, innovativa, sempre avanti rispetto ai tempi». 

Le tipiche statuine napoletane. Agenzia Vista / CorriereTv. Napoli, 11 dicembre 2021 Un omaggio alla regista Lina Wertmüller dai maestri del presepe di San Gregorio Armeno a Napoli: ecco la statuina del presepe e un messaggio: Ciao Lina.

Funerali Wertmuller, applausi e commozione nella Chiesa degli Artisti. Il Mattino Sabato 11 Dicembre 2021. (LaPresse) Lacrime e applausi alla chiesa degli artisti a Roma per i funerali di Lina Wertmuller, scomparsa giovedì all'età di 93 anni. In tanti hanno voluto portare l'ultimo saluto alla regista, da Giancarlo Giannini a Cinzia Th Torrini fino a Giuliana De Sio ed Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo. Particolarmente commossa Maria Zulima Job, la figlia adottiva di Wertmuller. Sul feretro, oltre ai fiori, anche una foto e un paio di occhiali bianchi, segno distintivo della regista. Il rito funebre è stato celebrato da don Walter Insero, amico della donna.

Funerali Wertmuller, il racconto dell'ex collaboratrice: «Mi ha sempre aiutato». Il Mattino Sabato 11 Dicembre 2021 

(LaPresse) «Io vengo dal Marocco e lei mi ha sempre aiutato. Quando mia sorella si è ammalata di cancro ci è stata vicina, ci ha aiutato fino alla sua morte. Sempre carina, sempre gentile», così Zora, ex collaboratrice domestica di Lina Wertmuller arrivata in piazza del Popolo per dare l'ultimo saluto alla regista scomparsa giovedì a 93 anni. «Ho lavorato per lei per tre anni e mi ha sempre trattata come una di famiglia, mai come una domestica».

Lina Wertmüller, l'ultimo applauso. Folla alla Chiesa degli Artisti a Roma. Giannini: "Mi ha forgiato come il pongo".  Riccardo Caponetti su La Repubblica  Sabato 11 Dicembre 2021. Molti al funerale della regista in Piazza del Popolo. La famiglia è arrivata tenendosi per mano. Maria Zulima Job, la figlia adottiva, parenti, gli amici più stretti. De Sio: "Ha vissuto libera come ha voluto. Dobbiamo festeggiarla". Un lungo applauso, uno di quelli che hanno accompagnato le opere artistiche di Lina Wertmüller, ha accolto l'arrivo del feretro in piazza del Popolo a Roma e il suo ingresso nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma. Il rito funebre della regista deceduta due giorni fa all'età di 93 anni, è cominciato in tarda mattinata, alle 11,30. 

Quando Virzì intervistò Lina Wertmuller: "Ero giovane e impertinente, mi travolse con la sua ironia". La Repubblica  Sabato 11 Dicembre 2021. Paolo Virzì & Lina Wertmuller. Un incontro tra un regista emergente, appena due film, e una cineasta affermata che aveva da poco consegnato al cinema 'Ninfa plebea'. Una intervista nell’ambito di una serie che Tele+ dedicava ai maestri del cinema, facendoli incontrare con i registi delle nuove generazioni.  “Era il ’96 e Lina Wertmuller volle incontrare me, le era piaciuto 'Ferie d’agosto', il mio secondo film - racconta oggi Virzì - andai, con tutta l’alterigia di chi pensa di mettere in difficoltà la cineasta potente e cinica, 'ricca e spietata'. Con l’impertinenza del 'giustiziere', anche se scherzoso: niente elogi e violini ma polemica canzonatura. Mi sentivo insomma investito dal compito di portare la voce della nuova generazione, polemica verso i cineasti dell’establishment. Ma lei mi travolse con la sua simpatia, mi irretì con la sua ironia affettuosa. Aveva intelligenza, profondità, mi disse cose che mi colpirono e commossero. Ne uscii frastornato, pensando 'ma che stronzi che siamo, lei è molto meglio di noi'”. L’operatore era Carlo Virzì, il montaggio di Jacopo Quadri. Il produttore, allora giovanissimo, era Cristiano Bortone.

L’intervista di Malcom Pagani e Fabrizio Corallo a Lina Wertmüller per “il Fatto Quotidiano” pubblicata da Dagospia il 9 dicembre 2021.

Gli omaggi epistolari di Henry Miller a metà anni 70: "Cara Brenda, hai mai visto qualche film di questa regista italiana? Guardando Travolti da un insolito destino nell' azzurro mare d' agosto mi sono venuti in mente Tropico del Cancro e Sexus, umorismo e scopate a mucchi, una scorpacciata. Hollywood, con tutti i suoi divi, questa libertà non potrà mai permettersela". 

Quelli visivi di Martin Scorsese in un prezioso documentario di Valerio Ruiz: "Nei suoi racconti c' era sempre un carnevale, una festa, un'energia speciale: nessuno lavorava come lei". Il timbro di Mina in Mi sei scoppiato dentro il cuore, musica e parole di Bruno Canfora e Lina Wertmüller: " Era/ solamente ieri sera/ io parlavo con gli amici/ scherzavamo tra di noi". Gli applausi dell'Academy per la prima candidatura all' Oscar di una donna. 

E lei, Lina, con gli occhiali bianchi e le lenti appoggiate sui ricordi: "Una volta a San Francisco un tassista mi chiamò bottana industriale" indifferente a complimenti, indulgenze e tranelli della memoria: "Al successo non ho mai creduto". A 87 anni, circondata da vetri smerigliati, architetture liberty e divani, non si lamenta: "Tutto sommato mi trovo ancora a mio agio con la vita". Non vorrebbe sprecar tempo.

Di se stessa, in un'ora di conversazione, lascia qualche traccia. Il resto è curiosità. È tutto un "Quanti anni ciài?", un "Quanto vuoi campà?", " Ma quanto fumi?". Un' intervista a chi dovrebbe intervistarla perché domandare è più interessante che rispondere: "Che se dovremo di' poi di così importante?" 

Lei non fuma più?

Iniziai a 5 anni. Le prime cose che ho fumato erano le cocce, i gusci delle noccioline americane. I ragazzi di oggi che ne sanno? Sulle cocce delle noccioline hanno un vuoto culturale.

Come si sente a 87 anni?

So che un giorno o l'altro morirò e non mi preoccupo. Mal che vada mi farò un gran bel sonno. Me ne andrei da commensale sazio, comunque. 

Pensando al cognome del suo storico compagno, Enrico Job, Tullio Kezich giocava sul suo carattere difficile: "Per stare vicino a Lina, ci vuole la pazienza di Job".

Ma quando mai? Io sono un angelo, magari energico, ma sempre angelo resto. 

Come volò nel mondo dello spettacolo?

Grazie a Flora Carabella, la moglie di Marcello Mastroianni. Era poco più grande di me e diventammo amiche fraterne. Si iscrisse all' Accademia di Arte Drammatica e io mi ritrovai a seguirne le tracce. 

Si era iscritta all' Accademia anche lei?

Mi hanno cacciato da molte scuole, ma non da lì. All' Accademia non mi ero iscritta perché avevo 16 anni ed ero troppo piccola. Frequentai un'altra palestra teatrale, con Pietro Sharoff, un russo che si rifaceva al metodo Stanislavskij. 

Il cinema arrivò più tardi?

Il primo film in assoluto che vidi, nel 1942, fu Giarabub. Ci andai con mia nonna. Il cinema vero arrivò più tardi, con Fellini. Federico mi ingaggiò come assistente per 8 1/2. 

Era una brava assistente?

Pessima, però quell' esperienza fu importante. Imparai molte cose e mi divertii a riprendere Federico sul set durante le pause.

Nel bel documentario di Valerio Ruiz, "Dietro gli occhiali bianchi", le riprese in bianco e nero che lei rubò sul set mostrano l'affinità tra Mastroianni e Fellini.

Per descrivere il loro rapporto non c' è niente di meglio della frase che Marcello dice ad Anouk Aimèe quasi a fine film: 'La vita è una festa, viviamola insieme'. Non si prendevano mai troppo sul serio, Marcello e Federico. 

Ad Antonio Gnoli di Repubblica lei aveva detto altro: "Fellini dava sempre l'impressione di interessarsi a te, quando in realtà era solo lui il centro dell'attenzione".

Non la posso aver mai detta una cosa simile, Federico era 'n faro, ma quale egocentrico?

Insieme ci divertivamo. Dite a 'sto Gnoli che non dicesse fregnacce.

Fellini la aiutò a esordire ne “I Basilischi”

Mi diede dei suggerimenti: 'Adesso verranno tutti da te e ti tormenteranno con l'ossessione della tecnica, del posizionamento della macchina da presa, della luce. Tu lasciali perdere. La tecnica, senza personalità, è niente. Fai il tuo film e racconta la tua storia come se fossi con gli amici al bar'. 

Quindi le stette vicino?

Da lontano. Penso che in fondo del mio esordio a Federico non potesse fregare di meno. 

Lei aveva un suo Fellini preferito?

Forse La dolce vita, ma non so se è il più bello, a quest'ora del mattino non me vojo compromette. È difficile mettere insieme le immagini, i ricordi e le impressioni e ancora di più fare classifiche. A volte mi sembra che tutti gli anni della mia vita siano compressi in un solo anno. I ricordi si schiacciano e distinguerli è un'impresa. 

La troupe de I Basilischi era quasi interamente formata dalle stesse persone che avevano lavorato con Fellini su 8/2?

Mi seguirono per una sola ragione. 

Quale?

Ero simpatica. Come d' altronde era simpaticissimo anche Fellini per cui teatro e vita si confondevano. Gli veniva un'idea e la seguiva sul momento. Una volta andando a Cinecittà in taxi incrociamo un'altra macchina sul lato opposto della strada. C' è un semaforo. Lui si sporge e vede un volto che gli piace, ma ormai siamo arrivati a destinazione, così lui scende al volo e mi ordina di pedinare l'auto, scoprire chi sia a bordo e magari proporgli un provino. 

E lei che fece?

Diedi retta. Chi non ha sognato di dire a un tassista: 'Segua quella macchina' almeno una volta nella vita? 

Ubbidiva anche in teatro?

Certo. All'inizio si ubbidisce spesso, ma nell' ubbidienza non necessariamente cieca, si può imparare moltissimo. Avevo lavorato come 'negro' con i vari Bonucci e Salvini, per poi approdare alla scuola di De Lullo, di Garinei e di Giovannini. I detrattori dicevano: 'Ha scritto tutto Lina'. Non era vero. 

Il 'negro' scriveva senza firmare.

Da Un trapezio per Lisistrata a Rinaldo in campo mi è capitato tante volte. Sgobbavo senza gloria, ma consideravo comunque lavorare come 'negro' un privilegio. Era un mestiere d' oro. E pagavano in nero che - diciamolo - quando sei un ragazzo aiuta molto.

L' elogio del 'negro'. L' elogio del nero.

Vengo da una famiglia borghese, mio padre era avvocato e insomma, per mangiare si mangiava. Però cercavo qualcosa di mio. I soldi sono importanti, ma ho sempre pensato che fosse più importante non annoiarsi. Qualcosa nella vita dovevo pur fare. 

E fece la regista.

Tenendomi sempre sul doppio binario. Il registro drammatico e comico in continua alternanza. I Basilischi, il mio primo film, nacque per caso. Stavo raggiungendo Francesco Rosi sul set di Salvatore Giuliano e mi venne voglia di vedere il paese natìo di mio padre, Palazzo San Gervasio, in Basilicata. Gli sguardi degli uomini, quelli delle donne, l'immobilità del Sud di allora, il grande sonno del popolo. Il film si sarebbe dovuto intitolare, non a caso, Oblomov del sud.

Per fortuna cambiò idea.

Non sarebbe stato un gran titolo, è vero.

Per i suoi titoli lunghi lei è passata alla storia.

Li inventavo lunghi proprio perché così nessuno se li sarebbe ricordati. 

Lunghi come il suo nome. Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Espanol von Braucich.

Eh, ma io così me chiamo. Mi porto dietro un po' di eredità. 

Con lei ci si smarrisce. Eravamo ai Basilischi, premiato a Locarno nel 1963.

Venni assalita dall' atroce dubbio di essere incasellata per sempre tra i registi impegnati: io volevo diventare una regista capace di divertirsi, non una regista impegnata. 

I Basilischi fu girato anche in Puglia, oggi set inflazionato. A quell' epoca di Apulia Film Commission non si sentiva ancora parlare.

Se questi signori vogliono rimediare, accetto molto volentieri denaro fuori tempo massimo. Adesso mi direte che I Basilischi non ha perso la freschezza.

Esatto.

E lo sapevo. Che posso dirvi? Gli abitanti recitarono e si divertirono moltissimo. Tra i protagonisti c' erano Toni Petruzzi, un ricco, elegante ragazzo di Bari che non aveva nulla a che vedere con la realtà del paese arretrato messo in scena, ma era bello come il sole e Stefano Satta Flores. Di cosa è morto poverino? 

Di leucemia, a neanche 50 anni.

Ma dimme te, era un bravissimo attore e una persona molto in gamba. 

Dopo I Basilischi, tra il 1964 e il '65 girò Il giornalino di Gian Burrasca per la Rai. Come le venne l' idea?

Non mi ricordo un beneamato cazzo e ne ho diritto, come si fa a risalire alla genesi di un' idea di più di 50 anni fa? So' domande difficilissime, queste. Dovrei dire: 'Il 14 ottobre 1964...', ma come si fa? 

Non vuole sforzarsi?

Gian Burrasca era il libro preferito da mia madre e Giannino Stoppani divenne da subito un mio fedele compagno di giochi. 

“Rita la zanzara” con Rita Pavone, il film successivo, incassò quasi un miliardo di lire.

Erano film commissionati da Goffredo Lombardo, un vero gentleman con tanto di erre moscia, bisognoso di rifarsi del tracollo finanziario patito con Il Gattopardo. 

Ha conosciuto anche Visconti?

Ancora una volta per via di Mastroianni e di sua moglie Flora. Con Luchino diventammo amici. Lo vedevamo al di fuori della sua nutrita corte. Era abbastanza simpatico, molto ospitale e veramente signore. Passammo un capodanno in Marocco, per quel che posso ricordare, divertendoci. 

Come nacque “Travolti da un insolito destino”?

Da una vacanza. D' estate navigavamo al largo delle coste sarde. Eravamo un gruppetto affiatato: Francesco e Giancarla Rosi, Antonello Trombadori, Tonino Guerra, Enrico Job e io. Giancarla e Antonello litigavano sulla politica e deformate dal grottesco, nel film ci sono tante schegge di quei periodi di villeggiatura. 

In vacanza e sul lavoro, lei e Job avete diviso la vita per decenni.

Un grande artista e un uomo simpaticissimo di cui mi parlò per primo Piero Tosi. Con Enrico sono stati 40 anni di amore. Ho avuto fortuna. L' unica fregatura è che se ne sia andato troppo presto. 

Non c'è più neanche Mariangela Melato.

Un amore. Bella, brava, spiritosa. Non sembrava neanche italiana, Mariangela. Bionda, con gli occhi verdi e una faccia singolare. Mi disse che stava male sullo stesso divano su cui sono seduta ora e me lo disse sorridendo.

Si dice che sul set di Travolti da un insolito destino Melato e Giannini vennero messi in condizioni robinsoniane per meglio farli entrare nella parte. L' uomo, la donna, il bisogno. Il selvaggio e la sciùra milanese.

Sì, ma la domanda? 

Sul set lavorò per esasperarne i caratteri?

'Sta domanda mi sembra una grande stronzata. La prossima? 

Mariangela Melato e Monica Vitti si somigliavano?

Neanche per un pelo. Vitti era diversa, aveva il suo carattere, si circondava di persone che lavoravano alla sua immagine. Era bella, molto brava e naturalmente anche piena di sé. Sapeva calcolare e dal suo punto di vista faceva bene. Non credo si sia mai innamorata di un facchino però. 

Il rapporto con la critica?

Alterno. John Simon, feroce stroncatore del New York Magazine, scrisse dei miei film cose stupende. Incredibili. 

In Italia si è sentita sottovalutata?

I Vangeli parlavano chiaro. E come dicevano? Nemo propheta in patria. 

Poco dopo le 4 candidature all’Oscar per Pasqualino Settebellezze, Nanni Moretti la accarezzò in Io sono un autarchico. Fabio Traversa lo informa dell’assegnazione di una cattedra di cinema destinata “alla Wertmüller” a Berkeley. Moretti chiede se si tratti della stessa regista di “Mimì metallurgico, Travolti da un insolito destino e di Pasqualino Settebellezze” per poi schiumare dalla bocca un liquido verde in stile Linda Blair.   

A farmi arrabbiare non fu la battuta, ma un suo gesto successivo. Lo incontrai ai margini di un Festival, lo salutai ed essendo lui un gran cafone e un vero stronzo, neanche si voltò. Di Moretti comunque non ricordo tutti i titoli, vediamo: Ecce Bombo? 

È suo.

Poi ci sono Bianca, La Messa è finita, Caro Diario. Ha fatto tanti film, come mai ne ha fatti tanti? 

Perché sono piaciuti molto.

Come mai sono piaciuti molto? 

Cinica e spietata.

Cinica e spietata, sì, la definizione mi piace. 

Lo è stata anche con gli attori? In Sabato, domenica e lunedì staccò quasi un dito a Luciano De Crescenzo.

Glielo morsi. Recitava ogni scena con questo ditino a mezz' aria. Lo agitava. A certi attori napoletani, le mani andrebbero cucite. Avvertii Luciano un paio di volte. Poi mozzicai. 

Azzannò anche Veronica Lario? In Sotto... sotto... strapazzata da anomala pas sione, Lario è Ester, moglie di Oscar, falegname.

Arrivò con Marione Cecchi Gori che era amico di Berlusconi. Veronica non era per niente simpatica, ma bella e brava me pare de sì.

Ci litigò mai?

E perché? Mica me la dovevo sposà? Avremo avuto qualche discussione: il vaffanculo sul set parte, ma io non porto mai rancore. Lei invece era tra quelle che si offendevano. 

Craxi era un suo amico?

Non caro, anche se non ci sarebbe stato niente di male. Non erano gli artisti a inseguire i partiti, ma i partiti che volevano mettersi qualche fiore all' occhiello. 

Vota ancora?

Non lo so, forse non ho mai votato, non me ne frega niente. 

È vero che non legge i giornali?

Non è un vezzo, non li leggo proprio. Forse è la pigrizia, forse la noia, forse la televisione. 

I suoi amici?

Dudù La Capria, Piera Degli Esposti, Mimmo De Masi. Di certo non si va più da Rosati. 

Lì incontrava Laura Betti, Pasolini, Elsa Morante.

Elsa è stata la più grande scrittrice del '900. 

L' hanno colpita le celebrazioni per i 40 anni dall' addio a Pasolini?

Quando non puoi più difenderti fanno dite quello che vogliono. 

Ha mai creduto al complotto per assassinarlo?

Mai. Quella dell'Idroscalo è una storia di froci e quello delle marchette un mondo pericoloso. Non ci sono gentiluomini tra le marchette. 

A chi vuole veramente bene Lina Wertmüller?

A mia figlia Maria Zulima, è il mio cuore. Fa la skipper, sta per mare, non torna molto spesso. Naviga.

·        Addio al giornalista Rai Demetrio Volcic.

Addio al giornalista Rai Demetrio Volcic, raccontò l'Urss agli italiani. Il Quotidiano del Sud il 5 dicembre 2021. E’ morto a Gorizia all’età di 90 anni Demetrio Volcic, storico corrispondente da Mosca per la Rai durante la Guerra fredda ed ex direttore del Tg1. Nato a Lubiana, per un quarto di secolo aveva raccontato agli italiani il mondo oltre la Cortina di ferro con le sue corrispondenze da Praga, Vienna, Bonn e la capitale russa. Proverbiale la frase “fa freddo qui a Mosca” con cui apriva i suoi servizi. Volcic aveva iniziato a lavorare in Rai nel 1956 e nel 1964 era diventato inviato speciale da Trieste. Nel 1968 fu promosso a corrispondente dall’estero. Dal 1993 al 1994 guidò il tg della prima rete Rai. In seguito era entrato in politica ed era stato senatore dell’Ulivo dal 1997 al 2001 e poi eurodeputato dal 1999 al 2004. Tra i suoi tanti libri “Mosca, I giorni della fine”, “Sarajevo. Quando la storia uccide”, “Est. Andata e ritorni nei Paesi ex-comunisti”. “Il piccolo zar, 1956”, “Krusciov contro Stalin” e “1968, L’autunno di Praga”.

Dagospia il 5 dicembre 2021. Dal profilo facebook di Enrico Mentana. Quando cominciai a fare il giornalista, più di 40 anni fa, avevo un solo mito nell’informazione televisiva. Era Demetrio Volcic, che se ne è andato oggi. Ho avuto la fortuna di lavorare con lui e di essergli amico. Era ed è restato inarrivabile, dalla Primavera di Praga all’Urss tra Breznev e Gorbaciov, dalla Polonia di Walesa alla Germania di Schmidt e Kohl, Demetrio ha raccontato la storia mentre si dispiegava con la passione, la brillantezza e la cultura che ammiravamo. È stato un grande, per me il più grande, e lo piango con tutti quelli che lo hanno conosciuto e amato

Da ansa.it il 5 dicembre 2021. E' morto a Gorizia Demetrio Volcic, giornalista, storico corrispondente da Mosca per la Rai. Aveva compiuto 90 anni il 22 novembre scorso. Dagli schermi della tv raccontò agli italiani quel mondo oltre la Cortina di ferro grazie alle corrispondenze da Praga, Vienna, Bonn e Mosca. Negli ultimi sei mesi le condizioni di salute di Volcic erano peggiorate. Ai problemi alla schiena che lo affliggevano da tempo, si erano aggiunti altre patologie. Storico corrispondente della RAI da Mosca, Volcic era nato a Lubiana da padre triestino e madre goriziana. La famiglia si era trasferita in Slovenia durante il fascismo, per poi rientrare in Italia alcuni anni più tardi. Uomo "di confine", dunque, Volcic aveva vissuto in varie città, tra cui Vienna e Parigi. Volcic fu anche direttore del Tg1, senatore venti anni fa circa eletto con il centrosinistra ed europarlamentare. Scrittore, aveva pubblicato numerosi libri di successo, l'ultimo dei quali uscito nel 2021, una sorta di collage di quanto aveva scritto in precedenza con capitoli inediti. È il primo e unico libro scritto in sloveno. Volcic lascia la moglie e un figlio, che vive a Mosca e una figlia che vive in Inghilterra. 

È morto Demetrio Volcic: raccontò agli italiani il mondo oltre la Cortina di ferro. Paolo Garimberti su La Repubblica il 5 dicembre 2021. Il giornalista, corrispondente da Praga, Vienna, Bonn e Mosca, è stato anche direttore del Tg1, senatore ed europarlamentare. Il giornalista Demetrio Volcic si è spento oggi a Gorizia. Era nato nel 1931. Dagli schermi della tv raccontò agli italiani il mondo oltre la Cortina di ferro come corrispondente da Praga, Vienna, Bonn e Mosca. Nel luglio del 1975 doveva tenersi a Praga il congresso del Partito comunista cecoslovacco. Era il secondo dopo la fine della Primavera di Dubcek, schiacciata dai carri armati del Patto di Varsavia nell'agosto 1968, e c'era molta attesa per capire, attraverso i nomi dei promossi nei ranghi alti del partito e la cancellazione degli epurati, fin dove si era spinta la normalizzazione di Gustav Husak, il proconsole di Breznev in procinto di aggiungere la presidenza della Repubblica alla carica di segretario...

Demetrio Volcic muore a 90 anni: addio allo storico corrispondente Rai da Mosca. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. Con le sue corrispondenze da Praga, Vienna, Bonn e dalla capitale dell’allora Unione Sovietica, aveva raccontato agli italiani il mondo al di là della Cortina di Ferro. Proverbiale la sua apertura dei servizi: «Fa freddo qui a Mosca». È morto domenica a Gorizia il giornalista Demetrio Volcic, per molti anni inviato oltre la Cortina di Ferro e storico corrispondente da Mosca. Era nato nel 1931 e il 22 novembre aveva compiuto 90 anni. Nato a Lubiana, Volcic è stato per anni il volto dei collegamenti dei telegiornali Rai dai Paesi dell’Est, da Praga, poi Vienna, Bonn e in particolare da Mosca, allora capitale dell’Unione Sovietica. Proverbiale la sua apertura dei servizi: «Fa freddo qui a Mosca». Quella sera a Mosca, in partenza per Vienna poco prima di essere nominato direttore del TG1, mi raccontò di Sasha Bovin. Era la sua fonte al Cremlino negli anni brezneviani, poi caduto in disgrazia perché aveva osato dire a Breznev che doveva farsi tagliare le sopracciglia se voleva far colpo sulla signora Pompidou, per la quale il leader sovietico stravedeva. «La nostra amicizia era dovuta al Campari. Lo amava liscio. Veniva a casa mia alle 9, parlavamo mentre si scolava una bottiglia intera. Poi mi salutava dicendo: “Ubriaco al mattino, libero tutto il giorno”». Era così Demetrio Volcic, che se n’è andato in punta di piedi pochi giorni dopo aver compiuto 90 anni. Maestro del dettaglio che ti apriva un mondo, artista della battuta fulminante che valeva scorte di editoriali verbosi. Rigoroso e umano. Colto e profondo come sa esserlo solo un mitteleuropeo di confine, nato a Lubiana da padre triestino e madre goriziana. Ma ironico e disincantato come soltanto un lord inglese. Come quando prendeva in giro i colleghi che «a torto o a ragione si sentivano ascoltati», lui che il Kgb o i suoi gemellini dell’Est li aveva avuti sul serio alle calcagna, tanto che una volta a Praga gli consigliarono di smettere di far lavorare il dissidente Jiri Pelikan nella sede della Rai, «se non voleva finire come l’ambasciatore jugoslavo», spinto da un’auto in un burrone: «C’era chi non riusciva a fare sesso sapendo di essere ascoltato dal Kgb e allora partiva per Helsinki con la moglie di venerdì, faceva i propri doveri coniugali e tornava a Mosca il lunedì. Altri invece si eccitavano di questa cosa. Certo, un sesso troppo loquace non era consigliabile». È stato molte cose Demetrio: giornalista, accademico, autore di libri importanti e di successo, senatore della Repubblica, deputato europeo. Ma soprattutto è stato un grande testimone del suo tempo, il Novecento della Guerra Fredda che pochi come lui hanno saputo raccontare dall’una e dall’altra parte della Cortina di Ferro nelle sue indimenticabili corrispondenze da Praga, Varsavia, Vienna, Bonn e Mosca. Del mondo comunista conosceva gli arcani e le situazioni, i personaggi e le macchinazioni di palazzo, cremlinologo sembrava esserlo di nascita. Lo conobbi in Russia, nel 1990, e diventammo amici quando gli raccontai che da ragazzo a mia madre che chiedeva cosa volessi fare da grande, avevo risposto: voglio fare Volcic. Da quel momento, le telefonate con lui diventarono un rito, per me indispensabile a leggere cosa stesse succedendo nel caos creativo della Mosca di Gorbaciov. «Prima non sapevamo niente e capivamo tutto, oggi sappiamo tutto e non capiamo niente. Siamo stati qui decenni e non è successo nulla, siete arrivati voi e tutto è esploso», ripeteva affettuosamente burbero a me e Enrico Franceschini, che eravamo fra i più giovani del gruppo italiano. Demetrio era capace di riassumere il senso di una notizia in una battuta al fulmicotone. Come la sera del fallito golpe dell’ottobre 1993, già direttore del Tg1, quando iniziò il suo editoriale dicendo: «I capi della rivolta Rutskoi e Kashbulatov sono arrivati nella prigione di Matrosskaya Tishina alle 7 di sera. Troppo tardi, il rancio era già stato distribuito. Sono rimasti senza cena». Oppure rendere un’epopea con un tocco impressionista: «Quella sera, nel 1968, eravamo in un locale di Varsavia e c’erano tutti i leader dei Paesi fratelli. Il Pci aveva mandato Pajetta e i polacchi gli misero dietro la capitana. Ma Pajetta sapeva chi era e le disse tutto il male possibile dei suoi dirigenti. La ragazza allora si alzò e andò a sedersi al tavolo del bulgaro Jivkov. Ballò per tutta la sera con lui, che gli zompava sui piedi e guardava l’italiano con aria trionfante. Mentre Pajetta gli gridava: «Servo, figlio di puttana». La terra sia lieve a un maestro. Addio Demetrio. 

Addio a Volcic, storico giornalista Rai. Ci raccontò da Est la cortina di ferro. Redazione il 6 Dicembre 2021 su Il Giornale. È morto a Gorizia Demetrio Volcic, giornalista, storico corrispondente da Mosca per la Rai. È morto a Gorizia Demetrio Volcic, giornalista, storico corrispondente da Mosca per la Rai. Aveva compiuto 90 anni il 22 novembre scorso. Dagli schermi della tv raccontò agli italiani quel mondo oltre la Cortina di ferro grazie alle corrispondenze da Praga, Vienna, Bonn e Mosca. Era una figura a cui gli italiani tutti erano molo affezionati, per il suo modo garbato e professionale di parlare, e per quelle sue corrispondenze da Praga, Vienna e Bonn che aprivano una finestra su un mondo di cui si sapeva poco. Negli ultimi sei mesi le condizioni di salute di Volcic erano peggiorate. Ai problemi alla schiena che lo affliggevano da tempo, si erano aggiunti altre patologie. Storico corrispondente della Rai da Mosca, Volcic era nato a Lubiana da padre triestino e madre goriziana. La famiglia si era trasferita in Slovenia durante il fascismo, per poi rientrare in Italia alcuni anni più tardi. Uomo «di confine», dunque, Volcic aveva vissuto in varie città, tra cui Vienna e Parigi. Tra i suoi servizi più famosi si ricordano quelli realizzati nei giorni della cosiddetta Primavera di Praga a fine anni Sessanta, su cui scrisse anche il libro 1968. L'autunno di Praga. Volcic fu anche direttore del Tg1, senatore nel 1997 eletto con il centrosinistra ed europarlamentare dal 1999 al 2004. Scrittore, aveva pubblicato numerosi libri di successo, l'ultimo dei quali uscito nel 2021, collage di quanto aveva scritto in precedenza con capitoli inediti. È l'unico libro scritto in sloveno. Volcic lascia la moglie e un figlio, che vive a Mosca e una figlia che vive in Inghilterra. Vocic conosceva sei lingue ed era un abile giocatore di scacchi. 

·        È morto il cantante Toni Santagata.

Da corriere.it il 5 dicembre 2021. È morto improvvisamente Toni Santagata, cantante, cantautore, compositore, conduttore in radio e tv, popolarissimo negli anni ‘70 e ‘80, cabarettista famoso a Roma, protagonista di tante trasmissioni dell’epoca da A come agricoltura a Canzonissima. Tante le tournee’ anche all’estero. Aveva 85 anni, si chiamava Antonio Morese ed era nato a Sant’Agata di Puglia il 9 dicembre 1935).

È morto Toni Santagata, il cantautore aveva 85 anni. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. È morto improvvisamente Toni Santagata, cantante, cantautore, compositore, conduttore in radio e tv, popolarissimo negli anni ‘70 e ‘80. È morto improvvisamente Toni Santagata. Cantante, cabarettista, attore, conduttore televisivo, autore oltre che promotore del cabaret italiano. Era tutto questo Toni Santagata, all’anagrafe Antonio Morese, morto ieri improvvisamente, a 85 anni. Ne avrebbe compiuti 86 il 9 dicembre. Originario di Sant’Agata di Puglia, si era trasferito a Roma, nel 1959. Nel 1964 viene pubblicato quello che resta tra i suoi brani più celebri, «Quant’è bello lu primm’ammore», come retro del singolo «Miezz’a la piazza». Il disco era stati subito censurato dalla Rai. Diede la sua impronta al cabaret iniziando per primo ad usare il dialetto pugliese sul palco, durante i suoi numeri. Nel 1971 la Rai lo aveva invitato a partecipare al programma «Speciale 3 milioni», dove era stato presente per 4 puntate su 5, come cantautore italiano e dove presenta: «Il gallo contestatore», «La pagnotta», «Un esercito di viole», «Il seminatore».

Carriera trasversale

Nel 1974 era stato invece Vittorio Salvetti a scritturarlo come cantautore/cabarettista nello spettacolo a tappe «Invito al sud» e sempre quell’anno aveva vinto «Canzonissima» nella inedita sezione Folk, con «Lu maritiello», sempre da lui scritta. Nell’apice della sua popolarità, Santagata aveva anche partecipato al Festival di Sanremo: era il 1973 e presentava «Via Garibaldi», che aveva ottenuto il premio per il miglior testo. Subito dopo la Rai gli aveva affidato il ruolo di Comandante nella trasmissione per ragazzi «Il dirigibile», prolifico autore delle sigle e di altre 40 canzoni cantate puntata dopo puntata. Ma dopo due edizioni, Santagata aveva lasciato il programma per iniziare il suo viaggio attraverso grandi tournée mondiali.

Il successo all’estero

Ecco però che era arrivata un’altra occasione imperdibile: la conduzione su Radio Rai di «Cabaret ovunque», di cui era autore e conduttore. Fu un successo, con la Rai obbligata a promuovere la trasmissione all’orario della domenica. A mezzogiorno. Cambia titolo, raddoppia il tempo e diventa «Cabaret di mezzogiorno». Ma il desiderio di farsi conoscere anche all’estero era rimasto: nel 1976 Santagata aveva tenuto così due concerti memorabili al Madison Square Garden di New York. Un trionfo. Da allora aveva poi condotto e scritto per Radio Rai le trasmissioni «Miramare», «Radio taxi», «Di riffa o di Raffa», «Radio Punk», di cui era anche autore delle sigle. Nel 1978 aveva poi inciso la sigla di «Golflash - Domenica Sprint», «Squadra grande squadra mia», che diventa l’inno dell’Italia campione del mondo 1982. Nel 1992 aveva condotto per Rai 1 il programma «Ciao Italia» assieme a Sydney Rome mentre nel 1994 aveva preso parte al Festival di Sanremo come membro della Squadra Italia con Una vecchia canzone italiana. Nel corso della sua carriera ha scritto 6 opere musicali moderne. La sua ultima apparizione televisiva lo scorso ottobre, a «Oggi è un altro giorno».

Morto Toni Santagata, ha portato il folklore pugliese al successo. La Repubblica il 5 dicembre 2021.Aveva 85 anni. Portò le canzoni popolari pugliesi ai livelli di hit, con canzoni come Quant'è bello lu primm'ammore, Lu maritiello. La sua canzone Padre Pio ho bisogno di te, è diventata la preghiera ufficiale dei fedeli del santo. E' morto improvvisamente Toni Santagata, cantante, cantautore, compositore, conduttore in radio e tv, popolarissimo negli anni '70 e '80, cabarettista famoso a Roma, protagonista di tante trasmissioni dell'epoca da A come agricoltura a Canzonissima. Tante le tournée anche all'estero. Aveva 85 anni, si chiamava Antonio Morese ed era nato a Sant'Agata di Puglia il 9 dicembre 1935 da cui aveva preso il nome d'arte. La ha comunicato la moglie Giovanna con cui aveva festeggiato 50 anni di matrimonio. Portò il folklore pugliese ai livelli di hit, con canzoni come Quant'è bello lu primm'ammore, in cui raccoglieva quelli che lui stesso aveva definito "stornelli pugliesi", o Lu maritiello, con cui vinse Canzonissima nel 1974. Era diventato molto noto negli anni Sessanta e Settanta. Si era trasferito a Roma alla fine degli anni Cinquanta e lì all'inizio dei Sessanta era stato tra i fondatori del Folkstudio a Trastevere, il celebre locale romano diventato cult grazie all'esibizioni di De Gregori, Venditti, Rosso, Locasciulli. Promotore del cabaret italiano, in tv condusse, tra l'altro, la trasmissione per ragazzi Il dirigibile, mentre per Radio Rai condusse e scrisse le trasmissioni Miramare, Radio taxi, Di riffa o di Raffa, Radio Punk. Tanti i concerti in Italia e all'estero, tra cui, memorabili, le due serate del 1976 al Madison Square Garden di New York. Nell'ottobre 1992 venne scritturato per un concerto in piazza S. Giovanni a Roma, ripreso da Rai 1, cui parteciparono 500.000 persone. Nel corso della sua carriera ha scritto 6 opere musicali moderne. La più nota è Padre Pio Santo della speranza, eseguita in Vaticano presso l'Aula Paolo VI la sera della canonizzazione del Santo. La canzone finale, Padre Pio ho bisogno di te, è diventata la preghiera ufficiale dei fedeli del santo. È stato inoltre tra i fondatori della Nazionale Attori, della quale è stato a lungo capocannoniere. L'ultima apparizione in video è avenuto il 22 ottobre scorso alla trasmissione tv di RaiDue Oggi è un altro giorno. Fu lui, tra l'altro, a ispirare il brano Lu primme ammore di Giorgio Gaber e Umberto Simonetta, che venna lanciata con successo da Ombretta Colli a Canzonissima nel 1971.

Toni Santagata si porta via un pezzo di folk italiano. Antonio Lodetti il 6 Dicembre 2021 su Il Giornale. È famoso soprattutto per l'allegra Quant'è bello lu primmo ammore (addirittura censurata dalla Rai) ed un simbolo del folk pugliese. È famoso soprattutto per l'allegra Quant'è bello lu primmo ammore (addirittura censurata dalla Rai) ed un simbolo del folk pugliese ma Toni Santagata (nome d'arte di Antonio Morese, nato appunto a Sant'Agata di Puglia) si è fatto conoscere come cantautore e cabarettista in tutta Italia e in mezzo mondo, con ciliegina sulla torta un concerto al Madison Square Garden di New York. Un mese fa aveva raccontato le sue avventure su Raiuno a Serena Bortone a Oggi è un altro giorno e ieri se n'è andato a 85 anni. Un pugliese molto noto anche a Milano, che nei primi anni Settanta lo vide protagonista - come cabarettista e foksinger - al mitico Derby Club da cui uscirono tanti giganti dello spettacolo. Scrisse e cantò tanto anche in italiano, ma ottenne i maggiori successi col dialetto, come per esempio la vittoria a Canzonissima 1974/75 nella speciale sezione folk con il brano Lu maritiello. L'anno prima però si era imposto al Festival di Sanremo con il pezzo Via Garibaldi, che vinse il premio della giuria per il miglior testo. Sfuggiva dunque a qualsiasi definizione Toni Santagata, che negli anni ha imperversato in tanti programmi televisivi e radiofonici come conduttore (era un animale da palcoscenico e un artista dotato di grande spirito) passando da programmi Rai come Il dirigibile (lo show per ragazzi in cui aveva il ruolo del comandante) a Cabaret di mezzogiorno per Radiorai. Ha partecipato a show musicali popolari come il Cantagiro addirittura come superospite e il Festivalbar sempre fuori gara, e fu l'unico cantante invitato al Teatro Politeama di Napoli scrivendo e cantando Carissimo Totò. Tra i suoi brani in italiano spiccano Il gallo contestatore, La pagnotta, Il seminatore, Austerity presentata a Canzonissima e inserita nella colonna sonora del film Pertini il combattente e scrisse anche (nel 1970) la sigla del programma televisivo A come agricoltura. Sempre legato alla sua Puglia, ha svolto la sua attività principalmente a Milano e Roma, dove viene ricordato oggi come cantante e uomo di spettacolo d'altri tempi di rara simpatia e professionalità. Antonio Lodetti

Nino Materi per il Giornale il 5 dicembre 2021. Quant’è bello il primo Toni Santagata, il secondo è più bello ancora. Oggi il rivoluzionario del sound italiano ha 85 anni, ma a vederlo così in forma le cifre potrebbero essere invertite: 58. Wikipedia, l’enciclopedia che tutto vede e a tutto provvede, gli appiccica l’etichetta di «cantautore, cabarettista e attore»; roba vera, ma limitativa: come definire Diego Maradona semplicemente «calciatore, riccioluto e argentino». Se vi azzardate a restringerlo nella stanza angusta del «Genere Folk», Toni butta giù le pareti a spallate: «Macché folk... Ho composto, oltre a mille altre cose, ben sei opere musicali moderne con tanto di recital nell’aula Paolo VI in Vaticano». Numeri da star, quelli del maestro Antonio Morese (il suo vero nome): 22 milioni di dischi venduti e 6.700 spettacoli. «Memorabili i 20 minuti di applausi nel mitico Madison Square Garden di New York», ricorda Santagata rinverdendo una vecchia cartolina del «periodo americano». Toni, inventore di uno stile che in 60 anni (sessanta!) di carriera ha shakerato l’umorismo del cabaret con l’originalità di rime esilaranti. Istrione e one man show, un visionario predisposto a giocare d’anticipo anche su temi seri e di attualità. Se poi la pizzica salentina è diventato un ballo global, il merito è anche del «cocktail Santagata», da gustare sorso a sorso, anzi strofa a strofa. Per averne la riprova, basta ascoltare quel capolavoro imitato ovunque, dal ritornello inconfondibile, che fa: «Quant’è bell’ lu primm’ammore» (rassicurante prima parte, subito smentita dall’ammiccante parte seconda: «lu secondo è chiù bell’ ancòr»). Motivetto mille volte remixato, dalle sagre di paese alle serate in discoteca, dove ogni chef aggiunge un ingrediente al piatto forte. Ma il cuoco-doc resta sempre lui: Toni, nato a Sant’Agata, il paese pugliese in provincia di Foggia che ne ha ispirato il nome di battaglia, ma che oggi vive di luce riflessa proprio per aver dato i natali all’«Aznavour italiano», come ai tempi d’oro era conosciuto in Francia, dove tra i suoi fan c’era l’intera famiglia Mitterrand con testa il presidente e il figlio ministro della Cultura. Ma sorpresi a canticchiare «Quant’è bell’ lu primm’amore», furono anche insospettabili ammiratori nostrani del calibro di Sandro Pertini, Renato Guttuso (che alla fine di un concerto gli donò un disegno), Pier Paolo Pasolini ed Eugenio Montale. Un’intera nazione stregata dallo stornello «scandalo» che fu subito censurato da quella stessa Rai che già proibiva alle gemelle Kessler la calzamaglia «color carne». Ma, dopo decenni di timori bacchettoni, la «Televisione di Stato» riabilitò il famigerato brano, pregando Santagata di presentarla a Canzonissima pur con qualche piccola modifica legata al numero di «corna» contenute nel testo originale. Una trama tragicomica, specchio di un’epoca che dal secondo dopoguerra arriva ad oggi.

Cominciamo da quel fatidico 1974 quando la Rai, dopo aver censurato per un decennio la sua canzone-simbolo composta nel 1964, la pregò di partecipare a Canzonissima.

«Un pezzo da novanta della Rai mi spiegò che in quella edizione di Canzonissima, presentata da Raffaella Carrà, avrebbero voluto puntare sulla valorizzazione della musica regionale». 

Lei accettò subito.

«Al contrario. Rifiutai, rimanendo un po’ offeso».

Addirittura. E perché?

«Primo perché non sono mai stato un cantautore regionale, ma un interprete che ha usato il dialetto unicamente per valorizzarlo in una chiave nazionale e internazionale. Secondo perché all’epoca ero già famoso e pieno di impegni». 

Cosa le fece cambiare idea?

«Decisi di consumare una mia piccola vendetta».

«Vendetta»?

«Dissi: Parteciperò solo a una condizione: cantare la canzone che mi avete sempre censurato». 

Ossia la famigerata Quant’è bell’ lu primm’amore».

«Proprio lei».

E il «pezzo grosso» della Rai che rispose?

«Ma tu vuoi farmi licenziare? Quello è un testo scandaloso».

Quindi?

«Replicai: Allora non se ne fa niente. Lo salutai e uscii dalla stanza. Ma mentre stavo per entrare nell’ascensore».

Cosa accadde?

«Sentii una mano sulla spalla. Era il super direttore. Che si arrendeva. Mi disse: Ok, hai vinto tu. Ma devi farmi un piacere».

Quale «piacere»?

«Nella canzone c’era quattro volte la parola corna. Lui mi chiese di ridurle a due per non urtare troppo la serenità familiare dei telespettatori». 

Accettò?

«Sì, anche se bluffai sul numero delle corna. Erano di più».

I telespettatori gradirono o rimasero choccati?

«Altroché se gradirono. Vinsi Canzonissima con 1.400.000 cartoline di preferenza spedite da casa. Un trionfo».

Ma, «corna» a parte, cosa c’era in quella poesia da creare tanto imbarazzo da parte di «tutori della morale pubblica»?

«Per la prima volta, in un’Italia profondamente cattolica e tradizionalista, una canzone rompeva il tabù di ruoli sociali cristallizzati da generazioni». 

Cioè?

«Si adombrava un adulterio, si descriveva la figura grottesca di un marito (di nome Bracalone) succube della moglie e privato dell’autorità del pater familias. Insomma, con largo anticipo sui tempi moderni, mettevo in discussione dogmi secolari». 

Ma «Bracalone» è un marito immaginario o un personaggio reale?

«In realtà era il padre di un mio compagno di scuola. Non si chiamava così ma le vicende raccontate nella canzone sono vere. E di alcune sono anche stato testimone». 

Come nel caso del «mazziatone» subìto dal povero Bracalone ad opera della moglie?

«Bracalone, quando incrociava la moglie, cercava sempre di porsi in una posizione strategica: riservandosi una via di fuga. Maria, la signora Bracalone, aveva infatti il vizietto di alzare le mani».

Inoltre, i piatti li faceva sempre lavare al coniuge.

«Ma Bracalone, per non perdere la status di uomo a parole e fatti, pretendeva che l’acqua per sciacquare i piatti fosse calda...». 

Nelle sue canzoni le interazioni coniugali seguono spesso dinamiche spiazzanti.

«Sono sempre stato aperto al nuovo, opponendomi a ogni tipo di stereotipo e pregiudizio. Vengo da una famiglia di vecchio stampo e, come si dice, dai sani principi. Genitori che si sono amati dal primo all’ultimo giorno. Un ottimo esempio di solidità matrimoniale. Anch’io ho seguito le loro orme, con una moglie meravigliosa, Giovanna, con cui condivido da sempre gioie e dolori».

Mamma e papà hanno aiutato il «piccolo Antonio» a diventare il «grande Toni Santagata»?

«Speravano, come tutti i genitori, che il figlio diventasse un serio professionista. In un Sud devastato da distruzione e povertà post-bellica ambire a diventare artista era pura utopia». 

Eppure Padre Pio le aveva predetto che il suo sogno si sarebbe realizzato.

«Giusto».

Racconti come andò.

Ero giovanissimo. Ma avevo dentro il fuoco inesauribile della passione. Decisi di andare a trovare quel frate miracoloso. Chiesi di incontrarlo e lui mi accolse. 

E cosa le disse Padre Pio?

«Uaglio’, tu tien la coccia tosta (Ragazzo, tu sei testardo), diventerai un bravo cantante. Ma, mi raccomando, studia». 

Ma lei, ai libri, preferiva gli spartiti?

«Non ho mai rinunciato alle soddisfazioni scolastiche, comprendendo l’importanza della cultura. Ero il primo della classe. Mi chiamavano il direttore. Ho fatto pure l’università a Napoli». 

Sgobbone?

«Mai. Un ragazzo sveglio. Davanti casa, nel 45, si esibiva un’orchestrina americana. Per me era attrazione irresistibile fatta di ritmi e sound affascinanti. Di lì cominciai a muovere i primi piccoli passi, che diventarono sempre grandi. Fino all’approdo a Roma». 

La Capitale. La consacrazione.

«Il successo giunse travolgente. A Roma venivano inaugurati locali alla moda solo per ospitare i miei concerti. E la fama aumentava anche fuori dall’Italia».

Sul suo sito ufficiale c’è una videogallery dedicata ai gol del «bomber Santagata» realizzati durante tante partite di beneficenza.

«Sono tra i fondatori della Nazionale Artisti e l’ideatore del Derby del cuore. Il calcio l’ho sempre amato. Anche se recentemente in una partita un colpo di testa mi ha causato un grave problema di salute che però, con l’aiuto del mio amico San Pio, ho risolto senza conseguenze.

Gli amanti del football ricordano le sue sigle dei programmi Golflash e Domenica Sprint.

«Nel cuore dei tifosi resta Squadra grande squadra mia, che divenne l’inno dell’Italia campione del mondo 1982».

Milano, altra tappa fondamentale per la scalata.

«Al Derby dovevo fare una sola serata. Dopo il successo del primo recital, ne feci 250 di seguito». 

Difficile rimanere umili quando la folla ti applaude.

«Non mi sono mai montato la testa. Neppure quando Charles Aznavour mi ospitò a un suo concerto e, alla fine, mi abbracciò solo per dimostrare al pubblico di essere mio amico».

Che pensò in quel momento?

«Avevo l’orgoglio di rappresentare, al meglio, l’Italia intera e, con essa, la mia regione, la Puglia, e tutto il Sud».

Un Sud sempre assetato di riscatto. Sociale, economico, culturale.

«Ricordo, nell’immediato dopoguerra, i miei compagni di scuola che venivano in classe scalzi. La povertà era assoluta. Il meridione era isolato dal Nord per la mancanza di collegamenti e trasporti». 

C’era un intero Paese da ricostruire.

«I genitori mi ripetevano: Figlio mio, impara bene a parlare l’Italiano. Altrimenti rimarrai sempre emarginato». 

Ed emarginazione faceva rima con emigrazione.

«Emigrante è una parola che ho sempre amato. Io stesso sono stato un emigrante e quando vedevo all’estero tanti connazionali era difficile non commuoversi. Aver regalato loro un attimo di gioia è stato emozionante. Il vero compito di un artista è donare al pubblico una parentesi di felicità. E ciò va fatto anche quando il nostro animo è amareggiato da vicende personali».

In questa prima estate post-Covid le regioni meridionali, con in testa la Puglia, sono tornate a essere meta dei turisti stranieri.

«Ed è merito anche di noi emigranti che abbiamo saputo esportare oltreconfine il meglio delle qualità nazionali. Ci siamo fatti apprezzare umanamente, poi la bellezza del territorio ha fatto il resto». 

La soddisfazione più grande?

«Avere esaltato il dialetto pugliese in un contesto di qualità artistica ai massimi livelli; con me hanno suonato infatti i più grandi musicisti. Senza contare la gioia di essere stato un punto di riferimento per una generazione di colleghi di valore assoluto». 

Il dolore più incancellabile?

«Aver perso mio figlio Francesco Saverio, portato via da una malattia improvvisa. Sono orgoglioso di lui, come lui era orgoglioso di me. L’amore ci terrà uniti. Per sempre».

C’è una fotografia che l’aiuta a scacciare la tristezza?

«Quella col mio nipotino Lorenzo che, dopo aver curato un gabbiano ferito, lo fa volare via. Libero, sul mare che brilla».

·        E’ morto l’attore aborigeno David Gulpilil.

Marco Giusti per Dagospia il 30 novembre 2021. "So come camminare attraverso la terra davanti a una macchina da presa, perché le appartengo". Un volto come quello di David Gulpilil, il più celebre attore-pittore-ballerino aborigeno australiano, ma davvero anche molto di più per il suo popolo e la sua terra, scomparso a 68 anni, una volta che lo hai visto non lo puoi dimenticare. Né lo puoi vedere in un contesto diverso. Perché davvero sembra scaturire, appartenere solo a quella terra. Nato nel 1953 a Maningrida, Arnhem Land, nel Territorio del Nord, come David Gulpilil Ridjimiraril Dalaithngu, impara l’inglese a orecchio, senza essere mai andato a scuola. E’ una scoperta quando lo vediamo, neanche ventenne in “Walkabout” di Nicolas Roeg nel 1971. Lo troveremo in molti altri film, importanti e misteriosi, come “L’ultima onda” di Peter Weir, anche di grande successo, come “Mr. Crocodile Dundee”, non limitandosi mai a fare solo il caratterista, l’aborigeno da esportazione, ma sempre allargando il suo ruolo a una testimonianza reale e sentita dell’essere aborigeno, di appartenere a quella terra. E di poter trasmettere sempre Come dimostrano i film di Rolf De Heer che lo vedono a più riprese protagonista, “Charlies’ County”, che gli fa vincere a Cannes, a Un Certain Regard, il premio per il Miglior Attore, o “The Tracker” o “10 canoe”, che lo portarono anche al Festival di Venezia.  Molto lo amò il grande cinema d’autore, come testimoniano “Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders o “Uomini veri” di Philip Kaufman, ma la sua presenza diventa fondamentale anche in film kolossal sull’immaginario del paese come “Australia” di Baz Luhrman o rivelatori di orrori del razzismo e dello schiavismo come “Rabbit-Proof Fence” di Philip Noyce o innovativi come il western “La proposta” di John Hillcoat scritto emusicato da Nick Cave. Rolf De Heer è il regista che più lo ha aiutato a imporsi da protagonista, che ha più capito la sua grande umanità, e lo ha aiutato anche a riprendersi dopo un brutto periodo che lo portò addirittura in galera. Scrive oggi su di lui Baz Luhrman: “Una persona e un talento insostituibili. Hai dato un grande contributo non solo al cinema australiano, ma al cinema globale, permettendoci di entrare nel tuo mondo, spirito e narrazione. Non c'è mai stato nessuno come te. Non ci sarà mai nessuno come te”. Su di lui e sulla sua vita avventurosa è stato fatto anche un documentario diretto da Molly Reynolds. "Siamo tutti un solo sangue. Non importa da dove veniamo, siamo tutti un solo sangue, lo stesso."

·        E’ morto il manager di F1 Frank Williams.

(ANSA il 28 novembre 2021) - Se n'è andato a 79 anni Sir Frank Williams, uno dei nomi che hanno fatto la storia della Formula 1. Il fondatore dell'omonima scuderia, in sedia a rotelle dal 1986 a causa di un incidente stradale in Francia, era approdato nel mondo della velocità nel 1969, quando si fece prestare il telaio di una vecchia Brabham-Cosworth e mise alla guida della vettura il connazionale Piers Courage, scomparso l'anno dopo in gara a Zandvoort, una morte che lo segnò profondamente. Con il tecnico Patrick Head, Williams ha creato dal nulla uno dei più grandi team di Formula 1 di tutti i tempi, capace di vincere sette titoli piloti (l'ultimo con Jacques Villeneuve nel 1997) e nove tra i costruttori, che collocano la Williams seconda solo alla Ferrari. Francis Owen Garbett Williams era nato a South Shields, nel nord-est dell'Inghilterra, il 16 aprile 1942. Partito come rappresentante di zuppe Campbell che guadagnava 10 sterline la settimana, ha raggiunto l'apice nello splendido mondo della F1, con la Frank Williams Racing Cars che nacque nel 1966, gareggiando in F3 e F2 e F1. La morte di Courage, per quanto dolorosa, non spense però la passione per le quattro ruote. La prima vettura di F1 tutta Williams ebbe un inizio sfortunato quando, con Henri Pescarolo al volante, rimase distrutta in un incidente nel 1972. Con l'assillo di trovare finanziatori sempre presente e avendo perso il controllo della sua azienda, nel 1977 lasciò, con Head, per fondare la squadra che corre ancora oggi. Clay Regazzoni guidò una Williams con motore Cosworth fino al suo primo successo in F1, nel GP di Gran Bretagna, 1979. L'australiano Alan Jones vinse il primo titolo piloti della squadra la stagione seguente. La Williams ottenne anche il campionato costruttori quell'anno. Keke Rosberg conquistò il titolo 1982, cui seguirono altri cinque nel periodo d'oro tra il 1987 e il 1997. Ma prima la fretta per prendere un volo aveva cambiato per sempre la sua vita. "Credevo di essere in ritardo per un aereo, invece avevo confuso l'ora francese con quella inglese" ricordava anni dopo. Williams perse il controllo dell'auto a noleggio e finì in un campo a lato dell'autostrada, riportando una frattura tra la quarta e quinta vertebra. Al culmine della carriera Ayrton Senna, che aveva vinto tre titoli con la McLaren, salì a bordo della Williams per la stagione 1994, solo per morire in un terribile incidente a Imola. Williams aveva un profondo legame con il fuoriclasse brasiliano e non riuscì mai ad accettare completamente la sua scomparsa. "Frank era innamorato di Ayrton" raccontò sua figlia Claire, che in seguito avrebbe guidato la squadra, al quotidiano The Sun nel 2019. Ma nemmeno quest'ennesima tragedia era riuscita a piegare la determinazione del patron della Williams a portare al successo la scuderia che porta il suo nome. Così Damon Hill e Jacques Villeneuve conquistarono i campionati del mondo 1996 e 1997. È stato nominato cavaliere nel 1999 ed è diventato Sir Frank. "È stato un grande viaggio, che mi piacerebbe fare di nuovo se fossi più giovane. Non farei nulla di diverso se non cercare di evitare gli incidenti" confessò alla BBC nel 2010. A settembre dello scorso anno la sua famiglia ha posto fine a 43 anni di coinvolgimento nella squadra, cedendola a Dorilton Capital. Secondo l'ex capo della Formula 1 Bernie Ecclestone il team aveva perso la sua ragion d'essere con le dimissioni di Williams dal consiglio di amministrazione nel 2012

Giorgio Terruzzi per corriere.it il 29 novembre 2021. Un pezzo pregiato di storia motoristica. Questo è stato Sir Frank Williams, scomparso domenica ad anni 79 (South Shields, Inghilterra, 16 aprile 1942) al termine della sua terza vita, fatta di fatica e sofferenze, dopo quell’incidente stradale nel sud della Francia del 1986 che lo aveva paralizzato, relegandolo su una sedia a rotelle. Prima di allora, un’attività frenetica, impregnata di corse, velocità, olio ricinato. Tre vite, ecco. La prima aveva dentro il furore della passione giovanile. Fame e voglia di farcela non senza qualche giorno gramo. La seconda, iniziata nel 1977, segnata dal sodalizio con un tecnico geniale e illuminato, Patrick Head, coincise con la fondazione del team Williams Grand Prix Engineering destinato a vincere 7 titoli mondiali piloti e 9 titoli costruttori tra il 1980 e il 1997. Parlava un ottimo italiano, Frank. Imparato alla fine degli anni Sessanta quando andava e veniva dall’Inghilterra trasportando piccole monoposto, motori e ricambi destinati a chi, da queste parti, era pronto a tutto pur di saltar dentro una macchina, il gas a fondocorsa. Con Alejandro De Tomaso costruì una F1 senza fortuna. La guidava il suo amico Piers Courage, morto in pista, Zandvoort, Olanda, nel 1970; fu la Iso Rivolta a sostenerlo quando Williams era in lotta soprattutto con i debiti. Lui a utilizzare — racconta la leggenda — una cabina telefonica come base operativa della scuderia che avrebbe rilevato il petroliere Walter Wolf nel 1976. La prima sede di Williams Gp Engineering era un ex negozio di tappeti: la stoffa delle vetture risultò subito di ottima qualità. Prima vittoria nel 1979 a Silverstone con Clay Regazzoni; primo titolo piloti nel 1980 con Alan Jones. E poi Keke Rosberg campione due anni dopo, Piquet nell’87, Mansell nel ‘92, Prost nel ‘93, Damon Hill nel ‘96 e Jacques Villeneuve la stagione successiva. Numero di vittorie nei Gp: 114. L’ultima è un ricordo lontano, Spagna 2012 con quel mattacchione di Pastor Maldonado. Frank Williams aveva ceduto il timone del team alla figlia Claire, non proprio ispirata come il padre. La sua mancanza venne avvertita da tutti, insieme alla sensazione che il destino del team fosse compromesso, ben prima della cessione al fondo americano Dorilton nel 2020. Faticava a respirare ma cedeva alle richieste di interviste per raccontare e ricordare i giorni gioiosi, le furibonde lotte tra Mansell e Piquet, il dolore di fondo per la perdita di Senna a Imola, con quel penoso, inutile processo che ne seguì, una via crucis supplementare. Senna, al quale, per primo, aveva offerto una F1 per un test nel 1983, scoprendo i talenti di quel bimbo prodigio. Era un reduce, protagonista di un’epoca che vive nella memoria di vecchi innamorati. Due anni fa Hamilton lo portò a spasso a Silverstone su una Mercedes stradale in occasione del Gp. È quella l’ultima immagine che abbiamo di Frank Williams. Contiene il sorriso di chi non aveva smesso di considerare la velocità una avventura senza prezzo. «Mi hanno detto di andare piano» disse Lewis prima di partire. «Stai scherzando vero? — rispose —. Mi aspetto grandi cose». Dovevano fare un solo giro: «Facciamone un altro, per favore, questo per me è indimenticabile». Accontentato, ma certo, ma sì. Buon viaggio Sir Frank. 

·        E’ morta la scrittrice Almudena Grandes

 Francesco Olivo per “La Stampa” il 28 novembre 2021. Le grandi storie delle tragedie spagnole non sono state sempre materia per letterati. Qualcuno è arrivato per togliere da sotto il tappeto ipocrita l'odio e le passioni di una terra mai quieta. C'è un prima e un dopo l'arrivo sulla scena di Almudena Grandes, la scrittrice madrilena scomparsa ieri a soli 60 anni. Poliedrica, colta, simpatica, vitale, ha saputo spaziare dalla letteratura erotica, con Le età di Lulù, all'epopea del Novecento spagnolo, segnato senza rimedio dalle ferite della Guerra civile e dalla dittatura franchista, restituendo dignità agli sconfitti di un secolo impietoso. La sua Spagna era vista con un occhio da cronista mai neutrale, che le è valso il paragone con Benito Pérez Galdós, il grande narratore iberico degli inizi del XX secolo (ingiustamente poco conosciuto in Italia). Oltre alle Età di Lulù, portato al cinema da Bigas Luna, per un film con Francesca Neri e Javier Bardem, Grandes ha firmato decine di opere tradotte quasi sempre anche in Italia, Ti chiamerò Venerdì, Atlante di geografia umana, Gli anni difficili, Il cuore di ghiaccio e I pazienti del dottor Garcia. La voce di Almudena Grandes era qualcosa di familiare per gli spagnoli, nei dibattiti radiofonici alla Cadena Ser, nei banchetti a firmare libri nei festival letterari, nelle rubriche sul País. Lei c'è sempre stata, mai neutrale, schierata a sinistra, ed è molto doloroso dover aggiornare la definizione di «più grande scrittrice vivente» che le spettava, senza che lo facesse mai pesare. Non vive più Almudena, un cancro l'ha portata via ieri, lei ne aveva parlato e scritto nell'ultimo mese di vita, sperando di allontanare un destino ingiusto, abituata a raccontare il dolore. Il capo del governo Pedro Sánchez la celebra: «Perdiamo una delle scrittrici di riferimento». Gli amici la piangono: «Almudena ha rappresentato la continuità della rabbia per le conseguenze della guerra civile - ragiona, con il tono triste, Juan Cruz, mitico giornalista culturale spagnolo, che nei tanti anni trascorsi al País ha commissionato centinaia di pezzi a Grandes. «Almudena è stata la narratrice popolare di una devastazione - conclude Cruz -. Si è ribellata al tentativo di cancellare la memoria. Come Camus o Sciascia ha risvegliato una memoria dormiente». Difficile immaginare la Spagna senza che sia lei a raccontarla.

·        E’ morto il direttore creativo di moda Virgil Abloh.

Scomparso a 41 anni per un angiosarcoma cardiaco. Lutto nel mondo della moda, è morto Virgil Abloh: direttore artistico di Louis Vuitton. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Novembre 2021. È morto dopo aver combattuto in segreto per anni contro un tumore. Virgil Abloh aveva 41 anni, era direttore creativo della linea uomo di Louis Vuitton, gruppo Lvmh e fondatore e amministratore delegato di Off-White, azienda d’abbigliamento di lusso italiana con sede a Milano. Abloh era considerato un talento: la sua nomina era stata storica, in quanto primo afroamericano a ricoprire quel ruolo centrale nella moda francese e nel lusso globale. È morto a causa di un angiosarcoma cardiaco. Era sposato con Shannon Abloh e aveva due figli, Lowe e Grey. A rendere nota la tragedia la famiglia del 41enne, tramite l’account Instagram dello stesso stilista, imprenditore, architetto, deejay, appassionato designer industriale. “Virgil ha combattuto coraggiosamente una forma di cancro rara e aggressiva, l’angiosarcoma cardiaco. Ha scelto di sopportare la sua battaglia in privato sin dalla sua diagnosi nel 2019, sottoponendosi a numerosi trattamenti impegnativi, il tutto mentre guidava diverse istituzioni significative che abbracciano moda, arte e cultura. In tutto questo, la sua etica del lavoro, la curiosità infinita e l’ottimismo non hanno mai vacillato. Virgil è stato guidato dalla sua dedizione al suo mestiere e alla sua missione di aprire le porte agli altri e creare percorsi per una maggiore uguaglianza nell’arte e nel design. Vi ringraziamo tutti per il vostro amore e supporto e chiediamo privacy per il nostro dolore”. Era nato nel 1980 a Rockford, Illinois, Stati Uniti. In una famiglia di origini ghanesi. Il 41enne aveva studiato all’Università del Wisconsin, si era laureato in Ingegneria Civile e aveva conosciuto Kanye West, il rapper e artista. I due sarebbero diventati amici. Prima di entrare nel mondo della moda internazionale aveva completato un master in Architettura all’Illinois Institute of Technology e aveva lavorato nella street fashion di Chicago. Le porte della moda internazionale si erano spalancate dopo uno stage presso Fendi nel 2009, proprio al fianco di Kanye West, con il quale avrebbe dato vita alla fondazione Off-White nel 2013. “Tutto quello che faccio, lo faccio per il me stesso 17enne”, diceva Abloh. Si era aggiudicato una nomination ai Grammy per Best Recording Package per il lavoro fatto con Watch the Throne, l’album di Jay-Z e Kanye West, era il 2011. Dal 2018 Abloh era il direttore artistico della linea uomo di Louis Vuitton. E in un’intervista a Liberi Tutti de Il Corriere della Sera diceva: “È bellissimo, mi dà speranza. Ma anche le speranze non durano molto. Devi capire i segni. Il mio è stato vedere che un giorno i designer sarebbero venuti da tutto il mondo. Un po’ come un turista che incontra un purista. Il secondo dice al primo: ‘Vivo nella moda: non conosci questo? Non sai di chi è questa giacca? Ma dove vuoi andare?’. Il turista gli risponde: ‘Anche a me piace la moda e voglio entrarci, ma non mi abbattere solo perché non so’. Ecco, io mi sento al centro di questa conversazione”. Per arrivare così in alto era diventato un purista, studiando tantissimo, e anche un turista, assorbendo da qualsiasi fonte, “che fossero lo skateboard, la moda, i graffiti, l’arte, i dj. Oggi sono ancora lo stesso affamato diciassettenne ottimista, che cerca ispirazioni ovunque. Non cercherò mai di essere superiore a quel ragazzo: è da lui che arriva la mia creatività”. La notizia della sua morte ha sconvolto il mondo della moda. “Siamo sotto choc – ha dichiarato il presidente di LVMH Bernard Arnault – Virgil non era solo un genio è un visionario ma era anche un uomo con una bella anima e di grande saggezza. La famiglia di LVMH si unisce a me in questo momento di grande dolore”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Infelicità da condividere. Nell’era esibizionista, l’eccezione è il famoso che non parla della propria malattia. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 novembre 2021. A quanta privacy hanno diritto le persone famose come Virgil Abloh? È ancora concesso non pubblicare sui social il proprio referto medico? Quando è arrivata la notizia della morte di Virgil Abloh, stavo illustrando a interlocutori troppo educati per zittirmi la teoria che ho sviluppato senza aver passato neanche un giorno nelle aule di medicina ma in compenso moltissimi a scorrere Instagram: non è possibile che le sinapsi di gente abituata a filmarsi da mane a sera, a vivere in diretta, a non potersi permettere una giornata non fotogenica, non è possibile che quelle sinapsi lì non siano mutate rispetto a quelle di noialtri che le saponette andiamo a pagarle alla cassa del supermercato invece di taggarne il produttore che così ce le omaggia. Morire a sorpresa fa impressione sempre, è un fatto cui seguono telefonate «ma tu lo sapevi?» anche tra gente che il defunto lo conosceva solo di nome (e che però si sente comunque esclusa: è morto senza dirlo a nessuno nessuno, o sono solo io la figlia della schifosa che non è stata informata?). L’impressione è maggiorata quando il defunto era famoso: i famosi – noi non famosi ne siamo convinti da sempre, forse persino da prima di Taylor&Burton – ci devono qualcosa. Devono pagare il fatto d’essere più ricchi, più belli, di vivere vite più comode delle nostre, e devono pagarlo con la scomodità massima: la rinuncia a ogni privatezza. Come si permettono d’ammalarsi di nascosto? Il famoso può morire a sorpresa solo se è un incidente: John Kennedy jr. sì, Nora Ephron no. Queste erano le regole d’ingaggio fino a un decennio fa. Avevamo superato i dieci anni di Grande Fratello e ancora vivere in diretta ci sembrava una perversione per pochi. C’era un pieno di persone normali convinte di non essere come quegli sciamannati della televisione, di non voler vivere su un set con le telecamere anche in bagno. Poi è arrivato Instagram, e le telecamere abbiamo iniziato a portarcele in bagno senza neanche che fossero imposte dalla produzione televisiva. Per esibizionismo in purezza, mica per contratto. L’anno prossimo sono dieci anni che Nora Ephron è morta di nascosto. Non sapevano che fosse malata neanche gli amici abbastanza cari da essere stati da lei precettati a tenere le orazioni funebri (come si riconosce una donna di carattere: non ti dice che sta morendo da viva, e t’impone di lodarla da morta). Forse la misura di quanto sei benvoluto è la disponibilità degli altri a tenere i tuoi segreti. Se sei famoso e neanche un medico, un infermiere, il parente d’un altro ricoverato, nessuno ti vende a un rotocalco, forse muori lo stesso, ma almeno riesci a non farti in pubblico l’anticamera della morte: già morire è una scocciatura, almeno la possibilità di farlo con discrezione dovrebbe essere garantita. A meno che, appunto, tu non faccia parte di quella mutazione per cui avviene davvero solo ciò che avviene in pubblico. La sorella di Chiara Ferragni ha di recente raccontato su Instagram d’avere un tumore della pelle. Poteva non raccontarlo? Forse no: se vivi fotografandoti, e ti asportano un bozzo dalla fronte, i punti di sutura devi in qualche modo spiegarli al tuo pubblico. Certo, potresti dirgli che ti sei fatta un bernoccolo inciampando. Ci crederebbe: il pubblico crede a tutto, specie quello che si sente abbastanza furbo da non credere a niente. Se vivi in pubblico sei tenuta a morire in pubblico? Se sei sana in pubblico sei tenuta ad ammalarti in pubblico? Se il tuo matrimonio è di pubblico dominio, quando finisce è tuo dovere informarne il pubblico? Come funzionano le nuove regole d’ingaggio? Quando già sapeva che sarebbe morta di lì a non moltissimo, Nora Ephron aveva pubblicato una raccolta di saggi intitolata “I remember nothing”. Uno dei capitoli era la lista delle cose che le sarebbero mancate. Avevamo tutti voluto credere che una settantenne che fa la lista delle cose che le mancheranno da morta fosse semplicemente una che fa i conti con l’età, mica una che è stata diagnosticata incurabile. Reginetta delle ottuse, io per quel libro la intervistai pure: le chiesi di Sarah Palin, mica se stesse per morire (non me l’avrebbe detto, ovviamente; mi avrebbe riso in faccia, ovviamente). Forse la ragione per cui ci fa tanta impressione che qualcuno tenga nascoste la malattia e la morte, anche se siamo gente di prima della mutazione e non ci piace l’esibizionismo, è che abbiamo questa bislacca idea che si possa essere felici da soli, ma che l’infelicità vada condivisa. Ogni volta che sento sospirare, di qualcuno che magari ha avuto un infarto ed è stato ritrovato il giorno dopo, «poverino, è morto da solo», mi chiedo che consolazione sia mai avere qualcuno intorno, mentre muori. Certo, se hai un infarto magari quel qualcuno è utile a rianimarti, ma se muori di qualcosa da cui la compagnia non può salvarti, com’è accaduto a Ephron e ad Abloh, a che ti serve convocare gente al tuo capezzale? A morire pensando «brutti stronzi, voi invece siete ancora vivi».

·        E’ morta l’attrice Arlene Dahl.

Arlene Dahl, morta la star di western e commedie degli anni 50. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2021. Arlene Dahl, l’attrice il cui fascino e i cui straordinari capelli rossi splendevano in film in technicolor degli anni ‘50 come «Viaggio al centro della terra» e «Tre piccole parole», è morta all’età di 96 anni. Il figlio di Dahl, l’attore Lorenzo Lamas, ha annunciato in post su Facebook e Instagram che la diva è mancata nella mattinata di lunedì 29 novembre a New York, senza però specificare le cause del decesso. «Ricorderò le sue risate, la sua gioia, la sua dignità mentre affrontava le sfide che le si presentavano — ha detto Lamas —. Era veramente una forza della natura». In «Viaggio al centro della terra» del 1959, un adattamento del classico di fantascienza di Jules Verne, Dahl interpretava la vedova di uno scienziato che si unisce ai co-protagonisti James Mason e Pat Boone in una straziante corsa al centro della terra. L’attrice aveva cantato e ballato in «Tre piccole parole» degli anni ‘50, un film biografico sui cantautori Bert Kalmar e Harry Ruby, nel ruolo della moglie di Ruby, Eileen Percy, al fianco del co-protagonista Red Skelton. Aveva inoltre recitato insieme a Bob Hope in «Arrivan le ragazze» del 1953, nuovamente al fianco di Skelton in «Prego sorrida!» (1950), e interpretato la fidanzata dell’eroe in film d’avventura come «L’oro dei Caraibi» del 1952 con John Payne, «Giamaica» del 1953 con Ray Milland e «I fucilieri del Bengala» del 1954 con Rock Hudson. Dahl era diventata famosa non solo per la sua carriera di attrice ma anche per i suoi sei matrimoni. La lista degli uomini che aveva sposato contava gli attori cinematografici Fernando Lamas e Lex Barker, l’erede del lievito di Fleischman Christopher Holmes, l’importatore di vino Alexis Lichine e l’investitore Rounsevelle Schaum. Negli ultimi 37 anni della sua vita Dahl era stata legata al businessman Marc Rosen. Quando si era ritirata dal mondo del cinema, era apparsa prevalentemente in televisione, incluso un periodo di tre anni nella soap «Una vita da vivere» a metà degli Ottanta. Era anche apparsa con frequenza nella serie «The Love Boat» negli anni ‘80; sul finire dei ‘90 aveva recitato come guest star nelle serie tv interpretata da suo figlio Lamas «Renegade» e «Air America». Si era poi dedicata con successo al settore «beauty», dando consigli di bellezza, firmando un profumo e disegnando indumenti intimi e da ginnastica. Negli anni ‘60, aveva anche scritto un libro: «Chiedi sempre a un uomo: la chiave della femminilità di Arlene Dahl». Il matrimonio con Barker era stato il suo primo; durò sette mesi. «Lex era il miglior uomo nudo che abbia mai conosciuto», aveva affermato con disarmante franchezza nel 1985 in una intervista alla rivista «People». Il matrimonio con Lamas finì dopo sette anni quando lui la lasciò per Esther Williams. Di origini norvegesi, Dahl era nata nel 1925 a Minneapolis, dove suo padre lavorava come concessionario Ford. «Folgorata» dal palcoscenico durante gli anni del liceo, si era unita a un gruppo teatrale e si era trasferita a New York, dove aveva lavorato come modella ed era apparsa in alcuni spettacoli di Broadway. Quindi aveva firmato un contratto con Warner Bros., facendo la sua prima apparizione nel musical del 1947 «My Wild Irish Rose». In seguito era passata alla MGM, per la quale aveva preso parte alla commedia «Un sudista del Nord» del 1948 con Skelton e al western «La carovana maledetta» con Joel McCrea.

·        Addio alla contessa Olghina di Robilant. 

Addio Olghina di Robilant, stella della Dolce Vita. Il Tempo il 27 novembre 2021. È morta, ad 87 anni, la contessa, giornalista e scrittrice italiana, Olghina di Robilant. La contessa era figlia del conte Carlo Nicolis di Robilant, primogenito dei cinque figli del conte Edmondo Nicolis di Robilant e di Valentina Mocenigo, e di Caroline Kent. Cresciuta a Venezia, si trasferì a Roma nel 1958 cominciando l’attività di giornalista pubblicista e divenendo una delle grandi protagoniste del jet set romano. Proprio il 5 novembre di quell’anno, giorno in cui la di Robilant compiva 24 anni, divenne celeberrima la sua festa di compleanno nel ristorante Rugantino di Trastevere. Nel corso della serata ebbe infatti luogo il famoso spogliarello della ballerina turca Aïché Nana, che divenne il primo "scandalo" della Dolce Vita romana e costituì lo spunto per il celebre film di Federico Fellini. Da tempo, Olghina di Robilant aveva lasciato la Capitale per trasferirsi in Toscana.

Morta Olghina di Robilant, protagonista della Dolce Vita: ospitò il celebre spogliarello di Aïché Nana. su La Repubblica il 27 Novembre 2021. La ballerina turca Aïché Nana durante lo spogliarello alla festa di compleanno dei 24 anni di Olghina de Robilant nel ristorante Rugantino di Trastevere.  L'episodio, avvenuto nel corso di una festa per il suo 24esimo compleanno, nel ristorante Rugantino di Trastevere, finì in un film di Fellini. Era scrittrice e giornalista.  

È morta, ad 87 anni, la contessa, giornalista e scrittrice italiana, Olghina de Robilant. La contessa era figlia del conte Carlo Nicolis di Robilant, primogenito dei cinque figli del conte Edmondo Nicolis di Robilant e di Valentina Mocenigo, e di Caroline Kent. Cresciuta a Venezia, si trasferì a Roma nel 1958 cominciando l`attività di giornalista pubblicista e divenendo una delle grandi protagoniste del jet set romano. Proprio il 5 novembre di quell'anno, giorno in cui la di Robilant compiva 24 anni, divenne celeberrima la sua festa di compleanno nel ristorante Rugantino di Trastevere. Nel corso della serata ebbe infatti luogo il famoso spogliarello della ballerina turca Aïché Nana, che divenne il primo "scandalo" della Dolce Vita romana e costituì lo spunto per il celebre film di Federico Fellini. La contessa Olghina di Robilant, protagonista anticonformista di una delle famiglie più illustri dell`aristocrazia italiana, ha sempre vissuto avventurosamente e in libertà. Durante l'esilio dei Savoia in Portogallo, ha diviso viaggi e divertimenti con re Umberto II e con le principesse sue coetanee, davanti alle quali non voleva fare la riverenza. I suoi ricordi si intrecciano con la vita dell'alta società di allora, che ha raccontato in articoli di giornali e libri con occhi critici e indiscreti: le amicizie e i viaggi del re, le case che abitò, i dissapori con Maria José, il tormentato rapporto col figlio Vittorio Emanuele, i flirt delle principesse, l'amicizia del sovrano con Amalia Rodriguez, l'incontro con Ernest Hemingway e il torero Dominguin.     Ha scritto per Lo Specchio, Momento Sera, People, Esquire, il Giornale d'Italia e ha tenuto rubriche anche per Kataweb (Olgopinions) e Dagospia. Fra i suoi libri l'autobiografia Sangue Blu per Mondadori, e Nobiltà e Snob per Mursia.

Da tempo si era trasferita in Toscana.

Olghina di Robilant e lo strip al Rugantino. Così ispirò la Dolce Vita romana. Marisa Fumagalli su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2021. Morta a 87 la giornalista e scrittrice. Nel 1958 la festa con spogliarello di Aïché Nana. La figlia: «Fino all’ultimo ha cercato di tenere vivo il suo blog, ma ormai non ce la faceva più». «Che noia, che barba, che noia! Basta con gli uomini dai capelli rasati sulle tempie e un ciuffo da mohicano al centro del cranio: chi ha deciso che sia bello? Basta con le ciocche sul naso o sull’occhio delle donne come piacciono tanto ai “trucco e parrucco” della TV…». Caustica, ironica, schietta, fustigatrice di costumi di oggi e di ieri («Fellini non capì un bel niente del suo tempo..»), dal «pulpito» del blog, «Oligopinions»: fiumi di parole, aneddoti, ricordi.

Mondanità

Se n’è andata a 87 anni Olghina di Robilant, contessa veneziana alle origini, poi passata alla mondanità della Capitale. Stroncata dalla malattia, un tempo definita «inguaribile». È deceduta nel pomeriggio di venerdì a Limido (Como) dove si era trasferita, dopo aver trascorso a Bolgheri, in Toscana, la prima parte della vecchiaia. Dice la figlia Valentina, che abita a Milano: «È spirata accanto alle sue cose e al suo adorato cane. Ora riposa in pace». Olghina — vita spericolata, amori avventurosi — ha un’altra figlia, Paola, che risiede in Inghilterra. A dare l’annuncio della sua morte, in anticipo, ci ha pensato Dagospia, al quale, tra l’altro, lei stessa in passato aveva collaborato. «Ha cercato fino all’ultimo di tenere vivo il suo blog — dice la figlia —. Chiuso un paio d’anni fa e poi riaperto, ma ormai non ce la faceva più». Su Olighina di Robilant si potrebbero raccontare numerosi aneddoti. Ma la sua «fama» è legata a doppio filo alla «Dolce Vita». O meglio: a due episodi cult del film di Federico Fellini: lo spogliarello di Aike Nanà, in un locale di Trastevere, e il bagno di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi.

Le amicizie

Da chi e da che cosa il regista trasse ispirazione? In quel locale, quella sera del 1958, si festeggiava il venticinquesimo compleanno di Olghina. E lo scatto della spogliarellista, in bianco e nero, lo fece il reporter Tazio Secchiaroli. «La chiamarono l’orgia e ci inzupparono il pane i grandi editori, prima del film, facendo apparire Roma Sodoma e Gomorra e noi una banda di depravati», ci raccontò la contessa quando la incontrammo nel 2009. «La Nanà era un’imbucata — ebbe a precisare —. Comunque, quella foto mi ha cambiato la vita. Prima in peggio. Porte sbattute in faccia, cattiva fama. Ma il meglio venne dopo. Diventai un personaggio tra gli amici già noti di allora: Corrado Pani, Luca Ronconi, Pier Paolo Pasolini, Adriana Asti, Laura Betti, Franco Rossellini… Insomma, salii sulla cresta dell’onda, la mia firma di cronista mondana era e contesa dai giornali».

Fontana di Trevi

Il bagno notturno nella Fontana di Trevi? Prodezza di Olghina, per una scommessa da 10.000 lire. «Fatto sta che sia lo spogliarello del Rugantino, sia il mio bagno, finirono tra le scene del film di Fellini. In acqua, però, c’era la Ekberg». A proposito di Fellini e della «Dolce Vita», Olghina ebbe molto da criticare: «Lui non capì un bel niente del suo tempo, dei costumi e del clima spensierato di quella stagione. La decadenza rappresentata nella sua “Dolce Vita” non era quella del ’58. Cominciò dieci anni dopo, con le discoteche, i salotti, i palazzinari, la mafia e la cocaina che pioveva come borotalco, imbiancando anche i nasi più ingenui. Lo dissi a Federico, che si arrabbiò. Ma poi facemmo pace».

Stefano Lorenzetto per “Il Giornale” - 2004. Andare a casa di Olghina di Robilant, la dissipazione fatta persona, è come far visita a Norma Desmond di Viale del tramonto. Con la differenza che lei non è più Gloria Swanson e io non sono mai stato William Holden. «Mi raccomando: venga da solo, niente fotografi», aveva ordinato spicciativa al telefono. «Ho le rughe». Un tentativo di togliersele passando il ritratto nello scanner è crudelmente abortito. «Guardi qua che roba», mostra la fronte calcinata al computer, «ho pasticciato con lo sfumino del programma di fotoritocco». Non saprei dire se sia più donna o più giornalista, di sicuro a 69 anni compiuti la musa ispiratrice della Dolce Vita riesce ancora a trattare queste faccende da entrambi i punti di vista. L’ombra di quella che fu la spregiudicata, la provocante, la splendida Olghina di Robilant sembra aver finalmente raggiunto la quiete. Ha frequentato tutti gli uomini che desiderava: Ernest Hemingway, Tennessee Williams, Truman Capote, re Umberto, Luchino Visconti, Federico Fellini, gli armatori Niarchos e Onassis, Burt Lancaster, Tony Curtis. Ha sedotto tutti quelli che voleva: Juan Carlos di Borbone, Lorin Maazel,  Warren Beatty, Tony Franciosa, Alain Delon («un maschio solare, la virilità assoluta»), Antonio Gades («ti lasciava sulle labbra un sapore di fragola e violetta»), Maurizio Arena, financo Bobby Solo. Ha respinto i più insistenti nel corteggiarla, dallo Scià di Persia, che credeva di farla capitolare con fasci di rose rosse, a re Faruk d’Egitto, che vedendosi restituire un orologio granellato di diamanti e rubini cercò di farsi perdonare regalandole il suo panfilo: rifiutato anche quello. «Anni dopo ho incontrato l’ex sovrano vicino a Porta Pia mentre sorbiva un caffellatte. Era ancora indignato: “Quando un arabo ti fa un dono, devi accettarlo e basta, altrimenti lo offendi”». Ci fu lei, l’intemperante Olghina dai lunghi capelli biondi, all’origine del primo scandalo dell’Italia postbellica. A Roma correva l’anno 1958, mese di novembre, l’1 dedicato ai santi, il 2 ai morti, il 3 ai vivi, perché bisognava pur festeggiare degnamente la contessina veneziana nata in quel giorno, 24 anni prima, sul Canal Grande. Al Rugantino, ristorante di Trastevere, si ritrovò attorno a lei la corte di perdigiorno che Ennio Flaiano aveva stroncato con una delle sue fulminanti battute: «Ragazzi, stasera vado via presto perché domattina devo alzarmi tardi». D’improvviso, Aiché Nanà, prorompente ballerina insignita in patria del titolo di miss Bosforo, fece scivolare la cerniera lampo del vestito e rimase con le sole mutandine di pizzo nero a dimenarsi su un tappeto di giacche da uomo. Irruppe la polizia e mise «in istato di fermo i partecipanti al turpe festino». Tazio Secchiaroli, il principe dei paparazzi, portò le foto all’Espresso. Eugenio Scalfari, già allora molto sensibile alla deontologia («venderemo un sacco di copie, il che non fa male»), ne suggerì l’immediata pubblicazione al riluttante direttore Arrigo Benedetti. Titolo: «La turca desnuda». Malgrado le pecette nere collocate nei punti strategici, il settimanale fu subito sequestrato. In compenso i comunisti poterono scagliarsi contro i ricchi smidollati, i liberali invocare accertamenti fiscali sugli amici della festeggiata, i cattolici indignarsi per la profanazione della Città Sacra. Il viale del tramonto di Olghina di Robilant è quello carducciano, noblesse oblige, delimitato dai cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar. Si svolta su una strada sterrata, in fondo alla quale t’aspetteresti di entrare dentro una pagina patinata di Ville & Casali. Ma invece di una magione di mattoni rossi, con le botti di Sassicaia a riposare nelle cantine, ti ritrovi davanti un anonimo casermone di contadini, galleggiante sul fango, un cortiletto ingombro di bombole del gas, cucce schiodate e giocattoli stinti dal sole. «Di mio non ho più nulla, neanche la casa. Sto qui per gentile concessione dei marchesi Incisa della Rocchetta, che mi hanno offerto queste stanze in comodato gratuito. Mi restano cinque cani e le sigarette. Che dice, possono sequestrarmeli?». 

Non credo.

«Meno male. Ho solo la pensione sociale. Mi aiuta una delle mie due figlie. Ciò che vede è tutto suo, compreso il computer che mi serve per spedire i miei pezzulli al sito Dagospia».

Avesse sposato Juan Carlos, oggi sarebbe regina di Spagna.

«Non se lo poteva permettere. Doveva sposare la donna che avevano stabilito di dargli. A differenza del figlio Felipe, non ha mai preso una decisione personale. Quel pover’uomo vive una vita sua solo quando va in moto: s’infila il casco e nessuno lo riconosce». 

Quant’è durata?

«Un paio d’anni. Lui ne aveva 16, io 19. Mi sentivo la nave scuola». 

Le ha lasciato una figlia...

«Non è figlia di Juan Carlos». 

Sa almeno chi è il padre?

«Lo so ma non lo dico». 

A sua figlia l’ha detto?

«L’ho detto». 

È stata contenta?

«No. Si vede che in fatto di uomini non abbiamo gli stessi gusti». 

Pare che anche suo bisnonno, Carlo Felice di Robilant, fosse figlio naturale. Di re Carlo Alberto.

«Pare? È storia. Anche mio papà si chiamava Carlo Felice. Ufficiale di Marina, passò nell’Aeronautica e fu mandato a Tobruk col suo idrovolante».

E sua madre?

«Si chiamava Caroline Kent. Suo padre possedeva vaste tenute di cotone ad Asheville, North Carolina. Restò orfana. Erano cinque sorelle. La loro madre, per distrarle, le portò a Roma. Presero una suite all’hotel Byron di via Veneto. Fu lì che i miei genitori si conobbero. Il vecchio Kent, prima di morire, aveva raccomandato alla moglie: “Piuttosto che a dei nobili europei, meglio che le nostre figlie vadano a dei poveracci americani”. Per cui i miei dovettero sposarsi clandestinamente a Venezia. Non c’è un invito di nozze o un posacenere che ricordi il loro matrimonio». 

E a Venezia nacque lei.

«La mia nursery era nella camera di Palazzo Mocenigo in cui aveva soggiornato Lord Byron». 

A Palazzo Mocenigo era di casa Hemingway.

«Lo chiamavamo Papa. Lui e papà bevevano come due mascalzoni. Veniva spesso a trovarci anche a Cortina. Batteva a macchina stando in piedi, le pagine erano una vera schifezza, una riga su, una giù. Sul finire di un’estate mi regalò due racconti scritti per me, il primo su un leone che arriva a Venezia dall’Africa e s’ubriaca all’Harry’s Bar, il secondo su Ferdinando il toro che s’innamora dei fiori fino a perdere la sua potenza sessuale. Una parodia di se stesso». 

Perché dice così?

«Alle corride si nascondeva dietro il torero. Non aveva coraggio: io posso affermarlo perché ho toreato per davvero. Aveva un malanno a un rene. Si fermava a ogni cantone a far pipì. Con le donne non combinava un bel niente. Faceva solo finta. Portava in gondola la Adriana. Tutto lì». 

Adriana Ivancich, la ragazza che gli ispirò il personaggio di Renata in Di là dal fiume e tra gli alberi?

«L’unica donna che abbia veramente amato. Voleva sposarla: lo confidò a mia madre. “Tu sei pazzo”, lo rimproverò mamma, che diede manforte alla moglie del romanziere, Mary, per convincere Adriana a lasciarlo perdere». 

Perché una contessa decise di fare la giornalista?

«Perché dovevo mangiare. Da piccola chiedevo la luna e mi davano la luna. Poi un giorno mi dissero: “La luna è finita”. In una generazione avevano sperperato il patrimonio di famiglia. A 16 anni mia madre mi mandò fuori di casa. Vagabondavo per l’Europa con l’autostop. A 21 arrivai a Roma. Mi presero come segretaria alla Twa. Fellini raccontava che mi licenziarono in tronco per aver spedito a Bombay due indiani che volevano visitare Pompei». 

È vero?

«No. Cioè sì. È vero che i due passeggeri chiesero a me le informazioni sulla gita. Pompei... Bombay... Non è che l’inglese parlato dagli indiani sia molto chiaro. Io capii che volevano cambiare il biglietto aereo. Si accorsero dell’equivoco in volo. Ma non fui licenziata per questo. La Twa doveva tagliare il personale, il direttore della compagnia mi convocò: “Ho scelto lei. Una di Robilant non ha bisogno di lavorare”. Puro odio di classe». 

E lei si buttò sui giornali.

«Ugo Zatterin, che dirigeva Telesera, mi assunse con Marcello Mancini, un collega che veniva da un quotidiano cattolico. Ci affidò la rubrica Contessa azzurra. Essendo un quotidiano del pomeriggio, finivamo di scriverla alle 6 del mattino, mettendoci dentro i pettegolezzi sui party della sera prima. Piacque molto a Pier Francesco Pingitore». 

Il regista del Bagaglino?

«Allora era caporedattore del settimanale Lo Specchio. M’ingaggiò, assegnandomi la rubrica L’occhio di Milady. Mio padre, monarchico ma antifascista, si vergognava a morte che lavorassi per un periodico reazionario. Io manco me ne rendevo conto. Ero di un’ignoranza abissale: nelle case patrizie non si parlava mai di politica, un argomento considerato volgare. M’interessavano solo gli scoop mondani. Raccontavo i re in pantofole. E così pure i divi. Ero amica di Cole Porter, padrino di battesimo di mio cugino. Dalla nostra casa di Venezia passavano tutti: Errol Flynn, Alberto Sordi, Sophia Loren...».

È stata la Elsa Maxwell d’Italia.

«Per carità! Un donnino  disgustoso e invadente, un pozzo di malignità oscene. Allungava le mani. Ci ha provato anche con me.  Fece cadere tra le braccia di Onassis prima Maria Callas, che era la sua protetta, e poi Jacqueline Kennedy. Non ho mai perdonato a mia zia d’averle prestato per una festa mascherata il corno rosso del doge Mocenigo che tenevamo sotto una campana di vetro». 

Anche lei non scherzava, in fatto di malignità: sullo Specchio trafisse l’attore Helmut Berger definendolo «la marchetta tedesca che ha stregato Visconti».

«Non credo d’averlo scritto. Al massimo l’avrò detto. Mai preso una querela per un articolo». 

Poteva aspirare a Paris Match ed è finita al Gazzettino.

«Mi hanno assunto come collaboratrice cinque volte e cinque volte mi hanno fatto le scarpe». 

Chi?

«Capi e redattori. Non sono veneziani. È tutta gente di terraferma. Arrivisti che credono d’aver conquistato la città e usurpano il posto dei veneziani veri. Siccome non se la possono prendere con i leoni, cioè i politici e gli industriali, strapazzano i gatti, gli aristocratici, che sono quattro. Ma anche i loro direttori glieli raccomando. In tre mi hanno fissato un appuntamento e poi non si sono fatti trovare». 

Che gente.

«Anche a Momento sera, quotidiano romano del pomeriggio dov’ero diventata redattore capo, ne ho conosciuti di pessimi. A uno ho dato del cretino. Salvatore D’Agata, che poi avrebbe fatto carriera in Rai, mi tartassava per partito preso, non ho mai capito perché. Ero incinta e mi costringeva a passare ore in corridoio con la nausea a far niente». 

Chi è il giornalista più bravo?

«Giorgio Bocca». 

Lo conosce?

«È mio consuocero. Prima di cominciare questo mestiere mi piaceva Montanelli. Un po’ banderuola, come tutti i toscani». 

Il direttore d’orchestra Maazel l’ha paragonata a un leone. È davvero così selvaggia?

«Ho vissuto da selvatica, sì. Mi sono presa delle libertà che nessuna mia coetanea avrebbe osato prendersi a quel tempo. Ma non rimpiango nulla. Carpe diem. Non ho perso nessun treno, tranne quello del guadagno facile. Pensi se fossi arrivata alla mia età negandomi tutto quello che invece mi sono concessa, a cominciare dai bei tosi».

Ha avuto solo flirt o anche grandi amori?

«Gli uni e gli altri. Con Tony Franciosa ho avuto una storia lunga. Con Warren Beatty un accostamento. Con Lorin Maazel è andata avanti per un anno e mezzo. Mi mandava le poesie. Una sera, prima di un concerto alla Fenice, mentre cenavamo con Igor Stravinskij e Arthur Rubinstein, si mise a canticchiare L’uccello di fuoco per me. Stravinskij saltò su: “Come ti permetti? Questa musica l’ho composta io”. 

Voleva essere lui a offrirmela. Più tardi, a teatro, Lorin scandì rivolto verso il pubblico: “Dedico questo mio Uccello di fuoco a Olghina”. Sarei sprofondata sotto la poltrona». (Va a prendere una foto giovanile del maestro, corredata dalle note di Stravinskij riportate sul pentagramma e da questa dedica autografa: «Mentre il maestro dirigeva, l’uccello cantava». O Maazel non conosceva la lingua o era molto insistente). 

Alla fine s’è ridotta a Bobby Solo. Come ha potuto?

«Io avevo 31 anni, lui 22. Era un sentimentalone tremendo. Non gli andava bene nessuna. Ma se gli scombinavi il ciuffo, diventava carino. Aveva un bel fisico. Una volta ha sfondato l’abbaino e mi è entrato in casa dal tetto. Credeva che fossi chiusa dentro con un altro». 

C’è ancora qualche uomo che la fa impazzire?

«Tom Selleck. Ho registrato tutti i suoi film. Se George Clooney rifà davvero Magnum PI, come ha annunciato, lo picchio. Selleck ne vale tre di Clooney. E trovo molto attraente anche quello stupidotto che ha vinto all’Isola dei famosi, come si chiama?». 

Walter Nudo.

«Xe un bel toso. Gli occhi non sono ancora morti». 

Che cosa cercava negli uomini?

«Il sentimento. L’erotismo veniva dopo. Ho sempre scelto io. Mai avuto per casa orsi che mi sbuffano sul collo. C’erano lunghi preamboli prima di concludere. Si ballava. Non si faceva ginnastica come adesso. Cercavo personalità integre. Gigi Rizzi era un playboy, però dolce, buono. Ci siamo rivisti dopo vent’anni e ci siamo messi a piangere come due vitelli.  C’è stato molto dare e molto ricevere fra me e gli uomini. Detesto l’avarizia. Con un avaro non ti godi neppure un tramonto, perché è suo, non è nostro». 

Come mai li mollava con tanta facilità?

«Arrivava sempre qualcun altro. Sono molto libera. Quando subentra il possesso, scappo. Sono single per vocazione. Non riesco a vivere in una famiglia. Dopo due giorni che sto a casa di mia figlia, divento matta». 

Mi racconti del Rugantino. La verità.

«È un giallo irrisolto. Fu il mio amico Peter Howard Vanderbilt, un miliardario gay americano che mi mandava le orchidee dalle Bahamas, a insistere per offrirmi la festa di compleanno. C’erano tutti, anche Anita Ekberg. D’improvviso entrò in scena questo pappagallo di tutti i colori». 

Intende dire Aiché Nanà?

«Era stripteaser in un locale di infima categoria. Pittata fino alla punta di piedi, ballava facendo scivolare la spallina per i fotografi. La affrontai a muso duro: scusi, ma lei chi l’ha invitata? “Lo so io”, mi rispose. Il proprietario del locale non era stato, Peter non era stato. Lo scandalo fece il giro del mondo. La rottura con i miei diventò definitiva. L’unico a intercedere fu re Umberto, che da Cascais mi mandò Falcone Lucifero, il ministro della Real Casa, a chiedermi se poteva fare qualcosa per me».

Ma lei è monarchica?

«No. Però, vedendo che cosa produce la democrazia, provo un senso di compassione per i sovrani oberati di doveri e privi di diritti. Io sarei per una monarchia di sinistra. Come si può fare? Comunque re Umberto era un uomo di un’umiltà straordinaria, un prete». 

Stima anche suo figlio Vittorio Emanuele, Marina Doria e il principino Emanuele Filiberto?

«Loro sono soltanto grotteschi». 

Aiché Nanà ha raccontato che quella notte eravate tutti ubriachi.

«Fesserie». 

Non era brilla neppure la sera che si tuffò nella Fontana di Trevi?

«Manco per sogno. Uscivo da un ristorante dopo aver cenato con Franco Rossellini e Guidarino Guidi, l’aiuto regista di Fellini. Faceva un freddo becco. Siccome Guidi era uno spilorcio leggendario, lo provocai: scommetti diecimila lire che faccio il bagno nella fontana? 

Ero sicurissima che non avrebbe mai rischiato un centesimo. E invece lui mise i bigliettoni sul muretto: “Dai, buttati!”. Che dovevo fare? Mi tuffai. Guidi raccontò la scena a Fellini, che la ripeté tale e quale nella Dolce vita con Anita Ekberg e Marcello Mastroianni. M’avessero almeno pagato i diritti... Invece le diecimila lire servirono a saldare la multa “per inquinamento di acque pubbliche”».

Una persecuzione.

«Certo non la peggiore. A un certo punto dovetti nascondermi in un paesino vicino a Saint Tropez. Ero al nono mese di gravidanza. Ebbi una perdita e svenni per strada. Fortuna volle che passasse di lì il barone Jean Rothschild. Qualche giorno dopo raggiunsi Parigi in treno. Morivo di fame. 

Telefonai a mia zia Olga, che allertò Rubinstein per farmi ricoverare in una clinica. Ma io una sera me ne andai al cinema. Si ruppero le acque mentre guardavo il film. Non sapevo niente di queste cose, credevo d’essermi fatta la pipì addosso. La mattina dopo mi ritrovai in ospedale col celebre pianista e sua moglie al capezzale. S’erano messi in testa di adottare la bambina che stava per nascere». 

E lei?

«Non ci pensavo nemmeno a lasciargliela, ma scherziamo? Solo che poi, quando la piccola ebbe un anno, mia madre me la fece portar via dai carabinieri, dicendo che ero matta. Quando la riebbi, al termine di un lungo processo, aveva già 6 anni». 

Mi tolga un’ultima curiosità. Perché detesta tanto la principessa Alessandra Borghese, poveretta?

«Lei, Sibilla della Gherardesca, Lina Sotis... Perché non bisogna scrivere libri di bon ton. Ognuno ha diritto di avere la sua educazione. Io rispetto il contadino che a tavola mi augura “buon appetito”. E anche il re del Marocco che a tavola rutta: è il suo ton».

Dagospia il 27 novembre 2021. Olga di Robilant per olgopinions.blog.kataweb.it/2010/07/13/rugantino-la-verita/". Pubblicato il 13 luglio 2010. E va bene, cedo alle insistenze e narro per l'ennesima volta quanto stampa e colleghi rifiutano di ammettere, reiterando un falso che è diventato storico o quantomeno ‘storia di Roma'. Cercherò di essere chiara e semplice: 

1. NON vi fu scandalo di sorta la notte del Rugantino, ossia quel 5 novembre del 1958. Lo scandalo è stato e rimane un gigantesco pallone gonfiato e ideato dai mezzi di stampa. 

2. La Polizia NON fece irruzione nel locale interrompendo uno spogliarello.

3. La magistratura NON diede via ad indagini e processo a seguito di quel preciso evento, bensì 10 giorni più tardi, a seguito del clamore della stampa per chiarire la verità su quanto veniva asserito dai giornalisti ed uscendone poi a mani praticamente vuote.

Ecco i fatti:

1. Si trattò di una cena PRIVATA organizzata da Peter Howard Vanderbilt per il mio compleanno, il quale aveva requisito (pagandolo) l'intero locale insieme alla "Rome New Orleans jazz band" di Carletto Loffredo. Feci personalmente gli inviti insieme a Guidarino Guidi, assistente di Federico Fellini, il quale stava girando "La Dolce vita". Io e Peter Howard Vanderbilt davanti al Rugantino con i carabinieri, a nostra protezione e non per arrestarci... 

2. Invitai personalmente il Commissario del Commissariato di Polizia di Trastevere (quartiere che ospitava molta malavita), chiedendogli come favore di porre alcuni poliziotti in borghese vicino al guardaroba, al fine di evitare furti di pellicce. 

3. I fotografi NON erano invitati, bensì infiltrati al seguito di Anita Ekberg, probabilmente per pubblicizzare il film di Fellini (avevo invitato Fellini e la moglie, che non vennero e mandarono al posto loro la Ekberg, NON invitata da me...), e nascosero le macchine fotografiche nei loro cappotti. 

4. La turca Aichè Nanà e il suo compagno, signor Pastore, NON erano invitati bensì IMBUCATI; molto probabilmente su istigazione di qualche non invitato o di qualche burlone, forse addirittura pagati per portare scompiglio e scandalo.

5. Fu la Ekberg ad iniziare una specie di spogliarello, causando l'improvvisa invasione dei fotografi, i quali avevano recuperato le loro macchine fotografiche. Ma immediatamente apparve la turca che le fece concorrenza, spogliandosi davvero. 

6. Il Commissario di Polizia che era in piedi accanto a me disse subito che, essendo fotografi e spogliarellista elementi esterni, NON previsti o facenti parte della organizzazione, rendevano la serata pubblica, per cui andavano mandati via e lo show interrotto. Risposi che ci pensasse lui e che ritirasse subito i rullini dei fotografi. Lui eseguì. Spedì un cameriere acoprire le nudità della Nanà, pregandola al contempo di andarsene e si mise all'ingresso per ritirare i rullini, dopodichè tornò accanto a me con sorriso soddisfatto: "Ho sequestrato tutte le foto. L'incidente è chiuso, mi dispiace per lo scompiglio, restiamo nel privato". La serata così continuò con danze e amenità assolutamente decenti fino alle ore 7:00 del mattino. Vi sono foto eseguite per strada a quell'ora all'uscita dal locale che possono testimoniare tale dettaglio. 

7. Il Commissario non si era accorto che alcuni fotografi gli avevano consegnato dei rullini nuovi nascondendo quelli adoperati. Tra questi astuti signori figurava Tazio Secchiaroli che ne ha poi fatto il suo ‘cavallo di battaglia'. 

8. Lo scandalo, di dimensioni internazionali, scoppiò poche ore dopo le 7:00 del mattino, quando i quotidiani titolavano quelle foto "L'orgia dell'aristocrazia romana" a caratteri cubitali, con articoli inesatti e dettagli inventati. Inutile smentire, inutile qualsiasi azione per frenare tale esplosione che nel giro di 48 ore dilagò dagli USA al Giappone e dall'Australia al Canada; inutili anche le mie precisazioni, perché i tanti che cercavano pubblicità vi intinsero le loro penne dandosi lustro al negativo - ma sempre lustro era - con interviste e balle gonfiate oltremisura. 

9. La decisione della magistratura di aprire un'inchiesta sull'avvenimento 10 giorni più tardi NON fu una conseguenza diretta della serata, ma un riscontro/verifica riguardante foto e articoli.

10. Il giudice incaricato ebbe molte difficoltà, perché si evidenziava il fatto che stava operando fuori dai binari, fuori dai tempi, fuori dalla realtà. Concluse con un foglio di via per la Nanà, multando i signori che si erano tolti le giacche per offrirle un tappeto, invitando Peter Howard a lasciare la città e rifiutandosi categoricamente di ascoltare la sottoscritta, in quanto avrei dichiarato che il Commissario di Polizia era accanto a me quale invitato durante un ricevimento privato (e il Commissario poteva solo confermare quanto dicevo...). Preciso che mi recai tre volte al Palazzo di Giustizia per parlare col giudice e deporre. Non mi volle ricevere. In seguito quel giudice fu tolto di mezzo e spedito in una provincia in Sardegna (allora trattatavasi di una specie di punizione).

11. Qualora si fosse fatta luce sui fatti reali, l'intera faccenda avrebbe avuto risvolti ben diversi, se non addirittura al contrario. Si sarebbero dovuti imputare i fotografi che avevano invaso una privacy (se un fotografo entra in casa mia e mi fotografa mentre mi sto facendo il bagno, è lui che va perseguito, non io...). Si sarebbe dovuto condannare il Pastore e la Nanà per la stessa ragione. E si sarebbe dovuto condannare i giornali per calunnia e falso; la stessa parola "orgia" costituiva calunnia. Io però non avevo il denaro sufficiente per aprire un contenzioso, il che è stato molto utile ai colleghi e direttori di testate varie. 

A questo punto tengo anche a dire che ho spesso dichiarato e gridato su settimanali, quotidiani e radio (Bisiach) quanto sopra senza ottenere il minimo rilievo (ovviamente a protezione delle stesse testate che erano incorse in errore), meno una sola volta alcuni anni fa, allorchè precisai quanto sopra con l'Espresso, uno dei primi settimanali che aveva dato credito allo scandalo come era stato evidenziato all'epoca (grazie anche al fatto che Secchiaroli lavorava per il gruppo Espresso Repubblica), e l'Espresso ha dato giusto rilievo alla mia lettera pubblicandola sotto forma di articolo. Non solo, ma nella mia lettera dicevo che tra i miei ospiti al Rugantino figuravano parenti stretti dell'editore Carlo Caracciolo (editore de l'Espresso) come Meralda Caracciolo e Nicola Caracciolo - fratello di Carlo - i quali potevano, volendo, confermare quanto sostenevo. Il settimanale non ha cancellato il dettaglio. Ringrazio ancora l'Espresso per la correttezza. Tuttavia il pallone continua, annualmente, a volare via media con tutte le bugie a sostegno; soprattutto dando alla faccenda del Rugantino un posto storico. Cito anche il signor Bruno Vespa, che ha dato spazio alla Nanà nel suo Porta a Porta, la quale ha tratto linfa vitale da quelle menzogne a suo tempo e continua a farlo; Vespa oltretutto ha anche pesato in modo offensivo con la sottoscritta, consentendo ad un'impiegata della RAI di telefonarmi chiedendomi se potevo fornire il numero telefonico della Nanà, ossia di una tizia che mi ha rovinato la vita per un lungo periodo e che non ho mai conosciuto né ho idea di chi sia. L'unico che ha tratto vantaggio da quello tsunami pubblicitario è stato Federico Fellini, Con questo spero di aver chiarito la "Storia del Rugantino" una volta per tutte. 

LO SPOGLIARELLO AL RUGANTINO di Victor Ciuffa da "La dolce vita minuto per minuro" (Ciuffa Editore, 2010). Eletto il nuovo Papa, l'attenzione dei lettori dei giornali, in quell'avanzante autunno di 51 anni fa, era di nuovo attratta da argomenti e personaggi certamente più futili ma abbastanza divertenti: agli albori del boom economico degli anni Sessanta la massa non aveva ancora dimenticato le tristezze del dopoguerra per cui le imprese di dive, principesse, miliardarie, scatenavano l'entusiasmo dei fan. Esile, minuta ma graziosa, una specie di Venere tascabile, Novella Parigini monopolizzava con la propria vaghezza la curiosità; s'era creata una notorietà oltre il casalingo confine di Via Margutta e di Via del Babuino, epicentro dell'ancora freschissimo scandalo Montesi; nel 1954 era andata addirittura a perlustrare gli Stati Uniti in una stravagante ricerca del nudo maschile perfetto. Le serviva un modello da ritrarre, sosteneva, ma la gente l'immaginava intenta a misurare, girare e rigirare atletici fisici nudi. L'incontrai in Piazza di Spagna la sera del 5 novembre 1958, verso le nove. Faceva già fresco, si cominciava a gradire il caldo.

"Andiamo alla festa di Olghina - mi disse - stasera ci sono tutti».

Di aristocratica famiglia, Olghina di Robilant stava allargando rapidamente la cerchia delle proprie amicizie: non più e non soltanto blasonati rampolli nostrani ma anche i nuovi, rampanti protagonisti dell'emergente cafè society romana e internazionale; quindi anche giovani inglesi, francesi, americani, spesso per niente nobili ma certamente più danarosi. Era il caso di Peter Howard, dorato pargolo erede della favolosa fortuna dei Vanderbilt.

Una simpatia, un amore fra i due? Certo è che quel 5 novembre, giorno del 25simo compleanno della contessina romana, Peter volle offrirle una favolosa festa in Trastevere; locale prescelto un anonimo ristorante a pian terreno, il Rugantino, contrassegnato dai numeri civici 38, 39 e 40 di Piazza Sidney Sonnino, con pretese storico-folcloristico-turistiche ad uso esclusivo di stranieri; un secondo ambiente, nel piano interrato, ospitava occasionalmente il ballo.

La festa fu un successo.

Tutta la Roma notturna, cinematografica, aristocratica, mondana era invitata. Convennero i più celebrati nomi del momento. Nata a Malmoe in Svezia il 29 settembre 1931, la Ekberg, il cui nome completo era Kerstin Anita Marianne, a vent'anni era stata eletta Miss Svezia ed era venuta in Italia la prima volta nel 1956 per sostituire Arlene Dahl nel film Guerra e pace di King Vidor.

Nel maggio di quello stesso anno si era sposata, nella Sala Leone X di Palazzo Vecchio a Firenze, con l'attore Anthony Steel, impegnato in quei giorni nel film Posto di controllo girato in parte in Italia, sul Lago di Como e a Firenze. Li unì in matrimonio l'assessore Menotti Riccioli il quale, a causa dell'affluenza dei fotografi, mise a disposizione una sala più grande di quella solitamente riservata ai matrimoni. L'assessore regalò un mazzo di fiori alla sposa e una copia rilegata dei «Doveri dell'uomo» allo sposo. 

Nato a Londra, Steel aveva 36 anni ed era divorziato; la Ekberg, che aveva 24 anni, indossava un abito bianco ispirato ai modelli dell'antica Grecia, che lasciava una spalla completamente nuda e che per questo suscitò varie polemiche. La cerimonia era stata rinviata varie volte per il ritardato arrivo di alcuni documenti. Dopo le nozze, si svolse un rinfresco in un albergo sul Lungarno, quindi gli sposi partirono per Londra.

Affascinato dalla bellezza dell'attrice, Gaetano Afeltra la definì, in uno dei suoi lapidari titoli sul Corriere d'Informazione: «La sposa di maggio».

In quello stesso periodo, precisamente il 21 aprile, si era sposata negli Stati Uniti, con il giornalista del "New York Times" Clifton Daniel jr, Margaret Truman, figlia dell'ex presidente degli Stati Uniti Harry Truman, cantante e attrice.

Giunta in viaggio di nozze a Roma, la coppia era stata invitata a un pranzo dagli agenti cinematografici Kaufman e Lerner. Appreso che vi avrebbe partecipato anche Anita Ekberg, Margaret Truman disse: «Non mi va a genio l'idea di cenare con Miss Ekberg. Sono stati fatti troppi racconti scandalosi su di lei».

Lerner allora le aveva garantito che l'attrice era molto simpatica e che c'era in lei «un aspetto semplice e pudico» che la gente non conosceva. Margaret aveva accettato.

Anita, raccontarono poi i due agenti, «bellissima, vestita sobriamente tutta di nero, sedeva con una compostezza da educanda».

All'epoca della festa al "Rugantino" la Ekberg aveva già attirato l'attenzione di Federico Fellini, intento a studiare costumi e usi romani per un grande film che non aveva ancora bene in mente. Era stata protagonista anche di altro episodio al quale pure si vuole far risalire la nascita ufficiale della dolce vita intesa come «sagra della paparazzata».

Reduce da una notte trascorsa in locali notturni, all'alba di un giorno della primavera del 1958, dinanzi ai fotografi, era stata schiaffeggiata lungo tutto il percorso da Via Veneto alla Scalinata di Trinità dei Monti dal gelosissimo marito Anthony Steel.

Quella sera del 5 novembre 1958 Anita piombò al "Rugantino" con nordica foga, travolgendo il pur non copioso ritegno delle calde dive nostrane: ad un certo punto si tolse le scarpe e si mise a ballare a piedi nudi. Fu la miccia che incendiò gli animi.

Costituzionalmente più elegante e compassata, Linda Christian, vedova già di Tyrone Power, invano cercò di imitarla; Elsa Martinelli era ancora tenuta a freno dal marito conte Franco Mancinelli Scotti; la Parigini era arrivata al "Rugantino" in compagnia del principe Andrea Hercolani con il quale abbondantemente animava il baccanale.

Partecipavano alla festa i principi Giovanni Aldobrandini, Mario Ruspoli, Pierfrancesco Borghese, Nicola Caracciolo, Nicolò e Luciana Pignatelli, il direttore del cinegiornale "La Settimana Incom" Sandro Pallavicini con la moglie Gea, le attrici Eleonora Rossi Drago e Carla del Poggio, la cantante Laura Betti, l'attore Gérard Herter, il regista Eriprando Visconti.

Sergio Pastore, giornalista di un piccolo giornale di Napoli, si era recato alla festa insieme ad una sconosciuta ballerina turca di 18 anni, Aiché Nanà, aspirante attrice.

Scatenata dalle celebrità presenti, anche Aiché Nanà si mise a danzare a piedi nudi ma presto ritenne di poter superare le prodezze della Ekberg. 

Avviò uno strip professionale che fece subito largo; sola al centro della pista, Aiché continuava a spogliarsi, incitata dai nobili romani che le avevano fatto circolo intorno e predisposto in terra un tappeto di giacche da sera. Erano rimasti tutti in maniche di camicia.

Quando cadde il reggiseno e Novella Parigini cercò di strappare alla ballerina anche lo slip, il gestore del locale telefonò alla polizia e il 25esimo compleanno di 0lghina di Robilant divenne una data importante nel costume romano, anzi italiano: erano ancora i tempi in cui la polizia fermava le turiste in short in Piazza di Spagna, invitandole a coprirsi; nei night le esibizioni più audaci erano quelle di ballerine in due pezzi; il Concordato del 1929 tra lo Stato e la Santa Sede aveva attribuito a Roma, infatti, il carattere di città sacra per la presenza del Vaticano e le autorità italiane lo facevano rispettare. 

Il primo seno nudo romano non fu, quindi, esente dai rigori della legge. Dal Commissariato di Polizia di Trastevere partì una camionetta. Appena comparvero gli agenti, gli aristocratici spettatori scapparono in maniche di camicia. Erano le tre. Aiché Nanà fu sommariamente ricoperta con le giacche di focosi ammiratori. Ma la festa non era finita: la maggior parte dei partecipanti si ritrovarono subito dopo in Via Veneto, al "Cafè de Paris", ancora aperto. E commentando l'animata notte si passò dal whisky al cappuccino e alla brioche. Poi alle 6,30 del mattino andarono tutti a dormire.

Ma alle 6,45 io ero già nella redazione del Corriere d'Informazione, per il solito lavoro. Mi telefonò Sergio Spinelli, titolare dell'agenzia fotografica Roma Press Photo, situata in Via Gregoriana, offrendomi una foto della festa scattata da uno dei suoi fotografi, Tazio Secchiaroli. Telefonai al Commissariato per conoscere le decisioni della Polizia; mi rispose il piantone: «Non è successo niente - mi disse -. Se voi della stampa non ne parlate, non è successo niente». 

Io invece scrissi un ampio e dettagliato resoconto della calda notte, corredandolo con la fotografia che acquistai e trasmisi per telefoto.

Il "Corriere d'Informazione" giunse in edicola, a Milano, a mezzogiorno, quando i protagonisti della movimentata nottata erano ancora tutti a dormire; fu difficile, per i giornalisti dei giornali concorrenti, trovare subito una conferma, e questo accrebbe l'interesse per l'avvenimento.

In una delle foto Aiché Nanà appariva mentre, ballando in topless, lanciava una calza che si era appena sfilata alla platea dei maschi seduti in terra, dinanzi a lei; in primo piano, in camicia bianca, era il suo accompagnatore Sergio Pastore; in un'altra foto, vestita solo di uno slippino, appariva sdraiata sulle giacche dei nobili stese sul pavimento, intenta in realistiche contorsioni. 

Nei giorni seguenti quelle foto furono pubblicate dal settimanale "L'Espresso" il cui direttore fu incriminato, processato e condannato. Peter Howard fu dichiarato indesiderabile, accompagnato dalla Polizia fino al treno, alla Stazione Termini, e rispedito all'estero.

Ma chi era l'oscura eroina che aveva detronizzato per un'intera notte le conclamate dive del momento? Non era la prima volta che destava clamore: ad Istanbul dove viveva ed era una promettente nuotatrice, a 13 anni aveva vinto il concorso per l'elezione di Miss Bosforo; una sua foto in bikini era stata pubblicata da un settimanale sportivo e aveva suscitato uno scandalo; era il primo bikini, infatti, pubblicato nel suo Paese.

L'esibizione al "Rugantino" le fruttò la popolarità in Italia, l'ostracismo della tv dell'epoca e il 21 luglio 1961 una condanna a mesi di reclusione.

In seguito si sposò a San Marino con Pastore, passato dal giornalismo alla regia cinematografica, dal quale ebbe una figlia, Sara, destinata a diventare cantante soprano.

Più tardi, separatasi da Pastore, Aiché Nanà tornò allo spettacolo interpretando film e producendoli. Uno di Edipeon, il cui soggetto era stato scritto addirittura dal commediografo cattolico Diego Fabbri, era interpretato, oltre da lei, da Magali Noél e da Massimo Serato. Inoltre recita, stavolta con striptease integrali consentiti dai nuovi tempi, nel Piccolo di Roma, un teatrino situato nel cuore di Trastevere da lei stessa gestito.

Marisa Fumagalli per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2021. «Che noia, che barba, che noia! Basta con gli uomini dai capelli rasati sulle tempie e un ciuffo da mohicano al centro del cranio: chi ha deciso che sia bello? Basta con le ciocche sul naso o sull'occhio delle donne come piacciono tanto ai "trucco e parrucco" della TV...». Caustica, ironica, schietta, fustigatrice di costumi di oggi e di ieri («Fellini non capì un bel niente del suo tempo..»), dal «pulpito» del blog, «Oligopinions»: fiumi di parole, aneddoti, ricordi. Se n'è andata a 87 anni Olghina di Robilant, contessa veneziana alle origini, poi passata alla mondanità della Capitale. Stroncata dalla malattia, un tempo definita «inguaribile». È deceduta nel pomeriggio di venerdì a Limido (Como) dove si era trasferita, dopo aver trascorso a Bolgheri, in Toscana, la prima parte della vecchiaia. Dice la figlia Valentina, che abita a Milano: «È spirata accanto alle sue cose e al suo adorato cane. Ora riposa in pace». Olghina - vita spericolata, amori avventurosi - ha un'altra figlia, Paola, che risiede in Inghilterra. A dare l'annuncio della sua morte, in anticipo, ci ha pensato Dagospia , al quale, tra l'altro, lei stessa in passato aveva collaborato. «Ha cercato fino all'ultimo di tenere vivo il suo blog - dice la figlia -. Chiuso un paio d'anni fa e poi riaperto, ma ormai non ce la faceva più». Su Olighina di Robilant si potrebbero raccontare numerosi aneddoti. Ma la sua «fama» è legata a doppio filo alla «Dolce Vita». O meglio: a due episodi cult del film di Federico Fellini: lo spogliarello di Aïché Nana, in un locale di Trastevere, e il bagno di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. Da chi e da che cosa il regista trasse ispirazione? In quel locale, quella sera del 1958, si festeggiava il venticinquesimo compleanno di Olghina. E lo scatto della spogliarellista, in bianco e nero, lo fece il reporter Tazio Secchiaroli. «La chiamarono l'orgia e ci inzupparono il pane i grandi editori, prima del film, facendo apparire Roma Sodoma e Gomorra e noi una banda di depravati», ci raccontò la contessa quando la incontrammo nel 2009. «La Nana era un'imbucata - ebbe a precisare -. Comunque, quella foto mi ha cambiato la vita. Prima in peggio. Porte sbattute in faccia, cattiva fama. Ma il meglio venne dopo. Diventai un personaggio tra gli amici già noti di allora: Corrado Pani, Luca Ronconi, Pier Paolo Pasolini, Adriana Asti, Laura Betti, Franco Rossellini... Insomma, salii sulla cresta dell'onda, la mia firma di cronista mondana era e contesa dai giornali». Il bagno notturno nella Fontana di Trevi? Prodezza di Olghina, per una scommessa da 10.000 lire. «Fatto sta che sia lo spogliarello del Rugantino, sia il mio bagno, finirono tra le scene del film di Fellini. In acqua, però, c'era la Ekberg». A proposito di Fellini e della «Dolce Vita», Olghina ebbe molto da criticare: «Lui non capì un bel niente del suo tempo, dei costumi e del clima spensierato di quella stagione. La decadenza rappresentata nella sua "Dolce Vita" non era quella del '58. Cominciò dieci anni dopo, con le discoteche, i salotti, i palazzinari, la mafia e la cocaina che pioveva come borotalco, imbiancando anche i nasi più ingenui. Lo dissi a Federico, che si arrabbiò. Ma poi facemmo pace». 

Gloria Satta per “il Messaggero” il 28 novembre 2021. In Toscana, dove viveva da tempo, è morta a 87 anni Olghina di Robilant, contessa, scrittrice, giornalista, in gioventù fidanzata del futuro re Juan Carlos di Spagna, amica di intellettuali (dal 1966 al 1972 fu sposata con il pittore Antonello Aglioti) regina della mondanità e del bel mondo. Ma la sua fama internazionale era legata a un clamoroso episodio di cronaca che, nel 1958, avrebbe cambiato il costume italiano e innescato ufficialmente la Dolce Vita, quel periodo di edonismo sfrenato succeduto al dopoguerra e celebrato da Federico Fellini nel suo film capolavoro del 1960: proprio alla festa per il 24mo compleanno di Olghina, presso il ristorante Rugantino a Trastevere, la ballerina turca Aiché Nana improvvisò uno spogliarello e le sue foto bollenti scattate dal paparazzo Tazio Secchiaroli furono pubblicate prima sull'Espresso poi fecero il giro del mondo suscitando grande scandalo e provocando l'intervento della magistratura. Il sito Dagospia, che per primo ha dato la notizia della morte della nobildonna (fino a qualche anno fa collaboratrice del sito stesso), ha ricordato anche il suo rammarico: quella serata, non si stancava di ripetere Olghina da un sessantennio, era stata «ingigantita dai media». Non ci sarebbe stato alcuno scandalo, a sentir lei, Aiché Nana era una sconosciuta che si era imbucata alla festa e non è vero che la Polizia fece irruzione per coprire le nudità della svergognata, mentre la magistratura sarebbe intervenuta solo 10 giorni dopo, in seguito al clamore suscitato dall'episodio che alla festeggiata aveva addirittura «rovinato la vita». «Io c'ero e ricordo benissimo quella serata», racconta il press-agent Enrico Lucherini, 89 anni. «Quando Aiché Nana cominciò a spogliarsi per rubare la scena ad Anita Ekberg, semi-sdraiata sulle giacche gettate in terra dagli invitati, e Secchiaroli prese a scattare, qualcuno chiamò effettivamente le forze dell'ordine», afferma Enrico, «così il paparazzo mi lanciò i rullini da custodire. Io me li cacciai in tasca e glieli restituii quando le acque si furono calmate». Anche secondo Lucherini la contessa di Robilant si riteneva danneggiata da quell'episodio che aveva segnato la sua vita: «Qualcuno arrivò a dire che aveva architettato tutto lei per far pubblicità al Rugantino, locale deciso a rivaleggiare con i ristoranti blasonati di Via Veneto. Tutte falsità, Olghina era una gran signora, una donna coltissima e non aveva bisogno di ricorrere a questi espedienti». 

Roberto D'Agostino, fondatore e direttore di Dagospia, spiega di averle affidato una rubrica di costume, L'occhio di Olghina, «perché la contessa era la testimone di un'epoca straordinaria: nel 1958 l'episodio dionisiaco del Rugantino sancì il passaggio dell'Italia dal dopoguerra a una fase storica totalmente diversa che Fellini, abilissimo nel captare lo spirito del tempo, avrebbe celebrato nel film La Dolce Vita. Olghina era una protagonista, un pesce pilota del jet set che allora anticipava il cafonal». All'epoca facevano notizia anche gli amori della contessa: di Juan Carlos di Borbone, che in nome della ragion di stato avrebbe poi sposato Sofia di Grecia, si sussurrava nei salotti che fosse addirittura il padre segreto della prima figlia di Olghina, Paola. «Era simpatico, alla mano, portato allo scherzo, vivacissimo e disimpegnato in quanto tenuto al guinzaglio prima da suo padre, Don Juan di Borbone quindi dal Caudillo Franco», raccontava lei. Che ebbe un flirt anche con Maurizio Arena, l'attore fusto più tardi protagonista di un'incandescente love story con Maria Beatrice di Savoia. Dal marito Antonello Aglioti (che dopo il divorzio sarebbe stato il compagno del regista Memé Perlini), Olghina ebbe poi la seconda figlia Valentina. Negli anni Ottanta scrisse 11 libri di letteratura rosa, firmandoli con vari pseudonimi. Nel 1985 pubblicò con il suo nome il romanzo Alvise e Alessandra e nel 1991 l'autobiografia Sangue blu. «Era la regina della Dolce vita», la ricorda il King dei Paparazzi, Rino Barillari, «nemica della volgarità, degli eccessi e dei talk show: la invitavano ma non partecipava mai. Rispettava il lavoro di noi fotografi e aveva una gentilezza innata. Un personaggio come lei ci mancherà molto».

Dagospia 2 giugno 2014. “JUANITO” MEMORIES - OLGHINA DI ROBILANT RACCONTA JUAN CARLOS, DI CUI FU LA PRIMA FIDANZATA: “ERA SIMPATICO E VIVACE. SI INNAMORÒ DI MARIA GABRIELLA DI SAVOIA, MA POI IL CAUDILLO FRANCO GLI IMPOSE SOFIA DI GRECIA”. “L’abdicazione mi sembra una buona idea, ma non so se gli spagnoli siano pronti” - “All’epoca vivevamo in Portogallo e per uscire ci dovevamo portare dietro una vecchia megera come chaperon. Juanito poi si fissò con la più carina del pollaio regale europeo, la principessa di Savoia, ma fu organizzata la crociera sull’Agamemnon per farlo incontrare con Sofia”…

Dagospia 2 giugno 2014. Dal blog di Olghina di Robilant, olgopinions.blog.kataweb.it. Mi sembra una buona idea ma non so quanto e se gli spagnoli di Rajoy siano del mio stesso avviso. Qualche collega mi chiama per sentire cosa ho da dire. Che ne so? Io il re non lo conosco. Conoscevo un ragazzo che noi (gli amici) chiamavamo Juanito: era simpatico, alla mano, portato allo scherzo, vivacissimo e disimpegnato, in quanto tenuto al guinzaglio. Prima da suo padre, Don Juan di Borbone (un po’ birbone con le donne quel papà…) quindi dal Caudillo Franco: entrambi gli vietavano di sposare una ragazza che non fosse di famiglia Reale. Dapprima lui si era fissato con la più carina del pollaio regale europeo, Maria Gabriella di Savoia, ma poi gli vietarono anche lei. Arrivò per lui il servizio militare spagnolo, il che costituiva il preambolo del Caudillo alla eventualità (penso certezza) di dargli il trono spagnolo. Era un ragazzo adorabile che mi mandava foto in uniforme perché gli piaceva (penso gli piaccia tuttora) il codice d’onore dei militari. Mi scriveva che abbracciava un cuscino sull’amaca della Nave Scuola Juan Sebastian Elcano, pensando fossi io, poi cadeva dall’amaca e, con grande serietà… diceva lui… tornava alla sua realtà e i suoi doveri.

La famosa crociera sull’Agamemnon fu poi qualcosa tra divertimento e dovere che organizzò la regina Federica di Grecia per riunire tutti i ‘delfini’ e le ‘delfine’ dell’acquario regale europeo, sperando causassero unioni e fidanzamenti secondo le norme dinastiche monarchiche. E così fu, almeno per tre coppie: sua figlia Sofia con Juan Carlos, Maria Pia di Savoia con Alessandro Karageorgevic di Jugoslavia e suo fratello Costantino con Annamaria di Danimarca. Va ricordato che erano tempi duri per le monarchie europee, con tanti esiliati che avevano perlopiù scelto il Portogallo come residenza alternativa.

Perché? Per il fatto che costava poco (la pecunia mancava… ai re viziatelli), che erano protetti dall’allora dittatore portoghese Salazar grazie al quale mantenevano privilegi di tipo feudale, grazie al quale il Portogallo era rimasto neutrale durante la II guerra mondiale e pertanto non ne soffriva eccessivamente le conseguenze, grazie al quale finivano col convivere tutti in un tratto di paese ristretto al triangolo tra Estoril/Cascais (lungo la costa del mare… no, foce del Tago e Oceano Atlantico) e Sintra/Colares (il primo entroterra con tre palazzi Reali) ossia a circa 20 chilometri da Lisbona.

A quel tempo nessuna famiglia ricca e aristocratica portoghese risiedeva nella capitale ma nelle vicinanze, in ville che somigliavano a Fiesole, nei pressi di Firenze. A Lisbona solo le ambasciate.

Fu così che i rampolli delle Case Reali europee si frequentavano facilmente, mantenendo un treno di vita agiato e quasi condominiale. Preciso che questi ‘rampolli’ furono molto utili per i loro coetanei che seguivano ancora regole medievali e avevano codici di comportamento troppo restrittivi, per esempio: non potevano uscire nei ristoranti o locali senza una o un chaperon; sulla spiaggia dovevano indossare costumi interi, sia maschi che femmine; se si fidanzavano potevano al massimo tenersi per mano (guai a chi osava baciarsi!); era di rigore il consenso dei genitori anche solo per prendere un tè in case di amici  e, se ballavano, dovevano stare a distanza l’uno dall’altro.

“Ma è pura follia!” gridò Juanito quando dovette venire a Sintra per chiedere a mio padre e mia zia se poteva portarmi a cena senza chaperon. “Assolutamente no” fu la risposta e ci misero accanto una vecchia megera (che era stata dama di compagnia della regina Maria Pia del Portogallo)  come chaperon. Tutto si convertì in maggiore libertà proprio grazie ai ‘delfini’, che si ribellavano e portarono nel triangolo delle altezze reali usi e costumi della loro patrie. Incontravo Juanito soprattutto durante i fine settimana campestri con caccia alle pernici o, d’inverno, alle anatre e oche selvatiche.

Non era un gran fucile e nemmeno io, che amavo - e amo - gli animali. Si deve essere perfezionato nel tempo del “coraggio e del trono”, tanto da cacciare gli elefanti… pfui! Che schifezza…a mio dire. Resto comunque dell’opinione che gli spagnoli debbono molto alla reggenza di questo sovrano, il quale ha portato loro la democrazia dopo un lungo periodo dittatoriale assai diverso da quello portoghese. Franco è stato tiranno e amico dei tedeschi.

Salazar se ne stava rinchiuso nella torre di Belem cercando di aiutare il suo popolo, prevalentemente contadino, almeno fino alla rivoluzione dei fiori nel ‘74. Negli anni tra il ‘40 e il ‘50 i tassisti a Lisbona guidavano auto americane, scalzi e gridavano “eehpà… ohhpà…” quando dovevano frenare, ossia l’esclamazione usata dai campinos a cavallo nel tirare le redini.

Ma come spiegare in poche parole un paese ancora incontaminato, verde, magnifico, povero di abitanti, con tre sole città (Lisbona, Faro e Porto, ancora colonizzato dal potere economico inglese) e una miriade di paeselli bianchi e bestiame al pascolo?  Impossibile immaginarlo ai tempi nostri. Ma questa oasi piaceva molto ai sovrani esiliati che si potevano incontrare al mercato, al Chiado per fare compere un tantino più lussuose, in certi ristoranti per mangiare il caldo verde e le omelettes come il Pereira che ‘sosteneva’ andando un pochino controcorrente.

I gay finivano con l’essere spediti in colonie, il che li gratificava: “Vedessi che pezzi di maschioni ci sono in Mozambico!” esclamava un mio amico omosessuale rientrato in patria dopo la rivoluzione. Però a Juanito non piacevano tanto, lui partiva da insegnamenti maschilisti e ‘donnaioli’: chissà se adesso che in Spagna possono sposare tra omosessuali il re ha cambiato idea? O fa finta di essersi aggiornato? Non lo so. Come ho detto non conosco il re. Sono rimasta al ragazzo esuberante e bello che flirtava e giocava con la vita e gli amici. Mi diverte invece l’idea che diventi regina una giornalista, il perché mi sembra ovvio. Ma non vedo nel nuovo Felipe VI un personaggio simile a Juanito, il che evita invidie di qualsiasi genere. Lunga vita al re? Mah! Vedremo.

Dario Salvatori per Dagospia il 27 ottobre 2020. Accadde il 5 novembre del 1958.  Lo scandalo del “Rugantino”, il locale di Trastevere dove si spogliò la ballerina turca Aichè Nanà. Si festeggiava il compleanno di Olghina di Robilant, ventiquattrenne di sangue blu, che   proprio due sere prima si era tuffata nella Fontana di Trevi per una scommessa. Il suo amico Guidarino Guidi, assistente di Federico Fellini, passando accanto a quell’acqua gelida esclamò che non sarebbe entrato là dentro nemmeno con una pistola puntata alla tempia. “Io lo farei per diecimila lire”, disse la giovane nobildonna. Partì la scommessa, entrò in acqua tutta vestita e vinse le diecimila, che coprirono esattamente la multa elevata per “inquinamento di acque pubbliche”. Così ci si divertiva. Olghina usciva con il facoltosissimo Peter Howard Vanderbilt, estroso miliardario americano, gay e vanitoso,  che voleva regalarle un compleanno indimenticabile. Ci riuscì. La Robilant supponeva che sarebbe andato da Bulgari per scegliere qualche regalo prezioso che lei avrebbe immediatamente depositato al Monte di Pietà. Invece il Vanderbilt preferì donare un compleanno swing al “Rugantino”. Da quel momento la vita notturna romana non fu più la stessa. Guardando quelle foto storiche scattate nel basement del locale, riconosciamo Marcello Rosa, 85 anni, jazzista, trombonista, compositore, membro della Roman New Orleans Jazz Band e uno dei pochi sopravvissuti di quella serata.

Maestro Rosa, cosa ricorda di quella notte?

“Noi suonavano abitualmente al Rugantin- e quella sera ci dissero che ci sarebbe stata una festa privata, un compleanno. A quell’epoca il jazz piaceva alla Roma bene, alla nobiltà nera, alla Roma pariola.” 

Però all’ingresso trovaste i fotografi e un pubblico di vip: Luca Ronconi, Corrado Pani, il marchese Carlo Durazzo, i principi Andrea Hercolani e Pier Francesco Borghese, Marina Cicogna, il pittore Tomas Conceptiòn...

“Si, però quando arrivò Anita Ekberg capimmo che la serata avrebbe preso un’altra strada.” 

Però lei non si spogliò…

“No, però prese a ballare da sola a piedi nudi. Mentre suonavano mi si avvicinò una brunetta bonazza e mi disse in romanesco – ‘’Slacciame a guepiere e ‘a sottana, mo’ je faccio vedè io a quella’’- e si mise a ballare selvaggiamente. Era la ballerina turca Aichè Nanà.”

I clienti che cenavano al piano superiore scesero tutti, giusto?

“Si, io smisi di suonare perché avevo in mano la biancheria di Aichè. E quella fu la mia salvezza.” 

Perché?

“Perché tutti i musicisti furono condannati a tre anni con la condizionale. La sentenza fu chiara. Con i loro strumenti eccitavano la turca. Lei era in pieno parossismo e urlava. “Datemi il tappeto di Allah!”, voleva dire datemi giacche e cappotti.”

Insomma lei la svangò?

“Non tanto, perché dopo qualche giorno i giornali americani pubblicarono quelle foto di Tazio Secchiaroli. Siccome due giorni prima era salito al soglio pontificio Giovanni XXIII i giornali americani titolarono – Orgia in Vaticano!- Mi chiamò mio zio dall’America chiedendomi se avessi cambiato mestiere. In una foto ero con la corsetteria di Aichè in una mano e con l’altra il trombone e sullo sfondo la cupola di San Pietro.”. 

Altre complicazioni?

“Il locale era di Mario Crisciotti, proveniente da una famiglia di ristoratori. Lui se la cavò con una multa di tremila lire e i sigilli all’ingresso per qualche giorno. Però i turisti facevano la fila e ordinavano “Fettuccine allo spogliarello-“.

Si incuriosì anche Federico Fellini…

“Si, stava scrivendo “La dolce vita”, era stato invitato ma non venne, mandò la Ekberg. Voleva dimostrare come si divertivano i ricchi, come trasgredivano. Ci chiamò, ci fece un provino, noi arrivammo con le divise, suonammo un blues e una ballad, credo che si annoiò moltissimo visto che di trasgressivo non avevamo proprio nulla. Infatti chiamò Adriano Celentano, che nel 1958 era sicuramente più trasgressivo di noi.”

·        È morto il compositore Stephen Sondheim. 

Marco Giusti per Dagospia il 27 novembre 2021. Se ne va una leggenda, Stephen Sondheim, 91 anni, il più celebrato autore di musical e di canzoni di Broadway. “Un artista intellettualmente rigoroso che ha sempre cercato nuovi percorsi creativi, Mr. Sondheim è stato il compositore-paroliere più venerato e influente del teatro dell'ultima metà del 20 ° secolo, se non il più popolare”, scrive il New York Times. Un titano della musica e delle parole al pari di Irving Berlin e Cole Porter, insomma, A neanche trent’anni era già entrato nel mito scrivendo i testi di tutte le canzoni di “West Side Story” musicate da Leonard Bernstein e quelle per “Gipsy”, che ebbero delle strepitose e immediate versioni cinematografiche nei primi anni ’60. Senza scordare “Dolci vizi al foro”, il film che Richard Lester trasse dal suo musical, scritto e musicato da lui per la prima volta. Peccato che non potrà essere celebrato dall’arrivo della nuova versione di “West Side Story”, diretta da Steven Spielberg dove brilleranno ancora una volta le sue composizioni, “America”, “Maria”, “Jet Song”. Nella sua lunga carriera ha vinto un Oscar per “Dick Tracy”, ben sette Tony Awards, nel 1971 con “Company”, nel 1972 per “Follies”, nel 1973 per “A Little Night Music”, nel 1979 per il dark musical “Sweeney Todd”, nel 1988 per “Into the Woods”, nel 1994 per “Passion” e un Tony speciale nel 2008, e perfino un Pulitzer per il teatro con”Sunday in the Park” nel 1985. Fu un grande innovatore e cercò anche di andare controcorrente dando voce, in un musical come “Assassins”, agli uomini che ucisero o cercarono di uccidere i presidenti americani. Per non parlare di “Sweeney Todd”, il musical sul pasticcere assassino. Non ha composto molta musica da film, ricordiamo solo le colonne sonore di “Reds” per Warren Beatty e quella di “Stavisky” per Alain Resnais. Nato a New York nel 1930 e morto di cause naturali nella sua casa di Roxbury nel Connecticut dove si era ritirato per la pandemia, ha avuto come mentore Oscar Hammerstein, che abitava vicino a casa sua quando era ragazzo. Se non ci fosse stata la sua vicinanza, magari avrebbe fatto il matematico. A sua volta è stato lui il mentore dello sfortunato Jonathan Larson. Proprio in questi giorni potete vedere il biopic su Larson, “Tick, Tick… Boom!” di Lin Manuel Maranda, dove viene ben spiegato il rapporto tra Sondheim e il giovane Larson, che è un po’ lo stesso che aveva Hammerstein con lui. Dopo aver lavorato nei primi dieci anni di attività come librettista per altri musicisti, decise di lavorare solo per i suoi stessi musical, scritti e musicati da lui, e messi in scena da una ristretta rosa di collaboratori, il regista e produttore Hal Prince, il maestro d’orchestra Jonathan Tunick, il regista James Lapine. Si riporta che è morto all’improvviso. Il giorno prima aveva festeggiato il Thanksgiving tranquillamente.

È morto Stephen Sondheim, re di Broadway: scrisse West Side Story. È morto Stephen Sondheim, icona di Broadway, celebre paroliere e compositore americano, creatore tra tutti di West Side Story, riconosciuto come il musical più popolare della storia statunitense. A cura di Gennaro Marco Duello su Fanpage.it il 26 Novembre 2021. È morto Stephen Sondheim, icona di Broadway, celebre paroliere e compositore americano, creatore tra tutti di West Side Story, riconosciuto come il musical più popolare della storia statunitense. Aveva 91 anni. Il musical è in questi giorni in sala nella sua più recente versione cinematografica. Nonostante la veneranda età, la morte di Stephen Sondheim sarebbe sopraggiunta in una maniera del tutto inaspettata. 

La vita e la carriera di Stephen Sondheim 

Nato a New York da famiglia ebrea, Stephen Sondheim scrisse il suo primo musical poco più che ventenne: Saturday Night. Pochi anni dopo, nel 1957, scrisse i testi di West Side Story, il suo più grande successo. Tra gli altri lavori più significativi: Sweeney Todd ed Into the Woods. E ancora A Musical Fable. Stephen Sondheim ha scritto anche delle colonne sonore originali per i film Stavisky il grande truffatore (1974), Reds (1980) e Dick Tracy (1990), per cui scrisse la canzone "Sooner or Later" che gli valse l'Oscar alla migliore canzone nel 1991. Nel 1994 Sondheim ha scritto con Lapine il musical "Passion", tratto dal film "Passione d'amore" di Ettore Scola, a sua volta tratto dal romanzo di Igino Ugo Tarchetti Fosca. Passion, con Donna Murphy nel ruolo della protagonista, vinse il Tony Award al miglior musical. Nel 2019 il teatro del West End Queen's Theatre è stato ribattezzato Sondheim Theatre in suo onore. 

La vita privata di Stephen Sondheim

Stephen Sondheim era dichiaratamente omosessuale dagli anni settanta. Non ha mai convissuto con un uomo prima dell'età di 71 anni. È il 1991 quando annuncia la relazione con il drammaturgo Peter Jones, con cui ha convissuto fino al 1998. In precedenza, è stato coinvolto sentimentalmente con Anthony Perkins. Dal 2004 era impegnato in una relazione con Jeff Romley, di quarantotto anni più giovane. La coppia si è sposata nel 2017.

Stephen Sondheim morto a 91 anni, fu l’autore di West Side Story. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera  il 26 Novembre 2021. È morto all’età di 91 ani Stephen Sondheim, leggendario compositore di Broadway autore di musical come West Side Story, andato in scena per la prima volta nel 1957 a New York e diventato uno dei più popolari musical di tutti i tempi. Artista molto amato dal grande pubblico e vincitore di importanti premi (fra cui un Oscar, 8 Tony Award, diversi Grammy Awards e il Pulitzer per la drammaturgia) e nel 2015 aveva ricevuto una Medaglia Presidenziale da Barack Obama alla Casa Bianca, come riconoscimento alla carriera. Sondheim vanta una immensa produzione di testi e musiche e aveva continuato a lavorare fino a pochi mesi fa. La notizia della morte è stata comunicata dal suo legale al New York Times. La morte di Sondheim, secondo quando riferito dal suo legale, è stata improvvisa ed è avvenuta nella sua casa di Roxbury, in Connecticut, dove aveva appena festeggiato la festività del Thanksgiving con alcuni amici. Compositore, paroliere, drammaturgo statunitense. Sondheim viene considerato uno dei più importanti autori nel panorama del teatro musicale del ventesimo secolo, soprattutto per il suo ruolo nello sviluppo del genere del musical moderno. Ha scritto anche colonne sonore originali per film come Dick Tracy (diretto da Warren Beatty), che gli valse l’Oscar per la migliore canzone nel 1991 con Sooner or Later, cantata da Madonna. Nel corso della carriera ha lavorato a una ventina di musical (come paroliere o compositore), ha scritto le colonne sonore di decine di film e opere teatrali. Ha anche avuto esperienza come sceneggiatore sia nel cinema sia in tv. Dopo essere stato legato sentimentalmente al drammaturgo Peter Jones, ebbe una relazione con Anthony Perkins e dal 2004 era legato a Jeff Romley, di 48 anni più giovane di lui, che sposò nel 2017. Numerosi i messaggi di cordoglio affidati ai social network da nomi illustri del mondo dello spettacolo, fra cui Barbra Streisand, che ha scritto: «Ringraziamo il Sigonore che ha fatto vivere Sondheim 91, così da permettergli di scrivere musica fantastica e grandi canzoni. Riposa in pace».

·        E’ morto il banchiere Ennio Doris.

Addio a Ennio Doris, è morto l'inventore di Banca Mediolanum. Berlusconi: "Ci lascia un grande italiano". Il Tempo il 24 novembre 2021. Si è spento questa notte alle due e dodici minuti, all'età di 81 anni, Ennio Doris, fondatore e presidente onorario di Banca Mediolanum. Lo hanno annunciato la moglie Lina Tombolato e i figli Sara e Massimo. Tutti i Family Banker, i dipendenti e i collaboratori di Banca Mediolanum si stringono uniti e partecipi attorno alla famiglia Doris e, con enorme commozione, rendono omaggio a Ennio Doris, grande uomo e straordinario imprenditore, si legge in una nota della Banca. In questi giorni di lutto la famiglia Doris desidera mantenere uno stretto riserbo che chiede di voler rispettare. "Ci ha lasciato Ennio Doris, un grande uomo, un grande imprenditore, un grande patriota un grande italiano. Un uomo generoso, altruista, sempre attento agli altri, sempre vicino a chi aveva bisogno. Un mio grande amico. Ci mancherà molto, mi mancherà moltissimo. A Massimo, a Sara, a Lina la mia vicinanza e tutto il mio affetto". Così Silvio Berlusconi ricorda in un post su Instagram il fondatore e presidente onorario di Banca Mediolanum.

Da repubblica.it il 24 novembre 2021. Si è spento alle due e 12 minuti di questa notte Ennio Doris, fondatore e presidente onorario di Banca Mediolanum. Lo annunciano la moglie Lina Tombolato e i figli Sara e Massimo, che "in questi giorni di lutto" desiderano "mantenere uno stretto riserbo", che chiedono a tutti di "voler rispettare". I dipendenti e i collaboratori del gruppo, si legge in una nota, "si stringono uniti e partecipi attorno alla famiglia Doris e, con enorme commozione, rendono omaggio a Ennio Doris, grande uomo e straordinario imprenditore".

Da tgcom24.mediaset.it il 24 novembre 2021. Si è spento questa notte, all’età di 81 anni, Ennio Doris, fondatore e presidente onorario di Banca Mediolanum. Lo hanno reso noto la moglie Lina Tombolato e i figli Sara e Massimo. Nato il 3 luglio del 1940, per oltre quarant’anni è stato indiscusso protagonista della grande finanza italiana nonché imprenditore, banchiere e fondatore di Banca Mediolanum, una delle più importanti realtà del panorama bancario nazionale. Sposato dal 1966 con Lina Tombolato, lascia due figli, Massimo e Sara,e sette nipoti: Agnese, Alberto, Anna, Aqua, Davide, Luna Chiara e Sara Viola. Nel 1992 gli viene conferita l’Onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana e nel 2002 quella di Cavaliere del Lavoro. Sempre nel 2002 consegue il Master honoris causa in “Banca e Finanza” della Fondazione CUOA. Dal 2000 al 2012 ha ricoperto la carica di Consigliere in Mediobanca S.p.A. e di Banca Esperia S.p.A. Dal 1996 è stato Amministratore Delegato di Mediolanum S.p.A, holding del Gruppo, sino al 2015, anno della fusione per incorporazione in Banca Mediolanum. Fino a allo scorso 3 novembre 2021 Ennio Doris ha ricoperto la carica di Presidente di Banca Mediolanum, giorno nel quale è stato nominato, a seguito di delibera assembleare, Presidente Onorario. Ennio Doris ricopriva altresì la carica di Presidente Onorario di Fondazione Mediolanum Onlus. Una vita costellata di successi - Nel 1969 inizia l’attività nel campo della consulenza finanziaria presso Fideuram, occupandosi di gestione dei risparmi delle famiglie e, dal 1971 al 1981, in Dival (Gruppo Ras), dove 2 partito con un gruppetto di collaboratori, in pochi anni arriva a gestire oltre 700 professionisti. Nel febbraio 1982, dopo l’incontro a Portofino con Silvio Berlusconi e con il supporto imprenditoriale e logistico del Gruppo Fininvest, Ennio Doris fonda Programma Italia, la prima rete di consulenti globali nel settore del risparmio, con un’idea tanto semplice quanto potente e innovativa: “diventare il punto di riferimento della famiglia italiana per il risparmio”. Inventa così un nuovo modo di fare banca, avvicinando la finanza alle persone e creando un modello industriale precursore dei tempi. Nei primi anni Novanta “importa” dal Regno Unito l’idea di una banca senza sportelli, quando internet inizia a muovere i primi passi anche in Italia. Un’intuizione, anche questa, in cui scorge con lungimiranza le trasformazioni che ancora oggi investono profondamente il settore bancario. La sua è una scommessa sul futuro, un invito a non aver paura. Perché l’intelligenza e la capacità di costruire fiducia tra le persone resteranno al centro di tutto: “le filiali faranno la fine delle cabine telefoniche. Ma non sparirà la presenza umana” avrà modo di commentante negli anni successivi. Nella sua visione, infatti, questo innovativo modello di banca assegna un ruolo ancor più cruciale alle persone: “consulenti che guidano il cliente nelle scelte fondamentali della loro vita, in un mondo sempre più complesso”. Nel 1995 nasce Mediolanum S.p.A., la holding a cui fanno capo tutte le società del conglomerato del Gruppo, e questa riorganizzazione permette la quotazione in Borsa nel 1996 e, nel 1998, l’ingresso nel listino Mib30. Nel 1997 Programma Italia si trasforma in Banca Mediolanum, la più innovativa banca telematica d'Italia, nata senza sportelli, la prima a dare il servizio di home banking con telefono e il teletext con il televisore di casa, fondendo così le potenzialità dell’approccio tecnologico con la professionalità del 3 consulente finanziario.

Fabio Savelli e Fabrizio Massaro per il “Corriere della Sera” il 25 novembre 2021. (…) C'era anche Doris tra i fedelissimi che nel 1993 discussero con Berlusconi la sua discesa in campo; Ennio era tra i sostenitori del sì. Ma il banchiere fu anche uno degli artefici delle dimissioni del Cavaliere da Palazzo Chigi nel novembre 2011, con lo spread impazzito oltre quota 500 e la Borsa che scendeva in picchiata. Una telefonata tra Doris e Berlusconi fu decisiva: «Quello che chiedono il mercato e l'Europa è un governo di transizione con un presidente del Consiglio che abbia un grande prestigio sul mercato e non sia né di centrodestra né di centrosinistra. Questo dovrebbe essere lo sbocco della crisi», disse al premier. Poi il consiglio al socio d'affari: «Pensa alle aziende». E Berlusconi si dimise. (…)

Gianluca Paolucci per “La Stampa” il 25 novembre 2021. Un grande innovatore, capace di rivoluzionare il modo stesso di fare banca. Nel marketing («La banca costruita intorno a te»), nei processi, nelle basi del settore: la sua Mediolanum è la prima banca senza sportelli. La cui storia imprenditoriale è legata strettamente a quella di Silvio Berlusconi: «Come un fratello», dirà di lui in una delle ultime interviste a questo giornale. È questo forse il lascito principale di Ennio Doris, venuto a mancare a 81 anni dopo circa 40 trascorsi da protagonista della finanza italiana. Non male, per uno che da bambino sognava di fare il mediatore di bestiame - il mestiere del padre - e che solo a causa di una nefrite decide di concentrarsi sugli studi. Si fermerà al diploma, per iniziare la gavetta prima in banca poi nel settore allora agli albori del risparmio gestito. È in quei primi anni che inizia a pensare alla sua «rivoluzione», durante gli incontri con clienti che gli affidano il loro «denaro che viene dal sudore e dal sacrificio», ricordava lo stesso Doris. «Lì», raccontava, «ho capito quello che dovevo fare: aver successo non perché sono bravo a vendere qualcosa, ma perché sono utile alle persone. Per farlo, però, devo avere a disposizione tutti gli strumenti necessari, compresi quelli bancari». Di quegli anni di incontri con i clienti è rimasta anche la cortesia e disponibilità, anche con i giornalisti alla ricerca di indicazioni sugli equilibri dei soci Mediobanca o di una lettura autentica dei movimenti nella galassia berlusconiana. Le rivoluzioni hanno bisogno anche di colpi di fortuna e per Doris è la fortuna è un incontro. La sua strada incrocia quella di Berlusconi e il racconto di quell'episodio rimanda subito a un immaginario da favolosi Anni 80: rampanti, sfacciati e ricchi di opportunità. Si ricorda quando l'ha conosciuto, chiede il giornalista? «Momento per momento. Era un giovedì della primavera dell'81. Avevo letto la sua intervista su Capital che mi colpì. Diceva: "Pensa in grande". E invitava chi volesse fare l'imprenditore a contattarlo. Un giorno sono a Genova, nel pomeriggio, con mia moglie, passo da Portofino. Alle 6 del pomeriggio arrivo in piazzetta e lo riconosco per via della foto in copertina. "Ma quello è Berlusconi!". Lui si gira e io mi presento. Ne sono rimasto affascinato. Siamo partiti a lavorare insieme nel 1982, da allora abbiamo sempre fatto utili. La nostra è una storia di fratellanza, amicizia e grande affetto. In 40 anni mai un litigio, mai uno screzio». Da quell'incontro di Portofino, nel febbraio 1982, con il supporto del Gruppo Fininvest - che resterà socio fino ai giorni nostri -, Doris fonda Programma Italia, la prima rete di consulenti globali nel settore del risparmio, con un'idea tanto semplice quanto potente e innovativa: «Diventare il punto di riferimento della famiglia italiana per il risparmio». Inventa così un nuovo modo di fare banca, avvicinando la finanza alle persone e creando un modello industriale precursore dei tempi. Nei primi anni Novanta «importa» dal Regno Unito l'idea di una banca senza sportelli, quando internet inizia a muovere i primi passi anche in Italia. Nel 1995 nasce Mediolanum Spa, la holding a cui fanno capo tutte le società del Gruppo, e questa riorganizzazione permette la quotazione in Borsa nel 1996 e, nel 1998, l'ingresso nel listino Mib30. Nel 1997 Programma Italia si trasforma in Banca Mediolanum, la più innovativa banca telematica d'Italia, nata senza sportelli, la prima a dare il servizio di home banking con il telefono e il teletext con il televisore di casa, fondendo così le potenzialità dell'approccio tecnologico con la professionalità del consulente finanziario. Ma se la banca telematica è ancora un'utopia, molto più concreta è la nascita, nello stesso anno, della consociata irlandese: diventerà un comodo rifugio a bassa fiscalità per i patrimoni dei clienti Mediolanum. Nel 2000, Doris ed Enrico Cuccia siglano un'alleanza che si concretizza in un accordo di joint-venture e di scambio azionario fino al 2% tra Mediolanum e Mediobanca. Sempre nel 2000 il fondatore di Banca Mediolanum traccia un cerchio sulle sabbie di un lago salato per spiegare il suo nuovo modello di banca: quella «costruita intorno a te». Doris rompe gli schemi anche della comunicazione e si mette in gioco in prima persona divenendo testimonial della campagna pubblicitaria della banca affinché i clienti conoscano e vedano il volto del banchiere a cui affidano i loro risparmi. Dopo di lui lieviteranno gli imprenditori-attori, protagonisti degli spot dei propri marchi. Nel 2008 il testimone aziendale passa al figlio Massimo che da allora è alla guida di Banca Mediolanum come amministratore delegato. Anche il rapporto con Berlusconi si evolve, con Doris che non mancherà di criticare anche apertamente una serie di scelte del Berlusconi politico soprattutto durante l'ultimo governo del Cavaliere. L'impegno a ricercare sempre soluzioni innovative in grado di favorire la crescita delle imprese e del Paese è stata una costante nel percorso di Doris. La sua idea di sradicare il sistema bancocentrico e di creare collegamenti diretti tra il risparmio privato e l'economia reale gli fa individuare nei Piani Individuali di Risparmio uno strumento prezioso, una rivoluzione su cui decide di scommettere con decisione ed energia nel 2017 facendosi apripista e portavoce verso l'intero sistema del risparmio gestito italiano. Una rivoluzione questa mai decollata davvero. L'unica forse tra le imprese del grande innovatore rimasta a metà.

Ennio Doris, l’amore per il mare, lo yacht da 60 metri e le maxi ville. Diceva: «Il lusso? Un investimento». Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2021. La villa di Tombolo, quella di Porto Rotondo, il super yacht Seven da 60 metri, la tenuta di Tor Viscosa. Ennio Doris, il fondatore di Banca Mediolanum scomparso all’età di 81 anni, è stato un grande imprenditore italiano e un grande amante del lusso che considerava un investimento. Si definiva «il medico del risparmio» in riferimento alla sua attività di banchiere e uomo dei numeri. Ad oggi secondo Forbes la sua famiglia vanta un patrimonio di 3,4 miliardi di dollari. Ma in quali beni ha investito Doris negli anni? 

Yacht e lusso

Il patron di Banca Mediolanum amava le barche e il mare, unica via di fuga dal lavoro quotidiano. Ha posseduto per 15 anni un Perini da 42 metri, il “Principessa Vaivia” comprato usato da Silvio Berlusconi. A Pressmare raccontava in un’intervista due anni fa: «L’incontro con il mare attraverso la barca è stato casuale: Silvio Berlusconi mi mise a disposizione il suo ketch, Principessa Vaivia, per poter completare e seguire i lavori di ristrutturazione della mia villa a Porto Rotondo in Sardegna. Non avevo un’esperienza in fatto di barche: avevo fatto solo una crociera nel Tirreno con la famiglia. Ma quando ho navigato su Principessa Vaivia ho avuto un colpo di fulmine! Decisi di comprarla e feci la mia proposta a Berlusconi».

Nel 2018 Doris ha acquistato uno nuovo gioiello dei mari da 60 metri, il Seven, pensato per passare il tempo in famiglia. Non a caso 7 era il numero dei nipoti di Doris al tempo dell’acquisto e per l’imprenditore si trattava di un numero fortunato. Diceva: «Io credo nelle coincidenze. Ecco, la mia è una vita costellata di coincidenze fortunate». Costruito nel 2017 dai Cantieri Perini Navi, lo yacht conta 5 cabine e può ospitare fino a 12 persone. Dal valore di 35 milioni di dollari, si tratta di una super imbarcazione che può viaggiare ad una velocità massima di 15-16 nodi. 

Le ville e la tenuta

Ma non ci sono solo le barche. Doris, di origini umili, ha sempre considerato «il lusso un investimento» come ripeteva in alcune interviste. Le sue maxi ville ne sono un esempio lamante. La villa di Tombolo, suo paese natale nel padovano, è una maxi residenza che conta perfino l’hangar per l’elicottero. Una proprietà che si aggiunge a quella di Porto Rotondo in Sardegna che svetta nella parte alta di Punta Volpe. Senza dimenticare la tenuta di Tor Viscosa in Friuli-Venezia Giulia. Acquistata da Doris dopo la crisi della famiglia Ferruzzi, conta 3.800 ettari e 2mila mucche. Raccontava Doris al Giornale: «Per chi, come me, è nato a Tombolo, la terra è importante. Prima della Grande Guerra era il paese più povero del Veneto, su 600 famiglie erano pochissime quelle che potevano coltivare i loro campi. Si tenevano in stalla due mucche e il benessere di una casa si misurava dalla grandezza del letamaio. Tor Viscosa è un po’ un simbolo. Poi ci sono i momenti in cui ti senti ricco e quelli in cui mi sono sentito povero». 

Il concetto di ricchezza

Della sua ricchezza Doris però non si è mai vantato. Al giornalista del Giornale che nel 2017 gli chiedeva che effetto facesse essere miliardario rispondeva: «Guardi, nessuno. Oltre un certo tenore di vita dei soldi non te ne accorgi più. Anche perché dopo un po’ lavori per realizzare un progetto, per lasciare un segno. A me è sempre piaciuta la parabola dei talenti. E non mi riferisco solo alla necessità di far fruttare le doti che ti trovi, ma alle opportunità che la vita ti offre. Io ho cercato di mettere a frutto le situazioni in cui la vita mi ha messo».

Addio al patron di Mediolanum Ennio Doris. Francesco Curridori il 24 Novembre 2021 su Il Giornale. Ennio Doris è stato l’imprenditore e il banchiere che, con la sua Mediolanum, ha contribuito a cambiare il modo di fare finanza e nel 2018 Forbes lo ha collocato al 17esimo posto tra gli uomini più ricchi d’Italia. Ennio Doris, morto oggi all'età di 81 anni. è stato l’imprenditore e il banchiere che, con la sua Mediolanum, ha contribuito a cambiare il modo di fare finanza. Nel 2018 Forbes lo aveva collocato al 17esimo posto tra gli uomini più ricchi d’Italia. Doris, nasce a Tombolo, in provincia di Padova, nel 1940 in una famiglia di agricoltori. Da bambino nutriva il desiderio di diventare venditore di bestiame ma a 10 anni contrae una brutta nefrite che lo costringe a dedicarsi allo studio. Si diploma quindi in ragioneria e, poi, lavora per 8 anni come venditore porta a porta per la Banca Antoniana di Padova e Trieste (oggi Antonveneta). In seguito viene nominato direttore generale in un’azienda manifatturiera ma nel ’71 passa al settore della consulenza finanziaria lavorando a provvigione prima in Fideuram e poi in Dival dove, nel giro di dieci anni, ottiene la carica di divisional manager con 700 persone alle sue dipendenze. È in questo periodo che gli viene in mente di creare un’impresa che sia capace di offrire al cliente una consulenza finanziaria “globale” su titoli, polizze assicurative e fondi comuni. Tutto nasce da un incontro con un falegname che stacca a Doris un assegno da 10 milioni di lire e, mostrandogli i calli delle mani, gli dice: “Si ricordi che io sono una persona che non può permettersi di ammalarsi, altrimenti la mia famiglia non vive. Quindi se lei gestirà bene i 10 milioni tra 15 anni potrò avere una somma che mi consentirà di ammalarmi”. “Quella stessa sera mi ha permesso di comprendere cosa avrei voluto fare. Mi sono detto: voglio avere successo perché sono utile alle persone, non perché sono bravo. Voglio sedermi come un medico di fronte al paziente, esaminare i suoi problemi e dargli ciò che gli serve. Quindi devo avere a disposizione tutti i farmaci del mio settore: quelli della banca, quelli dell’assicurazione e quelli della finanza”, racconterà Ennio Doris in un’intervista a Panorama.

La svolta negli anni '80: l'incontro con Berlusconi

Nel 1981 arriva la svolta. Doris legge sul mensile Capital un’intervista a Silvio Berlusconi, patron di Canale 5, che dice: “Se qualcuno ha un’idea e vuole diventare imprenditore, mi venga a trovare. Non vada da Agnelli o De Benedetti perché tanto non lo riceveranno. Io sì. E se l’idea è buona, la realizziamo insieme”. Casualmente poco tempo dopo i due si incontrano a Portofino e Doris espone al Cavaliere la sua idea di creare una banca che risolva “tutti i problemi del cliente e della sua famiglia”, la family banker, ossia una banca familiare perché“il cliente – dirà- non ha bisogno di sapere solo come investire il denaro ma ha tante esigenze che sono legate alla sua sicurezza finanziaria”. Doris racconta che, una volta ottenuto un appuntamento ad Arcore, mostrò i suoi risultati ottenuti con la Dival e disse al Cavaliere che “si poteva fare molto di più con un istituto, che oltre i fondi, vendesse anche le assicurazioni. Come accadeva all'estero. E inoltre – aggiunge a Panorama - gli spiegai che questa rete commerciale avrebbe anche potuto piazzare gli immobili che a quel tempo Berlusconi costruiva, a Milano2, a Milano3 ...” Il progetto piace a Berlusconi che, tramite Fininvest, entra in affari al 50% (solo a partire dal 2013 la partecipazione scenderà al 36%)con la nuova società di Doris, la Programma Italia che nel 1995 prende il nome di Mediolanum spa. L’anno seguente arriva la quotazione in borsa e nel ’97 nasce Banca Mediolanum, la prima banca che sfrutterà le potenzialità offerte da internet per l’home banking e il trading online. Dal 1999 Doris diventa il testimonial pubblicitario della Banca e l’anno successivo Mediolanum acquisisce la spagnola Finbanc e col 2% entra in Mediobanca. Lo slogan “una banca intorno a te” entra nelle case degli italiani e nel 2002 Doris viene nominato Cavaliere del Lavoro.

La crisi finanziaria del 2008 e il passaggio del testimone col figlio

Nel 2008, dopo la grave crisi finanziaria, Doris capisce che deve intervenire. “In quel momento stavamo cercando di far capire al mercato che non eravamo una banca come le altre. Quella di Lehman Brothers era l’occasione per dimostrare che eravamo diversi, ma per esserlo bisognava mettersi le mani in tasca”, spiega Doris che decide di rimborsare i suoi clienti. Come fare? “Sono andato dal mio socio Silvio Berlusconi e gli ho detto: dobbiamo aiutare i nostri clienti. Però se la banca impiega 160 milioni utilizza quasi tutti gli utili e gli azionisti di minoranza avrebbero qualcosa da dire, perché noi per solidarietà possiamo spendere l’1, il 2, il 3% ma non certo il 90%. Dobbiamo pagare noi: il 40% era già a carico della mia famiglia e il 36% di Fininvest. Berlusconi mi ha detto sì subito, paghiamo noi il 100%”, spiegherà il banchiere di Tombolo. “Questo è lo spirito con cui abbiamo agito anche in altre occasioni. Per esempio - racconterà ancora - quando c’è stato il terremoto nel centro Italia, siamo stati subito presenti con risarcimenti danni a fondo perduto, distribuzione dei bancomat smarriti durante la catastrofe, sospensione dei pagamenti delle rate del mutuo e annullamento degli interessi”. Nel 2014 sarà il figlio Massimo a prendere il suo posto alla guida dell’azienda e anche negli spot pubblicitari. Di lui il padre ebbe sempre una grande stima:“È istintivo ed è convinto che ogni problema nasconda un’opportunità. Questo lo ha imparato da me. Poi però è bravo anche a passare all’attuazione pratica”. E ancora: “Di fronte a qualsiasi difficoltà io so che c’è Massimo che sa come fare. È la cosa che apprezzo di più anche perché colma una mia lacuna”. Una stima sempre ricambiata dal figlio che di Ennio disse: “È geniale, vede sempre prima degli altri e non si può copiare. Però ha una caratteristica che invece si può emulare. Succede qualcosa: non perde più di tre, quattro secondi a lamentarsi del problema. Si mette subito a cercare la soluzione e dieci secondi dopo ha già tentato di capire come volgere la situazione a suo favore”.

Ennio Doris e Silvio Berlusconi, il primo incontro a Portofino. "Perché mi invidiava". Libero Quotidiano il 24 novembre 2021. Il colpo di fulmine tra Ennio Doris e Silvio Berlusconi? In spiaggia, a Portofino. Il fondatore di Mediolanum banca, scomparso a 81 nella notte, lo aveva rivelato qualche mese in una strepitosa intervista di Stefano Lorenzetto sul Corriere della Sera. Il banchiere aveva in mente unna nuova avventura, Programma Italia, "ma servivano capitali enormi, che non avevo. Approfittai di un viaggio a Genova, dove incontrai il fiscalista Viktor Uckmar, per portare mia moglie a Portofino. E sul porticciolo chi vidi? Silvio Berlusconi. Parlava con un pescatore che stava riparando le reti". "Lo riconobbi - ricordava Doris - perché la sua foto era su Capital, a corredo di un’intervista in cui dichiarava: 'Chi ha una buona idea, si rivolga a me'. Gli dissi: la ammiro molto, posso stringerle la mano? Ne fu lusingato". Il primo incontro, rapidissimo, fu un successo: "Gli illustrai brevemente un progetto sugli immobili. Lui mi pose tre domande. Alla terza, dimostrò di aver capito il mio settore più di me. Non avevo mai conosciuto in vita mia una simile capacità d’impadronirsi di un argomento. Passati 15 giorni, mi convocò ad Arcore". Lì, sotto la veranda, l'affare fatto: "Mi ero presentato con un dossier che raccoglieva i profili di 3.000 clienti, giusto per dimostrargli che non partivo da zero. In quel momento mia madre mandò dal cielo un colpo di vento che sparse tutti quei fogli sul prato. Le pagine sembravano migliaia, anziché un centinaio. Di solito Berlusconi era abituato a incontrare interlocutori del genere: 'Guadagno tanto, quindi deve darmi di più'. Io gli dissi solo: da lei non voglio niente, facciamo una società al 50 per cento. Ci stringemmo la mano. Non servì altro". Non solo lavoro e business, il Cavaliere considerava Doris il suo più grande amico insieme a Fedele Confalonieri e Gianni Letta. "Silvio è sempre generoso, anche nei paragoni. Per lui l’amicizia ha un valore assoluto. Non la tradirà mai". Impossibile litigare con lui, "è troppo buono". Ma Berlusconi un po' di invidia per Doris la provava. Per il suo matrimonio solidissimo: "Hai trovato subito la donna giusta”. 

Imprenditore e banchiere. È morto Ennio Doris, il fondatore di Banca Mediolanum aveva 81 anni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Novembre 2021. È morto Ennio Doris. Il fondatore e presidente onorario di Banca Mediolanum aveva 81 anni. A dare l’annuncio la moglie Lina Tombolato e i figli Sara e Massimo. I familiari hanno fatto sapere che “in questi giorni di lutto” desiderano “mantenere uno stretto riserbo” che chiedono a tutti di “voler rispettare”. Dipendenti e collaboratori del gruppo “si stringono uniti e partecipi attorno alla famiglia Doris e, con enorme commozione, rendono omaggio a Ennio Doris, grande uomo e straordinario imprenditore”, si legge in una nota. Il cordoglio espresso in una nota anche da parte del fondatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi: “Ci ha lasciato Ennio Doris. Un grande uomo, un grande imprenditore, un grande patriota, un grande italiano – ha scritto l’ex Presidente del Consiglio – Un uomo generoso, altruista, sempre attento agli altri, sempre vicino a chi aveva bisogno. Ci mancherà molto, mi mancherà moltissimo. A Massimo, a Sara, a Lina la mia vicinanza e tutto il mio affetto”. Doris era nato a Tombolo, in provincia di Padova, il 3 luglio del 1940. Aveva sposato Tombolato nel 1966. Aveva sette nipoti. Era stato premiato con l’onorificenza di ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica nel 1992 e nel 2002 aveva con l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro. L’imprenditore è stato dal 2000 al 2012 consigliere di amministrazione di Mediobanca e di Banca Esperia. Dal 1996 al 2015 era stato amministratore della holding Mediolanum, fino alla fusione per incorporazione in Banca Mediolanum. Era diventato presidente onorario nel novembre del 2012. Aveva fondato “Programma Italia”, prima rete di consulenti globali nel gruppo del risparmio nel 1982, dopo l’incontro con Silvio Berlusconi. Obiettivo della rete, fondata con il gruppo Fininvest di proprietà di Berlusconi, era “diventare il punto di riferimento della famiglia italiana per il risparmio”. Tre anni dopo la fondazione dell’holding Mediolanum spa cui fanno capo tutte le società del Gruppo. Nel 1997 la trasformazione di “Programma Italia” in Banca Mediolanum. Doris, nel 2018, si era classificato al 17esimo posto tra gli uomini più ricchi d’Italia secondo la rivista Forbes. Il suo patrimonio era stimato intorno ai tre miliardi di dollari. Nel 2019 Banca Mediolanum valeva oltre sei miliardi di euro e contava oltre ottomila dipendenti. Doris aveva donato nel marzo 2020 cinque milioni di euro alla Regione Veneto per sostenere la lotta alla pandemia da covid-19. Il figlio Massimo Antonio Doris è amministratore delegato di Banca Mediolanum S. p. A. La figlia Annalisa Sara Doris è presidente esecutivo della Fondazione Mediolanum Onlus e consigliere di Banca Mediolanum S.p.A. Pochi mesi fa, dopo aver compiuto 80 anni, Doris aveva annunciato il suo ritiro dalla gestione quotidiana del suo gruppo finanziario: “Superando la soglia degli 80 anni penso sia venuto il momento di ridurre almeno in parte il mio impegno quotidiano nella banca”, aveva dichiarato. Si legge in una nota: “Per oltre 40 anni è stato indiscusso protagonista della grande finanza italiana nonché imprenditore, banchiere e fondatore di Banca Mediolanum, una delle più importanti realtà del panorama bancario nazionale presente anche in Spagna, Germania e Irlanda”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Ennio Doris, i funerali a Tombolo: «Curò gli interessi altrui come i propri». Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2021. C’è un bel presepe verde all’inizio della navata di destra della piccola chiesa di Sant’Andrea Apostolo a Tombolo, il clima è già natalizio. Ma non ci sono addobbi, solo pochissimi fiori per l’addio a Ennio Doris, il fondatore di Mediolanum scomparso a 81 anni la notte tra martedì e mercoledì. Una scelta della famiglia, che ha chiesto piuttosto donazioni alla fondazione della banca. 

I big della finanza

Pur nella semplicità delle forme, sembrava un funerale di Stato in un paesino del profondo Veneto. La piccola piazza S. Pio X blindata e transennata, il saluto militare di poliziotti e finanzieri sul sagrato al passaggio del feretro, la diretta tv su Rete4, in sindaco in fascia tricolore, il flautista Andrea Graminelli sull’altare, il messaggio del cardinale Camillo Ruini, tanti big della finanza presenti come Alessandro Benetton, Marco Tronchetti Provera, Matteo Marzotto, Alberto Nagel, Saverio Vinci, Renzo Rosso, Davide Serra, Arnoldo Mosca Mondadori. E naturalmente — arrivato con la moglie di Doris, Lina Tombolato, i figli Massimo e Sara, i sette nipoti — l’amico di una vita e socio Silvio Berlusconi con la fidanzata Marta Fascina, il fratello Paolo, i figli Marina, Luigi e Eleonora.

Silvio Berlusconi commosso alla camera ardente di Ennio Doris

La piazza gremita

Davanti alla centenaria trattoria «Ai mediatori» — quello di mediatore di bestiame era il mestiere del padre di Doris, ed Ennio pensava che avrebbe seguito la stessa strada — è stato collocato uno dei cinque maxischermi che hanno consentito a migliaia di cittadini di seguire la messa funebre officiata dal parroco del paese, Bruno Caverzan. Di fronte all’entrata della chiesa — restaurata nel 2014 con il «significativo contributo dei Doris» —, una tensostruttura montata in tutta fretta per 152 banker di Mediolanum.

Le origini povere

Pur diventato multimiliardario, Doris era rimasto profondamente ancorato alla sua campagna, al suo territorio e anche alla casa d’origine, che aveva ricomprato. E quando aveva costruito la grande villa fuori dal paese — «cinquemila metri quadrati e oltre, pareva che dovessero fare un centro commerciale», ricorda qualcuno in piazza — aveva voluto allestire in una stanza il vecchio tinello dei genitori, per non dimenticare mai da dove era venuto. «Venivi da Rondiello, quartiere povero di un paese povero, una casa di sei stanze con quattro camere da letto per quindici persone e senza bagno, si usava il letamaio», ha ricordato commosso il figlio Massimo, che da tempo ha preso le redini della banca. «Il tuo impegno e la tua passione ci hanno regalato una vita fatta di scelte. E scegliere, non è un lusso consentito a molti», ha letto la nipote Aqua, figlia di Sara Doris e Oscar di Montigny.

Il ricordo di Ruini e di Zaia

«Ennio Doris è stato un banchiere speciale, capace di curare gli interessi degli altri come i propri», è il messaggio del cardinal Ruini. Religiosissimo, innanzitutto verso Tombolo è stato generoso: «Quando venni eletto mi disse “questo è il mio numero, se qualcuno ha bisogno io ci sono”» — ha ricordato il sindaco Christian Andretta — «ha dato una mano a tante persone che non potevano pagare le cure, trasporti in elicottero, donazioni a chi era in difficoltà». A Doris sarà presto dedicata una piazza o la biblioteca comunale. «Volle donare 5 milioni alla Regione; mi disse “fai in modo che i veneti non si ammalino”», ricorda il governatore Luca Zaia.

Quella "D" che spiega davvero chi era Ennio Doris. Evi Crotti il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. La personalità del presidente di Banca Mediolanum recentemente scomparso. Mai l’aggressività è stata utilizzata nella sua vera accezione (adgredi = andare verso) in modo tanto produttivo come è avvenuto per Ennio Doris. Lo slancio nel sottolineare la lettera “D” mette in evidenza un desiderio di essere protagonista volendo incidere nella vita sociale. Infatti, almeno grafologicamente parlando, la firma evoca la paternità, legata quindi al desiderio, più o meno presente, di conquista e di realizzazione di sé. Inoltre, la notevole energia vitale che emerge dalla firma di Ennio Doris indica vigoria, produttività e uno stato di continua “immersione” nel voler essere sempre fecondo e produttivo per sottolineare il proprio valore. È persona che porta avanti anche la sua vita personale e affettiva in modo essenziale e senza fronzoli. Infatti, nel tracciato della firma si nota come il nome Ennio presenti una contrazione del gesto a rappresentare un’essenzialità di modi e di atteggiamenti dovuti ad un Io che non cede alle lusinghe del successo e che porta avanti, con la stessa intensità, il sociale e il privato, senza peraltro confonderli. Il nome Ennio, ossia l’individualità della persona, viene nettamente distinta dal cognome espressione della voglia di scalare e di imporsi nel sociale. È proprio nell’iniziale del cognome che si trova l’identificazione con la figura paterna nei confronti del quale egli ha sempre mantenuto un’ammirazione quasi sacrale che ha fatto da spinta e da motore alla sua scalata. Va anche detto che Ennio Denis non era affatto sprovveduto di mezzi e di strumenti per superare gli ostacoli della realtà lavorativa. In questo senso egli ha usato, in maniera intelligente e sottile, la furbizia di chi sa restare umile.

"Grazie da noi bimbi". Il saluto del banchiere rimpianto da tutti. Le lacrime dei figli: "Eri come Superman". Stefano Zurlo il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. I funerali in Veneto, nel paese natale del fondatore di Mediolanum. Il cartello colorato preparato dai piccoli, il dolore della famiglia Berlusconi, l'omaggio dell'alta finanza Don Bruno: "Ha fatto del bene a tante persone". Tombolo (Pd). Su un muro, accanto all'ingresso della chiesa di Sant'Andrea Apostolo, c'è un cartello scritto con caratteri allegri e tremolanti: «Grazie Ennio da tutti i bambini di Tombolo». Sotto quel poster passano tutti i potenti che entrano nel tempio neoclassico, quasi una prosecuzione del paesaggio palladiano, e quelle parole danno la misura della giornata: quello di Ennio Doris è un funerale particolare. Niente sfarzo. Semplicità e coralità. Il paese e la comunità finanziaria stretti intorno al feretro di un uomo che era diventato famoso ma non aveva perso i colori della fiaba. Gli amici e i compaesani fanno grappolo davanti ai maxischermi, piazzati un po' ovunque fra le case e i capannoni, quel mix unico di città e campagna, di antico e contemporaneo che è il Veneto. Dentro ci sono i Berlusconi: Silvio, accompagnato da Marta Fascina, e i figli Marina col marito Maurizio Vanadia, Eleonora e Luigi; il fratello Paolo Berlusconi che è arrivato con la figlia Alessia. E poi il numero uno di Mediobanca Alberto Nagel, Alessandro Benetton, Renzo Rosso, Marco Tronchetti Provera, Matteo Marzotto, insomma un pezzo di miracolo italiano, ma sono presenze defilate, quasi in secondo piano. «Ennio è qui e non è qui», spiega come si può spiegare la morte don Bruno Caverzan, il parroco di Tombolo. E si capisce che aveva una grande confidenza con il banchiere che dava del tu ai grandi ma non aveva perso il filo diretto con il sacerdote. «Ennio - prosegue - mi diceva: Ma come farà un ricco ad entrare nel regno dei cieli se è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago?. La sua domanda - annota il reverendo - la teniamo aperta, ma lui ha risposto con i fatti. Ha fatto il bene, a tante persone, c'era sempre». E forse, c'è ancora: «Dolcissimo nonno - mormora al microfono la nipote, la venticinquenne Aqua di Montigny - questo viaggio verso il cielo non potevi che farlo tu per primo, perché Ennio Doris ha sempre visto più in là degli altri. Il tuo esempio di amore verso la nonna è stato sacro. Non ti preoccupare per lei, ce ne occupiamo noi». Lina, vestita di azzurro e ancora bellissima, sorride con cenni di approvazione quando le parole accorciano e quasi schiariscono il buio del mistero. Le telecamere di Rete 4 portano le immagini nelle case degli italiani, mentre Gianni, amico di una vita, piange appoggiato alla transenna, fra le mani un libro autografato da Ennio. Sara, oggi presidente della Fondazione Mediolanum, piange il padre con l'abbraccio che solo una figlia può dare: «Che dono incantevole che tu sia mio papà». Massimo, l'amministratore delegato del gruppo, commuove e si commuove: «I banchieri non godono di simpatie, ma tu eri amato». Ancora di più da chi raccoglie oggi il testimone: «Quando ero un bambino, papà tu per me eri Superman. Poi sono diventato grande, ma tu per me sei rimasto Superman». Gli oratori descrivono piccoli episodi di un uomo grande. E affiora tutto lo spessore di una personalità battezzata nell'ottimismo e nella fede della sua terra. Forse, sia detto senza retorica, ha ragione Fedele Confalonieri che a Vittorio Macioce del Giornale aveva detto: «Per me Doris è un santo. Laico, ma pur sempre santo». Si capisce che i preti impegnati nella celebrazione sono quasi imbarazzati, tanti sono gli episodi che potrebbero raccontare e si intuisce anche in filigrana che l'avventura di Mediolanum è figlia di quella cultura, di quella capacità di trattare il prossimo come uno di famiglia. «La settimana prima di morire - aggiunge don Bruno - Ennio mi ha fatto arrivare un messaggio che voleva far arrivare a tutti: Senza la fede è difficile, molto difficile superare le prove dell'esistenza, soprattutto le malattie. Ecco, io credo che questo sia il suo testamento spirituale». La fede e le opere. «Dall'Amazzonia all'Africa tante persone che lui ha aiutato oggi pregano con noi». Non è una festa, ma le esequie, così cariche di umanità, accendono una scintilla di eterno nel giorno in cui la biografia arriva all'ultima pagina. Il flauto di Andrea Griminelli accompagna il feretro all'uscita sulle melodie struggenti ed epiche di «Mission». La folla assiepata applaude, Silvio Berlusconi rientra nel furgone scuro stringendo la mano di Marta Fascina. Il governatore del Veneto Luca Zaia, quasi infastidito dalle telecamere, rivela: «Qualche tempo fa sono andato a trovare Doris all'ospedale di Castelfranco e sono rimasto con lui e Lina a lungo. Anche in quel letto di ospedale era sempre positivo». È stata la sua grande lezione. Rete 4 si congeda, un piccolo corteo accompagna la bara al cimitero del paese. Stefano Zurlo 

"Qui è scappato dalla povertà e tornava sempre per aiutare il paese". Stefano Zurlo il 28 Novembre 2021 su Il Giornale.  Viaggio a Tombolo, il centro contadino dove è nata la favola di Ennio Doris.

Tombolo (Pd). Gianni, l'amico con il berretto in testa e gli occhi che trattengono le lacrime, spiega tutto con una battuta: «La casa vecchia varrà sì e no cinquemila euro, quella nuova, la villa che Ennio si era costruito appena fuori dal paese, ci metti due ore per visitarla e ha un parco che non finisce più».

Tombolo, ottomila abitanti nella campagna piatta: da qui Ennio Doris è partito, qui tornava appena poteva. Un puntino sulla carta, a due passi dalle mura di Cittadella. La miseria che tutti i veneti hanno nello specchietto retrovisore. Ma anche la magia della gioventù che il banchiere non aveva mai abbandonato.

«Giovedì, il giorno dopo che è morto papà - racconta al microfono Massimo Doris - sono andato in ufficio a Milano3. Oggi abbiamo 3200 dipendenti e 5500 family banker, ma mio padre da bambino abitava a Tombolo, un paese povero, anzi a Rondiello, il quartiere povero di un paese povero». In quell'abitazione così modesta «c'erano sei stanze: quattro camere e due cucine, il bagno - aggiunge Massimo - non c'era perché si andava fuori sul letamaio. Dentro, ci vivevano in quindici o sedici».

Una vita contadina in un paese di mediatori di bestiame. L'odore degli animali che ti entra dentro. Un destino segnato e invece una malattia, la nefrite, dirotta Ennio verso lo studio e nuovi orizzonti. «Era ambizioso - spiega la signora Marina che lo conosceva bene - voleva tirarsi fuori da quella povertà e la ragioneria è stata la strada».

Il cordone ombelicale con Tombolo però non l'aveva mai reciso. Il fine settimana, appena c'era la possibilità, si materializzava in Veneto. «Giocavamo a briscola, anzi a briscolone, qui al bar Centrale, davanti alla chiesa - va avanti Gianni - Grandi partite, in sei, e ricordo una volta che ci fregò e poi pago il gelato a tutti a Cittadella».

Ognuno ha il suo aneddoto in un borgo che ha lasciato il vestito della povertà ma non ha perso la dimensione della porta accanto. «Lui veniva in sagrestia senza che io glielo chiedessi, sempre accompagnato da Lina - ricorda don Bruno, il parroco che officia la cerimonia funebre - e ad ogni spesa per restauri e lavori vari ripeteva sempre: Noi ci siamo, la famiglia è pronta a dare il suo aiuto. Ma una volta che avevano raccolto dei soldi e una bambina aveva dato tutti i suoi piccoli risparmi, lui aveva aggiunto: Vedi, quella bambina ha dato più di me».

Tombolo come unità di misura per affrontare le sabbie mobili della metropoli e della grande finanza, Tombolo ben più di un rifugio. Anche se poi c'era la geografia domestica a rassicurarlo: le cene al ristorante, al tavolo dei Mediatori, il baccalà mantecato e una bottiglia di Amarone. Altre volte gli chef proponevano i piatti della tradizione nella cornice domestica e d'altra parte lui era attaccato alle sue radici. In un modo quasi fisico.

Nella casa dove oggi i Doris si ritrovano c'è un tinello che ospita il tavolo e le sedie dell'infanzia. Cimeli custoditi gelosamente: quasi una ricostruzione storica, come se ne vedono nei musei. Un sancta sanctorum di famiglia, a mostrare che lì tanti anni fa era cominciato tutto. «Caro nonno - afferma la nipote Aqua - il tuo impegno e la tua passione ci hanno regalato una vita fatta di scelte. E scegliere non è un lusso consentito a molti».

Forse, è stata una delle conquiste di cui Ennio Doris andava più fiero: aver permesso ai due figli e a cascata ai sette nipoti, i «seven», di rompere il cerchio di esistenze tutte uguali e di poter esplorare il mondo. Ma senza mai allontanarsi troppo.

Ci sono molte storie imprenditoriali di successo nella generazione di Doris. Chi conosce per esempio la biografia di Ernesto Pellegrini, oggi a capo di un grande gruppo nella ristorazione, può leggere in controluce la stessa povertà contadina, parallela a quella del banchiere, solo ambientata in una cascina alla periferia di Milano, quasi ai bordi della pista di Linate.

Analogie sorprendenti, tenacia e fedeltà in cassaforte, nell'Italia che scalava le gerarchie dei Paesi industrializzati ed entrava nel club dei Paesi più avanzati. Ma molte dinastie da prima pagina hanno perso sui tornanti del benessere il legame con le origini. E la combinazione segreta di quei valori. Doris no. E a Tombolo è rientrato anche per l'ultimo viaggio. Stefano Zurlo 

"Senza fede non si supera nulla". L'ultimo messaggio di Doris. Valentina Dardari il 27 Novembre 2021 su Il Giornale. Ai funerali cinquemila persone, tra cui Berlusconi, Tronchetti Provera, Zaia e Benetton. Commovente il ricordo del figlio Massimo. “Il mondo a Tombolo non si era mai visto, Ennio ce l’ha portato. Non stiamo assistendo a un evento, ma partecipando a una celebrazione esequiale la dove completiamo l’umano e il divino che in questo rito si abbracciano insieme” ha asserito don Bruno Caverzan durante l’omelia per l’ultimo saluto a Ennio Doris, nella Chiesa Parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo, a Tombolo, comune in provincia di Padova. Le esequie sono state trasmesse in diretta televisiva su Rete 4. Alla funzione religiosa c’erano davvero tutti, anche il governatore del Veneto Luca Zaia. Ma non solo, anche il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, con i figli Marina e Piersilvio, Alberto Nagel, Marco Tronchetti Provera, Alessandro Benetton, Matteo Marzotto.

5mila persone per salutare Ennio Doris

In circa 5mila persone hanno accolto l’arrivo del feretro in chiesa con un lungo e commosso applauso per salutare Ennio Doris, fondatore di Banca Mediolanum, deceduto nella notte tra martedì e mercoledì scorsi a 81 anni. Un milanese d’adozione, che non aveva però mai dimenticato le proprie origini venete. Sembra infatti che Doris tornasse nel suo paese, Tombolo, ogni fine settimana. Sono stati allestiti 5 maxi schermi per proiettare le immagini all’esterno della chiesa. La bara è stata accolta alle 14.15 sulla porta dell'edificio sacro con la benedizione del parroco, don Bruno, e ha varcato la soglia accompagnata dalle note dell’Ave Maria di Schubert. Il figlio Massimo, la figlia Sara e la moglie Lina Tombolato hanno seguito la bara in legno chiaro.

Addio al patron di Mediolanum Ennio Doris

Il primo a ricordare Doris è stato Stefano Volpato, direttore commerciale di Banca Mediolanum: “Ciao Ennio, oggi siamo qui a Tombolo, la tua Tombolo, il tuo posto, la casa della tua famiglia. Quante volte mi chiedevano: ma davvero Ennio torna a Tombolo ogni fine settimana? Sì, amavi dire che l'uomo è come un albero e l'ampiezza dei suoi rami è direttamente proporzionale alla profondità delle sue ragioni. Qui hai scoperto i valori più veri, più profondi, cosa è giusto o sbagliato. Ma oggi non voglio parlare di te ma con te”. Dopo averlo ricordato come un esempio per tutti, Volpato ha aggiunto: “Grazie, grazie di cuore, è stato un privilegio viaggiare con te, ci hai mostrato scenari fantastici, che onore aver potuto far parte della tua vita”. Ha poi promesso che il suo sogno sarebbe continuato e cresciuto. È stato poi il turno di Giovanni Pirovano, presidente di Banca Mediolanum: “Da Tombolo è partito il tuo sogno, qui tutto parla di te. Oggi siamo nella tua chiesa testimoni della tua grande fede che potevamo vedere nella tua azione quotidiana. Mi hai voluto conoscere tanti anni fa per creare una banca a servizio della persona e subito ho compreso la tua grandezza, la tua intelligenza visionaria”.

Il ricordo commosso del figlio Massimo

Anche Pirovano ha voluto promettere a Doris che “tutti noi continueremo a far crescere banca Mediolanum nel rispetto dei tuoi valori per portarti sempre con noi vivo nei nostri cuori. E' un dono di Dio averti incontrato”. Poi ancora il ricordo dei suoi 7 nipoti e della figlia Sara, salita sul pulpito con il fratello Massimo. Quest’ultimo ha ricordato: “Giovedì, mentre preparavo la camera ardente, pensavo a quello che sei riuscito a creare partendo da nulla, da Tombolo da un quartiere povero di un paese povero, dove vivevate in una casa in quindici. Sei partito dal niente e hai costruito tutto questo. I banchieri non godono di simpatia, ma tu eri amato, basta vedere quante attestazioni di stime ci sono giunte, anche dai concorrenti. In Banca Fideuram 350 consulenti finanziari si sono alzati in piedi e ti hanno tributato un applauso. Sei stato un grandissimo papà. Per un bambino il papà è un supereroe, poi uno cresce e si rende conto che il papà è una persona come le altre. Beh, per me sei sempre rimasto Superman e sempre lo sarai. Buon viaggio papà” ,ha concluso con le lacrime agli occhi.

L'ultimo messaggio

Durante l'omelia è stato letto anche l'ultimo messaggio che Ennio Doris ha voluto lasciare come eredità: "Senza la fede è difficile, molto difficile superare qualsiasi cosa, soprattutto le malattie. Questo messaggio voglio farlo pubblicamente, in modo da far pensare anche a livello di fede". Poco dopo sono state le note della colonna sonora di "Mission", composta da Ennio Morricone a dare l'ultimo saluto al banchiere. Il feretro è poi stato portato fuori dalla chiesa ed è stato accompagnato, tra gli applausi di una folla commossa, nel piccolo cimitero di Tombolo. Al termine della cerimonia Silvio Berlusconi si è avvicinato alla moglie di Doris, Lina Tombolato, per porgere alla vedova le sue condoglianze. Un altro lungo applauso ha poi accompagnato l'uscita del feretro dalla chiesa.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.  

Il visionario del risparmio. Augusto Minzolini il 25 Novembre 2021 su Il Giornale. I visionari sono quegli uomini rari, che guardando il presente immaginano il futuro. I visionari sono quegli uomini rari, che guardando il presente immaginano il futuro. Ennio Doris a suo modo è stato un visionario, un innovatore, per alcuni versi, un rivoluzionario perché ha creato una nuova idea di banca, precorrendo i tempi e rischiando come sanno fare solo i veri pionieri. Si può dire, visto che i due sono stati amici per una vita e hanno cominciato l'avventura di Mediolanum insieme, che Doris ha cambiato l'istituto del risparmio in questo Paese, come Silvio Berlusconi la politica. Ha prima sognato e poi realizzato istituti di credito a misura d'uomo, senza sportelli per cancellare la distanza con i clienti perché nella sua mente sono stati sempre loro, con i loro risparmi, la banca. Ha cancellato la nozione ottocentesca degli istituti di credito e ne ha riscritto i principi. Alcune sue frasi celebri, immaginifiche e profetiche, ricordano quelle di quei pensatori che hanno cambiato il mondo: «Le banche sono come le cabine telefoniche. Non ci entra più nessuno, per cui spariranno». Non è solo una «provocazione», ma il germe di un progetto ambizioso: creare un rapporto diretto tra risparmio privato ed economia reale. Appunto, il visionario pensa l'impossibile, mette in piedi una banca per superare la stessa idea di banca, per costruire qualcosa che ne sia la negazione e la sintesi. È come se un qualunque correntista, provando sulla propria pelle i limiti, i vizi, i difetti, le vessazioni degli istituti di credito tradizionali, ne abbia costruito uno a sua immagine e somiglianza. In fondo il messaggio contenuto in quella pubblicità rimasta storica, «la banca costruita intorno a te», sta a significare proprio questo. Ecco perché quella formula, «la banca etica», non è frutto di retorica, ma è l'approdo ideale di un self-made man che si è inventato una banca sui bisogni dei comuni cittadini, di quella classe media a cui apparteneva. Ed è stato coerente con quel sogno: quale banchiere avrebbe ridato i soldi indietro ai correntisti durante la crisi finanziaria della Lehman Brothers? Quale istituto di credito si sarebbe preso sulle spalle il peso di anticipare ai clienti i «ristori» stanziati dallo Stato per tenere in piedi la nostra economia durante la pandemia? In questo Paese purtroppo la politica, l'ideologia avvelenano, ma i meriti, specie se sono grandi, quando si arriva a fare il bilancio di una vita dovrebbero essere riconosciuti da tutti.

Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera pubblicato da Dagospia il 24 novembre 2021. Dicono che la sua arma migliore sia il sorriso con cui persuade i clienti, arrivati alla cifra record di 1,5 milioni. Ma forse il segreto di Ennio Doris, 80 anni compiuti venerdì scorso, è un altro: lo sguardo dei Rizzardi, gli zii di sua madre Agnese. Quello magnetico di Carlo, maestro elementare a Tombolo, nel Padovano, che ipnotizzò intere generazioni di bambini, 60 per volta, terza, quarta e quinta in un’unica classe. «Entrava in aula, la cagnara cessava di colpo e chi stava per dare un calcio al compagno restava pietrificato con il piede a mezz’aria», ricorda divertito Doris. Non che l’altro zio, Giovanni, fosse da meno: una sera a cena fissò il gatto che lo molestava e il felino, terrorizzato, balzò fuori dalla finestra rompendo il vetro. Per non parlare di mamma Agnese: «Le rare volte in cui discuteva con papà, lei a un certo punto lo trafiggeva con gli occhi e lui li distoglieva da sé gridando “fute, fute!”, le due paroline usate per far scappare il gatto». Alberto Doris, il padre, era un mediatore di bestiame. Lo chiamavano El Vai, storpiatura di Edelweiss, le sigarette preferite, quelle con la stella alpina sul pacchetto. Suo figlio Ennio divenne «el fiólo del Vai carne», la ragione sociale di famiglia nel soprannome. A 10 anni avrebbe voluto abbracciare lo stesso mestiere. Una nefrite lo costrinse a cambiare strada: ragioniere. Oggi il fondatore di Banca Mediolanum può dire che si trattò di un colpo di reni per fare gol nella vita. 

Però un po’ di stalla le toccò lo stesso.

«Per fortuna. Lì capii che il lavoro serve a dimostrare chi sei. Il venerdì alle 2 di notte davo alle vacche il bevarón, acqua e semola, che le gonfiava, facendole sembrare più pasciute. 

Poi le strigliavo ben bene e alle 4 del mattino le portavamo al mercato di Castelfranco Veneto. Difficile che qualcuna tornasse indietro». 

Come le venne in mente, nel 1998, di fondare una banca senza sportelli?

«Il porta a porta lo imparai nel 1960 all’Antoniana, da impiegato nell’agenzia di San Martino di Lupari. Di pomeriggio era chiusa e così consegnavo a domicilio gli assegni circolari. Pensai di applicare il metodo in Italia. Capivo che gli sportelli avrebbero fatto la fine delle cabine telefoniche, nonostante un’agenzia fosse arrivata a valere 8-10 milioni di euro». 

La molla era scattata 30 anni prima.

«Sì, il giorno in cui decisi di lasciare la banca e andare a lavorare per Dino Marchiorello, titolare delle Officine di Cittadella. Scesi dalla mia Fiat 850 con i tappetini di plastica e salii sulla sua Citroën Pallas. I piedi affondarono nella moquette. Pensai: ne avrò una uguale. Nel 1981, divenuto broker della Dival, gruppo Ras, guadagnavo 100 milioni al mese».  

Allora perché cercarsi altri affanni?

«Sono abituato a inseguire le cose in cui credo. Mi dia pure dell’incosciente. Nel 1969 avevo lasciato Marchiorello per vendere fondi d’investimento con Fideuram. A trascinarmi fu Gianfranco Cassol, un mio ex compagno di scuola. “Si lavora a provvigione”, mi spiegò. Formula magica, che di solito spaventa tutti. Il guadagno dipendeva solo da me. Mi alzavo alle 6 e cenavo dopo mezzanotte. Sabato compreso. La domenica mattina riunione con Cassol, il pomeriggio dedicato alla famiglia. Vivevo per i clienti». 

Mi ha persuaso: le do dell’incosciente.

«Il successo è solo statistica. Ogni tot persone, di sicuro una i soldi te li dà».

Uno dei primi fu un falegname.

«Esatto. Mi allungò un assegno da 10 milioni di lire e mi chiese: “Sa che cosa le ho dato?”. Sì, 10 milioni. “No, lei si sbaglia”. Controllai la cifra: era corretta. “Le ho dato questi”, e mi mostrò i calli mostruosi che aveva sui palmi delle mani. “Si ricordi che io non posso permettermi il lusso di ammalarmi, perché senza risparmi la mia famiglia morirebbe di fame”. Una pugnalata al cuore. Diventare altruista fu il mio modo di essere egoista. Dovevo trasformarmi nel medico del risparmio, dare alle persone i farmaci giusti per le loro esigenze: polizze infortuni, previdenza integrativa, assicurazioni, fondi comuni, servizi bancari, case». 

E così nacque Programma Italia, progenitrice del gruppo Mediolanum.

«Ma servivano capitali enormi, che non avevo. Approfittai di un viaggio a Genova, dove incontrai il fiscalista Viktor Uckmar, per portare mia moglie a Portofino. E sul porticciolo chi vidi? Silvio Berlusconi. Parlava con un pescatore che stava riparando le reti. Lo riconobbi perché la sua foto era su Capital, a corredo di un’intervista in cui dichiarava: “Chi ha una buona idea, si rivolga a me”. Gli dissi: la ammiro molto, posso stringerle la mano? Ne fu lusingato. Premettendo che raccoglievo 10 miliardi di lire al mese per Dival con una squadra di 800 persone, gli illustrai brevemente un progetto sugli immobili. Lui mi pose tre domande. Alla terza, dimostrò di aver capito il mio settore più di me. Non avevo mai conosciuto in vita mia una simile capacità d’impadronirsi di un argomento. Passati 15 giorni, mi convocò ad Arcore». 

Voleva saperne di più?

«Già. Mi ricevette in veranda. Mi ero presentato con un dossier che raccoglieva i profili di 3.000 clienti, giusto per dimostrargli che non partivo da zero. In quel momento mia madre mandò dal cielo un colpo di vento che sparse tutti quei fogli sul prato. Le pagine sembravano migliaia, anziché un centinaio. Di solito Berlusconi era abituato a incontrare interlocutori del genere: “Guadagno tanto, quindi deve darmi di più”. Io gli dissi solo: da lei non voglio niente, facciamo una società al 50 per cento. Ci stringemmo la mano. Non servì altro». 

Il suo socio ha scritto di lei: «Ennio con Fedele Confalonieri e Gianni Letta costituisce la mia trinità amicale». Quindi lei sarebbe lo Spirito Santo?

«Silvio è sempre generoso, anche nei paragoni. Per lui l’amicizia ha un valore assoluto. Non la tradirà mai». 

Avete litigato qualche volta?

«Impossibile. È troppo buono. Nel 1982 suo cugino Giancarlo Foscale, responsabile amministrativo di Fininvest, cacciò un dirigente che rubava. Silvio era negli Stati Uniti. Al suo ritorno, staccò un cospicuo assegno al licenziato. Foscale s’inalberò: “Ma come? È un ladro”. E lui: “No, è un malato. Ha il vizio del gioco d’azzardo. Ma ha anche due bambini”». 

Lei è monogamo, Berlusconi proprio no. Nessun contrasto su questo? 

«“Un po’ t’invidio”, mi ripete sempre. “Hai trovato subito la donna giusta”». 

Fantastico. Perciò la ricerca continua.

«La mia Lina aveva 15 anni. In una settimana ci fidanzammo. La sposai nel 1966. Resta uguale: eterea come Katharine Hepburn, bella come Sophia Loren».

In che modo conquista i clienti?

«Dimostrandogli che io per primo sono convinto. Puoi mentire con la parola, ma non con il corpo. Il mio maestro Cassol la chiamava “vendita verità”». 

Che garanzie può dare con un debito planetario che ha superato i 253.000 miliardi di dollari, il 322 per cento del Pil?

«Non esiste istituto al mondo in grado di garantire alcunché. Anche se ha la tripla A delle agenzie di rating, può fallire. Sopra i 100.000 euro i depositi bancari non hanno protezione. Con la deflazione i tassi d’interesse sono negativi o quasi. L’unica che può salvarci è l’economia reale. Ma le azioni sono rischiose per definizione. Se però lei possedesse per ipotesi quote di tutte le aziende del mondo, non perderebbe mai, perché le borse cresceranno sempre. Purtroppo i risparmiatori si fanno guidare dall’emotività, come insegna lo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia». 

Quanto costò salvare quelli di Mediolanum dal crac Lehman Brothers?

«Alla mia famiglia 63,5 milioni, alla Fininvest 56,5. Il più bell’investimento di sempre, perché l’anno dopo la raccolta schizzò da 2,8 a 5,89 miliardi». 

Per Chiara Amirante, che si occupa di emarginati da quando guarì da un male che la stava rendendo cieca, lei è «una bellissima Dio-incidenza».

«Si sorprese perché, su suggerimento di mia moglie, la chiamai a parlare ai nostri 300 manager riuniti a Merano. È stata una benedizione di Dio incontrarla». 

Ne deduco che lei crede in Dio.

«Moltissimo. Sono nato nel paese dove da giovane fu curato il futuro san Pio X, appena ordinato prete. La parrocchia mi mandò a una scuola di formazione politica a Treviso affinché imparassi la differenza fra democrazia e comunismo. Infatti diventai assessore della Dc. I miei miti sono De Gasperi e don Sturzo. Veneravo Pio XII, così alto e magro da sembrare puro spirito. E Karol Wojtyla». 

«Non potete servire Dio e la ricchezza», ammonisce Gesù nel Vangelo.

«Tra Dio e mammona, ho sempre messo al primo posto Dio. Il denaro è solo un mezzo. Come il coltello: può uccidere o diventare il bisturi che salva». 

Ogni domenica va a Tombolo, ho letto.

«È vero. Ho bisogno dell’aria del mio paese, degli amici d’infanzia. Giocavamo a briscola da Giosuè e da Mea, ma hanno chiuso. Ora ci si trova al bar Centrale». 

Mi dicono che risolve i sudoku al volo.

«Sono numeri. Quando a inizio anno mi mostrano i budget, noto subito le cifre stonate: vedo quello che c’è dietro».

Quanti soldi ha in tasca?

«Non uso il portafoglio. Tengo le banconote con un fermaglio, ma è in cassaforte». (Chiama la moglie Lina, se lo fa portare e le conta). «Sono 980 euro». 

Mi confessa qualcosa che nessuno sa?

«Qualcosa che riguardi me? Le rivelo un segreto che da piccolo mi faceva molto soffrire. Per cena mi davano enormi scodelle di caffellatte, per cui di notte non facevo in tempo ad arrivare al gabinetto per la pipì. Abitavamo in tre famiglie, 18 persone, nella stessa casa. La mattina mia madre lavava il materasso e lo metteva ad asciugare sulla finestra. Tutti lo vedevano. Ecco, ripensandoci, non era neppure un segreto». 

·        Addio al cantautore Paolo Pietrangeli.

È morto Paolo Pietrangeli, l’autore di «Contessa»: aveva 76 anni. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 22 novembre 2021. «Ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato, nessuno più al mondo dev’essere sfruttato». C’è stato un tempo nel nostro Paese in cui non c’era manifestazione, anche quando il fuoco sacro della Contestazione e degli Anni Settanta si era ormai spento, dove queste parole non venissero prima cantate e poi ben scandite, a mò di slogan: «Ne-ss-uno-più- al-mon-do-de-ve-es-se-re-sfrut-ta-to». Già la fortuna di «Contessa» è durata a lunghissimo e ha rappresentato un pezzo di storia dei movimenti della sinistra italiana. L’aveva scritta Paolo Pietrangeli, captando l’elegante conversazione in un caffé del Quartiere Trieste, nella Roma bene («Che roba contessa/all’industria di Aldo. Han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti), nel 1966, due anni prima che esplodesse la bomba della Contestazione, di cui sarebbe subito diventata colonna sonora.

Il ricordo di Costanzo

Accompagnerà probabilmente anche il feretro di Pietrangeli, scomparso a 76 anni nella sua Roma dove aveva sempre vissuto e dove nella seconda parte della sua vita era diventato acclamato regista di Mediaset, lavorando prima con Maurizio Costanzo, colonna in regia del suo talk show e poi con Maria De Filippi. E il conduttore l’ha ricordato con parole molte sentite: «Più di vent’anni insieme al Maurizio Costanzo Show, poi una fiction che si chiamava `Orazio´ e c’era ugualmente lui. Va via un pezzo di vita. Mi rimarrà lo sguardo sornione e spiritoso e quel senso di tranquillità che mi dava quando stava in regia».

Le canzoni di protesta

Prima però Pietrangeli era stato il prototipo del cantautore impegnato. D’estrazione borghese, nato proprio in quel quartiere Trieste nel 1945, figlio di Antonio, affermato regista che avrebbe lavorato con Stefania Sandrelli e Claudia Cardinale e che con cui aveva avuto vari dissapori, dal 1966 aveva fatto parte del Nuovo Canzoniere Italiano: con Ivan Dalla Mea, Giovanna Marini e tanti altri si sarebbe dedicato alla riscoperta delle canzoni popolari e partigiani (fu grazie a loro se «Bella Ciao» divenne patrimonio di tutti) . E poi si mise in proprio: oltre a «Contessa» un altro brano sarebbe diventato un manifesto d’epoca «Valle Giulia», sugli scontri davanti alla facoltà di Architettura che di fatto avrebbero accesero la miccia della rivolta in quell’anno fatidico. Entrambe poi incise con la seconda voce appunto della Marini avrebbero appunto fatto da colonna sonora a centinaia di cortei a venire

In regia con Maria De Filippi

Poi era venuto il tempo del cinema. Nel 1974 aveva debutta come regista con un documentario di forte impatto politico: «Bianco e Nero», un viaggio nel mondo del neofascismo e una denuncia delle collusioni tra una parte dello Stato e settori eversivi dell’estrema destra. Nel 1977 avrebbero diretto «Porci con le ali», tratto dal celebre libello generazionale di Lidia Ravera. Nel 1980 sarebbe tornato alla regia per «I giorni cantati», con un Francesco Guccini interprete. E poi sarebbe cominciata la stagione della tv commerciale, con una virata professionale, anche se non avrebbe mai nascosto i suoi sentimenti. Sempre a sinistra. A chi gli chiedeva della distanza tra Mao-Tse Tung e Amici rispondeva: «La passione è una cosa e il lavoro un’altra, non potevo certo campare con quelle canzoni e da subito avevo scelto di puntare sulla regia: già cinquant’anni fa passavo la settimana come aiuto-regista di film più o meno degni, poi il sabato e la domenica cantavo. La dicotomia quindi c’è in me fin dagli esordi, però ho sempre dato tutto al mio lavoro. Anche se alcune ragioni di certi programmi televisivi le confesso che ancora non le trovo».

Guccini e Pietrangeli: «“Contessa”? Era un po’ retorica, meglio “Valle Giulia”. Anche se i giovani oggi ascoltano altro (e vale anche per me)». Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2021. Il Maestrone ricorda il cantautore scomparso: «Avevamo fatto un film insieme e ci legava un rapporto di stima reciproca. Erano due facce della stessa medaglia, anche se declinate in modo un po’ diverso: uno comunista militante, legato alla canzone politica tout-court, l’altro più anarchico e meno «retorico», certo più popolare a livello di pubblico, anche se la platea alla fine, per entrambi, era la stessa, quella impegnato degli anni 60 e 70. E in quella stagione il «comunista» Pietrangeli, scomparso lunedì all’età di 76 anni, e «l’anarchico» Guccini hanno più volte incrociato le loro strade, prima sui palchi dei concerti, poi addirittura su un set cinematografico. «Non ci sentivamo da tanto ma ci siamo sempre stimati a vicenda, sapevo che era logorato dal male, mi dispiace molto anche perché era più giovane di me» racconta l’81enne cantautore dal suo eremo di Pavana sull’Appennino toscoemiliano in cui dimora da tempo.

Come vi conosceste?

«Apriva i miei concerti negli anni 70, lui da solo con la chitarra. Nacque un’amicizia che culminò poi in un film “I giorni cantati”».

Come fu l’esperienza cinematografica?

«Facevo la parte di me stesso, c’erano anche Mariangela Melato e recitava e dirigeva lui. Un manifesto d’epoca, forse un po’ ingenuo, sulle speranze deluse di un cantautore. Mi han detto che aveva una piccola parte Roberto Benigni, non me lo ricordo...».

Si ricorda invece bene di «Contessa»..

«Sì, e sarò sincero: non era la mia preferita delle sue».

Perché?

«La trovavo un po’ retorica e per certi versi anche anacronistica. A mio parere, tirare in ballo contesse in quegli anni era fuori tempo massimo e dipingere quell’aristocrazia reazionaria come unico nemico di classe era irrealistico. Le destre erano già altra cosa, nel 1966-68. Molto meglio Valle Giulia».

Come mai?

«Perché é una cartolina autentica del clima esplosivo ma anche speranzoso di quel fatidico 1968. Io ero studente a Bologna e mi resi conto da subito che stava succedendo qualcosa d’ epocale, ma anche di strano, non sapevamo davvero cosa aspettarci».

Se non è «Contessa» la sua colonna sonora della Contestazione, qual è allora?

«Ho sempre preferito gli stranieri, Bob Dylan per dire, rappresentavano meglio quell’ansia di libertà. Anche perché, a dire il vero, i nostri «tuttopolitici» come Pietrangeli erano in realtà molto pochi».

A Pietrangeli molti avrebbero contestato poi la sua collaborazione con Mediaset, tra Costanzo e De Filippi, dal «nemico» Berlusconi.

«Mah, Paolo alla fine era un figlio d’arte, suo padre grande regista e quindi evidentemente quel lavoro ce l’aveva nel sangue. Certo, penso che. a volte, specialmente nei momenti del Berlusconi sceso in campo, si deve essere sentito molto in difficoltà».

Ma canzoni come «Contessa» hanno ancora senso oggi?

«Credo rappresentino una stagione antica della nostra storia, i giovani ascoltano altro. Del resto, ascoltano poco pure le mie, di canzoni...».

Da repubblica.it il 22 novembre 2021. Addio a Paolo Pietrangeli, cantautore, regista e voce della canzone di protesta. Nato a Roma, aveva 76 anni. Figlio del regista Antonio Pietrangeli e di Margherita Ferrone, negli anni Sessanta inizia a comporre canzoni a sfondo socio-politico, entrando nel Nuovo Canzoniere Italiano. Alcune delle sue composizioni divengono popolari all'interno dei movimenti giovanili di sinistra a partire dalle agitazioni del 1968. Due in particolare si trasformano in veri e propri 'inni', il cui successo perdurerà negli anni a seguire: Valle Giulia e, soprattutto, Contessa, entrambe incise con la seconda voce di Giovanna Marini, altra grande interprete delle canzoni di protesta. Lo scorso ottobre era stato premiato al premio Tenco e per l'occasione Altan gli aveva dedicato un disegno su Contessa.

Antonio Lodetti per "il Giornale" il 23 novembre 2021. «Caro Paolo, chi ha compagni non morirà». Così scrive Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista ricordando il cantautore Paolo Pietrangeli, artista militante scomparso ieri a 76 anni. Cantante impegnato come pochi altri, di lui si ricorda soprattutto Contessa, l'inno militante della sinistra rivoluzionaria che incitava minaccioso: «Compagni dai campi e dalle officine/ prendete la falce portate il martello/ scendete giù in piazza picchiate con quello/ scendete giù in piazza affossate il sistema». Parole dure, parole di battaglia che infuocarono gli studenti rivoluzionari del '69 e il movimento di lotta operaio. La canzone è rimasta un inno per la sinistra nostalgica ed è stata ripresa da numerosi artisti, celebre la versione «combat folk» dei Modena City Ramblers. Duro e puro, Pietrangeli veniva chiamato dagli amici il gigante buono, e ha diviso la sua carriera tra musica, impegno politico e civile e anche regia cinematografica e televisiva. Nonostante il suo credo, fu per anni regista alla Fininvest di programmi come il Maurizio Costanzo Show, per non farsi mancare niente, ma nessuno ha mai detto nulla sulla sua coerenza. Figlio d'arte (il papà è il regista Antonio Pietrangeli), già nel 1961 è attivo nella musica popolare militando nel Nuovo Canzoniere Italiano con brani folk e della tradizione popolare italiana. Pietrangeli si può definire il Woody Guthrie italiano, anche se non poteva vantare l'immenso repertorio del cantante americano che portava sulla sua chitarra la scritta «This machine kills fascists», questa macchina uccide i fascisti. Già prima di Contessa Pietrangeli si era impegnato nelle lotte studentesche partecipando attivamente al Movimento e scrivendo un brano, Valle Giulia, che documenta È morto il cantautore Paolo Pietrangeli. Lo annuncia in una nota Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea. Era i primi scontri tra studenti e polizia. Sono i tristemente famosi scontri dell'1 marzo 1968, quando, appunto a Valle Giulia, a Roma, si fronteggiarono studenti e poliziotti, dando il via al movimento rivoluzionario. «Non siam scappati più/ non siam scappati più» diceva trionfalmente il ritornello del pezzo che raccontava e preconizzava un lungo periodo di battaglie e di violenza. Pietrangeli ha composto numerosi brani tra cui l'inno di Rifondazione nato a Roma il 29 aprile del 1945. Le sue canzoni, come Contessa e Valle Giulia, sono state la colonna sonora del Sessantotto più intransigente. comunista, e se viene ricordato principalmente per Contessa che si può definire, per l'incedere armonico-ritmico, al di là dei contenuti, un classico della nostra canzone popolare, Pietrangeli ha scritto diversi album dai significativi titoli come Mio caro padrone domani ti sparo targato 1969 fino a sconfinare nel jazz nel 2015 con Paolo e Rita insieme alla pianista jazz Rita Marcotulli. Nel 2008 la casa editrice Ala Bianca - nota per le sue ricerche in ambito folk e popolare - pubblica una raccolta di Pietrangeli dal titolo Antologia che contiene una cinquantina di brani dell'artista con cinque inediti tra cui La questione meridionale e Dibattito sulle sorti della sinistra e mozioni contrapposte in una notte desolata. Sul finire degli anni Sessanta, grazie al suo impegno e alla sinistra imperante nel mondo culturale, si dedica anche al cinema diventando aiuto regista per personaggi quali Bolognini, Visconti e Fellini. Debutta come regista nel 1974 con il documentario Bianco e nero, che indaga sul mondo neofascista da lui tanto odiato. Tra i suoi film la versione cinematografica di Porci con le ali (1977) e I giorni cantati (1979) cui partecipa anche il suo amico Francesco Guccini, la cui rivoluzionaria La locomotiva è considerata dagli studiosi di musica popolare la più bella ballata folk italiana. Sempre attento alle questioni sociali, gira anche Genova per noi, indagine sui tragici fatti del G8. Progressivamente Pietrangeli abbandona musica e regia cinematografica e passa a quella televisiva, dedicandosi a programmi di intrattenimento come Maurizio Costanzo Show e persino il talent Amici di Maria De Filippi. Non dimentica però le sue origini e si candida due volte alla Camera con Rifondazione comunista (senza venire eletto) e ancora nel 2018 con Potere al popolo, dopo aver militato per un breve periodo in Sel di Nichi Vendola.

Striscia la Notizia, morte di Paolo Pietrangeli: le vecchie immagini che commuovono l'Italia. Libero Quotidiano il 23 novembre 2021. È morto Paolo Pietrangeli e Striscia la Notizia per ricordarlo ha mandato in onda alcune immagini dal passato. Nella puntata di lunedì 22 novembre il tg satirico di Canale 5 ha diffuso un filmato di Drive In che lo vede in uno dei suoi sketch nei panni di Bobo, un personaggio immaginario protagonista di una omonima serie di fumetti a strisce di genere satirico ideata da Sergio Staino nel 1979. Ma Pietrangeli era anche molto altro. Storico cantautore di sinistra, voce della canzone di protesta e del movimento operaio, di cui di fatto ha scritto "l'inno in note" Contessa, Paolo era figlio del regista Antonio Pietrangeli e di Margherita Ferrone. Dal padre Paolo ha imparato tutti i trucchi del mestiere, diventando un regista di successo, apprezzatissimo a Mediaset al fianco di Maurizio Costanzo e di Maria De Filippi in Amici. Proprio la regina del Biscione ha voluto ricordare l'amico con un lungo post sui social: "Paolo Pietrangeli è un amico, un collega, un poeta, un personaggio dalle mille meravigliose risorse e dalle mille inaspettate angolazioni caratteriali. Con lui abbiamo costruito e raccontato tanto. Oggi se n’è andato a modo suo, senza arrendersi ad una vita che lo avrebbe voluto morigerato, attento e prudente ossia tutto il contrario di quello che lui avrebbe voluto dalla vita. Perderlo è drammatico e tristissimo ma forse lui saprà obbligare alle sue regole il posto dove da oggi sarà". A farle eco ancora una volta Striscia, che prima del tributo ha voluto annunciare "un abbraccio" al regista da parte di tutto il programma. 

Il ricordo. Morte di Paolo Pietrangeli, il ricordo di Fausto Bertinotti. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Ci è stato tolto Paolo Pietrangeli. Un amico caro e un compagno prezioso e coraggioso. Sua è stata la colonna sonora del ’68 a cui è rimasto fedele fin qui, sempre sperimentando e ricercando forme d’arte e di comunicazione. Ha scritto, composto, suonato e cantato dentro una storia sconfitta. Non avremmo mai voluto salutarlo per sempre. Ci mancherà ogni giorno mentre ci accompagneranno le sue canzoni. A salutarlo con il dolore ci restano le parole di Franco Fortini che non ha mai abbandonato: “L’Internazionale fu vinta e vincerà”.

Ciao Paolo.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

La furia che ruppe la placidità borghese. Chi era Paolo Pietrangeli, il cantautore che inventò “Contessa”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Novembre 2021. Beh, prova a immaginare il sessantotto senza “Contessa”: mica ci riesci. “Se il vento fischiava ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte…”. Comincia tutto lì. Da quella canzone. Dalla protesta degli operai dell’industria di Aldo, dalle manganellate della polizia al servizio del padrone, e il sangue sui muri, la falce, il martello. Qui a Roma il 68 arrivò con due anni di anticipo: nell’aprile del ‘66, quando durante uno scontro coi fascisti, davanti alla facoltà di Lettere, fu ucciso un ragazzino di 19 anni, socialista, che si chiamava Paolo Rossi. Gli studenti di sinistra occuparono l’Università, al funerale di Paolo accorsero decine di migliaia di persone, insieme a Nenni, a Parri, a Ingrao. Il rettore della Sapienza, che si chiamava Ugo Papi, fu cacciato via: grande vittoria degli studenti di sinistra. Iniziò la rivolta. Paolo Pietrangeli era un po’ più grande di noi. Aveva 21 anni. Però suo padre, che era un regista famoso, ed era anche comunista, lo educava col pugno di ferro, e spesso gli impediva di uscir di casa e di unirsi ai compagni del Pci. Prigioniero, e pieno di rabbia, in quella primavera del 1966, Paolo prese la penna e scrisse “Contessa”. Nel giro di un paio d’anni “Contessa” diventò, per la generazione del baby boom, una canzone più famosa della “Bambola” di Patty Pravo e di “Mi ritorni in mente “ di Battisti e Mogol. La conosceva pure mia nonna, monarchica convinta. Ogni tanto la beccavo mentre la canticchiava sottovoce. Certo se lo rileggi oggi, il testo di “Contessa”, ti spaventi. Violento, minaccioso. Eppure chi ha conosciuto Paolo Pietrangeli sa che tutto era, Paolo, meno che un tipo violento. Di aggressivo aveva solo quella voce roca, bassa, fantastica, che era la sola voce, insieme a quella di Giovanna Marini, che potesse cantare le sue canzoni dandogli un senso. È morto ieri, a 76 anni, ancora col suo faccione da ragazzo pacifico e ribelle. Dopo una vita intellettuale e professionale molto intensa. Cantautore, regista, scrittore, militante politico. Ancora alle ultime elezioni politiche decise di candidarsi, sapendo bene di avere possibilità zero di essere eletto. Lui concepiva le campagne elettorali come un’occasione per far politica, magari anche per far casino, non come una via per il Parlamento. Nel 2018 si candidò con Potere al Popolo. Gruppo di sinistra estrema che a me – ed evidentemente anche a lui – è sempre stato molto più simpatico degli altri gruppi di sinistra per due ragioni: la prima è tra i suoi fondatori c’è Giorgio Cremaschi – combattente indomito e sognante della classe operaia, che continua a combattere per la classe operaia come combatteva quando il movimento operaio esisteva ancora… – ; la seconda è che tra tutti i partiti e i partitini della sinistra Potere al Popolo è l’unico garantista e vuole svuotare le carceri e non riempirle. Pietrangeli era figlio di un regista famoso, che morì in modo tragicissimo nell’estate del mitico 1968. Si chiamava Antonio, non aveva neanche 50 anni, aveva rapporti tesi col figlio. Aveva lavorato con registi grandissimi, come Visconti (Ossessione), Fellini, Rossellini e aveva diretto anche diversi film di successo. In quel luglio del 1968 stava girando le ultime scene del suo ultimo film (Quando, Come, Perché) sulla spiaggia dell’Arenauta, vicino a Gaeta. Si era immerso nel mare con alcuni attori, per illustrare una certa scena. Il mare si ingrossò all’improvviso e un’ondata lo lanciò contro gli scogli, uccidendolo. Credo che Paolo abbia sempre subìto l’influenza di questo padre, burbero e geniale. Credo che l’amasse molto, e che molto lo imitasse. In quello che poi diventò il suo lavoro vero, la regia. Che lo portò di nuovo a grandi successi televisivi, stavolta, con Maurizio Costanzo e con Maria de Filippi. Di sicuro Paolo era un artista. Forse la parte migliore della sua arte la espresse proprio nelle canzoni che scrisse da ragazzo, e che magnificamente rappresentavano il furore, la rottura degli schemi, i torti e quindi tutte le ragioni del sessantotto. Ci sono tre canzoni, secondo me, che dicono tutto della sua furia visionaria. “Contessa” è quasi un manifesto. Un urlo feroce contro la borghesia rincoglionita, che si gode il miracolo economico, non lo capisce, è priva di cultura, di capacità di guida, di studio. È un richiamo alle armi, alla rottura. La crudezza della violenza che c’è, in questa canzone, è – secondo me – solo l’incitamento alla rottura, alla fine delle buone maniere, alla necessità di superare la critica blanda con la radicalità della contrapposizione. Il conflitto, il conflitto, il conflitto. Il sangue, i colpi di martello, la guerra, sono solo simboli di questa rottura. Il sessantotto, nella sua fase iniziale, fu esattamente questo: la capacità improvvisa, sovversiva, mostrata da una parte di quella generazione, di liberarsi delle tradizioni e della buona educazione e di rovesciarsi rabbiosa contro i padri, le madri, i professori, i preti, i politici, i banchieri, la placidità borghese. E dopo “Contessa” Paolo scrisse una canzone ancora più truculenta, che si intitolava “Caro padrone, stasera di sparo”, e che quasi quasi, se letta un po’ sbrigativamente, poteva essere considerata come l’appello alla lotta armata. Invece era il contrario. Era un appello alla lotta, alla lotta e alla denuncia. Con le parole che allora servivano a rompere vent’anni di sottomissione della gioventù, di militarizzazione. “Caro Padrone” è del 69, e dello stesso anno è la più dolce, la più struggente e la meno conosciuta delle canzoni di Pietrangeli. “Il vestito di Rossini”. Credo che parli dei morti di Reggio Emilia (cinque militanti del Pci, tra i quali due ragazzi, falciati dai mitra della polizia, a Reggio, durante uno sciopero: il capo dei carabinieri, quando vide quello scempio, ritirò i suoi uomini, e fu punito; i capi della polizia, responsabili della carneficina, furono tutti processati e assolti). La canzone racconta di un operaio, di nome Rossini, che viene catturato e sottoposto a un interrogatorio durissimo dal commissario, che vuole che confessi, ma lui non confessa.

Quel giorno aveva indossato il vestito della festa, il più bello che aveva, l’unico, perché così fanno gli operai. E la mattina presto aveva salutato la sua fidanzata, Giovanna, dicendole che doveva andare a difendere la democrazia, che sarebbe tornato a sera. Il commissario gli disse che c’erano i testimoni del suo delitto. “L’hanno visto con un sasso in mano / che difendeva un ragazzo già morto,/ ma quel che conta è che a uno di loro / un sampietrino la testa sfasciò. / Ed ha scontato vent’anni in prigione / perché un gendarme s’è rotto la testa; / ormai Giovanna ha tre figli, è in pensione,/ chissà se ha visto il vestito da festa…”. L’ho sentita mille volte questa canzone, quando ero ragazzo. Secondo me Paolo era questo qui. Rossini. Difendeva un compagno già morto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

È morto Paolo Pietrangeli, mito della sinistra. Dall'inno del '68 "Contessa" alla regia per le reti di Silvio Berlusconi. Il Tempo il 22 novembre 2021. Cantautore amato dalla sinistra ma anche regista del Maurizio Costanzo Show e di Amici di Maria De Filippi. È morto all'età di 76 anni Paolo Pietrangeli. Cantautore, autore di canzoni simbolo del '68 da Contessa a Valle Giulia realizzate con la seconda voce di Giovanna Marini. Sono infatti del 1968 sia ’Contessa' che ’Valle Giulia': la prima incentrata sulle lotte operaie ("Compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello..." cantava), la seconda sulle proteste studentesche, entrambi i brani simbolo del Sessantotto. È difficile scindere il Pietrangeli artista da quello politico. Era figlio del regista Antonio Pietrangeli e a vent’anni entra nel Nuovo Canzoniere Italiano per cui compone canzoni dal forte impegno politico e sociale. Negli anni Settanta si dedica alla sua attività di regista cinematografico prima e televisivo poi, firmando anche programmi come ’Maurizio Costanzo Show’ e ’Amici di Maria De Filippì per la Fininvest. E se Silvio Berlusconi entra in politica nel 1994 fondando Forza Italia e collocandola al centrodestra dello schieramento parlamentare, Paolo Pietrangeli si candida nel 1996 per Rifondazione comunista, senza essere eletto, per aderire poi a Sel, il movimento Sinistra Ecologia Libertà di Nichi Vendola e infine al partito Potere al popolo. "Con Paolo Pietrangeli scompare un grande autore della canzone d’autore italiana, il cui talento creativo si è espresso non solo nella musica ma anche nella regia cinematografica e televisiva. Le note della sua 'Contessa' hanno accompagnato l’impegno politico e scaldato i cuori di tanti e risuonano oggi nella testa di molti nel giorno della sua scomparsa", ha dichiarato il Ministro della Cultura, Dario Franceschini. "Ho appena saputo che Paolo Pietrangeli se ne è andato. È un grande dolore, ha affermato il segretario nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni. "Molte delle sue canzoni - prosegue il leader di SI - hanno accompagnato la mia infanzia, poi la formazione e i primi anni della mia militanza. Poi l’incontro negli anni di Rifondazione e la scoperta di una persona attenta e appassionata, ironica e generosa. Oggi piango un grande cantautore, un amico e un compagno". "Più di vent’anni insieme al Maurizio Costanzo Show, poi una fiction che si chiamava ’Orazio' e c’era ugualmente lui. Va via un pezzo di vita", ha commentato Maurizio Costanzo. "Mi rimarrà lo sguardo sornione e spiritoso - dice commosso Costanzo all'Adnkronos - e quel senso di tranquillità che mi dava quando stava in regia". Da molti anni, al Maurizio Costanzo Show era subentrato il primo cameramen di Pietrangeli, Valentino Tocco. "In assoluta continuità", osserva Costanzo, che aggiunge: "È una perdita anche umana, proprio della persona. Non pensavo mi dispiacesse tanto. Mi dispiace tanto".

"Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce". Morto Paolo Pietrangeli, addio alla voce del ’68 con la sua ‘Contessa’. Redazione su Il Riformista il 22 Novembre 2021. “Ci è stato tolto Paolo Pietrangeli” scrive Fausto Bertinotti in un ricordo personale affidato alla sua pagina Facebook. Cantautore, regista e voce della canzone di protesta, era nato a Roma, aveva 76 anni. Figlio del regista Antonio Pietrangeli e di Margherita Ferrone, negli anni Sessanta inizia a comporre canzoni a sfondo socio-politico, entrando nel Nuovo Canzoniere Italiano. Alcune delle sue composizioni divengono popolari all’interno dei movimenti giovanili di sinistra durante le proteste del ’68. Due in particolare si trasformano in veri e propri ‘inni’: Valle Giulia e, soprattutto, Contessa grazie a un testo che diceva: “Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello scendete giù in piazza, picchiate con quello scendete giù in piazza, affossate il sistema. Voi gente per bene che pace cercate la pace per far quello che voi volete ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finir sotto terra ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato nessuno più al mondo dev’essere sfruttato”. Entrambe le canzoni furono incise con la seconda voce di Giovanna Marini, altra grande interprete delle canzoni di protesta. Lo scorso ottobre era stato premiato al premio Tenco e per l’occasione Altan gli aveva dedicato un disegno su Contessa. Famoso anche per essere stato un autore e regista televisivo di trasmissioni come il Maurizio Costanzo Show, C’è posta per te e Amici di Maria De Filippi. Bertinotti ha scritto: “Un amico caro e un compagno prezioso e coraggioso. Sua è stata la colonna sonora del ’68 a cui è rimasto fedele fin qui, sempre sperimentando e ricercando forme d’arte e di comunicazione. Ha scritto, composto, suonato e cantato dentro una storia sconfitta. Non avremmo mai voluto salutarlo per sempre. Ci mancherà ogni giorno mentre ci accompagneranno le sue canzoni. A salutalo con il dolore ci restano le parole di Franco Fortini che non ha mai abbandonato: ‘L’Internazionale fu vinta e vincerà’. Ciao Paolo”. Ancora “Ciao Paolo. Chi ha compagni non morirà”, scrive Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista- Sinistra Europea sul sito del partito dove si parla di ‘morte improvvisa’. Acerbo saluta “un compagno a cui non smetteremo mai di dire grazie per quello che ha rappresentato per la storia della cultura, dei movimenti, della sinistra e anche del nostro partito”. E aggiunge: “Con le sue canzoni Paolo ha dato voce al lungo sessantotto italiano e anche alla riflessione sulla sconfitta – prosegue -. La sua Contessa non è mai passata alla radio ma è diventata un inno cantato da milioni di studenti e operai. Aveva da tempo problemi di salute che gli impedivano di intervenire con la sua voce potente in iniziative che sosteneva e condivideva. Ma da gigante buono e sempre ironico tendeva sempre a non drammatizzare la situazione. Ogni volta che gli abbiamo chiesto di darci una mano con umiltà si metteva a disposizione. Sentiva il dovere di dare una mano a ricostruire una sinistra nuova nel nostro paese. Nel 1999 scrisse n bellissimo “Il canto per Rifondazione che comunista è l’impegno morale. Un impegno che Paolo con umanità generosa non ha mai dismesso”, conclude la nota.

Intervista di Malcom Pagani a Paolo Pietrangeli per ''il Fatto Quotidiano'' pubblicata da Dagospia il 22 novembre 2021. Ricordi di Paolo Pietrangeli alla lettera effe: “Fellini cambiava idea in continuazione e ci faceva impazzire. Ci incontravamo di mattina nel suo studio per decidere il da farsi e lui lasciava che a scegliere fosse il destino. Giocava con le monete, interrogava i segni, cercava la fortuna, agitava ritualmente il caffè. All’epoca in cui lavoravo da assistente per Roma, si era deciso da un momento all’altro che uno dei capitoli del racconto fosse sul Verano. Danilo Donati aveva ricostruito con fatica il cimitero e io mi ero scapicollato a trovare 300 persone per una scena di massa, forse un funerale, che il maestro aveva immaginato soltanto pochi giorni prima. Passò una settimana e in una di queste riunioni mattutine, alla fine della liturgia, un adombrato Federico buttò lì un ‘Il Verano non lo faccio”. Era tutto pronto per girare: ‘Come non lo fai?’, ‘Non si può, viene male’, ‘Non potevi pensarci prima?’, ‘Senti, non rompere i coglioni, anzi, fammi un favore, dillo tu al produttore’. Il delegato si sentì morire, abbandonò il set, sparì per due giorni, si rese irreperibile”. Con la barba, la tosse: “A forza di fumarmi qualunque cosa mi è venuto l’enfisema” e i settant’anni in un paio di jeans, certi registi Paolo Pietrangeli li conosceva bene. Suo padre Antonio: “Che da ragazzo trovavo poco rivoluzionario prima di capire -ma c’è voluto tempo- che la rivoluzione sta nelle cose che fai e non nelle enunciazioni”. Ettore Scola. Pier Paolo Pasolini: “Con me era freddo, scostante e antipatico. Veniva a casa a trovare papà e non mi degnava di uno sguardo. Alla terza visita andai a lamentarmi: ‘Ma chi è ‘sto frocio?’. E mi arrivò uno schiaffo così forte che l’aria si fermò”. La setta dei poeti estinti si ritrovava nella mansarda dell’appartamento romano di Antonio Pietrangeli per parlare, immaginare e mettere intorno al tavolo Maccari, Flaiano: “Un altro non proprio simpatico” Amidei, Tonino Guerra, Sonego e un cinema italiano che l’interprete di Contessa vide da vicino: “Origliando dietro la porta, subendone il fascino, augurandomi di poter partecipare presto alla festa”. Con molti documentari, qualche film, più di 15 album dal ’69: “Come cantante sono sempre stato una pippa, ma tanto tra un po’ i dischi non li compreranno più neanche i parenti”, un libro autobiografico “Una spremuta di vite” (edizioni Navarra) e un’impressionante somiglianza con il Saul di Homeland, Mandy Patinkin, Pietrangeli non ha rimpianti né terre promesse: “Se la nostalgia serve come motore per la scoperta è accettabile, se diventa riflessione sul passato si trasforma in una trappola. Ti ammazza. Ti deprime. E io non mi sento depresso, ma curioso”. 

Del passato non le manca nulla? 

Il ticchettio della macchina da scrivere. Un rumore straordinario. Un rumore che non c’è più.

Batteva a macchina suo padre? 

Non era un regista prolifico, girava un film ogni 2 o 3 anni. Il resto erano incontri, sessioni di sceneggiatura, pomeriggi di tasti battuti senza tregua. 

Suo padre è stato un grande regista.

Papà era onnisciente il che lo rendeva probabilmente antipatico ai più, molto interessante in assoluto e sicuramente palloso per un adolescente che in Grecia, mentre gli altri andavano al mare, girava per musei e rovine con un signore che le epigrafi greche le traduceva in tempo reale. 

Era pedante? 

Era colto, ma era anche molto spiritoso. 

Fantasmi a Roma, Adua e le compagne, La parmigiana, Io la conoscevo bene. Oggi suo padre è celebrato come merita. 

Oggi. Ieri era diverso. Il film uscivano in sala e le recensioni finivano per somigliarsi tutte. Quando andava bene, erano liquidatorie. I critici erano durissimi e papà ci rimaneva male. 

Suo padre morì girando il finale di Come, quando e perché. 

Il 12 luglio ‘68, annegando nel mare di Gaeta, vicino a Torre Scissura. Un posto con delle correnti del cazzo. Lui, il capo macchinista e tre attori erano in acqua, ci furono dei mulinelli, provarono tutti a tornare affannosamente a riva. Papà battè la testa su uno scoglio e andò sotto. Ci eravamo visti la mattina stessa, io tornavo da un concerto a Follonica, rincasai all’alba e lo trovai in cucina a bere un caffè: “Vuoi che ti accompagni?” proposi e lui guardandomi in faccia disse solo: “Ma hai visto come sei ridotto? Riposati, ci vediamo stasera”. 

Non vi vedeste più. 

Avevo dormito fino a sera e svegliandomi avevo trovato le luci accese e le stanze vuote perché- seppi dopo-erano corsi tutti a Gaeta. Era accesa anche la tv quella sera e fu così che scoprii della morte di papà. Da un notiziario. Avevamo appena fatto pace. 

Litigavate spesso? 

Avevo avuto una discussione forte perché dopo tre sofferti anni sui libri di Giurisprudenza che detestavo, senza dir nulla ai miei, avevo cambiato in corsa facoltà iscrivendomi a Filosofia. Loro si aspettavano la laurea e io avevo ricominciato da zero. Andai da una specie di medico di famiglia, uno psichiatra, a confessargli il mio disagio e a chiedergli consiglio. Lui fece il delatore a avvertì i miei.

Si arrabbiarono? 

Molto. Di solito accompagnavo mio padre nei sopralluoghi, ma quando papà lo venne a sapere successe un casino e per quelli de La picaresca, un film scritto con Scola e Maccari che non si fece mai, in Spagna, portò mio fratello. 

I suoi genitori erano opprimenti? 

Io e papà non avevamo questa enorme confidenza e per i permessi e per le mediazioni ricorrevo a mia madre, però l’oppressione no, non c’era. 

Le impedirono di occupare l'Università e lei per tutta risposta scrisse due delle canzoni politiche più note del '68: Valle Giulia e Contessa. 

Le scrissi prima del ’68 e Contessa comunque è nata da un senso di colpa. Avrei voluto essere in quelle aule a dormire e non potendoci stare fisicamente, mi chiusi in camera e scrissi canzoni.

Si è mai vergognato retrospettivamente di alcuni versi di quella canzone? 

E perché mai? 

Erano concetti duri, severi, ortodossi: “…Se c’è chi lo afferma non state a sentire/è uno che vuole soltanto tradire/ se c’è chi lo afferma sputategli addosso/ la bandiera rossa gettato ha in un fosso”.

Non mi sono mai vergognato di una mia sola canzone. Non mi sono vergognato ieri e non mi vergogno oggi. Ho scritto guardando sempre all’ironia e l’ironia c’era anche in Contessa. 

Chi le fece venire voglia di scrivere e cantare? 

Federico Zeri che frequentava casa nostra e con il quale mi divertivo a creare assonanze, rime, giochi di parole e prese in giro. 

Cantante, regista e prima ancora, aiuto regista.

Esordii con Franco Giraldi, un vero signore, ne La Bambolona con Ugo Tognazzi e Isabella Rei. Poi lavorai con Mauro Bolognini ne L’assoluto Naturale e prima di aiutare Fellini in Roma, feci da secondo aiuto regista in Morte a Venezia di Visconti.  

Come venne scelto?

Non mi ricordo se fui io a iniziare a rompere i coglioni agli amici di papà o al contrario, cominciò una gara virtuosa per stare vicino all’orfano. 

Morte a Venezia?

Luchino aveva un paio di fissazioni. Una era la politica, l’altra i Bersaglieri. Ne parlava sempre. Pierino Tosi, costumista straordinario, minimizzava: “Non dargli retta, questa cazzata la dice sempre e poi non accade niente”. Invece, un giorno, Luchino i bersaglieri li volle davvero. 

Toccò a lei cercarli?

E a chi altrimenti? Li cercai ovunque. Nelle associazioni a riposo e nelle bocciofile. Dovetti addestrarli io, che di marce militari non sapevo niente. Sul set le gerarchie erano molto chiare. Ero il secondo aiuto e il primo, il capo, era Albino Cocco. Capace, ma veramente insopportabile. Mi tendeva trappole assurde. Un giorno, al Des Bains, prendemmo accordi sul percorso del carrello dividendoci le quattro sale dell’albergo e strisciando ventre a terra accanto ai binari per dare indicazioni alle comparse in una scena di massa. 

Visconti iniziò a girare e mi accorsi che le indicazioni di Albino erano false. Lo affrontai: “Che cazzo mi ha detto prima?”, “Era solo per vedere se eri pronto”, “Mentre tu sperimenti io perdo il lavoro” risposi e mi accorsi in un istante che certe iniziazioni erano il prezzo da pagare per stare in una corte medievale.

I set di Visconti erano una corte medievale?

Certo, con i ruoli propri della corte medievale. Il buffone, il sicario, la spia. Tutti incasellati. C’era servilismo. Per mesi Luchino cercò Tadzio mentre io e gli altri preparavamo il film. 

La seconda fissazione di Visconti, ci diceva era la politica.

Durante le riprese si svolsero le elezioni amministrative. Luchino riunì la troupe e tenne il più bel comizio- e ne ho sentiti tanti- che abbia mai ascoltato in vita mia. Invitava tutti a votare Pci. Nella retorica non aveva rivali. 

Un topo nel formaggio.

I topi, anzi le pantegane, Visconti me le fece cercare davvero su un isolotto per esigenze di scena. In Morte a Venezia c’era il colera e le pantegane erano perfette. Ne catturai 150, ma non vivendo in cattività sul set resistettero poche ore. Girammo una scena con i toponi e ci assicurammo che fosse buona la prima: “Guarda Luchino che se scappano non le recuperiamo” lo avvertiamo. E lui: “Tranquilli, ne giriamo solo una”. Naturalmente volle la seconda e dovemmo rincorrere le pantegane fuggite. 

Gli attori?

Silvana Mangano non dava l’idea di essere la persona più allegra del pianeta, Bogarde era simpaticissimo.  

E Visconti?

Visconti era Visconti. Mi incaricò di cercare canzoni in voga nel 1911, l’anno in cui era ambientato il film. Andai all’emeroteca di Santa Cecilia, feci le fotocopie, tornai e mi chiesi, “Ma adesso come gliele faccio ascoltare?” Ebbi la malaugurata idea di rivelargli i miei dubbi e lui mi guardò come si guardano i pezzi di merda: “Io la musica la leggo sugli spartiti”. 

Morte a Venezia venne girato in piena spinta post-sessantottina. Cos’è stato il ’68?

Il consiglio migliore me l’ha dato Alberto Olivetti: “Se ti chiedono del ’68 tu dì che non ti ricordi niente”. 

Nel 1977 lei girò Porci con le ali.

Il libro di Ravera e Lombardo Radice uscì nel ’76 e anche grazie a un articolo di Giuliano Zincone- i giornali contavano ancora qualcosa-ebbe un enorme esito. Venne da me Giaime Pintor spiegandomi che Orfini, il produttore che aveva acquistato i diritti del libro era fermamente intenzionato a firmare da regista. Giaime mi spiegò l’idea: “Ingaggiamo Giovanna Cau, facciamo rinsavire Orfini e il film lo giri tu”. Giovanna Cau, intelligenza superba, riuscì nell’intento. La conoscevo. Mio padre era un gran puttaniere, saltava da una gonna all’altra e aveva avuto a che fare anche con Giovanna. 

Torniamo a Porci con le ali?

Le cose non andarono benissimo, c’erano riunioni di sceneggiatura in cui si parlava molto, si giocava e non si combinava un cazzo. Lombardo Radice se ne andò quasi subito.

Disse, per colpa della sua “preponderante presunzione”.

Io questa mia preponderante presunzione non me la ricordo. Mi ricordo invece che volevo raccontare come molte delle cose che erano state importanti un tempo- la politica, il sesso e il linguaggio- diventavano riti senza funzione. Non è che mi interessasse poi troppo se poi Rocco e Antonia trombavano o meno. 

Nel libro, sacrilego, c’erano passaggi forti. Questo, sulla sodomia, ad esempio: “Ipocrita: se mi devi inculare, sbrigati. Cerca di essere almeno brutale”.

La sodomia me la sono dimenticata, riscrivevo le scene di notte con l’aiuto di Giovanna Marini che non fosse altro che per essersi sottoposta a quella immane rottura di coglioni meriterebbe il mio ringraziamento eterno. 

Era un buon film o era una schifezza?

Era un ottimo film che venne massacrato-e non solo dalla censura-con premeditazione. Porci con le ali ebbe una lavorazione tormentata. Sia il produttore che Lombardo provarono a sostituirmi in corsa. Mi mandarono sotto un avvocato: “Lei non deve fare altro che mettersi da parte”, “Ma neanche per il cazzo” risposi. E resistetti. Il film in ogni caso costò 400 milioni di lire e incassò oltre 3 miliardi.

Dopo I giorni cantati, lei iniziò un lungo percorso con la televisione che la portò a essere per 23 anni consecutivi il regista del Maurizio Costanzo Show.

Avevo sempre il record dei film approvati e non realizzati a un certo punto mi stancai e feci tv. Prima Orazio, un sit comedy con Costanzo stesso nata da un’idea che avevo elaborato con Scola e Scarpelli e poi con lo show di Maurizio. 

Siete amici?

Con me si è comportato sempre benissimo e se dovessi individuare una sgradevolezza, resterei in silenzio. Amicizia forse no, ma di sicuro un rapporto professionale perfetto. 

Mai stato in imbarazzo per aver lavorato in una tv berlusconiana?

Mai. E a dire il vero neanche quelli che avevo intorno. Mi dissero di tagliarmi la barba e di non vestirmi di marrone, ignorai i consigli e non accadde niente. Ci lavoro ancora oggi in una tv berlusconiana, da regista di C’è posta per te. Maria De Filippi è bravissima, non stacca mai, lavora sempre, feste comprese. 

La musica è cambiata, in tutti i sensi. 

Per tutti. Se mi fossi dovuto sostenere con I dischi del sole avrei fatto la fame. Da parte non ho messo niente, ma mi sono divertito. 

Ha ancora senso la canzone politica?

Alla fine si è mischiato tutto, la canzone è cambiata e noi cantautori siamo rimasti come vecchi dinosauri sullo sfondo. 

In lei prevale l’allegria o il tono malinconico?

Non sono felice perché vedo merda montare da tutte le parti: il crollo delle ideologie ha creato mostri, ma per il resto non mi lamento. Canto ancora e ogni tanto mi svito la testa per fare anche l’altro lavoro, quello che mi dà da mangiare.

Nessuna. Sto sempre per conto mio. Lo vedo che mi guardano come uno un po’ strano e a nessuno viene in mente di dire passiamo qualche ora con Paolo.

E a lei dispiace?

Neanche per sogno. Da solo sto benissimo.

·        È morto lo scrittore Wilbur Smith.

Da “ANSA” il 14 novembre 2021. Wilbur Smith, uno degli autori più prolifici e famosi al mondo, è morto sabato 13 novembre a Cape Town, in Sudafrica. Aveva 88 anni. A darne notizia è stato il suo sito: ''Se n'è andato in modo inaspettato, dopo una mattinata di lettura e scrittura, con al fianco la moglie Niso''.''L'autore di bestseller globale Wilbur Smith è morto inaspettatamente questo pomeriggio nella sua casa di Città del Capo dopo una mattinata passata a leggere e scrivere con sua moglie Niso al suo fianco'', spiega il suo sito ufficiale. ''Maestro indiscusso e inimitabile della scrittura d'avventura, i romanzi di Wilbur Smith hanno catturato i lettori per oltre mezzo secolo, vendendo oltre 140 milioni di copie in tutto il mondo in più di trenta lingue. La sua serie più venduta Courtney, la più lunga nella storia dell'editoria, segue le avventure della famiglia Courtney in tutto il mondo, attraversando generazioni e tre secoli, attraverso periodi critici dall'alba dell'Africa coloniale alla guerra civile americana e all'era dell'apartheid in Sud Africa. Nei 49 romanzi che Smith ha pubblicato fino ad oggi, ha trasportato i suoi lettori nelle miniere d'oro in Sud Africa, pirateria nell'Oceano Indiano, tesori sepolti nelle isole tropicali, conflitto in Arabia e Khartoum, antico Egitto, Germania e Parigi della seconda guerra mondiale, L'India, le Americhe e l'Antartico, incontrando spietati commercianti di diamanti e schiavi e cacciatori di selvaggina grossa nelle giungle e nella boscaglia delle terre selvagge africane. Tuttavia, è stato con Taita, l'eroe della sua acclamata serie egiziana, che Wilbur si è maggiormente identificato, e River God rimane uno dei suoi romanzi più amati fino ad oggi'', si legge ancora nella nota che annuncia la sua morte. ''Il primissimo romanzo di Wilbur Smith When the Lion Feeds, pubblicato nel 1964, è stato un bestseller istantaneo e ciascuno dei suoi romanzi successivi è apparso nelle classifiche dei bestseller, spesso al numero uno, dando all'autore l'opportunità di viaggiare in lungo e in largo alla ricerca di ispirazione e avventura. Era un sostenitore della ricerca profonda, corroborando meticolosamente ogni fatto e aderendo al consiglio del suo primo editore, Charles Pick di William Heinemann, di "scrivere delle cose che conosci bene". Smith, esperto come boscimane, sopravvissuto e cacciatore di selvaggina grossa, ha ottenuto il brevetto di pilota, era un esperto subacqueo, un conservatore, gestiva la propria riserva di caccia e possedeva un'isola tropicale alle Seychelles. Ha anche usato le sue vaste esperienze al di fuori dell'Africa in luoghi come la Svizzera e la Russia rurale per aiutare a creare i suoi mondi immaginari. La sua vita, dettagliata nella sua autobiografia, On Leopard Rock, è stata commovente e piena di incidenti come tutti i suoi romanzi. Prende il nome da uno dei fratelli pionieri del volo aereo Wilbur Wright, Smith è nato il 9 gennaio 1933 nella Rhodesia del Nord, ora Zambia, nell'Africa centrale. Suo padre, Herbert Smith, era un lavoratore della lamiera e un rigoroso disciplina ed è stata sua madre più incline all'arte, Elfreda, che ha incoraggiato il giovane Wilbur a leggere artisti del calibro di CS Forester, Rider Haggard e John Buchan''

È morto Wilbur Smith. Carlo Baroni e Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 13 novembre 2021. Wilbur Smith, autore di culto che ha raccontato l’Africa al mondo, è morto a Cape Town, in Sudafrica; aveva 88 anni, e si è spento «inaspettatamente, con accanto la moglie Niso». Wilbur Smith, re dei romanzi di avventura, uno degli autori più prolifici e famosi al mondo, è morto sabato 13 novembre a Cape Town, in Sudafrica. Aveva 88 anni. A darne notizia è stato il suo sito: «Se n’è andato in modo inaspettato, dopo una mattinata di lettura e scrittura, con al fianco la moglie Niso». Smith, nato il 9 gennaio 1933 a Broken Hill, nella Rhodesia del Nord, l’attuale Zambia, era sopravvissuto alla malaria (contratta a 18 mesi) e alla poliomielite (quando aveva 16 anni). Dopo tre matrimoni, nel 2000 aveva sposato l’attuale moglie Mokhiniso Rakhimova. I suoi personaggi hanno raccontato il cammino di un continente martoriato. Gli anni dell’apartheid, le rivendicazioni della popolazione di colore. Con «I fuochi dell’ira» aveva anticipato il domani del Sudafrica con personaggi che anticipavano Nelson Mandela e i leader nazionalisti boeri. «Ho vissuto momenti duri e cattivi matrimoni, ho visto persone che amavo morirmi tra le braccia: ma tutto, in fin dei conti, ha contribuito a darmi una vita straordinariamente realizzata, e meravigliosa. Vorrei essere ricordato come qualcuno che è riuscito a regalare piacere a milioni di lettori», aveva scritto alla fine della sua autobiografia, «Leopard Rock, l’avventura della mia vita», pubblicata nel 2018. Sembrava nato apposta per narrare l’avventura, con un talento impressionante. Lo scrittore Wilbur Smith, scomparso all’età di 88 anni, aveva una sorta di tocco magico nel catturare l’affetto dei lettori, in particolare di quelli italiani, che lo seguivano con durevole assiduità. Si calcola che nel mondo i suoi oltre quaranta romanzi avessero venduto qualcosa come 140 milioni di copie, dei quali circa 24 nel nostro Paese. Produrre bestseller era il suo mestiere, sin dall’esordio nel 1964 con Il destino del leone (Longanesi, 1981; HarperCollins Italia, 2020). Il segreto di Smith? Una miscela d’ingredienti ben calibrati. Vicende appassionanti e drammatiche, personalità spiccate, sentimenti intensi, ambientazioni esotiche, a partire dall’Africa australe, dove l’autore era nato, per arrivare all’Egitto dei faraoni. La sua prosa afferrava il lettore e lo trascinava quasi di forza in un mondo pieno di suggestioni emozionanti, dal quale era impossibile staccarsi e che invogliava a conoscere altri passaggi delle sue lunghe saghe in diverse tappe. Aveva costituito anche una fondazione, intitolata a sé stesso e alla quarta moglie Niso, per promuovere la narrativa d’avventura con annesso un premio letterario. Smith sosteneva di essere stato accompagnato nella vita da una «fortuna sfacciata», ma aveva conosciuto anche momenti difficili prima di affermarsi come romanziere di successo negli anni Sessanta. Era nato il 9 gennaio 1933 a Broken Hill, oggi Kawbe, in quella che allora era la Rhodesia del Nord, protettorato britannico, e in seguito è diventata lo Stato indipendente dello Zambia. A diciotto mesi era stato colpito dalla malaria cerebrale, ma l’aveva superata. Diceva che però era rimasto «un po’ matto» e questo lo aveva aiutato nella carriera di romanziere. Il padre di Smith, tipico colonizzatore dell’epoca vittoriana, era un uomo severo, pronto a infliggere punizioni corporali al figlio per le sue marachelle. Allevava bestiame nella sua tenuta di 12 mila ettari, dove il piccolo Wilbur, che adorava il papà come un semidio, aveva trascorso anni di giochi nella boscaglia e piccole battute di caccia con la fionda insieme ai figli dei dipendenti neri dell’azienda. A otto anni aveva ricevuto in dono il primo fucile e aveva presto imparato a sparare. Dalla madre Elfreda Lawrence aveva invece mutuato l’amore per la narrativa. «Ogni sera — ricordava — mi leggeva storie della buonanotte». Smith aveva preso dimestichezza con i libri per ragazzi, poi con autori come Henry Rider Haggard, John Steinbeck, Rudyard Kipling. Era nata in lui l’aspirazione a scrivere, magari nella veste di giornalista, alimentata più tardi negli anni al collegio Cordwalles, in Sudafrica, grazie al sostegno di un insegnante d’inglese. Il padre di Smith riteneva però che ci si dovesse guadagnare la vita in altro modo e il giovane Wilbur, dopo la laurea in Scienze commerciali alla Rhodes University, aveva intrapreso il mestiere di contabile per il fisco britannico. Poi si era sposato, ma il suo primo matrimonio, da cui erano nati due figli, era rapidamente naufragato, lasciandolo in difficoltà economiche. Non aveva però abbandonato il sogno di diventare un narratore e aveva pubblicato i primi racconti, con un soddisfacente riscontro. Invece il romanzo The Gods First Made Mad («Gli dei prima ti fanno impazzire») era stato rifiutato da parecchi editori e non è mai uscito. Lo stesso Smith ne parlava in tono fortemente autocritico, ammettendo di aver commesso «tutti i grossi errori nei quali un giovane scrittore può incappare». Tutt’altra musica per Il destino del leone, un successo immediato che nel 1964 aveva proiettato l’autore verso la notorietà, consentendogli di diventare un romanziere a tempo pieno, anche se nel Sudafrica bigotto di allora era stato vietato. Le vicende drammatiche e strazianti dei fratelli Sean e Garrick Courtney, ambientate nel Natal ottocentesco, avevano affascinato una vasta platea di lettori e dato il via a una saga destinata a durare — coinvolgendo antenati e discendenti dei protagonisti — e a suddividersi in tre cicli che coprono un arco di tempo dal XVII secolo (Uccelli da preda, Longanesi, 1997) ai nostri giorni (Tempesta, HarperCollins Italia, 2021). Ai Courtney si sarebbero poi aggiunti, a cominciare dal romanzo Quando vola il falco (Longanesi, 1986), i Ballantyne: un’altra stirpe di avventurieri immersa nello scenario di un’Africa selvaggia e contesa lungo un periodo di circa un secolo. E infine le due famiglie si sarebbero incontrate in una ulteriore saga cominciata con Il trionfo del sole (Longanesi, 2006). Nel frattempo l’infaticabile Smith aveva prodotto dagli anni Novanta in poi la serie dei suoi romanzi egizi, che si dipanano nell’antica terra delle piramidi: un ciclo di alcuni libri nel quale spicca la figura dell’eunuco Taita, scriba, mago e generale. Altro personaggio al centro di una saga concepita da Smith è Hector Cross, ex ufficiale dei corpi speciali britannici, che ai giorni nostri diventa titolare di un’agenzia di sicurezza e affronta nemici spietati con la determinazione e la prestanza atletica di uno 007 aggiornato. La vita privata di Smith aveva attraversato diverse fasi. Dopo un secondo matrimonio andato a monte, aveva sposato nel 1971 Danielle Thomas, morta nel 1999 per un tumore al cervello, e quindi nel 2000 erano giunte le quarte nozze con la giovane tagika Mokhiniso Rakhimova, detta Niso. Aveva avuto dai primi due matrimoni una figlia e due figli, con cui i rapporti non erano stati facili. Ben saldo, come si è detto, era il legame di Smith con l’Italia, dove viaggiava spesso e le sue opere andavano a ruba. Con sincera gratitudine mista forse a un pizzico di adulazione, usava lodare l’eredità culturale dell’antica Roma e anche la missione civilizzatrice svolta dalle legioni nelle isole britanniche. Ma il suo primo amore restava ovviamente l’Africa. Grande ammiratore di Nelson Mandela, che definiva «eroe globale», auspicava che il continente riuscisse a difendere meglio il suo patrimonio naturale e a utilizzare in modo equo le tante risorse disponibili. Innamorato perdutamente del suo lavoro, Smith sosteneva di avere un gran numero di libri in testa «che chiedono a gran voce di essere scritti». In età avanzata continuava a lavorare con immutato entusiasmo, avvalendosi dell’assistenza di coautori ai quali riconosceva il loro ruolo: Giles Christian, Tom Harper, David Churchill, Tom Cain, Mark Chadbourn e altri. Con Chris Wakling aveva inaugurato una serie di libri per ragazzi. Nel 2018 aveva pubblicato il libro di ricordi Leopard Rock, soffermandosi in particolare sulle vicende più curiose e rocambolesche del periodo in cui trovava eccitante il pericolo. Ma la vocazione più imperiosa di Smith era sempre stata mettersi alla scrivania davanti a fogli da riempire. Sentirsi «creatore di mondi» lo rendeva felice. 

Morto lo scrittore Wilbur Smith: aveva 88 anni. Enrico Franceschini su La Repubblica il 13 novembre 2021. L'annuncio sul suo sito: "Se n'è andato in modo inaspettato dopo una mattinata di lettura e scrittura". Se n’è andato come un personaggio dei suoi romanzi: di colpo, inaspettatamente, dopo una giornata passata a leggere, scrivere e godere della compagnia della quarta moglie, la tagika Niso, colei a cui aveva appena dedicato l’ultimo libro, appena uscito in Italia. “Hai guarito il mio cuore e mi hai donato la forza di un esercito”, recita il messaggio all’amata consorte sulle prime pagine del volume, “grazie per avermi spinto a diventare il miglior scrittore possibile”. Resteranno forse queste le ultime parole di Wilbur Smith, il re dell’avventura, scomparso a 88 anni in Sud Africa, nel continente dove era nato, dove aveva quasi sempre vissuto e in cui aveva messo in scena le epiche storie che lo hanno reso, se non il “miglior scrittore possibile”, certamente uno degli autori più popolari e più ricchi del mondo. Quaranta titoli, suddivisi tra la saga sull’antico Egitto, di cui Il nuovo regno costituisce l’ultimo capitolo, preceduto da Il dio del fiume, Il settimo papiro e svariati altri, e quelle su dinastie di famiglie di bianchi come lui, cresciuto nella Rhodesia (oggi Zambia) dell’apartheid, regime che condannò aspramente, poi passate attraverso la fine del colonialismo e l’inizio di una nuova era all’insegna dell’eguaglianza razziale, come il ciclo dei Courtney e dei Ballantyne, iniziato con Il destino del leone, il fortunato esordio che lo fece scoprire e ne fece un campione di best-seller. Centoventi milioni di copie vendute, un sesto delle quali in Italia, uno dei paesi dove aveva più lettori. Il vero avventuriero era suo padre, un operaio dell’industria metallurgica che diventò padrone della fabbrica in cui lavorava, un ex-pugile “dalle braccia grosse così”, un cacciatore che in Rhodesia comprò una fattoria e si ritirò lì a coltivare la terra. Ma anche un uomo bianco con mentalità vecchio stampo, un colonialista: “Gli diedi retta finché ho compiuto vent’anni e poi ho cominciato a pensare con la mia testa”, lo ricordava Wilbur. “Non volevo perpetuare l’ingiustizia, così lasciai la Rhodesia e cercai di trovare da solo la mia strada”. Da ragazzo vuole fare il giornalista, il padre lo costringe a studiare da commercialista, ma a quel punto anche Wilbur ha la sua razione di avventure: “Ho ucciso il mio primo leone a 12 anni, per autodifesa, sono stato quasi ammazzato da un bufalo, ho visto uomini uccisi dagli elefanti e ho nuotato in mezzo agli squali”, come ha raccontato a Claudia Morgoglione in una intervista a Repubblica appena qualche mese fa. Da giovane lavora in una miniera in Sud Africa e poi si imbarca su una baleniera, anche se ne discende dopo un mese, avendo compreso che non è il suo mestiere. Per un po’ lavora per l’ufficio delle imposte sudafricano. Poi torna alla passione giovanile, scrivere: non per i giornali, però. Storie di fantasie, ispirate dall’Africa e dai suoi miti. Che si tratti del mago e scienziato Taita, protagonista della saga egiziana, o dei capostipiti dei Courtney e dei Ballantyne, i personaggi dei suoi romanzi sono il suo alter ego, come ammette per primo: gli eroi romantici che avrebbe voluto impersonare nella realtà. Il primo manoscritto viene rifiutato da venti editori. Ma quando viene pubblicato, il successo è travolgente e da allora non si ferma più. “Scrivi di ciò che conosci”, lo incoraggia l’editore. “E allora ho scritto di mio padre e mia madre”, dirà Smith, “della storia dell’Africa, dei bianchi e dei neri, della caccia grossa e delle miniere, di avventurieri e donne”. Al centro di Il destino del leone c’è un uomo che rammenta suo nonno, “cacciatore di elefanti, cercatore d’oro e comandate durante la guerra contro gli Zulu”: la sua fantasia fa il resto. Nell’ultimo decennio scriveva insieme a collaboratori scelti insieme al nuovo editore HarperCollins, che ora pubblica tutti i suoi libri anche in Italia: Wilbur pensava alla trama e abbozzava il testo, uno scrittore più giovane faceva le ricerche e la riscrittura. Ormai era un marchio di fabbrica e come un’azienda pubblicava uno o più romanzi l’anno. Non letteratura, nemmeno narrativa d’avanguardia, ma intrattenimento d’alta qualità, come testimoniano decine di milioni di fans. Anche la sua vita privata è stata un’avventura: quattro mogli e solo con l’ultima la felicità coniugale, “con la prima andavo d’accordo solo a letto, la seconda mi disprezzava, la terza ha sempre cercato di manipolarmi”. Poi l’incontro con Mokhiniso Rakhimova, una studentessa tagika dell’università di Mosca, di quasi 40 anni più giovane, che lo fa rinascere. I tre figli sono contrari al matrimonio, Wilbur la sposa lo stesso e rompe con i figli: “Sono una persona generosa”, diceva, “ma se qualcuno mi si rivolta contro, taglio ogni rapporto e per me è finita”. Fra gli scrittori che ammirava di più e considerava i suoi maestri c’erano Hemingway e Steinbeck. “Mi considero un uomo del 17esimo secolo”, affermava Wilbur Smith. “La tecnologia non mi interessa. Ho bisogno di annusare le rose e il letame di bufalo”. La sua Africa, dove ora sarà sepolto dall’amata Niso.

Le sue avventure hanno conquistato i lettori per oltre mezzo secolo, vendendo oltre 140 milioni di copie in tutto il mondo. Wilbur Smith è morto, aveva 88 anni: “Se n’è andato inaspettatamente, aveva accanto la moglie”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Novembre 2021. Generazioni di lettori sono cresciute leggendo i suoi libri. Sognando le avventure che scriveva. Wilbur Smith, si è spento a 88 anni a Cape Town in Sudafrica. “L’autore di bestseller globale è morto inaspettatamente questo pomeriggio nella sua casa dopo una mattinata passata a leggere e scrivere con sua moglie Niso al suo fianco”. È l’annuncio che si legge sul sito web personale dello scrittore. “Maestro indiscusso e inimitabile della scrittura d’avventura, i romanzi di Wilbur Smith hanno conquistato i lettori per oltre mezzo secolo, vendendo oltre 140 milioni di copie in tutto il mondo in più di trenta lingue. La sua serie più venduta Courtney, la più lunga nella storia dell’editoria, segue le avventure della famiglia Courtney in tutto il mondo, attraversando generazioni e tre secoli, attraverso periodi critici dagli albori dell’Africa coloniale alla guerra civile americana e all’era dell’apartheid in Sud Africa – prosegue la nota -. Nei 49 romanzi che Smith ha pubblicato fino ad oggi, ha trasportato i suoi lettori nelle miniere d’oro in Sud Africa, pirateria nell’Oceano Indiano, tesori sepolti nelle isole tropicali, conflitto in Arabia e Khartoum, antico Egitto, Germania e Parigi della seconda guerra mondiale, India, Americhe e Antartide, incontrando spietati commercianti di diamanti e schiavi e cacciatori di grossa selvaggina nelle giungle e nella boscaglia delle terre selvagge africane. Tuttavia, è stato con Taita, l’eroe della sua acclamata serie egiziana, che Wilbur si è maggiormente identificato, e River God rimane uno dei suoi romanzi più amati fino ad oggi”. “Il primissimo romanzo di Wilbur Smith When the Lion Feeds , pubblicato nel 1964, è stato un bestseller istantaneo e ciascuno dei suoi romanzi successivi è apparso nelle classifiche dei bestseller, spesso al numero uno, guadagnando all’autore l’opportunità di viaggiare in lungo e in largo alla ricerca di ispirazione e avventura. Credeva nella ricerca profonda, confermando meticolosamente ogni fatto e aderendo al consiglio del suo primo editore, Charles Pick alla William Heinemann, di “scrivere delle cose che conosci bene”. Smith, esperto come boscimane, sopravvissuto e cacciatore di selvaggina grossa, ha ottenuto il brevetto di pilota, era un esperto subacqueo, un conservatore, gestiva la propria riserva di caccia e possedeva un’isola tropicale alle Seychelles. Ha anche usato le sue vaste esperienze al di fuori dell’Africa in luoghi come la Svizzera e la Russia rurale per aiutare a creare i suoi mondi immaginari. La sua vita, dettagliata nella sua autobiografia, On Leopard Rock, è stata commovente e piena di incidenti come tutti i suoi romanzi. Prende il nome da uno dei fratelli pionieri del volo aereo Wilbur Wright, Smith è nato il 9 gennaio 1933 nella Rhodesia settentrionale, ora Zambia, nell’Africa centrale. Suo padre, Herbert Smith, era un lavoratore della lamiera e un rigoroso disciplina ed è stata sua madre più incline all’arte, Elfreda, che ha incoraggiato il giovane Wilbur a leggere artisti del calibro di CS Forester, Rider Haggard e John Buchan”, si conclude la nota pubblicata dal sito web di Wilbur Smith.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·        E’ morto il giornalista Giampiero Galeazzi.

È morto Giampiero Galeazzi, un'icona del giornalismo sportivo italiano. Il Quotidiano del Sud il 12 novembre 2021. Lutto non solo nel mondo del giornalismo ma nell’immaginario collettivo italiano: È morto a Roma il giornalista sportivo Giampiero Galeazzi. Aveva 75 anni ed era malato da tempo con problemi legati, come lui stesso aveva raccontato, al diabete. Galeazzi è stato uno storico telecronista e conduttore televisivo, ma anche un ex campione di canottaggio e proprio in questo sport (ma non solo) sono diventati indimenticabili le sue telecronache come quella alle Olimpiadi di Seul che ha raccontato la straordinaria vittoria dei fratelli Abbagnale nel “Due con” e dell’equipaggio del “Quattro di coppia”. Ma dal tennis al calcio, le sue telecronache hanno accompagnato milioni di tifosi. Entrato in Rai da giornalista sportivo, fu subito inviato alle Olimpiadi del ’72 a Monaco per poi passare in tv a occuparsi delle telecronache. Galeazzi fu anche inviato Rai per l’incontro di Reykjavik fra Gorbaciov e Reagan nel 1986 e passò poi a condurre trasmissioni storiche come “90° Minuto”, oltre a cimentarsi su altri palcoscenici, dal Festival di Sanremo a Domenica In, facendo anche da doppiatore per “Space Jam”, il film con protagonista Michael Jordan. Galeazzi, cui non è mai mancata una forte dose di autoironia, era anche noto con il soprannome di Bisteccone per la sua mole fisica di certo non trascurabile (nomignolo che gli fu dato dal giornalista Gilberto Evangelisti ma che ai più è noto per le battute che era solita fare Mara Venier durante Domenica in quando negli anni 90 aveva proprio Galeazzi tra i co-conduttori), all’anagrafe era Gian Piero Daniele Galeazzi. Nato a Roma il 18 maggio 1946 ma di origini piemontesi, si era laureato in Economia con una tesi in statistica. Fu un professionista del canottaggio: nel 1967 vinse il campionato italiano nel singolo e nel doppio con Giuliano Spingardi l’anno successivo mentre nel 1968 partecipò alle olimpiadi di Citta del Messico.

Quando Giampiero Galeazzi si emozionò riascoltando la telecronaca degli Abbagnale. Lacrime da Mara Venier. Il Tempo il 12 novembre 2021. Una pioggia di post e tweet d'affetto per Giampiero Galeazzi, il popolare "Bisteccone" dello sport in tv che ha raccontato per anni il calcio e tante altre discipline. Il giornalista è scomparso oggi, venerdì 12 novembre all'età di 75 anni. La sua voce imponente ed emozionata è legata a doppio filo alle imprese nel canottaggio dei fratelli Abbagnale, storici i suoi commenti delle vittorie del remo azzurro. Nell'ultima apparizione televisiva, a Domenica In, nel 2019 Galeazzi già provato nel fisico si emozionava riascoltando la storica telecronaca dell'oro olimpico degli Abbagnale: “C’ero anch’io lì sopra. Era un ‘tre con’”, diceva a Mara Venier (di seguito e a questo link il video). "Andiamo a vincere!". L’urlo liberatorio per celebrare l’impresa dei fratelli Abbagnale alle Olimpiadi di Seul ’88, dopo una telecronaca incalzante e ansimante, infatti sarà probabilmente il ricordo più vivido di Giampiero Galeazzi, morto oggi a 75 anni dopo una lunga malattia. Giornalista sportivo ma anche molto di più: conduttore, intrattenitore, telecronista, con un passato da giovane campione del canottaggio. Alto, corpulento, imponente, ’Bistecconè ha vissuto tante vite, e ognuna di successo: promettente canottiere, vinse il campionato italiano nel singolo nel 1967 (che gli valse la medaglia di bronzo al valore atletico) e nel doppio con Giuliano Spingardi nel 1968 e in quell’anno partecipò alle selezioni per le Olimpiadi del 1968 a Città del Messico. Poi la scelta del giornalismo, l’assunzione in Rai nei primi anni ’70, le prime Olimpiadi (Monaco 1972) dove esordì con la prima telecronaca del suo amato canottaggio. Negli anni ’80 arrivano la Domenica sportiva, Mercoledì sport, 90mo minuto, trasmissioni storiche con escursioni nell'intrattenimento e l'ingresso nel carosello dei volti tv più popolari di sempre. 

Aldo Grasso per corriere.it il 12 novembre 2021. È morto all'età di 75 anni Giampiero Galeazzi, storico giornalista sportivo. Era malato da tempo e da settimane era ricoverato in terapia intensiva al Policlinico Gemelli di Roma. È una domenica pomeriggio del 2018 e Giampiero Galeazzi si presenta a Domenica in, dalla sua amica Mara Venier, in carrozzina. Ha problemi di diabete, le gambe gonfie, lo studio è pieno di cavi e qualcuno gli consiglia di non rischiare. Qualche giorno dopo lui se ne rammarica, perché tutti pensano che stia molto male e un ex campione come lui non può congedarsi in questo modo: «Ho sbagliato a presentarmi in quel modo: sui social m’hanno già fatto il funerale. La verità è che sono reduce da un’operazione al ginocchio sinistro, mi muovo con le stampelle. La salute va su e giù, come sulle montagne russe. Ho sbalzi di pressione, gonfiore alle gambe. Quando mi emoziono, mi tremano le mani». Già, l’emozione, quel sentimento che lui per primo aveva introdotto nelle telecronache quando aveva accompagnato nl 1988 i fratelli Abbagnale all'oro olimpico di Seul: «Rinviene la Germania dell’Est, ma la prua è italiana. È la prima a vincere». Un’emozione a briglia sciolta, da far tremare i televisori, da rendere epico uno sport che fino ad allora era vissuto un po’ nell’ombra, un’emozione urlata con tutta la voce in corpo. Già, il corpo. Galeazzi era conosciuto anche con il soprannome di «Bisteccone» (Mara Venier si divertiva un mondo a chiamarlo così) affibbiatogli dal giornalista Gilberto Evangelisti, grazie al quale era stato assunto in Rai, alla radio. «Era il 1970, un giorno dovevo andare a giocare un doppio di tennis con Renato Venturini, che lavorava alla radio», aveva ricordato Galeazzi intervistato dalla Gazzetta dello Sport. «Andai a prenderlo nella sede di via del Babuino e mi presentò ai colleghi dello sport. Ero alto e massiccio, così Gilberto Evangelisti se ne uscì con la frase: “Renà, ma chi è ‘sto Bisteccone?”». Galeazzi si è occupato di tutti gli sport, dal calcio al tennis, dal ciclismo allo sci, ma il suo nome resta indissolubilmente legato al canottaggio. Merito degli Abbagnale se questo sport è diventato popolare, merito suo se lo ha reso popolare: «Partiti. L’importante per l’Italia è tenere il contatto con i battistrada. Giuseppe e Carmine hanno messo la loro prua davanti a tutte le altre. Partenza secca e asciutta dei fratelloni di Castellamare. Andiamo Giuseppe, andiamo Carmine. 37 i colpi in questo momento. Avanzano inesorabili con le loro pale a mannaia…». In gioventù, anche lui era stato campione italiano nel singolo nel 1967 e nel doppio con Giuliano Spingardi nel 1968, anno in cui partecipò alle selezioni per le Olimpiadi del 1968 a Città del Messico. Quando nel 1987 il Napoli vince lo scudetto, negli spogliatori passa il microfono a Maradona e lo reinventa intervistatore: uno show più che una cronaca. Era debordante in tutto, voglioso di nuove esperienze, anche nel mondo dello spettacolo: diventa inevitabilmente “personaggio”, oggetto persino di imitazioni. Dal 1994 si propone nelle inedite vesti di intrattenitore in Domenica In, incosciente delle insidie che lo aspettano (canzoni, sketch, balletti), incurante delle critiche. Gli bastava sorridere di tutto, manifestare autoironia. L’anno seguente torna alla conduzione di 90° minuto (che ha guidato da ‘92 al ’99). Nel 1996 Pippo Baudo lo vuole al 46º Festival di Sanremo 1996. Poi lo vediamo a fianco di Antonella Clerici, durante i mondiali calcio di Francia 1998. Non si fa mancare nulla: con Gaia De Laurentiis è protagonista di “Su e giù” e con Milly Carlucci di “Dove ti porta il cuore”. In occasione dei Mondiali di calcio del 2002 in Giappone e Corea del Sud, Galeazzi torna a condurre (con Marco Mazzocchi, Luisa Corna) la striscia quotidiana Notti Mondiali e, nel 2003, Stappa la tappa e La domenica sportiva. «Andiamo a vincere» era il suo grido di battaglia. Lo avrà certamente urlato anche in questa ultima.

Galeazzi, il ricordo di Sconcerti: il primo giornalista nazionalpopolare, i campioni si confidavano. Mario Sconcerti su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2021. Improvvisava, il canovaccio era lui. Piaceva ai suoi interlocutori, ne diventava il confidente: era lui il colore, se non c’era significava che non era un grande evento. È morto all'età di 75 anni Giampiero Galeazzi, storico giornalista sportivo. Era malato da tempo e da settimane era ricoverato in terapia intensiva al Policlinico Gemelli di Roma. Che non stesse bene si sapeva da un pezzo e qualcosa di brutto ci si aspettava da molto prima. Aveva arrotondato all’inverosimile il suo fisico perfetto da campione di canotaggio esaurendolo in tante storie di eccessi in tutto il mondo. Ma se devo raccontare la prima cosa che mi viene in mente di Giampiero è il suo sorriso, anche di sé, quella lunga risata grassa, un po’ impostata da eroe televisivo, ma sincera, contagiosa. Era un giornalista da commedia dell’arte, improvvisava, il canovaccio era lui. E sapeva diventare subito un pezzo del mondo che doveva raccontare. Lui c’era sempre, nella calma di uno studio televisivo, nella fretta e nella lotta dei grandi spogliatoi di tutto il mondo, dove era necessario guadagnarsi il posto di battaglia migliore. Se eri in coda non sentivi niente. E quando intervistava in diretta sembrava avesse vinto lui, non l’altro. Aveva negli occhi la luce dell’impresa. Lo spettacolo per noi ragazzi di giornalismo era capire come avesse fatto Galeazzi ad arrivare lui, a trovarsi davanti a Maradona il giorno dello scudetto, a bere champagne con lui e Careca mentre noi eravamo ancora oltre la porta ad ascoltare una festa di altri. Così avevo imparato: quando lo vedevo muoversi in uno stadio, in un’Olimpiade, quando c’era profumo di impresa e lui cominciava a sgranchire la sua grande mole, io gli andavo dietro. Passavo i suoi stop quasi coperto dalle sue spalle. Lui era Bisteccone e io Sconcertino. «Vieni come me» mi diceva. Non c’è mai stata amicizia, c’era simpatia, il suo piacere di indicarmi il mestiere, di mostrarmi quello di cui era capace. Non ho mai capito realmente chi fosse, la sua vita raccontata era piene di cose straordinarie e contraddittorie. Così grande e grosso, così goloso, così popolare e romano, eppure laureato in Economia statistica, materia dottorale, profonda, scientifica, mentre Giampiero sembrava tutto fuorché uno scienziato. Era un uomo di tutti, felice di avere avuto tanto e poter restituire, felice del suo lavoro tutto di corsa, elementare come essere davanti a un albero e farlo parlare. Il grande cronista è uno che c’è sempre perché sa prima dove andare. Eppoi aveva qualcosa nei modi di porsi che avevo visto solo in Gianni Minà. Piaceva ai suoi interlocutori, ne diventava il confidente. Era facile parlare con Giampiero perché non ti tradiva, era rimasto atleta, sapeva cosa cogliere e cosa dimenticare. I suoi soggetti gli rimanevano fedeli come Maradona, Clay o Castro a Minà. Gianni più selettivo, più colto, più da film che da intervista rubata in uno spogliatoio, ma con lo stesso principio totale. Non credo che Giampiero sia diventato un maestro. È stato troppo unico per lasciare lezioni. Appariva improvvisamente dove lo sport contava, era come l’invitato d’onore a un matrimonio, il testimone del tempo. Se non c’era lui, non era un grande matrimonio. Non sono cose che puoi insegnare. Io infatti mi limitavo a seguire il suo corpaccione in movimento e a invidiarlo. Faceva domande normali, dirette, e tu sentivi che aveva un grande senso giornalistico anche quando diceva «come stai? Cosa si prova?». Faceva paesaggio, atmosfera, era lui che dava colore. Le avessi dette io col taccuino in mano sarebbero state patetiche. Lui con la sua altezza, il microfono, gli abitoni chiari e stirati, illuminava la scena e la puliva da qualunque banalità. Ci vuole una classe immensa per poterlo fare. No Galeazzi no party si direbbe ora. Ed era così vero da non essere nemmeno in discussione. Aveva una naturalezza fisica e mentale, era un assalto continuo, i campioni erano contenti di averlo intorno, si sentivano gratificati. Qualcosa di impensabile oggi. A volte mi sembrava eccedesse. Era diventato presenzialista, faceva forse troppe parti, mentre era soprattutto un giornalista sportivo, già lieve in partenza, e che per me deve rimanere sempre un po’ monaco. Ma lui amava piacere alla gente, credo abbia vissuto la vita e la professione come un lunghissimo banchetto, una tavola dove ci si prende in giro e si ricorda, non si creano problemi. Ed è arrivato ad essere tante cose diverse, forse il primo vero giornalista nazionalpopolare della Rai di Stagno e Barendson, i sacerdoti di un classicismo protetto allora da professionalità profonde, per questo con il bisogno continuo di uno che rompesse gli schemi per loro. L’estate ci ritrovavamo in un albergo del Circeo, da Giangi, un amico comune che metteva nel menu un pesce marinato alla Galeazzi. Credo ci sia ancora. In costume Giampiero sembrava un monumento di Botero. E quando si alzava dalla sdraio per tuffarsi in piscina, la gente si raccoglieva ai bordi come al risveglio di un vecchio amico che sorprenderà. Prendeva una breve rincorsa poi saltava. E una montagna d’acqua saliva da ogni parte. Poi metteva la testa fuori dall’acqua e aspettava l’applauso educato della gente. Anche per oggi aveva fatto il suo dovere di istrione.

Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 12 novembre 2021.

ATTO PRIMO. Immenso Giampiero, in tutti i sensi possibili. Il bisteccone più amato nella storia delle bistecche umane. Intervista in 3 round e 3 atti sulla scia dello stordente happening che accade in tempo reale a Tokyo. Mi parla dal divano di casa. Non lo vedo, ma è come se lo vedessi. Un’immagine lirica che infonde pace, anche oggi che è malato, con il suo diabete, la protesi al ginocchio, la difficoltà a camminare e i chili addosso che sono sempre tanti, troppi. La voce è quella che è, quella che resta, di un personaggio omerico. L’amabile orco faceva tremare le case degli italiani con la scusa dei fratelloni Abbagnale. Ci strappava di peso dalle case e ci portava dentro le cose. Che fossero gare, eventi, sketch, persone. Oggi i suoni si fanno largo a fatica. Qualche volta si spezzano lungo la strada. Ma la mente è più lucida che mai, i pensieri sferzanti. Lo slang romanesco traccia sintesi inesorabili. È come se fossi lì, sono lì, seduto al suo fianco, nella sua casa romana, a sbirciare i Giochi, tra l’avido e l’annoiato. Di questo Falstaff contemporaneo, che ha stravissuto, stramangiato, strabevuto, stragoduto, qualche volta straparlato. Gli sto accanto e sento di volergli bene, a questo smisurato omone, ostaggio di un mondo che aveva solo sapori e ora ha solo languori. 75 anni e non un solo giorno sprecato a contemplare ciò che era possibile vivere.   

Come te la passi Giampiero?

“Sto a pezzi, sto qui piegato in due sul divano, dopo la fisioterapia…”. 

Vuoi che rinviamo?

“Ma no, famola adesso, che poi devo stare con mio figlio…”. 

Li stai seguendo questi Giochi?

“Abbastanza. Sai, dovendo stare a letto tutto questo tempo. Ho difficoltà serie di deambulazione. Cammino a fatica. A giorni vado, altri no”. 

Come li stai vivendo?

 “Sono partiti a fari spenti con questo Covid. Mettiamoci al posto degli atleti. L’incertezza. Li fanno o no? Molto duro, dal punto di vista psicologico e della preparazione. Pensavo che li rimandassero. I giapponesi non li volevano” 

Giusto non rimandarli?

“Sarebbe stato meglio evitare tutto questo gigantismo. Se ne poteva fare a meno di tutte queste discipline da esibizione, lo skateboard, il surf, l’arrampicata. Hanno portato 340 persone. Sai quanti eravamo noi in Messico?”

No.

“Quasi la metà, 180. No, non mi sarei allargato così, viste le circostanze…”. 

Sei andato come riserva del canottaggio.

“Amo lo sport e lo odio per questo motivo. È stata la più grande delusione della mia vita. Meritavo di essere titolare”. 

Ti brucia ancora?

“Mi brucia più di prima. Se ci penso divento idrofobo. Una  delle più grandi ingiustizie sportive di sempre. Fosse stato oggi sarei andato in automatico e m’avrebbero portato le valigie. C’era un discorso politico sotto, il rapporto tra società e Coni. Se ero dell’Aniene andavo con la tromba” 

Tanti, forse troppi, a Tokyo, ma vincenti. E che vittorie!

“La vittoria di Jacobs sui 100 metri è tecnicamente la sorpresa maggiore. Un italiano sul podio più alto. Inimmaginabile. M’ha emozionato Tamberi. S’è portato il gambale dell’operazione come un totem e se l’è messo vicino all’asticella. Roba da pazzi. Solo l’assurdità dello sport può questo. Recuperi e vittorie miracolistiche”. 

Mai visto Giovanni Malagò così commosso.

“È un combattente, un uomo che non s’è mai tirato indietro. S’è messo sulle spalle tutto il mondo sportivo, contro i politici che non lo possono vedere”.

Malagò, bravo e fortunato

“C’ha un culo grande cosi, ma se lo merita tutto”. 

Vuole vincere ancora, è insaziabile.

“Ha imparato da Agnelli e da Montezemolo”. 

Che altro ti ha emozionato?

“Le medaglie di Paltrinieri e l’oro delle ragazze del canottaggio femminile. Queste sono due ragazzine di Varese hanno sfondato ogni pronostico. Hanno fatto una cosa straordinaria. Erano quarte ai 200 metri…”. 

Giampiero telecronista a Tokyo: cosa ti sarebbe piaciuto raccontare, canottaggio a parte?

“Famme pensa’…Io ho cambiato lo stile d’interpretare il racconto dello sport. L’atletica leggera non è nelle mie corde. Mi sarebbe piaciuto raccontare i tornei oscuri che nessuno guarda, quelli sulle pedane, i tappeti, la lotta, queste cose qua”. 

Il tennis?

“Il tennis non fa parte delle Olimpiadi. Lasciatelo a Wimbledon, Roland Garros. Quello è il suo mondo, la sua liturgia. Il tennis all’Olimpiade è uno sport clandestino” 

Più emozionato per i due ori in sequenza dell’atletica o la vittoria della Nazionale agli Europei?

“I due ori dell’atletica, senza dubbio alcuno”. 

Insinuazioni malevoli sulla vittoria di Jacobs.

“Quello che ci hanno fatto gli inglesi dopo il calcio era roba da chiudere le ambasciate. Hanno rifiutato le medaglie, ci hanno sputato in faccia. Noi italiani non siamo molto amati all’estero per la brutta nomea. Hai visto Cuomo?”.

Cuomo, il sindaco di New York?

“Lo stanno massacrando solo perché è italiano. Non contano nulla tutte le cose grandiose che ha fatto, prima da governatore, poi da sindaco”. 

Insomma, solo invidia e maldicenza su Jacobs?

“Non credo proprio che sia dopato. Questi poi stanno sempre sotto osservazione. Stiamo parlando di un italo-americano, un dna speciale. Ha vinto con una spontaneità impressionante. Noi, se togli Berruti e Mennea, certi ori dell’atletica l’abbiamo sempre visti dal buco della serratura”. 

Come ti sembra la copertura Rai dei Giochi?

 “Abbiamo una buona scuola di base. Abbiamo sempre fatto bene alle Olimpiadi. Il Migliore? Bragagna con l’atletica. Bene anche il nuoto. In altri sport ci siamo arrangiati con i tecnici, cui manca però il senso del racconto, cioè tutto. Mi sono piaciute le donne a Tokyo, nei commenti e nelle cronache”. 

Guardi al passato?

“Mai guardato al passato. Non ero mai stanco. Una furia. Adesso mi sono fermato. Torno indietro con la mente”. 

E?

“Mi pesa  il distacco dall’ambiente lavorativo. Mi manca quella cosa lì. Prima sei un ufficiale a cavallo, poi non sei nemmeno un fante pedestre”. 

Maradona era un tuo amico. La sua morte?

 “Era finito in brutte mani. Sfruttato da tutto l’ambiente, parenti e amici. Anche i medici. Si sono buttati addosso come le cavallette per aiutarlo, invece l’hanno ammazzato”. 

Hai avuto dalla Rai quello che meritavi?

“Mamma Rai ti dà e ti leva. Io sono stato fortunato perché a un certo punto ero come Baudo e Martellini messi insieme. Spettacolo e sport. Ho spinto troppo. Dovevo fermarmi prima e pensare un po’ alla carriera”. 

Invidia suscitata?

 “M’hanno fatto veramente di tutto. Puoi immaginare..”. 

La più difficile da sopportare?

“M’hanno tolto il canottaggio due anni prima, di andare in pensione. Un dispiacere enorme. Diceva Lello Bersani: tutto è permesso in Rai fuor che il successo, Ho pagato questo. Andavo tra la gente e sembravo l’apostolo. Sempre dritto come un treno, mai fregato niente dei detrattori. Trovo solo ingiusto che alcuni devono andare in pensione a una certa età e altri invece…”. 

Un esempio?

“Bruno Vespa.  Direttore megagalattico, per carità, ma non c’entra. Lo stesso Marzullo”.

Ha annunciato l’addio anche Paola Ferrari. Ne sentirai la mancanza?

“Non molto. Ci ho lavorato parecchio insieme. Ultimamente era molto migliorata. È sempre stata troppo invadente. Monopolizza lo spazio, ha prevaricato il suo ruolo. Prima non si preparava, ora aveva imparato a farlo”. 

Il tuo erede?

“Mah, dicono tutti questo Pardo. È intelligente, bravo, ma fa troppe cose, lo vedo ovunque, così si perde… Sentiamoci domani, respiro male”. 

Come va la gamba?

“Sto cercando di recuperare dopo l’operazione a Bologna di cinque anni fa. La protesi al ginocchio ha portato a mille tutte le mie problematiche, la pressione sanguigna alta, la glicemia alta, il diabete, l’aritmia cardiaca”. 

Hai vissuto troppo generosamente.

 “Il ginocchio è la mia croce, me lo so’ rotto a 25 anni. Me l’aveva detto Greco, il mitico massaggiatore del Coni: “Non te fa’ tocca mai...sfiammi, fai ginnastica, creme, massaggi”. 

Tornassi indietro?

“Non mi opererei di certo. Non mi fossi operato, oggi sarei salvo, pigliavo il bastone e chi se ne frega…”. M’ha dato più problemi che vantaggi questa protesi. E poi, ho fatto troppo sport…”.

Lo sport fa male a certi livelli.

“Non c’è dubbio. Pensavo che facendo più sport avrei tenuto al riparo la muscolatura, la circolazione. Sbagliavo. Devi preservare il tuo equilibrio interno”. 

Esempio?

 “Se fa il tennis non puoi fare il sollevamento pesi. Fa male assommare le cose. Io giocavo a pallone, a tennis, remavo, facevo la pallavolo, adesso il risultato è che sto piegato in due e sto respirando male”. 

Eccessi di cibo.

“Tu sai benissimo com’era la nostra vita in giro per il mondo. Tornando indietro, starei più attento non tanto al mangiare, ma a prendere più spazio per la mia vita privata. Per me e per la mia famiglia. Facevo tutto, andavo dovunque, mondiali calcio, tennis, motonautica, ciclismo”. 

Sei migliorato con il peso?

“Un po’ so sceso. Oggi sto sui 150 chili. Questo non m’aiuta”. 

La vita merita di essere vissuta?

“Assolutamente sì, sempre”. 

Spiegandola a un ragazzo che non la pensa così?

“Dietro ogni ostacolo che affronti, scopri cose nuove di te, nuove energie, nuova vita, senza mai spegnersi, sempre all’attacco”. 

Campioni che si ostinano. Ha annunciato l’addio Valentino Rossi

 “I grandi campioni sono immortali. Alcuni soffrono la mancanza di cultura, la scarsa capacità di adattamento. Guarda Totti, immenso in campo, il più grande calciatore italiano, ma fuori dal campo lo vedo in difficoltà”. 

Il più grande sportivo mai raccontato?

”Maradona, senza dubbio. Di Federer ho fatto in tempo a raccontare solo gli inizi”. 

Il più grande telecronista italiano di sempre?

“Paolo Rosi è stato il primo telecronista moderno. Ma il più grande di tutti è stato quello della televisione svizzera…adesso m’è passato di mente il nome”. 

Quando sei solo, il tempo che passa, gli acciacchi che aumentano, ha paura di quello che ci sarà o non ci sarà dopo?

“Non ancora. m’affaccio al balcone tranquillamente. Non mi butto di sotto”. 

Quando devi dire grazie a qualcuno

“A mia moglie Laura che per trent’anni ho visto poco per la mia vita esagerata, ma ha tenuto da sola in piedi la famiglia”.

ATTO SECONDO. Mi parla questa volta dalla terrazza di casa. Su una sedia di legno. In bermuda e dentro una canotta extralarge. Tre x. Prende il sole. Di ottimo umore. La voce è tornata bella e potente. Quella di sempre. Mi chiama.

“Aho, qui dovemo cambia’ tutta l’intervista.” 

Perché, che è successo?

“Ma come, non lo sai? Ma che stavi su Marte? Avemo appena vinto anche l’oro nella 4 x 100 uomini. Una pazzia. È come ave’ vinto la guerra”. 

Tornavo da Marte. Dici sul serio? Non ci credo.

“Incredibile. Qui piovono medaglie da tutte le parti. Tocca mettese l’elmetto…”.

Richiamami domattina alle 10 che dovemo cambia’ tutto”.

ATTO TERZO. La voce è tornata debole. Parla a fatica di prima mattina dal letto di casa.  “Ho dormito male. Non riuscivo a respirare bene”.

 Sono le notti difficili di chi ha troppa vita alle spalle e troppa carne addosso.

(qualcosa tra un grugnito e un sospiro)

Tornando all’ultima follia di questi Giochi, l’oro della 4x100.

 “Ci ho ripensato. L’immagine più bella dei Giochi? La corsa in ottava corsia di Filippo Tortu. Lui lì era al bivio della sua storia di atleta: se perdeva era la fine per lui. Ha vinto contro tutti, ha vinto pure contro Jacobs…Ho rivisto il Mennea di Mosca, la corsia era la stessa”. 

Ha vinto contro Jacobs?

“Jacobs l’aveva cancellato, l’aveva sportivamente ammazzato. E mi sa che tra i due c’è pure un po’ di freddo, non si prendono tanto. L’ho capito dalle interviste dopo l’oro. Filippo era un po’ sulle sue quando gli chiedevano di Jacobs…”. 

C’è stata poi la rosicante replica della vittoria sugli inglesi.

 “Lì per lì non c’ho pensato. Era un’impresa di portata mondiale. Poi ch’ho pensato e ho concluso che noi siamo veramente superiori agli inglesi…E comunque, mi raccomando, scrivi della frazione di Filippo Tortu. Tutto il resto è noia”. 

Il tuo podio finale?

“Sul gradino più alto ci metto l’oro sui centri metri, al secondo la staffetta 4 x 100, al terzo ex aequo Tamberi e le due ragazze del canottaggio. Se resta uno strapuntino gli ori della marcia”. 

Chi t’ha messo il nome “Bisteccone”?

“Gilberto Evangelisti. Al nord sarebbe considerata un’offesa, ma da noi è affettuoso”. 

Tornerai in tivù?

“La mia amica Mara m’aveva proposto una rubrica tipo “La posta degli innamorati”, ma le ho detto di no, non c’ho più lo spirito pe fa’ ‘ste cose. Io e lei eravamo una bomba in tivù. Funzionavamo sul piano fisico…”. 

S’è fatta pienotta anche lei.

“A Mara je piace magna, cucina bene, io ne so qualcosa. Sai, il fatto di abitare da tanti anni a Campo de Fiori aiuta, la pasta la fa bene”. 

Stavolta ci salutiamo davvero…

“Ah no, aspetta, me so ricordato il nome del telecronista più grande di sempre. Giuseppe Albertini, quello della televisione svizzera. Nessuno come lui.

Panatta ricorda Galeazzi: «Gli cucinavo durante la Coppa Davis, le nostre telecronache impensabili ora». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2021. Il campione di tennis Adriano Panatta è stato per anni la spalla in tv del telecronista scomparso, ma i due erano anche molto amici: «Con lui solo momenti divertenti». La vibrazione della voce mantiene la solita ironia ma questa volta Adriano Panatta, indimenticato campione del nostro tennis (Roma, Parigi e la Coppa Davis nell’anno di grazia 1976), ricordando l’amico Giampiero Galeazzi non può nascondere un velo di tristezza. Adriano, un altro pezzo del suo passato che se ne va. «È così, purtroppo. Di Giampiero ero molto amico, con lui posso dire di aver passato soltanto momenti divertenti».

Sia da intervistato che da compagno di squadra nelle telecronache?

«Sempre. L’ho conosciuto come commentatore dei miei match, poi alla fine della mia carriera abbiamo lavorato insieme in Rai. Erano telecronache diverse, scanzonate, impensabili oggi». 

Racconti.

«Erano meno tecniche, meno schematiche, si chiacchierava lasciando trasparire il divertimento reciproco che era vero, nulla di impostato. Giampiero sul tennis era un professionista pazzesco: arrivava preparatissimo, sapeva tutto di tutti. Un bel vantaggio, per me: era come giocare il doppio con un compagno solido, su cui sapevi di poter fare affidamento. Io, a quel punto, potevo improvvisare, andare a braccio, svariare. Dicevo tutto quello che mi veniva in mente mentre Giampiero teneva la barra dritta della telecronaca».

Peppe Abbagnale: « A casa ho le cassette con le sue telecronache»

Chissà quante risate soffocate, in quella cabina di commento.

«Uh, non si contavano… Io gli tendevo tranelli in cui lui puntualmente cadeva. Tipo quando si lanciava in lunghe disquisizioni tecniche sul dritto di Lendl o la volée di rovescio di Edberg e io gli facevo gli occhiacci, dicevo no con la testa, come se stesse sbagliando tutto. Giampiero coglieva i cenni di dissenso e faceva marcia indietro, diceva tutto e il contrario di tutto, era un fuoriclasse anche nel rigirare la frittata! Poi, durante la pubblicità, ammettevo: era uno scherzo, Giampiero! E giù risate alle lacrime». 

Galeazzi era malato da anni. Vi siete sentiti, durante l’ultimo periodo? «Regolarmente, anche di recente. Lo sentivo sempre più affaticato, ma sempre Giampiero Galeazzi. Ironico, lucido, presente. Era chiaro che non stesse bene, la voce non era più la solita, però non ha mai perso lo spirito scanzonato».

Il vostro primo incontro?

«Eh, chi se lo ricorda… Giampiero cominciò a fare le telecronache dopo Guido Oddo, che era soprannominato “disguido Oddo”. E diede subito un altro passo al racconto dello sport». 

Oltre al tennis, vi legava una profonda e sentitissima romanità.

«Sì, certo. Le nostre telecronache erano un canto e un controcanto continuo, le nostre cene una battuta unica. C’erano l’ironia tipicamente romana e una grande sintonia, alla base di tutto». 

Erano tempi, quelli, in cui dal lavoro poteva nascere un’amicizia lunga una vita.

«Eccome! Ma come fate, oggi, con i tennisti (anche per colpa del Covid) così blindati, sempre nella bolla? Quando ero capitano di Coppa Davis capitava che la sera cucinassi una pasta in grazia di Dio per tutta la squadra. In India, in Corea, in quei posti dove mangiare decentemente all’italiana era impossibile. Beh, Giampiero era sempre ospite alla nostra tavola. Mi chiamava, arrivando: Adrià, butta un altro mezzo chilo ao’, tra dieci minuti sto lì». 

Ne parla con grande affetto, Adriano.

«Gli volevo molto bene, sì. Era nato un rapporto umano bello e speciale, tanto che quando giocavo facevo fatica a distinguere i ruoli: in spogliatoio, quando veniva a trovarmi prima o dopo un match, gli parlavo come se non fosse un giornalista». 

Il ricordo che si porterà dietro per sempre?

«San Francisco, finale di Coppa Davis, Stati Uniti contro Italia, 1979. Gli americani, con Vitas Gerulaitis e John McEnroe come singolaristi, ci danno una stesa epica: alla fine vincono 5-0. Giampiero intervista in diretta me e Paolo Bertolucci, abbiamo appena perso il doppio con Stan Smith e Bob Lutz. Beh, certo che potevate giocare meglio, ci dice. A Giampiè, sai che te dico, rispondo: ma vaffan… E me ne vado. Tutto in diretta internazionale. Poi la sera, a cena, abbiamo riso come pazzi».

E' morto Giampiero Galeazzi, storica voce dello sport italiano. Il popolare giornalista romano aveva 75 anni. Soprannominato 'Bisteccone', indimenticabili le sue telecronache di canottaggio con i trionfi olimpici dei fratelli Abbagnale. La Repubblica il 12 novembre 2021. Si è spento all'età di 75 anni Giampiero Galeazzi. Il popolare giornalista sportivo e conduttore Rai da anni combatteva contro una grave forma di diabete. La sua ultima apparizione in tv risale a tre anni fa, a 'Domenica In' dall'amica Mara Venier, in una lunga intervista fatta più di silenzi e di sguardi che di parole, conclusa con il pianto della conduttrice e un lungo abbraccio.

Dal titolo italiano nel canottaggio alla Rai

Nato a Roma il 18 maggio 1946, dopo la laurea in economia, Galeazzi divenne professionista nel canottaggio dove vinse il titolo italiano nel singolo nel 1967, successo che gli valse anche la medaglia di bronzo al valore atletico, e nel doppio con Giuliano Spingardi un anno dopo. Sempre nel 1968 partecipò alle selezioni per le Olimpiadi di Città del Messico. Poi la scelta del giornalismo, l'assunzione in Rai nei primi anni '70, le prime Olimpiadi (Monaco 1972) dove esordì con la prima telecronaca del suo amato canottaggio. Negli anni '80 arrivano la Domenica sportiva, Mercoledì sport, 90° minuto, trasmissioni storiche in cui l'innata spontaneità e affabilità di Galeazzi si sposa perfettamente con un calcio ancora antico, dove i giornalisti potevano scendere in campo subito dopo le partite: memorabili le sue interviste volanti agli eroi di quello che all'epoca era il campionato più bello del mondo, da Maradona a Platini, da Bruno Conti a Liedholm neo-campione d'Italia. Gli interlocutori, abbracciati e letteralmente sovrastati dal cronista, non potevano esimersi da rivelare a caldo le loro emozioni. E poi le Olimpiadi storiche. Di lui si ricordano le telecronache degli eventi sportivi come la mitica medaglia d'oro dei fratelli Giuseppe e Carmine Abbagnale ai Giochi di Seul nel 1988 e quella di Antonio Rossi e Beniamino Bonomi a Sydney 2000.

Star televisiva

Tra gli anni '90 e i 2000 il "personaggio" Galeazzi diventa una star televisiva a tutto tondo, dando prova di grande e divertita autoironia sulla sua proverbiale stazza: balletti a Domenica In con l'amica Mara Venier, canzoni, sketch, il doppiaggio del film Space Jam. E l'affettuosa imitazione di Nicola Savino, che diventa un cult con il suo Galeazzi chiamato a fare telecronache delle discipline più assurde, sempre rigorosamente con il crescendo del tono e dell'enfasi fino all'esplosione finale dell'"andiamo a vincere". Se ne va un modello inimitabile di cronista sportivo, capace di trasformare le gare in momenti epici, l'unico in grado di mettere in secondo piano, anche grazie a una solida competenza tecnica (da non dimenticare le impeccabili telecronache del tennis, spesso in coppia con l'amico Adriano Panatta), gli stessi atleti di cui esaltava le gesta.

Le reazioni

"La morte di Giampiero Galeazzi è una notizia sconvolgente, mi lascia senza parole" dice Giuseppe Abbagnale, presidente della Federcanottaggio. "Siamo stati con la figlia pochi giorni fa e avevamo parlato di lui, mi aveva lasciato molto felice il fatto che si stava riprendendo, invece arriva questa notizia. Se ne va la voce storica del canottaggio, nonché un amico e un personaggio preparato e coinvolgente". Adriano Panatta: "Ricordo che faceva le telecronache quando io ancora giocavo. Quando abbiamo iniziato a farle insieme forse erano meno tecniche e schematiche di quelle di oggi, sicuramente molto più umane, come lo era lui. Mi dispiace tantissimo, sapevo che non stava bene. Eravamo molto amici con Giampiero. Con lui ho solamente bei ricordi, tanto allegri, divertenti. Era un professionista pazzesco, veniva a fare le telecronache preparatissimo, sapeva tutto. Ogni tanto gli facevo qualche scherzo, si avventurava in una disquisizione tecnica, io allora gli facevo no con la testa apposta e lui, bravissimo, cambiava subito versione. Io poi gli dicevo che scherzavo, era molto divertente questa cosa". Antonio Rossi: "Sapevo che non stava bene, ma leggere la notizia mi ha lasciato veramente senza parole. Ho sempre pensato a lui come a una persona forte e indistruttibile. Ho fatto cinque olimpiadi e lui c'è sempre stato. Mi ha dato un sacco di consigli e con le sue telecronache ha fatto appassionare tanta gente alla canoa. Sapeva trasmettere con emozione, essendo stato lui anche un nazionale del canottaggio". Tanti i messaggi di cordoglio da parte del mondo dello sport, dai club di calcio alle istituzioni. "Ciao Giampiero! Grazie per aver vissuto lo sport da atleta prima e da giornalista poi. Alla tua voce, carica di entusiasmo e passione, sono legati i ricordi di tante emozioni azzurre. Sono certa che stasera anche lo Stadio Olimpico saprà ricordarti per come meriti" il post su twitter della sottosegretaria allo sport Valentina Vezzali. ''Se ne va un pezzo della mia vita, un fratello'' dice Mara Venier. La Lazio, la squadra di cui era tifoso, lo ricorda con una dichiarazione del presidente Lotito: "Una figura legata indissolubilmente allo sport italiano: prima da atleta vittorioso, poi da commentatore passionale e da giornalista acuto e competente. La fede laziale di Giampiero era nota a tutti, ma mai è stata fuori dalle righe. In una recente intervista alla Rai, stanco ma mai arreso alla malattia, disse una frase semplice e straordinaria: "Sotto lo stesso cielo, sotto la stessa bandiera. Forza Lazio". In quel cielo brilla una stella in più".

Morto Galeazzi, dal Circolo Canottieri a colleghi e artisti: l'omaggio di Roma. "Il Tevere che tu amavi tanto oggi piange con noi". Riccardo Caponetti su La Repubblica il 12 novembre 2021. Era nato a Roma il 18 maggio 1946 il grande giornalista, spostandosi attraverso antenne e schermi, scivolando sull'acqua ed entrando con la voce nelle case di tutta Italia. Dal sindaco Gualtieri, a Mara Venier, da Marco Mazzocchi o Adriano Panatta, ricordi, saluti e aneddoti dalla sua città. Foto in bianco e nero. Era nato a Roma il 18 maggio 1946, come Gian Piero Daniele Galeazzi ed a Roma è rimasto fino alla fine, spostandosi attraverso antenne e schermi, scivolando sull'acqua e entrando con la voce, nelle case di tutta Italia. Quel suo entusiasmo che in tanti hanno assorbito, ereditato. "ll Tevere, il fiume che amavi tanto, oggi piange con tutti noi", si legge sul profilo del Circolo Canottieri.

Galeazzi, il ricordo di Mara Venier: "Lo imposi contro tutto e tutti, e diventò uno showman. Se ne va un pezzo della mia vita". Silvia Fumarola su La Repubblica il 12 novembre 2021. La presentatrice ricorda il giornalista scomparso, con il quale formò una coppia riuscitissima a 'Domenica in': "Ci siamo divertiti come pazzi perché era nata un'amicizia forte, intensa, basata sul gioco e sull'ironia". "Mi mancherai tanto, Bisteccone mio". Mara Venier piange. "Gli ho voluto veramente bene", spiega  ricordando l'amicizia con Giampiero Galeazzi, che portò a Domenica in nel 1994 "contro tutto e contro tutti". L'ultima volta che era stato ospite da lei, nel 2019, gli aveva dedicato In ginocchio da te e non era riuscita a parlare per la commozione. 

Galeazzi, quelle urla 'scomposte' e perfette che aiutavano gli azzurri a vincere. Antonio Dipollina su La Repubblica il 12 novembre 2021. A differenza di altri miti della cronaca più compassati, lui era intrinseco all'evento e dava la sensazione di spingere gli atleti a dare qualcosa in più. Anni e anni passati a deprecare l'uso delle telecronache sportive gridate, delle urla scomposte per esaltare i momenti decisivi o l'attesa del risultato e del gesto spettacolare: e in tutti questi anni nessuno si è mai lamentato delle telecronache di Giampiero Galeazzi. Anzi, è stato usato molto di più il "Risentiamola ancora", da quei momenti è nata l'imitazione perfetta dello showman Nicola Savino - quando si confrontarono in tv fu un vero spasso - e sempre e ancora, ribadiamolo, senza mai far storcere il naso a nessuno.

Da cinquantamila.it – La Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti. Giampiero Galeazzi (Gian Piero G.), nato a Roma il 18 maggio 1946 (73 anni). Giornalista. Telecronista sportivo. Conduttore televisivo. Ex canottiere. «Il calcio mi ha dato la popolarità, il tennis è stato lo sport che ho seguito di più, il canottaggio l’ho praticato: voglio bene a tutti e tre come si può voler bene a dei figli»

«Giampiero, tu sei romano di nascita, ma i tuoi genitori sono del Nord… “Questo è il motivo per il quale sono laziale, perché mio padre mi portava a vedere solo la Lazio, mentre a scuola erano tutti romanisti”. Dove hai studiato? “Al San Giuseppe De Merode e poi a Villa Flaminia”» (Mirta Lispi). 

«“Mio padre è stato campione di canottaggio. Vinse gli europei nel 1932, nel due senza. Poi continuò facendo l’allenatore alla Tevere Remo, e poi alla Canottieri Roma. Per cercare di curare un braccio che mi era rimasto bloccato dopo un incidente, mi fece fare canoa. E così divenni un fiumarolo. Stavo sempre in riva al Tevere. Ho imparato anche a nuotare, nel Tevere. […] Io cominciai con la canoa, poi passai al canottaggio perché ero troppo alto. Nel 1964 vinsi il campionato del mondo juniores. […] Sempre in barca. A scuola e in barca, in barca e a scuola. Sempre. Non avevo tempo per cazzeggiare dopo la campanella della fine delle lezioni. E la mattina, alle sei, andavo a correre due ore a Villa Borghese. E, la sera, palestra”. […] Rapporti col padre? “Lui campione, io campione. A casa gli portavo l’acqua con le orecchie, obbediente, ma in acqua ero abbastanza aggressivo e gli rispondevo. Ero un rompicoglioni”. Ti occupavi di politica? Era il ’68. “Io pensavo alle Olimpiadi. Non avevo certo in mente Capanna che faceva l’insurrezione all’Università. Che il mondo stava cambiando, lo leggevo sui giornali. Comunque politicamente ero uno di rottura, non sono mai stato conservatore”. […]Eri magro? “Ero uno stecchino”» (Claudio Sabelli Fioretti).

«Campione del mondo junior, olimpionico in Messico nel ’68. Cinque vittorie negli assoluti. Dovevo prende le medicine pe ingrassà. 1 e 93 per 90 chili. Ero trasparente». «Giocavi anche a pallone. “Naturalmente. Ma durante un torneo di squadre locali, a Maccarese, dove guadagnavo 200 mila lire a partita, mi sono rotto il ginocchio e non mi sono più ripreso. Ho dovuto finirla, con il canottaggio”. […] L’ultima gara? “A Parigi. Capii che non c’era più la gamba e non c’era più la testa. Meglio così. Se fossi stato competitivo sarei andato a Monaco alle Olimpiadi del 1972. E sarebbe cambiata la mia vita. A Monaco ci andai come radiocronista, con Guglielmo Moretti. Io l’ho presa come un segno del destino, questa gamba infortunata”» (Sabelli Fioretti). 

Nel frattempo, s’era laureato in Economia e commercio, con specializzazione in Statistica. «Titolo della tesi? “Metodo statistico applicato alle discipline sportive. Dovevo andare alla Doxa, ma non avevo voglia”» (Marco Cicala). 

«Per qualche mese ho lavorato all’ufficio marketing e pubblicità della Fiat. Ma il clima a Torino era pessimo, mi mancavano il sole di Roma, le mangiate con gli amici, le giornate al Circolo Canottieri, che era la mia casa». «“Era il 1970, un giorno dovevo andare a giocare un doppio di tennis con Renato Venturini, che lavorava alla radio. Andai a prenderlo nella sede di via del Babuino e mi presentò ai colleghi dello sport. Ero alto e massiccio, così Gilberto Evangelisti se ne uscì con la frase: Renà, ma chi è ‘sto Bisteccone?”. E così trovò anche lavoro. “Venturini raccontò che ero stato campione di canottaggio, così quelli della radio mi chiesero di portare i risultati delle gare, e piano piano mi inserirono in redazione. Lavoravo dalle 8 del mattino alle 8 di sera, portavo il cappuccino a Ciotti, leggevo i risultati della C la domenica. Insomma, feci la gavetta, al fianco di maestri come Guglielmo Moretti, il mio santo protettore, Enrico Ameri, lo stesso Ciotti, Rino Icardi, Claudio Ferretti”. Fino a quando si ritrovò all’Olimpiade di Monaco. “E per un altro colpo di fortuna feci la mia prima radiocronaca di canottaggio. Mirko Petternella era stato trattenuto al palazzetto per la scherma, e così debuttai io. Con questa frase: ‘Qui c’è molto vento, le bandiere sembrano di legno’. Pensi che cazzata… Dallo studio, Roberto Bortoluzzi disse: ‘Sì, Galeazzi, vai avanti’. Avrà pensato: se questo è l’inizio, annamo bene… Invece me la cavai”» (Roberto Pelucchi).

«“Seguivo il canottaggio, e poi quando ci fu l’attentato dei fedayn di Settembre Nero andavo in giro per il villaggio olimpico a raccogliere testimonianze sull’omicidio degli atleti israeliani. Una tragedia, ma io ero pieno d’euforia: me pagavano per fà quello che me piaceva: raccontare lo sport e i suoi protagonisti”. Racconti partecipati, narrati con voce calda e suadente, al punto da farlo promuovere alla televisione» (Massimiliano Castellani). 

«“Non volevo lasciare la radio, stavo da dio ed ero stato assunto. Un giorno, però, mentre facevo una radiocronaca di rugby a Rovigo, ricevetti una telefonata della segretaria di Emilio Rossi, nuovo direttore del Tg1. ‘Si presenti domani mattina’. Avevano bisogno di un redattore perché tutti gli altri erano passati al Tg2 con Maurizio Barendson. Tito Stagno, ‘l’uomo della Luna’ e capo dello sport, aveva fatto il mio nome al direttore, e così accettai”. Non senza problemi. “Moretti, mio capo alla radio, mi disse a brutto muso: ‘Il giorno che ti troverò sanguinante per strada, non ti soccorrerò’. Ameri, invece, fu più clemente: ‘Hai fatto bene: qui sei il 35°, al Tg1 potrai essere il numero uno’. In effetti, conducevo i notiziari, facevo ‘a modo mio’ i servizi per La Domenica Sportiva. Soprattutto potevo fare le telecronache di canottaggio e, con Guido Oddo, quelle di tennis, altro sport che conoscevo bene”. Proprio nel periodo di massimo splendore degli italiani, tra l’altro. “Stare nella ‘buca’ del Foro Italico durante gli Internazionali d’Italia è stata una grande palestra professionale. Peccato aver saltato la trasferta in Cile in occasione della vittoria azzurra in Coppa Davis nel 1976. La tv non mandò inviati – ma la radio sì – per protestare contro il regime di Pinochet, quindi Oddo e io facemmo le telecronache dal ‘tubo’. La sera della vittoria del doppio, però, durante la differita Guido vide che Panatta e gli altri azzurri alzavano la coppa e anticipò il risultato, rovinando la sorpresa. Apriti cielo: ricevemmo decine di telefonate di telespettatori imbufaliti”» (Pelucchi). 

«Le telecronache nel canottaggio l’hanno resa inconfondibile. “Gli Abbagnale, Rossi e Bonomi… non mollo mai il respiro. […] Era come se fossi in barca con loro, era un "tre con". Era un modo per salire anche io sul podio. Poi, dopo la telecronaca collassavo”. A Seul ’88 l’hanno anche buttata in acqua. “Un bacino freddo e fetido, ce l’avevano con questo pazzo che urlava per l’Italia”. […] La telecronaca degli Abbagnale ha rischiato di non esistere. “In Rai avevano proclamato sciopero generale. Quando l’ho saputo, ero a mangiare il solito tortellino, a Seul, e pensai: ci siamo fatti migliaia di km per venire a ubriacarci insieme a mignotte asiatiche e soldati americani. Tornai in albergo alle 6 del mattino e scoprii che mi cercavano, c’avevo du’ chili de bigliettini alla porta: sciopero rientrato. Nemmeno il tempo di lavarmi, saltai su un taxi e mi scordai anche il badge per entrare allo Stadio Olimpico. ‘E mò?’. Ma quella era la mia giornata: mi fecero entrare lo stesso. Arrivai in postazione senza manco il foglio partenti, ma tanto me li ricordavo a memoria”. […] Pure col calcio… pagine storiche. “Ogni domenica ero in giro per l’Italia. Facevo 2 minuti per La Domenica Sportiva, me dovevo fà un culo…”» (Tommaso Lorenzini).

«Voce e volto inconfondibile dallo stadio Olimpico di Roma per 90° minuto. “Una squadra irripetibile quella, guidata dal carisma di Paolo Valenti. La domenica memorabile? Quando sulla pista dell’Olimpico se materializzò un taxi giallo assieme alla pantera della polizia per arrestare i giocatori coinvolti nello scandalo del calcioscommesse. Scene assurde, che però, me pare, se vedono ancora no?”. Mai più rivista invece in video la “strana coppia”: Giampiero Galeazzi e Beppe Viola. […] “Io ce mettevo er fisico e la grinta de chi se buttava dentro un pullman in corsa per una dichiarazione de Bearzot. Beppe c’aveva la scrittura e le idee di uno di un’altra categoria: prendeva la stoffa grezza che je portavo e ce cuciva un abito perfetto, de classe”. Tandem vincente fino a Spagna ’82, poi il fuoriclasse Viola morì. Ma anche Galeazzi è stato un fuoriclasse delle esclusive. “Finita Italia-Germania 3-1, urlo ‘Campioni del mondo!’ direttamente dal campo, ché c’avevo già Paolo Rossi sotto l’ascella. I poliziotti spagnoli me manganellavano – ride di gusto –, pensavano che stavo a strangolà Pablito… E il giorno dello scudetto del Napoli?”» (Castellani). 

«Il Napoli sta pe vince il titolo, prima della fine me fo chiude negli spogliatoi da Carmando, il massaggiatore. Dopo la partita, fori, ce stavano 200 giornalisti da tutto il mondo: Sudamerica, Giappone, Congo Belga; ma dentro c’ero solo io. La genialata fu far fare a Maradona le interviste». Nel 1994 la sua carriera ebbe una svolta imprevista. «“Uscivo la sera con Mara Venier e Renzo Arbore all’epoca dei mondiali in America. Facevamo il giro delle buche jazz di New York. Ogni sera se cambiava buca, Arbore sentiva la musica, io magnavo e parlavo con Mara: le bistecche più grosse, la birra più buona. Un giorno, attraversando una strada in mezzo al traffico, Mara me fa, senza giri di parole: ‘Faresti Domenica in con me?’”. All’epoca presentavi 90° minuto. “Pensai che ’sta paracula de Mara se voleva impossessà dei dieci milioni di spettatori di 90°. Presi tempo. Due giorni dopo, me chiama Brando Giordani, direttore di rete. “Qui c’è ’na bionda che te vole a tutti i costi”. Era Mara. “Le ho presentato una lista de Hollywood, ma vole solo te: che devo fà, Bistecco’”?”. Fu subito trionfo di ascolti. “I duetti con Mara erano naturali. Niente testo. Guai a damme un testo, a me: io non so’ attore. Facevo er 40 de share con la scena del letto”. La scena del letto? “Me presentavo con la valigia, ballavo e me dimenavo. Partiva la sigla de 90° e stavo già da Mara che m’aspettava sul letto, tipo Fregoli. ‘Che m’hai portato oggi?’. ‘Ecco qua, bella bisteccona mia’, e dalla valigia uscivano salami e reggipetti. Un successo clamoroso. Acchiappavo tutti, ero una bomba a mano. All’italiano je tocchi er letto…”. Reazioni in famiglia? “I figli non mi salutavano più. Specie il maschio, Gianluca. “Ma papà, sei un grande giornalista sportivo, a scuola me prendono in giro”» (Giancarlo Dotto).

«Ne facevi di tutti i colori. Ti sei travestito da Tarzan, da tigre, da coniglio. “È stata una grande esperienza”. Una cosa che ti sei rifiutato di fare? “Vestirmi da donna. Mi sono rifiutato. Giucas Casella invece lo faceva, anche con i tacchi alti. E anche Luca Giurato si travestiva da donna”. I colleghi ti criticavano? “La rivista ufficiale della Rai, il Radiocorriere, mi definì il ‘giornalista giullare’. I colleghi dicevano che non ero più credibile come giornalista sportivo. Ma il pubblico reagiva positivamente. Quando vedevo Brando Giordani, il direttore di rete, gli chiedevo: ‘Ma che, faccio bene a fà ’sta cosa?’. E lui: ‘Ma che, sei matto? È un successo!’”. […] Poi l’avventura è finita. “L’ultima Domenica in, la feci con Magalli. Fu Bartoletti, il capo dello sport, a farmi la guerra”. […] Stavi andando a Mediaset. “C’è mancato poco che andassi con Mara Venier a Canale 5. Mi fermai proprio all’ultima firma. Mi avrebbero dato un sacco di soldi. Io volevo continuare a fare lo sport, e loro volevano che facessi solo lo spettacolo con Mara. Ogni discussione aumentavano i soldi. Un miliardo, un miliardo e mezzo, due miliardi. Alla fine, dissi di no. […] Io sono sempre stato aziendalista. Ma quando ho smesso di fare Domenica in mi sentivo un po’ spaesato. In redazione non avevo ’na stanza, ’na sedia, ’na scrivania. Mi avevano messo da parte. Era la vendetta del sistema”» (Sabelli Fioretti). Negli ultimi anni le apparizioni televisive di Galeazzi, per lo più in veste di commentatore od opinionista all’interno di trasmissioni sportive della Rai (90° minuto, Notti mondiali, Notti europee), si sono progressivamente diradate. Tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019 è stato, in due occasioni, ospite di Mara Venier a Domenica in, apparendo notevolmente provato e indebolito, soprattutto nella sua prima apparizione, in sedia a rotelle. Lo stesso Galeazzi, intervistato da Roberto Pelucchi per la Gazzetta dello Sport, ha però voluto fornire precisazioni sulle sue effettive condizioni di salute. «“Sui social m’hanno già fatto il funerale.Ma io sono ancora vivo, eh. Ho sbagliato a presentarmi in quel modo. La verità è che sono reduce da un’operazione al ginocchio sinistro, mi muovo con le stampelle. Lo studio era pieno di cavi e, per non rischiare, un assistente ha pensato bene di mettermi su una carrozzina”. E la gente ha pensato che fosse malato seriamente. Anche perché lei ha detto: voglio vivere bene gli ultimi 500 metri della mia vita. “Non ho il Parkinson, ho problemi di diabete. La salute va su e giù, come sulle montagne russe. Ho sbalzi di pressione, gonfiore alle gambe. Quando mi emoziono mi tremano le mani, ma non sono messo così male. A 72 anni ho anche perso un po’ di chili”. Eppure è bastato vederla in quelle condizioni per scatenare grandi manifestazioni di affetto. “Inaspettate. Mi sono arrivate decine di messaggi, sono stato travolto dalle telefonate. C’è persino chi mi ha segnalato medici e specialisti. Incredibile”. Si può stare tranquilli? “Certo, anzi, questo ritorno di popolarità mi aiuta. Mi sono reso conto che la gente non mi ha dimenticato. Ho unito due tipologie diverse di pubblico: sono stato Pippo Baudo e Sandro Ciotti messi assieme, una bomba atomica. Mi piacerebbe tornare a lavorare in tv”. […] Dove si vedrebbe nella tv di oggi? “A costruire programmi. Mi piacerebbe rifare in chiave moderna 90° minuto. Adesso nelle trasmissioni calcistiche ci sono troppi tecnici che parlano e poca mediazione giornalistica”. Se Mediaset chiamasse? “Io sono marchiato Rai. Non cambio”»

Un’autobiografia pubblicata presso Rai Eri nel 2016, L’inviato non nasce per caso

Sposato; due figli, Gianluca (1975) e Susanna (1978), entrambi giornalisti, rispettivamente al TgLa7 e al Tg5

Grande tifoso della Lazio, al punto che il 14 maggio del 2000, nel mezzo della telecronaca di un incontro di tennis al Foro Italico, abbandonò la sua postazione per correre all’Olimpico, dove i biancocelesti stavano inaspettatamente conquistando lo scudetto. «Mi stavo addormentando in telecronaca per un match di due spagnoli anonimi, quando sento che la Juventus stava perdendo e la Lazio aveva già battuto la Reggina. Scappo allo stadio, salgo in tribuna Monte Mario e tutti che m’abbracciano… Non c’era un collega: stavano tutti a Perugia per lo scudetto della Juve, e invece lo scudetto era lì, della mia Lazio. E io feci l’unico servizio Rai». «Qual è la differenza tra un romanista e un laziale? “Se la Lazio a un quarto d’ora dalla fine perde 2 a 0, il laziale si alza e se ne va. Se la Roma verso fine partita perde 2 a 0, il romanista dice: ‘Vinceremo 3 a 2’. Il laziale è meno morboso, meno attaccato alla squadra. Un romanista è capace di dare al figlio il nome dei calciatori”» (Sabelli Fioretti)

«Mio padre era socialista, mia madre aveva i dischi coi discorsi di Mussolini. Andavo a scuola al San Giuseppe De Merode, ambiente di destra. Poi all’università sono diventato di sinistra. Dopo ho votato Dc. E una volta Berlusconi. Adesso [dichiarazione del febbraio 2016 – ndr] di nuovo sinistra»

«La buona tavola è una delle sue passioni. Ogni tanto […] si rinchiudeva in un centro benessere. I risultati si vedevano appena, e, quando ritornava in Rai, la gag era sempre la stessa. “A Bistecco’ dove sei stato?”. “Da Mességué”. “E che, te lo sei magnato?”. Nel 2005, a Torre del Greco, per Italia-Spagna di Coppa Davis, alla fine della giornata, incrociammo un cameriere che portava un gigantesco vassoio con una montagna di piatti in equilibrio precario. “Grazie: è per noi?”, scherzammo. “Ma no, questa è la cena del dottore Galeazzi”» (Roberto Perrone). «Ha detto: “Non sono mai stato un gran mangione”. Scherzava. “No. La letteratura ha superato le mie gesta. Certo, tendevo a ingrassare. M’hanno fregato gli anni di Domenica in”. A quanto è arrivato? “174”. […] La stazza l’ha aiutata. Secondo un sondaggio, vent’anni fa lei era il corpulento più popolare d’Italia dopo Costanzo e Magalli. “Sì, ma sono un metro e 93. Costanzo e Magalli non ci arrivano manco a cavacecio”. Di quale piatto non può far a meno? “La pasta”. Grosse mangiate con Panatta a Parigi durante i Roland Garros… “Nella prima settimana del torneo ordinavamo sogliola alla mugnaia, asparagi, un petit peu de vin… Ma non durava. Poi ce buttavamo nei ristoranti napoletani”» (Cicala). «M’hanno rovinato dieci anni di Domenica in. Magnavo la sera e non venivo più al circolo a fare la partitella. Me so’ ritrovato in poco tempo addosso un set de valigie de 50 chili»

«“Andiamo ragazzi, la prua è italiana!” (Seul 1988, oro di Carmine e Giuseppe Abbagnale e Peppino Di Capua, 2 con). “Vai, Antonio, sei il più forte del mondo, andiamo a vincere!” (Sydney 2000, oro di Antonio Rossi e Beniamino Bonomi, K2 1000). Come scandiva i colpi dei remi o le pagaiate Giampiero Galeazzi, […] non lo faceva nessuno. […] La sua voce partiva composta, scandita, proprio come l’azione degli atleti, e li accompagnava colpo dopo colpo, facendosi concitata, frenetica, asmatica, esattamente come il finale di una gara, quando si va avanti solo con nervi ed emozioni. “Il canottaggio era il mio sport, e gli eventi sportivi che ho avuto più piacere di raccontare sono questi”. Galeazzi telecronista e inviato storico della Rai è un personaggio del giornalismo sportivo di un tempo in cui molti atleti diventavano giornalisti. Giornalisti, non opinionisti. […] Galeazzi faceva parte di quella schiatta di grandi telecronisti che ti coinvolgevano con le emozioni. Di queste ti ricordi per sempre, del resto no. […] Per tutti è Bisteccone, il giornalista alto e grosso che braccava i campioni e i (sedicenti) vip. Prima, durante e dopo la gara. “Se non hai i campioni, non puoi raccontare nulla: io sono stato fortunato”: grande verità da grande giornalista. Allora non c’erano sbarramenti, interviste concordate, giocatori e dirigenti scortati da un elemento dell’ufficio stampa, piccola vedetta burocratica pronta a intervenire se le domande risultano insidiose o le risposte ardite. Giampiero era il campione di un giornalismo dove non esistevano messe cantate, zone miste e tabellone degli sponsor, ma ti dovevi conquistare una dichiarazione con scarpe e gomiti. […] Galeazzi […] affrontava qualsiasi clima e qualsiasi tipo di servizio. In Islanda per una partita andò a spintonare i colleghi per un servizio sullo storico vertice Reagan-Gorbaciov. […] A bordo campo, sotto la pioggia o la neve, innaffiato d’acqua e spumante a ballare con Diego Maradona nello spogliatoio del Napoli, campione d’Italia nel 1987, sull’asfalto innevato dell’anti-stadio di Torino, inseguendo una battuta dell’Avvocato Agnelli» (Perrone). 

«Le tue telecronache viscerali sono da culto: tutto il corpo che partecipa, cuore, fegato, budella, polmoni. “Quando vedo una barca italiana, me sento là dentro. M’hanno istruito a dare le sensazioni. Non me tengo niente. Sono l’ultimo della grande generazione di telecronisti. Paolo Rosi, il più moderno degli antichi, l’eleganza di Giubilo nell’ippica, il ritmo di Adriano De Zan, i tempi televisivi di Nando Martellini”» (Dotto)

«A quale telecronaca è rimasto più affezionato? “A quella dell’oro di Bonomi e Rossi nel K2 1000 metri all’Olimpiade di Sydney: ‘Si guarda a sinistra, si guarda a destra, vince l’Italia!’. Anche se il mio nome sarà legato per sempre ai fratelli Abbagnale”. […] I telecronisti “urlatori” si difendono così dalle critiche: lo faceva pure Galeazzi… “Sì, ma Galeazzi urlava per una finale olimpica o mondiale. Adesso si urla anche per un gol in una partitella di quartiere”. Meglio i servizi per la Ds oppure le telecronache? “Io nasco e muoio telecronista. Non ero estroso come il grande Beppe Viola, però conoscevo lo sport e le sue dinamiche. Con i calciatori c’era una libertà diversa rispetto ad ora. Io ho inventato le interviste prepartita, alla discesa dai pullman, e appena finita la gara prendevo i giocatori sotto braccio e li confessavo a bordo campo, prima di tutti. Per non parlare delle docce di champagne che mi hanno fatto negli spogliatoi durante le feste per gli scudetti”. […] C’è qualche telecronista di oggi che le piace? “Pierluigi Pardo ha fatto il mio stesso percorso sul piano della simpatia, poi è romano, un gaudente. Sandro Piccinini mi piaceva, ora mi sembra troppo fabbricato. Fabio Caressa sembra che a volte veda altre partite, però non dimentico che nel 2006 in Germania fu l’unico a stingermi la mano dicendo: ‘Grazie Gian Piero, lei è stato quello che ha aperto una nuova strada nella telecronaca sportiva’”. […] Lei è stato in Rai per 42 anni: come ha fatto a cavalcare l’onda così a lungo? “Con la mia professionalità, con il mio entusiasmo. Non ho avuto padrini politici, io. Sandro Petrucci, collega del Tg1, diceva che avevo tre anime: quella popolare degli stadi di calcio, quella aristocratica del tennis e quella romantica del canottaggio”» (Pelucchi). «C’è un detto in Rai: “Tutto è permesso fuorché il successo”. Appena cominci ad andar bene, c’è qualcuno che te vole fregà. È un fatto umano, di tipica radice aziendale». «Oggi la vita sedentaria le pesa? “Non ero mai stato a casa. L’ho scoperta”. Nell’ultimo capitolo [dell’autobiografia citata – ndr] scrive: “Mi sono risvegliato in mezzo alle macerie del castello che avevo costruito in una vita di lavoro”. Che cosa si rimprovera? “Avrei dovuto pensare di più alla salute. Alla carriera. Ho lasciato la Rai da caporedattore, ma oggi so’ tutti direttori”» (Cicala). 

«La mia vita è stata tutto un incrocio del destino: il mio e quello con i tanti campioni che ho incontrato facendo ’sto mestiere, il più bello che c’è».

Telecronache ma non solo: ecco perché era così amato. Matteo Sacchi il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. Giampiero Galeazzi è entrato nell'immaginario collettivo per telecronache, come quelle del canottaggio alle Olimpiadi di Seul 1988, ma si è anche dimostrato un uomo di televisione e spettacolo a tutto tondo, un vero personaggio a partire dalla classe con cui portava il soprannome «Bisteccone» che altri non sarebbero stati in grado di reggere o rendere simpatico. Così poliedrico che le sue comparsate fuori dalle telecronache sono troppe per poterle sintetizzare in queste righe. Giusto per sommi capi. Nel 1994 iniziò ad essere mattatore fisso a Domenica In, mentre conduceva 90° minuto. Mara Venier glielo aveva proposto quasi per gioco. Ma fu un immediato successo anche se ci fu chi visse male quel suo rendersi meno serio, il fatto che si mettesse a ballare, finanche a travestirsi. Ma lui tirò dritto. Nel 1996 Pippo Baudo lo volle al 46º Festival di Sanremo, un successo. Nello stesso anno fu la voce di Mr. Swackhammer, antagonista principale del film di animazione Space Jam. Un amore del pubblico emerso tutto quando, sul finire del 2018, già malato, è tornato a Domenica In come ospite, sulla sedia a rotelle. Un profluvio di lettere, mail, telefonate. Esattamente come da ieri si susseguono le dichiarazioni dei tanti che sono stati stregati dalla sua professionalità e dal suo personaggio. A partire dall'attore e conduttore Nicola Savino che è diventato celebre anche grazie all'imitazione di Galeazzi. «Mi diceva Ahò! Tu me fai parlà romanesco ma io so' de Verbania... era molto competente e molto spiritoso: fu il primo, precedendo anche la Gialappa's, a capire che si poteva fare intrattenimento sullo sport e in particolare trattare un argomento come il calcio con leggerezza». E Pippo Baudo ricordando Sanremo: «Bucava lo schermo della tv ed entrava nelle case degli italiani. Era impossibile per un telespettatore cambiare canale mentre lui parlava». Per una affranta Mara Venier: «Bisteccone mio... se ne va un pezzo importante della mia vita...». E Adriano Panatta: «Faceva le telecronache quando io ancora giocavo. Quando abbiamo iniziato a farle insieme forse erano meno tecniche e schematiche di quelle di oggi, sicuramente molto più umane, come lo era lui».

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco.  

Gli ultimi 500 metri della "Voce" che ha cantato l'epica dello sport italiano. Tony Damascelli il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. È morto a 75 anni il cronista delle storiche vittorie azzurre, su tutte quella dei fratelli Abbagnale. Autoironico e senza fronzoli sapeva farsi intendere e amare da chiunque. I campioni muoiono all'alba, i campioni del giornalismo sportivo se ne vanno il giorno in cui gioca la nazionale di calcio. Così è stato per Giampiero Galeazzi che, in fondo, è stato un buon amico e una brava persona, in fondo ha saputo regalare frammenti di pace, quasi di liberazione, alla fine delle sue cronache sulfuree. Sono stati i suoi ultimi cinquecento metri. La voce di nuovo arrugginita, non più per la pazza gioia di una vittoria ma per la vita che si stava avvicinando al traguardo. L'ultimo. Gli occhi non avevano più luce, il corpo aveva smarrito ogni dimensione, la carrozzina, sulla quale ha vissuto la fine, il segno di una resa alla quale la malattia, il diabete, lo aveva trascinato, nel buio e nel silenzio. Ha concluso la sua gara lunga, prima bella, poi triste e solitaria, Giampiero Galeazzi di anni settantacinque, una fetta grande dello sport e del giornalismo raccontato alla radio e in televisione, atleta e personaggio, campione e caricatura, collega e amico, romano di quelli che non hai mai voglia di lasciare, caciarone mai volgare, sodale di notti e viaggi mille, pensando alla vita dolce del nostro mestiere. Gilberto Evangelisti lo volle in radio e ne intuì le doti pantagrueliche. Aveva competenza e passione, la scuola era quella del campo, la pratica della canoa e del canottaggio, per eredità paterna (suo padre aveva vinto l'europeo del due senza nel '32), gli era servita per alleviare la malformazione, al braccio e alla mano, dovuta a un incidente, il Tevere era il suo oceano, era un fiumarolo di origini padane, era diventato campione del mondo junior e poi le qualificazioni ai Giochi del 68 in Messico, cinque titoli assoluti, Giampiero si sentiva uno stecchino ma su quel metro e novantuno si portava addosso già novanta chili. Mai l'ho visto strafocare, però sì divertirsi con il cibo, mai l'ho sentito starnazzare come certi sodali contemporanei oppure sentenziare di tattica e tecnica, sapeva scaldarsi e scaldare, seguivi le sue telecronache come trovandoti a spingere con i remi e a sbuffare, a sudare, a soffrire, a battere da fondo campo a correre verso rete a provare il rovescio, poi, nelle interviste, il microfono era quasi un optional, un asterisco, scompariva durante il dialogo fresco, genuino, la comunicazione immediata, di pelle, mai costruita, poteva trattarsi di Gianni Agnelli o di Maradona, di Platini o Paolo Rossi, di Borg o Becker e gli Abbagnale erano una persona sola. In coppia con Panatta batteva il doppio di saggezza tennistica ma da nenia di cinema polacco Tommasi-Clerici, quando la Lazio, la sua Lazio, vinse lo scudetto, mollò la diretta e la tribunetta del Foro Italico per correre a fare festa in campo all'Olimpico, in mezzo al popolo biancazzurro. Non aveva nemici se non in casa Rai dove il successo plateale con lo spettacolo di Domenica In, accanto a Mara Venier, aveva provocato gelosie e invidie e boicottaggi nel rettilario di redazione. Gli avevano tolto scrivania e telefono, come fosse un appestato con la colpa di avere macchiato la professione mentre altri godevano di sponsor occulti e stavano e stanno nascosti nel canneto. Giampiero ha avuto una virtù esclusiva: tra tanti papaveri e papere, non si è mai preso sul serio, pur onorando il lavoro con un impegno professionale esemplare, aveva imparato a remare in tutti i sensi, usava l'ironia anche per deridere se stesso, le proprie gaffe lessicali («la bomba al nepal»), nonostante la scuola di lusso, San Giuseppe de Merode al sito di piazza di Spagna e Villa Flaminia, in totale docenza cattolica, eppoi la laurea in Economia e commercio, specializzazione in Statistica e tesi su Metodo statistico applicato alla disciplina sportiva, roba da traslocarlo negli uffici Fiat di Torino dai quali scappò per saudade del Tevere, del circolo Canottieri e del sole. Abbandonato il lavoro delle scrivanie e macchine per scrivere, Giampiero si ritrovò per caso nella redazione Rai di Roma, dove lo portò il suo collega di doppio Renato Venturini. Gilberto Evangelisti, che era il capo di quella truppa, quando si vide di fronte quel massiccio pupone domandò: «Ah Renà, ma chi è sto bisteccone?». La favola ha retto per tutta la carriera. Giampiero è stato un teatrante congenito, sarebbe stato attore protagonista di un qualunque film di Vanzina ma mai guitto o buffone come qualche malalingua, tra di noi, anche ultimamente, lo aveva ribattezzato per poi evitarlo o addirittura disprezzarlo, così spingendolo alla solitudine compatita. Giampiero ha saputo farsi intendere e amare da atleti di ogni etnia ricorrendo a un inglese approssimativo, a un francese precario, a uno spagnolo improvvisato, questo lo rendeva immediatamente umano e simpatico, grazie a quel monumento personale che gli permetteva di sovrastare chiunque. Ha vissuto l'epoca migliore del giornalismo non soltanto sportivo, Martellini, De Zan, Ameri, Ciotti, Viola, Brera, Arpino, Soldati, cronisti e narratori di discipline e storie varie, per indole e scelta non è stato un narratore aulico ma rispettava, per educazione, chi questa arte rara possedeva. La facile e superficiale letteratura lo ricorda per le battute alla Santi Bailor Nando Mericoni. Gli ultimi cinquecento metri restano la sua notte dei sogni, svaniti in una mattina di novembre, appena prima che i campioni d'Europa scendessero in campo a Roma. Un altro pezzo della nostra vita scivola via per farci sentire ancora più randagi. Tony Damascelli

(ANSA il 12 novembre 2021) "In questo momento sono triste: Giampiero ha accompagnato non solo la nostra vita sportiva in maniera intensa e totalizzante, ma nel tempo è diventato anche una persona di famiglia, con cui si era creato questo connubio. Un personaggio anche sui generis se vogliamo, ma con lui voce e impresa sportiva diventavano una cosa sola. E quella telecronaca è storia della tv". Giuseppe Abbagnale, col fratello Carmine, vinse l'oro olimpico del canottaggio a Seul '88 ma quell'impresa è tutt'uno con la telecronaca di Galeazzi. "Con lui - dice all'ANSA Abbagnale, attualmente presidente della federcanottaggio - ho sempre avuto un rapporto vero, leale. Con Giampiero c'è sempre stata empatia".

(ANSA il 12 novembre 2021) "Sono addolorato dalla sua morte: Galeazzi ha fatto conoscere noi e il canottaggio, ci ha spronati. E' stato un personaggio importante per noi, ci ha fatti conoscere al grande pubblico: era come se l'equipaggio fosse formato da quattro e non da tre elementi. Possiamo dire che era come un 'quattro senza': è stato molto, molto importante per noi. Ci è stato vicino per più di 20 anni". Così Peppiniello Di Capua, timoniere dei fratelli Carmine e Giuseppe Abbagnale, ricorda all'ANSA la figura di Giampiero Galeazzi. "Ci ha seguiti da sempre, quante cene assieme, era come un fratello per noi: lo stimavamo e gli volevamo bene", aggiunge. 

Dagospia il 12 novembre 2021. La nota di Maurizio Costanzo. “Con la morte di Giampiero Galeazzi perdo un caro amico. Mi rimangono i ricordi: numerosi, belli e sempre dettati da una vera amicizia. Abbiamo seguito insieme i mondiali del 2010 e ci siamo molto divertiti. L’ho sempre pensato e lo ricorderò con grande affetto.” La telecronaca a cui tengo di più? “La vittoria degli Abbagnale, con Peppiniello di Capua, quella non la dimenticherò mai”. Lo diceva a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Giampiero Galeazzi, storico giornalista sportivo Rai, intervenuto nel gennaio del 2016 ai microfoni della trasmissione condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Chi è il telecronista moderno che le piace di più? “Fabio Caressa, l'unico che mi ha ringraziato per il mio lavoro”. E quello che proprio non le piace? “Piccinini, perché è molto bravo ma molto costruito, non è nelle mie corde almeno”. Nel corso dell'intervista Galeazzi parlò anche del motivo per cui gli viene affibbiato il soprannome 'bisteccone'. “Perché quando entrai in redazione per la prima volta il capo di allora disse 'chi è sto bisteccone'?” Perché lei era un po' robusto? “No, anzi, ero alto, muscoloso, e sicuro di me. Un bisteccone - aveva detto ridendo - che piaceva anche molto alle donne”. 

Dagospia il 12 novembre 2021. Dal profilo facebook di Enrico Mentana. Quando Bisteccone discuteva con qualcuno che se la tirava troppo, poteva schiacciarlo con una frase definitiva: "Per te mica hanno suonato Fratelli d'Italia". Per lui invece l'avevano suonato eccome l'inno di Mameli: era stato giovane campione azzurro di canottaggio nel singolo (mi pare, con questi ricordi vado a memoria) e non vi dovete sorprendere, perché il romanissimo Galeazzi era nato sul lago Maggiore. Lo sentii per la prima volta alla radio nella prima parte degli anni Settanta, a fare il cronista sportivo. Poi approdò al tg1, fin dalla nascita, e quando lo conobbi, nel 1980, era già un personaggio, per la sua informalità, per la sua mole, per la sua vena popolaresca applicata alle interviste e agli interventi per Novantesimo minuto o la Domenica Sportiva, ma anche - meno evidente e non ostentata - per la sua competenza mai saccente. Era la punta della redazione sportiva guidata da Tito Stagno e Enzo Petrucci, il vero papà professionale dei giovani che, in quello stesso 1980 erano arrivati lì allo sport, Fabrizio Maffei e Claudio Icardi, e poi Marco Franzelli e Ugo Trani. Ci si preparava all'avventura che sarebbe stata indimenticabile, il Mundial di Spagna 1982, quello di Pablito, di Tardelli, di Bearzot e Pertini. E di Bisteccone. Da lì comincia la usa consacrazione. Eppure più di mille immagini di questi quarant'anni il ricordo mio come di tanti resta soprattutto per la sua voce indimenticabile, e se un momento vale una vita, quello è l'arrivo del due con di  canottaggio alle olimpiadi di Seul 1988, l'oro degli Abbagnale. Quell'immortale urlo "Non li prendono più, non li prendono più!". Addio amico  

Estratto dell’articolo di Francesco Persili per Dagospia del 10-04-2019. (…) Giampiero Galeazzi condivide con Dagospia i ricordi di una fuga clamorosa dal Foro Italico: “Per lo scudetto della Lazio nel 2000 mollai la diretta della finale degli Internazionali di tennis. La Juve stava perdendo a Perugia e questo voleva dire tricolore per i biancocelesti. Io non ce la feci più. Abbandonai la telecronaca e mi precipitai all’Olimpico. Presi la troupe del tennis. A uno dissi: "damme er microfono", e iniziammo. Mi buttai per strada, incrociai un frate a cui rivolsi una domanda a bruciapelo. “C’è un Dio allora?”. Un servizio storico. “Ho avuto fortuna, libertà e molta fantasia. Agli Internazionali, ebbi l’intuizione del villaggio del Foro, poi ripresa da Cino Marchese. Nelle tende vicino al campo si distribuivano vino rosso e panini. I vip, da Gassman a Tognazzi, si fermavano e così mi misi a fare le interviste. Risultato? Er villaggio era diventato più importante del torneo. Stavano tutti a magnà e nessuno andava più a prendere freddo al campo Centrale”. I servizi dagli spogliatoi e le interviste a Maradona, Dino Viola, Agnelli, Platini hanno fatto storia. “C’era maggiore familiarità e empatia con i grandi personaggi dello sport, con Rummenigge andavamo a cena insieme a Los Angeles. Oggi Federer mi sembra un po’ troppo sacrestano, ci vorrebbe un McEnroe. Djokovic? Ecco, lui è un bel personaggio, parla perfettamente l’italiano. Nel calcio sarei curioso di sapere se Ronaldo è quel professionista che raccontano che sia. Non solo in campo ma nel modo in cui si muove nel rapporto con i media”. Chi è il nuovo Galeazzi? "Di eredi non ne voglio parlare, perché non sono un imperatore – ride – ma faccio il tifo per i giornalisti Rai”.

Da leggo.it il 12 novembre 2021. Giampiero Galeazzi, storico telecronista sportivo e giornalista Rai, è morto oggi a 75 anni. Soprannominato 'bisteccone' per la sua mole, Galeazzi, ex atleta di grande livello (è stato un canottiere) per anni ha prestato la sua voce alle telecronache di grandissime imprese sportive, soprattutto alle Olimpiadi. Era malato da tempo. La notizia della scomparsa di Galeazzi è stata lanciata su Twitter da alcuni colleghi, in primis il direttore del Tg5 Clemente Mimun.

Da fanpage.it il 12 novembre 2021. A Fanpage.it Fabio Caressa ricorda il mito Giampiero Galeazzi, dagli aneddoti con Panatta al giornalismo sportivo con lui diventato popolare: “Un pioniere”. "L'ho conosciuto da ragazzino, nell'86-87. La zona era la Roma nord dei circoli e c'è tutta una mitologia legata a lui. C'è un famoso momento che ricorderà certamente Panatta, quando si incontrarono in un circolo e Galeazzi gli disse "Ammazza Adrià, non vedi come so' dimagrito? So' stato da Mességué (celebre dietologo, ndr)". "Sei stato da Mességué – rispose Panatta – e che te lo sei magnato Mességué?". "Molti benpensanti lo contestavano, ma a lui non fregava nulla e non gli interessavano nemmeno le critiche quando si mise in gioco facendo Domenica In. Ma i colleghi, in fondo avevano capito che regalava uno spazio diverso al giornalista sportivo, facendo fare un salto avanti di vent'anni a questa professione. Lo ha fatto anche da uomo di spettacolo quale era, rendendo i giornalisti sportivi popolari." "Ha portato l'emotività nella telecronaca, mettendo da parte i toni istituzionali e lasciandosi andare, riuscendo a restituire l'emozione pura senza filtrarla. Spesso si dice che i telecronisti che fanno così si mettono davanti all'evento, ma è proprio il contrario: non fanno i bravi giornalisti, ma cercano di trasmettere l'emozione diretta al pubblico. Ci vuole un gran coraggio e mica era facile urlare come faceva lui, per primo." "Ha aperto la strada a un nuovo modo di fare giornalismo. È stato un pioniere da quel punto di vista ed io ho sempre grande stima per queste persone che hanno un pensiero laterale, riuscendo a cambiare con coraggio le cose, portandole in una nuova dimensione. Secondo me lui ci è riuscito a pieno." 

Alisa Toaff per Adnkronos il 12 novembre 2021. "Galeazzi era un giornalista assolutamente fuori dagli schemi. E' l'unico che è stato capace di scherzare e prendersi in giro senza mai perdere un filo quella autorevolezza che aveva come giornalista e questo è molto difficile nel nostro ambiente. Riusciva a unire la professionalità al gioco che faceva, per esempio, a 'Domenica In' con Mara Venier. Non c'è riuscito nessun altro!". Così Paola Ferrari con l'Adnkronos ricorda Giampiero Galeazzi, scomparso oggi a 75 anni. "Giampiero aveva un carattere molto forte fuori delle telecamere - racconta la giornalista - noi abbiamo avuto uno scontro anche recentemente ma lui era così, era diretto e senza filtri. Abbiamo discusso e questo mi questo mi è dispiaciuto un po' ma dopo ci siamo sentito al telefono e ci siamo chiariti''. "Avendo avuto la fortuna di aver lavorato tanto con lui - prosegue la Ferrari - posso dire che quello che mi ha più colpito è che lui era scevro da ogni tipo di banalità. Riusciva in tutto quello che faceva, anche durante le partite meno importanti dove c'erano personaggi meno di spicco, a non dire mai banalità. Abbiamo condotto un Mondiale insieme con Maurizio Costanzo, io li chiamavo 'La strana coppia' - ricorda con nostalgia - e devo dire che era un giornalista unico. Aveva una grande sintonia con Costanzo, erano due persone così diverse ma entrambe geniali''. Quale era la trasmissione a cui era più legato Galeazzi? "Sicuramente '90° minuto' - risponde la Ferrari - mi ricordo che quando glielo tolsero ci rimase molto male ma poi quando è tornato anni dopo gli dissi: 'Vedi? Alla fine le cose tornano al loro posto'''. La Ferrari ricorda poi un aneddoto divertente: ''Una sera ci hanno tirato un gavettone. Era una finale di Coppa Italia, aveva vinto l'Inter e Materazzi ci arrivò alle spalle e ci tirò un gavettone, lui (Galeazzi, ndr) poverino prese molto freddo''. La giornalista infine conclude: "Anche se da tempo non stava bene, tutte le volte che partecipava a qualche trasmissione, notavo sempre in lui quella lucidità nell'esprimere i suoi concetti e quel suo non essere mai banale. Riusciva a dare sempre spunti di discussione e di riflessione. E' stato lucido e acuto fino alla fine, non si è mai lamentato per la sua malattia, con lui perdiamo un giornalista unico''.

Giampiero Galeozzi e la malattia segreta: i tremori e il diabete, un drammatico sospetto. Libero Quotidiano il 12 novembre 2021. Giampiero Galeazzi mancava da tempo dal piccolo schermo ed è morto a 75 anni. Era noto anche come “bisteccone” per la sua corporatura. Si era laureato in economia e commercio per diventare campione italiano nel singolo di canottaggio nel 1967. La svolta in Rai come giornalista sportivo e con la partecipazione a Domenica Sportiva e poi a Mercoledì Sport, regalando telecronache passate alla storia come la mitica medaglia d'oro dei fratelli Abbagnale a Seul. Galeazzi mancava già da diversi anni nel mondo della televisione, la sua ultima apparizione, infatti, risale a 3 anni fa quando fu ospite di Mara Venier a Domenica In. Le cause della sua morte sono ancora ignote, anche se si sa che da tempo soffriva per via di una malattia. Lo stesso giornalista lo aveva confessato nella sua ultima presenza in tv, il suo problema con il diabete: "Ho il diabete – aveva confidato – ma non soffro di l’Alzheimer". Aveva spaventato tutti tornando in tv nel 2018, ospite dell'amica Mara Venier a Domenica In, presentandosi in carrozzina. "Sono contento di quello che ho fatto nella mia vita, ora mi manca di fare bene gli ultimi 500 metri". Dopo qualche mese, una intervista molto più rassicurante alla Gazzetta dello sport: "Ho sbagliato a presentarmi in quel modo. La verità è che sono reduce da una operazione al ginocchio sinistro, mi muovo con le stampelle. Lo studio era pieno di cavi e per non rischiare, un assistente ha pensato bene di mettermi su una carrozzina". E riguardo ai tremori aveva aggiunto: "Il Parkinson? Non ce l'ho. Ho problemi di diabete. La salute va su e giù, come sulle montagne russe. Ho sbalzi di pressione, gonfiore alle gambe. Quando mi emoziono, mi tremano le mani, ma non sono messo così male". A fine 2019, era tornato ancora in tv, con tremori ancora più evidenti. 

Giampiero Galeazzi, la testimonianza di Zazzaroni: "Stava molto male. Non solo diabete, l'ultima volta che l'ho visto...". Libero Quotidiano il 12 novembre 2021. Ivan Zazzaroni è intervenuto in collegamento con Serena Bortone a Oggi è un altro giorno, la trasmissione in onda tutti i pomeriggi su Rai1. Argomento di discussione, la morte di Giampiero Galeazzi, venuto a mancare all’età di 75 anni a causa di una malattia legata a una forma grave di diabete. Il direttore del Corriere della Sera lo conosceva bene e ha quindi raccontato diversi aneddoti su un uomo che rappresenta un vero e proprio pezzo di storia sportiva di questo paese. Zazzaroni considerava Galeazzi un amico, prima ancora che un collega: “Abbiamo lavorato insieme alla Domenica Sportiva. Negli ultimi anni ci tenevamo in contatto ma non lo sentivo da due mesi e mezzo. Era un grande battutista, ma univa momenti ironici ad attimi di quasi ferocia. È il giornalista sportivo più popolare di sempre. Era molto divertente, ad agosto mi scrisse: ‘Non preoccupatevi della prova costume perché quest’anno sarà scritta’”. Tra l’altro Galeazzi non se l’è mai presa per il soprannome Bisteccone, anzi giocava lui stesso molto sul suo fisico: “Noi ricordiamo soprattutto la sua voce, imitata più volte anche da Nicola Savino. Stava molto male - ha svelato Zazzaroni - era molto sofferente per altre ragioni a parte il diabete, anche se molto lucido e inaspettatamente affettuoso. Strano perché i colleghi lui tendeva a tenerli a distanza perché lui era Galeazzi, icona del giornalismo. Ha gradito sempre di essere prestato al mondo dello spettacolo perché era una persona molto empatica e faceva presa sul pubblico”.

Giampiero Galeazzi, "perché Bisteccone è una cosa bella": tutta la verità sul soprannome (e la frase che spiega tutto). Libero Quotidiano il 12 novembre 2021. Lo sport italiano e non solo piange la scomparsa di Giampiero Galeazzi: era malato da tempo, pare di una grave forma di diabete, ed è venuto a mancare oggi - venerdì 12 novembre - all’età di 75 anni. Soprannominato “Bisteccone”, è stato un grande inviato e anche un grande telecronista: celebri le sue incursioni tra campo e spogliatoi negli anni del grande Napoli di Diego Maradona, così come sono diventate storia le telecronache delle imprese del canottaggio italiano alle Olimpiadi. Ma come era nato il soprannome “Bisteccone”? A raccontarlo era stato lui stesso in alcune interviste: glielo aveva affiliato Gilberto Evangelisti nei primi anni di carriera. “Ero alto e massiccio - aveva svelato a riguardo Galeazzi - lui mi vide e disse: ‘Ma chi è sto Bisteccone?’”. Da allora è entrato nell’immaginario comune con quel soprannome, mai volto ad offenderlo. “Mica è spregiativo - aveva dichiarato qualche anno fa in un’intervista - a Roma bisteccona è un complimento a una donna: roba bona, una bella ‘magnata’, capito?”. Tra l’altro a livello di popolarità per Galeazzi era stato molto speciale il sodalizio con Mara Venier: “Mi ha cambiato la vita. Eravamo a cena in un locale di New York con Arbore durante i Mondiali del ’94 quando mi chiese di partecipare a Domenica In. Mia moglie e i miei figli mi chiesero se ero diventato matto”.

Galeazzi, l’impeto del telecronista prima che diventasse una moda. Scompare a 75 anni la straordinaria voce della Rai. Creò dal nulla uno stile impetuoso di raccontare lo sport, dal canottaggio al tennis. Oggi è lo standard abituale. Ma quando Giampiero urlava nel microfono “forza Fratelloni Abbagnale” non c’erano gli sponsor a imporre lo spettacolo. Errico Novi su Il Dubbio il 12 novembre 2021. Rai Teche, il dipartimento della tv pubblica destinato alla conservazione dei beni prodotti da viale Mazzini, è uno straordinario luogo di conoscenza. Ci aiuta per esempio a capire com’è cambiato il giornalismo, anche il giornalismo sportivo. E chi volesse, potrebbe andarsi a guardare, per esempio, i servizi confezionati per la Domenica sportiva da un Giampiero Galeazzi giovane, rigoroso, asciutto, puntuale. Insomma, un professionista british. Poi sappiamo cosa è diventato l’inimitabile e purtroppo da oggi compianto telecronista Rai: un uragano, un amplificatore a diecimila watt della passione sportiva. Il suo capolavoro è la prima medaglia “mainstream” dei Fratelli Abbagnale nel canottaggio: Lucerna 1982. Un crescendo, davvero, la trama di una marcia trionfale. Ebbe talmente successo, quell’incredibile e impetuoso scandire dei colpi dei canottieri di Castellammare, che Galeazzi fu praticamente costretto a riproporre lo stesso stile e la stessa esaltante telecronaca in tutte le vittorie successive, non solo dei Fratelloni. Poi Galeazzi ha inventato un linguaggio alternativo, dimesso e ruggente, nel racconto del tennis: e chi li dimentica, i suoi pomeriggi a due voci con Adriano Panatta, la rivalità con i colleghi della tivù a pagamento Rino Tommasi e Gianni Clerici. Certo, col passare del tempo è diventato un’icona, con quel soprannome, “Bisteccone”, che prova a mettere insieme il suo fisico imponente con la forza della voce. Ed è vero che rispetto a quel sobrio cronista d’inizio carriera dev’essere stato folgorato da un’intuizione, oltre che da una sempre più assoluta padronanza del mezzo. Ma è impossibile resistere al paragone fra Galeazzi e la più recente generazione di telecronisti. In particolare quelli specializzati nel calcio, soprattutto se allenati alla scuola delle pay-tv, hanno a loro volta un’impostazione aggressiva, intensa, puntuale ma sempre modulata sui toni alti. È un tratto comune, adesso, in parte legato alla natura commerciale degli eventi. Galeazzi divenne il mattatore assoluto che oggi dobbiamo rimpiangere senza che nessuno glielo avesse chiesto. Inventò tutto da solo. Non aveva eguali alla Rai, non creò una scuola. Non perché le urla meravigliose a ogni colpo di remo facessero storcere il naso: semplicemente, era impossibile stargli dietro. Oggi l’enfasi va di moda, ma ci sono stati lustri in cui Giampiero Galeazzi è stato il solo a poter sfoggiare quello scintillante abito, che indossato da altri non avrebbe avuto senso. Ps: da tifoso del Napoli, sarò sempre grato a Giampiero per aver afferrato, il 10 maggio 1987, la sagoma impassibile di Ottavio Bianchi e urlato nel microfono: «17 e 47: Napoli Campione d’Italia, Bianchi! Napoli campione d’Italia!!!». Quegli istanti di gioia che mi accompagneranno per sempre sono ancora più belli anche grazie al maestro Galeazzi.

La scomparsa di un grande del giornalismo. Morto Giampiero Galeazzi, voce dello sport in tv: aveva 75 anni. Redazione su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Giampiero Galeazzi è morto oggi all’età di 75 anni. Il celebre giornalista e opinionista sportivo è scomparso a Roma, dove era nato il 18 maggio del 1946, dopo una lunga malattia. Prima della carriera nel giornalismo Galeazzi è stato anche uno sportivo e professionista nel canottaggio: vinse il campionato italiano nel singolo nel 1967, nel doppio nel 1968 con Giuliano Spingardi e sempre quell’anno partecipò alle selezioni per le Olimpiadi di Città del Messico. A darne la notizia sono stati i colleghi su Twitter, dal direttore del Tg5 Clemente Mimun a Massimo Caputi. Quando non aveva ancora abbandonato la carriera sportiva fu assunto dalla Rai grazie a Gilberto Evangelisti, il giornalista che gli affibbiò il soprannome di ‘Bisteccone’. Con la tv pubblica su inviato alle Olimpiadi del 1972 a Monaco di Baviera e ‘grazie’ a un imprevisto di Mirko Petternella, bloccato nell’impianto di scherma, effettuò la sua prima radiocronaca nella sua disciplina, il canottaggio. Le sue telecronache nella disciplina tanto amata restano indimenticabili, in particolari quelle dei trionfi olimpici dei fratelli Abbagnale alle olimpiadi di Seoul 1988 e di Antonio Rossi e Beniamino Bonomi a Sydney 2000. Negli anni ottanta fu inviato della Domenica Sportiva negli incontri clou del campionato di calcio di serie A, alternandosi con le telecronace di tennis e canottaggio, mentre dal 1992 al 1999 condusse 90º minuto. Sempre della storica trasmissione Rai fu anche opinionista e commentatore negli anni seguenti. Nel 2010 e nel 2012 ha partecipato a Notti Mondiali e Notti Europee, entrambe trasmissioni Rai. Nella sua lunga carriera da giornalista non raccontò soltanto lo sport: nel 1986, come inviato Rai in Islanda per l’incontro di Coppa dei Campioni fra Valur e Juventus, raccontò dell’incontro tra Michail Gorbačëv e Ronald Reagan a Reykjavík. Galeazzi, laureato in Statistica, era notoriamente un tifosissimo della Lazio. Lascia due figli, entrambi giornalisti: Susanna, conduttrice del TG5, e Gianluca, giornalista nella redazione del tg di La7. Una notizia, quella della morte di Galeazzi, “sconvolgente, mi lascia senza parole”. E’ questo il commento di Giuseppe Abbagnale, presidente della Federcanottaggio, le cui gesta olimpiche sono state raccontate dal giornalista in telecronache rimaste nella storia. “Siamo stati con la figlia pochi giorni fa e avevamo parlato di lui, mi aveva lasciato molto felice il fatto che si stava riprendendo, invece arriva questa notizia. Se ne va la voce storica del canottaggio, nonché un amico e un personaggio preparato e coinvolgente”, ha commentato Abbagnale all’AdnKronos. “Ci sono tanti aneddoti perché abbiamo condiviso per anni il palcoscenico dello sport, del canottaggio, soprattutto in occasione dei Giochi Olimpici. Le sue interviste e i suoi sfottò veramente spaziavano dalla sua militanza all’interno del mondo remiero, ad atleta, a voce effettiva e indiscussa. Questa notizia mi ha lasciato veramente sconcertato, mi mancano le parole. Non avrei mai voluto ricevere questa notizia, appena possibile sentirò la famiglia per le condoglianze da parte mia e di tutto il mondo remiero”, ha aggiunto il presidente federale.

"Mi hanno già fatto il funerale ma io sono ancora vivo". Come è morto Giampiero Galeazzi, la malattia del giornalista raccontata in tv: “Rassicuro le mie ex fidanzate e mia moglie”. Redazione su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Se ne è andato all’età di 75 anni un’icona della televisione italiana, soprattutto in ambito sportivo. L’Italia piange Giampiero Galeazzi, storico giornalista sportivo della Rai ed ex canottiere. Nato a Roma il 18 maggio 1946, “Bisteccone”, così come era soprannominato, era malato da tempo. Negli ultimi giorni era stato ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma. Il 13 gennaio del 2019, ospite della sua amica Maria Venier a “Domenica In”, Galeazzi, in sedia a rotelle dopo l’operazione al ginocchio, parlò della sua malattia, una grave forma di diabete, utilizzando una metafora sportiva: “Gli ultimi 500 metri nel canottaggio sono l’ultima boa, in cui tu dai tutto e cerchi di battere l’avversario e io sto attraversando questa fase della mia vita, non intendevo dire altro”. Per anni in tanti hanno pensato che Galeazzi fosse affetto dal Parkinson, poi lo stesso giornalista chiarì tutto. “È stato un errore presentarmi a Domenica In  sulla sedia a rotelle. Sui social – raccontò – mi hanno già fatto il funerale ma io sono ancora vivo. Non ho il Parkinson, ho problemi di diabete. La salute va su e giù, come sulle montagne russe. Ho sbalzi di pressione, gonfiore alle gambe. Quando mi emoziono, mi tremano le mani, ma non sono messo così male. A 72 anni ho anche perso un po’ di chili”. In quella occasione, Galeazzi ironizzò sulle sue condizioni di salute con una battuta: “Rassicuro il direttore della banca, le mie ex fidanzate, se sono ancora tutte vive, e mia moglie. Sto bene”. “Non era facile tornare qui una seconda volta”, ammise Galeazzi, di casa in passato a Domenica In quando presentava “Novantesimo minuto”. “C’è chi ha provato a dissuadermi, ma io ho detto che questa è casa mia e allora sono tornato”. Maria Venier lo ha ricordato con un post sui social in cui ha pubblicato una foto durante il loro ultimo incontro in televisione: “Bisteccone mio se ne va un pezzo importante della mia vita”.

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 13 novembre 2021. La notizia le è arrivata mentre era dal parrucchiere: «Sono scattata in piedi e sono uscita dal negozio con i capelli bagnati. Sapevo che stava male, non ci potevo credere». Accanto a Galeazzi - da lei ribattezzato Bisteccone - nella gloriosa stagione delle Domenica In anni Novanta, Mara Venier ieri riusciva a malapena a parlare, scossa dai singhiozzi per la scomparsa, prima che di un collega, «di un vero amico. Da 25 anni. Scusi, sono disperata». 

Come sta? 

«Distrutta. Io e Giampiero avevamo un legame molto forte, simile all'amore. Non c'è mai stato niente, ma la sensazione era quella: io potevo contare su di lui, lui su di me. Sempre».  

Continuavate a sentirvi? 

«Continuavano ad avere voglia di lavorare insieme. Poco tempo fa mi aveva proposto di scrivere un libro insieme, era pieno di idee. Mi mandava anche messaggi di notte. Io una volta gliel'ho detto: Bisteccò, così mi spaventi».

Come vi siete conosciuti? 

«No, questo non ce la faccio, scusi (piange, ndr)».  

Se la ricorda l'ultima volta in tv insieme? 

«È venuto da me due volte, di recente. E già non stava bene: gli autori erano andati personalmente a prenderlo a casa. Erano tutti molto amorevoli con lui. Era un uomo dolce, buono, non l'ho mai sentito parlare male di qualcuno». 

Mai un momento d'ombra? 

«Mai. Nemmeno quando fu criticato dalle testate sportive perché faceva gli sketch con me a Domenica In. Non si arrabbiò con loro, ma a me disse che non voleva più farli. Disse che lo sketch della valigia, quello in cui mi buttava sul letto, lo stava sputtanando. Io gli risposi: Ma non lo vedi che è tutta invidia?».  

E come finì? 

«Che il direttore di rete lo chiamò e gli disse la stessa cosa: Lo sai quanta gente vorrebbe essere al posto tuo? E lui rimase. Insieme, in quel programma, eravamo uniti e fortissimi come una famiglia: Bisteccone, Giucas, Mara, Masciarelli e Roncato. Un gruppo di matti».  

Diceva: Mara mi ha cambiato la vita. Vero? 

«Sì, ma diceva pure che gliel'avevo rovinata. L'ho fatto ingrassare: quando veniva a cena da me mica gli facevo il petto di pollo». 

Che gli cucinava? 

«Andavo sul pesante: carbonara, amatriciana. Me le ultime volte quel rituale non poteva più continuare». 

 Un ricordo privato di Bisteccone? 

«Lo voglio ricordare quando facevamo le prove di Domenica In il sabato mattina. Al momento di provare, lui spariva. Era sempre in mensa. E io gli facevo certi cazziatoni, l'ho rimproverato moltissimo. (si interrompe, non riesce a continuare, ndr)».  

Lo ricorderà in trasmissione, a Domenica In? 

«Tutta la prima parte sarà dedicata a lui. Non so come farò, sono frastornata. La gente mi sta mandando centinaia di messaggi di condoglianze. È un'ondata di affetto potente ma dolorosa». 

Con la famiglia è in contatto? 

«No, sono sempre stata solo amica sua. Giampiero era un solitario e la moglie molto riservata. Appariva poco, non veniva mai in trasmissione. Ho l'impressione che l'abbia anche rimproverato per gli sketch che faceva con me. Ma Giampiero è sempre stato un pezzo importante della mia vita. E come tutti i grandi amori, voglio pensare che ci sarà sempre». 

Angelo Di Marino per “la Stampa” il 13 novembre 2021. Il presidente federale Giuseppe Abbagnale è una leggenda del canottaggio. Come leggenda è la voce di Galeazzi e la vittoria del "due con" dei fratelloni di Pompei e del timoniere Di Capua alle Olimpiadi '88. «La gara di Seul e la telecronaca di Gian Piero sono un tutt' uno, un tormentone. E poi nell'immaginario collettivo la figura di Galeazzi veniva abbinata agli Abbagnale e gli Abbagnale alla voce di Galeazzi. Una simbiosi, un binomio praticamente indissolubili. Sarà per sempre così». Ha perso un amico. «Sì. Un amico, un grande amico che nel mio caso ha anche rappresentato la voce narrante di quello che abbiamo fatto e continuato a fare nel mondo del canottaggio». Lui che era stato canottiere. «Gian Piero nasceva come canottiere, aveva anche vestito l'azzurro in gare internazionali. Non era approdato a rappresentare l'Italia ai giochi di Città del Messico 1968, ma era bravo davvero». Seguiva ancora il canottaggio? «Ci seguiva sempre. E io attraverso la figlia, Susanna, mi informavo del suo percorso di riabilitazione fisica. Mi aveva lasciato impressioni molto favorevoli. Ahimè, purtroppo però se n'è andato». "Andiamo a vincere!" resterà l'urlo dello sport italiano. «Gian Piero lo urlerà ancora con la sua schiettezza, con la sua capacità empatica. Farà altri tipi di telecronache. Speriamo che lassù possano beneficiare della sua competenza».

Maurizio De Giovanni per “la Stampa” il 13 novembre 2021. Siamo fatti di memoria, questa è la verità. Pensiamo di lasciarci il passato alle spalle, immersi nel presente e tesi al futuro come siamo; ci illudiamo che quello che è stato è stato, e che i ricordi siano istantanee in una vecchia scatola di biscotti, da andare a pescare in caso di nostalgia o di necessità. E invece siamo fatti di memoria, e i pezzi del passato sono sempre presenti e forti, con colori e sapori, perché sono i mattoni che formano la nostra identità. E spesso i contorni sono più saporiti e profumati delle pietanze che contribuivano ad abbellire, e li ricordiamo con maggiore potenza, ed emergono sulla superficie della coscienza con una nitidezza che li rende immutabili nel tempo, per niente sbiaditi o ammuffiti. Ecco per quale motivo il valore di Gian Piero Galeazzi, per noi che c'eravamo, per noi che in quel tempo avevamo coscienza della grandezza degli eventi che ci riferiva, è forse ancora maggiore di chi c'era davanti ai suoi occhi ed era oggetto del suo arrochito racconto. Ricordiamo Galeazzi, più ancora delle prue eroiche degli Abbagnale che fendevano le acque olimpiche. Ricordiamo Galeazzi, più ancora della ressa attorno ai campioni circondati da microfoni perché non parlavano per contratto ma casualmente, colti nel pieno dell'adrenalina di bordocampo, senza sfondi sponsorizzati alle spalle, senza essersi pettinati nel frattempo. Ricordiamo Galeazzi, sommerso da spumante e gavettoni come fosse un compagno di squadra, che coglieva lacrime di gioia e scomposti cori a petto nudo nella sacralità di spogliatoi che oggi sembrano reparti di cliniche svizzere. Idealmente raccolti attorno al suo letto di morte, addolorati come fosse un cugino o uno zio di cui da tempo non sapevamo più niente, col vago colpevole rimpianto che sempre si prova quando si è forse trascurato un affetto, riflettiamo sul tempo che era e sul tempo di adesso; e un po' ci sentiamo anche in colpa verso i nostri figli, per quanto era bello allora e per quanto sia asettico e triste il racconto dell'epica sportiva, com' è diventato oggi. Se dovessimo spiegare la radice della tristezza che ci prende, alla notizia della scomparsa di questo gigantesco cronista delle imprese, se dovessimo far capire chi era e com' era, avremmo difficoltà. Perché ai ragazzi (non moltissimi) appassionati di sport dovremmo probabilmente costruire una creatura alla Mary Shelley, un po' qui e un po' lì, perché Bisteccone era enorme, non solo fisicamente ma per la personalità e l'ironia, per l'intelligenza e la sensibilità. E dovremmo spiegare ai ragazzi che non è la morte che santifica, non è il fascino della gioventù perduta né una senile tendenza a vedere un necessario degrado dei tempi che ce lo fa dire. Lui era un pezzo di bordocampista, con l'attitudine a leggere anche le gocce di sudore; ma anche un pezzo di telecronista, con una visione d'insieme profonda e competente; ma anche un pezzo di esperto di costume, con domande secche e intelligenti che consentivano di capire l'umanità dei campioni senza uno sgabello e un riflettore; ma anche un acuto commentatore, in grado di analizzare compiutamente un evento a distanza di pochi minuti dalla conclusione; ma anche un opinionista, preparato a largo raggio e capace di entrare nel merito dei fatti pesandone l'effettiva portata. Era un po' di tutto, Galeazzi. E noi, che lo ascoltavamo, eravamo certi che non sarebbe stato mai banale. In nessun caso. I ricordi di cui è portatore nella nostra memoria hanno il pregio di essere comuni, e non è cosa da poco. Non erano quelli i tempi in cui un evento arrivava multiforme e da frammentate angolazioni. Oggi c'è chi ha visto sul satellite e chi ha sentito in radio, chi ha colto sul web e chi ha rivisto in streaming, che preferisce la telecronaca in lingua e chi trova sul blog o il social di riferimento. Allora una voce c'era, roca e sudata, ed era quella di Galeazzi, entusiasta e gioioso come avesse giocato o vogato o pedalato lui stesso, in totale condivisione col campione e con chi assisteva, un ponte di sangue e fatica che ti portava sul campo anche senza alta definizione. Una condivisione che lo portò indimenticabilmente a conferire il microfono a un Diego neoscudettato e felice, per intervistare i compagni, insieme a lui e insieme a noi. Non sarà possibile, per noi che c'eravamo, fare a meno di questo ricordo. Perché siamo fatti di memoria, e un pezzo importante della memoria di questa generazione avrà per sempre la voce, il faccione, il sorriso e il sudore di Gian Piero Galeazzi. 

Da ilnapolista.it il 16 novembre 2021. “Giampiero Galeazzi è uscito dal campo con microfono e telecamera, sono scesi negli spogliatoi prima di tutti e si sono chiusi lì ad aspettare i giocatori. Era il 10 maggio 1987 e il Napoli aveva appena vinto il suo primo scudetto al San Paolo. Quando Maradona entrò, Careca e compagni lo accolsero come uno in più nell’estasi della festa. Le immagini sono storiche. Gli fanno un gavettone, bevono champagne insieme e alla fine, in un rapimento di lucidità, Galeazzi passa il microfono all’argentino, che mette a segno una serie di interviste memorabili ai compagni”. Giampiero Galeazzi e la iconica cronaca della festa-Scudetto del Napoli di Maradona sono su El Pais. La morte del celebre giornalista travalica i confini italiani, Galeazzi diventa internazional-popolare. Il quotidiano spagnolo parla di “impero di Galeazzi costruito su una Rai egemone”, e di “un tempo in cui esisteva ancora la promiscuità tra atleti e giornalisti”: “Galeazzi era una specie diversa da Gianni Brera o Mura, intellettuali capaci di collegare lo sport con la letteratura e l’arte e di rompere gli stereotipi calcistici. Ha fatto parte dello spettacolo, del giornalismo popolare”. E così Bisteccone – “le Chuletòn” – arriva fino in Spagna: “Faceva spogliare i calciatori, quella specie di animale ermetico e, a volte, inconsistente davanti a un microfono”. “Era lui stesso l’atmosfera, il contesto e l’intervista”.

Ester Palma e Giuliano Benvegnù per corriere.it il 16 novembre 2021. E’ arrivato alla Protomoteca del Campidoglio alle 11, come da programma, il feretro di Giampiero Galeazzi. A accogliere la bara del telecronista morto al Gemelli a 75 anni, c’erano i due figli, Gianluca e Susanna. Per il Comune c’era Alessandro Onorato assessore al Turismo, Grandi Eventi e Sport. Il sindaco Gualtieri è arrivato più tardi. Molti i tifosi della Lazio, squadra di cui anche Galeazzi era un supporter, a omaggiare il popolare giornalista. Il figlio Gianluca, giornalista de La7, ha appoggiato sulla bara coperta di fiori una maglietta biancazzurra, con il nome di Galeazzi e il numero 9. Fra i primi amici a raggiungere la camera ardente, il giornalista Enrico Mentana, che si è fermato a chiacchierare con la famiglia, strappando loro persino un sorriso. Poi Clemente Mimun e Amedeo Goria, che commenta: «Giampiero si stupirebbe oggi nel vedere tante attenzioni, però se l’è meritato perché era un simbolo di romanità ma soprattutto dell’Italia sportiva. Lui era un mediatore tra il pubblico e i grandi campioni dello sport che ha saputo raccontare. Oggi direbbe “Ma che ho fatto di male o di bene per avere il Campidoglio?”. Tutti gli vogliamo bene, gli mandiamo un gran saluto e speriamo faccia tante telecronache da lassù». La camera ardente sarà aperta fino alle 18 e i funerali si terranno domani in forma privata. A salutare «Bisteccone» è passato anche velocemente il sindaco Gualtieri, con la fascia tricolore delle occasioni ufficiali. In fondo alla sala della Protomoteca, due foto del giornalista, una degli anni in Rai e una da giovane, quando era campione di canottaggio. Accanto alla bara coperta da un grande cuscino di rose bianche e rosa pallido, due gonfaloni, della sua amata Lazio, e del Circolo Canottieri Roma.

Da ilsussidiario.net il 16 novembre 2021. Paola Ferrari ha ricordato il collega Giampiero Galeazzi ai microfoni di Adnkronos. Un ricordo sincero e commosso, che la giornalista ha riassunto in questi termini: ”Galeazzi era un professionista assolutamente fuori dagli schemi. È l’unico che è stato capace di scherzare e prendersi in giro senza mai perdere un filo quella autorevolezza che aveva come giornalista e questo è molto difficile nel nostro ambiente. Riusciva a unire la professionalità al gioco che faceva, per esempio, a ‘Domenica In’ con Mara Venier. Non c’è riuscito nessun altro!’‘. Il diverbio nato in passato con “Bisteccone” apparteneva ormai al novero delle tensioni superate, come ha rivelato la stessa Ferrari, che ha rivelato come ogni incomprensione tra loro fosse stata ampiamente superata: “Giampiero aveva un carattere molto forte fuori delle telecamere. Noi abbiamo avuto uno scontro anche recentemente, ma lui era così, era diretto e senza filtri. Abbiamo discusso e questo mi questo mi è dispiaciuto un po’, ma dopo ci siamo sentito al telefono e ci siamo chiariti”. La donna ha quindi aggiunto ulteriori dettagli al suo personale tributo a Giampiero Galeazzi sulle colonne di Adnkronos: ”Avendo avuto la fortuna di aver lavorato tanto con lui, posso dire che quello che mi ha più colpito è che lui era scevro da ogni tipo di banalità. Riusciva in tutto quello che faceva, anche durante le partite meno importanti, dove c’erano personaggi meno di spicco, a non dire mai banalità. Aveva una grande sintonia con Maurizio Costanzo, erano due persone diverse, ma entrambe geniali”. La trasmissione a cui era più legato Galeazzi sicuramente era “90° minuto”: “Mi ricordo che quando glielo tolsero ci rimase molto male, ma poi, quando è tornato anni dopo, gli dissi: ‘Vedi? Alla fine le cose tornano al loro posto’”. Purtroppo, gli ultimi periodi per “Bisteccone” sono stati complicati: “Anche se da tempo non stava bene, tutte le volte che partecipava a qualche trasmissione notavo sempre in lui quella lucidità nell’esprimere i suoi concetti e quel suo non essere mai banale. Riusciva a dare sempre spunti di discussione e di riflessione. È stato lucido e acuto fino alla fine, non si è mai lamentato per la sua malattia’.

Andrea Sorrentino per “il Messaggero” il 16 novembre 2021. Gli intitoleranno un frammento della sua città, presto, perché è giusto e perché ogni promessa è debito. Intanto ieri Roma l'ha salutato a dovere, dalle 11 di mattina fino a sera, quando è arrivato anche Bruno Giordano: «Era un amico, e uno straordinario professionista. Era il minimo venire qui». Il remo e il gonfalone del Canottieri Roma, lo stendardo della Lazio e la maglia numero 9 con scritto Galeazzi, un tappeto di rose rosa, i figli, gli amici, gli atleti, i colleghi, i telespettatori. Davanti a Giampiero Galeazzi, nella camera ardente allestita nella Protomoteca del Campidoglio, ha sfilato la sua vita, in una giornata che via via è diventata luminosa e perfetta: Roma era al suo massimo splendore, quasi per voler rendere degno omaggio al popolare giornalista, scomparso venerdì scorso a 75 anni per complicazioni legate al Covid. Il sindaco Gualtieri, con fascia tricolore, ha salutato i figli Susanna e Gianluca. Con la promessa, di cui si discuterà nelle prossime settimane, di non dimenticare Giampiero. Ne parla l'assessore al Turismo, Grandi Eventi e Sport Alessandro Onorato: «Studieremo qualcosa con la famiglia. Per intitolare una via c'è il consueto iter di 5 anni, ma valuteremo anche altre possibilità. Giampiero Galeazzi amava Roma e ne era amato. Si potrebbe intitolargli un impianto sportivo o una manifestazione, o un evento. Il suo nome è legato al calcio, al tennis, al canottaggio, al giornalismo sportivo di alto livello, insomma le opportunità sono tante. E lo ricorderemo sempre col sorriso». Dalla tarda mattinata hanno sfilato i membri del suo Canottieri Roma, gli anziani con la loro fierezza nell'incedere, i giovani, Bruno Mascarenhas che fu bronzo olimpico ad Atene 2004. Medagliati olimpici anche gli atleti delle Fiamme Oro Sartori, Venier, Battisti e Facchin. E il grande canoista Oreste Perri da Castelverde, cioè Cremona, 12 medaglie olimpiche da allenatore, commosso: «I ricordi di una vita legati a lui. E fuori dall'acqua, quante risate, quanto divertimento». Che poi il divertimento e le risate a crepapelle sono le cose che tutti ricordano di Giampiero. A cominciare dai colleghi di Raisport, che arrivano in massa, Donatella Scarnati e Jacopo Volpi, il direttore Auro Bulbarelli, Marco Lollobrigida ed Enrico Varriale tra gli altri. I direttori Clemente Mimun ed Enrico Mentana, Tg5 e La7. L'ad della Rai, Carlo Fuortes. E la gente comune, tifosi e tifose della Lazio, gente della generazione di Giampiero, cresciuta con le sue mirabolanti imprese nel cuore dello sport, tra campi di gara e spogliatoi: arrivano, salutano il feretro, firmano il libro dei messaggi: Ciao, Bisteccò e un cuore rosso vicino. E amici raccolti per il mondo, come il signor Scaglione, che vive in Germania e aveva conosciuto Giampiero ai tempi di Duisburg, ritiro azzurro ai Mondiali di calcio del 2006: «Faceva Notti Mondiali per la Rai, io ero lì, è nata un'amicizia, gli ho voluto subito bene. In questi giorni mi trovavo a Roma per motivi di famiglia e lui è venuto a mancare, guarda te il destino. Così sono venuto a salutarlo». E la Lazio, presentissima fin dal mattino, prima con Tommaso Rocchi, poi col presidente Claudio Lotito: «Era un laziale autentico, competente, discreto. Mi telefonava spesso, e mi appoggiava in tutto. Esponente di un giornalismo vero, autentico, che io ho definito icastico». 

Chi è Susanna Galeazzi, giornalista e figlia di Giampiero. Arianna Giago Life su Style24.it il 13 novembre 2021. Quella di Susanna Galeazzi, più che una professione è una passione di quelle già scritte nel DNA. Non è infatti solo una giornalista, ma è anche la figlia di uno dei giornalisti sportivi più apprezzati da colleghi e telespettatori: il compianto Giampiero Galeazzi, scomparso recentemente dopo una lunga malattia. Ma scopriamo di più su Susanna Galeazzi e sulla sua carriera costruita seguendo le orme paterne.

Chi è Susanna Galeazzi

Classe 1972, Susanna Galeazzi è conosciuta per essere uno dei volti del bancone del Tg5. Ma il suo curriculum è costellato di numerose ed importantissime esperienze che l’hanno portata ad essere la giornalista preparata ed affermata che conosciamo oggi.

Susanna ha scoperto la sua propensione per il mestiere del giornalismo durante gli anni del liceo classico. Anni in cui osservava sognante il mestiere del padre e si appassionava anche alla scrittura.

La carriera nel giornalismo

Susanna Galeazzi ha iniziato la sua carriera come chiunque decida di intraprendere la professione del giornalista, dopo una lunga e formante gavetta. Ha iniziato collaborando con il sito Kataweb, portale attivo dal 1999. Successivamente ha collaborato con il celebre settimanale L’Espresso, per poi passare a Sky, per cui ha condotto il telegiornale sportivo in onda su SkyTg24 e per cui ha fatto anche l’inviata per gli internazionali di Tennis a Roma.

Successivamente è approdata al Tg5 come inviata, dove faceva anche i più impegnativi servizi di apertura. Nel 2006 è anche entrata a far parte della redazione di Verissimo, per poi tornare al Tg5 in qualità di “mezzobusto”, ovvero come presentatrice del telegiornale.

Vita privata

Per quanto riguarda la vita privata di Susanna Galeazzi, la giornalista tende a non rivelare molto. Riservatezza probabilmente dovuta anche ai riflettori sotto i quali era sempre esposto il celebre padre. Quello che sappiamo però è che ha una figlia, Greta, avuta nel 2017 da Mattia Mirabella, un biotecnologo con cui ha una relazione dal 2012.

·        E’ morto il fotografo ritrattista Dino Pedriali.

Da roma.corriere.it il 12 novembre 2021. È morto questa mattina a Roma il fotografo Dino Pedriali, 71 anni, autore dei ritratti di tanti artisti e intellettuali, da Andy Warhol a Pasolini, da Manzù a Moravia, Fellini, Nurejev, Man Ray. Tra i ritratti più famosi proprio quello di Pasolini, scattato nel 1975 per la copertina di Petrolio, poco prima che lo scrittore e regista venisse assassinato. Tantissimi i riconoscimenti e le mostre, da Palazzo Reale di Genova a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dal Salone delle Feste di Parigi alla Kunsthalle di Basilea. Achille Bonito Oliva gli dedicò la copertina del volume La camera dello sguardo - Fotografi italiani ( 2009). Pedriali — racconta l’amico fotografo Alessandro Valeri — si è spento in una clinica dove era stato trasferito dopo un lungo ricovero del maggio scorso al Policlinico Umberto I. Anni fa era stato operato per un tumore alla gola e da allora non si era praticamente più ripreso. A minarne la salute, sottolinea Valeri, anche la depressione per una causa che gli era stata intentata da una nipote di Pasolini che chiedeva indietro l’archivio delle foto fatte nel 1975 allo scrittore. «Una vicenda che lo aveva davvero amareggiato - sottolinea - e che gli aveva lasciato una brutta depressione». Anche per questo, spiega, Pedriali negli ultimi anni aveva preso le distanze dal mondo dell’arte e deciso di non vendere più i suoi lavori. «Negli ultimi tempi prima del ricovero viveva ospite di un amico in una stanzetta con il suo archivio sotto al letto». Accanto a lui negli ultimi mesi c’era il figlio Tristano, che gli si era riavvicinato dopo anni di distanza. «Anche lui in difficoltà e con problemi di salute», spiegano gli amici, che si stanno spendendo in queste ore per raccogliere i soldi necessari per il funerale. «Tutti i risparmi di Dino purtroppo sono stati consumati dai mesi di malattia» dice Valeri, che insieme agli altri sta cercando di contattare anche le istituzioni culturali romane: «Da tempo poteva contare solo sui diritti raccolti dalla Siae». A giugno 2020 l’ultima esposizione «E tu splendi invece» organizzata a Roma dalla fondazione Alda Fendi e dedicata a Pasolini. In mostra c’erano 110 foto della collezione Alda Fendi con gli scatti in bianco e nero - anche 15 nudi inediti - che Pedriali aveva scattato allo scrittore seguendone il lavoro fino al giorno prima della sua tragica morte . «È terribile che un artista come lui abbia dovuto vivere questo calvario da solo, senza un riconoscimento da parte delle istituzioni», conclude Valeri.

·        È morto l’imprenditore Glen de Vries.

È morto Glen de Vries: un mese fa volò nello spazio con il capitano Kirk. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 13 novembre 2021. Incidente aereo per l’imprenditore di 49 anni che il 13 ottobre aveva preso parte alla missione spaziale della compagnia privata Blue Origin. La passione per il volo è stata fatale per il turista spaziale Glen de Vr ies. L’imprenditore di 49 anni poche settimane fa aveva coronato un sogno e fatto la storia volando nello spazio a bordo della New Shepard di Blue Origin insieme al Capitano Kirk William Shatner. Ma appena un mese dopo l’imprenditore microbiologo è rimasto ucciso in un incidente aereo in New Jersey. L’uomo era a bordo di un Cessna 172 - velivolo a quattro posti usato per le lezioni di volo - al momento del disastro di cui non si conoscono ancora le cause. La notizia, diffusa dalle principali agenzie di stampa Usa, è stata rilanciata dall’Ansa. L’aereo è caduto giovedì pomeriggio nell’area di Hampton Township, zona boscosa a poco più di 60 chilometri da New York. De Vries, pilota di aerei nel tempo libero, era insieme al 54enne Thomas Fischer, anche lui morto. Le autorità americane stanno indagando sull’accaduto e alcune risposte preliminari sulle cause dell’incidente potrebbero arrivare nei prossimi giorni. «Siamo devastati dall’aver appreso della morte di Glen de Vries. Ha portato molta energia nella squadra di Blue Origin. La sua passione per l’aviazione e la beneficenza sarà ricordata e ammirata», ha affermato Blue Origin. Parla di una perdita dolorosa Lauren Sanchez, la fidanzata di Jeff Bezos, il fondatore di Blue Origin. «Abbiamo incontrato Glen e la sua partner Leah lo scorso mese. Quando è decollato per lo spazio, Leah mi ha stretto la mano così forte da far male. Ripensare a quel momento ora mi spezza il cuore», ha twittato Sanchez, postando una foto di de Vries a bordo della navicella spaziale. Era il 13 ottobre quando de Vries era salito insieme al Capitano Kirk su New Shepard. Al rientro dal viaggio spaziale aveva descritto la sua esperienza nel corso di alcune interviste. E aveva parlato di qualcosa di indescrivibile: «Prima di partire pensavo che sarebbe stato importante per me, e ora che l’ho fatto ne sono ancora più convinto. È qualcosa che - aveva detto - dobbiamo rendere accessibile al maggior numero di persone».

·        E’ morto l’ex presidente e premio Nobel Frederik de Klerk.

Morto Frederick de Klerk, il presidente sudafricano che liberò Mandela. Carlo Baroni su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2021. Aveva 85 anni ed era malato da tempo. Nel 1993 vinse il premio Nobel per la pace e lavorò al fianco di Mandela come vicepresidente. L’ultimo presidente bianco del Sudafrica. Il rottamatore, insieme a Mandela, dell’apartheid. Frederik de Klerk è morto. Aveva 85 anni. E lottava da tempo con un male incurabile. Una delle sue tante battaglie. Spesso controcorrente. Un politico in avanti con i tempi. Per questo la Storia l’ha messo in un angolo. Per i bianchi era un traditore e i neri lo guardavano come l’antico oppressore. Perché ebbe il coraggio di liberare Mandela e mettere fine al regime di segregazione razziale. Questo gli valse il premio Nobel per la pace nel 1993. Ma anche «l’esilio» politico. Il punto più alto coincise con l’inizio della discesa. Proveniva da una famiglia di origine ugonotta stanziata in Sudafrica da tre secoli. Quello era il suo Paese. Laureato in Giurisprudenza, entrò prestissimo nel National Party, il partito che governò il Sudafrica dal secondo dopoguerra agli anni Novanta. Il movimento che teorizzò l’apartheid e ne fece una legge dello Stato, peggio un modo di vivere. De Klerk faceva parte della minoranza afrikaner, i bianchi che avevano in mano tutto: politica, economia, giornali. Era considerato un ortodosso, come Gorbaciov in Unione sovietica. Nessuno, quando fu scelto come presidente (dall’89 al ‘94) pensava che avrebbe smantellato quel sistema. Ma capì che il mondo era cambiato. La Storia non si fa con i se ma è indubbio che evitò al Sudafrica ciò che successe ad altri Paesi nel momento della decolonizzazione. Il bagno di sangue nell’ex Rhodesia e un passaggio traumatico a una democrazia mai compiuta.

De Klerk lavorò anche al fianco di Mandela come vicepresidente. Un segnale alla comunità bianca che si poteva collaborare con le vittime di un tempo. Con lui nacque la nazione arcobaleno, un tentativo di possibile convivenza. Gli ultimi anni segnati da tragedie familiari e dalla malattia. E soprattutto dimenticato. Lui che a suo modo cambiò davvero la Storia.

L’agire politico dei due presidenti sudafricani. De Klerk, Mandela e il filo che porta a Pannella. Valter Vecellio su Il Riformista il 18 Novembre 2021. A 85 anni muore Frederik de Klerk, nome che oggi, forse, dice poco a tanti; per ragioni anagrafiche, ma non solo: perché su questa personalità si è come steso un velo d’oblio che non merita. È stato presidente del Sudafrica e Nobel per la pace, predecessore di Nelson Mandela: che fa uscire dal carcere dopo 27 anni. La sua presidenza segna la fine delle politiche di segregazione razziale, l’apartheid. Per bizzarra associazione di idee, “rivedo” uno dei tributi migliori a Nelson Mandela, Invictus, di un cineasta libertario come Clint Eastwood. Un film che lo stesso Mandela amava: non racconta gli anni più drammatici e cupi, quelli della lotta all’apartheid e della lunghissima detenzione (27 anni!), piuttosto una pagina poco nota della storia sud africana, metafora del suo desiderio e della volontà che gli ex oppressi neri e gli ex oppressori bianchi imparassero a vivere insieme, in pace. Invictus racconta come in occasione della Coppa del Mondo di rugby a Johannesburg nel 1995, gli Springboks, considerati dai neri espressione dell’odiata minoranza bianca, vittoria dopo vittoria, riescono a conquistare il cuore dei tifosi, e a coinvolgere anche la comunità nera. Fino a quando si arriva alla finale con gli «All Blacks» neo-zelandesi: una trascinante partita che i sudafricani vincono. Un trionfo, e in particolare per Mandela. Il film si conclude mostrando una folla enorme esultante, bianchi e neri che fanno festa insieme. L’uomo che ha sconfitto l’apartheid allunga il braccio per una stretta di mano che coinvolge l’intera nazione. Lo aveva ben chiarito un anno prima, nel discorso di insediamento alla presidenza: «…È giunta l’ora di rimarginare le ferite… Confidiamo che resterete al nostro fianco mentre affronteremo la sfida di costruire una società pacifica, prospera, non razzista e democratica». Mandela attua quanto auspicato – fin dal 1991 – da un campione della nonviolenza costantemente coniugata con il diritto, e troppe volte poco o nulla ascoltato, Marco Pannella: in un articolo su una piccola rivista, Il Partito Nuovo, invita a spedire in soffitta tabù ormai ammuffiti: «Noi stiamo dalla parte della perestroika sudafricana di Frederick De Klerk perché il Sudafrica è oggi il paese del continente nero nel quale anche la popolazione di colore ha il tasso di mortalità in assoluto più basso, il tasso di occupazione e welfare in assoluto più alto, e se le opposte faziosità non interromperanno la perestroika e la Costituzione continuerà a innervarsi nella società sudafricana, sarà il solo paese africano fondato sui principi dello stato di democrazia e di diritto… Stiamo dalla parte della perestroika sudafricana perché questo sarà il paese dove una classe dirigente nera prenderà in mano le redini del governo insieme a dei bianchi riconosciuti anch’essi e pienamente come “africani”… Nonviolenti e riformatori, stiamo con convinzione dalla parte della perestroika sudafricana, di quanti non si rassegnano a credere che dal dolore e dall’ingiustizia possano solo nascere altro dolore e ingiustizia». Scrivere di De Kerk, Mandela e pensare a Pannella… ci si può chiedere: ma che c’entra? C’entra. Intanto per riconoscere che se Mandela ha vinto come ha vinto, lo ha potuto fare anche perché a un certo punto ha trovato interlocutori come De Klerk: che capiscono che un certo tempo è finito, e occorre cambiare registro. Il «fare», l’agire politico, il lascito dell’uno e dell’altro sta nell’imprescindibile nesso tra diritto e nonviolenza; nel lottare per evitare che il «vincitore» faccia sterminio del «vinto»; di una cosa Pannella ha indiscutibile merito: aver insegnato a credere «alla parola che si ascolta e si dice quando si vuole essere onesti, capiti ed ascoltati, a non credere al fucile perché ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il “nemico” per pensare ad eliminarlo». Quello che hanno fatto Mandela e De Klerk. Valter Vecellio

De Klerk, l'ultimo bianco. Il Nobel del Sudafrica che rese libero Mandela. Marco Valle su Il Giornale il 12 novembre 2021. Bizzarro il destino di Frederik de Klerk, morto ieri a Città del Capo stroncato a 85 anni da un tumore. In molti lo hanno paragonato a Gorbaciov, il maldestro regista del crollo sovietico, e come lui è stato apprezzato all'estero ma dimenticato (o peggio) in patria. Per la maggioranza nera de Klerk era ormai solo un residuo del passato mentre per gran parte degli afrikaner (i sudafricani d'origine olandese) l'ultimo presidente bianco rimaneva un pasticcione o, addirittura, un traditore. Punto. A rimpiangerlo sono in pochi, forse i non molti bianchi progressisti, per lo più anglofoni, e magari i circoli religiosi già vicini all'arcivescovo Desmond Tutu, uno dei protagonisti della transizione. Resta il fatto, che al di là delle polemiche e dei rancori, senza di lui il Sud Africa non sarebbe ciò che è oggi e, assai probabilmente, anche lo straordinario percorso di Nelson Mandela si sarebbe interrotto in qualche lurida cella. Insomma, fu proprio questo fervente calvinista, nato nel 1936 a Johannesburg in una famiglia di notabili afrikaner e già promessa del National Party, il partito dell'apartheid più intransigente, ad evitare un bagno di sangue inter-etnico e aprire un'inattesa e inedita fase politica nel segno del superamento e della riconciliazione. Si trattò di un processo complesso iniziato nel 1986 quando de Klerk, allora giovane ministro della Pubblica Istruzione, e sino allora considerato capofila dei falchi del NP, iniziò a riflettere sull'insostenibilità dello stato d'emergenza e sulla necessità di un programma cautamente riformista. Tre anni dopo, dopo aver conquistato la leadership del partito, costrinse il presidente Pieter Williem Botha a dimettersi e il 20 settembre 1989 fu eletto al suo posto. Nel suo discorso d'insediamento il nuovo Capo dello Stato sorprese gli astanti tratteggiando «un nuovo Sud Africa senza dominatori e oppressi, è tempo di passare dalle parole ai fatti per ridare al nostro Paese fierezza e dignità e uscire dal marasma dell'isolamento internazionale e del declino economico». L'inizio della svolta. Approfittando dell'evaporarsi della guerra fredda, il 2 febbraio 1990 de Klerk annunciava al Parlamento la legalizzazione dei partiti neri (l'African National Congress e il partito comunista) e qualche giorno dopo diede ordine di scarcerare gli oppositori. Tra tutti Mandela, rinchiuso da 27 anni. La ruota della storia iniziò a girare sempre più velocemente. Nel giugno 1991 l'apartheid fu ufficialmente abrogato e negli otto mesi successivi tutte le leggi discriminatorie vennero cancellate. Il 17 marzo 1992, il 69 per cento dell'elettorato bianco approvò il referendum sulle riforme voluto dal presidente. La via per un Sud Africa pienamente democratico era definitivamente aperta e nel 1993 de Klerk e Mandela ricevettero il Premio Nobel per la Pace. Infine, dopo laboriosi negoziati con l'ANC e la negoziazione di Desmon Tutu, venne promulgata una costituzione provvisoria e il 27 aprile 1994 si ebbero le prime elezioni multirazziali. Mandela, come previsto, divenne il primo presidente di colore. Svoltata la pagina della segregazione e avviato un processo di riconciliazione, de Klerk cercò di salvaguardare gli interessi della minoranza bianca e accettò il posto di vice presidente. Una breve illusione. Nel 1996 il NP uscì dal governo d'unità nazionale, l'anno dopo de Klerk annunciò il suo ritiro dalla politica per poi, nel 2004, tentare un rientro su posizioni progressiste. Un errore. Abbandonato dall'elettorato, l'uomo, ormai isolato, si dedicò alla sua fondazione a cui affidò il suo il suo ultimo messaggio video diffuso dopo l'annuncio della morte. «Non posso dimenticare i danni e le ferite che l'apartheid ha causato ai cittadini di colore. Mi scuso con tutti». Il resto è silenzio.

·        Morto il tronista Riccardo Ravalli.

L'incidente sull'A22. Morto Riccardo Ravalli, chi era l’ex cavaliere di “Uomini e Donne” vittima di un incidente stradale. Redazione su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Era alla guida di un furgone quando è rimasto vittima di un incidente stradale. È morto così Riccardo Ravalli, “cavaliere” del trono over di Uomini e Donne nel 2020, scomparso all’età di 39 anni. Ravalli, ex albergatore, era alla guida sulla corsia nord dell’Autobrennero poco prima delle 13 di ieri, mercoledì 10 novembre, quando il suo furgone si è schiantato contro un camion incolonnato per rallentamenti. Le condizioni del 39enne ex ‘cavaliere’ erano apparse subito gravi: Ravalli era stato soccorso prima dagli operatori della Croce Rossa di Reggiolo, poi trasportato in elisoccorso in ospedale. Per lui però non c’è stato nulla da fare: troppo gravi le ferite riportate nell’incidente, mentre il conducente del mezzo pesante, tra i primi a prestare soccorso, è uscito illeso dallo scontro. Ravalli, originario di Catania ma residente in provincia di Pistoia, a Pieve a Nievole, era un ex albergatore: in passato aveva infatti gestito l’Hotel Casa Rossa di Montecatini. Nel 2020 aveva raggiunta la notorietà partecipando a ‘Uomini e Donne’, la trasmissione di Maria De Filippi su Canale 5, dove aveva ‘corteggiato’ Daniela, con la quale aveva intrapreso una breve relazione.

A commentare la triste notizia, l’ex dama del trono over Luisa Anna Monti, che di recente ha combattuto la sua battaglia contro un cancro al seno, che su Instagram ha scritto: “Eri una persona splendida. Ti sei interessato del mio stato di salute e parlavamo spesso dei nostri amici a quattro zampe. Senza parole, ciao Riccardo”.

Da "leggo.it" l'11 novembre 2021. Lutto nel mondo della tv: è morto Riccardo Francesco Ravalli, cavaliere di 39 anni del trono over di Uomini e Donne. Originario di Catania ma viveva a Pistoia, a Pieve a Nievole, aveva gestito l’Hotel Casa Rossa di Montecatini e nel 2020 era finito in tv per corteggiare la dama Daniela Di Napoli, grazie alla partecipazione al programma condotto da Maria De Filippi. La relazione tra i due non è mai decollata e, dopo un flebile tentativo di trovare l'anima gemella nel noto dating show di Canale 5, l'ex albergatore aveva abbandonato la trasmissione. 

Morto Riccardo Ravalli, fatale un incidente

L’incidente stradale in cui ha perso la vita si è verificato verso le 12,30 di ieri sulla corsia nord dell’Autobrennero, a poca distanza dal casello di Reggiolo-Rolo, dove Ravalli era alla guida di un furgone che si è scontrato con estrema violenza contro un mezzo pesante che gli era davanti, pare per rallentamenti dovuti al traffico eccessivo. Da subito le sue condizioni di salute sono apparse critiche, finché la notizia del decesso è stata resa nota. Sul posto, gli operatori della Croce rossa di Reggiolo, l’elisoccorso di Parma, oltre ai vigili del fuoco di Guastalla e Carpi, che hanno dovuto estrarre il corpo dal furgone poiché era incastrato tra le lamiere. L'ex dama del trono over Luisa Anna Monti, che di recente ha combattuto la sua battaglia contro un cancro al seno,  su Instagram ha scritto: «Eri una persona splendida. Ti sei interessato del mio stato di salute e parlavamo spesso dei nostri amici a quattro zampe. Senza parole, ciao Riccardo». Una tragedia ha colpito dame e cavalieri del programma di Maria De Filippi e di certo sarà motivo di ricordo personale del giovane, che per qualche mese ha fatto parte del parterre maschile. 

·        E’ morto l’attore Dean Stockwell.

Dean Stockwell, morto a 85 anni il prolifico caratterista e star di “In viaggio nel tempo”. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2021. Si è spento lo scorso 7 novembre un volto storico di Hollywood, Dean Stockwell, amato e attivissimo attore caratterista di cinema e televisione. È venuto a mancare nella pace della propria casa il popolare attore americano Dean Stockwell, come annunciato dalla famiglia attraverso un comunicato su Deadline. Il nome potrà metterci un po’ a collegarsi con il suo volto, ma non ci sono dubbi, certamente avete visto diversi lavori di Stockwell e ne avete apprezzato il talento. Nato nel marzo 1936 a Los Angeles, già a sette anni muoveva i primi passi nella recitazione. Il suo esordio fu nel 1945, in “La valle del destino”, al quale seguono diversi titoli tra il dramma e il musical. Dopo quasi un decennio di stop, Dean Stockwell torna al cinema alla fine degli anni ’50, comparendo in “Frenesia del delitto” e “Il lungo viaggio verso la notte”, interpretazioni che gli valgono una doppia co-vittoria del Prix d'interprétation masculin ai Festival di Cannes del 1959 e 1962. Contestualmente, avvia la carriera in televisione, grazie a ruoli in “Alfred Hitchcock Presenta”, “The Twilight Zone”, “Bonanza” e “Colombo”. Negli anni ‘80 Dean Stockwell si afferma come indispensabile caratterista hollywoodiano, adatto a ogni tipo di produzione e capace di dare spessore anche al più sottovalutato dei personaggi secondari. Lo scelgono per i propri film Wim Wenders, David Lynch, William Friedkin e Francis Ford Coppola, rispettivamente per “Paris, Texas”, “Dune”, “Velluto Blu”, “Vivere e morire a Los Angeles” e “Giardini di pietra”, mentre nel 1988 il ruolo in “Una vedova allegra… ma non troppo” vale a Stockwell una nomination all’Oscar. Il 1989 è l’anno che lo consacra come volto celebre della tv, grazie al ruolo da co-protagonista nella serie “In viaggio nel tempo” insieme a Scott Bakula. Da allora Stockwell non si è comunque mai fermato, continuando a comparire in film e serie di successo, come “The Manchurian Candidate” nel 2004 e “Battlestar Galactica” fino al 2009.

È morto Dean Stockwell, attore in 'Dune' di Lynch e 'In viaggio nel tempo'. Aveva 85 anni. Una vita passata sul set: è stato diretto (tra gli altri) da David Lynch, Wim Wenders, Francis Ford Coppola e Robert Altman. La Repubblica il 9 novembre 2021. È morto a 85 anni Dean Stockwell. Una vita passata sul set: è stato diretto (tra gli altri) da David Lynch, Wim Wenders, Francis Ford Coppola e Robert Altman. A renderlo celebre al grande pubblico fu il ruolo di Al Calavicci nella serie tv fantascientifica In viaggio nel tempo. Il decesso è avvenuto il 7 novembre a Los Angeles, ma la notizia si è appresa oggi. Figlio degli attori Harry Stockwell e Nina Olivette, Dean Stockwell ha trascorso sul set un'esistenza intera. A sette anni aveva iniziato a recitare a Broadway. Nel 1945, a nove anni appena, affiancava Frank Sinatra e Gene Kelly in Due marinai e una ragazza (Canta che ti passa), per poi spaziare tra i generi. La carriera da bimbo prodigio continuò con Il ragazzo dai capelli verdi (1948), Il giardino segreto (1949), Kim (1950) e Il fuggiasco di Santa Fè (1951). Stockwell tornò sul palcoscenico di Broadway in Compulsion con Roddy McDowall. Nel 1959 riprese lo stesso ruolo nella versione cinematografica, conosciuta in italiano con il titolo Frenesia del delitto e vinse il primo dei due premi come miglior attore al Festival di Cannes. Ha anche recitato in Long day's journey into night con Katherine Hepburn, che lo portò nel 1962 a conquistare per la seconda volta il secondo prestigioso riconoscimento sulla Croisette. Negli anni 80, Stockwell prese parte ad autentici cult movie: Paris, Texas di Wim Wenders, Dune e Velluto blu di David Lynch, Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin, Beverly Hills cop II  di Tony Scott, Tucker di Francis Ford Coppola e Una vedova allegra... ma non troppo di Jonathan Demme, con cui venne nominato agli Oscar come miglior attore non protagonista, prima di diventare Al Calavicci nella serie televisiva In viaggio nel tempo, andata in onda dal 1989 al 1993. Negli anni 90 l'attore lavorò con Dennis Hopper in Ore contate e Una bionda sotto scorta e con Coppola nel film L'uomo della pioggia. Ha incrociato anche Robert Altman con I protagonisti. Nel 2014 è con Johnny Deep in The darkness, il suo ultimo film per il grande schermo. Sempre negli anni 2000 ha recitato nelle serie televisive JAG - Avvocati in divisa e Battlestar Galactica. Due volte sposato, Stockwell ha avuto due figli, Sophia e Austin.

Marco Giusti per Dagospia il 9 novembre 2021. Quando lo abbiamo visto fingere di cantare "In Dreams" di Roy Orbison in una delle scene di maggior culto di "Blue Velvet" per noi, e per David Lynch, Dean Stockwell, scomparso oggi a 85 anni, era già un mito. Per non parlare del suo cattivissimo capo Frank, cioè il vecchio amico di sregolatezze Dennis Hopper, che lo definisce per sempre come "soave". Si, Dean Stockwell era terribilmente soave. Non tanto per il fatto di essere stato da bambino il protagonista di un film rivoluzionario come "Il ragazzo dai capelli verdi" di Joseph Losey, per aver recitato a 9 anni con Erroll Flynn o ballato con Gene Kelly, per aver vibto due volte il premio come miglior attore a Cannes, per il mistery gay "Compulsion" di Richard Fleischer e per "Lungo viaggio verso la notte" di Sidney Lumet assieme a Jason Robards e a Ralph Richardson o per l'horror fuori di testa "The Dunwich  Terror" o per i film di bikers sconvoltoni come "Psych-Out" di Ruchard Rush che ne testimoniavano il suo percorso di fuga da Hollywood e dalla normalità, ma per l'essere una sorta di eterno bambino malato nato e cresciuto dentro Hollywood e il suo più profondo immaginario. Lynch ne colse subito l'essenza e ne fece il cantante della banda di Frank, cioè lo psicopatico Dennis Hopper. E prima ancora lo aveva portato su "Dune", bello e elegantissimo Doctor Yueh. Un angelo caduto. Ma quel che aveva intuito e messo in scena Lynch era la memoria di quel che il bambino coi capelli verdi cresciuto poteva rappresentare. Molto prima delle riscoperte di Tarantino. Non a caso era amico di una serie di attori come Bruce Dern o Russ Tamblyn omaggiati da Tarantino. E legatissimo a Jack Nicholson. Sembra che fosse stato un altro suo fraterno amico, Harry Dean Stanton a riportarlo al cinema indicandolo a Wim Wenders per il ruolo di suo fratello "normale" in "Paris,Texas ", anche se Dean Stockwell, che aveva lasciato il cinema inseguendo sogni hippies nella comunità di Topanga Canyon, normale non era stato mai. Rientrando a Hollywood con la complicità di vecchi compagni di viaggio come Dennis Hopper per "The Last Movie" e appunto Harry Dean Stanton, ancor giovane malgrado i suoi primi film risalgano agli anni 40, e una lista di partecipazioni incredibili a film di Jacques Tourneur, William Wellman  Wilkiam Keighley che lo vedono accanto a star del calibro di Gregory Peck, Lionel Barrymore, Frank Sinatra Gene Kelly, Orson Welles, sfrutta l'immagine di angelo caduto, di bambino malsano per l'ultima parte della sua carriera da bravo professionista. Alla fine gira qualcosa come oltre 200 titoli tra film e serie TV, lo troviamo co-protagonista di Scott Bakula nella celebre serie "Quantum Leap" o "In viaggio nel tempo", 3 Emmy e un Golden Globe, una nomination per il ruolo del gangster Tony The Tiger in "Married to the Mob" di Jonathan Demme con Michelle Pfeiffer, guest star di lusso in bellissimi film di William Friedkin, "Vivere e morire a Los Angeles", di Francis Ford Coppola, "The Raimaker", di Henry Jaglom, "Tracks", di Robert Altman, "The Player", chiudendo alla grande una carriera da irregolare in una Hollywood alquanto pericolosa. Ebbe due mogli, l'attrice Mille Perkins(60-62) e Joy Marchenko (81-2004), che gli dette due figli. Con il vecchio amico del cuore Neil Youbg codiressero un film nel 1982,"Human Highway". Mai visto.

Morto Dean Stockwell, addio all’attore di “Dune” e della serie tv “In viaggio nel tempo”. Il Fatto Quotidiano il il 9 novembre 2021. È morto a 85 anni l'attore californiano Dean Stokwell. Lascia la moglie, Joy Stockwell; e i loro due figli, Austin Stockwell e Sophie Stockwell. Il mondo del cinema dice addio a Dean Stokwell, l’attore statunitense celebre ai più per il ruolo di Al Calavicci nella serie tv fantascientifica ‘In viaggio nel tempo’. L’interprete è morto a Los Angeles il 7 novembre 2021 all’età di 85 anni per cause naturali, come confermato al sito americano Deadline da un portavoce della famiglia. Nato a Los Angeles nel 1936, figlio degli attori Harry Stockweel e Nina Olivette, Dean iniziò a recitare fin da bambino per lo più in ruoli secondari ma spesso e volentieri in grandi produzioni. Era stato il dottor Yueh nel primo ‘Dune‘ e il gestore del bordello in ‘Velluto Blu’ di David Lynch. Nel 1989 fu candidato all’Oscar come migliore attore non protagonista per ‘Una vedova allegra… ma non troppo’ di Jonathan Demme. In televisione Stockwell si è fatto apprezzare anche in ‘Mission Impossible’, ‘Battlestar Galactica’, ‘Jag – Avvocati in divisa’ e ‘Star Trek: Enterprise’. Vinse due volte il Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes, per ‘Frenesia di un delitto‘ (1959) e per ‘Il lungo viaggio verso la notte’ (1962). Come lui solamente Marcello Mastroianni e Jack Lemmon. L’attore lascia la moglie, Joy Stockwell; e i loro due figli, Austin Stockwell e Sophie Stockwell.

·        E’ morto il giornalista Enrico Fierro. 

(Adnkronos l'8 novembre 2021). E’ morto oggi a Roma, dopo una breve malattia, il giornalista e scrittore Enrico Fierro. A comunicarlo è la famiglia. Fierro aveva 69 anni. Dopo la stagione dell’impegno politico militante nel Pci, l’arrivo al quotidiano l’Unità, dove diventa inviato speciale. Poi una lunga esperienza al Fatto Quotidiano. E, un anno fa, il passaggio al Domani. Autore di libri e documentari per la televisione, ha raccontato guerre e attentati brigatisti, congressi di partito e terremoti. Guardando sempre con attenzione al Meridione e ai suoi problemi. Nel luglio scorso ha portato in scena lo spettacolo teatrale 'Riace Social Blues', che raccontava l’esperienza del sindaco Mimmo Lucano. Lascia cinque figli.

Giornalismo in lutto: è morto Enrico Fierro, aveva 69 anni. Il Quotidiano del Sud l'8 novembre 2021. È morto oggi a Roma, dopo una breve malattia, il giornalista e scrittore Enrico Fierro. A comunicarlo è la famiglia. Fierro aveva 69 anni. Dopo la stagione dell’impegno politico militante nel Pci, l’arrivo al quotidiano l’Unità, dove diventa inviato speciale. Poi una lunga esperienza al Fatto Quotidiano. E, un anno fa, il passaggio al Domani. Autore di libri e documentari per la televisione, ha raccontato guerre e attentati brigatisti, congressi di partito e terremoti. Guardando sempre con attenzione al Meridione e ai suoi problemi. Nel luglio scorso ha portato in scena lo spettacolo teatrale “Riace Social Blues”, che raccontava l’esperienza del sindaco Mimmo Lucano. Lascia cinque figli. Nato ad Avellino il 23 novembre 1951, nel corso della sua carriera Fierro ha collaborato con “La Voce della Campania”, “Dossier Sud”, “L’Espresso”, “Epoca” ed è stato inviato speciale de “l’Unità”. Per la pubblicazione del volume “La santa. Viaggio nella ‘ndrangheta sconosciuta”, assieme a Ruben H. Oliva, ha ricevuto il Premio “Globo d’Oro” 2007-2008, il Premio “Paolo Borsellino” 2007 e il Premio “Itaca” 2008. È autore inoltre di “Dieci anni di potere e terremoto” (1990) e “O ministro. La Pomicino story” (1991), scritti con Rita Pennarola e Andrea Cinquegrani; “E adesso ammazzateci tutti” (2005), “Ammazzàti l’onorevole” (2007). Per il teatro ha curato testo e regia di “O cu nui o cu iddi” con Laura Aprati.

ENRICO FIERRO. GRANDE CORAGGIO CIVILE, GRANDE GIORNALISMO D’INCHIESTA. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 9 Novembre 2021. Ha sempre avuto ben chiaro in mente e nel cuore il modo di fare giornalismo. Dalla parte del cittadino, del lettore che ha tutto il diritto di conoscere la realtà dei fatti, cosa succede realmente nei Palazzi, di che pasta è fatta il Potere, come agiscono i politici, se e quali scheletri nell’armadio custodiscono. Il giornalismo d’inchiesta, investigativo, che cerca di sollevare i veli e alzare i coperchi.

Senza se e senza ma. A guardia dei diritti dei cittadini. Enrico Fierro com’era quando collaborava alla Voce. Nella foto in apertura lo vediamo nella vecchia redazione del giornale. A destra i due libri scritti con Enrico. Enrico Fierro aveva scelto fin da subito questa strada, difficile, impervia, zeppa di ostacoli e di rischi personali: non solo per via della camorra, per le minacce degli uomini di rispetto, ma anche – e ancor più – per via ‘giudiziaria’, tramite le querele facili che il potente di turno ti scaglia addosso per intimidirti; e ancor più subdole le citazioni civili, il vero revolver puntato alla tempia dei reporter con la richiesta di stratosferici risarcimenti danni. 

INSIEME PER ANNI, IN QUELLA VOCE-CONTRO

E proprio quel tipo di giornalismo-contro ci ha accomunati alla ‘Voce’, dove Enrico ha cominciato a scrivere le prime sue vere inchieste. Forti, vigorose, super documentate, di grosso impatto civile fin da subito. Ci siamo conosciuti quasi 35 anni fa, a gennaio 1987. Me ne parlò un    dirigente del PCI di allora, un politico di razza, irpino come Enrico e guarda caso, pur non essendo parenti, aveva il suo stesso cognome: Lucio Fierro. “Enrico è tagliato per il giornalismo della Voce – mi disse – potrà dare un grosso contributo, ne sono sicuro”. E fu proprio così. Scattò immediatamente un forte feeling, con il gruppetto della Voce. Aveva già esperienza in campo giornalistico, tivvù e radio locali, Enrico, ed era animato da una smisurata passione: sia per la sua militanza politica, sia ancor più per la voglia di ‘fare informazione’. L’ho sempre immaginato come un ‘quadro’ – così si definivano un tempo i militanti del partito – che ad un certo punto abbandona la cornice per dare tutto il meglio di sé senza alcun condizionamento né limitazione, di partito o di padrone-editore. A partire da marzo di quell’anno Enrico diventa una presenza fondamentale nella Voce, una punta di diamante, capace di sfornare articoli e inchieste una più incisiva dell’altra. Uno dei piatti forti è la ricostruzione post terremoto, la grande manna per gli ‘occasionisti’, un terreno di conquista per far crescere a dismisura le proprie fortune politiche e/o finanziarie, fregandosene altamente di ogni diritto alla rinascita e allo sviluppo della Campania. L’altro non può che essere la narrazione dell’impero demitiano, che proprio in quella stagione da locale diventa nazionale, con l’astro di Ciriaco De Mita sempre più splendente. Da qui i reportage sulla dinasty nuschese, sullo ‘sportello di famiglia’ ossia la Popolare dell’Irpinia, gli amici imprenditori. E lungo il percorso ecco due tappe fondamentali: i libri firmati da Enrico, Rita Pennarola e Andrea Cinquegrani nel 1990 e nel 1991, ossia ‘Grazie Sisma – Pomicino, Scotti, Gava, De Mita & C.  – Dieci anni di potere e terremoto’ e poi ‘ ‘O Ministro – La Pomicino story, Bilancio all’italiana’, quando, appunto, Paolo Cirino Pomicino occupava la strategica poltrona di titolare del Bilancio. 

QUEL DOPO TERREMOTO DA 416 BIS

‘Grazie Sisma’ ha un valore particolare, soprattutto sotto il profilo cronologico. Lo scrivemmo, infatti, quando parallelamente era al lavoro la ‘Commissione Scalfaro’costituita proprio per indagare su quella tanto opaca e tanto ghiotta ricostruzione, costata oltre 70 mila miliardi di vecchie lire alle casse pubbliche. E diversi anni prima che cominciasse l’inchiesta della procura di Napoli sugli affari del post sisma: un’inchiesta che si rivelerà, dopo anni di indagine e soldi buttati al vento, un autentico flop. Ma soprattutto marchiata da un fondamentale vizio d’origine: tra i capi d’imputazione mancava quello principale, ossia il 416 bis, l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Sì, perché gli inquirenti non riuscirono a trovar tracce di camorra in tutto quel pandemonio di affari! Ai confini della realtà. Al contrario, in ‘Grazie Sisma’ venivano documentate per filo e per segno le tante, troppe connection tra politici campani e capibastone che, proprio con gli appalti della ricostruzione, hanno visto lievitare i fatturati delle loro imprese, vuoi impegnate nel movimento terra o nel calcestruzzo oppure alle prese con le centinaia e centinaia di subappalti, diventati la regola per le big del mattone che si aggiudicavano le ricche commesse e subito smistavano i lavori alle imprese (quasi sempre di rispetto) via subappalto. Ma per la magistratura tutto ciò era pura invenzione, mera astrazione giornalistica! Con Enrico abbiamo girato l’Italia per presentare i due libri e far conoscere ai cittadini quello che la magistratura non vedeva e non perseguiva, quello che la politica ovviamente nascondeva (con un’opposizione molto soft) e quello che gli altri media non raccontavano, sempre genuflessi davanti ai palazzi del Potere: all’epoca, a livello locale, ‘il Mattino’ di Napoli in pole position nella più totale disinformazione. Ha continuato per anni sulle barricate della Voce, Enrico, con la stessa grinta, con la stessa voglia di scavare, scoprire, far luce, documentare. Come il primo giorno. In seguito le avventure all’Unità, poi al Fatto, quindi l’ultimo anno al Domani. Inchieste sempre coi fiocchi, battaglie civili intraprese con il solito, indomito coraggio. Esemplare quella al fianco di Mimmo Lucano, che ha appena visto la sua ultima, vergognosa pagina giudiziaria con la condanna dell’ex sindaco di Riace come neanche il peggior mafioso. 

I PREZZI PAGATI

Non si è mai tirato indietro, Enrico, non ha mai accettato compromessi, ha tirato avanti con la schiena dritta, e sempre motivato dall’unica molla che lo spingeva: fare giornalismo, quel giornalismo autentico in cui credeva, chiamatelo d’inchiesta oppure civile, fa lo stesso. Ma non altro. Non quello delle veline cloroformizzate che ormai appestano il mainstream e contagiano testate un tempo prestigiose. Ha pagato prezzi in prima persona, Enrico, quando l’Unità s’è trovata senza più editore, o meglio quelli che c’erano se la sono data a gambe, facendo perdere le loro tracce. Lasciando ad esempio l’ultima direttrice, Concita De Gregorio, a doversi vender casa per pagare proprio i risarcimenti di quelle maledette cause civili. E lo stesso è successo ad Enrico, che per difendersi è dovuto ricorrere ad ‘Ossigeno per l’informazione’, il preziosissimo avamposto a tutela dei giornalisti minacciati dalle mafie o per vie legali (sic), fondato e animato da Alberto Spampinato, fratello di Giovanni, il cronista dell’Ora di Palermo ammazzato da terroristi di destra. Quello stesso Ossigeno che in diverse occasioni ha difeso anche la Voce. Una voce, quella di Enrico, che ci mancherà proprio come l’ossigeno. Perché inchieste come le sue sono l’ossigeno del giornalismo, il sale dell’informazione, il terreno dove far crescere i diritti e coltivare la giustizia e la democrazia. Quelle autentiche. Di seguito pubblichiamo un bellissimo ricordo scritto da un altro giornalista di razza, Vincenzo Vasile, grande amico di Enrico e per anni inviato speciale dell’Unità. "No, Enrico. No. Il telefono non si spegne. Mai. Perché alla fine le notizie arrivano. E ti lasciano in brache di tela dentro a una fredda tempesta di sentimenti di ricordi di rimpianti di morte di vita. È arrivata solo adesso, il tempo di sciacquarmi la faccia dalle lacrime, la pessima notizia che Enrico è morto. Enrico Fierro, 69 anni, giornalista. Ex Unità. Ex fatto quotidiano. Da poco al Domani. Ma quante altre cose. Eppure ho spento il telefono questo pomeriggio, e lo sapevo – anzi forse proprio perché lo sapevo – che stavi male, anzi malissimo, da settembre ricoverato per polmonite e successivo infarto, imprigionato dalla ragnatela di tubicini della terapia intensiva con diagnosi a catena di un paio di altre malattie che scoprivi di avere addosso. Per non farti mancare niente. Lo sai. Che le notizie non si possono fermare spegnendo il telefono o con altri espedienti: ce lo dicevamo già la prima volta in mezzo a una bufera tanti anni fa, Ariano si chiamava il paese, Ariano Irpino, sede di un super-carcere che balzò nella notte con i suoi muri altissimi e le garitte bianche mimetizzate dalla neve davanti ai nostri occhi. Collaboravi con la Voce della Campania, rampante e squattrinato mensile di inchieste scomode, eri ancora “funzionario” – “rivoluzionario di professione”, scherzavamo, ma neanche poi tanto, visto che spesso lo stipendio saltava e anche quando… era una specie di nota spese  – nell’organico striminzito della federazione PCI di Avellino. Nell’Irpinia del pre-terremoto avevi fatto tante assemblee di braccianti e guidato vertenze contro lo spopolamento della montagna. Che si concludevano con un pasto a casa del segretario di sezione e una “mappata” di cibo per il ritorno. Nel dopo terremoto avevi visto e vissuto l’infiltrazione  degli uomini  in carne e ossa della camorra napoletana in una zona “pulita”. Il nostro servizio ad Ariano non era un granché rispetto a questi grandi temi, temi che erano grandi allora solo per l’Unità, non per la filosofia editoriale degli altri giornali. C’era la direttrice del carcere-modello scivolata in un’inchiesta camorristico-boccaccesca, per dirla con i cronisti pigri. E tu che pigro non eri , ti beccasti una clamorosa piazzata della suddetta direttrice: “Enri’ tu qua trasivi e niscevi …. trasivi e niscevi”: tradotto significava che in qualità di dirigente di partito tu avevi avuto facilmente l’accesso al carcere e alle sue iniziative di socialità , e ora ripagavi così la dirigente in disgrazia. Tu rispondesti con uno dei tuoi sorrisi eleganti arrotando le erre con la voce impastata di fumo. Suppergiù rivendicasti libertà di espressione e di critica, poi scrivemmo tanti pezzi divertenti, e festeggiammo a spese dell’Unità in trattoria. Al ritorno a Roma avvertii i capi del giornale che ad Avellino c’era uno tanto bravo, intelligente, colto, che pensava di scrivere sul mondo come se il mondo potesse essere cambiato. Citazione con perifrasi dal tuo amato Bertolt Brecht. (Alle ragazze del giornale spiegai che quell’Avellinese era anche bello). E dallo spettacolo e dai “media “ saresti rimasto folgorato per tutta la restante vita: ci vedemmo spesso, ci sentimmo poi per telefono, non quanto avrei voluto, non quanto avrei dovuto: l’ultimo migliaio di sigarette lo bruciasti in giro per il meridione per uno spettacolo che inventasti nella tua furia civile a sostegno della paradossale e tragica persecuzione da parte della cattiva giustizia e della cattiva politica di un uomo giusto come Mimmo Lucano. E io ancora maledico il lockdown per avermi impedito di vederlo. Ecco, è morto un giornalista, un combattente. In una fase nella quale questa professione e quest’aggettivo non vanno più facilmente in coppia. Leggo già tanti accorati necrologi, che dicono dell’amore di tanti di noi per Enrico. Spero che non si associno ipocritamente  al nostro lutto direttori e colleghi che osteggiarono Enrico e che Enrico combattè, lui con eleganti e affilate parole, gli altri con coltelli nella schiena. Spero che tacciano  quei “sindacalisti di categoria” che negarono o centellinarono la solidarietà per le battaglie giudiziarie che minacciarono economicamente e ancora minacciano Enrico e la sua famiglia. Guerre giudiziarie a colpi di querele e di risarcimenti che per lui e per quelli della sua pasta sono la continuazione della battaglia politica per un mondo migliore “con altri mezzi”. Altra citazione di concetti e parole che hanno fatto il loro tempo, Enri’, da quando “trasivi e niscevi” con le tue, le nostre speranze, nelle nostre vite. Ps. Ed eventualmente salutaci Nuccio Ciconte non sia mai che qualcosa rimanga dopo la vita oltre ai nostri ricordi" Vincenzo Vasile

·        E’ morto l’industriale Gianfranco Castiglioni.

Morto Gianfranco Castiglioni ex patron delle moto Cagiva. Malato da tempo, aveva 80 anni. Fu l’artefice del rilancio dello storico marchio. Dal 2000 al 2010 era stato proprietario della Pallacanestro Varese. Andrea Camurani su il Corriere della Sera il 10 Novembre 2021. È morto mercoledì 10 novembre, all’età di 80 anni, l’imprenditore varesino Gianfranco Castiglioni figlio del fondatore della casa motociclistica «Cagiva». Era malato da tempo e il suo cognome ha rappresentato da sempre un pezzo di storia dell’imprenditoria varesina che ha dato il nome all’acronimo del marchio che deriva da «Castiglioni Giovanni Varese» (il padre e fondatore della casa, nel 1950): Gianfranco Castiglioni aveva rilanciato il marchio nel 1978 assieme al fratello Claudio facendo entrare Cagiva nel mercato motociclistico con una scuderia di due moto da corsa e incorporando gli impianti produttivi della Aermacchi alla Schiranna di Varese dove venivano prodotte le AMF-Harley Davidson. Nel corso degli anni Ottanta, Cagiva acquisì Ducati, Moto Morini e Husqvarna. Nel 2011 l’azienda passò al nipote, Giovanni. Castiglioni era finito in un’inchiesta della Guardia di finanza per reati fiscali nel 2014. Una vita passata fra impresa e sport, non solo motori, ma anche basket: fu proprietario di Pallacanestro Varese per un decennio, dal 2000 al 2010. Cordoglio dal mondo degli appassionati delle due ruote; in un post su Facebook il Cagiva Club Italia si legge: «Questo non è il periodo giusto per gli amici dell’elefantino, poche ore fa abbiamo appreso la notizia che Gianfranco Castiglioni ci ha lasciati, una perdita importante per tutti noi del Cagiva Club Italia che abbiamo avuto l’onore di averlo come primo sostenitore…buon viaggio Gianfranco e grazie per tutto quello che hai fatto per noi»

·        E’ morto lo 007 Paolo Samoggia. 

Gianfranco Ferroni per Giornale d'italia il 9 novembre 2021. Ultimo saluto a Roma per Paolo Samoggia, già 007 e amante della dolce vita romana. Davanti alla basilica di San Giovanni dei Fiorentini, a via Giulia, per lui c'era una enorme autofunebre Lancia: il nome della ditta incaricata per il viaggio finale, Bellomunno, è apparso a tutti come un simbolo della sua esistenza terrena. Si rincorrono i nomi cari a Paolo: Emanuela, innanzitutto, e poi Luisa, Gabriele, Greta, Elena ed Elettra. La chiesa è strapiena, con rappresentanti di numerose famiglie romane, dai Filo della Torre ai Bucci Casari, passando per Giovanelli Marconi. Attorno alla bara del colonnello quattro uomini in divisa, quella dell'Arma dei Carabinieri, e in più tanti ufficiali, molti in borghese. Forze dell'ordine, servizi, umanità notturna: non mancava nessuno all'addio a Samoggia, uno che delle ore piccole se ne intendeva. Scattano i ricordi, non solo capitolini, con Saverio Ferragina, il re dei press agent, che evoca episodi veneziani. Uno, in particolare, rende l'idea della passione di Samoggia per incarnare personaggi famosi, alla faccia della realtà: "Coppa Volpi, anno 2005, vinta da Giovanna Mezzogiorno. E' notte fonda, quasi le 3, quando su un tavolo dell'albergo viene appoggiata la coppa, dopo i festeggiamenti. Paolo è lì, accanto al trofeo, da solo, e in quel momento passa la troupe della televisione austriaca. Pensano di fare lo scoop, intervistando il vincitore della coppa in mezzo alla notte, il nome di Giovanna non si vede, e credono di avere davanti l'attore premiato: Paolo non si scompone, anzi fa credere di essere proprio lui il fortunato interprete che ha avuto l'onore di vincere la coppa. Arrivo, la giornalista austriaca mi chiede se può intervistare l'uomo accanto alla coppa, vado da Paolo e lui si 'concede' regalando più di venti minuti di esclusiva. Non ho idea di cosa abbiano fatto di quell'intervista, quando si sono accorti che era tutto uno scherzo". Ecco, l'uomo era così, in giro per il mondo, per poi tornare nella capitale tra locali notturni e appuntamenti da Camponeschi, a piazza Farnese. Per il passato, c'è internet, con mille storie di ogni genere: ma la sua seconda vita è stata dominata dalle feste, dalle goliardate, dalle gloriose bevute. E tanta bella compagnia, come era evidente guardando le tante lacrime femminili che lo hanno salutato. Anche questa è una Roma che se ne va.

·        Morto l’architetto Carlo Melograni.

Morto Carlo Melograni, architetto del «metodo democratico». Carlo Melograni (1924-2021). Paolo Conti su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2021. Scomparso a Roma a 97 anni uno dei capiscuola del razionalismo. Cardine dei suoi lavori lo sguardo sempre rivolto ai destinatari degli edifici. Tutte le opere di Carlo Melograni, l’architetto e urbanista (fratello dello storico Piero) scomparso il primo novembre a quasi 98 anni, partivano da un presupposto insieme etico e poetico: rivolgersi a chi sarebbe stato il destinatario di quell’edificio, quel complesso edilizio, quell’intervento urbanistico. E poiché quasi l’intera produzione di Melograni è fatta di interventi pubblici per l’edilizia residenziale economico-popolare e per i servizi collettivi, soprattutto scuole, quel dialogo era con la gente comune. Di qui il «metodo democratico» perseguito programmaticamente in ogni fase progettuale accanto al rifiuto di ogni banale esposizione mediatica, di facili guadagni in cambio di compromessi, tantomeno con la mano politico-amministrativa, e alla predilezione per il lavoro di gruppo rispetto a quello da solista. Melograni intendeva realizzare edifici a «scala umana»: linguaggio razionalista (ne è considerato uno dei capiscuola) insieme al diritto dei fruitori (famiglie, studenti) a riconoscersi in quegli spazi costruiti, a «viverli» senza avvertire estraneità. Il carattere dell’uomo è nel primo gesto: si arruola, nel 1945, nel ricostituito esercito italiano come soldato semplice nel 1º Reggimento Fanteria del Gruppo di combattimento «Cremona», VIII Armata, e viene decorato sul campo con la Croce di guerra al Valor militare. Si laurea in architettura nel 1950, a Roma (dove nasce, sempre lavorerà, e dove è scomparso). Fortemente impegnato in politica (consigliere comunale del Pci dal 1960 al 1966), si associa a lungo con Leonardo Benevolo, Tommaso Giura Longo e Maria Letizia Martines. Poi cerca il contatto con i giovani (negli Anni 80 con Marta Calzolaretti, Piero Ostilio Rossi, Ranieri Valli e Andrea Vidotto, costituendo lo studio P+R/Progetti e Ricerche di architettura), negli Anni 90 con la ancor più nuova generazione di Giovanni Fumagalli, Franco Masotti e Giuseppe Serrao. La sua firma compare sui recuperi delle case popolari di Testaccio a Roma e del centro storico di Trento, sugli istituti universitari di Ferrara, sulla scuola media di Gibellina, su alcune case popolari a Sabaudia, sull’edificio per servizi sociali a Ravenna. Interessanti le sistemazioni di alcuni importanti siti archeologici: a Roma gli archi neroniani dell’Acquedotto Claudio e il Mausoleo di Lucilio Peto, alcune tombe etrusche a Montalto di Castro. Assai amata e intensa l’attività accademica, come docente e poi come preside di Architettura a Roma Tre. Uomo elegante, ironico e coltissimo (amava profondamente Stendhal) ricevette la Medaglia d’oro dei benemeriti della scienza e della cultura e, nel 2005 da Carlo Azeglio Ciampi, il Premio Presidente della Repubblica per l’Architettura.

·        È morta l’attrice Joanna Cameron.

È morta Joanna Cameron, fu la prima supereroina in tv. Il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. Era stata l’archeologa dai super poteri di «I segreti di Iside», andata in onda anche in Italia. È morta per le complicazioni avute dopo un ictus. E’ morta Joanna Cameron, attrice americana, una delle primissime supereroine della televisione. Aveva 70 anni ed è morta a causa delle complicazioni di un ictus. Cameron era stata la star della serie «I segreti di Iside», andata in onda dal 1975 al 1976 sulla Cbs, in cui interpretava appunto una delle due supereroine protagoniste, tratte dai fumetti di Dc Comics. Era un’archeologa che scopriva di avere dei super poteri. La serie è stata trasmessa in Italia anche con il titolo «Isis». L’attrice è apparsa anche, tra le altre, nelle serie «Daniel Boone», «Reporter alla ribalta», «Marcus Welby», «Colombo», «L’uomo ragno» e in film come «Amo mia moglie». Si era quindi ritirata dalle scene nel 1980, andando a vivere alle Hawaii. 

·        È morto il cantante Terence Wilson.

È morto Terence Wilson, era Astro fondatore del gruppo degli UB40. Il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. Il cantante è scomparso dopo una breve malattia. Ad agosto, il sassofonista e altro membro fondatore della band, Brian Travers, era morto di cancro a 62 anni. Terence Wilson, cantante inglese meglio conosciuto con il nome d’arte Astro, tra i fondatori degli UB40, è morto dopo una breve malattia. Aveva 64 anni. Astro si è esibito nella band reggae pop per più di 30 anni. A dare la notizia un comunicato sui profili social dello stesso Astro e del suo collega Ali Campbell: «Siamo assolutamente devastati e completamente addolorati. Il mondo non sarà più lo stesso senza di lui». Astro, percussioni, tromba e voce della band, ha lasciato gli UB40 nel 2013 e ha continuato a esibirsi con un altro ex membro della band, Ali Campbell. I due sarebbero dovuti andare in tournée anche nel 2022.

Il successo negli anni Ottanta

La band originale aveva sfondato nei primi anni ‘80 con la sua interpretazione unica del reggae britannico e ha trovato successo con brani come «Red Red Wine» e «Can’t Help Falling In Love». Il gruppo nato a Birmingham — che prende il nome dal modulo per richiesta dell’indennità di disoccupazione di allora — ha venduto più di 70 milioni di dischi. Anche sul profilo dell’attuale formazione degli UB40 Astro è stato ricordato così: «Abbiamo appreso stasera la triste notizia che l’ex membro degli UB40, Terence Wilson, meglio conosciuto come Astro, è morto dopo una breve malattia. Le nostre sincere condoglianze alla sua famiglia». Ad agosto, il sassofonista e altro membro fondatore degli UB40, Brian Travers, era morto di cancro: aveva 62 anni.

·        E’ morta la stilista Federica Cavenati.

Morta Federica Kikka Cavenati: la stilista di 16Arlington, marchio amato dalle star, aveva 28 anni. Gian Luca Bauzano su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2021. La stilista si è spenta a 28 anni dopo una malattia «breve e improvvisa». Originaria di Bergamo, si era trasferita a Londra nel 2017 e aveva fondato il marchio 16Arlington con il compagno Marco Capaldo. Un chiaro esempio del valore della creatività italiana. Quella di Federica Cavenati, Kikka per tutti. Creatrice con il compagno Marco Capaldo del marchio 16Arlington. In un attimo si è congedata dal mondo. A 28 anni, una «malattia breve e improvvisa» l’ha portata via. Lo ha reso noto oggi 5 novembre 2021 sui social, il magazine British Vogue definendola come una «luce bianca» di enorme energia. Di origine bergamasca, Kikka Cavenati ha lasciato «un’incalcolabile senso di perdita», così ha commentato la famiglia di origine. La notizia è stata divulgata solo oggi, ma, stando a quanto ha scritto su Vogue Uk l’attrice e amica della stilista Lena Dunham, la morte sarebbe avvenuta tre settimane fa. Cavenati è un esempio del successo della creatività italiana all’estero. Formazione nella capitale britannica e protagonista della London Fashion Week con grande successo. Tanto da divenire creatrice amata da star come Lady Gaga, Jennifer Lopez, Amal Clooney, Billie Eilish e Rita Ora. Si era trasferita a Londra per studiare nella sede britannica dell’Istituto Marangoni. Proprio tra quella misura aveva conosciuto il suo compagno di vita Marco Capaldo. Assieme nel 2017 decidono di fondare il marchio 16Arlington . «È l’indirizzo del nostro primo atelier — aveva spiegato in un’intervista la stilista — Ci sembrava giusto chiamare il brand come il luogo che ha dato vita al brand 16Arlington». Del rapporto con il partner Marco Capaldo e della nascita del progetto diceva: «Credo tutto abbia avuto inizio dall’incontro fra le nostre opposte visioni estetiche. Da studenti creavamo cose molto diverse, ma eravamo sempre la voce della ragione l’uno dell’altra. Questa forse è diventata la base del nostro marchio — aggiungendo —. Ci fidiamo molto delle nostre opinioni reciproche e abbiamo anche capito che ognuno di noi porta nel lavoro dell’altro un punto di vista interessante e nuovo». L’idea di base della coppia di creativi nel dar vita alle loro collezioni stava nel rivisitare il mondo del prêt-à-porter , più legato a Capaldo in chiave couture, seguendo la passione per il mondo sartoriale della stilista. Sottolineava: «Nel modo in cui creiamo c’è una vera sinergia, ci influenziamo continuamente l’un l’altra con nuove idee». Un comunicato ufficiale congiunto della famiglia e del marchio così recita: «Il fatto che l’atelier di 16Arlington non possa più risuonare con la risata di Federica ed il suo sconfinato appetito di creatività è una perdita tragica per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla». Dal canto suo l’attrice Lena Dunham, non solo cliente fedele del brand, ma amica della creatrice scomparsa ha scritto una lunga testimonianza personale su Vogue Uk , definendola con commossa ironia «la pasticciona più chic» mai incontrata piangendo la sua morte, avvenuta a suo dire circa tre settimane fa. La notizia, però, è divenuta pubblica solo ora.

Serena Tibaldi per la Repubblica il 7 novembre 2021. Lo scorso 11 ottobre Amal Clooney si è presentata sul red carpet del London Film Festival, al braccio del marito George, inguainata in un abito da vera star hollywoodiana: una colonna di paillettes bianche con tanto di boa in marabù coordinato. In alcune foto si nota, alle sue spalle, un ragazzo che discreto la segue passo a passo: è Marco Capaldo, fondatore di 16Arlington, il marchio che ha firmato la mise. Per il brand l'apparizione di Amal avrebbe dovuto essere la consacrazione definitiva a nome di riferimento del settore. Invece il 18 ottobre, a soli sette giorni da quella serata, ad appena 28 anni è scomparsa Federica Cavenati, per tutti Kikka, compagna di vita di Marco e con lui testa e anima del brand. Causa della morte, annunciata dalla famiglia solo l'altro ieri, «una malattia breve e implacabile». La notizia è presto rimbalzata sui media di tutto il mondo, che hanno ricordato la ragazza come una dei creativi di nuova generazione più promettenti. Federica Kikka Cavenati nasce a Bergamo, cresce a Vienna, si trasferisce a Londra per studiare design all'Istituto Marangoni. La sera prima dell'inizio dei corsi conosce Marco Capaldo, italiano cresciuto a Londra e come lei neo-iscritto alle lezioni di moda. Da quel momento i due sono inseparabili, tanto che nel 2017, freschi di diploma, decidono di lanciare subito una loro collezione. Una mossa impensabile a Parigi o a Milano, ma Londra è da sempre ben disposta nei confronti degli outsider come loro. Il nome del marchio, 16Arlington, deriva dall'indirizzo del loro primo appartamento-atelier, che entrambi descriveranno poi come una vera catapecchia. È il 2017, in un paio di stagioni il brand diventa il nome da seguire alla fashion week londinese, mentre i grandi e-store come Net-a-Poter acquistano i loro capi. Merito del loro stile gioioso e sopra le righe, che in un'intervista del 2019 i due descrivono come un mix tra Gina Lollobrigida e Joan Collins, con cascate di paillettes, piume e colori vivaci. È Marco a spingere su certe esagerazioni, mentre il gusto di Kikka, più lineare, smorza i toni rendendo la collezione più moderna. L'idea funziona, prima ancora che in passerella sui tappeti rossi, addosso alle star: Kendall Jenner, Miley Cyrus e Lena Dunham sono tutte fan della prima ora. Lena diventa loro amica, tanto che Marco e Kikka la fanno sfilare nel loro ultimo show dal vivo, nel febbraio 2020. In un articolo di ieri su British Vogue, l'attrice e autrice americana ha salutato Kikka celebrandone simpatia e ottimismo contagioso. Tutte qualità che si riflettono negli abiti, che i due designer spiegano essere fatti per «far sentire bene chi li porta». Il pubblico pare aver capito: il loro pigiama di seta bordato in marabù - costo 1.400 euro - diventa un best seller, e tra i look più copiati della moda pre-Covid. Con l'arrivo della pandemia i due snelliscono la produzione, puntando a un modello di business più agile; di recente hanno lanciato una linea di abiti da sposa. «Dire che Kikka era speciale non rende minimamente idea di che forza della natura gentile e appassionata fosse. Era un raggio di luce, un'amica affettuosa e leale. L'atelier di 16Arlington non risuonerà più della sua risata, non si riempirà più della sua creatività», conclude il comunicato. Intanto, i dubbi sul futuro del brand sono stati fugati: Capaldo ha annunciato che a febbraio il brand sfilerà a Londra con una collezione-tributo alla stilista.

Lutto nel mondo della moda. La giovanissima stilista Federica Cavenati, si è spenta a soli 28 anni. La giovane, che fu tra i fondatori del noto brand 16Arlington, muore la giovane stilista italiana Federica Cavenati. A seguito di una malattia "breve e improvvisa", la famiglia annuncia il lutto di Federica Cavenati, 28 anni. Con il compagno Marco Capaldo aveva fondato nel 2017 il brand londinese 16Arlington, amato dalle star. Alessandra D'Acunto su La Repubblica il 5 novembre 2021. Si è spenta a soli 28 anni la stilista italiana Federica Cavenati, originaria di Bergamo viveva e lavorava a Londra con il compagno Marco Capaldo. Con lui, conosciuto alla sede dell'Istituto Marangoni nella capitale britannica, avevano fondato nel 2017 il brand 16Arlington, dal nome del loro primo atelier ed appartamento Oltremanica. Federica è scomparsa a seguito di una malattia "breve ed improvvisa", riporta British Vogue, che cita la famiglia e ne descrive "l'incalcolabile senso di perdita". Si faceva chiamare Kikka e in un comunicato rilasciato dai parenti congiuntamente al marchio, si legge: "Kikka era una luce bianca, dall'energia inconfondibile, l'amica più incoraggiante e fortemente leale che potesse esistere". 16Arlington sfila alla settimana della moda di Londra dal 2019 ed è un brand che con le sue piume e le geometrie anni Settanta ha saputo conquistare star del calibro di Lady Gaga, Jennifer Lopez, Amal Clooney, Billie Eilish e Rita Ora, solo per citarne alcune. "Il fatto che l'atelier di 16Arlington non possa più risuonare con la risata di Federica ed il suo sconfinato appetito di creatività è una perdita tragica per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla", si legge sul comunicato. Lena Dunham, cliente fedele del brand di Federica Cavenati e Marco Capaldo e amica della giovane designer scomparsa, le ha reso tributo su Vogue Uk, definendola "la pasticciona più chic" che abbia mai incontrato e piangendo la sua morte, avvenuta a suo dire circa tre settimane fa. La notizia, però, è trapelata solo ora. 

Moda, si è spenta la giovane stilista Federica Cavenati: addio alla fondatrice di 16Arlington. Valentina Mericio il 05/11/2021 su Notizie.it. La giovanissima stilista italiana Federica Cavenati si è spenta all'età di 28 anni: fu tra i fondatori di 16Arlington, stando a quanto appreso, sarebbe morta da tre settimane, mentre sarebbe stato solo in queste ultime ore che la famiglia lo avrebbe reso pubblico. Ad uccidere la giovane stilista italiana, sarebbe stata una malattia che l’avrebbe colta improvvisamente e con la quale avrebbe lottato negli ultimi giorni. A questo proposito i familiari, attraverso una nota riportata da fanpage, hanno affermato: “Kikka era una luce bianca, dall’energia inconfondibile, l’amica più incoraggiante e fortemente leale che potesse esistere. È una perdita tragica per tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla”. La carriera di Federica Cavenati è stata luminose come poche. Tutto inizia nel 2017 quando la giovane stilista fonda, insieme Marco Capaldo, il popolare brand 16Arlington. Da lì tutto è stato in ascesa tanto che il brand ha partecipato alla London Fashion Week ed è riuscito a consolidarsi nello star system che conta. Tra queste hanno vestito qualcosa che il marchio del brand le note star Rita Ora, Jennifer Lopez e Lady Gaga. Tra le persone a dedicare un pensiero alla giovane, si segnala la designer Lena Dunham che, sentita dalla testata Vogue UK, ha dichiarato: “Kikka viveva per aiutare le altre donne a riconoscere la propria bellezza. Amava la moda con la M maiuscola: i colori del sorbetto, le trame lussuose e la dissonanza dell’abbigliamento casual se abbinato a un tocco di drammaticità. Ha unito la creatività del mondo di una Cher dell’era di Bob Mackie con l’eleganza contemporanea. 

·        E' morta la cofondatrice di Italia Nostra Desideria Pasolini.

E' morta a Roma Desideria Pasolini: con lei nacque Italia Nostra. Redazione Tgcom24 il 30 ottobre 2021. E' morta a Roma, all'età di 101 anni, la cofondatrice di Italia Nostra, Desideria Pasolini Dall'Onda. A diffondere la notizia è stata la stessa associazione ambientalista, sottolineando che con lei se ne va l'ultima firmataria dell'atto del 1955, il documento che segna la costituzione di Italia Nostra. L'atto fu sottoscritto allora anche da Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Pier Paolo Trompeo, Giorgio Bassani, Luigi Magnani Rocca e Hubert Howard. Amore per l'arte e il paesaggio - La ragione di vita della Pasolini è sempre stata l'amore per l'arte e la bellezza del paesaggio, sostenuto da un fortissimo senso civico. "Se c'è da combattere io combatto", amava ripetere anche dopo aver raggiunto il traguardo del secolo di vita. E davvero la sua è stata un'esistenza densa di battaglie: negli anni Cinquanta era impegnata contro le speculazioni edilizie che dopo il fascismo avrebbero voluto brutalizzare ancora il centro storico della Capitale e decenni più tardi lottava contro i tentativi di privatizzazione dell'arte e dei musei e per la salvaguardia delle campagne. Desideria e l'"atto" del 1955 - Discendente di una delle più antiche e colte famiglie ravennati, i capelli di un biondo quasi rosa che indicavano le sue antiche origini sassoni, avrebbe compiuto 102 anni tra pochi mesi. Si è spenta nella notte a Roma, ultima superstite di quel gruppo di intellettuali che nel 1955, con lo storico "atto" diedero vita all'associazione che, per decenni, fu la coscienza critica dello sviluppo italiano. Le battaglie per il territorio - Gli anni delle battaglie la Pasolini li ricordava come una grande e bellissima avventura, come una campagna di giustizia partita quasi d'impeto, spiegava solo un anno fa intervistata da Vittorio Emiliani, con la telefonata di Elena Croce, figlia del filosofo, dopo le polemiche scoppiate per il progetto di un intervento edilizio nel centro della Capitale. In quel caso erano insorti gli intellettuali, il possibile scempio era stato fermato ma si sentiva il bisogno di un impegno costante su questi temi e fu così che si decise di dare vita all'associazione, della quale la Pasolini Dall'Onda fu anche appassionata presidente, dal 1998 al 2005. "Salvare i centri storici" - "Si trattava di ribellarsi agli sventramenti che nel dopoguerra continuavano come e più di prima - spiegava lei qualche anno fa, intervistata per il bollettino dell'associazione -. Si trattava di salvare i centri storici dalla cosiddetta ricostruzione selvaggia, si trattava, ad esempio a Roma, di battersi contro l'ennesimo scempio annunciato, un'arteria parallela al Corso a partire da piazza di Spagna. E si trattava di salvare l'Appia Antica, che senza il nostro impegno sarebbe oggi uno stradone cementificato come tanti altri". "Patrimonio da valorizzare" - Una militanza, la sua, dallo sguardo sempre ampio. "Il compito di Italia Nostra non si esaurisce nel salvare dal degrado monumenti antichi, bellezze naturali o opere di ingegno - ripeteva -.  Italia Nostra persegue un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla valorizzazione dell'inestimabile patrimonio culturale e naturale italiano, capace di fornire risposte in termini di qualità del vivere e di occupazione". Aristocratica - Alle spalle una famiglia aristocratica, liberale e illuminista, con grandi e secolari proprietà agricole tra Romagna e Toscana, ma anche tanti esempi di impegno politico e civile, un nonno soprintendente. Laureata in Lettere, una passione per i corsi di Cesare Brandi, impegnata anche come traduttrice per Eugenio Montale, raccontava con rimpianto di non essere riuscita a proseguire con lo studio dell'architettura. Ma sono stati i giardini e le campagne, la meraviglia e l'unicità del paesaggio italiano la sua passione più grande, tanto da trasformare la tenuta di famiglia in un campo di pratica per le coltivazioni biologiche. "L'agricoltura pulita - diceva - dovrebbe essere un pilastro della nostra economia, soprattutto per i giovani". Nel 2002 l'allora presidente della Repubblica Azeglio Ciampi la premiò con il titolo di Cavaliere di Gran Croce al merito. Ma già dagli esordi l'associazione aveva raccolto il sostegno di grandi personalità, da Adriano Olivetti a Luigi Einaudi. Intorno a Desideria Pasolini Dall'Onda, negli anni si sono stretti intellettuali come Nicola Caracciolo e Antonio Cederna, architetti e urbanisti come Vezio De Lucia, Italo Insolera, Leonardo Benevolo, Bernardo Rossi Doria. Grazie al suo impulso venne creato un gruppo di lavoro che diede contributi significativi alla definizione dei contenuti del Codice Urbani sui beni culturali e il paesaggio. Ebe Giacometti, presidente uscente di Italia Nostra, ricorda il suo impegno e le sue battaglie: "La vorremmo ancora al nostro fianco in questa nuova stagione di investimenti che rischia di trasformarsi in una stagione di consumo di suolo". Con lei, sottolinea il ministro della Cultura Dario Franceschini, l'Italia "perde una voce importante dell'impegno civile per la salvaguardia del patrimonio culturale e del paesaggio". 

E' morta Desideria Pasolini dall'Onda, la fondatrice di Italia Nostra. Aveva 101 anni, nel 2002 fu insignita dal presidente Ciampi del titolo di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana. La Repubblica il 30 ottobre 2021. L’ambiente è stata la ragione della sua vita. Ma anche il bello, la storia, il patrimonio da tenere vivo e salvaguardare dall’incuria del tempo. Per questo Desideria Pasolini dall’Onda decise di partecipare alla fondazione di Italia Nostra, associazione della quale fu appassionata presidente per tanti anni, dal 1998 al 2005. "Il compito di Italia Nostra - amava ripetere - non si esaurisce nel salvare dal degrado monumenti antichi, bellezze naturali o opere di ingegno. Italia Nostra persegue un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla valorizzazione dell’inestimabile patrimonio culturale e naturale italiano, capace di fornire risposte in termini di qualità del vivere e di occupazione”. Desideria Pasolini dall'Onda, scomparsa questa notte, è stata conosciuta e apprezzata per il suo impegno nella conservazione e nella protezione del patrimonio ambientale ed artistico. Non solo con Italia Nostra ma anche con l'ADSI-Associazione Dimore Storiche Italiana. Nata nel 1920, è cresciuta in una famiglia aristocratica, liberale e illuminista, molto impegnata politicamente come racconta Francesca Paolucci nel libro “Montericco, un giardino testimone del tempo” (edito da Grandi Giardini Italiani, Collana Garden Books). Laureatasi in Lettere, avrebbe voluto proseguire gli studi in Architettura, cosa che non riuscì mai a fare. Aveva però ereditato dalla nonna, Maria Ponti Pasolini, l’interesse per i giardini e l'agricoltura. E per questo trasformò Montericco, la tenuta di famiglia in Emilia-Romagna che fa parte del network dei Grandi Giardini Italiani, nel suo campo pratica per le coltivazioni biologiche. Qui, insieme ad amici come Giorgio Bassani, Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce e Maria Romana de Gasperi e con l'amato fratelli Nicolò, discuteva dell'urgenza di opporsi alla ricostruzione selvagia dopo la Seconda guerra mondiale. Qui, in pratica, nacque l’idea di Italia Nostra. Nel 2002 Desideria Pasolini dall’Onda ha ricevuto il Titolo di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi."Con la scomparsa di Desideria Pasolini dall'Onda, fondatrice e storica presidente di Italia Nostra, viene meno una voce importante dell'impegno civile per la salvaguardia del patrimonio culturale e del paesaggio - commenta l ministro della cultura, Dario Franceschini - Con la sua vita ha testimoniato autentico amore per ciò che più contraddistingue il nostro Paese, come testimoniano le tante immagini del g20 in corso oggi a roma: la grande eredità delle civiltà che si sono sviluppate nel nostro territorio e la bellezza che giorno dopo giorno, forti e consapevoli di tale lascito, continuiamo a creare nel nostro Paese".

Il cordoglio di Italia Nostra

Italia Nostra dice addio a Desideria Pasolini dall’Onda, scomparsa all’età di 101 a Roma, ultima cofondatrice di Italia Nostra. Con lei se ne va l’ultima firmataria dell’atto del 1955, sottoscritto anche da Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Pier Paolo Trompeo, Giorgio Bassani, Luigi Magnani Rocca e Hubert Howard. In una lunga intervista pubblicata sul Bollettino di Italia Nostra nel 2013 - Desideria Pasolini dall’Onda ricordava le tante battaglie ma soprattutto spiega le finalità innovative e rivoluzionarie che erano alla base dell’idea associativa: “A differenza delle altre realtà che già esistevano noi siamo stati la prima associazione di volontari che voleva proteggere tutto il patrimonio culturale nella sua interezza. Avevamo cioè una visione nuova “globale”: non volevamo solo proteggere quel determinato castello, quella villa o quel monumento, ma tutto il loro contesto e l’ambiente. Così facendo abbiamo reso pubblico il concetto di territorio. Adesso tutti ne parlano, ma a quell’epoca no. Sentivamo il dovere di conoscerlo e salvarlo”. Con profondo dolore ma anche gratitudine per i suoi meriti indiscussi e la sua sollecita partecipazione alla vita associativa, Italia Nostra le tributa l’ultimo, commosso, saluto. Il funerale si svolgerà martedì 2 novembre, alle ore 10, alla Chiesa di San Lorenzo in Damaso, Piazza della Cancelleria (Campo de' Fiori), Roma.

·        Morto il pasticciere Ado Campeol.

Da leggo.it il 30 ottobre 2021. Aveva 93 anni e a giudizio unanime era considerato il papà del tiramisù, il dolce al cucchiaio più famoso al mondo. È scomparso a Treviso Ado Campeol, patron dello storico ristorante 'Alle Beccherie', nel quale nacque alla fine degli anni '60 la ricetta del Tiramisù. 

La ricetta del tiramisù mai brevettata

L'invenzione del dolce, rivendicata negli anni anche da altri, non venne mai brevettata dalla famiglia Campeol, e ciò favorii il fiorire di varie ricette e ricostruzioni sulla sua origine. Tuttavia il primo gastronomo a scrivere sull'allora quasi sconosciuto Tiramisù, Giuseppe Maffioli, nel 1981, storicizzò la sua nascita alle Beccherie.

Il cordoglio di Zaia: una stella della gastronomia

Anche il governatore del Veneto Luca Zaia ha espresso il proprio cordoglio per la scomparsa del ristoratore trevigiano. «Con Aldo Campeol - ha detto -  Treviso perde un'altra stella della sua storia enogastronomica, La sua lunghissima attività di ristoratore, e le sue Beccherie, hanno attraversato decenni della trevigianità migliore, fatta di accoglienza e qualità, e di quel sorriso garbato che sul suo volto non mancava mai».

Morto Ado Campeol, il padre del Tiramisù: "Come è nata la ricetta", un "miracolo" nella ristorazione. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. Ado Campeol, l'inventore del Tiramisù, è morto a 93 anni. Lo storico titolare del ristorante le Beccherie di Treviso per sessant'anni ha cucinato le sue prelibatezze nel locale dietro Piazza dei Signori dove nel 1970 la moglie Alba e lo chef Roberto Linguanotto idearono il famoso dolce al cucchiaio. Il tiramisù, in realtà, fu il frutto di un incidente: durante la preparazione di un gelato alla vaniglia, allo chef cadde un po' di mascarpone nella ciotola delle uova e zucchero e, assaggiando il cucchiaio "sporco", rimase estasiato. A quel punto Linguanotto insieme alla signora Alba provarono quell'impasto su savoiardi bagnati con il caffè amaro e capirono che si fondeva al palato in un qualche cosa di meraviglioso. Il dolce fu subito chiamato "Tirame Su''. Veniva preparato su piatti rotondi d'argento, lasciandolo riposare alcune ore in frigo e spolverandolo di cacao amaro solo al momento di servirlo. Nel 1972 entrò nel menu' delle Beccherie e, anche si sono aggiunte molte varianti, il Tiramisù resta quello del locale trevigiano la cui ricetta originale è stata depositata e registrata con atto notarile all'Accademia Italiana della Cucina nel 2010. La famiglia di Ado aveva rilevato le Beccherie nel 1939 e lui, che era solo un ragazzino, entrò in sala per aiutare i genitori. Campeol lascia la moglie Alba, i figli Carlo e Marina con i consorti, nipoti e pronipoti. "Con Ado Campeol, Treviso perde un'altra stella della sua storia enogastronomica, che brillerà anche lassù", ha commentato il governatore del Veneto, Luca Zaia, "la sua lunghissima attività di ristoratore, e le sue Beccherie, hanno attraversato decenni della trevigianità migliore, fatta di accoglienza e qualità, e di quel sorriso garbato che sul suo volto non mancava mai".  

·        E’ morto Rossano Rubicondi.

UN TUMORE SI PORTA VIA ROSSANO RUBICONDI, AVEVA 49 ANNI. A cura di Gennaro Marco Duello su tv.fanpage.it. il 29 ottobre 2021. È morto Rossano Rubicondi, aveva 49 anni. A darne l'annuncio è stata Simona Ventura su Twitter con un messaggio e una fotografia: "Rossano… Grazie per il percorso fatto insieme, per i litigi, le incazzature ma anche i chiarimenti e le risate, tantissime, che abbiamo fatto insieme. Fai buon viaggio RiP". Era il quarto marito di Ivana Trump. Cresciuto come modello, aveva raggiunto la notorietà per essere il più longevo fidanzato di Ivana Trump, dopo il divorzio dall'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump: era il suo quarto marito. In Italia aveva partecipato a diversi reality, tra cui L'Isola dei Famosi sotto l'egida di Simona Ventura. C'è sconcerto nel mondo dello spettacolo e non solo. Nessuno era in grado di aspettarsi una notizia del genere e per questo motivo, la notizia annunciata da Simona Ventura, ha assunto un vero e proprio squarcio in questo venerdì sera di fine ottobre. Nel 2018 aveva partecipato a Ballando con le stelle, il programma del sabato sera di Rai1, come ballerino per una notte insieme proprio a sua moglie, Ivana Trump. Rossano Rubicondi inizia a lavorare come modello a Londra, dove si era trasferito a 22 anni, poi come attore esordendo in The Eighteenth Angel e The Golden Bowl. Sposa Ivana Trump il 12 aprile 2008 diventandone il quarto marito. Nello stesso anno, partecipa a L'isola dei famosi 6 condotta da Simona Ventura su Rai2. Tornerà nella trasmissione che lo ha reso celebre in Italia come inviato due anni dopo. Ha recitato anche in "Natale a Beverly Hills" in un ruolo che è una sorta di parodia di se stesso, un uomo attratto dalle donne più anziane. Nel 2012 ritorna concorrente dell'Isola dei Famosi, ma senza la conduzione di Simona Ventura: al suo posto ci sono Nicola Savino e Vladimir Luxuria.

L'annuncio di Simona Ventura. Morto Rossano Rubicondi, aveva 49 anni: dal matrimonio con Ivana Trump al flirt con Belen. Giovanni Pisano su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Addio a Rossano Rubicondi, attore, showman e modello. Il quarto marito di Ivana Trump, celebre in Italia per aver partecipato a diversi programmi televisivi (“Ballando con le stelle”) e reality show (“L’isola dei famosi”), è morto all’età di 49 anni. A dare l’annuncio della scomparsa Simona Ventura via Twitter. La conduttrice televisiva ha voluto ricordare l’amico scomparso con un commovente messaggio: “Rossano… Grazie per il percorso fatto insieme, per i litigi, le incazzature ma anche i chiarimenti e le risate, tantissime, che abbiamo fatto insieme. Fai buon viaggio RiP”. Dolore e sgomento nel mondo dello spettacolo per Rossano Rubicondi. Lo showman era passato agli onori delle cronache rosa durante un’edizione dell’Isola dei Famosi per un presunto flirt avuto con Belen Rodriguez. Al momento non è chiaro se Rubicondi fosse malato. Non si conoscono le cause del decesso del 49enne.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Rossano Rubicondi, "com'è morto a soli 49 anni". La sconcertante rivelazione del re del gossip. Libero Quotidiano il 29 ottobre 2021. Una fine terribile, quella di Rossano Rubicondi. L'ex modello è morto a soli 49 anni, e solo Roberto Alessi, direttore di Novella 2000, ha fornito sui social informazioni sulla causa del prematuro decesso. Secondo Alessi il quarto marito di Ivana Trump, diventato famoso oltre al gossip per la sua partecipazione all'Isola dei famosi, a fine anni Duemila, sarebbe stato stroncato da un cancro fulminante. "Sono sconvolto e addolorato - si legge sul sito del settimanale -. Molto addolorato. È morto Rossano Rubicondi e aveva solo 49 anni. Pare cancro, alla pelle, un melanoma". Ad annunciare la scomparsa di Rubicondi è stata Simona Ventura, la conduttrice dell'Isola dei famosi che lo lanciò nel mondo del piccolo schermo, quasi sconosciuto. "Rossano… - ha scritto SuperSimo sul social, pubblicando una loro foto insieme, sorridenti - Grazie per il percorso fatto insieme, per i litigi, le incaz***e ma anche i chiarimenti e le risate, tantissime, che abbiamo fatto insieme. Fai buon viaggio RiP". Immediatamente, il dolore, la commozione e lo sconcerto hanno invaso i social. Rossano, sorridente e di bella presenza, era diventato negli anni un volto molto noto in tv, grazie alle sue ospitate (per due volte era tornato all'Isola dei famosi, da inviato e nuovamente da concorrente, mentre nel 2018 aveva partecipato come ballerino per una notte a Ballando con le stelle, in coppia proprio con Ivana Trump) e alla sua partecipazione a tanti salotti televisivi del pomeriggio. Re del jetset, amato dai paparazzi, protagonista della vita mondana e del gossip internazionale, aveva fatto parlare di sé all'Isola anche per un presunto flirt con la allora semi-debuttante e giovanissima Belen Rodrgiguez. Proprio per quello che stava accadendo in Honduras Marco Borriello, all'epoca fidanzato della showgirl argentina e centravanti del Milan, aveva ricevuto un imbarazzante Tapiro d'Oro da Valerio Staffelli, inviato di Striscia la notizia. 

Morto Rossano Rubicondi, carriera e vita privata dell’attore e modello italiano. Ilaria Minucci il 29/10/2021 su Notizie.it. Rossano Rubicondi è morto all’età di 49 anni: carriera e vita privata dell’attore e modello italiano, noto per essere stato il quarto marito di Ivana Trump. L’attore e modello italiano Rossano Rubicondi è deceduto all’età di 49 anni per cause ancora sconosciute. Ecco chi era l’uomo che, con la sua improvvisa scomparsa, ha devastato il mondo dello spettacolo. Rossano Rubicondi, nato a Roma il 14 marzo 1972, ha lasciato l’Italia all’età di soli 22 anni per trasferirsi a Londra e intraprendere la carriera di attore e di modello. In quel periodo, come ricordato dal giornalista Roberto Alessi, Rubicondi aveva iniziato a lavorare come commesso da Gianni Versace quando, un giorno, entrò in negozio Ivana Trump. Il 49enne, infatti, è particolarmente noto per essere stato il quarto marito della miliardaria americana Ivana Trump, ex moglie del presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump. La lunga storia d’amore culminata nel matrimonio ha spalancato numerose opportunità in contesto internazionale al 49enne che ha avuto modo di coronare i suoi sogni professionali. Per quanto riguarda le nozze con Ivana Trump, celebrate nel 2008, il matrimonio durò pochi mesi soltanto nonostante i molti anni di fidanzamento. A ogni modo, gli ex coniugi avevano conservato un incredibile rapporto di amicizia e spesso apparivano ancora in pubblico insieme. Dopo aver trascorso molti anni all’estero, Rossano Rubicondi è tornato in Italia per partecipare a L’Isola dei Famosi, reality show al quale l’uomo partecipò in ben tre occasioni. La prima esperienza in veste di naufrago è datata 2008, quando il 49enne partecipò alla fortunata sesta edizione del format. In quella circostanza, divenne protagonista di un presunto flirt con Belen Rodriguez, all’epoca ancora sconosciuta. Nel 2010, Rossano Rubicondi è tornato a L’Isola dei Famosi in qualità di inviato mentre, nel 2012, partecipò nuovamente come naufrago all’edizione “all stars” di Nicola Savino. In relazione alla sua carriera di attore, durante il suo soggiorno a Londra, Rossano Rubicondi ha interpretato piccoli ruoliin produzioni come The Golden Bowl e The Eighteenth Angel. Un anno dopo la partecipazione alla sesta edizione de L’Isola dei Famosi, il 49enne condusse insieme a Federica Panicucci la trasmissione televisiva Cupido e partecipò al film Natale a Beverly Hills. Nella pellicola, Rubicondi interpretava un ruolo che può essere descritto come una parodia di se stesso in quanto gli era stato assegnato un personaggio attratto da donne più anziane. Nel 2011, ha preso parte alla manifestazione Sfilata d’amore e moda di Rete 4 mentre, nel 2018, ha collaborato al film Un viaggio indimenticabile.

Morto Rossano Rubicondi, i messaggi di cordoglio dei vip sui social. Ilaria Minucci il 30/10/2021 su Notizie.it. Rossano Rubicondi, morto a soli 49 anni, è stato ricordato da alcuni esponenti del mondo dello spettacolo che hanno espresso il proprio cordoglio. La prematura e improvvisa scomparsa di Rossano Rubicondi ha profondamente sconvolto il mondo dello spettacolo italiano. Molti personaggi, infatti, hanno voluto esprimere il proprio cordoglio per la morte dell’attore e modello italiano postando messaggi sui social. Nella serata di venerdì 29 ottobre, è stata comunicata la morte inaspettata di Rossano Rubicondi, deceduto all’età di 49 anni. La notizia relativa alla sconcertante dipartita del modello e attore italiano è stata diffusa dalla conduttrice Simona Ventura che ha postato sul suo account Twitter il seguente messaggio: “Rossano… Grazie per il percorso fatto insieme, per i litigi, le incazzature ma anche i chiarimenti e le risate, tantissime, che abbiamo fatto insieme.

Fai buon viaggio RiP”. 

Poco dopo aver appreso del tragico evento, è intervenuto anche il giornalista Roberto Alessi che, nel ricordare e salutare l’amico, ha alluso a un presunto “cancro, alla pelle, un melanoma”.

Le cause della morte di Rossano Rubicondi, tuttavia, non sono ancora state rivelate in modo ufficiale.

Morto Rossano Rubicondi, il tweet di Vladimir Luxuria

In seguito alla circolazione della notizia, sono stati tanti i personaggi del mondo dello spettacolo italiano che hanno voluto manifestare il proprio dolore per la morte di Rossano Rubicondi.

Vladimir Luxuria, ad esempio, ha postato un tweet con il quale ha dichiarato: “Che brutta notizia, sono sconvolta, non è possibile.

Rossano Rubicondi R.i.p.”.

Anche la pagina Twitter ufficiale di RTL 102.5 ha pubblicato un messaggio dedicato al 49enne, svrivendo: “È morto all’età di 49 anni Rossano Rubicondi, personaggio televisivo diventato popolare in Italia con l’Isola dei Famosi.

A dare la triste notizia, Simona Ventura con un tweet”.

Morto Rossano Rubicondi, il post Instagram del Divino Otelma

Tra i messaggi di cordoglio rivolti a Rossano Rubicondi, figura anche quello postato su Instagram dal Divino Otelma, che conobbe il 49enne durante la sua seconda partecipazione come naufrago a L’Isola dei Famosi versione all stars, condotta da Nicola Savino e Vladimir Luxuria.

In questo contesto, quindi, il Divino Otelma ha postato alcune foto che lo ritraggono in Honduras in compagnia di Rossano Rubicondi, corredate dalla seguente didascalia: “Con te stavo bene e parlavamo… eri e sei una bella persona… ci rivedremo oltre il Velo di Iside e canteremo ancora insieme. Quella è stata davvero un’Isola bella… grazie a Te (e dopo… molto pattume). A presto amico mio!”.

Rossano Rubicondi, la malattia e il melanoma: gli ultimi anni del modello. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2021. Rossano Rubicondi è morto a causa di un melanoma cutaneo, a 49 anni. Si era sposato con Milu Vaimo e poi era tornato con Ivana Trump. Il suo primo grande amore fu un’estetista, «lei aveva 29 anni, io 17. Le donne più grandi mi sono sempre piaciute». Il carattere dell’uomo è il suo destino. Modello, attore, personaggio televisivo, soprattutto ex marito: Rossano Rubicondi ha attraversato la vita troppo velocemente. Era nato a Roma il 14 marzo 1972, è morto ad appena 49 anni stroncato da un melanoma cutaneo. La svolta e la fama arrivano però non tanto per le doti artistiche ma grazie al matrimonio con Ivana Trump (2008), una relazione che fa molto rumore. Il conte Gelasio Gaetani Lovatelli d’Aragona, uno degli invitati alle nozze, all’epoca spiegava così quell’improbabile incontro, che suscitava inevitabile chiacchiericcio. Troppa la differenza, economica ed anagrafica, lei tanti soldi e anni più di lui (+23). «Rubicondi, giovane ruspante di bella presenza, gestiva un ristorante a Saint Tropez. E Ivana andò a cena lì. Appena lo vide rimase subito colpita, non dai piatti genuini, ma dalla bellezza del fustone: moro, macho, stile Banderas. Quando poi capì che Rossano era romano? Completamente impazzita di gioia. Da allora non l’ha più abbandonato un solo istante». Ma anche gli istanti infiniti hanno una scadenza e quel «per tutta la vita» dura un solo anno. La popolarità di quarto marito di Ivana però non gliela toglie nessuno. Il matrimonio con l’ex moglie di Trump è il trampolino di lancio per entrare stabilmente nella tv italiana, la prima volta grazie all’Isola dei Famosi, all’epoca (era il 2008) condotta da Simona Ventura. Rubicondi si fece notare soprattutto per le voci sul presunto bacio con Belén Rodriguez (ai tempi fidanzata con Marco Borriello, il calciatore; quell’episodio fu all’origine della loro rottura. Entrambi avranno modo di rifarsi, ma questa è un’altra storia). Il reality quell’anno fu vinto da Vladimir Luxuria, con cui non si erano risparmiati polemiche e litigi. Ricorda oggi Luxuria: «Ogni tanto ci vedevamo e ci messaggiavamo ma non mi aveva detto nulla e non mi aveva neanche fatto capire o intuire nulla del melanoma che poi lo ha portato a lasciarci così presto». Il reality aprì a Rubicondi nel 2009 le porte di Cupido (un candid camera show) insieme con Federica Panicucci e il set del cinepanettone «Natale a Beverly Hills», dove interpretò la parodia di sé stesso: un uomo attratto da donne più anziane... Sarà ancora due volte all’Isola, prima inviato, poi di nuovo naufrago. Ma qualche anno più tardi decise che la tv non faceva per lui (o forse viceversa: la tv è così, spietata, ti usa finché sei qualcosa o ex qualcosa) ma non andò benissimo: prima fu arrestato a Miami per guida in stato di ebbrezza, poi aprì un food truck in Florida, un’attività spazzata via dall’uragano Irma. Nella sua vita privata intanto era già entrata un’altra moglie, la cubana Milu Vaimo, ma i suoi amori sono sempre tormentati, mai definitivi, e nel 2018 si riaccende la passione con Ivana Trump: anche in questo caso dura poco però, rottura amichevole e amici come prima. La scoperta di un melanoma cutaneo è un fulmine a ciel sereno: le cure non bastano e a soli 49 anni le luci della sua personale passerella si spengono.

Rossano Rubicondi, "quel cerotto sulla mano": il dettaglio straziante, ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. Una morte misteriosa quella di Rossano Rubicondi, portato via da un melanoma di cui pochissimi erano a conoscenza. A dare qualche dettaglio in più è stato Roberto Alessi, ricordando il passato: "Sono sconvolto e addolorato - si legge sul sito del settimanale di cui è direttore, Novella 2000 - . Molto addolorato. È morto Rossano Rubicondi e aveva solo 49 anni. Pare cancro, alla pelle, un melanoma".  Quella dell'ex naufrago dell'Isola dei Famosi e noto personaggio dello spettacolo sarebbe stata una battaglia combattuta in silenzio. "Era un uomo molto buono, un ragazzo direi, perché sembrava sempre un ragazzo", prosegue Alessi per poi raccontare qualcosa che all'epoca sembrava innocua: "È stato a casa mia un anno fa, aveva un cerotto su una mano, 'Devo farmi vedere'". Secondo Alessi i suoi ultimi mesi Rubicondi li ha trascorsi a Miami, "dove stava per aprire un ristorante", e a New York. Al suo fianco ci sarebbe stata la sua ex moglie, Ivana Trump: "Mi parlava che si sarebbe risposato con Ivana, non so con quale convinzione, ma era molto, molto cambiato, mi assicurano". Nato a Roma nel 1972, Rubicondi lavorò come modello a Londra per poi intraprendere una lunga carriera in Italia. Dopo l'Isola dei Famosi, lo showman lavorò con Federica Panicucci e recitò nel film Natale a Beverly Hills, dove interpretava una parodia di se stesso.

Gennaro Marco Duello per fanpage.it il 30 ottobre 2021. "Sono sconvolta". Quando Fanpage.it raggiunge Vladimir Luxuria per un commento sulla morte di Rossano Rubicondi, sono queste le prime parole. La conduttrice con il modello ha condiviso una delle esperienze più fondanti e formative per le carriere di entrambi, l'edizione numero 6 de L'Isola dei Famosi, nel 2008, probabilmente la migliore di sempre. Due anni più tardi, nel 2010, Vladimir Luxuria sarà conduttrice con Nicola Savino e Rossano Rubicondi sarà scelto proprio come inviato sull'Isola dei Famosi. 

Il ricordo di Vladimir Luxuria

Come tanti, Vladimir Luxuria non si aspettava una notizia del genere, la morte del modello a causa di un melanoma: "Della sua malattia non aveva fatto sapere nulla a nessuno. Perché lui era così, per lui la vita era mettere buonumore, divertirsi con gli altri". Nel 2008, si creò anche una sorta di triangolo tra Rossano Rubicondi, Vladimir Luxuria e Belen Rodriguez. Vladimir Luxuria, che vinse quell'edizione, incarnava l'anima più critica e polemica del cast, non risparmiandosi nei confronti anche di Rossano, come conferma: "Era il 2008, abbiamo condiviso un'esperienza magnifica. Ci siamo anche scontrati in maniera forte sull'Isola". 

Il rapporto dopo L'isola dei Famosi

Il rapporto di amicizia tra Vladimir Luxuria e Rossano Rubicondi ha resistito al tempo proseguendo tra uscite e cene: "Ci siamo rivisti fuori, ci siamo avvicinati e l'ho visto in varie occasioni, anche fuori a mangiare, a divertirci. Proprio di recente ci eravamo sentiti su Whatsapp". Poi, Vladimir Luxuria non riesce a non a parlare di lui al presente: "Lui è uno simpatico, è un pazzo. Vedi, non riesco neanche a parlarne al passato. Mi voleva un gran bene". E dopo queste parole subentra una forte emozione, ancora l'incredulità soprattutto, che non lascia più alcuno spazio per altre parole.

Rossano Rubicondi, "perché ha tenuto nascosta la sua malattia": Luxuria, straziante indiscrezione. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. Una morte improvvisa, che ha sconvolto, che ha lasciato senza parole, quella di Rossano Rubicondi, attore e showman che ci lascia a soli 49 anni. Fu il quarto marito di Ivana Trump. Ad annunciare la sua morte è stata Simona Ventura: "Rossano… Grazie per il percorso fatto insieme, per i litigi, le incazzature ma anche i chiarimenti e le risate, tantissime, che abbiamo fatto insieme. Fai buon viaggio Rip". Un personaggio amato da tutti, discreto, gentile, che lascia un grande vuoto. Stroncato da un melanoma, una malattia di cui non aveva mai parlato in pubblico. E al cordoglio si aggiunge anche Vladimir Luxuria, che con Rubicondi condivise l'esperienza all'Isola dei Famosi: "Sono sconvolta non posso crederci abbiamo vissuto una forte esperienza con te: abbiamo litigato, discusso, poi ci siamo ritrovati e abbracciati. Eri pieno di vita", ha scritto l'ex parlamentare sulla sua pagina Instagram. Dunque, interpellata da FanPage, Luxuria ha spiegato che come quasi tutti non sapeva della malattia dell'attore: "Della sua malattia non aveva fatto sapere nulla a nessuno. Perché lui era così, per lui la vita era mettere buonumore, divertirsi con gli altri", ha spiegato Luxuria, spiegando perché, a suo giudizio, Rubicondi non aveva voluto parlare di quel maledetto male. A causa della totale e comprensibile riservatezza, la notizia della sua morte è arrivata come un fulmine a ciel sereno. E ancora, Luxuria ha aggiunto: "Abbiamo condiviso un'esperienza magnifica. Ci siamo anche scontrati in maniera forte sull'Isola. Ci siamo rivisti fuori, ci siamo avvicinati e l'ho visto in varie occasioni, anche fuori a mangiare, a divertirci. Proprio di recente ci eravamo sentiti su Whatsapp". E ancora: "Lui è uno simpatico, è un pazzo. Vedi, non riesco neanche a parlarne al passato. Mi voleva un gran bene", conclude una commossa Vladimir Luxuria.

Rossano Rubicondi, "dopo di me sarà impossibile": la clamorosa profezia nell'ultima apparizione in tv. Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. All’improvviso è arrivata la notizia della morte di Rossano Rubicondi: un duro colpo per il mondo dello spettacolo e soprattutto per tutti quei personaggi pubblici che avevano lavorato con lui nel corso degli anni. L’attore e showman è venuto a mancare a soli 49 anni, dopo una lunga battaglia contro un melanoma che però non era mai emersa nel corso delle sue ospitate in televisione. L’ultima risalente a novembre 2020, quando apparse al fianco dell’ex moglie Ivana Trump in un collegamento con Barbara d’Urso al Live di Canale 5. I due si trovavano a New York, da dove Ivana commentò la sconfitta dell’ex marito Donald e soprattutto dichiarò di essere single. A quel punto si intromise Rubicondi con fare ironico: “Dopo di me è impossibile trovare qualcun altro”. I due erano stati avvistati insieme anche lo scorso aprile, durante un evento nella Grande Mela. All’interno del mondo della tv il 49enne era ben voluto e rispettato. Non a caso a dare la notizia della sua morte è stata per prima Simona Ventura. “Rossano… grazie per il percorso fatto insieme - ha scritto l’ex conduttrice dell’Isola dei Famosi, reality in cui Rubicondi era stato protagonista - per i litigi, le incazzature ma anche i chiarimenti e le risate, tantissime, che abbiamo fatto insieme. Fai buon viaggio”. 

Rossano Rubicondi, strazio e profezia del Divino Otelma: "Ecco dove ci vedremo ancora". Libero Quotidiano il 30 ottobre 2021. Rossano Rubicondi è morto all’età di 49 anni. Uno dei primi a dare la sua testimonianza di affetto è stato il Divino Otelma, che ha preso parte con lui all’Isola dei Famosi, durante il secondo naufragio di Rossano. Dal suo account Instagram ha ricordato l’amico Rossano Rubicondi, recentemente scomparso, che ha preso parte con lui al reality. Tra i due, sulle desolate spiagge del reality condotta al tempo da Simona Ventura, si era instaurato un ottimo rapporto: "Con Te stavo bene – ha scritto Otelma sul social a fianco di alcune foto che li ritrae sorridenti in Honduras - e parlavamo...eri e sei una bella persona...ci rivedremo oltre il Velo di Iside e canteremo ancora insieme. Quella è stata davvero un'Isola bella...grazie a Te (e dopo...molto pattume. A presto amico mio! #rossanorubicondi #divinootelma". Numerosi anche i messaggi dei fan ."Facciamo progetti, viviamo di sogni, speranze, pianifichiamo il nostro futuro e poi lei dedice di mollarti, così, all'improvviso, senza guardarti in faccia. Non c'è un perché. Riposa in pace Rossano, non se l'aspettava nessuno", ha scritto Francesco su Twitter. Seguito da Silvio: "Faceva parte di quegli ultimi reality in cui non c'erano influencer e montati di testa ma gente che si metteva in gioco e viveva appieno isole o case..ricordo la sua isola e il suo fugace amore per Belen".  E TwittiPe: "Credo fosse un uomo molto più profondo e sensibile del frivolo guascone che poteva sembrare all’apparenza". 

Da leggo.it il 30 ottobre 2021. Lo sconcerto per la scomparsa di Rossano Rubicondi corre sulla rete. Rossano Rubicondi, quarto marito di Ivana Trump e personaggio molto conosciuto nel mondo dello spettacolo italiano è morto ancora giovane, all’età di 49 anni. Ma perché è morto l'ex naufrago dell'Isola? Quali sono i motivi di un decesso così prematuro e inaspettato? Rossano Rubicondi perché è morto? Rubicondi da giovane modello è diventato il quarto marito di Ivana Trump, ex moglie di Donald Trump ed è poi riuscito ad entrare velocemente nel mondo televisivo italiano. La sua partecipazione all’Isola dei Famosi con la conduzione Ventura e la sua simpatia per la collega naufraga Belen Rodriguez, allora ancora poco conosciuta showgirl argentina, gli hanno regalato una grande notorietà. Dopo l’Isola infatti ha condotto alcuni programmi e partecipato ad altri come guest star, come successo per “Ballando con le stelle”. E’ poi anche tornato in Honduras prima nel ruolo di inviato e poi in quello di naufrago. Negli ultimi anni viveva fra la Florida, dove aveva inaugurato anche un’attività di ristorazione e New York, dov’era spesso fotografato a fianco di Ivana Trump. Romano, classe 1972, Rubicondi da ragazzo aveva lavorato a Londra come modello. Nella capitale inglese aveva scoperto la passione nel cinema, nel quale ha lavorato con piccoli ruoli. Il matrimonio con Ivana Trump arrivò nel 2008, lo stesso anno nel quale Rubicondi venne scelto per partecipare alla sesta edizione dell'Isola dei famosi, condotta dalla Ventura. Rossano venne eliminato nelle prime puntate ma il suo percorso nella tv dopo quella esperienza è andato avanti. In Italia ha lavorato anche in un'altra trasmissione tv, Cupido, al fianco di Federica Panicucci e poi di nuovo per l'Isola dei famosi, questa volta come inviato. Sull'Isola è tornato anche una terza volta nel 2012, ancora una volta nei panni di concorrente. Ha recitato anche nel film Natale a Beverly Hills, dove interpretava una parodia di se stesso. Ancora sconosciute le reali cause della prematura morte, anche se è arrivata una prima ipotesi da parte del direttore di “Novella2000”, Roberto Alessi, che nel suo ricordo dell’artista ha scritto: «Sono sconvolto e addolorato - si legge sul sito del settimanale -  Molto addolorato. È morto Rossano Rubicondi e aveva solo 49 anni. Pare cancro, alla pelle, un melanoma». Sembra che fosse malato da circa un anno. Un tumore di cui nessuno era a conoscenza, una battaglia che Rubicondi avrebbe combattuto in silenzio. La lettera di Alessi prosegue: «Era un uomo molto buono, un ragazzo direi, perché sembrava sempre un ragazzo. È stato a casa mia un anno fa, aveva un cerotto su una mano, "Devo farmi vedere"». Rossano Rubicondi, di recente, trascorreva lunghi periodi negli Stati Uniti: «A Miami - si scrive nella lettera - dove stava per aprire un ristorante, e a New York. Mi parlava che si sarebbe risposato con Ivana, non so con quale convinzione, ma era molto, molto cambiato, mi assicurano».

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2021. Il suo primo grande amore fu un'estetista, «lei aveva 29 anni, io 17. Le donne più grandi mi sono sempre piaciute». Il carattere dell'uomo è il suo destino. Modello, attore, personaggio televisivo, soprattutto ex marito: Rossano Rubicondi ha attraversato la vita troppo velocemente. Era nato a Roma il 14 marzo 1972, è morto ad appena 49 anni stroncato da un melanoma cutaneo. La svolta e la fama arrivano però non tanto per le doti artistiche ma grazie al matrimonio con Ivana Trump (2008), una relazione che fa molto rumore. Il conte Gelasio Gaetani Lovatelli d'Aragona, uno degli invitati alle nozze, all'epoca spiegava così quell'improbabile incontro, che suscitava inevitabile chiacchiericcio. Troppa la differenza, economica ed anagrafica, lei tanti soldi e anni più di lui (+23). «Rubicondi, giovane ruspante di bella presenza, gestiva un ristorante a Saint Tropez. E Ivana andò a cena lì. Appena lo vide rimase subito colpita, non dai piatti genuini, ma dalla bellezza del fustone: moro, macho, stile Banderas. Quando poi capì che Rossano era romano? Completamente impazzita di gioia. Da allora non l'ha più abbandonato un solo istante». Ma anche gli istanti infiniti hanno una scadenza e quel «per tutta la vita» dura un solo anno. La popolarità di quarto marito di Ivana però non gliela toglie nessuno. Il matrimonio con l'ex moglie di Trump è il trampolino di lancio per entrare stabilmente nella tv italiana, la prima volta grazie all'Isola dei Famosi , all'epoca (era il 2008) condotta da Simona Ventura. Rubicondi si fece notare soprattutto per le voci sul presunto bacio con Belén Rodriguez (ai tempi fidanzata con Marco Borriello, il calciatore; quell'episodio fu all'origine della loro rottura. Entrambi avranno modo di rifarsi, ma questa è un'altra storia). Il reality quell'anno fu vinto da Vladimir Luxuria, con cui non si erano risparmiati polemiche e litigi. Ricorda oggi Luxuria: «Ogni tanto ci vedevamo e ci messaggiavamo ma non mi aveva detto nulla e non mi aveva neanche fatto capire o intuire nulla del melanoma che poi lo ha portato a lasciarci così presto». Il reality aprì a Rubicondi nel 2009 le porte di Cupido (un candid camera show) insieme con Federica Panicucci e il set del cinepanettone Natale a Beverly Hills , dove interpretò la parodia di sé stesso: un uomo attratto da donne più anziane... Sarà ancora due volte all'Isola , prima inviato, poi di nuovo naufrago. Ma qualche anno più tardi decise che la tv non faceva per lui (o forse viceversa: la tv è così, spietata, ti usa finché sei qualcosa o ex qualcosa) ma non andò benissimo: prima fu arrestato a Miami per guida in stato di ebbrezza, poi aprì un food truck in Florida, un'attività spazzata via dall'uragano Irma. Nella sua vita privata intanto era già entrata un'altra moglie, la cubana Milu Vaimo, ma i suoi amori sono sempre tormentati, mai definitivi, e nel 2018 si riaccende la passione con Ivana Trump: anche in questo caso dura poco però, rottura amichevole e amici come prima. La scoperta di un melanoma cutaneo è un fulmine a ciel sereno: le cure non bastano e a soli 49 anni le luci della sua personale passerella si spengono.

Da liberoquotidiano.it il 31 ottobre 2021. La morte di Rossano Rubicondi è stata un vero e proprio fulmine a ciel sereno: nel mondo dello spettacolo si sapeva poco o nulla della malattia che lo aveva colpito da qualche tempo e che purtroppo non gli ha lasciato scampo, stroncandolo a soli 49 anni. Mara Venier a Domenica In ha giustamente voluto ricordare l’ex marito di Ivana Trump, e lo ha fatto prima delle interviste a Marco Giallini e Ferzan Ozpetek. “Era un mio caro amico - ha dichiarato la padrona di casa davanti ai telespettatori di Rai1 - mai conosciuto una persona che amasse la vita più di lui. I problemi c’erano, ma non di salute. Non l’ha detto nessuno”. Parole che hanno un po’ interdetto il pubblico, dato che al momento non sono noti i motivi della morte di Rubicondi: si sarebbe trattato di un cancro alla pelle, un melanoma. Fatto sta che la sua scomparsa ha sconvolto il mondo dello spettacolo e in particolare quello del piccolo schermo, dove Rubicondi era stato grande protagonista soprattutto con l’Isola dei Famosi. “È morto da solo a New York - ha aggiunto la Venier - e poi voglio cogliere l’occasione per dire che Rossano non si è mai, mai, mai approfittato della situazione economica di Ivana Trump”. 

"Problemi non solo di salute". La frase su Rubicondi e il gelo in tv. Francesca Galici il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Mara Venier a Domenica In ha salutato Rossano Rubicondi, morto giovanissimo. La conduttrice ha rivelato qualche dettaglio sul modello, quarto marito di Ivana Trump. La morte di Rossano Rubicondi ha stravolto il mondo dello spettacolo. Tantissimi i messaggi lasciati sui social dai personaggi famosi che, per vari motivi, hanno conosciuto il quarto marito di Ivana Trump. A dare la notizia della sua dipartita è stata Simona Ventura che, venerdì sera, ha gettato nello sconforto tutti quelli che lo seguivano e ne avevano incrociato il cammino. Rossano Rubicondi divenne popolare in Italia quando partecipò all'Isola dei famosi, condotta proprio dalla presentatrice piemontese. Da quel momento iniziò un lungo periodo di ribalta per il modello che ammaliò anche Ivana Trump. Da qualche tempo, però, Rossano Rubicondi era sparito dai radar televisivi italiani. Viveva in America, dove continuava a frequentare l'ex moglie di Donald Trump. L'ultima volta che i due sono stati visti assieme risale allo scorso luglio, quando presenziarono a un evento mano nella mano. Roberto Alessi ha rivelato che Rossano Rubicondi aveva sviluppato un melanoma e che, per questo motivo, dovette sottoporsi a cure piuttosto pesanti. Tuttavia, le cause della sua morte non sono ancora state rivelate e oggi a parlare è stata Mara Venier, che conosceva molto bene Rossano Rubicondi. "Era un mio caro amico. Mai conosciuto una persona che amasse la vita più di lui. I problemi c’erano, ma non di salute. Non l’ha detto nessuno", ha dichiarato la padrona di casa di Domenica In. Una frase sibillina che ha interdetto il pubblico di Rai1. Mara Venier, dopo il ricordo di Rossano Rubicondi, ha proseguito regolarmente la trasmissione senza dare ulteriori spiegazioni per quel'affermazione, che rimarrà sospesa e a libera interpretazione. La conduttrice, prima di cambiare pagina ha aggiunto solo un altro dettaglio, che finora non era stato reso noto: "È morto da solo a New York. E poi voglio cogliere l’occasione per dire che Rossano non si è mai, mai, mai approfittato della situazione economica di Ivana Trump". Una precisazione doverosa per Mara Venier su un aspetto sul quale in tanti hanno spesso insinuato ma che, dopo la sua morte, la conduttrice ha voluto chiarire per dare onore a Rossano Rubicondi, del quale il pubblico ha sempre apprezzato l'ironia e la semplicità.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Morte Rossano Rubicondi, bufera su Milly Carlucci: il gesto in diretta tv che le costa carissimo. Libero Quotidiano il 02 novembre 2021. La morte di Rossano Rubicondi è stato un fulmine a ciel sereno. Nessuno, neppure i suoi genitori, erano a conoscenza della malattia che lo ha ucciso a soli 49 anni. La notizia della sua scomparsa è stata infatti diffusa da Simona Ventura, gettando nello sgomento molti vip. Rubicondi era conosciuto nel mondo dello spettacolo: oltre a L'Isola dei Famosi, lo showman aveva partecipato a Ballando con le Stelle assieme all'ex moglie Ivana Trump. E proprio il programma di Milly Carlucci ha indignato gli spettatori di Rai1. Il motivo? La conduttrice nell'ultima puntata non ha fatto alcun accenno alla morte del ballerino (anche se solo per una notte). "Ma ricordare che Rossano era stato anche ospite, no?", chiede un utente del web mentre un altro gli fa eco: "Tre anni fa Rossano Rubicondi è stato ballerino per una notte con Ivana Trump, ricordarlo sarebbe stato carino". Tutte domande che si sono posti in tanti. In effetti lo spazio per salutare Rubicondi ci sarebbe stato, visto che la trasmissione oltre alla gara di ballo lascia spazio a polemiche, intermezzi musicali e tanto altro. Prima della messa in onda di Ballando era stata la Ventura a ricordare durante Citofonare su Rai 2 l'amico: "Rossano lassù sicuramente continuerai a ballare, perché quella era la tua passione, con quel sorriso che entrava come un coltello nel cuore di chiunque. Ti voglio ben Ros, fai buon viaggio".  

Morte Rossano Rubicondi, lo sfogo di Maria Teresa Ruta: "Hai esagerato", ciò che non potrà mai accettare. Libero Quotidiano il 02 novembre 2021. Anche Maria Teresa Ruta e la figlia Guenda Goria sono rimaste molto colpite nell’apprendere la notizia della morte di Rossano Rubicondi, venuto a mancare a soli 49 anni a causa di una malattia. Pare si sia trattato di un melanoma cutaneo che non ha lasciato scampo all’attore, showman nonché ex marito di Ivana Trump. A dare l’annuncio in pubblico della sua morte è stata Simona Ventura, che lo aveva conosciuto ai tempi in cui conduceva l’Isola dei Famosi. In tanti hanno ricordato con affetto e dolore Rubicondi, che era stimato all’interno del mondo dello spettacolo e soprattutto della televisione. “Caro Rossano - ha scritto Maria Teresa Ruta sul suo profilo Instagram a corredo di una foto che ritrae sua figlia Guanda con Rubicondi - è stato bellissimo condividere tanti momenti insieme. In Nicaragua con Guenda sei stato paterno. Eri un ragazzo generoso, sensibile e altruista”. “È sempre troppo presto quando un amico se ne va - ha aggiunto l’ex concorrente del Grande Fratello Vip - ma tu hai esagerato. Ci lasci il tuo sorriso, la faccia da schiaffi e le tue ricette da chef a domicilio. Resterai nei nostri cuori”. Nonostante vivesse a New York, dove pare che l’ex moglie si sia preso cura di lui da quando ha scoperto di essere malato, l’affetto provato nei suoi confronti in Italia è rimasto immutato.

Morte Rossano Rubicondi, "si è rotta una vena del polmone". Ora è mistero: l'ultima terrificante testimonianza. Libero Quotidiano il 02 novembre 2021. La morte di Rossano Rubicondi continua a sconvolgere e a restare al centro dell'attenzione. Ovvio, scontato: aveva soltanto 49 anni ed era amatissimo da tutti gli italiani, un'ondata di affetto e cordoglio che era quasi difficile da immaginare. E poi ci sono gli aspetti poco chiari di questa vicenda: si è parlato prima di un melanoma, poi di un tumore al fegato. Per certo, quasi nessuno sapeva delle condizioni di salute dell'ex marito di Ivana Trump, che si è detta "devastata". E nemmeno i suoi genitori, con cui i rapporti non erano buoni, sapevano che cosa gli stesse accadendo, quanto meno con precisione. E ancora, a fare parlare ci sono le indiscrezioni sulle ceneri, contese: parte delle ceneri dovrebbero restare in Italia, parte negli Stati Uniti. Ed in questo contesto, ecco l'ultima straziante testimonianza dei genitori di Rossano Rubicondi, Rosa e Claudio, ospiti di Barbara D'Urso a Pomeriggio 5. I due hanno confermato: "Rossano non aveva raccontato a nessuno che stava male. Nell’ultimo periodo si era trasferito a vivere in una nuova casa. Ci chiamava molto raramente ma non ci ha detto nulla. Era un anno che stava male ma non lo sapevamo", hanno rimarcato. Poi, Rosa e Claudio hanno spiegato di avere avuto notizia della sua morte da un giornalista statunitense, con una telefonata in cui gli ha rivelato cosa sarebbe accaduto: "Si è rotta una vena nel polmone ed è caduto ha sbattuto la testa sulla vasca ed è morto. Così mi hanno detto. Stava nella casa nuova che credo si fosse comprato perché credo lui stava bene economicamente. A noi ci ha telefonato alle 21.45 un signore dicendoci che ci doveva dare una brutta notizia", ha rivelato il padre di Rossano, commosso. Dunque le parole della moglie, uno sfogo doloroso: "Lui era al telefono e ha cominciato a darsi schiaffi in faccia. Ho chiesto che è successo. E lui mi diceva Rossano non c’è più e io non ci credevo. Poi sono cominciate le telefonate e ci è preso un colpo. Io ancora non ci credo. Lui aveva una malattia, ma nessuno sapeva nulla", ha concluso la madre. Insomma, nella morte di Rossano Rubicondi ci sono ancora molti punti oscuri.

Morte Rossano Rubincondi, Cecchi Paone-choc: "Quale cura ha rifiutato. Ha firmato, è uscito dall'ospedale ed è morto da solo". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. La morte di Rossano Rubicondi, avvenuta a New York (pare) per un'embolia polmonare, fa parlare molto il mondo della tv, sconvolto dalla scomparsa di un personaggio amatissimo, a soli 49 anni. Amici, conoscenti e personaggi che hanno avuto modo di incontrarlo adesso raccontano aneddoti e storie. Uno, su tutti, è Alessandro Cecchi Paone, che conosceva molto bene l'ex marito di Ivana Trump. A Storie Italiane, il programma condotto da Eleonora Daniele su Rai 1, Claudio Rubicondi racconta gli ultimi momenti di suo figlio e dice che nessuno sapeva del tumore al fegato. “Siamo solo disperati, lui con me parlava, anche se raramente, ma non mi aveva detto niente del tumore perché era sempre positivo. Rossano lo chiamavo ‘Boccio’ che è il diminutivo di bocciolo. Non era in conflitto con me, ma con il fratello perché cercava di redarguirlo e gli diceva di non fare certe cose. Riccardo era più serio e posato", dice Claudio Rubicondi. Poi, come detto, porta la sua testimonianza anche Alessandro Cecchi Paone, che si trova fisicamente in studio. E dice: “Sapeva da un anno di essere malato, stava seguendo le cure sperimentali perché aveva rifiutato quelle classiche. Ha firmato per uscire dall’ospedale ed è morto da solo”. Intanto, venerdì a NewYork sarà aperta la camera ardente (l'autopsia sul corpo di Rossano è stata fatta nelle scorse ore). Sempre venerdì si svolgeranno i funerali a New York mentre a Milano, sabato, alle 17 sarà celebrata una messa in suffragio nella chiesa di San Giuseppe. Ad organizzare la funzione religiosa è stato Paolo Chiparo, agente e amico di Rossano.  

Rossano Rubicondi, "e se fosse stato tuo figlio?". Il testimone di nozze massacra i genitori: cosa è accaduto dopo la morte. Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. La morte di Rossano Rubicondi è stato uno degli argomenti principali della puntata di oggi 3 novembre di Pomeriggio 5, su Canale 5. La conduttrice Barbara D’Urso da giorni sta cercando di capire meglio, insieme ai suoi ospiti, le reali circostanze in cui l'attore sarebbe deceduto. Secondo alcuni infatti Rubicondi sarebbe morto da solo. Mentre secondo altri Rossano non sarebbe mai stato lasciato da solo dai suoi cari. Per cercare di trovare delle risposte ai tanti interrogativi, la D'Urso ha intervistato Silvio Sardi, testimone di nozze dell'ex naufrago dell'Isola dei Famosi. Sardi ha rivolto delle pesantissime accuse ai genitori di Rubicondi, tanto che la stessa conduttrice è dovuta intervenire per cercare di mantenere un certo equilibrio nel racconto. "Penso che se muore tuo figlio dall’altra parte del mondo, la prima cosa che faresti, da genitore, è prendere un aereo e andare a trovarlo", ha attaccato il caro amico di Rossano. Silvio è davvero deluso e agghiacciato dal comportamento della madre e del padre dell'attore e quindi ha fatto una domanda retorica alla D'Urso. "Se fossero stati i tuoi figli, Barbara, cosa avresti fatto?", ha chiesto. Una domanda che ha sconvolto la conduttrice: "Non voglio neanche pensarci, ma non voglio neanche giudicare il modo in cui una persona vive un lutto".

Da liberoquotidiano.it il 5 novembre 2021. Un'ultima testimonianza drammatica su Rossano Rubicondi, lo showman scomparso a soli 49 anni per una brutta malattia (anche se non è ancora chiare. A parlare, ora, è Silvio Sardi, testimone di nozze di Rubicondi al tempo del matrimonio con Ivana Trump, l'ex moglia (anche) dell'altrettanto ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Sardi rivela quanto accaduto a Pomeriggio 5, il programma di Barbara D'Urso in onda su Canale 5: "Ho saputo all’inizio di questa estate che stava male, l’ho contattato e gli ho detto Vieni in Italia, ti aiuto, combattiamo insieme questa bestia, e lui mi ha risposto con un messaggio su Whatsapp. Ti voglio bene, so che anche tu mi vuoi bene ma sono stanco di combattere, e poi mi ha bloccato. Non ci sentivamo da due anni, lo avevo visto l’ultima volta a settembre 2019 a Venezia, ad una festa". Insomma, una scelta piuttosto estrema: bloccare l'amico su Whatsapp. Quindi, Silvio Sardi rilancia la tesi del melanoma: "All’inizio Rossano aveva sottovalutato la macchia sulla pelle, pensando non fosse nulla di grave. Poi, quando ha saputo di essere al quarto stadio, con metastasi diffuse ovunque, passato un primo momento in cui pensava di farcela, mi aveva scritto che non aveva più voglia di combattere", ribadisce l'ex testimone di nozze. Insomma, un Rubicondi, secondo quanto raccontato, che avrebbe deciso di arrendersi.

Rubicondi sarà cremato, ecco dove andranno le ceneri. Francesco Fredella Il Tempo il 02 novembre 2021. Rossano Rubicondi sarà cremato. Le sue ceneri saranno sparse a Miami (dov'era di casa) e una parte torneranno in Italia. Intanto, sabato a Milano è stata organizzata la messa in suo suffragio, che si terrà a Milano sabato 6 novembre alle 17 presso il Santuario arcivescovile di San Giuseppe. E' stata fortemente voluta da Paolo Chiparo, agente di Rossano e suo amico di vecchia data. Intanto, rompe il silenzio Ivana Trump. Che dice alla rivista americana People: “Sono devastata”. L'ex moglie di Rubicondi è a pezzi. La sua morte, avvenuta a 49 anni, lascia sicuramente un grande vuoto nel mondo dello spettacolo. La prima a dare la notizia con un tweet venerdì sera è Simona Ventura, legatissima a Rubicondi dai tempi dell'Isola dei famosi. Poi, a raffica, tantissimi personaggi della tv: da Eleonora Daniele, che l'aveva ospitato a Il sabato italiano, a Mara Venier. Passando per Milly Carlucci, Barbara d'Urso ed Alfonso Signorini (che annuncia in diretta al Grande Fratello la morte di Rubicondi).  Rossano ad appena 22 anni lascia Roma. Un taglio netto, che sarebbe avvenuto dopo una delusione d'amore (ma l'indiscrezione non viene mai confermata). Bello, alto, sorridente, affascinante: Rubicondi fa il modello, l'attore e poi lo showman in molti locali dei vip. Una località dove è di casa? Saint Tropez. Lì conosce Ivana Trump, ex moglie di Donald (ex presidente degli Stati Uniti d'America, uno degli uomini più potenti al mondo). Rossano lascia Roma a 22 anni, si dice per motivi di cuore: una delusione d'amore. Ma non esistono conferme e neppure smentite. Poi sfila per i più importanti brand fino ad arrivare al cinema. Ma quando conosce l'ex moglie di Donald Trump arriva la popolarità planetaria. Il loro fidanzamento fa parlare tutti e poi le nozze. Il matrimonio viene celebrato dopo sei anni di fidanzamento, nel 2008, nel resort di Mar-a-Lago a Palm Beach. Tre giorni di festeggiamenti, una cifra stellare: 3 milioni di dollari. Dopo un anno la favola finisce, Ivana e Rossano si lasciano. Ma restano comunque legati da un affetto profondo. Rossano partecipa all'Isola dei famosi e riaccende il gossip per un presunto flirt con Belen Rodriguez. L'Italia la frequenta sempre poco: Miami, Saint Moritz e l'America restano la sua seconda casa.

Da leggo.it il 4 novembre 2021. Nuovi particolari emergono a Pomeriggio 5 sugli ultimi istanti di vita di Rossano Rubicondi: dopo la caduta avrebbe provato a chiamare i soccorsi. A comunicarlo l’inviata della trasmissione di Barbara D'Urso in diretta dalla camera ardente di Rubicondi sulla Madison Avenue a New York. Rossano «da solo nel suo appartamento è crollato nella doccia e poi per sei metri ha cercato di trascinarsi verso il telefono per chiamare aiuto» ha raccontato. E se l'autopsia ha confermato che Rossano è morto per un tumore, rimangono ancora molti dubbi sulla sua malattia e sulla possibilità che abbia scelto di curarsi con metodi alternativi. A sollevare perplessità è anche Linda Batista ex di Rubicondi che in collegamento a Pomeriggio 5 si dice incredula: «Non sapevo nulla della sua malattia, sono sconvolta. Non è possibile che abbia rinunciato a curarsi, amava troppo la vita. Mi sembra assurdo perché lo conoscevo bene». Domani alle 12 sempre a Manhattan si celebreranno i funerali in chiesa. Il modello e showman scomparso lo scorso 29 ottobre a 49 anni, aveva espresso la volontà di essere cremato. Le ceneri dovrebbero essere divise a metà tra i genitori di Rossano e l'ex moglie Ivana Trump che «si è presa cura di lui fino alla fine» hanno raccontato gli amici. Per Rubicondi è stata scelta la camera ardente delle celebrità di Hollywood che ha visto le spoglie di star come Rodolfo Valentino, Judy Garland, ma anche della iconica first lady Jackie Kennedy Onassis. 

Da corriere.it il 7 novembre 2021. Durante la trasmissione di Barbara D’Urso, «Pomeriggio Cinque» sono state mandate in onda le parole dell’imprenditore inviate agli amici: «Non voglio più combattere». Tra le trasmissioni che più si sono occupate della morte di Rossano Rubicondi c’è «Pomeriggio 5». Venerdì, il talk condotto da Barbara D’Urso ha mandato in onda alcuni audio dell’ex modello romano, morto a 49 anni per un melanoma, mandati nove giorni prima della sua scomparsa a un amico, in cui rivelava: «Io tutti i giorni vado avanti avanti avanti. Adesso ho fatto 27 operazioni, i punti stanno passando, devo fare un’altra operazione chirurgica, poi un’altra chemio, poi mi prendo una settimana per me e sarà così fino a Natale...». Le condizioni poi sono precipitate, fino alla morte. Secondo altre rivelazioni, sempre nel corso della trasmissione, Rubiconi — ex marito di Ivana Trump — all’inizio della malattia l’avrebbe sottovalutata, pensando solo a una piccola macchia sulla pelle. Un altro amico ha fatto sapere: «Ho saputo all’inizio di questa estate che stava male, l’ho contattato e gli ho detto: “Vieni in Italia, ti aiuto, combattiamo insieme con questa bestia”. Lui mi ha risposto con un messaggio su Whatsapp: “Ti voglio bene, so che anche tu mi vuoi bene, ma sono stanco di combattere”».

QUANTA IPOCRISIA IN TV SULLA SCOMPARSA DI RUBICONDI, AMANTE-CAMERIERE E MARITO A “TEMPO” DI IVANA TRUMP. Diego Della Vega su Il Corriere del Giorno il 7 Novembre 2021. La relazione di Rossano Rubicondi con l’ex-prima moglie di Donald Trump, in realtà tutto è stata fuorchè amorosa, ed in molti hanno dimenticato più di qualcosa a partire dalla Trump che ha affidato una letterina a Mara Venier letta nel corso di “Domenica In”. E’ passato più di qualche anno da quando chi vi scrive scoprì e pubblicò nel 2008 sul settimanale NOVELLA 2000 edita a quel tempo dalla RCS Periodici sotto la brillante direzione giornalistica di Candida Morvillo, la verità sul triangolo sentimentale fra Ivana Trump, Milu Vimo una brillante ed affascinante immobiliarista cubana, naturalizzata americana, che vive Miami e Rossano Rubicondi scomparso prematuramente a 49 anni per un melanoma. La relazione di Rubicondi con l’ex-prima moglie di Donald Trump, in realtà tutto è stata fuorchè amorosa, ed in molti hanno dimenticato più di qualcosa a partire dalla Trump che ha affidato una letterina a Mara Venier letta nel corso di “Domenica In“. Fonti interne allo staff del programma televisivo domenicale di RAIUNO mi riferiscono che in realtà quella lettera sarebbe stata richiesta. Rubicondi venne presentato alla Trump da Massimo Gargia un pierre che viveva fra Parigi dove organizza da circa 40 anni il premio “The Best” (collegato ad un magazine semi-clandestino edito per pochi lettori) che si caratterizza per la presenza di donne stagionate accompagnate da giovani accompagnatori alla ricerca di un trampolino di lancio, o di qualcuno da cui farsi mantenere. Scoprii la verità sulla relazione fra la Trump e Rubicondi che più che un matrimonio vero e proprio si trattava di uno squallido contratto, nel quale il “gigolò” italiano fungeva da autista-accompagnatore, in una cena a Miami con alcuni amici ed Ivana Trump la quale ci rivelò a tavola di aver scoperto la relazione fra Milu Vimo e Rossano Rubicondi grazie al foto-reportage di un investigatore privato di Miami che la miliardaria americana aveva ingaggiato. Ma la rabbia della Trump si scatenò quando all’indomani di una puntata dell’ ISOLA DEI FAMOSI all’epoca trasmessa da RAI DUE, a cui aveva partecipato Rubicondi, in un’ospitata di Simona Ventura e Rossano Rubicondi a “Porta a Porta” il programma televisivo condotto da Bruno Vespa, nel corso del quale l’amante-fidanzato-accompagnatore-autista della Trump aveva fatto delle allusioni abbastanza pesanti sulla sua “eccessiva” vicinanza a Claudia Galanti, e Belen Rodriguez anche loro partecipanti al reality isolano. La Trump aveva visto ed ascoltato “Porta a Porta” su RAI INTERNATIONAL, come si chiamava all’epoca dei fatti il canale satellitare della RAI per gli italiani all’ estero, ed andò su tutte le furie telefonando ad un giornalista mio amico, che oggi dirige il quotidiano che mi ospita in questa ricostruzione della verità, inviandogli tutta la documentazione contrattuale fra la Trump e Rubicondi, e la lettera di licenziamento della Trump che gli comunicò che avrebbe dovuto provvedere ad abbandonare l’appartamento che lo ospitava. Silvio Sardi, testimone delle nozze tra Rubicondi e Ivana Trump ospite in collegamento con Barbara D’Urso a Pomeriggio 5 su Canale5 , ha raccontato il doloroso addio all’amico. “All’inizio Rossano aveva sottovalutato la macchia sulla pelle, pensando non fosse nulla di grave. Poi, quando ha saputo di essere al quarto stadio, con metastasi diffuse ovunque, passato un primo momento in cui pensava di farcela, mi aveva scritto che non aveva più voglia di combattere”. Sardi ha raccontato anche del matrimonio con Ivana Trump che è stata vicina a Rubicondi fino alla fine: “Ho assistito a molte scene imbarazzanti a dir poco, quando eravamo vicini di casa a Manhattan: spesso veniva buttato fuori casa in mutande dalla Trump anche nelle gelide notti di New York, e veniva a dormire a casa mia”. Altro che “Mi sento molto fortunata per aver vissuto con Rossano quasi 20 anni della mia vita”…come ha letto in diretta la Venier oggi pomeriggio, dinnanzi al padre di Rossano Rubicondi che ha spiegato i retroscena del dissidio familiare causati con suo figlio Rossano a cause del mancato invio dall’ America di una somma di denaro che sarebbe servita ai genitori di Rubicondi di poter acquistare una casa a Roma. Nella lettera infatti la Trump parla di eterna amicizia (“friendship“) e non di amore. Ma evidentemente qualcuno oggi pomeriggio pensava solo a fare ascolti televisivi, facendosi affiancare dal solito opinionista a gettone.

Maria Bruno per leggo.it l'8 novembre 2021. A pochi giorni dalla scomparsa di Rossano Rubicondi, a Domenica In, Mara Venier ricorda l'ex modello romano morto a 49 anni per un melanoma. Ospite del programma, il padre Claudio Rubicondi, che da anni non aveva più rapporti col figlio, racconta: «Non ci sentivamo da tanto. A 22 anni è partito per Londra per vari motivi. Non parlava neanche col fratello, c'era gelosia fra loro per varie questioni di famiglia». E rivela: «Gli avevo pagato un mutuo e mi aveva promesso di restituirmi i soldi, ma non l'ha fatto e un giorno gli ho detto: 'Sei un buffone'. Di lì i nostri rapporti sono finiti». In collegamento anche il giornalista Roberto Alessi, amico di Rubicondi, e Roberto Manfrè, un caro amico di Rossano che vive a New York e ha vissuto la malattia di Rubicondi. «Il cancro l'ha consumato in un anno. All'inizio credeva fosse un melanoma benigno, ma non c'è stato un punto di ritorno». E continua: «Ha lottato come una tigre perchè voleva vivere. Era energia pura, diceva sempre in romano: 'Je meno a sto cancro'». Gli ultimi giorni di vita sono stati i più difficili, come riporta Manfrè: «Domenica scorsa ha avuto un principio di infarto. Mi chiamò per dirmi che stava andando in ospedale perchè non riusciva a respirare. Poi non l'ho più sentito». Per ricordare Rossano, l'ex moglie Ivana Trump, con cui lo showman era rimasto in ottimi rapporti anche dopo la fine del matrimonio, ha inviato una lettera a Domenica In dove ha espresso il suo dolore per aver perso un amico, una spalla e un grande amore. «Ivana era sempre presente - rivela Manfrè -. Gli ha organizzato e pagato il funerale, attorno alla salma c'erano 500 rose rosse. È stata bravissima». 

Da liberoquotidiano.it il 18 novembre 2021. Non solo Belen Rodriguez e Rossano Rubicondi hanno sicuramente avuto un flirt, ma quando lui è morto lei non ha speso sui social nemmeno una parola per ricordarlo. Un comportamento quello della showgirl argentina che ha fatto indignare Patrizia De Blanck. Nell’ultimo numero del settimanale Nuovo, la De Blanck ha ricordato l'attore morto recentemente di tumore con il quale anni fa aveva partecipato a l'Isola dei Famosi. In quella occasione, ha raccontato, i due erano diventati amici e lo erano rimasti anche una volta finito il reality show. E in quella famosa edizione dell'Isola c’era anche Belen Rodriguez, prima che diventasse una star. Pare che lei e Rubicondi avessero avuto un flirt in Honduras ma la showgirl sulla morte di Rossano Rubicondi non ha detto nulla. Nessun ricordo, nessun saluto. Per questa ragione la De Blank ha rimproverato quindi Belen: "Non sta a me giudicare, ma almeno un ‘ciao’ il povero Rossano se lo sarebbe meritato…". A meno che, ha proseguito Patrizia, Belen Rodriguez abbia cancellato dalla sua memoria la relazione con Rossano Rubicondi a L’Isola dei Famosi perché all’epoca era fidanzata: "Forse, visto che all’epoca Belen aveva un compagno, ha cancellato dalla memoria il feeling che aveva con Rubicondi…". Ma il flirt c'è stato o no? La De Blanck si è detta convinta che sì, qualcosa tra loro c'è stato dato che tutte le notti si ripeteva una strana coincidenza. "Quando la notte mi svegliavo, era sparito in concomitanza con Belen, della quale subiva certamente il fascino", ha sottolineato Patrizia. La quale ha anche aggiunto di credere che sia stato davvero un grande peccato che quel feeling nato all'Isola tra Belen Rodriguez e Rossano Rubicondi non sia poi stato alimentato dopo che il reality si era concluso. "Forse hanno perso un’occasione di felicità duratura". Del resto Belen non riesce a trovare pace.

·        E’ morto lo chef Alessio Madeddu.

Da open.online il 28 ottobre 2021. Alessio Madeddu, chef diventato famoso per la sua partecipazione alla trasmissione televisiva 4 Ristoranti, è stato ucciso a coltellate a Porto Budello. Il cadavere è stato ritrovato a terra davanti al suo locale Ittiturismo Sabor’ e Mari a Teulada. Secondo le prime informazioni l’uomo sarebbe stato colpito da un’arma da taglio. Indagano i carabinieri di Cagliari e Carbonia. Madeddu nel novembre 2020 è stato arrestato con l’accusa di tentato omicidio per aver aggredito una pattuglia di carabinieri con una ruspa cercando di investirli e danneggiando l’auto di servizio. Madeddu avrebbe reagito così per la richiesta di sottoporsi all’alcoltest. L’uomo è stato successivamente condannato a sei anni e otto mesi di reclusione per duplice tentato omicidio, danneggiamento e resistenza. Ha trascorso cinque mesi in custodia cautelare prima di ottenere i domiciliari. Madeddu, 52 anni, è entrato in gara nel programma di Alessandro Borghese in onda su Sky Uno e Tv8 nel luglio 2018, in una puntata dedicata al “Miglior ristorante da vacanza del sud della Sardegna”. Tre anni prima aveva preso dalla sorella e dal padre la gestione del ristorante Ittiturismo Sabor’ e Mari. È apparso anche sulla tv Ejatv. 

(ANSA il 29 ottobre 2021) - È stato arrestato durante la notte il presunto assassino di Alessio Madeddu, 52 anni, il pescatore e cuoco di Teulada trovato morto ieri davanti al suo ristornate in località Porto Budello a Teulada, sulla costa sud occidentale della Sardegna. In manette a tarda notte è finito un panettiere di Sant'Anna Arresi, Angelo Brancasi, 43 anni, originario di Erice. Come anticipato da L'Unione Sarda, l'uomo avrebbe confessato il delitto raccontando agli investigatori di aver ucciso lo chef perché geloso della moglie che lavorava al ristorante e con la quale la vittima avrebbe avuto una relazione clandestina.

R.L. per "la Stampa" il 29 ottobre 2021. Massacrato di botte e colpito ripetutamente con un'accetta e altri oggetti contundenti. Poi abbandonato agonizzante davanti al suo ristorante in una pozza di sangue. È stata una spedizione punitiva in piena regola a uccidere Alessio Madeddu, 52 anni, pescatore e cuoco di Teulada, nel Sud della Sardegna. Lo chef era diventato famoso per aver partecipato al programma tv condotto dallo chef Alessandro Borghese "4 Ristoranti"". Lo hanno trovato morto ieri mattina davanti al suo locale, Sabor' e Mari, in località Porto Budello a Teulada, sulla costa sud occidentale dell'isola. Un omicidio brutale dai contorni ancora poco chiari su cui i carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Cagliari, i colleghi della Compagnia di Carbonia e gli specialisti del Ris stanno lavorando per dare un nome e un volto agli assassini. Alcuni sospettati sarebbero stati già portati in caserma. «Le indagini stanno procedendo velocemente - fanno sapere i carabinieri - abbiamo delle piste». Il delitto è stato scoperto ieri mattina intorno alle 9 quando la figlia dello chef è andata a trovarlo. Madeddu era agli arresti domiciliari dal marzo scorso, dopo la condanna a sei anni e otto mesi per aver aggredito i carabinieri e aver ribaltato la loro auto utilizzando una ruspa il 2 novembre del 2020. Aveva prima trascorso cinque mesi in carcere a Uta e dopo la sentenza di primo grado gli erano stati concessi gli arresti domiciliari nella casa che è collegata al ristorante. La figlia ha subito chiamato il 112 e a Porto Budello sono arrivati i carabinieri della Compagnia di Carbonia e, poco dopo, i colleghi del Nucleo investigativo e del Ris. Gli specialisti dell'Arma accanto al cadavere hanno recuperato l'accetta utilizzata per il delitto e individuato numerose tracce di sangue, non solo vicino al corpo, ma lungo la stradina che conduce all'ingresso del ristorante. Lungo la strada è stata trovata anche la copertura del cerchio di un'auto che gli assassini potrebbero aver perso durante la fuga. Gli investigatori sono convinti che si sia trattato di una spedizione punitiva messa in atto da persone che Madeddu conosceva. Il movente rimane per il momento ignoto, nemmeno i familiari arrivati sul posto hanno saputo fornire agli investigatori elementi utili. I militari dell'Arma hanno già sentito amici, parenti e conoscenti dello chef per ricostruire le ultime ore di vita. I carabinieri sono coordinati dalla pm Rita Cariello, la stessa che il 2 novembre 2020 fece arrestare lo chef con l'accusa di tentato omicidio per l'aggressione ai carabinieri. Una vicenda singolare: quel giorno il cuoco finì fuori strada con il suo furgone. I carabinieri intervennero per rilevare l'incidente e chiesero a Madeddu di sottoporsi al test con l'etilometro, ma lui rifiutò e gli fu ritirata la patente. Dopo qualche minuto tornò in zona a bordo di una ruspa e travolse l'auto dei carabinieri.

Alberto Pinna per il "Corriere della Sera" il 29 ottobre 2021. Bastonato a sangue, finito a colpi di accetta e infine sfregiato a coltellate sul viso. Almeno tre persone si sono accanite con ferocia su Alessio Madeddu, chef noto per aver partecipato nel 2018 a una puntata del reality «4 Ristoranti» di Alessandro Borghese. Spedizione punitiva, agguato forse per un regolamento di conti: la figlia lo ha trovato riverso nel sentiero davanti al ristorante «Sabor' e mari» (sapore di mare), che si affaccia su un'insenatura di fronte alla torre del Budello a Teulada, sud della Sardegna. Madeddu, personaggio passionale e istintivo, con un passato burrascoso: era stato arrestato per aver tentato di uccidere due carabinieri schiacciandoli con una ruspa, dopo aver distrutto la loro jeep. La condanna a 6 anni e 8 mesi di carcere era stata appena mitigata dalla concessione degli arresti domiciliari che scontava nel suo locale. Il corpo è stato scoperto poco dopo le 9, l'omicidio risale a qualche ora prima, all'alba. Lo chef ha cercato di difendersi, ha lottato, forse ha ferito qualcuno degli aggressori; le tracce della colluttazione sono state repertate dai carabinieri del Ris. Non ci sono testimoni né telecamere di sorveglianza in zona. Ieri sera gli investigatori hanno interrogato a lungo alcuni sospetti: è probabile che nelle prossime ore ci sia qualche fermo. L'ittiturismo di Madeddu è fra la marina di Teulada e il villaggio turistico Nuraghe, disabitato in questa stagione. Il locale è stato gestito per anni dal padre e da una sorella, poi è subentrato lui e lo ha rilanciato. Era pescatore, abile particolarmente nella cattura di calamari e totani, e cuoco. Dopo la partecipazione allo show di Borghese, aveva intensificato le presenze sul web e aveva realizzato trasmissioni su una tv locale, con un format che definiva di «rock, amore e fantasia», cucina naturale («pescato e mangiato») e atmosfera nazional popolare. Immancabilmente concludeva con un invito: «Venite, da me c'è sempre pesce freschissimo e si mangia a scoppio». Accoglieva i clienti con una vistosissima bandana, con la quale celava una calvizie avanzata; scherzava sulla sua barba «da servizi segreti» e «da pirata». «Ma i miei conti - precisava - sono salati solo per chi mi è antipatico». Amava servire i piatti di fritture, calamari e totani appena pescati, accompagnandoli al ritmo di rock. Alla tappa sarda di «4 Ristoranti» Madeddu non aveva vinto e l'aveva presa malissimo, adombrando anche un «complotto»: «Meritavo, sono deluso». Ma l'approdo in tv - ricordano a Teulada - lo aveva esaltato e convinto di essere un protagonista. Un anno fa l'aggressione ai carabinieri o, come minimizzava lui, «la lite». Guidava un furgone, era uscito fuori strada, rifiutò di consegnare i documenti. Balbettava, non volle sottoporsi all'alcoltest e insultò il sottufficiale che gli notificava il ritiro della patente «La pagherete». Ritornò poco dopo alla guida di una ruspa, rovesciò la jeep della pattuglia e tentò di travolgere i militari. Arrestato, fece quattro mesi in carcere. Forse la chiave che può dissipare il mistero dell'agguato sta proprio in quei mesi e in quelle persone conosciute da detenuto.

(ANSA il 29 ottobre 2021) - È stato arrestato durante la notte il presunto assassino di Alessio Madeddu, 52 anni, il pescatore e cuoco di Teulada trovato morto ieri davanti al suo ristornate in località Porto Budello a Teulada, sulla costa sud occidentale della Sardegna. In manette a tarda notte è finito un panettiere di Sant'Anna Arresi, Angelo Brancasi, 43 anni, originario di Erice. Come anticipato da L'Unione Sarda, l'uomo avrebbe confessato il delitto raccontando agli investigatori di aver ucciso lo chef perché geloso della moglie che lavorava al ristorante e con la quale la vittima avrebbe avuto una relazione clandestina.

R.L. per "la Stampa" il 29 ottobre 2021. Massacrato di botte e colpito ripetutamente con un'accetta e altri oggetti contundenti. Poi abbandonato agonizzante davanti al suo ristorante in una pozza di sangue. È stata una spedizione punitiva in piena regola a uccidere Alessio Madeddu, 52 anni, pescatore e cuoco di Teulada, nel Sud della Sardegna. Lo chef era diventato famoso per aver partecipato al programma tv condotto dallo chef Alessandro Borghese "4 Ristoranti"". Lo hanno trovato morto ieri mattina davanti al suo locale, Sabor' e Mari, in località Porto Budello a Teulada, sulla costa sud occidentale dell'isola. Un omicidio brutale dai contorni ancora poco chiari su cui i carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Cagliari, i colleghi della Compagnia di Carbonia e gli specialisti del Ris stanno lavorando per dare un nome e un volto agli assassini. Alcuni sospettati sarebbero stati già portati in caserma. «Le indagini stanno procedendo velocemente - fanno sapere i carabinieri - abbiamo delle piste». Il delitto è stato scoperto ieri mattina intorno alle 9 quando la figlia dello chef è andata a trovarlo. Madeddu era agli arresti domiciliari dal marzo scorso, dopo la condanna a sei anni e otto mesi per aver aggredito i carabinieri e aver ribaltato la loro auto utilizzando una ruspa il 2 novembre del 2020. Aveva prima trascorso cinque mesi in carcere a Uta e dopo la sentenza di primo grado gli erano stati concessi gli arresti domiciliari nella casa che è collegata al ristorante. La figlia ha subito chiamato il 112 e a Porto Budello sono arrivati i carabinieri della Compagnia di Carbonia e, poco dopo, i colleghi del Nucleo investigativo e del Ris. Gli specialisti dell'Arma accanto al cadavere hanno recuperato l'accetta utilizzata per il delitto e individuato numerose tracce di sangue, non solo vicino al corpo, ma lungo la stradina che conduce all'ingresso del ristorante. Lungo la strada è stata trovata anche la copertura del cerchio di un'auto che gli assassini potrebbero aver perso durante la fuga. Gli investigatori sono convinti che si sia trattato di una spedizione punitiva messa in atto da persone che Madeddu conosceva. Il movente rimane per il momento ignoto, nemmeno i familiari arrivati sul posto hanno saputo fornire agli investigatori elementi utili. I militari dell'Arma hanno già sentito amici, parenti e conoscenti dello chef per ricostruire le ultime ore di vita. I carabinieri sono coordinati dalla pm Rita Cariello, la stessa che il 2 novembre 2020 fece arrestare lo chef con l'accusa di tentato omicidio per l'aggressione ai carabinieri. Una vicenda singolare: quel giorno il cuoco finì fuori strada con il suo furgone. I carabinieri intervennero per rilevare l'incidente e chiesero a Madeddu di sottoporsi al test con l'etilometro, ma lui rifiutò e gli fu ritirata la patente. Dopo qualche minuto tornò in zona a bordo di una ruspa e travolse l'auto dei carabinieri.

Alberto Pinna per il "Corriere della Sera" il 29 ottobre 2021. Bastonato a sangue, finito a colpi di accetta e infine sfregiato a coltellate sul viso. Almeno tre persone si sono accanite con ferocia su Alessio Madeddu, chef noto per aver partecipato nel 2018 a una puntata del reality «4 Ristoranti» di Alessandro Borghese. Spedizione punitiva, agguato forse per un regolamento di conti: la figlia lo ha trovato riverso nel sentiero davanti al ristorante «Sabor' e mari» (sapore di mare), che si affaccia su un'insenatura di fronte alla torre del Budello a Teulada, sud della Sardegna. Madeddu, personaggio passionale e istintivo, con un passato burrascoso: era stato arrestato per aver tentato di uccidere due carabinieri schiacciandoli con una ruspa, dopo aver distrutto la loro jeep. La condanna a 6 anni e 8 mesi di carcere era stata appena mitigata dalla concessione degli arresti domiciliari che scontava nel suo locale. Il corpo è stato scoperto poco dopo le 9, l'omicidio risale a qualche ora prima, all'alba. Lo chef ha cercato di difendersi, ha lottato, forse ha ferito qualcuno degli aggressori; le tracce della colluttazione sono state repertate dai carabinieri del Ris. Non ci sono testimoni né telecamere di sorveglianza in zona. Ieri sera gli investigatori hanno interrogato a lungo alcuni sospetti: è probabile che nelle prossime ore ci sia qualche fermo. L'ittiturismo di Madeddu è fra la marina di Teulada e il villaggio turistico Nuraghe, disabitato in questa stagione. Il locale è stato gestito per anni dal padre e da una sorella, poi è subentrato lui e lo ha rilanciato. Era pescatore, abile particolarmente nella cattura di calamari e totani, e cuoco. Dopo la partecipazione allo show di Borghese, aveva intensificato le presenze sul web e aveva realizzato trasmissioni su una tv locale, con un format che definiva di «rock, amore e fantasia», cucina naturale («pescato e mangiato») e atmosfera nazional popolare. Immancabilmente concludeva con un invito: «Venite, da me c'è sempre pesce freschissimo e si mangia a scoppio». Accoglieva i clienti con una vistosissima bandana, con la quale celava una calvizie avanzata; scherzava sulla sua barba «da servizi segreti» e «da pirata». «Ma i miei conti - precisava - sono salati solo per chi mi è antipatico». Amava servire i piatti di fritture, calamari e totani appena pescati, accompagnandoli al ritmo di rock. Alla tappa sarda di «4 Ristoranti» Madeddu non aveva vinto e l'aveva presa malissimo, adombrando anche un «complotto»: «Meritavo, sono deluso». Ma l'approdo in tv - ricordano a Teulada - lo aveva esaltato e convinto di essere un protagonista. Un anno fa l'aggressione ai carabinieri o, come minimizzava lui, «la lite». Guidava un furgone, era uscito fuori strada, rifiutò di consegnare i documenti. Balbettava, non volle sottoporsi all'alcoltest e insultò il sottufficiale che gli notificava il ritiro della patente «La pagherete». Ritornò poco dopo alla guida di una ruspa, rovesciò la jeep della pattuglia e tentò di travolgere i militari. Arrestato, fece quattro mesi in carcere. Forse la chiave che può dissipare il mistero dell'agguato sta proprio in quei mesi e in quelle persone conosciute da detenuto.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 30 ottobre 2021. Aveva scoperto che la moglie aveva una relazione con Alessio Madeddu, il cuoco - pescatore 52enne di Teulada, diventato un volto noto grazie alla trasmissione tv dello chef Alessandro Borghese, «4 Ristoranti». Per questo motivo Angelo Brancasi, 43 anni, panettiere di Sant' Anna Arresi, nel sud Sardegna, ha accoltellato ripetutamente Madeddu. Il corpo della vittima è stato trovato giovedì mattina davanti al suo ristorante Sabor' e Mari, in località Porto Budello a Teulada. È stato il panettiere a confessare il delitto ai carabinieri. Il 43enne è stato arrestato per omicidio volontario e adesso si trova in una cella del carcere di Uta. I carabinieri sono riusciti in meno di 24 ore a dare un nome e un volto all'assassino. Appena arrivati sul posto i militari dell'Arma si sono trovati davanti agli occhi una scena terribile: il cadavere del ristoratore davanti all'ingresso del locale, in una pozza di sangue, a pochi metri di distanza un'accetta e lungo tutta la stradina che conduce al locale tracce ematiche. Uno scenario che ha spinto gli investigatori verso l'ipotesi di una spedizione punitiva compiuta da più persone. Ma sono bastate poche ore e un lavoro certosino da parte dei carabinieri per individuare la pista giusta. L'attenzione, anche grazie alle dichiarazioni dei familiari e degli amici della vittima, si è concentrata sulle persone che lavoravano con lo chef e su una sua dipendente stagionale con la quale aveva avuto una relazione. Gli investigatori hanno puntato i riflettori sul marito della donna, sul panettiere conosciuto in paese come persona dedita al lavoro e alla famiglia. Lo hanno rintracciato nella sua abitazione e portato in caserma per interrogarlo. Inizialmente Brancasi non ha detto nulla per ore, poi in piena notte è crollato raccontando ogni cosa. Il delitto, secondo quanto ricostruito dal panettiere, è avvenuto intorno alle 22 di mercoledì. Brancasi ha raggiunto Porto Budello a bordo della sua auto. Ha bussato alla porta del ristorante per parlare con lo chef. I due hanno iniziato a litigare, ma la discussione è presto degenerata. Il panettiere avrebbe a quel punto estratto dalla tasca il coltello che aveva portato con sé, colpendo ripetutamente Madeddu che ha provato a difendersi usando l'accetta poi trovata vicino al suo cadavere e a fuggire. Durante queste fasi, Brancasi sarebbe anche salito a bordo della propria auto, travolgendo lo chef che, per difendersi, gli ha lanciato contro una pietra, sfondando uno dei vetri. Alla fine Madeddu è crollato a terra privo di vita. Il panettiere si è allontanato a tutta velocità dalla zona ed è stato rintracciato nel pomeriggio nella sua abitazione. Ad inchiodarlo ci sono anche le telecamere della zona e del ristornate che avrebbero ripreso alcune fasi dell'omicidio.

Chef ucciso, il killer ha confessato l’omicidio. Valentina Dardari il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. L’assassino, un panettiere, ha raccontato di aver ucciso Madeddu a colpi di accetta per motivi passionali. Nella notte, dopo neanche 24 ore dall’omicidio, è arrivata la confessione del killer dello chef 51enne Alessio Madeddu, ritrovato senza vita nella mattinata di ieri, giovedì 28 ottobre. A scoprire il cadavere era stata la figlia che aveva rinvenuto il corpo del padre di fronte al suo locale “Sabor’e Mari”, a Porto Budello, a Teulada, in provincia di Cagliari, nel sud della Sardegna.

Ucciso per motivi passionali

Ad ammazzare il ristoratore, prima picchiato e poi finito a colpi di accetta, sarebbe stato Angelo Brancasi, panettiere 43enne di Sant’Anna Arresi. L’uomo, davanti al pm Rita Cariello, avrebbe confessato l’omicidio scaturito per motivi passionali. Come riporta L’Unione Sarda il killer avrebbe attirato la sua vittima fuori dalla dependance in cui Madeddu si trovava gli arresti domiciliari in seguito a una condanna per un duplice tentato omicidio. Sul vialetto, una volta trovatosi davanti a Madeddu, lo avrebbe inizialmente ferito, per poi finirlo con dei fendenti mortali. Lo chef avrebbe cercato di difendersi tentando di rientrare in casa, ma non sarebbe riuscito a sottrarsi a quella furia omicida. Dopo la confessione Brancasi, difeso dall’avvocato Roberto Zanda, è stato trasferito nella Casa circondariale di Cagliari - Uta “E. Scalas”. Il panettiere avrebbe raccontato agli investigatori di aver ucciso lo chef perché geloso della moglie che lavorava al ristorante e con la quale la vittima avrebbe avuto una relazione clandestina. Intanto, secondo quanto riportato dal quotidiano sardo, gli investigatori hanno acquisito i filmati ripresi dalle telecamere di sicurezza utilizzate dallo chef, noto anche per la sua partecipazione negli anni passati al programma di Alessandro Borghese “4 ristoranti”. L’indagine degli inquirenti prosegue per capire se il killer abbia avuto dei complici che lo hanno aiutato a vendicarsi della vittima.

Lo chef era ai domiciliari

Madeddu si trovava agli arresti domiciliari perché il 2 novembre dello scorso anno aveva ribaltato una pattuglia dei carabinieri con una ruspa, dopo che i militari gli avevano imposto l’alcol test. Lo chef aveva reagito alla richiesta delle forze dell'ordine speronando l’auto dei militari alla guida di una ruspa, che aveva recuperato a casa, per poi tornare sul luogo del posto di blocco e aggredire la pattuglia. Aveva quindi passato circa 5 mesi di custodia cautelare in carcere e, dopo la condanna a 6 anni e 8 mesi di reclusione arrivata lo scorso marzo, all’uomo erano stati concessi gli arresti domiciliari.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

·        E’ morta la modella Ivy Nicholson.

Marco Molendini per Dagospia il 27 ottobre 2021. Planò dal Bronx nell'Italia dei primi anni Cinquanta, Ivy Nicholson. Alta, occhi verdi, l'aria languida e intraprendente fece strage di sarti (allora non si chiamavano ancora stilisti), principi e intellettuali. A chiamarla era stato Emilio Pucci, la invitò a Capri per la sua boutique alla Canzone del mare e Ivy spopolò dovunque. Girava nelle case di moda, a via Veneto, a via Margutta. Alla sua corte aristocratici della prima dolce vita come Pepito Pignatelli, Dado Ruspoli, Franco Mancinelli, intellettuali come Longanesi e Moravia, perfino registi come Luchino Visconti che la prese per Senso e Citto Maselli per Gli sbandati. Una meteora che faceva girare la testa. Poi Ivy prese il volo per la dolce Francia, la Parigi di Christian Dior e Givenchy, finì sulle copertine di Harper's Bazar, Elle, Vogue: la prima top model di fama mondiale. Corteggiatissima, si divertiva senza misura. Amava la bella vita, gli ozi e vizi, gli uomini dal sangue blù (alla fine ne ha sposato uno, il visconte Regis DePoleon), la pittura. Poi, dopo una decina d'anni d'Europa, tornò a casa ancora bella e affermata, cittadina della New York glamour venne pescata da Andy Warhol che la scritturò nella sua Factory e la usò per molti dei suoi film sperimentali e azzardati, Batman Dracula, il selvaggio John and Ivy, lo sterminato Fours (25 ore di filmato), l'eroticissimo Couch. Erano ancora gli anni 60, quelli sempre glamour ma sfrenati, ribelli, anche pieni di insidie. E Ivy ne pagò le conseguenze, perdendo le coordinate della sua vita in una discesa agli inferi, fra alcol e droghe, durata un bel po' di anni. Letteralmente scomparsa, inghiottita nella città che non dorme mai, finché un giorno, alla fine degli anni 80, un fotografo non si incuriosisce per una bag lady, una barbona, che vive su un marciapiedi di San Francisco. Il suo viso segnato rivela un'antica bellezza, sia pure devastata. Il fotografo scatta delle immagini, le porta in redazione al San Francisco Chronicle e qualcuno riconosce quella donna perduta. Un giornalista corre a cercarla, la ritrova seduta accanto a un falò e con un carrello di supermarket dove conserva una cartellina con delle vecchie foto e una scatola di latta con una pellicola: moda e cinema, la sua storia. Ivy Nicholson viene ritrovata così. Ma la vita ormai è in gran parte passata. Non le resta che vivere di ricordi. Non è più una ragazza strepitosa, è una donna segnata dalla vita. Ma si riprende, va in giro partecipando ai concerti della band del figlio Gunther, anche l'altro figlio Darius (avuto da Regis DePoleon) ha una band rock, The Aristocats Eurotrash, un gruppo formato da principi, conti, comunque nobili. Gira un film warholiano di 45 minuti dal titolo significativo, The dead life. Va a vivere nel Montana. L'ho ritrovata qualche mese fa, trasferita a Los Angeles in una casa ricovero: «Non posso più camminare», mi ha raccontato con la sua voce roca ma vivace. L'avevo chiamata per un libro, che poi ho finito di scrivere, sulle mie passioni, Roma, il jazz, il mio caro amico Pepito Pignatelli, e lei si era come risvegliata, felice di ricordare i tempi perduti. Eravamo rimasti che le avrei spedito il libro appena uscito. E' morta prima, a 88 anni vissuti intensamente e liberamente. Anche troppo. A darne notizia ieri su Facebook il figlio Darius.

·        E’ morta l’attrice e doppiatrice Ludovica Modugno.

Da “Ansa” il 27 ottobre 2021. La sua voce indimenticabile l' ha prestata negli anni ad attrice come Glenn Close, Meryl Streep, Charlotte Rampling ed Emma Thompson. Il suo volto era noto a pochi ma ha lavorato nel cinema e per la tv per tutta la sua vita, nel vero senso della parola. Ludovica Modugno, morta oggi a Roma a 72 anni, è stata un'attrice e doppiatrice importante nel panorama artistico italiano. Aveva iniziato a lavorare a 4 anni nel primo romanzo sceneggiato prodotto e trasmesso in Italia, Il dottor Antonio. Il suo primo doppiaggio è arrivato poco dopo quando dette la voce al bambino protagonista dell'indimenticabile quanto tragico film 'Marcellino pane e vino' . In teatro a soli 7 anni interpretò Alcesti di Euripide, con la regia di Guido Salvini. Parteciperà poi agli sceneggiati televisivi più seguiti degli anni sessanta fra cui: Cime tempestose, Ricordo la mamma, Romanzo di un maestro, Il novelliere e ne La Pisana, nella parte della protagonista bambina. Nel 1978 fonda insieme a Gigi Angelillo, che diventerà suo marito, la compagnia teatrale "L'albero", con la quale produce e interpreta numerosi spettacoli, tra cui Esercizi di stile di Raymond Queneau per la regia di Jacques Seiler, che vince il premio "Biglietto d'oro" del 1991. Per le rappresentazioni di L'una e l'altra e di La badante, entrambe con regia di Cesare Lievi riceve nel 2008 il premio come migliore attrice teatrale italiana dell'Associazione Nazionale Critici di Teatro.

Morta Ludovica Modugno, doppiatrice e attrice di "Quo vado?" Novella Toloni il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'artista, voce e volto di numerosi personaggi, è stata protagonista del teatro e del cinema italiano dall'età di 7 anni. L'addio di Ambra Angiolini: "Vola Ludo, mi mancherai". Si è spenta all'età di 72 anni Ludovica Modugno popolare attrice e doppiatrice italiana. L'artista lottava da tempo contro un male che l'aveva colpita all'improvviso e che l'ha strappata all'affetto dei suoi cari a pochi mesi dal suo 73esimo compleanno. L'annuncio della sua scomparsa ha scosso il mondo del teatro e del cinema, dove Ludovica è stata protagonista sin da piccola. Voce, personaggio e interprete di grande carisma, Ludovica Modugno esordì nel mondo dello spettacolo come doppiatrice all'età di 7 anni. Sua la voce del bambino protagonista del celebre film del 1956 "Marcellino pane e vino". Da quel momento la Modugno non si fermò più, alternando la passione per il doppiaggio, all'amore per la recitazione sia sui palchi teatrali sia davanti alla macchina da presa. Negli anni '60 fu protagonista di numerose telenovele come "Cime tempestose", "Ricordo la mamma, "Il novelliere" e "La Pisana". Serie televisive che l'hanno vista protagonista anche nella storia televisiva più recente con la partecipazione a "Il maresciallo Rocca", "Una donna per amico" e "Edda". Sul grande schermo esordì come attrice nel 1969 con la partecipazione a "Italiani! È severamente proibito servirsi della toilette durante le fermate". Ma tutti la ricordano per le interpretazioni in "Notti Magiche" di Paolo Virzì, "Il grande passo" e per la collaborazione con Checco Zalone in due delle sue pellicole più ironiche "Cado dalle nubi" e "Quo vado?", dove vestiva i panni della mamma del protagonista. Lunghissimo l'elenco delle pièce teatrali in cui Ludovica Modugno seppe regalare interpretazioni profonde ma anche ironiche. L'ultima, ne "Il nodo" di Johnna Adamas, la portò sul palco nel 2021 al fianco di Ambra Angiolini, che oggi l'ha salutata così sui social network: "Vola Ludo… l’hai sempre fatto anche sulla terra ….. mi mancherai". Ludovica Modugno non era solo attrice ma anche voce, doppiatrice di alcune delle più grandi attrici internazionali come Glenn Close, Elizabeth Taylor e Meryl Streep e di personaggi di serie animate e cartoon come Crudelia De Mon. Amici, parenti e colleghi ora la piango e la salutano ricordando il suo essere gioiosa e travolgente, conservando la memoria di una donna assetata di vita, la cui voce non potrà mai essere dimenticata.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose friv

·        E’ morto l’industriale Renzo Salvarani.

Morto Renzo Salvarani, il mito italiano delle cucine componibili. Rita Querzè Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2021. Apparteneva al ristretto club degli imprenditori di razza che hanno fatto rinascere l’Italia del dopoguerra. Renzo Salvarani, il partigiano Neve, è morto il 18 ottobre scorso a 95 anni. Il suo nome resta indissolubilmente legato a quello dell’impresa di famiglia produttrice di cucine da lui fondata nel 1939 a Baganzola, nei pressi di Parma. Renzo Salvarani veniva da una famiglia contadina di umilissime origini, primo di sette fratelli. Quando il padre emigrò in Argentina, Renzo si trovò nel ruolo di capofamiglia. A 13 anni cominciò con i primi lavori di falegnameria e nel dopoguerra si mise in proprio insieme con il fratello Emilio. Lo sviluppo dell’azienda fu una cavalcata senza soste. Il marchio Salvarani ha accompagnato il rinnovamento delle case degli italiani negli anni 60, con numerose innovazioni, la più importante l’introduzione del piano in un unico blocco. A Renzo Salvarani tutti riconoscono la visione e la capacità di intuire dove stava andando il mondo. Come quando sponsorizzò il primo concerto di un gruppo sconosciuto al Vigorelli di Milano. «Credetemi, faranno strada». Si trattava dei Beatles. In qualche modo Renzo Salvarani innovò anche nel ciclismo. La sua squadra diventò famosa per la presenza di campioni come Gimondi e Adorni. Nel ’65 vinse sia il Giro d’Italia (con Adorni), sia il Tour de France (con Gimondi). Oggi la Salvarani non esiste più. Dopo la cessione nel ‘79 a una società finanziaria, la Industrialfin, il marchio imboccò la strada del declino. Prima di cedere le loro quote i fratelli Salvarani misero a disposizione della nuova gestione le proprie risorse finanziarie e le garanzie fideiussorie personali.

·        E’ morto il sarto Ciro Paone.

Addio a Ciro Paone, l'uomo Kiton che ha esportato la sartoria napoletana nel mondo. Daniela Mastromattei su Libero Quotidiano il 27 ottobre 2021

Daniela Mastromattei è caposervizio di Libero, dove si occupa di attualità, costume, moda e animali. Ha cominciato a fare la giornalista al quotidiano Il Messaggero, dopo un periodo a Mediaset ha preferito tornare alla carta stampata

È morto a Napoli Ciro Paone, patron di Kiton, tra le aziende di moda maschile più famose al mondo. Paone «si è serenamente spento nella sua casa di Napoli all’età di 88 anni». Ad annunciarlo le figlie e i nipoti, «immersi in un immenso dolore». Napoletano, Paone aveva fondato Kiton ad Arzano nel 1968.  Un uomo, un padre, un visionario, un genio, un mito.  «Le maestranze dei 7 opifici Kiton sparsi in tutta l’Italia sono rimasti attoniti e hanno già raggiunto il capezzale di un uomo che per tutti rappresentava più di un imprenditore. Da sempre accoglieva i dipendenti con passione stimolandone la grinta e la voglia di lavorare sempre con il massimo della cura e dell’amore», si legge in una nota del gruppo. Visionario, instancabile, il motto con il quale Paone ha guidato la sua azienda è stato “Il meglio del meglio più uno”. La sua capacità di essere visionario lo ha portato sin dagli anni ’60 ad intuire che ci sarebbe sempre stato un piccolo esercito di “filosofi dell’eleganza assoluta”. Con Kiton, il cui nome deriva da “chitone”, la tunica cerimoniale che gli antichi Greci indossavano per pregare gli Dei dell’Olimpo, Ciro Paone ha costruito quello che oggi l’azienda rappresenta nel mondo impiegando oltre 750 persone e con più di 50 monomarca. L’azienda, oggi guidata dl ceo Antonio De Matteis, ricorda Paone come «un uomo di grandi visioni» che «ha sempre creduto e contribuito alla crescita del brand anche nei momenti più difficili». Nel 1999 l’allora Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi nominò Paone Cavaliere del Lavoro. «L’attitudine da padre di famiglia è stato il perno intorno al quale ha costruito tutto, tanto che era considerato come tale dai dipendenti ai quali è sempre stato vicino come se facessero parte del suo nucleo familiare e supportandoli personalmente nei loro momenti difficili. Un uomo, un padre, un visionario, un genio, un mito» rimarca ancora il gruppo.

Maria Teresa Veneziani per il "Corriere della Sera" il 28 ottobre 2021. Il suo essere visionario lo portò a immaginare che ovunque nel mondo ci sarebbero sempre stati filosofi del bello e del ben fatto. E su quelli ha puntato, sin dagli Anni '60, quando nella sua Napoli i sarti presenti a ogni angolo cominciavano ad arrendersi all'arrivo della produzione industriale con il prêt-à-porter. L'Italia perde un grande protagonista: ieri è morto a 88 anni Ciro Paone, imprenditore carismatico, fondatore di Kiton, brand di sartoria partenopea diventata di riferimento per gli elegantoni del pianeta. Paone aveva 17 anni quando seguì lo zio commerciante di tessuti in Venezuela: al suo ritorno in Italia decise di fare il salto aprendo una piccola sartoria ad Arzano, alle porte del capoluogo campano, dove creare «abiti speciali e mai monotoni», portando avanti il gusto insito nell'alta borghesia napoletana. Oggi vanta cinque siti produttivi in Italia, 800 dipendenti, 54 boutique monomarca e 73 Paesi serviti. Era un imprenditore creativo, Ciro, amatissimo in Italia e all'estero, stimato per la sua forza, la simpatia. Non si è mai lasciato piegare dalla malattia, applauditissimo quando nel 2017 al Pitti di Firenze si è presentato fiero in carrozzina per ritirare il premio alla carriera. Meritatissimo, perché a Paone si deve il merito di aver saputo nobilitare la sua terra con l'eccellenza massima del Made in Italy. L'asticella posta sempre più su, nei tessuti e nella fattura dei completi, realizzati a mano, in ogni passaggio. Una visione dell'eleganza che ha catturato da Gianni Agnelli ai duchi di Windsor alle famiglie reali, oltre ai manager dell'alta finanza. Fino all'ultimo è rimasto un modello per gli eredi che portano avanti il suo impero e lo piangono: dai figli Maria Giovanna, Raffaella e Antonio, ai nipoti Antonio De Matteis e Silverio Paone con le nuove generazioni. Era il 1956 quando Paone, commerciante di tessuti a piazza Mercato, nella Napoli caratterizzata dai suoi sarti, intuì che il mondo stava cambiando. Creò il suo laboratorio a Secondigliano per una piccola produzione di cappotti con l'etichetta CiPa, che nel 1968 ribattezzò Kiton, nome ispirato dalla toga degli aristocratici greci, più adatto al mercato internazionale. E oggi sono oltre 73 gli show-room di rappresentanza in tutto il mondo, 5 solo in Italia. Con l'idea di proiettare sempre la tradizione nel futuro, nel 2013 il brand acquistò l'ex Palazzo Ferré di via Pontaccio, a Milano, 4.000 mq di spazio diventati il cuore dell'azienda, cui è seguito lo stabile di New York, sulla 5th Avenue e l'inaugurazione di un punto vendita nella 54ma Strada. Non più soltanto abiti maschili, ma anche una linea femminile affidata alla figlia Maria Giovanna; e poi le scarpe, anche queste realizzate a mano, e gli occhiali. Nel 1999 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi lo nominò Cavaliere del Lavoro, onorificenza di cui Paone andava fiero. Tanti i messaggi di cordoglio alla famiglia, che ha dato la notizia della scomparsa: «Le maestranze dei sette opifici sparsi in tutta Italia - si legge - hanno già raggiunto il capezzale di un uomo che per tutti rappresentava più di un imprenditore. Accoglieva i dipendenti con passione, stimolandone la grinta e la voglia di lavorare con il massimo della cura e dell'amore, ricordando il motto con il quale ha guidato l'azienda: "Il meglio del meglio più uno"». «Ha coniugato genio e tenacia dando lustro alla nostra cittadina nel mondo», scrive la sindaca di Arzano, Cinzia Aruta. Il presidente della regione Vincenzo De Luca sottolinea che i capi di Kiton sono «inconfondibili per materiali, taglio, dettagli». Gaetano Manfredi, neo-sindaco di Napoli, ricorda l'eterna gratitudine della città: «I suoi abiti continueranno a portare in alto nel mondo l'eccellenza napoletana». E Aurelio De Laurentiis a nome del Napoli lo ricorda come «stratega, maestro che ha portato in tutto il mondo l'estro sartoriale dei napoletani». 

·        E’ morta Carla Fracci.

Carla Fracci è morta, Italia in lutto: addio alla étoile della Scala che ha stregato il mondo. Libero Quotidiano il  27 maggio 2021. È morta Carla Fracci, storica étoile del Teatro della Scala e leggenda della danza mondiale. Aveva 84 anni ed era stata ricoverata mercoledì in gravi condizioni. Aveva un tumore contro cui lottava da tempo. In carriera ha ballato con tutti i più grandi, da Rudolf Nureyev a Vassiliev passando per Baryshnikov e Bortoluzzi. Il 20 agosto la Fracci avrebbe compiuto 85 anni. L'annuncio del ricovero è stato dato in diretta anche da Eleonora Daniele a Storie Italiane, in onda su Rai Uno, dove il giornalista Roberto Alessi ci ha tenuto a specificare che l’ha vista di recente in ottima forma. Legata indissolubilmente alla Scala di Milano, la Fracci nella sua lunga carriera ha portato il suo elegante talento sui palchi di tutto il mondo.  Tra le sue interpretazioni memorabili i ruoli romantici e drammatici, che l'hanno resa una stella in tutto il mondo. Con la sua grazia ha saputo dare forma e spessore a personaggi femminili memorabili come Giselle, La Sylphide, Giulietta, Swanilda, Francesca da Rimini e Medea. Ha danzato coi più illustri partner del mondo della danza: dai ballerini russi Rudolf Nureyev e Vladimir Vassiliev, passando per Paolo Bortoluzzi, fino ai più giovani Massimo Murru e Roberto Bolle. Di umili origini, il padre era alpino e la madre operaia, Carla con il suo talento cristallino conquistò i teatri più importanti del mondo fino ad essere eletta nel 1981 "prima ballerina assoluta" dal New York Times.

Da video.corriere.it il 27 maggio 2021. Carla Fracci è morta a Milano a 84 anni. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni. L’etoile della Scala è stata una delle ballerine più importanti al mondo. Nata nel 1936 a Milano, nel capoluogo lombardo ha costruito la parte centrale della propria carriera artistica studiando nella scuola di ballo del teatro alla Scala, del quale poi è diventata etoile. Ha danzato con i più illustri partner della scena mondiale: da Nureyev a Vassiliev, da Baryshnikov a Bortoluzzi, da Murru a Bolle. Nel 2016 venne al Corriere della Sera dove scherzò sull‘imitazione che le fece Virginia Raffaele al festival di Sanremo. «Dopo che quella imitazione è andata in onda ho ricevuto decine di telefonate anche dall’estero. E in molti mi hanno fermata per strada. Tutti sono impazziti nel vedermi attraverso Virginia Raffaele a Sanremo 2016» raccontò Fracci prima di improvvisare qualche passo di danza.

Da ilgiorno.it il 27 maggio 2021. "Non mi sono assolutamente offesa, anzi. L'ho sentito come un omaggio". Già, un omaggio. Perché Carla Fracci non se l'era mai presa per quell'imitazione che Virginia Raffaele aveva fatto di lei e che aveva portato addirittura sul palco del Festival di Sanremo. "Non sapevo che Virginia avrebbe fatto la mia imitazione, mi hanno telefonato chiedendomi se fossi a Sanremo e invece ero a casa dei miei nipoti" aveva raccontato col sorriso. Un sorriso a mezza bocca, mai sguaiato. Perché Carla Fracci non era sguaiata. Era in punta di piedi. Come tutta la sua vita. Come tutta la sua arte. E l'imitazione di Virginia Raffaele, sempre messa in scena con grande rispetto e ed eleganza. "Lei è davvero stupenda. E' una ragazza che amo molto" aveva commentato Carla Fracci. Che da "divina" con quell'imitazione è diventata una delle icone pop per eccellenza. Un'icona che prima di diventare popolare era il simbolo di disciplina, di arte anche un po' elitaria e che invece anche grazie alle imitazioni di Virginia Raffaele ha spalancato a Carla Fracci anche le porte di programmi decisamente popolari come Amici. La stella della danza classica mondiale, infatti, era stata ospite del talent show di Canale 5 condotto da Maria De Filippi e questo l'aveva fatta conoscere anche alle giovanissime generazioni di spettatori. Oltre che fatto brillare gli occhi ai ballerini che avevano la possibilità in quel momento di ballare davanti a lei. Perché Carla Fracci è sempre stata un mito assoluto. E le imitazioni di Virginia Raffaele prima e la sua reazione affabile e gioviale poi ne danno conto. Commosso il ricordo della stessa Virginia Raffaele su Instagram: ""Stamattina mi hanno scritto che non stavi bene, e allora ti ho subito cercata, ti ho scritto un messaggio su what’s up, lo usavamo sempre ed eri diventata bravissima anche con le emoticon. Poi mi è arrivata la notizia. Non ho fatto in tempo. Non so bene descriverti cosa provo, a parte un sincero dolore per la perdita dell’artista che sei e che sarai sempre. Ma c’è qualcosa in più, qualcosa di personale. Ho avuto la fortuna e l’onore di esserti “amica” in questi ultimi anni, grazie alla tua grande autoironia, alla tua disponibilità, alla tua educazione e al tuo amore per la danza e per lo spettacolo. Non dimenticherò mai quando abbiamo ballato insieme, ma soprattutto non dimenticherò mai la tua dedizione e serietà anche nel fare una cosa buffa, la tua attenzione ai dettagli, la ricerca della perfezione, la tua educazione e dolcezza, il tuo rigore che sapeva essere, incredibilmente, un’infinita libertà. In quel momento ho pensato a quanto stessi imparando da Te. Non è un caso se sei diventata la più grande ballerina italiana di tutti i tempi. Una parte di me “ballerà” (indegnamente) per sempre con Te. Grazie per tutto quello che mi hai dato consapevolmente e inconsapevolmente. Grazie per aver capito la stima che avevo per Te. Grazie per avermi abbracciata più volte, e grazie per avermi corretto un port de bras. Rimarrai l’unica Giselle possibile. Ciao Carla, ti voglio bene. Un abbraccio forte a Beppe". Il grande pubblico dei giovanissimi l'ha conosciuta anche grazie all'imitazione del talento di Virginia Raffaele, ma Carla Fracci si era già "concessa al pop" in tempi non sospetti. Era il 2007 quando Elio e le Storie Tese le avevano proposto di partecipare al progetto di "Studentessi", l'album che sarebbe uscito a febbraio 2008. E la stella più luminosa nel firmamento della danza mondiale non aveva esitato ad accettare. E così ecco la sua voce impreziosire l'album, con un intermezzo vocale recitato al termine della canzone "Effetto memoria (Inverno) che introduce la traccia "Heavy Samba".

Addio alla grande étoile. Ritratto di Carla Fracci, la dea umile della danza che ha giocato col tempo. Giulio Cavalli su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Ha giocato con il tempo e ci giocherà ancora, Carla Fracci, dea della danza in tutto il mondo che ieri è mancata nella sua casa a Milano: ha giocato con il tempo trasformandolo il ritmo in volo nei palchi più importanti del mondo, ha giocato con il tempo continuando a danzare per tutta la vita indossando i suoi anni con un’eleganza che non ha mai intaccato la sua levità e giocherà con il tempo a lungo ancora, come accade agli artisti che hanno lasciato un’orma che segna un’era. Carla Fracci non è una ballerina, Carla Fracci è un capitolo della danza, assurta a ispirazione per chi la danza follemente la ama e per chi, digiuno dalla danza, ne è rimasto incantato con la magia di una scoperta. Carla Fracci, che all’anagrafe era Carolina, nasce a Milano nel 1936 dal tranviere Luigi e dall’operaia Rocca Santina. Dai genitori ha sempre rivendicato di avere imparato la serietà nel lavoro, la fatica nel lavoro, la perseveranza e la professionalità. Ecco, se si dovesse trovare una parola per disegnare l’impegno e la carriera di Carla Fracci si dovrebbe ripescare il professionismo nel suo senso originale, che sta nel professare i propri valori e la propria identità attraverso il mestiere che si svolge. Perché dietro quella magnifica creatura paradisiaca per l’armonia sul palco c’era una tenacia quotidiana di chi non nasce predestinato e deve andarsi a prendere il proprio posto nel mondo. Un senso del dovere “assoluto”, così lo chiamò Nureev quando lei gli confessò di volere lasciare la danza. Un petalo di acciaio che finisce a fare un’audizione al Teatro la Scala superata per il suo “bel faccino”. A 19 anni spicca il volo nella Cenerentola e tre anni dopo è già prima ballerina. «Il pubblico avverte sempre quando un artista è autentico, è sincero e dedicato fino in fondo. Soltanto con queste condizioni può nascere, nell’interpretazione, la magia», diceva e il pubblico la rese una stella. Carla Fracci diventa l’Italia nel mondo, dal London Festival Ballet e il Sadler’s Wells Ballet di Londra allo Stuttgart Ballet, al Royal Swedish Ballet di Stoccolma e, a fine anni Sessanta, all’American Ballet Theatre, che la consacra “divina”. L’incontro e il matrimonio con il regista Beppe Menegatti la spinge ad affrontare ruoli che sono gioielli della cultura internazionale. È drammatica, intensa nella recitazione, spavalda nell’interpretazione, sempre nella grazia. «Ho avuto incontri straordinari, – raccontò in un’intervista a Repubblica nel 2006 – come Visconti, burbero e dolcissimo. Come Herbert Ross, per cui ho fatto la Karsavina nel film Nijinsky. O come Peter Ustinov, con cui ho girato Le ballerine. E la Cederna, e Manzù. E il magnifico Eduardo. Ricordo il fascino e l’ironia di De Sica. E rammento le estati con Montale, a Forte dei Marmi. Ci si trovava ogni giorno tra persone come Henry Moore, Marino Marini, Guttuso». Ma nonostante la sua dimensione internazionale Carla Fracci non rinunciò mai all’impegno politico danzando nei tendoni, nelle chiese, nelle piazze. Si definiva una «pioniera del decentramento» perché voleva che il suo lavoro «non fosse d’élite, relegato alle scatole d’oro dei teatri d’opera. E anche quand’ero impegnata sulle scene più importanti del mondo sono sempre tornata in Italia per esibirmi nei posti più dimenticati e impensabili». Raccontava che Nureev la sgridasse per questa sua smani di stancarsi troppo, volando da New York alle periferie d’Italia: «Ma a me piaceva così e il pubblico mi ha sempre ripagato», disse. Da “donna di sinistra”, come si definiva, non si era mai persa una manifestazione del 25 aprile e marciava esile e fiera accanto ai sindaci Aniasi, Tognoli, fino a Pisapia. Per tre anni la malattia l’ha logorata ma lei non ha lesinato presenze e impegno: a dicembre era nella “sua” Scala (con l’eterno cruccio di non averne mai diretto la compagnia) per insegnare i segreti della sua indimenticabile Giselle e fino a qualche settimana fa si aggirava sul set della fiction che la Rai le sta dedicando. Passo dopo passo si intitola la sua autobiografia uscita per Mondadori. E passo dopo passo quella ragazzina minuta ha fatto della sua vita uno spettacolo che non potremo prenderci il lusso di dimenticare.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Il ricordo dell'étoile. Carla Fracci, la figlia di tranviere che dalla Scala conquistò il mondo. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Carla Fracci è stata innanzitutto l’étoile della Scala. La Scala è stata la sua casa, ci era arrivata per caso, quando ancora era possibile per la figlia di un tranviere milanese arrivare fin lassù. E da là, scalare il mondo per essere applaudita ed acclamata su tutti i suoi più grandi palcoscenici. Ha interpretato Giselle come nessuna. I più grandi ballerini da Nureev a Vasiliev l’hanno accompagnata ammaliati dalla sua danza. Il sodalizio di una vita con Beppe Menegatti l’ha condotta per le strade di una crescita culturale e artistica. Grandissima ballerina romantica, è stato detto. Il dono di una leggerezza che sembrava portare sul palcoscenico nella danza, quella leggerezza di Calvino che si è accompagnata per tutta la vita a una ferrea disciplina e a un lavoro che non ammetteva pause, fino alla fine. A questa grandissima artista, Eugenio Montale aveva dedicato una poesia, “La danzatrice stanca”: «Torna a fiorir la rosa/ che pur dianzi languia…». La sua Milano l’aveva incoronata con la partecipazione, la vicinanza, la condivisone della sua migliore intellettualità, quella che dalla Scala al Piccolo Teatro ha segnato un intero capitolo della storia culturale del Paese. Il suo popolo vedeva in lei la stella che era diventata, ma anche la bambina che in essa era cresciuta. Un’altra Milano le ha negato quello che le era dovuto, ma è rimasta la sua città, illustrata nel mondo come il suo Paese dal suo leggiadro volo. Esserle stati amici è il dono che ha lasciato a noi. A tutti, ha lasciato quello di una visione, la visione che ci ha parlato dell’umana possibilità di volare.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

La dedica all'étoile. La danzatrice stanca, la poesia che Eugenio Montale dedicò a Carla Fracci. Redazione su Il Riformista il 28 Maggio 2021.

LA DANZATRICE STANCA

Torna a fiorir la rosa

che pur dianzi languia…

Dianzi? Vuol dire dapprima, poco fa.

e quando mai può dirsi per stagioni

che s’incastrano l’una nell’altra, amorfe?

Ma si parla della rifioritura

d’una convalescente, di una guancia

meno pallente ove non sia muffito

l’aggettivo, del più vivido accendersi

dell’occhio, anzi del guardo.

È questo il solo fiore che rimane

con qualche metro d’un tuo dulcamara.

A te bastano i piedi sulla bilancia

per misurare i pochi milligrammi

che i già defunti turni stagionali

non seppero sottrarti. Poi potrai

rimettere le ali non più nubecola

celeste ma terrestre e non è detto

che il cielo se ne accorga basta che uno

stupisca che il tuo fiore si rincarna

si meraviglia. Non è di tutti i giorni

in questi nivei défilés di morte.

Anna Bandettini per repubblica.it il 27 maggio 2021. È vissuta volando ma di sé diceva orgogliosa: "Sono cresciuta tra i contadini, nelle campagne vicino Cremona, libera, tra molti affetti e necessità concrete. E proprio lì, ben piantate nella terra, ci sono le mie radici". E così, leggiadra e solida, dolce e tenace, se n'è andata un "monumento nazionale", un mito del balletto, una delle più grandi artiste della danza internazionale. Carla Fracci è morta a Milano a 84 anni per un tumore che l’aveva colpita già da tempo e che aveva vissuto con coraggio e strettissimo riserbo. "Eterna fanciulla danzante", la definiì il poeta Eugenio Montale. "You are wonderful" le confessò commosso Charlie Chaplin dopo averla vista. Carla Fracci è stata davvero una artista unica, un misto di concretezza meneghina e leggerezza della poesia, una protagonista sia dell'esclusivo mondo del balletto classico che di quello pop della televisione e dei rotocalchi: un viaggio longevo e trionfale, il suo, delicatissima e struggente Giselle, toccante Giulietta, aerea Sylphide nei più grandi teatri del mondo, dalla Scala al Royal Ballet, lo Stuttgart Ballet, il Royal Swedish Ballet, e dal 1967 artista ospite dell'American Ballet Theatre, con i più eccelsi partner come Erik Bruhn, Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Gheorghe Iancu, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, gli italiani Amedeo Amodio, Paolo Bortoluzzi, e coreografi come Cranko, Dell'Ara, Rodrigues, Nureyev, Butler, Béjart, Tetley e molti altri. Una giovane Carla Fracci al teatro alla Scala, 1969 Carla Fracci era nata il 20 agosto del 1936 a Milano. Amici di famiglia convincono i genitori a iscriverla alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala dopo averla vista muoversi nel salone del dopolavoro del papà tranviere. Carla ha 10 anni, è magra, esile, "all'inizio non capivo il senso degli esercizi ripetuti, del sacrificio, dell'impegno mentale e fisico. Io, poi, sognavo di fare la parrucchiera. Fu pensantissimo", raccontava in una intervista sui suoi inizi. Ma il visino dolce, la leggerezza dei movimenti colpiscono le insegnanti, Vera Valkova, Edda Martignoni, Paolina Giussani e a 12 anni è una comparsa in La bella addormentata con Margot Fonteyn. L'incontro ravvicinato con la grande ballerina le fa capire che i sacrifici, lo studio, la disciplina possono produrre poesia. Si diploma nel 1954, nel 1955 debutta nella Cenerentola alla Scala; nel 1958, a 22 anni, viene promossa prima ballerina. Sapienza tecnica, leggerezza, una spiccata capacità interpretativa le aprono i teatri del mondo e i maggiori ruoli (ne ballerà circa centocinquanta): oltre ai popolarissimi Lago dei cigni. Lo schiaccianoci, diventano suoi i ruoli romantici, Giulietta, la Swanilda di Coppelia, Francesca da Rimini, soprattutto Giselle, il “suo” personaggio: nei panni della giovane contadinella innamorata, coi capelli sciolti e un leggerissimo tutù, entrerà per sempre nella storia del balletto. Dopo la prima del '59 a Londra al Royal Festival Hall, la Fracci sarà Giselle in tantissime edizioni e tra le più belle si ricordano quella con Erik Bruhn al Met, e l'altra con Nureyev. L'incontro con Rudy risale al 1963 e sarà un sodalizio artistico che incanterà mezzo mondo per oltre un ventennio. "Ballare con Rudolf era una sfida. Carattere difficile. Eccentrico e competitivo. Ma di grandissima generosità. Era inammissibile per lui che nel lavoro non ci si impegnasse. E per guadagnarsi la sua stima, bisognava essere più forti e uscirne vittoriosi", ricorderà lei che proprio nei primi anni Sessanta, aveva lasciato la Scala (con una polemica per un balletto cancellato) e da ballerina indipendente, era diventa l'étoile italiana più famosa nel mondo, "la prima ballerina assoluta" scriverà il New York Times. "In tanti mi hanno chiesto come ci si sente a essere un mito. Ma i miei che erano dei lavoratori, padre tranviere, madre operaia mi hanno insegnato che il successo si deve guadagnare. E io ho lavorato, lavorato, lavorato... ". Continua a farlo anche dopo il matrimonio con Beppe Menegatti, aiuto regista di Visconti, nel '64, e dopo che è diventata mamma nel '68. Con Menegatti realizzerà molti spettacoli e personaggi (Medea, Pantea, Titania, Ariel, Luna, Ofelia, Turandot), coinvolgendo compagnie non sempre all'altezza del suo nome. "L’importante è che la gente veda la danza" diceva, e lei lo ha fatto vedere con sorprendente longevità anche fuori dal repertorio classico - e tra Medea, Concerto barocco, Les demoiselles de la nuit, Il gabbiano, La bambola di Kokoschka, svetta la Gelsomina de La strada di Nino Rota creata apposta per lei dal coreografo Mario Pistoni - e anche fino a 80 anni quando, fisico ancora asciutto, elastico, fece un cameo in La musa della danza al San Carlo di Napoli. Ben prima di Roberto Bolle, Carla Fracci ha contribuito a portare la danza in contesti pop, a cominciare dalla televisione: nel'67 con Scarpette rosa, di Vito Molinari, in molti show del sabato sera e ancora in quella che resta una autentica e notevole prova di attrice, nello sceneggiato tv su Giuseppe Verdi, come indimenticata Giuseppina Strepponi, la soprano e seconda moglie del compositore (ma attrice lo è stata anche al cinema in Storia vera della signora delle Camelie di Bolognini con Isabelle Huppert e Gian Maria Volonté, Nijinskij di Herbert Ross con Jeremy Irons), fino alle civetteria di ridere con autoironia della bella imitazione di Virginia Raffaele al Festival di Sanremo. Virginia Raffaele nell'initazione di Carla Fracci al Festival di Sanremo 2016 Per la diffusione del balletto, d'altra parte, Carla Fracci si è spesa nei contesti più diversi, anche politici. Da sempre impegnata a sinistra (nel 2009 diventa assessore alla Cultura della Provincia di Firenze) si è battuta contro lo smantellamento dei Corpi di Ballo dalle fondazioni liriche, anche con un appello nel 2012 all'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. "Il ballo classico ha dato prestigio al nostro Paese ed è triste che oggi sia considerato residuale. Un'arte nobile come questa non può essere trattata come una Cenerentola". Lei stessa si era impegnata in prima persona a tenerli vivi: alla fine degli anni Ottanta quando dirige il Corpo di Ballo del Teatro San Carlo di Napoli, poi nel '96 quello dell'Arena di Verona, e dal 2000 per dieci anni alla testa della compagnia di danza all'Opera di Roma, tuttavia sempre nel rimpianto, carico di rancori, della mancata dirione del balletto alla Scala dove proprio per questi dissapori non ballerà più dal '99.

L'INTERVISTA Carla Fracci: "Torno in scena ma la mia Milano mi ha ferita" Conchita Sannino 25 Ottobre 2016 su La Repubblica. A gennaio di questo 2021 è il nuovo direttore del Ballo, Manuel Legris, a invitarla a tenere due masterclass su Giselle, ricucendo così quella rottura, e di cui resta una testimonianza nella docufiction Corpo di ballo su RaiPlay. "Mi ha toccata l'accoglienza di tutto il teatro, il lungo applauso. Ho sentito rispetto e gratitudine. Spero che ci saranno altre di queste masterclass. Ai giovani voglio spiegare che la tecnica c'è ma non va esibita". Leggendaria la sua frase "la danza non è piedi e gambe. È testa", che racchiude tutta la sua poetica. La sua storia, invece, l'ha raccolta nell'autobiografia Passo dopo passo (Mondadori, 2013), che ora diventerà una fiction tv con Alessandra Mastronardi: non solo ha dato la sua consulenza insieme al marito e alla storica collaboratrice Luisa Graziadei, ma ha regalato un cameo nei panni della sua insegnante alla scuola della Scala. Come a chiudere il cerchio. "Mi lamento spesso e sono una polemica" ha confessato in una delle ultime apparizioni tv, vestita di bianco, come sempre, suo unico vezzo, "ma la mia è stata una gran bella vita". 

Da “Cinquantamila” - cinquantamila.it di Giorgio Dell’Arti.

Milano 20 agosto 1936. Ballerina. Dal 2001 direttrice del Ballo dell’Opera di Roma. Nel 2008 ha interpretato Madre Teresa di Calcutta in I have a dream-I care, ideazione e regia del marito Beppe Menegatti, coreografia di Luciano Cannito, e Franca Florio, regina di Palermo (regia e coreografia di Cannito). «Facendo delle radiografie per la cervicale, s’accorsero che avevo nel braccio un ago, probabilmente lasciato in un costume... Non sono riusciti a capacitarsi di come non me ne fossi accorta. Ma io, quando danzo, sono altrove».

Padre tranviere, madre operaia alla Innocenti che per arrotondare metteva i datteri nelle scatole, entrambi con la passione del ballo, nell’ottobre del 1946 entrò alla Scuola di danza del Teatro alla Scala di Milano, il 31 dicembre 1956 sostituì la prima ballerina Violetta Verdy nella Cenerentola di Prokofiev: da allora ha ballato nei più prestigiosi teatri del mondo con i più celebri ballerini, da Nureyev a Vassilev. Nella sua carriera anche ruoli da attrice, tra cui quello della soprano Giuseppina Strepponi nel Verdi televisivo (1982).

«Mai se lo sarebbero immaginate la nonna Argelide e la mamma Santina, né tantomeno il papà, sergente maggiore, quando scriveva le sue lettere dalla Russia, per sapere delle figliuole al casolare di Gazzoli degli Ippoliti. Chi si sarebbe immaginato lì in campagna che la bambina di Luigi e Santina, quella più piccola, quella tanto brava a portare le oche al torrente, quella che sembrava uno scricciolo e invece con una bacchetta in mano riusciva a tenere in fila il drappello di ochette molto meglio delle sue coetanee, chi se lo sarebbe immaginato che lei, proprio lei, avrebbe fatto tanta strada a passo di danza?» (Lina Sotis).

«Da piccola mi piaceva muovermi. Ero un’attrazione tra i grandi che la domenica ballavano il liscio al laghetto Redecesio, nel dopolavoro dell’azienda tranviaria. Così i miei mi portarono all’esame di ammissione per la scuola di ballo della Scala» (a Leonetta Bentivoglio).

«Per me bimbetta, ballare voleva dire tanghi, valzer, polke nelle balere che frequentavano i miei giovani genitori, ballavo con mio padre e tutti si fermavano a guardare. Quando però, alla Scala, vidi Margot Fonteyn nella Bella addormentata mi sono trovata davanti a un faro che ha illuminato la mia vita» (a Francesca Pini).

«Se gli italiani hanno scoperto il balletto negli anni 50 e 60, gran merito va alla ragazza milanese di periferia, che apparve sulla scena al momento giusto, nella Scala del dopoguerra diretta da Antonio Ghiringhelli e stregata dalla voce di Maria Callas. Fu Luchino Visconti, il famoso regista, a segnalare la “Carlina” nel Passo d’addio, il saggio pubblico (ora non si fa più) di fine corso o scuola. Carla danzò con Mario Pistoni lo Spettro della rosa di Fokin dopo la Sonnambula della Callas. Era il 1955, fu la rivelazione di quella magica stagione. Poi, nel 1961, arrivò in Occidente Rudolf Nureyev, e il balletto europeo tornò grande. La Fracci, erede naturale di Margot Fonteyn, prima partner del “gran tartaro”, formò una coppia ideale con Rudy. “Allora non potevo neppure pensare di diventare una star, sapevo di dover lavorare senza fermarmi. Talvolta mi chiedevo: se fosse un sogno? Se finisse tutto domani?”» (Mario Pasi).

«Riverberata dagli abiti immancabilmente bianchi, sovrana di uno stile angelicato e senza tempo. Altro che femminismo, altro che mode. Fracci ha reso il tutù e le punte un sogno popolare, restituito i paradisi del balletto all’uomo della strada: “Ho danzato nei tendoni, nelle chiese, nelle piazze. Sono stata una pioniera del decentramento. Volevo che questo mio lavoro non fosse d’élite, relegato alle scatole d’oro dei teatri d’opera. E anche quand’ero impegnata sulle scene più importanti del mondo sono sempre tornata in Italia per esibirmi nei posti più dimenticati e impensabili. Nureyev mi sgridava: chi te lo fa fare, ti stanchi troppo, arrivi da New York e devi andare, che so, a Budrio... Ma a me piaceva così, e il pubblico mi ha sempre ripagato”» (Bentivoglio).

«Confesso che nella mia vita non ho dovuto rinunciare a nulla. Spesso si esagera nel raccontare la danza come un mondo di sacrifici e privazioni: la disciplina, la costanza e lo studio occorrono, non basta mettersi su un piedistallo e dire “Io sono l’étoile” per avere successo. Ma la vita che si conduce è normalissima, almeno per me lo è stata, permettendomi di essere moglie e madre».

«Come dice la mia amica Rita Levi Montalcini, l’errore più grosso è andare in pensione. Ci vuole costanza, ci vuole attività, ci vuole sentimento» (nel 2006).

Nel 2007 Roberto Bolle la invitò a lasciare ai giovani la direzione del corpo di ballo all’Opera di Roma: «Io non devo rendere conto a lui della mia carriera, ho ancora molto da insegnare, e quando ballo mi ritaglio ruoli adatti a me; se interpreto la Regina Madre nel Lago dei Cigni non porto via niente a nessuno».

Col marito (matrimonio nel 1964) si incrociarono la prima volta «in sala prove, alla Scala. Era il maggio del 1954. Beppe venne con Visconti. Era il suo assistente per Mario e il mago, un balletto di Mannino. Che però fu rimandato di un paio d’anni. Ma l’anno dopo, nel 1955, per il mio passo d’addio, Beppe c’era. E anch’io, ricordo, andavo in teatro, a vederlo provare, dalla balaustra. Erano i tempi di Visconti e della Callas: Vestale, Sonnambula, Traviata. Una stagione di collaborazioni straordinarie: Giulini, Bernstein. Circostanze come quelle... ci vorrà un bel po’ di tempo perché possano ripresentarsi.. Qualche generazione, forse. Beppe era al centro di tutto questo e a me sembrava... irraggiungibile».

«Beppe mi ha permesso di spaziare, mi ha dato ruoli drammatici e lirici, mi ha fatto uscire dagli stereotipi. Ricordo che Paola Borboni era furiosa che ci sposassimo. Diceva che la danzatrice deve rimanere casta e libera. Sgridava Beppe: lasciala stare! Lei profuma l’Italia! Poi però, quando nel 69 nacque nostro figlio Francesco, loro due fecero pace. Desideravo tanto diventare madre, anche se all’epoca era una cosa insolita per una ballerina. Oggi Francesco è architetto e io sono nonna».

«Non c’è mai stato un momento in cui mi sono sentita più importante di Beppe. Anzi. Forse per sfortuna, o forse per il suo carattere, estremamente generoso, lui non ha oggi nel teatro italiano la posizione che merita. Spesso è stato il primo a scoprire il talento di artisti poi divenuti grandi, come Ferruccio Soleri, Antonio Gades, lo stesso Ronconi. Ma Beppe è il tipo che si fa vincere dagli affetti. Io sono una che parla poco. Ma osservo. A volte noto segnali, in qualche modo premonitori, di situazioni che poi, puntualmente, si verificano...» (a Donatella Bertozzi).

Dal 2004 è Ambasciatrice della Fao.

«Mio padre era un milanista sfegatato, così anch’io ho nutrito sempre una simpatia per i rossoneri. Mi piacevano Rivera e campioni come Coppi e Bartali, che fanno onore allo sport».

Il matrimonio nel 1964. Chi è il marito di Carla Fracci, il regista Beppe Menegatti che lavorò con Visconti, De Filippo e De Sica. Vito Califano su Il Riformista il 27 Maggio 2021. Carla Fracci è morta a 84 anni. In mattinata alcune notizie sul suo grave stato di salute. Quindi la notizia: lutto nel mondo della cultura e dello spettacolo italiani che perdono un simbolo, un bene da esportazione, un emblema dell’Italia nel mondo. Il New York Times l’ha definiti “prima ballerina assoluta”. La Regina della danza mondiale si è spenta stamane a Milano, dov’era nata, dopo una lunga lotta contro un tumore vissuta nello stretto riserbo della sua famiglia. Lascia un figlio, Francesco, avuto dal marito Giuseppe Menegatti. Detto Beppe, Menegatti è un regista teatrale italiano. Classe 1929, nato a Firenze, da giovanissimo al seguito del Maggio Musicale Fiorentino. Ha ottenuto una borsa di studio all’Accademia Silvio D’Amico a Roma ed ha affiancato come assistente il regista Luchino Visconti. Ha lavorato con Eduardo De Filippo e con Vittorio De Sica. Ha curato molte regie degli spettacoli della moglie. I due si sono sposati nel 1964. Si erano incrociati per la prima volte alla sala prove Trieste della Scala. “Ero l’ultimo di una fila di persone che entravano – ha raccontato il regista a L’Unità – In testa Luchino Visconti, poi il coreografo Massine, quindi il compositore Mannino e la costumista Lila De Nobili e poi io che portavo la borsa a Visconti. Lila si gira e dice: ‘Luchino, non potrebbe essere questa qua la ragazza per la parte di Silvestra?’. E indica una fanciulla seduta per terra con i calzerotti rossi. Era Carla”. Dopo 54 anni di matrimonio Fracci e Menegatti erano ancora legatissimi “ancora innamorati come il primo giorno”, come aveva detto la stessa étoile. La star aveva sempre parlato della sua maternità (Francesco è nato nel 1969) con orgoglio sostenendo che le ballerine non dovrebbero rinunciare a diventare madri per salvaguardare il loro fisico.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Morte Carla Fracci, il marito: “Ho chiuso il telefono, non resisto emotivamente”. Alice Coppa il 28/05/2021 su Notizie.it. Beppe Menegatti, marito di Carla Fracci, ha espresso il suo cordoglio per la scomparsa della ballerina. Carla Fracci è scomparsa il 27 maggio 2021 dopo una lunga battaglia contro un tumore. Suo marito, Beppe Menegatti, ha espresso tutto il suo cordoglio per la morte della moglie, a cui era legato da ben 73 anni. L’uomo ha dichiarato di essere grato per i messaggi d’affetto ricevuti ma ha anche detto di non riuscire a rispondere al telefono per le troppe emozioni e il dolore dovuti alla scomparsa della celebre ballerina. “Vorrei dire tante cose, perché è una vita insieme, dal 1953 a oggi che ci si conosceva, abbiamo fatto tante cose, un figlio meraviglioso che è qui con me e presto arriveranno anche i nipoti da Roma, ma è troppo triste. Troppo”, ha dichiarato Beppe Menegatti, e ancora: “Ho chiuso il mio telefono perché non resisto emotivamente, ci stanno chiamando da tutto il mondo, dal Sudafrica al Giappone, da New York, da Londra. Una cascata di amore che viene riversato su Carla da questa grande famiglia teatrale internazionale a cui sono grato.” Carla Fracci e Beppe Menegatti si erano conosciuti nel 1953, quando l’étoile aveva appena 18 anni. I loro occhi s’incrociarono per la prima volta in una sala prove del Teatro la Scala, dove Menegatti si era recato per scegliere alcune ballerine per lo spettacolo Mario il Mago. Le nozze tra i due si tennero 10 anni dopo e in successivamente i due ebbero il loro primo ed unico figlio, Francesco. Beppe Megatti è rimasto accanto alla ballerina anche durante la sua battaglia contro la malattia. In tanti sui social, in queste ore, stanno omaggiando e celebrando la celebre étoile scomparsa a 84 anni. Carla Fracci era famosa in tutto il mondo per la sua grazia e il suo straordinario talento, e senza dubbio è stata una delle ballerine italiane più famose del mondo. Nel corso della sua lunga e importante carriera nel mondo della danza si era esibita con alcuni degli interpreti più famosi del mondo e aveva interpretato alcuni dei personaggi più famosi del mondo della danza.

L'addio a Carla Fracci, il marito Beppe Menegatti: "Mi hanno chiamato da tutto il mondo, una cascata di amore per lei". Parla il compagno e "pigmalione" di una vita, il regista, padre del suo unico figlio, Francesco: "È un momento troppo triste. Troppo”. Anna Bandettini su La Repubblica il 27 maggio 2021. Le è stato vicino nella malattia, fino alla fine nella loro casa milanese: Beppe Menegatti, 91 anni, è il marito, il pigmalione, l’uomo della vita di Carla Fracci. Sposati dal 1964, coppia già da molto prima, hanno avuto un figlio, Francesco, nato nel 1969. Menegatti è stato aiuto-regista di Luchino Visconti, collaboratore di Eduardo De Filippo e Vittorio De Sica, ma soprattutto il regista e l’artefice di tanti personaggi e spettacoli della grande étoile, da Medea a Turandot. “Vorrei dire tante cose, perché è una vita insieme, dal 1953 a oggi che ci si conosceva, abbiamo fatto tante cose, un figlio meraviglioso che è qui con me e presto arriveranno anche i nipoti da Roma, ma è troppo triste. Troppo”. Scosso, svuotato, ma commosso, senza la sua Carla, Menegatti confessa: “Ho chiuso il mio telefono perché non resisto emotivamente, ci stanno chiamando da tutto il mondo, dal Sudafrica al Giappone, da New York, da Londra. Una cascata di amore che viene riversato su Carla da questa grande famiglia teatrale internazionale a cui sono grato”.

Addio Carla Fracci, regina della danza che ha passato la vita a volare. Etoile dei palcoscenici mondiali, si è spenta a Milano all'età di 84 anni. L'Espresso il 27 maggio 2021. Se ne è andata sulle punte, a 84 anni Carla Fracci, una delle danzatrici più importanti al mondo. Malata da tempo, aveva come sua abitudine mantenuto il più stretto riserbo sul tumore che l’aveva colpita. Nata nel 1936 a Milano in una famiglia di umili origini (il padre era un tramviere che tra gli alpini aveva preso parte alla seconda guerra mondiale sul fronte russo, la madre era un’operaia) la Fracci dal 1946 ha studiato alla scuola di ballo del Teatro alla Scala con Vera Volkova e altri coreografi, diplomandosi nel 1954. Dopo solo due anni è diventata danzatrice solista, per acquistare poi il rango di prima ballerina nel 1958. E da quel momento ha calcato i palcoscenici più prestigiosi, viaggiando instancabilmente e collezionando riconoscimenti, premi e ovazioni ovunque. Ha danzato con i più illustri partner della scena mondiale: da Rudolf Nureyev a Vassiliev, da Baryshnikov a Bortoluzzi, da Murru a Bolle, collezionando 200 immortali personaggi. Tra gli spettacoli che restano nella grande memoria collettiva e nell’immaginario di chiunque resta senza dubbio l’interpretazione di “Giselle”, con cui regalò al mondo un'interpretazione indimenticabile, talmente personale da diventare il suo vero e proprio cavallo di battaglia grazie al solo gesto di una mano, con cui la protagonista, per raccontare la sua follia, si scompiglia lo chignon perfetto.

Carla Fracci ben prima di Roberto Bolle si è generosamente concessa anche alla televisione, sia come danzatrice e ospite, basti ricordare il Milleluci con Raffaella Carrà nel lontano 1972,  e persino come attrice, nei panni della moglie di Giuseppe Verdi nello sceneggiato del 1982. E armata di una solida ironia, nei suoi abiti candidi che non ha mai abbandonato, si è prestata con amabile disinvoltura a essere la “vittima dell'imitazione di Virginia Raffaele, con cui, proprio nello show di Bolle ha duettato.

Addio Carla Fracci, signora della danza e regina dei palcoscenici di tutto il mondo. Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2021. Addio alla signora della danza italiana e non solo. Carla Fracci, regina dei palcoscenici mondiali, si è spenta a Milano all’età di 84 anni. Figlia di un tranviere dell’Atm, la Fracci è nata nel capoluogo lombardo il 20 agosto 1936 e a soli dieci anni, nel 1946, inizia a studiare alla Scuola di danza del Teatro alla Scala, dove ha tra gli insegnanti la grande coreografa russa Vera Volkova e dove si diploma nel 1954, per poi proseguire la sua formazione artistica partecipando a stage avanzati a Londra, Parigi e New York. Dopo solo due anni dal diploma diviene solista, poi nel 1958 è già étoile della Scala. Fino agli anni ’70 danza con alcune compagnie straniere quali il London Festival Ballet, il Royal Ballet, lo Stuttgart Ballet e il Royal Swedish Ballet. Dal 1967 è artista ospite dell’American Ballet Theatre. La sua notorietà artistica rimane prevalentemente legata alle interpretazioni dei ruoli romantici come Giulietta, Swanilda, Francesca da Rimini, o Giselle, accanto a partner come Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, Mikhail Baryshnikov e soprattutto il danese Erik Bruhn con il quale regala al pubblico un’indimenticabile interpretazione di “Giselle” da cui nel 1969 viene realizzato un film. La Fracci nel 1964 sposa il regista Beppe Menegatti (da cui ha un figlio, Francesco) che sarà regista della maggior parte degli spettacoli da lei interpretati. Alla fine degli anni ’80 dirige il corpo di ballo del Teatro San Carlo di Napoli assieme a Gheorghe Iancu e nel 1981 interpreta in tv il ruolo di Giuseppina Strepponi, la moglie di Giuseppe Verdi, nello sceneggiato Rai sulla vita del grande compositore di Busseto. Nel 1994 diviene membro dell’Accademia di Belle Arti di Brera. L’anno seguente è eletta presidente dell’associazione ambientalista “Altritalia Ambiente”. Dal 1996 al 1997 la Fracci dirige il corpo di ballo dell’Arena di Verona e nel 2003 le viene conferita l’onoreficenza italiana Cavaliere di Gran Croce. Nel 2004 viene nominata Ambasciatrice di buona volontà della Fao. Dal novembre del 2000 al luglio del 2010 dirige il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, attività alla quale affianca la riproposta di balletti perduti e nuove creazioni sotto la direzione di Beppe Menegatti. Dal giugno 2009 al 2014 è assessore alla Cultura della Provincia di Firenze e nel 2015 Ambasciatrice di Expo Milano. Nel 2018 riceve il Premio nazionale Toson d’oro di Vespasiano Gonzaga e il 19 settembre 2020 quello alla carriera da parte del Senato della Repubblica Italiana.

L'ultima intervista a Carla Fracci sul Quotidiano del Sud - "La grande etoile allo Scolacium". Nel 2015 l’esibizione al Parco archeologico di Roccelletta di Borgia con un applaudito omaggio a Palmira. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2021. Dai nostri archivi. L’ultima intervista a Carla Fracci sul Quotidiano del Sud – “Fracci omaggia Palmira. La grande etoile stasera allo Scolacium”, di Edvige Vitaliano, pubblicata il 17 agosto 2015. Un’icona della danza in uno dei luoghi più suggestivi del catanzarese. Lei è Carla Fracci, il luogo è il Parco archeologico Scolacium a Roccelletta di Borgia. L’appuntamento – questa sera alle 22 – è proposto da Armonie d’arte festival. Un omaggio a Palmira antica città siriana, il balletto “Sheherazade e le mille e una notte”, atto unico in cinque quadri ispirato ai racconti d’Oriente di Antoine Galland, su musiche di Nikolaij Rimsky-Korsakov. Sul palco la grazia leggendaria di Carla Fracci, in scena, vestendo i panni di Thalassa, Regina degli Abissi. Al suo fianco il celebre danzatore cubano Carlos Alberto Montalvan Tovàr nel ruolo di Sindbad, il marinaio. Sul palcoscenico anche il Balletto del Sud, con la direzione e le coreografie di Fredy Franzutti, e la voce di Andrea Sirianni, nel doppio ruolo di Shéhérazade e del Sultan, nonché chiamato a recitare una lirica di Eugenio Montale, amico della Fracci e autore, tra l’altro, anche di una poesia a lei dedicata dal titolo “La danzatrice stanca” su cui la celebre ballerina svilupperà un ulteriore particolare, e certamente emozionante, momento coreografico.

Per cominciare,  cos’è la Bellezza per Carla Fracci ?

«La bellezza? È il buon comportamento. È essere uomini e donne di buona volontà. È il senso della carità verso chi ha meno moralmente e spiritualmente».

E la Danza?

«La Danza. È una cosa, una cosa che appartiene a tutti gli uomini ed a tutte le donne, a tutti gli esseri umani. Una cosa interiore, e che si esprime con gesti semplici, come una carezza, una stretta di mano, una passeggiata a braccetto di qualcuno che ami al chiaro di luna».

Come racconterebbe in tre aggettivi la Fracci artista?

«Mi piacerebbe che lo facesse qualcun altro. Comunque sono stata intransigente, cocciuta e soprattutto una grande lavoratrice».

E la Carla Fracci donna?

«Ho raggiunto tutti i traguardi importanti, e li ho oltrepassati con onore. Il più importante è quello che ho oltrepassato per diventare nonna di due meravigliose creature: Giovanni, undicenne, ed Ariele, di otto anni».

Cosa direbbe a una giovanissima di talento che vuol fare danza?

«Insistere scegliendo con grande cura dei Maestri idonei, i Maestri bravi non si trovano solo nei grandi teatri. In questo momento in Italia esistono scuole private per la danza-balletto ottime su tutto il territorio nazionale. Perciò attenzione alla scelta e continuare con decisione e soprattutto con amore».

Il suo luogo del cuore?

«Qualche volta essere a pranzo con tutta la famiglia, figli, nipoti, nuore, sorelle, fratelli, nipoti, nipotini… Insomma con tutta la grande famiglia che ancora oggi mi da’ tanto calore».

Uno sguardo che non ha mai dimenticato?

«Professionalmente? Quello della grande Margot Fonteyn, da me amatissima nell’Adagio della Rosa ne “La Bella Addormentata” di Pyotr Ilyich Tchaikovsky… che sguardo, che musica!».

Un messaggio per chi la ama come quanti la vedranno allo Scolacium?

«Quando assistete ad uno spettacolo importante, dove c’è bella musica, bella danza, bell’allestimento, guardatelo con attenzione, assistendo ad uno spettacolo del genere se ne esce migliorati. Voglio aggiungere un’altra cosa: frequentate o permettete di frequentare le scuole di danza-balletto e musica, ne uscirete e ne usciranno comunque migliorati. Voglio anche ringraziare il Balletto del Sud diretto così magistralmente da Fredy Franzutti di avermi ospitato per la messa in scena di “Shéhérazade, e le mille e una notte”, un’esperienza che migliora e che da tanta volontà e voglia di continuare». 

È morta la danzatrice Carla Fracci. La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Maggio 2021. Morte Fracci, Emiliano ricorda l'impegno per la riapertura del Teatro Petruzzelli. E' morta Carla Fracci. Avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 30 agosto. Nata nel 1936 a Milano, qui ha costruito la parte centrale della sua carriera studiando nella scuola di ballo della Scala, di cui poi è diventata étoile. Al teatro è rimasta (con qualche alto e basso) sempre legata, tanto che il 28 e 29 gennaio scorso aveva tenuto una masterclass con i protagonisti del balletto Giselle andata in streaming sui profili della Scala e disponibile anche su Raiplay. Del 1955 il suo debutto sul palco del Piermarini che è stato un trampolino per i teatri più famosi del mondo. Figlia di un tramviere, comincia a danzare a 10 anni alla scuola della Scala e ha tra i maestri Vera Volkova, diplomandosi nel 1954 e diventando, seguiti alcuni stage internazionali, prima ballerina tre anni dopo. Eppure l'inizio fu "per caso, su suggerimento di una coppia di amici dei genitori, che avevano un parente orchestrale appunto alla Scala di Milano. All'inizio non capivo il senso degli esercizi ripetuti, del sacrificio, dell'impegno totale mentale e fisico sino al dito mignolo" come racconta, riferendosi al giorno in cui, affascinata dalla danza di Margot Fonteyn, vide in una pausa il coreografo avvicinarsi e correggerle la posizione appunto del dito mignolo. Fino agli anni '70 danza con varie compagnie straniere, dal London Festival Ballet al Royal Ballet, dallo Stuttgart Ballet al Royal Swedish Ballet, essendo dal 1967 artista ospite dell'American Ballet Theatre. Dagli anni '80 dirige il corpo di ballo del San Carlo, poi dell'Arena di Verona, infine dell'Opera di Roma, dove è rimasta sino al 2010, fedele anche alla amata attività didattica, di attenzione alle giovani leve. La sua notorietà artistica si lega principalmente alle interpretazioni di ruoli romantici come Giulietta, Swanilda, Francesca da Rimini e soprattutto Giselle, cui ha dato una moderna impronta personale, con i capelli sciolti e un leggerissimo tutù, danzandola con compagni di gran fama, anche se è quella con Erik Bruhn a essere rimasta indimenticabile, tanto che nel 1969 ne venne realizzato un film. Al suo fianco grandi partner sono stati Rudolf Nureyev, Vladimir Vasiliev, Henning Kronstam, Mikhail Baryshnikov, Amedeo Amodio, Paolo Bortoluzzi. Una fama sempre crescente, una grande popolarità sempre viva. Non è un caso che a lei dedicò una poesia Eugenio Montale, 'La danzatrice stanca', e ancora la fermano per strada non più per un autografo, ma per un selfie, cui non si sottrae, sempre presente al suo tempo, piena di vitalità e spirito.

Morta Carla Fracci, camera ardente nel foyer della Scala per l'ultimo addio alla grande ballerina: "Scompare una figura leggendaria". Venerdì 28 maggio dalle 12 alle 18, e sabato 29, alle 14,45, i funerali nella basilica di San Marco. La decisione del teatro d'accordo con il figlio Francesco Menegatti. su La Repubblica il 27 maggio 2021. La Scala si prepara a dare all’ultimo saluto a Carla Fracci, la più grande ballerina italiana, morta oggi a 84 anni. D'accordo con il figlio Francesco Menegatti (che l’artista ha avuto da Beppe, regista e suo manager sin dagli esordi della carriera), la camera ardente sarà allestita nel foyer di entrata del teatro, dove i milanesi potranno passare per omaggiare l’étoile domani, venerdì 28 maggio, dalle 12 alle 18. Non è ancora chiaro se verrà organizzato un concerto in suo onore, perché in sala sono ora in corso i lavori di rimozione della pedana sulla quale, durante il periodo del lockdown, hanno suonato gli orchestrali. Sabato, 29 maggio, invece ci saranno i funerali alle 14.45 nella basilica di San Marco. "La camera ardente sarà qui alla Scala", ha annunciando il sovrintendente, Dominique Meyer. "Una cosa che è stata fatta pochissime volte, ma trattandosi di Carla Fracci che nell'ultimo secolo è stata la ballerina più importante del teatro, ma anche una stella importantissima nel cielo della danza internazionale, dobbiamo inchinarci davanti alla sua carriera". Nel Teatro c'è grande commozione per la scomparsa della ballerina: "Il teatro, la città, la danza perdono una figura storica, leggendaria, che ha lasciato un segno fortissimo nella nostra identità e ha dato un contributo fondamentale al prestigio della cultura italiana nel mondo". Il sovrintendente Meyer osserva che "con Maria Taglioni, Carla Fracci è stata la personalità più importante della storia della danza alla Scala. Cresciuta all'Accademia, ha legato intimamente il suo nome alla storia di questo Teatro. Nei mesi scorsi ho avuto il piacere di accoglierla diverse volte alla Scala dove veniva spesso e a gennaio siamo stati felicissimi di riaverla a trasmettere la sua esperienza alle giovani interpreti dell'ultima 'Giselle', che è stata per tutti un momento indimenticabile. La penseremo sempre con affetto e gratitudine, ricordando il sorriso degli ultimi giorni passati insieme, in cui si sentiva tornata a casa". Il direttore del Corpo di Ballo, Manuel Legris afferma che "ci lascia stupiti, in punta di piedi come 'Giselle', spirito che resta con noi, riempie le sale ballo, il palcoscenico e i nostri cuori, come la sua energia mai sopita, che ci ha catturato e affascinato quando è tornata a riabbracciare il Teatro e i suoi artisti. Un grande vuoto che, allo stesso tempo, ci fa sentire ricolmi e ricchi di tutta la sua storia, che è la storia del balletto, privilegiati per aver condiviso la sua arte che è vita, leggendario modello e fonte di ispirazione di tutte le generazioni di ballerine".

Da leggo.it il 28 maggio 2021. Anche i tranvieri milanesi hanno voluto omaggiare Carla Fracci: suo padre, Luigi, era uno di loro e conduceva la linea numero 1, quella che passa proprio davanti al teatro alla Scala, e ogni volta che si ritrovava di fronte al teatro dove la giovane figlia si allenava scampanellava in segno di saluto. E così anche oggi il tram della linea 1, con una delegazione di tranvieri, alle 12 ha scampanellato per rendere omaggio. Ogni volta che passava davanti al teatro era solito scampanellare in segno di saluto.

Elisabetta Rosaspina per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2021. Si potrebbe tracciare un «itinerario Fracci» sulla mappa di Milano. Era lei stessa a descriverne spesso i punti d' interesse, i quartieri, gli indirizzi marcati nei suoi ricordi, dimenticando o volontariamente ignorando, di aver attraversato in 70 anni di carriera i boulevard e le avenue più prestigiose al mondo, da New York a Parigi, da Londra a Sydney, da Mosca a Città del Capo e a Buenos Aires. «Io posso andare dappertutto - avvertiva -, ma Milano è sempre la mia città, la più bella». L' amava così tanto da non sopportarne i cambiamenti e le contraddizioni, da voler correggerne i difetti come si fa con una ballerina talentuosa ma indisciplinata, brillante ma viziata, altruista ma sbrigativa. Nel suo cuore c' era la periferia dov' era nata e cresciuta: via Ugo Tommei, tra Porta Vittoria e Porta Romana. Adolescente nel dopoguerra, usciva dalla scuola di ballo della Scala e, con il tram numero 13, iniziava il suo viaggio da piazza del Duomo verso viale Umbria, fino alla fermata di piazzale Martini, per arrivare dopo una lunga corsa fra gli alberi alla casa di ringhiera con bagno esterna, quella che poteva permettersi papà Luigi, grazie a lei il tranviere più noto di Milano: «Avevamo due stanze in quattro - raccontava -, per riuscire ad avere una camera in più chiesi aiuto a un pompiere della Scala che conosceva il sindaco, Aldo Aniasi, mi pare. Così ci trasferimmo in via Forze Armate 83». Ricordava suo padre che, alla guida del tram della linea 1, non poteva trattenersi dallo scampanellare tre volte quando passava in piazza della Scala perché Carla, alla sbarra nella sala prove Trieste, lo sentisse e sapesse che stava pensando a lei. La bambina del tranviere lavorava sodo, «come un'operaia», soffrendo senza lamentarsi sulle punte delle sue scarpette, respirava diligentemente la polvere del palcoscenico, anche se non aveva scelto di sua volontà il mondo luccicante della danza. Da bambina sognava di vivere in campagna e di aprire un negozio da parrucchiera. Erano stati amici di famiglia a suggerire ai genitori di iscriverla alla scuola di ballo della Scala, perché era aggraziata, «sentiva» la musica. Ma la strada che ha amato di più è la prima in cui andò a vivere con il marito, il regista Beppe Menegatti, quando diventò prima ballerina della Scala, nel 1958: la centralissima via Santo Spirito, in un piccolo appartamento con vista sulle guglie del Duomo ottenuto grazie alla mediazione di Wally Toscanini. Venticinque anni dopo, all' inizio degli anni 80, la zona già le pareva meno accogliente, meno amichevole, specialmente di notte, con i lampioni frantumati a sassate, le saracinesche abbassate. Il lustro degli anni 80 e 90 non l'aveva poi così tanto riconciliata con la città inebriata dal proprio glamour. Le pareva troppo vanitosa e superficiale. Rimpiangeva le serate al Teatro Quartiere di piazzale Cuoco, negli anni 70. Ma era anche ospite fissa, sul palco o in platea del Piccolo Teatro di via Rovello, spesso accanto a Valentina Cortese, una delle sue amiche più grandi. Quando era stata sfrattata dalla proprietà, il Pio Albergo Trivulzio, dalla casa di via Santo Spirito, era approdata con il marito in zona Porta Nuova, il domicilio definitivo, dopo 10 anni di vita a Roma alla guida del corpo di ballo del Teatro dell'Opera. Ha amato Milano e la Scala che l'hanno ricambiata, certo, ma non al punto di esaudire il suo più grande desiderio, dirigerne il corpo di ballo o almeno aiutarla ad aprire la sua scuola: «So che io sono stata la bandiera della danza italiana - diceva, incredula di non trovare uno sponsor -, so che ho un'esperienza riconosciuta dal popolo, da cui ricevo tuttora immense dimostrazioni d' affetto. E so che vorrei tanto lavorare con i giovani. Ancora adesso mi impegnerei a fondo» insisteva, appena un anno fa. Chissà, forse si era creata qualche antipatia con il suo impegno politico, in prima linea alle manifestazioni del 25 aprile, talvolta in polemica con gli amministratori, sempre dalla parte della Milano più semplice, come le aveva insegnato suo padre. Dopo la pandemia vedeva la sua città pronta a risorgere: «Dai sapori delle trattorie tipiche - diceva -. Dalla volontà individuale di fare, di non cedere, di riprendere il percorso interrotto».

Lugi Bolognini per repubblica.it il 29 maggio 2021. Carabinieri in alta uniforme, corone di fiori bianchi, il suo colore simbolo. Un lungo applauso all'arrivo, ancora più lungo alla fine della cerimonia. Tra i messaggi dei registri dei saluti l'affetto vero: "Ti guardavo adorante da bambina", "Ritagliavo gli articoli dei giornali su di te". E tantissimi semplici grazie. A Milano è stato il giorno dei funerali di Carla Fracci nella chiesa di San Marco a Brera, trasmessi in diretta su Rai 1. All'ingresso la famiglia della grande ballerina scomparsa giovedì a 84 anni a ricevere e ringraziare tutti. "Il mondo della danza è splendido, il più bello. La cosa meravigliosa dell'abbraccio di Milano è che a salutarla sono venute  le periferie", ha detto il marito di Carla Fracci, Beppe Menegatti, accanto al figlio Francesco, che più volte durante la messa si è commosso sciogliendosi in lacrime, la sorella di Carla Fracci, i nipoti. In chiesa il ministro della Cultura Dario Franceschini, il sindaco Beppe Sala, il sovrintendente della Scala Dominique Meyer, Roberto Bolle e il primo ballerino della Scala Timofej Andrijashenko, le prime ballerine Nicoletta Manni e Martina Arduino. Un lungo applauso ha accolto il carro funebre: sono i milanesi che hanno voluto esserci anche senza poter entrare in chiesa. "Grazie Carla", le voci di chi ha fatto largo al passaggio del feretro prima del silenzio e della preghiera. L'applauso della gente all'esterno si sente fin dentro la chiesa e rimbomba. Le musiche di Verdi, suonate dall'organo di San Marco, hanno accolto il suo ingresso in chiesa, con le porte rimaste aperte per permettere anche a chi è rimasto fuori - viste le presenze contingentate per le norme anti-Covid - di ascoltare le parole di monsignor Gianni Zappa, il parroco di San Marco. "L'amatissimo marito Beppe e il figlio Francesco, circondati dai nipoti, la prendono per mano. La immaginiamo vestita di bianco, camminare con il suo passo leggero, e la accompagniamo fino alle soglie del mistero, fino a quel crinale che deve attraversare da sola. Di là il Signore che la chiama per nome", ha detto don Zappa nell'omelia. Aggiungendo: "L'affetto e la riconoscenza di tutti noi testimoniano cosa sia stata Carla Fracci. Chi ha lavorato con lei ed è stato colpito dalla sua grazia, leggerezza e dal coraggio che l'ha accompagnata fino alla fine testimoni al Signore il bene che ha ricevuto da "Carlina", il ricordo dei messaggi gentili della sua lingua universale". "Quando volete ricordarmi per favore non dite mai 'la povera Carla', ma 'beata Carla'. E ora regalatemi il vostro sorriso e ricordatemi con il mio": Giovanni Nuti ha letto queste parole scritte da padre Alberto Maggi durante il funerale di Carla Fracci alla chiesa di San Marco, dove lei nel 2019 interpretò 'Il poema della croce' di Alda Merini. "Oggi è un giorno triste, c'è questo paradosso del bel sole, in una Milano che vive di nuovo ed è ripartita e poi c'è questa tristezza per una grandissima artista che se ne è andata. Tutti quelli che amano la Scala sono tristi ma ho potuto osservare fino a che punto l'emozione mondiale vada molto oltre le frontiere dell'Italia", ha detto il sovrintendente della Scala, Dominique Meyer, arrivando ai funerali. Il sovrintendente ha spiegato che la Scala sta pensando a un evento speciale per ricordare la ballerina. "Faremo qualcosa di particolare - ha sottolineato - faremo qualcosa di importante, di bello e spero di commovente". Carla Fracci, ha osservato ancora Meyer, "era una una stella del mondo e dell'universo e vedo che tutte le grandi compagnie con cui ha ballato hanno dimostrato il loro affetto, la loro vicinanza. Ci sono questi sentimenti misti, siamo tristi che se ne sia andata ma trovo bello che ci sia questo grande amore che viene dimostrato oggi". Poi, replicando a chi gli diceva che il marito di Fracci, Beppe Menegatti ha detto che mai come oggi il teatro e la danza oggi sono vivi, Meyer ha commentato: "E la verità, anche se questo è un evento molto triste dimostra a che punto la danza è importante. Qui a Milano, in Italia e nel mondo". E ha aggiunto: "Ieri abbiamo fatto la camera ardente al teatro per lei e la sua famiglia ma anche per far vedere quanto per noi tutti la danza sia importante". Morte Carla Fracci, Sala: "Famedio del Monumentale? Penso di sì" "In 5 anni ho assistito a tanti funerali, purtroppo, come quello di Umberto Veronesi, e altri amici, ma mai ho visto una comunità stringersi così con tanto affetto come sta facendo Milano nei confronti di Carla Fracci", ha detto il sindaco poco prima dell'inizio delle esequie. Secondo il sindaco la grande étoile è stata uno dei simboli dell'operosità di Milano e i milanesi hanno riconosciuto in lei tanti valori in comune. "Per lei stiamo pensando al Famedio - ha aggiunto - ma ovviamente tutto sarà deciso insieme alla famiglia". Ma Milano, la sua città, ha scelto un altro omaggio, oltre al lutto cittadino, per ricordare Carla Fracci: un tram della linea 1, quella che passa proprio davanti al teatro alla Scala, tutto bianco e con il nome della grande ballerina scomparsa giovedì mattina a 84 anni. E' il sindaco Beppe Sala, con un post su Instagram, ad annunciarlo. Sotto una foto che lo ritrae con Carla Fracci, scrive: "Ciao Carla, oggi pomeriggio tutta Milano ti saluterà. Ho chiesto ad ATM di dedicarti un tram della linea 1, quella che passa davanti alla Scala; sarà un tram tutto bianco, con il tuo nome scritto in modo discreto. Penso sia un modo molto milanese di ricordarti, sobrio e che ribadisce i nostri valori e le nostre qualità. Valori e qualità che tu, orgogliosa figlia di un tranviere, hai portato nel mondo. Grazie a nome di tutte le milanesi e di tutti i milanesi". Davanti alla chiesa ha aggiunto: "E' un modo per portare riconoscenza a Carla Fracci perchè noi milanesi alla fine siamo anche persone semplici che fanno del lavoro un atto di devozione. Questa idea così milanese di costruirsi dalle basi è stata incarnata da una persona. Lei andava fiera delle sue origini e di suo padre tranviere per cui ci è venuto naturale pensare a un'iniziativa del genere, poi magari verrano anche altre dediche ma partire da questa ci sembrava più giusto", ha concluso il sindaco. Luigi Fracci era un tranviere nella Milano del Dopoguerra, e in tram accompagnò sua figlia Carla bambina alla prima audizione per entrare nell'Accademia della Scala. "Quando ero piccola prendevo il tram per andare alla Scala: prima la linea 13 che mi portava in piazza Fontana, poi, quando mi trasferii, la 23", raccontava la grande ballerina scomparsa oggi a Milano quando, dieci anni fa, avevano usato una foto d'epoca per il libro celebrativo degli 80 anni di Atm, l'azienda dei trasporti milanesi. In quella foto, pubblicata per la prima volta nel notiziario Atm nel 1958, una giovane Fracci era proprio sul tram con suo padre Luigi. Quel pezzo importante della storia della piccola ballerina è raccontato nel film girato per Rai Uno proprio a Milano dal titolo "Carla", sulla vita di Carla Fracci, come si vede nelle foto di Agenzia Fotogramma che seguono quelle dell'archivio Atm. "Con l'arte della danza, leggera e ardua, Carla Fracci ha mostrato che il movimento del corpo può scrivere messaggi d'amore, storie di dolore, canti di preghiera": con queste parole l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha voluto ricordare l'étoile nel giorno del funerale. "La morte di Carla Fracci - ha osservato - è un'emozione che percorre tutta la città e che suscita echi in tutto il mondo. Partecipo del coro innumerevole che la ricorda, l'ammira, ne medita il messaggio di sublime arte espressiva, di seria disciplina e costante sacrificio, di generosa sensibilità. Porgo alla famiglia le mie condoglianze e assicuro la preghiera di suffragio". "La gloria di Dio - ha concluso monsignor Delpini - trasfigura la gloria umana in compimento e consola chi ne piange il distacco".

Pierluigi Panza per il Corriere della Sera il 29 maggio 2021. Saranno trasmessi in diretta su Rai1 dalle ore 1 4.45 i funerali di Carla Fracci, che si svolgeranno nella chiesa di San Marco a Milano. L' immortale étoile della Scala ha ricevuto sin da ieri mattina nella camera ardente allestita nel foyer del Piermarini un grande tributo di folla, che ha colpito il figlio Francesco: «Abbiamo come sentito un movimento tellurico da tutto il Paese che si è raccolto intorno a mia mamma. Sono certo che sia commossa da questo tributo colossale che la Scala e il teatro le sta facendo». Il feretro della Fracci, ballerina del popolo è stato portato ieri alle 11.30 dentro il teatro, omaggio riservato a pochi artisti. Dietro al feretro il sindaco Giuseppe Sala, il sovrintendente Dominique Meyer e i parenti: il marito, maestro Beppe Menegatti, il figlio Francesco, i nipoti mentre la sorella Marisa ha atteso già seduta all' interno. Nel foyer addobbi e corone di rose e gigli bianchi. La Fracci è stata vestita con l' abito che ha indossato durante l' ultima masterclass alla Scala. A fare da corona a parenti e autorità c' era il corpo di ballo della Scala, con loro, il direttore musicale Riccardo Chailly, quelli del corpo di ballo Frédéric Olivieri e Emanuel Legris, Roberto Bolle («Non avrei mai fatto quello che ho fatto se Carla Fracci non avesse aperto le strade prima di me: ha portato la danza fuori dai teatri»), Luciana Savignano, Oriella Dorella, Ferruccio Soleri e gli attuali primi ballerini del teatro Nicoletta Manni («La Fracci emozionava per la sua sincerità») con Timofej Andrijashenko. All' ingresso è stato eseguito il quartetto «Crisantemi» di Puccini. Quindi si è rispettato un minuto di silenzio, seguito dall' adagio dal quintetto con clarinetto di Mozart e l'«Ave Maria» di Schubert. Poi una delegazione dell' Azienda tramviaria, presso la quale lavorava Luigi Fracci padre della ballerina, ha deposto un mazzo di fiori. Quindi si sono aperte le porte e la folla che attendeva formava un serpentone sin sotto i portici di via Filodrammatici. Tanto che il sindaco ha commentato: «Lei ha amato Milano, profondamente, e credo che raramente si sia visto un ricambio così sincero da parte della città. È anche una bella storia - ha aggiunto - nascere in una famiglia normale, con una volontà di costruire qualcosa di importante. Possiamo anche definirla una sorta di Cenerentola». Menegatti, che ha ricevuto le condoglianze da decine di ex ballerine, ha anche raccontato un aneddoto di quando si nascose dietro le colonne del foyer in occasione della camera ardente di Toscanini. L' arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha ricordato che «con l' arte della danza la Fracci ha mostrato che il movimento del corpo può scrivere messaggi d' amore» mentre il cardinale Gianfranco Ravasi, su Twitter, ha parafrasato il libro di Qoèlet : «C' è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare». Molti enti (come l' Arena di Verona) hanno annunciato che le dedicheranno eventi. In autunno arriverà su Rai1 il film Carla con Alessandra Mastronardi.

Da repubblica.it il 27 maggio 2021. "Vergogna, vergogna, farabutto". Arrivato al Teatro dell'Opera per intervenire all'assemblea organizzata dai sindacati contro il decreto di riforma delle fondazioni liriche, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è stato affrontato a brutto muso da Carla Fracci, che di recente ha visto non rinnovato il suo contratto di direzione del corpo di ballo del teatro romano. Alemanno aveva appena finito di parlare, accolto da qualche applauso e molti fischi. L'etoile, seduta in prima fila accanto al sindaco di Bari, Michele Emiliano, si è alzata di scatto, è andata dal primo cittadino di Roma e ha cominciato ad inveire, visibilmente alterata. Alemanno non ha reagito. "Vergogna - ripeteva la Fracci - per due anni non mi ha mai ricevuto. E sono cose che non dico per me - ha aggiunto - ma per il futuro di questo teatro". Per placare gli animi sono intervenuti il sindaco Emiliano e i parlamentari del Pd, Vincenzo Vita ed Emilia De Biasi. Intanto dal pubblico c'era chi urlava: "Fate parlare Carla Fracci". Erano circa le 16 quando gli impiegati del teatro romano hanno riempito la sala. Dalla galleria ai palchi, fino alla piccionaia. Appena il primo cittadino ha parlato ("è necessario affrontare in maniera seria la fase del negoziato per modificare il decreto Bondi", aveva detto Alemanno), i lavoratori sono esplosi in un boato di urla, fischi e insulti contro Alemanno. "Non basta 'modificare' il decreto - hanno detto - è necessario 'ritirarlo' del tutto". In testa alla protesta l'ormai ex direttrice del corpo di ballo dell'Opera, Carla Fracci, che si è scagliata a gran voce contro il sindaco di Roma, puntando il dito davanti al suo viso urlando: "Vergogna". Rossa in volto, la ballerina ha anche toccato con le mani la gamba di Alemanno e bacchettando ripetutamente l'indice sul suo viso ha detto: "E' colpa tua". Per Alemanno la Fracci si lamentava perché "non gli ho dato un appuntamento. Glielo concederò, ma il problema di fondo è che lei vorrebbe rinnovare un contratto che dura ormai da troppi anni, e per il Teatro dell'Opera di Roma è giusto voltare pagina". E ha continuato: "Con tutto il rispetto per il suo valore artistico mi dispiace ma il rapporto con la Fracci è ormai superato e dobbiamo dare spazio ai giovani e ad altre offerte artistiche". La giornata di protesta contro i tagli al Fondo unico per lo spettacolo (Fus), si era aperta all'insegna della musica. Alle 12 orchestra, coro e corpo di ballo del teatro avevano tenuto sotto la pioggia uno spettacolo all'aperto, in piazza Beniamino Gigli. Alle 14 poi tutti in sala per discutere della "Riforma di sistema dello spettacolo dal vivo, riordino Fondazioni lirico sinfoniche, decreto ministeriale". Ad ascoltare anche i rappresentanti sindacali di tutte le fondazioni e i sindaci di Bari, di Genova e di Roma. "La contestazione al sindaco è di chiara matrice ideologica - ha sottolineato il presidente della commissione cultura del Comune di Roma, Federico Mollicone - E' inaccettabile sia nei modi che nei termini". E contro la Fracci, Mollicone annuncia che verificherà "quanto siano costate, in questi ultimi anni, le produzioni curate dall'ex direttrice del corpo di ballo e quali sono state le agenzie chiamate a realizzarle, invitandola altresì a non lanciarsi in atteggiamenti intollerabili e che poco hanno a che vedere con una etoile, che per tutti è stata un'icona di stile e compostezza". E anche dal Partito democratico arrivano le prime reazioni. Plaudendo la sinergia messa in atto dalle sigle sindacali e i lavoratori, i democratici chiedono l'immediato ritiro del decreto per la sua incostituzionalità. "Siamo vicini ai lavoratori del settore che per primi risentono degli effetti di una ennesima ed inutile decretazione d'urgenza. Per questo - ha spiegato Marco Miccoli, segretario romano del Partito - inviteremo i nostri rappresentanti in Campidoglio a presentare celermente un ordine del giorno sull'argomento". Ad Alemanno è arrivata nel pomeriggio la solidarietà del sottosegretario Francesco Giro. "Piena solidarietà - ha scritto Giro in una nota - ad Alemanno dopo la contestazione della Fracci". "Il clima - sempre secondo Giro - è troppo incandescente, perché qualcuno, invece di cercare soluzioni condivise e soprattutto praticabili, si ostina a gettare benzina sul fuoco, e fra questi non è certamente il governo". E ha aggiunto: "Noi, al contrario, ci siamo assunti la responsabilità di affrontare un'autentica emergenza che, da un lato i sovrintendenti, dall'altro i sindacati non erano riusciti a risolvere in qualche modo. Lo dimostra il congelamento al 2003".

·        E’ morta l’attrice Isabella De Bernardi.

Da repubblica.it il 27 maggio 2021. Se n'è andata a soli 57 anni a causa di una malattia Isabella De Bernardi, la ragazza che in Un sacco bello interpretava Fiorenza, la ragazza hippy fidanzata di Carlo Verdone. Un ruolo che le valse una popolarità di cui godeva ancora oggi, a distanza di quarant'anni. Era nata a Roma il 12 luglio del 1963 ed era la figlia dello sceneggiatore Piero De Bernardi, lo storico autore cinematografico che con Leo Benvenuti formò una delle coppie di maggiore successo della commedia all'italiana. L'esordio al cinema di Isabella fu proprio con Verdone, che le offrì il ruolo di Fiorenza dopo averla vista nell'abitazione del padre Piero durante la la stesura della prima sceneggiatura. E sempre con Verdone proseguì la sua carriera cinematografica, da Borotalco (1982) a Il bambino e il poliziotto (1989), prima di lavorare anche con Alberto Sordi ne Il marchese del Grillo (1981) e Io so che tu sai che io so (1982). Isabella De Bernardi partecipò a una delle prime serie italiane, I ragazzi della III C, ma è con la hippy dalla parlata biascicata, dalle parolacce in romanesco ("a fascio", diceva al padre di Carlo interpretato da Mario Brega) che restituì al pubblico una fotografia dell'epoca, le ultime propaggini dei figli dei fiori, degli "alternativi", rimanendo legata per sempre a quel ruolo. Lasciò il cinema per trovare la sua strada nella passione per il disegno e la grafica. Era diventata art director e direttrice artistica presso l'agenzia Young&Rubicam.

Franco Pasqualetti per leggo.it il 27 maggio 2021. I ricci sono sempre gli stessi. Magari un po' più biondi. La voce è meno adolescenziale ma la simpatia è immutata. E sta al gioco di ricordare Un sacco bello mentre mette a punto progetti e dà l'ok a quelli dei suoi collaboratori, da buona art director quale è oggi. Isabella De Bernardi nell'immaginario collettivo è Fiorenza, la compagna di Carlo Verdone nel film cult: «A stronzo. Punto esclamativo». Una battuta fissata nella memoria di almeno 3 generazioni.

Sono passati quarant'anni...

«Non me lo dica, la prego».

Eppure è così.

«Sì, ma è incredibile come quasi ogni giorno la gente mi fermi per strada magari solo per farsi dire A stronzi!. So quarant'anni che mi chiedono di prenderli a parolacce».

Come nacque quell'avventura?

«Carlo era sempre a casa mia per scrivere la sceneggiatura con mio padre (Piero De Bernardi, ndr). In camera mia stavo litigando con mia sorella e Carlo seguì quella rissa verbale. Andò da papà e gli disse è perfetta per Fiorenza. Da lì nacque il personaggio e io... feci solo me stessa».

Una curiosità: ma lei anche nella realtà masticava la gomma come nel film?

«La verità è che a me le gomme americane facevano pure schifo, eppure per copione ne ho dovute prendere decine di pacchetti. La sera tornavo a casa che sembravo una Big Babol alla fragola».

Oggi Fiorenza, pardon Isabella che fa?

«Ho lasciato il cinema per seguire la mia grande passione: la grafica. Sono una art director e do sfogo alla mia creatività così».

Cosa le ha fatto cambiare strada?

«Una volta venne a casa mia Paolo Villaggio, mi guardò e disse: Vuoi davvero fare la fine di Raffaella Carrà? Non mi  sentivo proprio all'altezza di Raffaella...».

Enzo, Ruggero e Leo: tre facce della romanità dei primi anni 80, tre solitudini, tre maschere esilaranti e malinconiche che hanno raccontato un preciso momento italiano e traghettato un giovane comico che stava spopolando in teatro e in tv verso quella che sarebbe poi stata una lunga carriera sul grande schermo. Sono passati 40 anni dalla comparsa del bullo, dell'hippy e dell'ingenuo protagonisti del film d'esordio di Carlo Verdone Un sacco bello. Mentre nel mondo uscivano film come Manhattan, Hair e Apocalypse Now e in Italia si consumavano gli ultimi anni di piombo, grazie all'aiuto di Sergio Leone, Verdone debuttava dietro la macchina da presa e faceva diventare personaggi da film i tipi che aveva a lungo osservato per le strade e nei bar e poi plasmato grazie al suo talento da attore comico e trasformista. Ambientato nella Capitale intorno a Ferragosto, Un sacco bello segue, appunto, le vicende del sedicente playboy Enzo, che vorrebbe partire per una vacanza in Polonia ma rimane senza il suo compagno di avventura, quelle di Ruggero, figlio dell'amore eterno, capelli lunghi biondi e parlata pesantemente capitolina, che si confronta con il padre (Mario Brega) che vorrebbe ricondurlo a una vita meno nomade, e quelle di Leo, timido e impacciato trasteverino che si invaghisce di una turista spagnola, Marisol (nella foto). Sono tre dei sei personaggi che Verdone interpreta in un film le cui battute sono rimaste scolpite nella memoria collettiva. «Credo che in quel film ci sia una mia forte componente caratteriale, un po' malinconica ha detto Carlo Verdone ieri in un video postato su Facebook in occasione dell'anniversario C'è la grande solitudine di questa bella città che all'epoca aveva una grande anima, nel popolo, nelle atmosfere, nei rumori. Era una città che aveva tanta poesia. L'aver ambientato il film in una Roma d'estate deserta è stata una grande intuizione, una città dove non c'erano tanti rumori come oggi. Si sentiva il rumore dell'acqua di qualche fontana, qualche campana, qualche macchina che passava, qualche motorino smarmittato...». C'era anche un altro rumore, in quel film: quello dell'esplosione di una bomba che viene sentito dai protagonisti ma rimane sullo sfondo, senza che si spieghi o si veda nulla. L'eco di un'epoca che stava finendo, di un'atmosfera che Verdone ha comunque registrato e raccontato, così come ha saputo raccontare i romani e gli italiani in questi 40 anni.

·        E’ morto il calciatore Tarcisio Burgnich.

Tarcisio Burgnich è morto a 82 anni: addio all’ex difensore di Inter e Napoli. Debora Faravelli il 26/05/2021 su Notizie.it. Addio a Tarcisio Burgnich, storico terzino dell'Inter e della Nazionale: l'ex campione d'Europa 68 si è spento all'età di 82 anni. Il calcio piange la scomparsa dell’ex difensore di Inter e Napoli Tarcisio Burgnich, morto all’età di 82 anni dopo una lunga malattia. Nel 1968 era stato campione d’Europa con l’Italia e due anni dopo vicecampione del mondo. Burgnich è deceduto in Versila, dove viveva da molti anni, all’ospedale San Camillo di Forte dei Marmi. La sua carriera è legata soprattutto all’Inter, di cui ha indossato la maglia dal 1962 al 1974 divenendo uno dei pilasti della Grande Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera. Armando Picchi, compagno di squadra nel club nerazzurro e in nazionale, lo aveva soprannominato “Roccia” per la sua prestanza fisica. A lui si sono ispirati futuri specialisti della marcatura a uomo come Claudio Gentile e Pietro Vierchowod. Originario di Ruda, in Friuli, l’ex calciatore è considerato uno dei migliori difensori italiani di sempre. Terzino destro, stopper o libero, dopo essere cresciuto nell’Udinese è passato alla Juventus ma senza trovare sufficiente spazio. A seguito di una breve parentesi nel Palermo, è approdato all’Inter nel 1962 divenendo un tassello fondamentale della difesa di Helenio Herrera. Burgnich ha indossato la maglia nerazzurra per dodici anni, periodo in cui ha collezionato 467 presenze, segnato 6 gol e conquistato 8 trofei tra cui 4 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali. La sua carriera si è chiusa al Napoli. Con la maglia azzurra della Nazionale ha fatto parte del gruppo che nel 1968 ha trionfato all’Europeo, ancora oggi unico successo dell’Italia nella manifestazione, ed è poi arrivato in finale a Messico 1970 arrendendosi solo al Brasile di Pelè dopo il 4-3 contro la Germania. Alla fine degli anni Settanta ha anche intrapreso la carriera di allenatore occupando, fra le altre, le panchine di Catanzaro, Bologna, Como, Cremonese e Pescara, ultima sua esperienza a inizio 2001.

Gigi Garanzini per “La Stampa” il 27 maggio 2021. Minuto di silenzio per Tarcisio Burgnich, la Roccia dell'Inter euro-mondiale e della prima grand' Italia del dopoguerra. Sarti-Burgnich-Facchetti la filastrocca della prima, Albertosi-Burgnich-Facchetti della seconda: giusto una generazione prima di Zoff-Gentile-Cabrini, anche se il vecchio Dino, friulano doc a sua volta, c' era già ai tempi dell'Europeo '68 e chissà perché, a pensarci, a Mexico '70 dovette ri-cedere il passo al meno giovane Albertosi. Era il tempo delle staffette, evidentemente, che culminò in quella mai abbastanza esecrata tra Mazzola e Rivera. La Roccia di allora pesava 81 chili per 1,75: nella difesa dell'Inter di Conte tra Skriniar, De Vrji, Bastoni e magari Ranocchia sarebbe sembrato un riformato alla visita di leva. Perché le stazze di oggi sono tutt' altre e basta guardare una foto di gruppo dei messicani per provare un brivido di tenerezza. Ma il calcio era già allora uno sport di contatto: e contro la Roccia anche gli attaccanti più potenti e coraggiosi dell'epoca, a cominciare da Gigi Riva, molto semplicemente rimbalzavano. Per loro fortuna Burgnich era un marcatore implacabile ma leale, che solo una volta si arrabbiò seriamente: un pomeriggio a San Siro in cui una gomitata proprio di Riva gli fece saltare due denti. Cercò e trovò il modo di restituire, avrebbe raccontato anni dopo: e una volta pareggiati i conti, gli tese la mano. Era giusto per Riva la punizione che Rivera battè dalla trequarti all' Azteca, subito dopo la frittata di Poletti che aveva regalato a Gerd Muller il pallone del 2-1. Ma finì sulla testa di un tedesco che la respinse corta e male: e lì, nel cuore dell'area avversaria dove di norma si spingeva solo mostrando il passaporto, fu la Roccia a controllarla con tutta calma e a spedirla in rete di sinistro. E fu quello il segnale che la maionese ormai era impazzita, e poteva davvero succedere di tutto. L'altro fotogramma di quel giugno del '70 è di quattro giorni più tardi, al minuto 18 della finale col Brasile: ed è di tutt'altro segno. Sul cross di Rivelino, Burgnich è in ritardo e potendo staccare in solitudine il colpo di testa di Pelè è una sentenza. Si seppe poi, e qualcosa si intuisce rivedendo le immagini, che mentre Tostao stava per battere la rimessa che innescò la parabola di Rivelino, arrivò dalla panchina l'ordine di cambiare le marcature perché sino a lì su Pelè, partito arretrato, c' era stato Bertini: abituato a far sentire all' avversario il contatto fisico sullo stacco, la Roccia si trovò nella terra di nessuno. E annaspò invano nell' aria. Qualche giorno prima, con un colpo di testa praticamente identico, 'O Rey aveva costretto Gordon Banks all' allora parata del secolo, che tale è rimasta a distanza di oltre cinquant' anni. Ma a Burgnich, di professione marcatore a uomo, quel cruccio era rimasto dentro: perché nella partita più importante di una pur leggendaria carriera, contro il giocatore più forte del mondo, non era riuscito a essere la Roccia di sempre. Si era perso l'uomo, sia pur per una scelta non sua. Contravvenendo al primo comandamento che aveva imparato a memoria nelle giovanili dell'Udinese. Con un occhio e mezzo guarda sempre il tuo avversario: con l'altro mezzo il pallone. Abiurò soltanto in tarda età, quando dopo l'epopea interista andò a fare il libero al Napoli di Vinicio che sperimentava la zona (spuria, visto che contemplava per l'appunto il libero). E arrivò a un passo da un altro scudetto, dopo tutti quelli vinti con l'Inter, più le coppe dei Campioni e le Intercontinentali. E sì che in gioventù era stato bocciato a un provino del Catania, che gli aveva preferito un altro friulano a nome Bruno Pizzul. Ciao Tarci, buonanotte Cipe. Così si salutavano in ritiro lui e Facchetti, spegnendo la luce alle canoniche 22,30. E raccontandolo, chiosava: tra Inter e Nazionale ho dormito più con lui che con mia moglie. Addio Roccia.

Da gazzetta.it il 26 maggio 2021. Il calcio piange la scomparsa di Tarcisio Burgnich, la Roccia, il difensore della Grande Inter di Helenio Herrera e Angelo Moratti, campione d'Europa nel 1968 e vice campione del mondo nel 1970 con la Nazionale azzurra. L'ex giocatore e allenatore è scomparso questa notte in Versilia dove viveva da molti anni. Era nato a Ruda (Udine) il 25 aprile 1939.

DA "Cinquantamila" di Giorgio Dell’Arti - cinquantamila.it il 26 maggio 2021. Tarcisio Burgnich, nato a Ruda (Udine) il 25 aprile 1939 (80 anni). Ex calciatore, di ruolo difensore. Giocatore di Udinese (1958-1960), Juventus (1960/1961), Palermo (1961/1962), Inter (1962-1974) e Napoli (1974-1977); vincitore di cinque campionati italiani (quattro con l’Inter, uno con la Juventus), una Coppa Italia (col Napoli), due Coppe dei campioni (con l’Inter), due Coppe intercontinentali (con l’Inter) e una Coppa di lega italo-inglese (col Napoli). Militante della Nazionale italiana (1963-1974), con cui fu campione d’Europa nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970. Ex allenatore, dal 1978 al 2001 (Livorno, Catanzaro, Bologna, Como, Genoa, Vicenza, Cremonese, Salernitana, Foggia, Lucchese, Ternana, Pescara). «In definitiva, sono stato di più in camera con Facchetti che con mia moglie. Si andava in ritiro il venerdì mattina quando c’erano le coppe, poi si dormiva insieme, sia all’Inter che in Nazionale. Ci volevamo bene»

«Fu Armando Picchi a chiamarlo “Roccia”. In una partita con la Spal arrivarono a contendersi il pallone Novelli, un’ala veloce, e Burgnich. Novelli rimbalzò a tre metri e rimase a terra come l’avesse investito un camion. "Ti capisco, sei andato a sbattere contro una roccia", andò a consolarlo Picchi, che era un ex» (Gianni Mura)

«Il padre, Ermenegildo, lavorava alla Snia, a Torviscosa. Aveva fatto la guerra del ’15-’18 con la divisa degli austriaci ("era in Marina, a Grado"). "Da bambino tenevo al Toro. Dopo Superga, in classe piangevo e i compagni mi prendevano in giro. Tra noi giocavamo il derby della Mole: le milanesi erano una realtà lontanissima. Facevamo il pallone riempiendo di fieno secco le calze di nylon: erano passati gli americani. Oppure palleggiavamo con le pallette da cricket che lasciavano gli inglesi. Per vedere un pallone vero, ce n’è voluto"» (Mura).

«Ragazzino, cominciò a giocare con i fratelli a Ruda, nel profondo Nord friulano, cinque figli in una famiglia di tanto lavoro e poche parole» (Pietro Cabras). «A Ruda non esisteva l’oratorio, ma la squadra del paese. […] Con la mia prima maglia amaranto, nasco mezz’ala, e ho disputato il campionato di Prima divisione e poi l’Interregionale a Romans d’Isonzo (Go), per poi finire a Udine per 3 anni, un anno in Primavera e poi gli altri due in prima squadra» (ad Andrea Nocini). «Burgnich nasce centrocampista, e nelle giovanili dell’Udinese gli cambiano ruolo» (Mura).

«L’ascesa parte dal suo paesino, dove lo scova un talent scout dell’Udinese, subito colpito dall’asciuttezza dello stile: nessuna concessione alla platea, l’annullamento dell’attaccante avversario, in anticipo di piede o sovrastandolo negli stacchi di testa, e la battuta lunga di destro a disimpegnare. Il debutto in A è precoce» (Carlo Felice Chiesa). «A 20 anni ero l’unico giocatore di serie A che giocava e lavorava. Alle sette di mattina ero in cantiere, poi con la bici e con il pullman andavo ad allenarmi nell’Udinese. Allora il difensore doveva soprattutto essere umile ed annullarsi» (a Emanuela Audisio).

L’esordio nella massima serie avvenne in «una gara che avrebbe stroncato qualsiasi esordiente: Milan-Udinese 7-0, con tripletta di Carletto Galli, doppietta di Gastone Bean e le altre reti di “Pantera” Danova e Fontana. Era il 2 giugno 1959: è evidente che il giovane Tarcisio era schierato con i furlani, e contro c’era il Milan dell’allenatore-umanista Luigi “Cina” Bonizzoni e pilotato in campo dal genio uruguaiano di Juan Alberto Schiaffino. I rossoneri con quella partita sarebbero divenuti campioni d’Italia con una giornata d’anticipo. Fu, quello, l’anno dei 33 gol di Antonio Valentin Angelillo. L’Udinese si salvò comunque» (Alberto Figliolia).

«La stagione successiva disputò 7 partite in bianconero che bastarono a farlo convocare nella rappresentativa nazionale per le Olimpiadi di Roma» (Roberto Meroi). «È vero che il Catania, cui serviva un difensore, convocò per un provino lui e Bruno Pizzul e preferì Pizzul? "È vero, ma non me la presi più di tanto, perché poi andai alla Juve"» (Mura). «Su di lui posò subito gli occhi la Juventus. A Torino, anche se conquistò lo scudetto 1960/61, Tarcisio fece solo 13 presenze in campo e venne ceduto al Palermo» (Meroi). «Si ritrova a Palermo. "Io non ci volevo andare – ricorda sorridendo Burgnich –: avevo disputato tredici partite, vinto lo scudetto. Conservo ancora il deferimento perché avevo rifiutato il trasferimento. Facevo anche il militare e andavo su e giù da Roma, noi scapoli alloggiavamo nei locali dello stadio alla Favorita: un caldo terribile e zanzare a volontà. Ma a Palermo sono stato benissimo. È stata un’annata ricca di soddisfazioni". Il Palermo arrivò ottavo, il miglior piazzamento della storia rosanero prima del ritorno in A del 2004. E Burgnich segna il suo primo gol in A. "Sì, proprio a Torino contro la Juventus. Il Palermo vinse 4-2. Indimenticabile". L’altro terzino del Palermo è Vittorio Calvani, che ha una storia singolare. In giugno era stato chiamato dall’Inter, che voleva acquistarlo: doveva giocare con i nerazzurri in amichevole la sera della presentazione di Suárez. Un callo al piede, maldestramente inciso dal massaggiatore con una lametta, impedisce a Calvani di giocare, e salta il trasferimento all’Inter. Che sceglierà Facchetti. Con Facchetti giocherà proprio Burgnich» (Giuseppe Bagnati).

«Inizio difficile, poi stagione esaltante. Mi sono divertito, abbiamo giocato un bel calcio e in casa abbiamo battuto l’Inter. Uno a zero, gol del brasiliano Fernando, un buon giocatore. Il Mago Helenio era convinto di fare sfracelli. “Siamo i più forti, non ci sarà partita”, diceva. Invece le hanno prese. […] Siamo arrivati ottavi, con trentacinque punti: la Juve quell’anno ne ha fatti ventinove. […] A fine campionato siamo partiti per l’America, in tournée: ingaggio tremila dollari. La prima della mia vita. Abbiamo fatto un volo che non finiva mai. Siamo atterrati in Scozia, dove è salita una squadra. Poi in Germania ne abbiamo imbarcata un’altra. A New York abbiamo giocato una serie di amichevoli, e quelli della comunità siciliana diventavano matti, erano felici. Il Palermo negli Stati Uniti: bellissimo. Abbiamo fatto una grande sfilata a Little Italy» (a Germano Bovolenta). «Con il Palermo andammo a New York a fare una tournée e mi sono fatto male al ginocchio. Proprio in quel periodo è venuta la proposta dell’Inter. Ho avuto paura che rinunciassero per questo infortunio. Sono andato preoccupato all’Inter. Invece in nerazzurro ho vissuto dodici anni meravigliosi» (a Walter Veltroni).

«"Herrera avrebbe preferito Facca del Lecco o Ardizzon del Venezia: a volermi fu Allodi", ricorda Burgnich. Inizia l’epopea della grande Inter. "Herrera ha cambiato la mentalità del calcio in Italia, ha introdotto il professionismo: prima ci si allenava tre volte a settimana, da quando arrivò lui tutti i giorni. Lui c’era già da due stagioni all’Inter". […] Prima stagione all’Inter e subito scudetto, era già successo alla Juve: Burgnich è uno che porta bene» (Bagnati).

«A Milano Tarcisio Burgnich divenne inamovibile terzino destro dei nerazzurri per ben 12 stagioni di fila, conquistando 4 scudetti, vincendo due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Con l’altro interista Giacinto Facchetti (a sinistra) formò la coppia fissa di terzini della nazionale italiana. Esordì in maglia azzurra a Roma il 10 novembre 1963 contro l’Urss, in una partita valida per le qualificazioni agli Europei del 1964. Quella fu la prima delle 66 partite giocate da Burgnich con l’Italia maggiore. Ancora a Roma, il 10 giugno 1968, fu protagonista della vittoriosa partita di finale agli Europei (2-0 contro la Jugoslavia). Non andò bene, invece, la finalissima della Coppa Rimet a Città del Messico del 21 giugno 1970, persa contro il Brasile (1-4), dopo la splendida e memorabile Italia-Germania (4-3) di quattro sere prima. Toccò a lui tentare di marcare un Pelé in grande forma. Dopo 358 partite di campionato con l’Inter, nel 1974 Burgnich venne ceduto al Napoli: in Campania chiuderà la sua carriera agonistica dopo tre stagioni, 84 presenze e la conquista di una Coppa Italia e una Coppa di Lega Italo-Inglese con la maglia partenopea» (Meroi). «Ho voluto molto bene all’Inter, e ho sofferto quel giorno ad Appiano, quando Janich del Napoli mi ha detto: “Adesso sei dei nostri”. Come, dei vostri? Mi avevano ceduto, senza dirmi niente. Lo sapevano tutti e non lo sapevo io. Certo, avevo 34 anni, non ero più uno sbarbato. Ma ditemelo: ho fatto dodici anni con voi. Poi passa tutto: sono andato a Napoli con un ginocchio malandato, ma ho lavorato bene, credo, altri quattro anni». «A Napoli, con la “zona” di Vinicio, mi sono proprio divertito. Non c’erano grandissimi nomi, ma eravamo uniti, e per un pelo non abbiamo vinto lo scudetto, nel ’75». «"Un’esperienza bellissima: facevo il libero elastico con tre centrali. Vinicio ci faceva applicare il fuorigioco: mi sono divertito tanto". A convincerlo a diventare allenatore è stato Italo Allodi, che lavorava per la Federazione. "La mia prima squadra è il Livorno. In quella città ho ripensato tanto a Picchi: lo stadio era intitolato a lui. Primo anno così così, il secondo sfioriamo la promozione. Ma i soldi erano pochi. Io da tecnico non ho mai cercato nessuno, mi hanno sempre chiamato gli altri. Così, mentre ero a Catanzaro, si fa vivo Fraizzoli, che mi voleva all’Inter. Ma avevo già dato la parola al Bologna"» (Bagnati). «Quando ero al Como, il dottor Berlusconi mi chiamava per lamentarsi che non facevo giocare Borghi. Gli risposi: io devo salvare la squadra. Nel Bologna ho fatto debuttare Mancini in serie A, a 16 anni». «Dal 1978 (Livorno) fino al 2001 (Pescara) lei ha guidato le squadre dalla panchina. Come mister ha qualcosa da rimproverarsi? “No, ho sempre cercato di fare del mio meglio. Purtroppo, sono sempre caduto in società dove non c’erano quattrini. E se non hai quattrini non hai giocatori, e se non hai giocatori diventa difficile ottenere dei grossi risultati”» (Nocini). In seguito, «sporadicamente viene chiamato dall’Inter per seguire qualche giovane in giro per il mondo, ma quando, nel 2006, Giacinto Facchetti muore, anche Burgnich decide di lasciare i riflettori» (Benedetto Greco)

«Quale ricordo di Italia-Germania? "Non sbagliano a chiamarla "partita del secolo". È stato un incontro alla scapoli-ammogliati: ciascuno tirava fuori l’orgoglio della propria Nazione, non c’erano tattiche. E lo dimostra il fatto che all’Azteca io abbia segnato uno dei pochissimi gol della mia carriera. Raggiungemmo la finale della Coppa del Mondo". E, poi, è arrivato Pelé… "Eh sì, che ci vuoi fare. A Città del Messico non riuscii a fermarlo: era immarcabile per chiunque, la sua carriera l’ha testimoniato. È il più grande della storia del calcio, senz’ombra di dubbio"» (Andrea Pontone).

«C’è una foto, ormai storica, in cui c’è Pelé in volo e Burgnich che tenta invano di contrastarlo. È quella del primo gol del Brasile nella finale ai Mondiali del 1970. Finirà 4-1 per i brasiliani. "Sì, Pelé sembra in cielo, ma io sono in diagonale, sorpreso dal cross di Rivelino: ecco perché mi sovrasta tanto". In semifinale c’era stata la leggendaria partita con la Germania. Nel 4-3 c’è anche un gol di Burgnich, quello del 2-2. "Sì, ogni tanto capita che anche un terzino vada all’attacco: andò bene". In quel "capita" c’è tutto Burgnich: segna un gol che passa alla storia, e lui lo liquida come un evento qualunque. Gianni Brera in pagella gli diede 9+, "e non soltanto per il gol". C’è anche un’altra foto emblematica: Pascutti che vola quasi a filo d’erba e colpisce di testa, vano il tentativo di Burgnich. "Sì, fu più bravo di me: tentai pure di prenderla con una mano, ma niente da fare"» (Bagnati)

«Vive in Toscana da quando seguì la donna della sua vita, la signora Rosalba, sua moglie [dal 1963 – ndr], […] che gli ha dato tre figli, Simonetta, Patrizia e Gualtiero» (Cabras)

«L’Inter è stata l’Inter. C’era il Mago, c’erano Giuliano, Armando, Giacinto, Sandro, Mario, Peiró, Suárez, Jair. Il Mago ha cambiato il calcio e ha cambiato le nostre vite». «La mia Inter è una storia irripetibile. Eravamo forti. Eravamo amici. Compatti come un pugno chiuso. E, poi, c’era il Mago. Quando si perdeva, andava davanti alle telecamere e urlava: “Colpa dell’arbitro”. Ma, il giorno dopo, nello spogliatoio ti massacrava. Ricordo un Inter-Benfica. Dovevo marcare Simões, ma in un’azione di gioco mi ritrovai su Eusebio. Risultato: la palla arrivò a Simões, che fece gol. A fine partita, il Mago mi chiuse nella sua stanza e mi disse: “Devi andare anche al gabinetto con l’uomo che devi marcare, chiaro?”» (a Luca Calamai).

«Che ricordo ha di Herrera? "Una persona perbene. Era stato povero, molto povero, e ci esortava a non buttare via i soldi. Aveva la mania dei ritiri, multava chi giocava a carte: un po’ di biliardo lo tollerava, ma col suo arrivo è stato come salire su un’astronave del futuro. Aveva istituito per i giocatori dei corsi d’inglese, cinquant’anni fa, e anche di yoga, che lui praticava tutti i giorni"» (Mura). «"Con Herrera ho fatto una gran fatica, perché gli allenamenti erano durissimi. Ai giocatori che ho allenato, dicevo sempre: voi fate la metà di quello che abbiamo fatto noi. E non è vero che andavamo a due all’ora: si marcava a uomo e correvamo di più”. Non ci sta nemmeno quando gli parlano di grande Inter catenacciara.

“Macché. Difendevamo io, Guarneri e Picchi. Facchetti stava sempre all’attacco, gli altri non è che dessero una mano in copertura". La delusione più grande? "Lo scudetto perso a Mantova nel ’67 all’ultima giornata in un modo un po’ così… Mi è rimasto sul gozzo per un anno"» (Bagnati)

«Con Facchetti, Tarcisio formava la coppia di terzini più ammirata degli anni Sessanta e Settanta, colonne della grande Inter di Herrera e della Nazionale di Valcareggi, […] cementati dalla stessa filosofia di gioco, di vita» (Cabras).

«Povero Giacinto, quante camere abbiamo condiviso. Era una gara a chi parlava di meno. Avevamo tanta roba da leggere: io libri di storia, lui romanzi. “Buonanotte, Tarci”, “’notte, Cipe”, alle 22.30 si spegneva la luce»

«Qual è, di quella esperienza all’Inter, la vittoria che ricorda con più piacere? “Battere il Real Madrid nel ’64 a Vienna, in Coppa dei Campioni. Era una squadra leggendaria, sembrava imbattibile. L’abbiamo battuta”» (Veltroni).

«Dinnanzi a noi c’erano Puskas e Di Stefano, due fuoriclasse: è come se oggi Messi e Ronaldo giocassero insieme. Vincere contro la loro squadra per un difensore è il massimo»

«Anche gli avversari (da Pulici a Riva) hanno riconosciuto a Burgnich grande lealtà, unita alla grinta. Eppure si pensa a quegli anni, moviola zero o quasi, come a una specie di Far West. "Lo dice chi non li ha visti. I nostri allenatori ci esortavano a essere corretti, specie in area di rigore. Bisogna dire che gli arbitri erano meno permissivi, ai miei tempi. E poi, giocando addosso all’uomo, non potevi fargli molto male. Roba minima, spintine, calcettini, ma senza rincorsa. Oggi vedo falli molto più violenti: piedi a martello, entrate a forbice in scivolata, gomitate al viso. Ora parlo da difensore: ho visto gialli e rossi assurdi, è impossibile saltare stando sull’attenti o con le mani dietro la schiena. Alzare le braccia fa parte del saltare. È la gomitata premeditata, la carognata è da punire, non il salto e le braccia aperte. Una domenica a San Siro con una gomitata Riva mi ha buttato giù due incisivi e un premolare. Appena ho potuto gli ho reso il fallaccio, e poi mi sono scusato. Non ho mai avuto problemi con gli avversari". […] Come si diventa grandi difensori? "Sostanzialmente bisogna essere umili. E poi, sempre concentrati. L’attaccante è un ruolo di fantasia, il difensore no. Ti tocca sempre la seconda mossa, ti muovi in base a come si muove l’avversario. Lui vuole fare, tu impedirgli di fare. Uno dei miei primi allenatori, Comuzzi a Udine, mi diceva: con un occhio e mezzo guarda l’uomo, con l’altro mezzo occhio il pallone. […] Io ero un difensore umile e veloce, me la sono cavata anche contro Gento. Chi ha messo più in difficoltà è stato Dzajic, nel ’68. Alla prima partita: poi gli ho preso le misure"» (Mura).

«Quando c’era da impostare una marcatura serrata sull’uomo più pericoloso, quella toccava sempre a me. Il cane più rabbioso, più pericoloso, lo affidavano sempre al sottoscritto»

«È stato uno dei più forti terzini della storia calcistica italiana, uno dei più grandi calciatori di sempre del Friuli. Soprattutto, interessa sottolineare l’aspetto morale del personaggio. Burgnich è stato un modello di serietà professionale e correttezza in campo» (Meroi). «Un asfissiante mastino capace di mettere la museruola ai più grandi attaccanti del mondo, mantenendosi in una linea di correttezza che in un difensore significa soprattutto classe. E, di classe, ne aveva tantissima Burgnich, che fu caposaldo della difesa della grande Inter di Helenio Herrera, uno dei reparti più granitici della storia del calcio» (Chiesa).

«Era un mastino che non doveva mai mollare il suo osso. Schivo e discreto anche fuori dal campo, classico friulano di silenzi e sostanza» (Vincenzo Cito)

«Il calcio di oggi non gli piace affatto. "Soprattutto i comportamenti. Manca il rispetto. Sono quasi tutti coetanei, magari l’anno dopo si ritrovano nella stessa squadra, invece sceneggiate, mani sul volto. Riva mi ha rotto due denti, ma siamo stati sempre amici. E sapete perché ci sono tanti infortuni? Perché non c’è tempo di recuperare: finito l’allenamento, si pensa a fare pubblicità: noi stavamo a farci massaggiare, a curare i dolorini. Ma quello che mi dà più fastidio sono i trenini, i calci alla bandierina dopo un gol. Ecco, la federazione dovrebbe intervenire. Mi sembrano tante marionette"» (Bagnati).

«Le sceneggiate di oggi, non le capisco. Segni? Accontentati. Ma non mancare di rispetto ai tuoi avversari con gesti e scritte. Perché ci sono i ragazzini che ti guardano, e che poi sui campetti ti imitano. Io darei un cazzotto a chi mi si mette a ballare davanti dopo una rete». «A me piacerebbe che ci fosse […] un codice estetico. A volte vedo una sfilata di ragazzi che non sai se vanno a giocare a pallone o a una trasmissione di Maria De Filippi. Le creste, i tatuaggi dappertutto, gli anellini, gli orecchini, le scarpe rosse, gialle, lilla, verdi, azzurre. Più di questo spettacolo, mi fa tristezza un bambino di otto anni pettinato come Balotelli»

«Ho cominciato a otto anni, a Ruda, in Friuli. Volevo diventare un calciatore: ci sono riuscito. Era una passione, è diventato un mestiere bellissimo. Sono stato un uomo molto fortunato, ho avuto tutto e se tornassi indietro rifarei quello che ho fatto. Tutto. La mia è stata, è una bella vita». «Ha rimpianti? "No. […] Quando sono partito da Udine per Torino, non pensavo che dal calcio avrei avuto tutto quello che ho avuto. Da giocatore. Da allenatore, mi chiamavano squadre costruite un po’ alla carlona, sempre nella parte destra della classifica, a volte con un piede nella serie inferiore. Ragionamento dei presidenti: se andiamo in B, è colpa di Burgnich. Era più colpa loro, ma non importa. Se mi giro indietro, sono felice"» (Mura).

·        Morto Max Mosley, ex "Re" della Formula 1.

Morto Max Mosley, addio all'ex "Re" della Formula 1 travolto dal nazi-scandalo: aveva 81 anni. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. All'età di 81 anni è morto Max Mosley, che è stato per tanti anni il presidente della Fia (Federazione Internazionale dell'Automobile). Mosley è stato uno dei dirigenti più importanti nella storia del Circus: con Bernie Ecclestone ha cambiato il mondo della Formula 1, facendola diventare uno degli sport più importanti e appetiti (dal punto di vista finanziario) del mondo. Era figlio di Sir Oswald, un politico che negli anni '40 in Inghilterra fondò un partito fascista. Nonostante fosse stato in pratica messo al bando, come tutta la sua famiglia, Mosley si era laureato cercando di diventare un pilota, avendo però risultati modesti. Guidò anche una Williams, ma non ebbe fortuna come corridore. Rimase in Formula 1 lavorando per la March e successivamente fondò la FOCA con Ecclestone, Williams e Tyrrell. I tre creano un ‘associazione che farà parte della Fia e che proverà a far aumentare i guadagni delle scuderie. E successivamente con la FOCA Mosley darà il là al ‘Patto della Concordia', per gestire il lato economico e commerciale della Formula 1. Nel 1991 succede a Jean-Marie Balestre ed è il presidente della FISA che si accorpa alla FIA e viene eletto presidente anche nel 1997, nel 2001 e nel 2005. Chiude la sua carriera a causa di uno scandalo sessuale, in cui come rivelerà un tabloid inglese in un video di cinque ore si atteggia a comandante di un lager nazista durante una "depravata orgia in stile nazista", dando ordini in tedesco alle prostitute nude o seminude, frustandole e poi a sua volta "godendo a farsi frustare a sangue". Si dimetterà nel 2008 cedendo il posto a Jean Todt.

Giorgio Ursicino per "il Messaggero" il 25 maggio 2021. Aveva da poco compiuto 81 anni, nella sua Londra è morto Max Mosley. Personaggio di spicco, sempre chiacchieratissimo. Ha segnato un'epoca nel mondo dell'automobile, soprattutto sportiva, vivendo sempre a 300 all' ora. È uno dei padri della Formula 1 moderna tanto che Bernie Ecclestone ha commentato il lutto: «Ho perso un fratello». La notorietà e le polemiche avevano preceduto la sua nascita. I suoi natali nella capitale britannica il 10 aprile 1940 quando stava per infiammarsi la Battaglia d' Inghilterra con i razzi tedeschi che mettevano a ferro e fuoco la città. Max Rufus aveva solo pochi mesi ma venne coinvolto da vicino nelle trame fra Berlino e Londra. Il padre di Max, Sir Osvald, era un potente uomo politico che fu eletto sia fra i Laburisti che fra i Conservatori prima di fondare l'Unione dei Fascisti Britannici. Osvald era amico di Winston Churchill che però lo fece arrestare insieme alla moglie Diana Mitford per le loro idee e le loro frequentazioni. Si erano infatti sposati nella casa del gerarca nazista Joseph Goebbels e l'ospite d' onore delle nozze era niente meno che Adolf Hitler. Per gli anglosassoni un profilo basso visto il periodo...DUE LAUREE Per baby Max un'infanzia movimentata, spesso lontano dai genitori dai quali, man mano che cresceva, prese le distanze senza mai però rinnegarli. Intelligenza brillante, a 21 anni si laureò in Fisica prima di capire che era meglio maneggiare la legge con il suo stile di vita e nel 1964 diventò pure avvocato. In quelli stessi anni scoppiò la passione per il motorsport che si trasformò nella passione della sua vita. Ci sapeva fare con il volante e vinse alcune corse gareggiando anche in Formula 2 con una Brabham della scuderia di Frank Williams. Max correva sempre veloce ed a soli 29 anni appese il casco al chiodo (un'età nella quale di solito si esordiva) saltando la barricata. Diventò un giovane e arrembante team manager fondando, insieme all' ingegner Robin Herd, il costruttore March. Robin progetta, Max si occupa di tutti gli aspetti legali e commerciali. Una macchina da guerra. Mosley ancora una volta alza l'asticella e, con Bernie Ecclestone, fiuta l'affare, fondando la Fota, l'embrione dell'organizzazione di F1 che oggi è controllata da Liberty Media. Secondo loro, la Fisa, la Federazione Internazionale dello Sport Automobilistico, non era in grado di sviluppare un business al passo con i tempi. Avevano visto giusto. Dopo anni di attriti e di polemiche, Ecclestone, il Richelieu della velocità, intuì che era il momento della pace e della collaborazione fra la parte sportiva e quella affaristica della F1. Lui era a capo della Fota, a guidare quella che ormai era diventata la Fia chiamo Mosley che per qualche anno si era allontanato dall' automobilismo dedicandosi alla politica. Max era l'uomo giusto per unire i due mondi: abilissimo e conosciuto da tutti, il garante dei costruttori a capo della Federazione. Mosley fu eletto per quattro mandati e rimase al comando dal 1993 al 2009. Forse avrebbe fatto anche il quinto, ma altri due eventi pesanti ne minarono l'entusiasmo. Il 30 marzo del 2008 fu travolto da uno scandalo che, visti i precedenti di papà Osvald e mamma Diana, non passò proprio inosservato.

L' ATTACCO DI MURDOCH Il quotidiano inglese New of the World pubblicò i fotogrammi di un lungo video in cui Max era uno dei protagonisti di scene sadomaso con prostitute vestite da militari. Si disse nazisti, ma, secondo il tribunale che dopo un'infuocata causa condannò l'editore del giornale Rupert Murdoch ad un risarcimento milionario per violazione della privacy, pare non fosse vero. Max partecipò attivamente alla sua difesa sfruttando l'esperienza con la legge e i giudici gli diedero ragione. Si era dimesso dalla Fia, ma con una votazione mondiale, venne reintegrato. Alla scadenza del mandato, però, non si ripresentò. Pochi mesi prima era scomparso Alexander, il figlio trentanovenne, trovato morto nel suo appartamento di Notting Hill per overdose di eroina.

·        E’ morto l’attore René Cardona III rip.

Marco Giusti per Dagospia il 19 maggio 2021. Il cinema X-trange e quello Fantastico internazionale piangono il leggendario attore, sceneggiatore e regista messicano René Cardona III, morto a Tijuana per un problema cardiaco a soli 59 anni. Firmò film assurdi e totalmente di genere, come “Vacaciones del terror”, “Atrapados en la coca”, “Alaradido del terror”, “Fray Justicia”, “Los hermanos Mata”. Nipote e figlio d’arte, visto che il nonno era René Cardona Senior, nato a Cuba nel 1906 e morto a Città del Messico nel 1988, regista di ben 146 film tutti di genere, tra i quali titoli memorabile legati all’horror e alla lotta messicana con protagonista El Santo, come “El enmascarado de plata”, mentre il padre, René Cardona Junior, 1939-2003, fu regista di 100 film, sempre di genere, ma decisamente più ricchi, con attori americani, John Huston, Arthur Kennedy, Stuart Whitman, di solito coprodotti con l’italiano Angelo Jacono, come “Il triangolo delle Bermude”, “Il massacro della Guyana”, “Cyclone”, “La notte dei mille gatti”, “Robinson Crusoe”, “Tintorera”, “Il pupazzo” con Lando Buzzanca. Tutti grandi successi popolari del tempo. René Cardona III, nato nel 1962 e figlio di René Cardona Junior, fu attore fin da bambino nei film del padre e del nonno, spesso col nome d’arte di Al Coster,  come “El pueblo del terrorr (1970) di Cardona Senior, “Robinson Crusoe” di Cardona Junior, “Il piccolo pirata” di Cardona Junior dove è Eric, “Carlos el terrorista”, ma anche per altri registi, come il film comico di luchadores “Santa contro Capulina” (1969) di Agustin Delgado, “El nano”” di Gilberto M. Solaret. Crescendo fu anche sceneggiatore e aiuto regista, per “Il tesoro delle Amazzoni” di Cardona Junior. Diventa regista alla fine degli anni ’80, quando il nonno è da poco scomparso e il padre è ancora attivissimo. Firma commedie sexy alla messicana, “Viva la risa”, “Las borrachas”, ma soprattutto horror, come “Vacaciones del terror” con Pedro Fernández e Gabriela Hassel, che gli darà grande popolarità nei festival di genere nel 1989, “Alardo del terror”, “Colmillos, el hombre lobo”,  “El Descuartizador”, avventurosi come “Comando marino”, polizieschi di straculto come “Atrapados en la coca”, revenge movies folli, “La venganza del viejito”, mélo, “Mentira”. Negli anni 2000 seguita il suo percorso nel cinema di genere, e firma un gran numero di film che non hanno più il sostegno economico di quelli del padre, ma dimostrano ancora una grande voglia di far cinema popolare.

·        E’ morto il calciatore Filippo Viscido.

L'orrore nel garage: il suicidio choc dell'ex calciatore dell'Avellino. Antonio Prisco il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. Il calciatore, svincolato dopo una lunga carriera tra i dilettanti, è stato trovato impiccato in un garage di Battipaglia. Una notizia tragica scuote il mondo del calcio: l'ex calciatore dell'Avellino Filippo Viscido, centrocampista di 31 anni, è stato trovato impiccato nella serata di domenica in un garage a Battipaglia, cittadina in provincia di Salerno dove viveva. Le cause del decesso sarebbero legate ad un gesto volontario: il calciatore si sarebbe tolto la vita, al momento sono sconosciuti i motivi del gesto. Gli agenti del commissariato di Battipaglia si sono immediatamente recati sul posto e trovato il corpo senza vita, hanno avviato le indagini al fine di ricostruire l'accaduto e le motivazioni alla base del terribile gesto. Viscido avrebbe compiuto 32 anni tra pochi giorni, il prossimo 5 giugno. Lascia la moglie Mina e i due figli Naomi e Domenico. La notizia ha sconvolto chiunque conosceva il ragazzo, come tutte le tifoserie che lo avevano ammirato da calciatore e chiunque l'avesse incrociato durante la sua carriera. Il centrocampista originario di Battipaglia aveva cominciato la propria carriera nel Chieti e aveva toccato il punto più alto con l'Avellino, indossando la maglia biancoverde dal 2009 al 2011 prima in Serie D e poi in C2. Nel mezzo una lunghissima carriera sui campi dilettantistici con Pomigliano, Cavese, Battipagliese, Campobasso, Potenza, Savoia, Licata, Ariano Irpino, Sorrento, Leonfortese, Palmese, Chieti, Virtus Avellino, Afragolese e Salernum Baronissi. Dopo quest'ultima esperienza, Viscido era svincolato dopo lo stop delle categorie minori a causa del Covid-19. Tantissimi messaggi di cordoglio dalle sue ex squadre. Il più bello è quello dell'Afragolese, attualmente militante in Serie D, che ha voluto dedicargli uno splendido e commosso messaggio : "La vittoria più bella nel giorno sbagliato. Oggi 3 punti importanti, poi la terribile notizia. Non sappiamo cosa ti abbia spinto a compiere un tale gesto. Sappiamo solo che il tuo sorriso, la tua energia, la tua voglia di vivere resteranno per sempre nei nostri cuori. Grazie Pippo. Grazie per i momenti che hai dedicato a questa Società, a questa città ed a tutti i tifosi rossoblù. Ci stringiamo all'immenso dolore che ha colpito la famiglia Viscido. Riposa in pace Pitbull". La squadra napoletana, inoltre, ha lanciato una sottoscrizione per sostenere la famiglia del calciatore tragicamente scomparso: "Ognuno di noi ha un ricordo positivo di Pippo Viscido, uno dei protagonisti del doppio trionfo rossoblù della scorsa stagione. Pippo ha lasciato un vuoto enorme dentro tutti noi e sarebbe bello, provare a ricambiare con un contributo verso la sua famiglia, distrutta dal dolore di questa terrificante tragedia, ciò che lui ha regalato ai nostri colori". Tra i tanti messaggi in memoria del ''pitbull'', come Viscido fu soprannominato ad Avellino, anche quello di Dino Fava Passaro, ex attaccante tra le altre di Udinese, Bologna e Salernitana, che sui social ha condiviso una foto che li ritrae insieme. I due avevano giocato assieme proprio nell'Afragolese: "Poi all'improvviso ti arrivano quelle notizie che ti sconvolgono la giornata… Perché Filippo Viscido grande uomo, grande guerriero.. riposa in pace amico mio".

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2021. L'ex calciatore Filippo Viscido si è ucciso domenica impiccandosi nel garage della sua abitazione a Battipaglia. Il corpo è stato ritrovato dai familiari che hanno immediatamente dato l'allarme ma l'uomo era già morto e l'arrivo dei soccorsi è stato inutile. La dirigente del commissariato Lorena Cicciotti ha fatto eseguire ai suoi agenti una serie di accertamenti dai quali, però, non è emersa alcuna ombra sulla dinamica della tragedia. L'ex calciatore era da tempo depresso, come hanno confermato anche i familiari, e in alcuni messaggi ritrovati sul suo smartphone aveva espresso chiaramente l'intenzione di togliersi la vita. Alla luce di questi accertamenti, il magistrato ha ritenuto di non dover fare eseguire l'autopsia e ha disposto che la salma venisse immediatamente restituita alla famiglia per lo svolgimento dei funerali. Originario di Battipaglia, Filippo Viscido avrebbe compiuto trentadue anni il prossimo 5 giugno. Nella sua carriera di calciatore era arrivato a militare in serie D e anche in C2 con l'Avellino, e aveva poi giocato in varie squadre impegnate in campionati minori, come la Palmese, il Chieti, la Cavese, il Sorrento, il Pomigliano, il Savoia. Il suo orgoglio era aver giocato nella squadra della sua città, quella Battipagliese di cui era sempre stato tifoso. La gioia più recente, invece, gliel'aveva regalata l'Afragolese, che nella stagione 2019-2020 aveva contribuito a trascinare alla vittoria della Coppa Italia Dilettanti. L'ultima formazione in cui aveva militato era stata la Salernum Baronissi, campionato d'Eccellenza. Ma quest'anno, in seguito alla pandemia, la società aveva deciso di non iscriversi al campionato, e Viscido si era svincolato e aveva di fatto smesso di giocare al calcio, dedicandosi invece all'attività di elettricista con la quale, nonostante il periodo di crisi generale, riusciva a non far mancare nulla alla moglie Mina e ai figli Noemi e Domenico. In campo era un centrocampista che si era guadagnato il soprannome di Pittbull per la grinta con la quale interpretava il ruolo di mediano incontrista. Tra quanti oggi lo ricordano c'è però anche chi preferisce soffermarsi sulle sue doti umane, prima ancora che sportive. Come Cecilia Francese, sindaco di Battipaglia, che lo definisce «una persona educata, buona e profondamente legata alla propria città». Ma è soprattutto il mondo del calcio minore a rendergli omaggio. «Hai dato l'anima per la nostra squadra che ora piange silenziosa un ragazzo di grande talento che non ha avuto più la forza di rialzarsi per correre dietro ai suoi sogni», scrive in un post su Facebook la Salernum Baronissi. Ricorrono ai messaggi social anche altre squadre: «Non sappiamo cosa ti abbia spinto a compiere un tale gesto. Sappiamo solo che il tuo sorriso, la tua energia, la tua voglia di vivere resteranno per sempre nei nostri cuori», si legge sul profilo dell'Afragolese. «Restiamo attoniti e senza parole», scrive invece il Chieti. E la Palmese: «Oltre che per le doti calcistiche, lo ricorderemo sempre per il suo sorriso, il carattere solare e la sua serietà».

·        E’ morto il fantino del Palio Andrea Mari.

Divina Vitale per corrierefiorentino.it il 17 maggio 2021. Si è schiantato sul viale dei cipressi. Un viale di poesia in cui invece ha trovato la morte con una Porsche blu cobalto. Completamente disintegrata. È stata l’ultima corsa per Andrea Mari, classe ‘77, famoso del Palio di Siena, che è morto sul colpo in un bruttissimo incidente verificatosi nel primo pomeriggio nel viale carducciano. Era solo all’interno dell’abitacolo. Dalle prime ricostruzioni pare che abbia perso il controllo dell’auto e sterzando, probabilmente d’improvviso, è andato ad infilarsi tra due cipressi ad altissima velocità. Non ci sono altri mezzi coinvolti. Pare che abbia azzardato diversi sorpassi ad alta velocità, a quanto raccontano le auto e un corriere Bartolini che stava percorrendo il viale nello stesso momento. Rimasto come testimone. L’incidente è accaduto attorno alle 15.30. Le operazioni sono ancora in corso. Sul posto sono intervenuti i Vigili del Fuoco, la Polizia Municipale di Castagneto Carducci , le ambulanze, il magistrato e l’impresa funebre. Stando a qualche testimonianza, pare che lo stessero aspettando amici fantini a Bolgheri. L’auto in cui si trovava non apparteneva a lui. Mari ha vinto sei volte il Palio di Siena. L’ultima volta il 2 luglio 2018, correndo per la contrada del Drago. Sul tufo di piazza del Campo aveva debuttato nel Palio del 16 agosto 2001

E’ morto il cantautore Franco Battiato.

È morto Franco Battiato, l'intervista a Le Iene e il Battiatese: “Chiamatemi Cicciuzzo”. Le Iene News il 18 maggio 2021. Franco Battiato è morto nella sua casa di Milo, in provincia di Catania. Artista, cantautore, regista. Se n’è andato all’età di 76 anni. Noi de Le Iene lo avevamo incontrato per conoscere meglio il "battiatese", scherzando con lui

È morto Franco Battiato. Se n’è andato a 76 anni nella sua casa di Milo, in provincia di Catania. Era nato a Jonia il 23 marzo del 1945. Nella sua lunghissima carriera ci ha regalato brani indimenticabili come La cura, Centro di gravità permanente, Voglio vederti danzare. È stato anche regista, ha unito musica pop e colta e segnato la nostra cultura. Noi de Le Iene lo abbiamo incontrato con Pietro Sparacino qualche anno fa proprio per chiedergli il significato di alcune frasi delle sue canzoni, spesso criptiche. Onorati di incontrarlo, non sapevamo come chiamarlo. “Chiamatemi Cicciuzzo”, ci ha risposto. E allora ne abbiamo subito approfittato per chiedergli che cosa intendeva quando in Centro di gravità canta: “Per le strade di Pechino tra noi si scherzava raccogliendo ortiche”. “Significa di dover stringere e buttarla senza fare urlo”, aveva spiegato Battiato. 

Era malato da tempo. Morto Franco Battiato, il cantautore si è spento a 76 anni. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Maggio 2021. Franco Battiato è morto questa mattina nella sua residenza. A comunicare il decesso del cantautore catanese, classe 1945, è stata la sua famiglia, che ha reso noto anche che i funerali si terranno in forma privata. La notizia era iniziata a circolare, prima dell’ufficialità confermata dai familiari, dopo un tweet del direttore di “Civiltà Cattolica”, Antonio Spadaro. “E guarirai da tutte le malattie Perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te”. Ciao, Franco #Battiato”, aveva scritto Spadaro pubblicando il video di "La cura", brano simbolo del cantautore. Battiato aveva dato l’addio alle scene da tempo a causa della sua malattia.

Carmine Di Niro.Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

(ANSA il 18 maggio 2021) - Si è spento questa mattina nella sua residenza Franco Battiato. Lo rende noto la famiglia. I funerali avverranno in forma privata. Il cantautore, morto oggi nella sua residenza di Milo, era nato a Jonia il 23 marzo del 1945. Ha spaziato tra una grande quantità di generi, dalla musica pop a quella colta, toccando momenti di avanguardia e raggiungendo una grande popolarità.

Biografia di Franco Battiato da cinquantamila.it di Giorgio Dell'Arti. Franco Battiato, nato a Riposto (Catania) il 23 marzo 1945 (76 anni). Cantante. Autore. Regista. «Il successo non mi convince». Inizi commerciali (con Bella ragazza partecipò a Un disco per l’estate 1969), passò poi alla sperimentazione (Fetus, 1971; Sulle corde di Aries, 1973). Nel 1979 l’album L’era del cinghiale bianco gli valse una larga popolarità, ampliata dai successivi Patriots (1980, con Prospettiva Nevski), La voce del padrone (1981, un milione di copie vendute, con Bandiera bianca, Centro di gravità permanente, Cuccurucucu), L’Arca di Noè (1982), Orizzonti perduti (1983), Mondi lontanissimi (1985) ecc. Nel novembre 2015 l’«antologia definitiva» Le nostre anime (uscita in due versioni: una minore da tre cd e una maggiore da sei cd, quattro dvd, due libri e due poster), ideata per celebrare i suoi primi 50 anni di carriera musicale. «Ho scritto canzonette dai buoni testi e cose più serie. A volte scrivi per divertirti, altre ti interroghi sulla spiritualità. La verità è che certe canzoni, penso a Sentimiento nuevo che cantavo con Alice, erano un po’ delle cazzate. Cazzate divertenti e tendenti all’alto, ma pur sempre cazzate» (a Malcom Pagani) [Fatto 11/11/2015]. Il suo ultimo album s’intitola Torneremo ancora (2019). Titoli di testa «Il silenzio per me è come l’ossigeno: è vita».

Vita Famiglia di pescatori. Dopo la morte del padre Turi – camionista e scaricatore di porto a New York – finì a Milano. Aveva 19 anni: «Allora era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo. Mettevo a frutto la mia poca conoscenza della chitarra in un cabaret, il Club 64, dove c’erano Paolo Poli, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, Felice Andreasi, Bruno Lauzi. Io aprivo lo spettacolo con due o tre canzoni siciliane: musica pseudobarocca, fintoetnica. Nel pubblico c’era Giorgio Gaber che mi disse: vienimi a trovare. Andai il giorno dopo. Diventammo amici anche con Ombretta Colli, fui io a convincerla a cantare». A quei tempi risale la prima, infausta canzone, L’amore è partito (1965), pubblicata con il nome di Francesco Battiato. «All’epoca facevo il chitarrista di Ombretta Colli in tour. Ma quella canzone non era mia, era una cover: mi disgustò» (a Leonardo Iannacci) [Libero 11/11/2015]

«Mi ricordo di un meraviglioso pianoforte che mi regalarono le suore all’età di 16 anni. Una mia amica mi disse che, dovendo liberare un convento, lo vendevano a basso prezzo. Mi presentai e la madre superiora me lo sbolognò senza pretendere una lira. Pensava fosse rotto e invece era solo scordato. Mi sentii felice» [Pagani, Fatto 11/11/2015]

«È un autore di canzoni. Canzoni popolari, non c’è dubbio, ma anche brani raffinati e particolari, così come brani destinati al divertimento e alla leggerezza. Lui, l’arte della canzonetta la conosce bene» (Ernesto Assante)

«Battiato sta alla canzone italiana come la geometria non-euclidea sta a quella euclidea. La sua musica prende forma su un piano parallelo, vive per suoi motivi che spesso “assomigliano” soltanto a quelli del resto dell’universo canzone. Se la canzone fosse un triangolo, Battiato ne sarebbe il quarto angolo; se la canzone fosse un quadrato, Battiato sarebbe un ipercubo. Se infine la canzone fosse una retta, Battiato sarebbe un punto, immobile, indifferente, equidistante» (Gino Castaldo)

«Dal 1979 al 1994 ha espresso genialità smisurata. Poi è rimasto folgorato sulla via di Manlio Sgalambro, e addio» (Andrea Scanzi)

«È sempre stato inclassificabile, nei ’70 entrava in scena, accendeva uno stereo con musica assurda e se ne andava. Il pubblico lo rincorreva inferocito» (Riccardo Bertoncelli)

«Fa esattamente l’opposto rispetto a quello che uno si aspetta. Il bello è che spesso ci azzecca. Voglio dire, era un mago dell’avanguardia ai tempi di Pollution, e s’inventò una nuova via al pop con Patriots e succedanei. Poi si buttò a capofitto nelle fumisterie filosofico-orientaleggianti, e lì era facile immaginarsi un tonfo: invece scrisse La cura, che è un capolavoro. E parecchie altre cose belle. Adesso è un bel po’ che non ha più voglia, di fare canzoni e concerti, intendo: si vede chiaramente, gli interessano di più cinema e pittura. E i suoi dischi, al primo ascolto, suonano d’inutilità profonda. Però, passa il tempo – ne deve passare, sì – e li rivaluti» (Gabriele Ferraris nel 2007). «Trent’anni fa era molto più facile. Pollution è stato in classifica ai primi posti. Oggi non troverei chi me lo pubblichi. Ai miei tempi nei festival pop se vedevano un bollino di Coca Cola si sfasciava tutto. Oggi siamo all’apologia del marchio»

«Noi facevamo effettivamente cose pazzesche. Miracolose e complicate. Eravamo posseduti. Una sera mi bruciai con un cavo elettrico e continuai a suonare senza rendermene conto. Per amplificazioni e strumenti non c’era una lira, così ci ingegnavamo. Interpolavo i rumori della radio con altre fonti sonore e distorcevo le basi classiche ottenendo con un VC63 suoni strangolati. I sintetizzatori li avevo comprati a Londra, furono giorni indimenticabili»

«Dopo l’uscita di L’era del cinghiale bianco, a 35 anni, realizzai che qualcosa era definitivamente cambiato. A un concerto a San Giovanni Valdarno vennero in 20 mila. Sentii uno strano boato. Con il successo vennero i fan: una notte in albergo mi svegliai e trovai che avevano fatto entrare gente nella mia stanza per vedermi dormire. Volevo smettere»

«Il servizio militare fu una storia pazzesca. Dopo la visita mi mandarono a Cassino. Mi tagliarono subito i capelli e mi diedero una divisa troppo larga che io non andai a far riaggiustare. La prima domenica di libera uscita, non mi fecero uscire. Non sapevo che fare e mi misi a passeggiare. A un certo punto incrocio un graduato anziano pieno di stellette sulla giacca. Un secondo dopo che l’ho oltrepassato sento un urlo. “Ehi tu!”, “Dice a me”, rispondo. E lui sempre urlando: “Vedi qualcun altro qui?”. Io: “Mi dica”. “Mi dica? Chi sei?”. “Battiato”. “Non me ne frega un cazzo del tuo nome: mi devi dire a che reparto appartieni!”. “Non lo so”. Se ne andò urlando frasi sconnesse. Io sparii. Un’altra volta dovevamo andare a sparare: per me era come ricevere una coltellata. Dico: “Non posso camminare”. Mi hanno portato in autoambulanza. La notte alle due mentre ero nella branda, sirene: tutti si vestono. Mi affacciai: pioveva e fuori facevano, strisciando, il passo del leopardo. “Digli che non sto bene”. Al mattino il capitano mi fece chiamare: “Quelli come te io li conosco. Tu sei uno che non vuole fare il militare. Purtroppo non posso rischiare per cui ti mando in ospedale al Celio di Roma ma tu tornerai da me e allora ti farò pulire i cessi con la lingua!”. Non mi vide più» (a Luca Valtorta) [Rep 7/9/2014]. «All’epoca, per un alterco sui capelli lunghi, venni sbattuto anche in carcere militare. “Faccia di merda, vatti a tagliare i capelli”, mi dissero e a nulla valse il consiglio in tempo reale di Juri Camisasca: “Mettiti la lacca sui capelli così non devi tagliarti niente”. La mattina dopo venni convocato e, per l’espediente della lacca, i graduati manifestarono disgusto: “Sei un’indecenza, Battiato”. Ebbi il torto di rispondere. “Si faccia psicanalizzare”, dissi al militare. Mi misero in galera. 10 giorni. “Non puoi fumare”, dicevano, però io fumavo lo stesso. Tra congedi e sospensioni, la leva non è durata poi tantissimo, ma fare il militare è stato un incubo» [Pagani]

«Lo so cosa dicono: “Battiato è stato Battiato solo fino al 1975”. Ho chiesto molto in questi anni a quelli che mi seguono. Per me l’unica cosa che conta nella vita è la parte esistenziale, quella che ti mette alla prova. Non mi interessano le conferme, essere rassicurante per chi ti viene a vedere, dargli quello che vuole»

«Nel 1980, alla fine di un’esibizione delirante con 5.000 persone, Dario Fo mi aspettò all’uscita del concerto: “I tuoi testi non mi piacciono”. E io risposi: “E a me che cazzo me ne frega?”. Eravamo sullo stesso piano, a quel punto. Ma non mi ritengo intoccabile, anzi. Se mi avesse criticato in un’altra maniera avrei anche apprezzato. È sempre il modo. Si può essere critici senza essere brutali» [Pagani]

Nel 1989 suonò in Vaticano per Giovanni Paolo II: «Mi chiamò un dirigente della Emi, Di Lernia: “A Battia’, te vole er Papa”. Era Giovanni Paolo II, andai volentieri». «Papa Bergoglio mi sta simpatico, ma dovrebbe fare discorsi più spirituali» [Iannacci, cit.]

«Il mio legame è più forte con la musica del passato per la sua eccellenza. Penso a un quartetto di Beethoven, a Mendelssohn. Preferisco una musica che mi aiuta a concentrarmi, a leggere. I suoni contemporanei esprimono altro»

Da febbraio ad aprile 2016 è impegnato con Alice nel tour di successo Battiato e Alice: trentadue date italiane quasi tutte sold out, con l’accompagnamento della Ensemble Symphony Orchestra

Del 17 settembre 2017 il suo ultimo concerto al Teatro romano di Catania: le ultime quattro date del tour vengono annullate per motivi di salute

Ad ottobre 2019 il manager Francesco Cattini, in occasione della promozione dell’ultimo album, ne annuncia il ritiro dalle scene. In un’intervista a Giammarco Aimi il suo storico collaboratore rivela: «Franco non lo sento più da un anno, perché purtroppo non riesce a capire quello che gli si dice»

«Quello che mi sento di dire è che stiamo assistendo mio fratello come merita,è circondato dall’affetto degli amici più cari e dei parenti». Amici hanno stretto una sorta di patto del silenzio, per garantire la riservatezza che si deve ad «un essere speciale» [Vanity]

«Franco Battiato è stato il nomade, il camminatore, il migrante di passaggio, in cerca tanto del cambiamento quanto del centro di gravità permanente, il provinciale cosmopolita che ci ha scortati sui treni per Tozeur, le metro giapponesi, gli alberghi a Tunisi per le vacanze estive, la prospettiva Nevskij, certi monasteri, sbagliando sempre la pronuncia delle parole straniere. È stato il sognatore che sognava per “inseguire il sacro” e trovare “frammenti di verità sepolte di quando fui donna o prete di campagna o mercenario o padre di famiglia”. È stato l’eremita che non è riuscito a fare a meno degli altri, a cambiare l’oggetto dei suoi desideri, a separarsi dal suo animale. È stato il mistico rapito dalla sensualità, l’inquilino delle estremità che, abitandole, ha scoperto che tra di esse non intercorre opposizione ma distanza. È stato tutto questo per decenni, con il solo obiettivo di esercitarsi alla transizione più importante di tutte: la metamorfosi della vita dopo la morte. Non per essere più libero, ma più saggio, più capace di cercare una terra senza confine» [Sciandivasci, Foglio].

Cinema Ha esordito nella regia con Perduto amor, poi Musikanten (omaggio a Beethoven) e Niente è come sembra (stesso titolo di una canzone de Il vuoto), sceneggiato dal filosofo Manlio Sgalambro. «Mette in guardia subito lo spettatore: ciò che vedrai sembra un film ma non lo è. Intanto perché non esce nelle sale ma in libreria, in un cofanetto Bompiani con il libro di Battiato In fondo sono lieto di aver fatto la mia conoscenza e un cd con il concerto con la Royal Philarmonic Orchestra. Poi la “storia”. Lontana anni luce da ciò che di solito si vede sullo schermo. Italiano soprattutto. Qui si tratta di un viaggio iniziatico, un’esoterica Via Lattea verso una casa nel bosco dove i vari personaggi, ciascuno a impersonare uno stato dello spirito “l’ateo”, “il credente”, “il dubitante” si confrontano su questioncine tipo l’esistenza di Dio, lo sviluppo di coscienza e conoscenza, le ragioni del non credente» (Giuseppina Manin). Da qualche anno sta lavorando a un progetto cinematografico sul musicista Georg Friedrich Händel, per il cui ruolo ha scelto l’attore tedesco Johannes Brandrup: «O è lui o il film non si fa. Ma si farà. E ho il sospetto che sarà bellissimo» [Pagani]

Nel 2017 compare nella colonna sonora del film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino col brano Radio Varsavia; nel 2018 in Benedetta follia di Carlo Verdone con La stagione dell’amore • «Da ragazzo abitavo in una casa la cui terrazza era la tribuna naturale di un cinema all’aperto e, per sette anni d’estate, vedendoli o solo ascoltandoli, ho centrifugato centinaia di film di tutti i tipi. Ho imparato così, quasi senza accorgermene, a gustare il linguaggio del cinema in tutte le sue espressioni. Ancora oggi sono uno spettatore onnivoro, che passa dai thriller americani di serie B ai capolavori. Se si eccettua l’horror e la fantascienza, che di solito mi annoiano, apprezzo tutti i generi, quando i film sono riusciti».

Pittura Altra passione di Battiato, la pittura: «Nella pittura vedo tutti i miei difetti, e mi interessa migliorare. Ne sono ingordo e non vedo l’ora di mettermi a lavorare» • «La pittura di Battiato, qualora pretendessimo di canalizzarla in un comodo alveo di neoprimitivismo, dimenticando la ricchezza operativa e intellettuale che la sorregge, rischierebbe di apparirci l’hobby d’un artista episodico e dimezzato; mentre, viceversa, osservandola con tutti due gli occhi, della natura e della cultura, ne vedremo i colori sposarsi affettuosamente alle note, alle parole, alle meditazioni dell’autore e in quest’alleanza, per non dire connivenza, spiegarci la cifra inconfondibile di un’anima» (Gesualdo Bufalino).

Frasi «Credo nell’eccellenza. E soffro quando vedo persone che non riescono ad affrancarsi dalla componente bestiale. Ma questo non vuol dire che non mi occupi della parte terrena che è in noi. Sono contraddittorio? La contraddizione è alla base degli esseri umani, e l’esercizio del dubbio una religione»

«Rifiuto con identico spirito la nostalgia e il passatismo programmatico.

Del mio ieri non ho mai fatto una bandiera. C’è stato e l’ho attraversato con inconsapevolezza» «Sono un individuo che si esalta per il talento. Mi piace da pazzi questo misterioso elemento che è come la vita e appare dove vuole. Posso apprezzare una musica che magari non mi piace, però è scritta con eccellenza.

Non metto mai il pubblico di mezzo. Il successo non mi convince mai. Anche se uno vende 25 milioni di copie di dischi in un giorno, per me non vuol dire nulla»

«Ho dovuto combattere l’appartenenza al mio segno zodiacale, che è quello dell’Ariete, che mi dava eccessiva rigidità e ottusità e quindi perdita di intelligenza. Ho dovuto limare, imbrigliare, calpestare»

Del successo, in generale, non me ne è mai importato nulla. Non ho mai compiaciuto nessuno. Sono partito dallo sperimentalismo, ho scritto canzoni popolari, girato film, dipinto quadri senza mai accontentarmi della culla protetta o delle sicurezze. Come per magia quelli che mi apprezzavano in una veste mi hanno dato retta anche quando mutavo essenza, senza pretendere che somigliassi a un juxe-box e che, a ogni monetina inserita, corrispondesse un loro desiderio.

Mi hanno lasciato essere come volevo e, se posso dirlo spudoratamente, io sono cambiato e ho fatto tutto il mio percorso solo per loro. Me ne frego delle sicurezze e me ne frego di offrirle. Sa cosa mi diceva Lucio Dalla? Il mio amico Dalla, certo. “Io inseguo il pubblico, Franco. Tu ti fai inseguire”. Sembra una cazzata, ma è vero. Io dei gusti dei fans me ne frego, loro lo sanno. Non ho mai fatto una capatina su Facebook. Non esiste. Se lo possono scordare» [Pagani]

«Faccio una vita assolutamente appartata. Amo il posto dove sto, l’esterno si sente anche stando chiusi in casa»

«Detesto i giovani. L’idea del giovanilismo. Non riesco a concepirla. Nell’Imboscata scrissi “Non te ne fare un vanto”. Non è un vanto essere giovane. Quando mi dicono che la mia musica piace ai giovani, non lo capisco».

Politica Alla vigilia delle politiche 2006 fece sapere che avrebbe votato per la Rosa nel Pugno e ha poi aderito alla manifestazione dell’Orgoglio laico del 12 maggio 2007 (vedi Rosy Bindi e Barbara Pollastrini)

Assessore al Turismo della regione Sicilia da novembre 2012 a marzo 2013. Ha dovuto lasciare (sostituito nel giro di un giorno da Michela Stancheris, segretaria particolare del governatore Rosario Crocetta) per la frase «pronunciata a Bruxelles a marzo e ritagliata a margine di un lungo ragionamento sui percorsi culturali: “Queste troie che si trovano in Parlamento farebbero qualsiasi cosa, dovrebbero aprire un casino”. La puntuale riprovazione ipocrita dell’intero arco costituzionale, governatore in testa, la controfirma all’espulsione. Ora che in meno di 90 giorni il decreto Battiato è diventato legge e nell’isola i finanzieri scardinano la trasversale impalcatura di escort e regalìe, l’asceta di Milo non si aspetta scuse terrene: “Questo Paese è una barzelletta. Il tempo è stato galantuomo, ma se sei onesto e dici la verità non c’è smentita possibile”» [Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano, 20/6/2013].

Curiosità Nel marzo 2015, durante un concerto al teatro Petruzzelli di Bari, è caduto dal palco e si è rotto un femore: «A bordo palco c’era un certo fanatismo. Un entusiasmo impossibile. Cerco di ringraziare e durante la canzone vado a toccare le mani delle ragazze in prima fila. Quelle mi prendono per il braccio. Perdo l’equilibrio, inciampo e cado all’indietro. Avrei fatto bene a rimanere sdraiato. Ma non si poteva fare altrimenti. Non potevo aspettare l’ambulanza sul palco con il pubblico in sala a piangere il morto? C’erano millecinquecento persone. Non era il caso»

Abita a Milo sulle pendici dell’Etna. Ogni giorno si sveglia alle 5.30 e ascolta musica classica.

Alle 7 si alza, si lava, medita per mezz’ora, quarantacinque minuti, fa colazione e verso le 8 comincia a lavorare o a leggere. La tv solo di sera: «Vedo il telegiornale, poi eventualmente un film ma soprattutto guardo sul satellite i programmi di classica o i concerti sinfonici. Mi diverto anche con le barzellette. Sono un grande narratore e ascoltatore di burle». Vegetariano, in casa ha un gatto di nome Clemente ed è «ben curato» da tre persone: «Sono fissi da quindici anni e ci siamo affezionati»

È un cultore dei “koan”, folgoranti componimenti zen. «Da quando sono un “professionista” medito due volte al giorno. Come quelli che dicono di far sesso tre volte in una notte».

Amori Siccome da venticinque anni non si hanno notizie di sue storie d’amore, molti sospettano che sia omosessuale: «Ne dicono di tutti i colori. Possono dire quello che vogliono. Il rapporto più lungo che ho avuto è stato con una donna sposata, quindi era molto comodo per me mantenere la segretezza. Omosessuale? Io sono al di là di questi schemi, di queste categorie. Ho superato certe definizioni». «Una volta con una ragazza pensai anche: “Questa è quella giusta”. E poi cosa accadde? Uscii presto, comprai tre yoghurt, li misi in cucina e poi andai a fare una doccia. Una volta lavato, gli yoghurt non c’erano più. Li aveva mangiati tutti lei? Tutti e tre. Ora dico, se ne avesse lasciato almeno uno, avremmo parlato di altro. Ma li aveva fatti fuori tutti. Un saggio di egoismo, non solo simbolico. Tra noi la storia non poteva funzionare e infatti si arenò» [Pagani, Fat 11/11/2015].

Titoli di coda «Non voglio essere chiamato maestro, mi dà fastidio. Maestro di che cosa? Sono stato fortunato, protetto da un patto stabilito altrove, ho avuto delle grandi soddisfazioni da quelli che stanno sopra di me. Da chi? (Alza il dito, guarda in alto). Da questi tipi qua. Le meccaniche celesti che cantavo le ho incontrate veramente» [Pagani, Fat 11/11/2015].

Addio al maestro Franco Battiato. Francesco Curridori il 18 Maggio 2021 su Il Giornale.  Franco Battiato, cantante e compositore di successo, autore di Cuccurucucù e Centro di gravità permanente, è morto oggi all'età di 76 anni. Con Cuccurucucù e Centro di gravità permanente ha fatto innamorare intere generazioni della sua inconfondibile musica. Franco Battiato, cantante, compositore e cantautore di successo, è morto oggi all’età di 76 anni.

Dalla Sicilia a Milano, gli esordi di Battiato.Battiato nasce nel 1943 a Jonia, in provincia di Catania in una famiglia umile ma la passione per la musica arriva sin da giovanissimo e, dopo la morte del padre, all’età di 19 anni, lascia la sua amata Sicilia per trasferirsi a Milano. “Allora – dirà molti anni dopo - era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo. Mettevo a frutto la mia poca conoscenza della chitarra in un cabaret, il Club 64, dove c’erano Paolo Poli, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, Felice Andreasi, Bruno Lauzi”. “Io – spiegherà - aprivo lo spettacolo con due o tre canzoni siciliane: musica pseudobarocca, fintoetnica. Nel pubblico c’era Giorgio Gaber che mi disse: vienimi a trovare. Andai il giorno dopo. Diventammo amici anche con Ombretta Colli, fui io a convincerla a cantare”. Nel 1965 pubblica la sua prima canzone, L’amore è partito, brano presentato quello stesso anno al Festival di Sanremo da Beppe Cardile e Anita Harris. “All’epoca facevo il chitarrista di Ombretta Colli in tour. Ma quella canzone non era mia, era una cover: mi disgustò”.

Gli anni '60 e '70: dalla musica elettronica al pop. Ma è grazie a Gaber se, a metà anni ’60, Battiato ottiene un contratto con la casa discografica Jolly ed esordisce in tivù, nel programma Diamoci del tu col suo primo singolo La torre. In quell’occasione Gaber consiglia a Battiato di cambiare nome da Francesco a Franco per non essere confuso con Guccini, anche lui presente in quella trasmissione. “Da quel giorno in poi tutti mi chiamarono Franco - ricorderà il musicista - persino mia madre”. Nel 1968 lascia la casa discografica Jolly per passare alla Philips e poter così abbandonare il genere delle canzoni di protesta e cimentarsi in brani più romantici. Ottiene un buon successo con È l'amore che vende oltre 100mila copie. L’anno dopo partecipa a un Disco per l'estate con Bella ragazza e alla Mostra Internazionale di Musica Leggera con la canzone brano Sembrava una serata come tante. Dai primi anni ’70 Battiato si dedica alla musica elettronica e sperimentale e fra il 1971 e il 1975 incide per l’etichetta Bla Bla brani dai titoli evocativi come Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries, Clic e Madamoiselle le Gladiator. Nel 1979 lo ingaggia la Emi con cui incide l’album che segna il suo passaggio alla musica pop L'Era del Cinghiale Bianco, dove sono presenti vari riferimenti all’esoterismo. È in questo periodo che Battiato, affascinato dalla cultura araba, inizia anche a fare l’editore di libri esoterici, con la sua piccola casa editrice L’Ottava.

Il successo arriva con Cuccurucucù e Centro di gravità permanente. Nel 1980 esce Patriots ma il vero e proprio successo commerciale arriva l’anno seguente con l'album La voce del padrone, grazie ai brani "Cuccurucucù e Centro di gravità permanente. Quest’ultimo pezzo si ispirava alle teorie del filosofo Georges Ivanovič Gurdjieff che cambieranno radicalmente la vita di Battiato. “Da solo con un'esperienza da autodidatta avevo scoperto quella che in Occidente, si chiama meditazione trascendentale, ma nel pensiero di Gurdjieff vidi disegnato perfettamente un sistema che già avevo intuito e frequentato. Esistono tante vie, esiste Santa Teresa e San Francesco; quella di Gurdjieff mi era molto congeniale. Una specie di sufismo applicato all'Occidente, all'interno di una società consumistica”, spiegherà il cantante siciliano. Sempre negli anni ’80 escono i dischi L'arca di Noè (1982), Orizzonti perduti (1983), Mondi lontanissimi (1985), Echoes of sufi dances (1985) che, nonostante buone vendite, non ottengono lo stesso successo de La voce del padrone. Nel 1987 Battiato debutta al Teatro Regio di Parma con l’opera Genesi, mentre la Emi incide Nomades, Fisiognomica e il doppio album dal vivo Giubbe rosse. Nel 1991 esce Come un Cammello in una grondaia, album reso celebre dal brano Povera Patria e l’anno seguente debutta al Teatro dell' Opera di Roma con Gilgamesh. Nel 1994 Battiato intraprende una proficua collaborazione col filosofo Manlio Sgalambro che scrive il libretto dell’opera teatrale Il cavaliere dell’Intelletto, mentre lui cura la regia de Gli Schopenhauer. Nel ’99, con l’album Fleurs, Battiato riceve la targa di Miglior Interprete all’edizione 2000 del Premio Tenco, mentre nel 2002 Fleurs3, è tra gli album più venduti. L’anno successivo Battiato scrive insieme a Sgalambro, la sceneggiatura di Perduto Amor, film col quale vince il Nastro d'argento come miglior regista italiano esordiente. Nel 2004 debutta in tivù con “Bitte Keine Reklame”, un programma prodotto per Rai Futura e nel 2005 gira il suo secondo film, Musikanten che partecipa nella sezione Orizzonti alla 62^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Due anni dopo esce Niente è come sembra, la sua terza pellicola presentata in anteprima al Festival del Cinema di Roma. Nel 2011 partecipa insieme a Luca Madonia alla 61esima edizione del Festival di Sanremo con il brano: L'Alieno. Nel 2012 esce Apriti Sesamo con cui Battiato si aggiudica il disco d'oro e nel 2016 il tour con Alice ottiene un sold out completo per tutte le date in programma.

Le idee e la vita privata di Battiato. Politicamente schierato a sinistra, dal novembre 2012 è stato assessore al Turismo della regione Sicilia nella giunta di Rosario Crocetta ma è stato costretto a lasciare nel marzo 2013 dopo aver offeso le eurodeputate:"Queste troie che si trovano in Parlamento farebbero qualsiasi cosa, dovrebbero aprire un casino”, disse. Ha sempre respinto l’accusa di essere di destra: “Non è vero. Se uno legge bene le mie cose sa da tempo che sono un proletario dello spirito. Sono sempre stato vicino a una certa sinistra; non certo quella sovietica; la sinistra dei diritti e delle libertà”. Abitudinario e vegetariano convinto, Battiato non ha mai dato adito a gossip e a chi ipotizzava che fosse omosessuale rispondeva: “Possono dire quello che vogliono. Il rapporto più lungo che ho avuto è stato con una donna sposata, quindi era molto comodo per me mantenere la segretezza. Omosessuale? Io sono al di là di questi schemi, di queste categorie. Ho superato certe definizioni”. Nel 2018 la prolungata assenza dalla vita pubblica a causa delle fratture di femore e bacino fa pensare al peggio, soprattutto dopo un tweet dell’amico Roberto Ferri che lasciava intendere che il cantautore siciliano avesse l’Alzheimer. Ipotesi immediatamente respinta dai familiari: "Franco è stato malato ma adesso migliora".​Franz Cattini, manager del cantante siciliano, in occasione della presentazione milanese del disco uscito nell'ottobre 2019, ha ribadito quanto era già apparso su un comunicato stampa, ossia che “Battiato non sta bene. Battiato si è ritirato dalle scene. Battiato non sta sufficientemente bene da stare qui oggi”. Album che, sempre secondo l'amico Ferri, era solo una trovata pubblicitaria fatta con lo scopo di "tenere in vita qualcosa che è già morto" dal momento che "Franco non lo sento più da un anno, perché purtroppo non riesce a capire quello che gli si dice", dice intervistato da Fanpage.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Da "Il Giornale di Sicilia" il 24 marzo 2021. Compie 76 anni Franco Battiato, il cantautore catanese le cui condizioni di salute restano ancora un mistero. Lontano dalle scene da un po', tempo fa si erano rincorse voci circa una sua presunta malattia con tanto di scatti direttamente dalla sua casa di Milo, vicino l'Etna. A oggi non vi è alcuna novità sulla salute del cantautore. La sua pagina Facebook è aggiornata a dicembre 2020, e riguarda una registrazione on demand del suo concerto al teatro greco di Segesta il 29 luglio 2004. Il post precedente risale a ottobre dell'anno ancora prima, il 2019, quando Battiato con una sua foto aveva annunciato l’uscita del disco "Torneremo ancora". Battiato è nato a Ionia, in provincia di Catania nel 1945. Un artista che con il suo stile eclettico influenza ancora cantanti e cantautori di oggi. In occasione del suo compleanno di oggi, su Twitter è fra i trend l’hashtag #FrancoBattiato. Ultimamente la voce del cantautore è tornata a farsi sentire grazie a Colapesce e Dimartino, anche loro siciliani, sul palco di Sanremo. Nella serata delle cover, infatti, il suo ha proposto la cover di "Povera patria".

Paolo Giordano per “il Giornale” l'11 aprile 2021. Oddio sembra impossibile: La voce del padrone ha quarant' anni. Uno dei dischi più importanti della storia musicale italiana è stato pubblicato nel 1981, eppure sembra appena nato, tanto è vivo e vitale nella costruzione delle canzoni e nei testi. E che testi. L' apoteosi di Franco Battiato, catanese, all' epoca già abbastanza conosciuto, ma da allora conosciutissimo perché un album così capita soltanto una volta ogni tanto. La voce del padrone, già il titolo era un macramè di allusioni e riferimenti che gli anni di piombo rendevano ancora più stringenti e obliqui, dall' omonima etichetta discografica con il cane di fianco al grammofono fino al filosofo mistico Georges Ivanovic Gurdjieff (1872 -1949). Soltanto Franco Battiato avrebbe potuto farlo. Citazionismo e nonsense. Punk e marcette. Una tale sberla innovativa che impiegò quasi un anno ad arrivare in testa, sia quella degli ascoltatori, sia quella delle classifiche. Ma da lì non si è più mosso. Tutti ancora oggi mandano a memoria il ritornello di Cuccurucucù, oppure ammettono di cercare sempre «un centro di gravità permanente» partendo da «una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù». Insomma, all' alba degli anni Ottanta si presenta al pubblico nazionalpopolare un artista che oggi (a molti) piace definire trasversale, mal vestito e poco socievole, ma assai sociologo, che in sette brani non si lamenta soltanto del fatto che siamo «sommersi soprattutto da immondizie musicali» (Bandiera bianca), ma risolve anche il problema. Battiato è altro. Riconoscibile, ma inimitabile. Tra i cantautori e le canzonette, da allora c' è lui, che sta tra color che son sospesi, che resiste a metà tra il pop che si può cantare e la musica che ha bisogno di essere capita, studiata, compresa. Non a caso a fine marzo, poco prima che Battiato compisse 76 anni, la Universal ha pubblicato una sciccheria per tutti gli appassionati e, allo stesso tempo, una lezione per chiunque ami la musica: un remix in Dolby Atmos dell' album in versione deluxe più cd a tiratura limitata e altre rarità come la ristampa del 45 giri Bandiera bianca/ Summer on a solitary beach in sole trecento copie. Curato dal «maestro» Pino Pinaxa Pischetola, è una delizia e ha molte «piccole» variazioni, come una versione di Bandiera bianca più veloce perché a Battiato era sempre sembrata un po' troppo lenta. In ogni caso, nella pulizia tridimensionale di questi suoni si capisce una volta di più perché, oltre a citazioni stracolte da Fusinato a Milva, questo disco ha davvero dato inizio a un' epoca nuova della musica leggera. Intanto è uscito paradossalmente nel momento giusto. Se il 1980 aveva chiuso gli anni Settanta anche in musica (ad esempio l' ultimo disco di Battisti e Mogol, Una giornata uggiosa), il 1981 inaugurò davvero gli anni Ottanta non soltanto nella musica. Alla Casa Bianca arriva Ronald Reagan, all' Eliseo si presenta Mitterrand, a Palazzo Chigi c' è Spadolini, si scopre il virus dell' Aids e si lancia il primo personal computer. Persino la tv cambia drasticamente, con l' angosciante diretta reality della tragedia di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, prologo forse inevitabile, ma di certo inquietante, delle telecamere che invadono anche la privatezza del dolore più devastante. Senza essere un cronista del cambiamento, Battiato ne è un sensore decisivo, perciò La voce del padrone è anche il metronomo di quel cambiamento. Dopotutto Franco Battiato da Riposto, provincia di Catania, ha sempre avuto la forza di dire tutto senza ancorarsi a posizioni politiche, magari in cambio di ospitate o paraventi promozionali. Quindi è sempre stato libero. Così il verso di Bandiera bianca «in quest' epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell' orrore» è una autorevole mannaia che cala su tante coscienze se non contigue, quantomeno silenziose sul terrorismo che aveva devastato il decennio appena passato e compromesso un plotone di intellettuali compiacenti. Ne inizia un altro, quello del reaganismo, ma anche di Wall Street che esalta i «pronipoti di sua maestà il denaro» e nei «minima immoralia» della musica (neologismo dai Minima Moralia di Adorno) Battiato abbatte le sovrastrutture ideali costruite intorno a Beethoven e Sinatra, ai quali «preferisco l' insalata; a Vivaldi l' uva passa che mi dà più calorie». Sono ventate che hanno la sua firma tipica, e già avevano sfiorato i tinelli italiani con L' era del cinghiale bianco e poi con Patriots. Ma la contaminazione a tratti irresistibile tra cultura altissima e Nicola Di Bari (Il mondo è grigio, Il mondo è blu citato in Cuccurucucù è il titolo di una sua cover con testo dello straordinario Giorgio Calabrese), tra la dinastia dei Ming al tempo di Padre Matteo Ricci e i «programmi demenziali con tribune elettorali» diventa la nuova chiave per leggere il nazionalpopolare. Lo dissacra. E lo ristruttura. Diventando un fenomeno. La voce del padrone va per dodici volte al primo posto della classifica, diventando il primo disco italiano a superare il tetto del milione di copie vendute. Cifre allora, come oggi, impensabili. Nell' anno in cui scompare Rino Gaetano, coniatore di immagini irriverenti ma comunque popolari, esplode coram populo un maestro sofista e sofisticato che fa ballare in discoteca con brani a base di vibrafono, Hammond e sezione archi e con versi che talvolta sono composti esclusivamente da titoli di canzoni famose (in Cuccurucucù ci sono anche Lady Madonna, With a little help from my friends e Like a Rolling Stone di quel Bob Dylan che in Bandiera bianca diventa Mister Tamburino). In poche parole. La voce del padrone è il disco poderoso di un intellettuale smarrito che vaga «over and over again» tra figure all' apparenza casuali o insensate come i «furbi contrabbandieri macedoni» o «i gesuiti euclidei». Uno sperimentatore che vorrebbe andare «lontano a naufragare» (Summer on a solitary beach) ma resta a cercare un Centro di gravità permanente che gli dia sollievo, almeno per un momento, giusto per prendere fiato visto che non sopporta neanche «i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana, il free jazz punk ingleseeee». Secondo Rolling Stone è il secondo dei cento dischi italiani più belli di sempre. Ma se il primo (Bollicine di Vasco Rossi) ha un enorme significato musicale e generazionale, La voce del padrone allarga l' orizzonte e apre finestre culturali a un pubblico sterminato che da allora entra pian piano nel mondo di Battiato, senza peraltro mai riuscire ad abbracciarlo per intero. Troppo complesso. Troppo, a tratti, avvolto dal fumo mistico della solitudine. Ora che lui si è ritirato ed è irraggiungibile, la sua resta la voce di un padrone della cultura musicale che neppure si può imitare. Non è difficile, è semplicemente impossibile.

Se ne è andato circondato dall'affetto della sua famiglia. Gli ultimi mesi di vita di Franco Battiato: “E’ riuscito a festeggiare il compleanno, poi si è asciugato piano piano”. Redazione su Il Riformista il 18 Maggio 2021. “Si è arrivati a un deperimento organico per cui, piano piano, si è quasi asciugato“. Queste le parole di Michele, fratello di Franco Battiato, il cantautore e compositore italiano scomparso martedì 18 maggio nella sua casa di Milo, in provincia di Catania, all’età di 76 anni. Era malato da tempo ed è il fratello a raccontare gli ultimi mesi di vita del musicista “circondato da me, mia moglie, mio genero, i nipoti, i collaboratori e due medici che non ci hanno mai lasciato”. Michele Battiato spiega al Corriere della Sera che anche se la malattia stava peggiorando, Franco è riuscito a festeggiare lo scorso 23 marzo il compleanno: “Era contento della festicciola e riuscì ad assaggiare la torta”. Poi racconta l’evoluzione della malattia nelle ultime settimane: “Cominciava da giorni a perdere le facoltà. Si è arrivati a un deperimento organico per cui, pian piano, si è, come posso dire? Si è quasi asciugato. Non si è accorto del trapasso“. Battiato si è spento nella sua abitazione, l’ex castello della famiglia Moncada, ai piedi dell’Etna in provincia di Catania. Da tempo non faceva uscite pubbliche. L’ultima foto pubblicata sui social risale all’8 ottobre 2019 pochi giorni prima dell’uscita del suo ultimo album “Torneremo Ancora” (18 ottobre). In concomitanza con l’uscita dell’ultima opera, il manager Francesco Cattini annunciò il ritiro dell’artista dalle scene. L’ultimo brano in cui c’è stata la possibilità di ascoltare la sua voce è stato ‘Torneremo ancora’. Si trovava all’interno dell’album dal titolo omonimo con 14 fra le canzoni più celebri dell’artista, registrati nel 2017 con la Royal Philarmonic Concert Orchestra, diretta dal Maestro Carlo Guaitoli. Il brano è frutto di una complessa opera di assemblaggio, la voce di Battiato è stata registrata due anni prima, nel 2017, mentre la musica che accompagna il brano è stata registrata nel maggio del 2019. Una sorta di ‘testamento’ del maestro, che da anni era scomparso dalle scene a causa di una lunga malattia. “Aver visto Franco stesso commuoversi durante l’ascolto finale dell’intero disco è stata la conferma che un lavoro importante era stato fatto”, aveva raccontato Guaitoli.

Il post sulla presunta malattia. Nel novembre 2017 in seguito a un incidente domestico aveva riportato la frattura del femore e del bacino. Incidente che costrinse il cantautore ad annullare i quattro concerti in programma iniziando un lungo periodo di convalescenza.  Qualcuno ha ipotizzato che avesse preso l’Alzhheimer, ma sulla vicenda la famiglia ha mantenuto sempre il massimo riserbo. In un post pubblicato sui social tempo fa da Roberto Ferri, cantautore e paroliere che aveva dedicato a Battiato una poesia, molti lo avevano interpretato come una conferma all’ipotesi che l’artista avesse Alzheimer. “Ode all’amico che fu e che non mi riconosce più”, si leggeva nel post, poi rimosso e sostituito da un altro che recita: “È assurdo e malvagio come certa gentaglia strumentalizzi i sentimenti”. Michele Battiato, il fratello di Franco, replicò: “Quello che mi sento di dire è che stiamo assistendo mio fratello come merita, è circondato dall’affetto degli amici più cari e dei parenti. La gente non ha rispetto di chi sta poco bene. Le persone che fanno dichiarazioni come quelle che ho ascoltato in questi giorni si qualificano da sole. Ho sentito cose che potrei definire stratosferiche, altre completamente inventate”.

Il live emblematico entrato nella storia. Battiato a Baghdad, il live sotto l’embargo: “Anche agli assassini va data possibilità di redenzione”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Maggio 2021. Non è mai stato edito il concerto forse più emblematico e suggestivo della carriera di Franco Battiato. È morto oggi, nella sua casa di Milo, Catania, il Maestro, artista, canzonettista, sperimentatore, per alcuni una sorta di filosofo, santone-cantautore, che fu soprattutto un genio del pop. Della sintesi, della parafrasi per il popolare, alto e basso. Si è spento dopo una malattia che gli aveva fatto perdere progressivamente coscienza e lucidità. A marzo scorso aveva festeggiato il suo 76esimo compleanno. Il primo Lp, Fetus, nel 1972. In mezzo a 8 album dal vivo editi e registrati, non è mai stato pubblicato il concerto che Battiato tenne a Baghdad nel dicembre 1992. Musica sotto l’embargo, quello per la Prima Guerra del Golfo. Sul punto di una mappa allargata, dal Mediterraneo a tutto il mondo, che Battiato aveva corso e percorso, attraverso i suoi modi e i suoi linguaggi, con la musica progressiva, il rock, il dialetto, il kamasutra, le Mille e una Notte, George Gurdjieff o i dervisches tourners, la poesia e l’elettronica, il buddhismo e la cultura araba. Pubblico non pagante, soprattutto musicisti, studenti universitari, familiari dell’Orchestra Sinfonica nazionale dell’Iraq che con i Virtuosi Italiani avevano accompagnato l’autore siciliano. E politici. Venne trasmesso la notte di Natale, alle 21:30, da Videomusic, dopo uno speciale girato in Iraq. Furono anche critiche e polemiche, per un supposto appoggio a Saddam Hussein che mai c’era stato. Non era quello il senso. In questi giorni di conflitto e bollettini di guerra quotidiani in arrivo dal Medio Oriente fa ancora più specie quell’iniziatica. In quei giorni Battiato disse che era stato “atroce l’uso spettacolare che gli americani hanno fatto della guerra del Golfo, quel costringerci a ritrovarci al mattino con i punteggi aggiornati, come fosse stato un incontro di boxe”. IL CONFLITTO – L’operazione Desert Storm era scattata il 16 gennaio del 1991. L’invasione da parte dell’Iraq, indebitato da otto anni di guerra inutile con il vicino e khomeinista Ira, del Kuwait provoca la condanna delle Nazioni Unite, un ultimatum al 15 gennaio 1991 e quindi l’intervento della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Oltre 120mila i morti iracheni, 150 le perdite nella Coalizione Internazionale. Il 3 marzo Baghdad ha firmato il cessate il fuoco accettando pesanti sanzioni economiche e disarmo.

IL CONCERTO – “Era il 4 dicembre 1992 – hanno raccontato ad Agensir Alfio Nicotra e Angelica Romano, dell’associazione di volontariato Un ponte per che opera da oltre 25 anni in Medio Oriente – e l’Iraq e il suo popolo erano messi all’indice dalla comunità internazionale. Ci chiese di collaborare ad un suo sogno, quello di tenere un concerto a Baghdad. Ci parve subito una idea bellissima e mettemmo a disposizione ogni nostro contatto e forza affinché il concerto si tenesse. Senza la sua ferma volontà non ci saremo mai riusciti”. Il live al Teatro Nazionale Iracheno. Musicisti senza corde per gli strumenti, artisti senza più spartiti, un paese senza libri e possibilità di studiare. “Le note rompevano gli steccati, attraversavano il muro dell’odio, unendo con la musica i popoli. Battiato stesso – hanno aggiunto Nicotra e Romano – ricordava, non nascondendo la propria emozione, la commozione dei musicisti iracheni privati, a causa dell’embargo, di spartiti, ance e corde per violini. Lo stesso pianoforte del concerto venne accordato a 440 invece che a 442 per paura che saltasse tutto. Ancora oggi quando incontriamo i musicisti iracheni di quel concerto ci chiedono di portare il loro saluto e ringraziamento a questo grande maestro”. I MOTIVI – Battiato attaccò con L’ombra della luce, cantata in arabo classico, tradotta dal portavoce dell’ufficio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Ali Rashid. “Perché è una preghiera”, spiegò. Nessun appoggio alla politica irachena: ma l’intenzione di dare risonanza alla tragedia, come succedeva per la Jugoslavia, la Somalia, in quegli anni. Per l’infanzia colpita dall’embargo, come raccontò l’autore. La parola che aveva sentito pronunciare con la troupe del documentario più spesso era stata: latte. Un bambino morì sotto i suoi occhi.

LE POLEMICHE – “Quando mi hanno chiamato dall’ambasciata irachena e mi hanno chiesto di fare un concerto ho detto subito di sì, senza pensarci tanto. E non è da me, che penso molto prima di fare una cosa, e che ho rifiutato altri concerti apparentemente più importanti di questo. Inutile dire che mi sono trovato contro mille persone – ha raccontato a Repubblica – Sei pazzo, mi dicevano, vai cantare per il regime di Saddam Hussein. Non è così, ho sempre risposto; tutti coloro che erano con me sanno che se avessi visto in platea una divisa o un mitra non avrei cantato, se fosse arrivato Saddam Hussein mi sarei trovato in grave imbarazzo. Ma per fortuna non è venuto. È inutile ribadire che lo scopo principe della mia visita in Iraq era umanitario, perché non trovo giusto che un popolo debba soffrire per colpe non sue; ma è anche vero che credo sia giusto dare a tutti una possibilità di redenzione, perché molti assassini sono diventati santi”. Il concerto non uscì mai su cd né in vinile. Si trovano dei video, anche integrali, dello spettacolo sul web, e un dvd in commercio. Alcuni brani sono stati inclusi in raccolte o album successivi. A chiudere la scaletta Fogh in Nakhal, canzone tradizionale irachena – fu inclusa nell’album Caffè de la Paix del 1993 – che evoca i canti sufi: “Non ho nessuna malattia: soffro per quella persona bruna che m’imprigiona con i suoi dolci occhi”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Elisabetta Sgarbi racconta Franco Battiato: "Il suo insegnamento più importante? Che il successo non è niente". Parla la regista e produttrice cinematografica, amica per oltre vent'anni del cantautore siciliano: "Abbiamo fatto molte cose insieme. Ci chiamavamo senza motivo, solo per il piacere di sentirci. Non posso pensare che non ascolterò più la sua voce che dice il mio nome". Luca Valtorta su La Repubblica il 19 maggio 2021. Elisabetta Sgarbi è una delle persone che, negli ultimi anni, è stata più vicino a Franco Battiato. Un'affinità elettiva, come ci racconta, che, nata per caso, col tempo ha prodotto diversi risultati sul piano artistico. Prima di tutto il cinema, un tipo di cinema molto particolare - e non potrebbe essere altrimenti trattandosi di Battiato - "di mente e di parola, non di narrazione". Nel 2007 Sgarbi pubblicò direttamente in libreria il film di Battiato Niente è come sembra "sulle verità ultime dell'esistenza" che, mai come adesso, risuona importante. Varrebbe la pena andarlo a rivedere per capire qualcosa in più di questo grande, geniale, particolarissimo artista che è riuscito a "far cantare alle masse versi raffinatissimi di filosofi, Sufi, mistici". 

Quando e come ha conosciuto Franco Battiato?

"Erano i primi anni Novanta. E la responsabile fu mia madre. Eravamo in vacanza a Taormina, e lei mi disse 'andiamo a trovare Franco Battiato'. Io le dissi che non potevamo presentarci a casa sua senza conoscerlo. Ma mia madre era fatta così. Ci presentammo a Milo, io, timidissima e imbarazzata, non spiccicai una parola. Ma Franco, mi disse poi, che da quel momento sentì che ci eravamo sempre conosciuti, che il nostro legame ci precedeva. E qui iniziò la nostra amicizia".

So che avete passato dei giorni di vacanza insieme: come passavate il tempo?

"Lavorando a un libro intervista che avremmo dovuto curare con Eugenio Lio. Si sarebbe intitolato - titolo di Franco Battiato - C'è quello che c'è. Un libro sulle cose ultime e penultime della vita. Registrammo moltissimo. Poi Franco tagliò il 70%. Era di un rigore assoluto. Diceva che certe cose non si potevano dire e dare al pubblico senza preparazione adeguata. Restarono una quarantina di cartelle: qualcosa di quel dialogo abbiamo pubblicato, con il consenso di Franco, su Linus lo scorso anno. Lo aveva anticipato proprio Robinson, il settimanale culturale di Repubblica".

Era molto bello: parlava della "crisi benedetta" che sopraggiunse a un certo punto e che cambiò tutta la sua vita. Ma nel suo caso che cosa la attirava di lui?

"Lo diceva Franco, un legame che ci precedeva".

Vi sentivate spesso? Quale era il tema delle vostre conversazioni? Il cinema, immagino…

"Ci chiamavamo senza motivo, solo per il piacere di sentirci. Come faceva con pochi ma certi e fedeli amici. Poi il cinema, certo. Era un linguaggio che Franco scoprì tardi, ma che trovò congeniale per esprimere le sue idee sulla vita e sulla morte. Il suo era un cinema non di narrazione, ma di mente, di parola. Dopo Perduto amor, con una decisione tipica di Franco, virò sul 'suo' cinema. Ovviamente non venne capito, ma a lui non interessava: lui, come ogni grande artista, sapeva che non aveva altra possibilità che percorrere quella strada tortuosa, ma assolutamente 'sua'. E lui guardava il mio cinema, suggerendomi 'i suoni e il silenzio'. 'Conta di più il silenzio che la musica al cinema. Impara a togliere', diceva. E mi insegnò il valore dei rumori e del silenzio che nascono dalle immagini: in particolare è quello che ha fatto nel mio film su Ghirri, Deserto Rosa, di cui lui realizzò la colonna sonora originale: un capolavoro".

Quali sono state le cose più importanti su cui avete lavorato insieme?  

"Molti progetti in molte direzioni: pubblicai alcune cose di Manlio Sgalambro, grazie a lui. E poi, con l'entusiasmo assoluto di Franco, che volle saltare la classica distribuzione nei cinema, pubblicai Niente è come sembra, il suo film sulle verità ultime dell'esistenza. Collaborò a gran parte dei miei film dal 2008 in poi, curando la scelta musicale e in parte componendola. Mi fece fare una parte nel suo esordio cinematografico, Perduto amor, dove 'recito' la parte dell'editore che gli pubblica un romanzo dal titolo assurdo. E poi quel video divertentissimo di Passacaglia, dove Eugenio guida la macchina, e io gli sono a fianco, cantando Passacaglia. E si vede Franco sul sedile posteriore. E mille altre cose".

Qual è la cosa che ricorda più volentieri di lui?

"Quando mi chiamava al telefono e diceva, con la sua voce inconfondibile, "Betty Wrong". Ecco, quella voce che mi chiama mi mancherà molto. Potrò sentire la sua voce bellissima che canta le sue canzoni, ma non la sentirò più che chiama il mio nome o il mio pseudonimo (Betty Wrong appunto: "la mia parte sbagliata che poi è forse è quella più giusta", ndr). Questo è irreparabile. Conserverò sempre La rosa, da lui dipinta, che insieme abbiamo scelto come logo della Milanesiana. Ogni anno, a seconda del tema, La rosa cambia vestito. Ma il disegno è quello".

Quale è stata la cosa invece che più la ha colpita, la più inaspettata?

"Quando lo conobbi. Non so se il nostro legame precedesse quell'incontro, come dice lui. Ma certo il modo in cui comprese il mio silenzio dette un tono a tutti gli anni a venire. Mi sembrava di non dire nulla e invece lui capiva tutto. E poi lo studio. Franco studiava. Non era solo curioso, studiava. Aveva una cultura della mistica, della scienza, che aveva maturato in anni di lettura e di frequentazione della casa editrice Adelphi, di Fleur Jaeggy e Roberto Calasso. La caparbietà che metteva per riuscire al meglio in ciò che non sapeva (ancora) fare, è un esempio".

Qual è la sua canzone che più ama e perché.

"Ah, no, questo non me lo chieda. Questo non posso farlo. Ci sono versi che risuonano nella mia testa e si cantano da soli: 'E il mio maestro mi insegnò a cercare l'alba dentro l'imbrunire'; 'L'animale che mi porto dentro, che si prende tutto anche il caffè'; 'E ti vengo a cercare perché sto bene con te'; 'Questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine'. Non ce ne rendiamo conto, ma Franco ha fatto cantare alle masse versi raffinatissimi di filosofi, Sufi, mistici".

Lei è stata una delle poche persone a frequentarlo anche nel periodo della malattia: c'è un ricordo di lui che può raccontarci?

"Andai a trovarlo poco più di un anno fa. Era debole. Mi fece vedere i suoi ultimi dipinti. E poi gli chiesi di suonare qualcosa al pianoforte. E lui lo fece".

Qual è l'insegnamento che Franco ci ha lasciato?

"Che il successo non è niente, è effimero, un soffio, come tutto nella vita. A meno che non venga accompagnato da una consapevolezza ulteriore, da un 'occhio interiore', che coglie L'essenziale.  Questa consapevolezza immunizzava Franco da mode, falsi miti, dal successo stesso".

Franco credeva nella reincarnazione: in chi potrebbe reincarnarsi nella sua prossima vita?

"Franco era un uomo giusto e generoso. Si dovrebbe reincarnare in qualcosa di ancora più alto. E mi è difficile pensare a qualcosa di più alto, ora. Spero di incontrarlo e riconoscerlo negli occhi di un bambino".

Battiato non può morire. Ragù di capra di Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 18 maggio 2021. Si è spenta la voce del padrone. Con Franco Battiato se ne va il dominatore di quattro decenni abbondanti di musica che potrebbe avere mille etichette: pop, colta, dada, situazionista, post-moderna, retro. Musica divertente, punto e basta. La musica del genio di Riposto ha saputo federare gli snob di ogni classe sociale, e il Maestro era snob nel senso più nobile, con i tenori da doccia. Ha unito gli studenti di filologia iranica e – testimonianza diretta – gli accasermati di un battaglione punitivo alla Cecchignola che sulla carta militare alla voce occupazione, se ladri, scrivevano “c. de rendita” (campo di rendita) e nelle sere senza libera uscita cantavano a memoria “Centro di gravità permanente” o “L'era del cinghiale bianco”. Battiato è stato soprattutto questo miracolo e poi molti altri che non bisogna descrivere ma ascoltare perché la voce del padrone non si spegnerà. Lunga vita a Franco Battiato.

Franco Battiato al prete amico: “Ho fatto una vita bella, mi sono divertito”. Music.fanpage.it il 19/5/2021. Franco Battiato non aveva paura della morte stando alle parole di padre Guidalberto Bormolini, prete e amico del cantautore scomparso lo scorso 18 maggio. L'uomo è stato intervistato dall'Adnkronos mentre si preparava a partire per Milo, il paese dove Battiato ha passato gli ultimi anni della sua vita, nella villetta di famiglia: "Io credo che non avesse paura, anzi, la morte per lui era solo un passaggio" dice Bormolini che ricorda Battiato e la loro "amicizia vera, non di circostanza o di convenienza data la notorietà dell’artista di respiro internazionale, un’amicizia in cui si parlava schiettamente, di tutto, senza filtri".

Il misticismo dell'artista siciliano. Battiato, è noto, era uno studioso del misticismo, delle religioni, spesso argomento di molte sue canzoni, ma soprattutto era un uomo che "non voleva essere incasellato", alla continua ricerca, insomma, proprio come ha fatto con la sua musica: "Ho sentito la sua profondità cristiana, negli ultimi tempi poi era affascinato anche dalla tradizione tibetana. Lui è stato soprattutto un sincero ricercatore" continua il monaco.

Battiato non aveva paura della morte. Sempre all'Adnkronos ha svelato come l'artista – Battiato era tra le altre cose cantante, musicista, pittore, regista – non avesse paura della morte: "Gli chiedevo se era preoccupato, lui mi disse: ‘No, ho fatto tutto quello che dovevo fare, ho fatto una vita bella, mi sono divertito’. E i suoi occhi luminosi non mentivano. Mi sembrava così davvero, lo ho visto anche maturare. Era di una pace e con lo sguardo sempre più dolce. A differenza di come poteva apparire in pubblico, lui era di grandissima sensibilità, attento, gentile, premuroso e poi la gente di cui si circondava era tutta gente semplice, anche lo staff, di altissima professionalità, eppure gente semplice".

Il testamento spirituale di Battiato. Bormolini descrive l'amico come un uomo "di una pace e con lo sguardo sempre più dolce. A differenza di come poteva apparire in pubblico, lui era di grandissima sensibilità, attento, gentile, premuroso" e spiega qual era il testamento spirituale dell'artista: "Credere che ci può essere un mondo più bello di quello che abbiamo. Lui ci credeva e ha offerto tutto ciò che ha potuto. Da lassù, Franco Battiato ci ricorda che ci vuole più umanità, più cura".

Da leggo.it il 20 maggio 2021. Franco Battiato è stato un amico del cuore, un compagno inseparabile fin dai primi anni della mia carriera musicale. Si presentò la prima volta alla porta di casa alle prime ore del mattino buttandomi giù dal letto. Non so cosa mi spinse ad aprire, so solo che poche ore dopo avevamo consolidato un'amicizia che mai si sarebbe allentata o scalfita. Abbiamo suonato insieme, abbiamo passato serate stupende a giocare a carte. Abbiamo attraversato insieme i momenti più importanti della vita, sempre in contatto, sempre presenti l'uno all'altro sempre pronti a condividere gioie e dolori. Il lavoro prima con me e poi con Giorgio non hanno mai ostacolato la nostra originale amicizia, ma anzi l'hanno sempre più rinforzata. Le ore passate insieme restano tra i ricordi più belli della mia vita. Sempre disposti a ridere di noi, del mondo, di tutto ma col senso tenace e profondo di complicità e di appartenenza. Ora sarò ancora più sola, caro, insostituibile Franco. Ma conto di ritrovarti in quella spiritualità dalla quale, ancora una volta insieme, ci siamo spesso lasciati avvolgere.

Alberto Mattioli per "la Stampa" il 19 maggio 2021. Un giorno il campanello di casa suonò alle otto del mattino. «Mamma lo racconta sempre: gli ho fatto un caffè, e da quel momento siamo stati inseparabili». Mamma è Ombretta Colli; papà, Giorgio Gaber; chi parla, Dalia Gaberscik, figlia della coppia. E lui, naturalmente, è Franco Battiato, «che da piccola mi faceva un po' impressione: altissimo, magrissimo, pallidissimo, con addosso un mantello nero». Era il gran finale degli Anni 60, fra gli ultimi bagliori della nostra età dell' innocenza e gli anni di piombo. Milano era vitalissima, il giovane Battiato la scopriva affascinato («Allora era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo») e i Gaber scoprivano Battiato, primi a intuire che sotto quel mantello c' era del genio. Il tutto al Club 64, il cabaret dove Battiato apriva gli spettacoli suonando canzoni siciliane «fintoetniche» (definizione sua). Gaber ascoltò, fu colpito, gli disse: «Vieni a trovarmi». E in effetti Battiato a Gaber deve molto, a partire dal nome. La storia si svolge il 1° maggio 1967, a Diamoci del tu. «Era un programma televisivo condotto da Caterina Caselli e da mio padre. Ognuno dei due presentava un giovane cantautore: Gaber, appunto, Battiato; Caterina, Francesco Guccini. All' epoca Battiato si chiamava ancora con il suo vero nome, Francesco. Per evitare confusioni con Guccini, papà lo ribattezzò Franco. E Franco è rimasto». Così cominciò un' amicizia inossidabile, cementata al tavolo da poker. I giocatori erano Gaber, Battiato, lo scrittore iperintellettuale Roberto Calasso, fondatore dell' Adelphi, e sua moglie Fleur Jaeggy, pure scrittrice. Erano poker letterari: «Non giocavano soldi ma libri. I volumi, ovviamente Adelphi, sostituivano le fiche. Ovvio che "pagava" sempre Calasso», ricorda Gaberscik. Poi c' è la collaborazione artistica. Battiato fu a lungo il chitarrista di Ombretta, anni di viaggi pazzi e divertentissimi su e giù per l'Italia, a bordo di un Ford Transit. Colli era una bella ragazza dei favolosi Sixties, ma già tosta come quelle dei 70. E così successe quel che Battiato raccontò poi a una conferenza stampa di un Festival Gaber. Sempre Gaberscik: «Si esibivano in una balera di paese e, come succedeva all' epoca, il pubblico era proprio sotto il palco. Mamma indossava la minigonna. Successe che un ragazzotto locale allungò una mano dove non doveva. La mamma non ci pensò due volte e gli spaccò il microfono in testa. E Franco, preoccupatissimo: certo, Ombretta, tu ti scateni, ma poi chi deve fare a pugni siamo noi». Nel frattempo Gaber aveva presentato Battiato ai primi discografici. Insieme, scrivono la sigla di Diamoci del tu, titolo Gulp Gulp. Poi, con Giusto Pio, Battiato compone nel '78 tutte le musiche (sintetizzatori, fiati e quartetto d' archi) per uno degli spettacoli più mitici del teatro canzone di Gaber, Polli d' allevamento. Gran successo. Per Battiato manca poco all' appuntamento con la celebrità, che arriva un po' a sorpresa, forse anche per lui, nell' 81 con La voce del padrone. Franco non perde il suo centro di gravità, i Gaber un po' sì: «Noi sapevamo da sempre che era un gigante ed eravamo pazzi di gioia che l'avesse scoperto anche il resto del mondo», sempre Gaberscik. «Era l'amico di una vita. La mamma e Franco si sono sentiti per l'ultima volta un mese fa». Altro che l'intellettuale algido e macerato. «Era un uomo divertentissimo. Non c' è stata cena in cui non si ridesse. Detestava solo una cosa: la stupidità».

Da gds.it il 18 maggio 2021. "C'è un misterioso equivoco in forza del quale Franco Battiato gode di un'aura da intellettuale che non ha alcun appoggio sui suoi testi - ha spiegato la Murgia -. Non sappiamo se sia la suggestione indotta dall'uso di parole difficili e geografie esotiche o la fascinazione del misticismo orientale evocato - ma mai dispiegato - nei testi di Fleur Jaeggy. Ci resta però un dubbio: e se il vero gesto intellettuale di Battiato fosse semplicemente l'elettronica?".

Ray Banhoff per rollingstone.it il 18 maggio 2021. Questa l’avete sentita? «Battiato è considerato un autore intellettuale e invece ti vai a fare l’analisi dei suoi testi e sono delle minchiate assolute. Citazioni su citazioni e nessun significato reale. Tolti due testi, forse». Non sono le parole di un hater o un ragazzino ignorante, ma della scrittrice Michela Murgia in un video sul suo canale YouTube di pochi giorni fa. Premessa: non pensiate che sia di parte e che perché scrivo su Rolling Stone debba difendere i musicisti a priori. La Murgia per quanto mi riguarda ha tutto il diritto di pensare ed esprimersi come meglio crede. Ha pure il diritto di dire che Battiato dice minchiate. Ho molti amici nel feed dei social che si stanno organizzando per tempestare la sua pagina di commenti e citazioni di Battiato, ma credo che sia un’enorme sciocchezza. Siamo in democrazia, signori. C’è un’altra frase davvero scandalosa che ha detto la Murgia, ma arriviamoci per gradi. Contestualizziamo la situazione. Sul suo canale YouTube la Murgia ha una rubrica molto colorita che si chiama Buon vicinato in cui discute con la scrittrice Chiara Valerio spaziando su letteratura, musica e cultura. Si tratta di conversazioni tra due amiche colte, molto leggere ma piene di spunti, in cui senza troppe inibizioni si esprime la propria opinione senza censure, alla faccia del politicamente corretto. Insomma, come facciamo noi nel nostro privato con i nostri amici. Credo che sia uno spazio giusto, da rivendicare, quello di avere un’opinione controcorrente. Ora andiamo al problema vero. La frase davvero inquietante che ha pronunciato la scrittrice è questa: «“Cuccurucucu Paloma”? Dov’è la pregnanza del testo? Anche Parco Sempione di Elio mi evoca un mondo però c’è anche un significato nel momento mi sta dicendo: il Parco Sempione è uno dei polmoni di Milano, non lo devi toccare. Con Cuccuruccucu Battiato cosa mi sta dicendo?». Ecco, questa è una pugnalata al cuore. Secondo la scrittrice Cuccurucucu (citazione della canzone anni ’50 Cucurrucucú paloma nota ad esempio nella versione di Caetano Veloso, ndr) è una minchiata perché non ha una morale. La dobbiamo smettere con questa panzana che deve esserci un messaggio per tutto, una dichiarazione politica, una profondità da premio letterario. Dobbiamo smettere di rompere le palle alla gente e farla sentire in colpa e ignorante. Cuccurucucu se ne frega di avere la “pregnanza del testo”, è solo bella e a tutti piace cantarla. L’arte in primis deve far scaturire delle emozioni, smuovere qualcosa e quella canzone è evocativa, magica, ha una melodia che non ti stanchi mai di cantare. L’ho sentita sparata nei karaoke, interpretata dai soggetti più disparati, da mio padre al sindaco, da vecchi amici sulla spiaggia con la chitarra e da innamorati nelle loro vacanze in auto. Ed erano tutti FELICI. La gente la canta perché la ama, cara Murgia. Questo è il successo di un’opera d’arte. Andatevi a rivedere quel video di Umberto Eco in cui dice che i classici sono solo i best seller del loro tempo. Quelli più amati dalla gente. Non quelli con più pregnanza (che parola orrenda). Succederà mai questo con Accabadora di Michela Murgia? O col suo Chirù? La gente ci farà le scritte sulle magliette? Citerà i passi di questi libri? Ho grossi dubbi. Il mondo si ricorderà della Murgia per l’invenzione del fascistometro (googolate) e di queste sparate o dei suoi personaggi? Credo delle sparate, e la colpa è solo della Murgia, di questo concetto di arte che ha. Basta con questo approccio letterale da marxisti anni ’70. Che due coglioni. Lasciateci vivere. Ridateci i punk, i beat, i pazzi, gli sfrenati. Battiato canta quelle frasi senza senso (che poi sono un rimando altissimo al metodo del cut-up di Burroughs) e ha fatto sognare milioni di persone. Ripeto: quante persone ha fatto sognare Michela Murgia coi suoi libri? Purtroppo è solo questo che conta per un autore. Il resto sono chiacchiere su YouTube. Lecite, ma criticabili.

Marco Molendini per Dagospia il 18 maggio 2021. Battiato, l'uomo che cantava «scendo dentro un Oceano di silenzio», se ne va così, ai piedi dell'Etna ammutolito, portandosi via l'ultimo mistero nel buio della sua malattia. Se ne va, senza rammarichi («La dimensione spirituale ti conduce alla fine del Tutto. Al punto di non ritorno. E io non vedo l'ora», aveva dichiarato nell'ultima intervista»). Se ne va con quella sua aria da filosofo orientale che vuole stupire e colpire la stupidità degli occidentali. Se ne va, ma restano le sue canzoni, un catalogo pieno che respira intelligenza, vivacità, estrosità. Battiato con Dalla è stato il più originale dei cantautori e il più irregolare. Una pop star che detestava il pop e odiava essere star. Non amava le folle anche se radunava le folle come un guru con il popolo dei suoi fedeli. Amava la solitudine della sua casa di Milo con il silenzio rotto dai borbottii del vulcano. Amava i viaggi in Nepal alla ricerca della meditazione assoluta e di qualcosa che forse non ha mai trovato. Era un quieto inquieto Franco, sensibile alle passioni e per questo pronto a scacciarle. Amava studiare, soprattutto i filosofi orientali, forse gli sarebbe piaciuto fare il monaco, rinchiuso in un monastero sperduto e circondato dai libri. Amava il teatro, la lirica, la pittura, il cinema. Per il cinema spesso ha continuato a far musica, ne aveva bisogno per mettere insieme i soldi che ci volevano per realizzare i suoi film. Con l'ultimo, Hendel, scritto, riscritto, sempre sull'orlo del cominciare a girare, ha perduto la battaglia. Solitario, delicato («cammino per strada facendo attenzione a non calpestare neppure le formiche»), geloso della propria intimità fino a celare brutalmente qualsiasi cedimento erotico o sentimentale. Ma non era un uomo chiuso, amava l'amicizia e quella con Manlio Sgalambro ha segnato la sua maturità artistica. La sua ironia siciliana lo trasformava in formidabile raccontatore di barzellette, era pronto a sorridere con il suo sorriso timido, una timidezza che diventava ritrosia. Complicato, ma anche semplice nel suo esser franco (destino di un nome), nel dire le cose in faccia con il loro nome come quando ha sparato in una sua canzone, Passacaglia, «Viviamo in un mondo orribile» o quando se l'è presa con il potere «di gente infame che non sa cos'è il pudore». Feroce e delicato allo stesso tempo con le sue magnifiche E ti vengo a cercare o Perduto amor (come il titolo del suo primo film), fino al capolavoro La cura. Il mistero avvolge Battiato, che se ne è andato dopo aver imboccato il tunnel con una malattia su cui la famiglia ha fatto muro, inconsapevole o tetragona rispetto all'inevitabile clamore che il mistero sempre genere nei media. Ora l'attesa è finita, sappiamo che Battiato non ce l'ha fatta, sappiamo che resterà un marziano, oggetto non identificato della nostra musica popolare, un ribelle piovuto da Marte, con la sua aria svagata, audace nelle sperimentazioni e blasfemo nei temi che trattava con quel tanto di aria marziana che ha sempre fatto parte del suo carattere. E questa sua diversità, questo suo esser ritroso probabilmente è stata la molla dell'emotività collettiva, dl cordoglio nazionale condiviso: Franco non c'era più da qualche anno, ma solo ora se ne avverte pienamente la perdita. Non canterà più, non griderà di nuovo Povera patria, non se la prenderà con gli imbecilli di Up patriots to arms, non proteggerà dalle paure e dalle ipocondrie la madre malata di Alzheimer, non incontrerà Igor Stravinsky sulla Prospettiva Nevsky, non proverà più a emanciparsi dall'incubo delle passioni. Ma i suoi capolavori, le grandissime canzoni che ha scritto, restano, come quella prova da maestro assoluto dell'interpretazione che è stato il primo Fleur, un disco di canzoni del passato (da Trenet a De Andrè) reinventate con l'intensità del grande autore. Ciao Franco chissà forse adesso il tuo desiderio è stato esaudito: «A me piacerebbe non essere in nessun tempo».

Battiato non era di destra (e nemmeno di sinistra): era Battiato. Concetto Vecchio su La Repubblica il 18 maggio 2021. Negli anni dell'impegno gli ex missini provarono a tirarlo per la giacca, ma lui non si schierò mai. "In Italia o si è Pertini o si è Battiato", disse un giorno Gaber. Solo che Franco Battiato non si è mai fatto classificare, e qui sta la sua bellezza e la sua eternità. È sempre stato semplicemente "un cantante", come amava definirsi, sfuggendo alle rubricazioni dell'Italia ideologica. Diceva "Vamos a la plaja è un capolavoro", ma allo stesso tempo non si faceva fotografare da Sorrisi e canzoni; "Marx entra ed esce dai dischi caldi, ma non riesce mai a piazzarsi fra i primi dieci", dopodiché a Catania si schierò senza esitazioni contro il candidato di Silvio Berlusconi, il sindaco Umberto Scapagnini, che i catanesi con feroce ironia avevano ribattezzato "Sciampagnini".

La morte del cantautore. “Con Battiato e Pannella lotte, musica e libertà”, il ricordo di Emma Bonino. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 19 Maggio 2021. «Marco Pannella è morto cinque anni fa. Oggi ci ha lasciato Franco Battiato. Due date dolorose per ciò che entrambi hanno rappresentato nella vita politica, culturale e civile del nostro Paese. Dolorose per tutti e non solo per i radicali, pur nelle loro divisioni, uniti nel rimpianto di due vite che si sono intrecciate per così tanto tempo. In una dichiarazione di cordoglio pubblicata su Facebook, Gianfranco Spadaccia ha scritto che, con la morte di Franco Battiato, scompare non solo un musicista, un compositore, un grande artista ma anche un compagno e un amico: Franco fu uno dei primi cantautori a mettere la sua musica, la sua voce e le sue canzoni a disposizione delle manifestazioni che negli anni ‘70 e ‘80 accompagnavano le nostre lotte per i diritti civili. E ci fu vicino anche quando non era facile combattere con metodi nonviolenti le crescenti degenerazioni partitocratiche che corrodevano dall’interno la nostra democrazia con le lottizzazioni, l’occupazione delle istituzioni, la diffusa corruzione. Franco Battiato con Mani Pulite ha condiviso anche lui l’illusione che la soluzione ai problemi del nostro Paese potesse essere affidata al giustizialismo, senza spingersi fino al punto di condividere quella di una via giudiziaria al socialismo e rimanendo, a differenza di altri, sempre amico dei radicali e vicino ad alcune loro battaglie. Non è facile combattere partitocrazia e corruzione con le armi del diritto, del garantismo, della Costituzione. Molti ricorderanno e canteranno Povera Patria. Io preferisco ricordare e cantare La cura. A testimonianza di questa vicinanza mi piace ricordare che nel momento finale della vita di Marco, lo andò a trovare con la stessa amicizia di sempre». A ricordarlo è Emma Bonino, figura storica dei Radicali, oggi senatrice.

Franco Battiato, un grande artista, ma anche una persona che ha sempre cercato il suo “centro di gravità permanente” nelle grandi battaglie Radicali.

Battiato, come ricorda bene Gianfranco Spadaccia, è stato uno dei primi cantautori a mettere la sua musica e le sue canzoni a disposizione delle manifestazioni che si facevano negli anni ’70-’80. In questo modo, tirandosi altri artisti, dagli Area fino a De Andrè. Le strade si sono divise e poi si sono riunite. A me mancano, soprattutto questi due grandi personaggi: Marco Pannella e Franco Battiato. E soprattutto mancano al Paese.

All’inizio della nostra conversazione, lei ha confidato che di Battiato preferisce ricordare e cantare La Cura. Vorrei però riportare la prima strofa di Povera patria: «Povera patria/Schiacciata dagli abusi del potere/Di gente infame, che non sa cos’è il pudore/Si credono potenti e gli va bene quello che fanno/E tutto gli appartiene». Questa “povera Patria” che metteva in versi musicali Franco Battiato, è ancor oggi così?

Per molti aspetti sì e per altri è anche peggiorata. Pensi al fango che sta travolgendo il Csm. Le vicende Palamara e Amara… Dal mio punto di vista, per alcuni aspetti la situazione si è sicuramente aggravata. È vero che io ho un’attenzione particolare a tutto quello che riguarda la giustizia. Mi pare che le parole che usava Franco Battiato si possano applicare anche oggi.

Sempre per rimanere a questo testo che ha fatto storia. Il refrain della canzone è «Non cambierà, non cambierà/No cambierà, forse cambierà». C’è in questo un messaggio di speranza?

Sicuramente sì. Per quello che ricordo dei nostri colloqui, oltre la denuncia c’era veramente la speranza. Senza assolutismi, infatti lui usa l’avverbio “forse”. Questo voleva anche essere un messaggio di non rassegnazione. E credo che, al di là del merito delle singole battaglie, fosse proprio quello che Franco Battiato apprezzava in Pannella, e cioè di uno che non desiste, che non si arrende. Che non solo dà speranza ma è speranza di per sé.

Lei mette insieme queste due figure, Battiato e Pannella, così diverse ma al tempo stesso così coincidenti. Come racconterebbe oggi a un millennial chi è stato e cosa ha rappresentato Marco Pannella?

Intanto, la passione politica come impegno civile che non si esercita solo nelle istituzioni. L’offerta è molto grande. È quello che dico sempre agli studenti: voi dovete, cari giovani, anche restituire qualcosa che avete ricevuto. Ricevuto dai vostri padri e dai vostri nonni, pur in un Paese in grande difficoltà. Gli ambiti di libertà possibile, perfezionabile ovviamente e bisogna andare avanti, ma quella libertà l’avete ricevuta non per vostro impegno. Il vostro impegno, la vostra cittadinanza, è anche quello di restituire in parte. Chi vorrà potrà occuparsi di ambiente o di diritti civili, occupatevi di quel che volete. L’offerta, ripeto, non manca. Il problema è solo di smettere di fare clic e impegnarsi. Quanto a Marco, che dire, potremmo scrivere o parlare per ore, giorni, mesi, ricordando episodi, fissandoci su aneddoti, ricordando le molte invettive da lui ricevute da altri che dopo morto lo hanno incensato. Senza mai giungere a centrare il nucleo fondamentale della sua vita e del suo impegno politico. C’è riuscito nei giorni scorsi il Prof. Pugiotto, amico e sodale da sempre: «Pannella credeva nel diritto come violenza domata, nella legalità quale regola e limite al potere, nella democrazia come conflitto senza spargimento di sangue. I fondamentali del costituzionalismo liberale su cui ha saputo edificare un metodo di lotta politica». E la sintesi che condivido di più, aggiunta alla sua capacità di invenzione e spiazzamento della politica più tradizionale. Per questo trovo stucchevole la domanda di rito che spesso mi viene rivolta: cosa farebbe o si inventerebbe oggi Pannella? Molti sono pronti a dare una risposta con grande sicurezza, che sembra quasi una appropriazione indebita di pensiero e opere di chi invece “scontato”, e tanto meno prevedibile, non è mai stato.

Prima citavamo, per tornare a Battiato, una strofa di Povera patria, ma anche La cura. Questo riporta a qualcosa che è stato, come dire, un elemento costitutivo dell’essere speranza dei Radicali, cioè il corpo. E Pannella, come lei e tanti altri leader e militanti Radicali, ha sempre usato il corpo per trasmettere messaggi politici e condurre battaglie di civiltà.

Lo spazio pubblico – piazze, strade, marciapiedi soprattutto – e l’uso del corpo. Ovviamente tutte cose estranee alla politica tradizionale e che per questo anche oscurate dalla Rai. Io canto La cura perché mi sembra in parole più o meno semplici, quello che vuol dire volersi bene: «Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie/Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via/Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo/Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai…». E poi nel periodo più drammatico, più violento, quando Battiato, in un’altra sua grande canzone, Bandiera bianca, cantò «In quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore». Tutte cose che rimangono e che Marco e chi gli è stato vicino ha cercato di trasmettere per tutta la vita, io provo ancora a farlo con i ragazzi.

Anche perché non c’è futuro senza memoria…

Esattamente ha detto qualcuno. Un altro grande, Primo Levi.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

"Il successo mi buttò giù. Pensai di ritirarmi ma decisi di sperimentare". Lo stralcio di un colloquio con il grande maestro. Gli anni del boom in classifica, pregi e difetti della popolarità. E l'immersione nel misticismo. Giuseppe Pollicelli - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Alla fine degli anni Settanta ha inizio la collaborazione con Giusto Pio, poi rivelatasi decisiva nella tua affermazione come musicista pop.

«Pio è stato il mio insegnante di violino per tre anni e in effetti è con lui che ho posto le basi per il passaggio alla canzone».

Passaggio che è avvenuto con l'album L'era del cinghiale bianco del 1979. Tra coloro che parteciparono alla registrazione di quel disco, oltre al già citato Giusto Pio, c'è Alberto Radius. In cosa è consistito il suo apporto?

«Il ruolo di Radius è stato importante in quanto fu lui a occuparsi delle chitarre (mentre al basso c'era Julius Farmer, alle percussioni Tullio De Piscopo e alle tastiere Antonio Ballista e Roberto Colombo) e perché fu nel suo studio di registrazione che l'intero disco venne inciso».

Per te L'era del cinghiale bianco segna anche l'approdo alla EMI, che resterà la tua etichetta discografica fino al 1995. Chi fu l'artefice di questo passaggio?

«A propormi alla EMI nella mia nuova veste di cantautore fu Angelo Carrara, con cui ho collaborato fino alla fine degli anni Ottanta».

È vero che La voce del padrone, primo album italiano a superare il milione di copie vendute, era considerato dalla EMI la tua ultima chance dopo il parziale insuccesso dei due LP precedenti?

«No, non è affatto vero. L'album Patriots, uscito l'anno precedente, nel 1980, aveva venduto centomila copie e il singolo Up patriots to arms era andato benone. Io, peraltro, pensavo che la mia dimensione fosse quella, ritenevo di avere già toccato il mio apice di popolarità come musicista. Non avevo idea di cosa fosse la fama. L'ho capito, con gli interessi, dopo il successo inaudito de La voce del padrone».

Come hai vissuto quel momento?

«Non bene. Volevo mollare tutto, è stato Giusto Pio a farmi desistere».

Aneddoti legati a quel periodo?

«In una discoteca sono stato letteralmente assalito, per diversi minuti, da fan impazziti che mi strattonavano di qua e di là. Finii con tutti i vestiti strappati. Dovunque andassi trovavo centinaia di persone ad attendermi. Un incubo. Una volta, addirittura, mi sono svegliato di notte, in un hotel, perché avevo sentito dei rumori: nella mia stanza c'erano delle ragazze che ridacchiavano! Qualche sconsiderato, tra il personale dell'albergo, le aveva fatte entrare. In che modo ne sei venuto fuori? Facendo l'album L'arca di Noè, che andava in tutt'altra direzione rispetto a La voce del padrone e ha quindi disatteso le aspettative del pubblico. Vendette comunque molto, ma lo apprezzarono in pochi. La gente per strada mi diceva: A Battia', non m'è mica piaciuto! Era divertente. Ed è stata la mia salvezza».

Chi sono coloro che, a tuo avviso, hanno raggiunto le vette più alte del misticismo?

«I buddisti tibetani, il loro livello è il più elevato in cui io mi sia mai imbattuto».

Uno dei cardini del buddismo è il superamento della materia. Questo tema si ritrova spesso nelle tue opere, compresi i tuoi film. Penso all'anziano Beethoven che, in Musikanten, malgrado tutti gli acciacchi fisici e la grave limitazione all'udito, non può fare a meno di comporre e, in tal modo, di tendere verso l'alto.

«Liberarsi dalle catene della materia è fondamentale. Anche il nostro corpo è spesso un fattore che ci lega. Ricordo che una volta Michelle Thomasson, la moglie di Henri Thomasson (il quale fu uno dei principali discepoli di Georges Ivanovic Gurdjieff, il grande mistico e filosofo armeno capace di elaborare un sistema che ha reso accessibile a noi occidentali tanta sapienza orientale), essendo stata urtata da qualcuno cominciò a sanguinare copiosamente dal naso. Be', Michelle seguitò a parlare con la massima indifferenza, limitandosi a togliersi il sangue dal viso con la mano. Un esempio di controllo assoluto di sé, e di distacco dalle cose corporali, che non dimenticherò mai».

Ritieni di avere fatto qualche errore, nella tua carriera?

«Certamente, com'è inevitabile ho commesso non pochi errori. Ma sono proprio gli sbagli ad aggiustarti il tiro. La cosa affascinante della nostra presenza su questo pianeta, per quanto illusoria essa sia, è la possibilità di effettuare delle comparazioni. È decisivo imparare a capire se una persona sia per te positiva oppure no: se sotto questo aspetto non sei svezzato, puoi finire in balìa di qualsiasi cialtrone».

Il genio siciliano. Franco Battiato compie 76 anni, gli auguri al Maestro della canzone e le condizioni di salute. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Franco Battiato compie 76 anni. E a festeggiare il compleanno di una delle icone della musica, della canzone, della sperimentazione italiana sono migliaia di persone, appassionati o semplici ascoltatori, che stanno facendo gli auguri al Maestro siciliano sui social network, scrivendo articoli e postando le canzoni. Al Festival di Sanremo andato in scena a inizio marzo, il cameo nella cover di Povera Patria portata sul teatro dell’Ariston da Colapesce e Dimartino, con la voce dello stesso Battiato. “Se avremo ancora un po’ da vivere, la primavera intanto tarda ad arrivare”, scandiva la voce del genio nella sua canzone più politica. Battiato si è ritirato da anni dalle scene. Vige uno stretto riservo sulle sue condizioni di salute. A farlo diventare grande, uno degli autori e degli interpreti più amati e iconici per più generazioni di ascoltatori, la sua vena intellettuale, la curiosità, la fame di scoperta costantemente esercitata e alimentata. All’inizio le scorribande elettroniche, progressive, un’altra dimensione rispetto a quella già affrontata e più diffusa dei cantautori, più o meno impegnati, negli anni ’70. La prima apparizione televisiva a Diamoci del tu, condotto dall’amico Giorgio Gaber e Caterina Caselli. La rivelazione al grande pubblico nel 1979 con L’era del cinghiale bianco: una manciata di tracce entreranno in ogni Best of. Una canzone nuova, un pop orecchiabile e al tempo stesso ricercato nelle soluzioni e nella produzione. New Wave, cantautorato, elettronica, pop al tempo stesso. L’anno dopo il bis con Patriots. L’esplosione con La voce del padrone: primo Lp a superare il milione di copie vendute in Italia. L’album non ha passaggi a vuoto: è già da solo una specie di Greatest Hits. E quindi decenni di successi e altri album memorabili. Battiato si è costruito un micro-cosmo ricchissimo e atipico, diverso da quello di qualsiasi altro autore, con riflessioni sulla religiosità, la filosofia, e quindi la provocazione e l’ironia, la politica, il mondo dell’antichità e le nuove tecnologie. È stato assessore della Regione Sicilia, senza retribuzione, dal novembre 2013 al marzo 2014. Si è espresso anche nel cinema, nel teatro, nella pittura, nell’opera. È stato precursore dell’elettronica, cultore della musica classica e sinfonica. Senza limiti. Ha collaborato con artisti di caratura internazionale. Ha sempre preferito Milo, alle pendici dell’Etna, alla vita mondana. Il ritiro dalle scene nell’ottobre 2019, annunciato dal manager Francesco Cattini, in occasione della promozione dell’ultimo album, Torneremo ancora, come la title-track inedita. “Non c’è più nulla nei cassetti. Direi che questo è l’ultimo album di Franco Battiato”, disse Cattini. Da allora si sa praticamente nulla sulle sue condizioni di salute. La pagina Facebook dell’artista è aggiornata a dicembre 2020. L’ultimo post avvisa la disponibilità, on demand, del concerto al teatro greco di Segesta del 29 luglio 2004. Il post precedente, dell’ottobre 2019, sempre per l’album Torneremo ancora. Un silenzio stretto vige da anni sulle condizioni di salute del genio siciliano. In un’intervista a Fanpage che la famiglia si è affrettata a smentire seccamente, il cantautore Roberto Ferri diceva che “l’etichetta e il manager Franz Cattini hanno voluto tirare fuori qualcosa per tenere vivo quello che, purtroppo, è già morto”. Una trovata commerciale insomma, con Battiato in gravi condizioni già da tempo, da un anno, sosteneva Ferri, “purtroppo non riesce a capire quello che gli si dice”. Il fratello dell’artista, Michele Battiato allora ha replicato, dicendo che Ferri “avrà visto Franco una volta e mezza di persona”, e quindi: “Certo, ho sentito cose che potrei definire stratosferiche, altre completamente inventate. Cioè di chi si è spacciato per amico di mio fratello e invece non è assolutamente mai stato. Sono dei disperati entrati in casa grazie ad amicizie comuni e che adesso mettono in scena la tipica parte che gli compete in ogni melodramma che si rispetti. Quel che mi sento dire è solo che stiamo assistendo mio fratello come merita – ha aggiunto Michele Battiato – Dalla gente ho letto dichiarazioni sui giornali molto giuste ed equilibrate. Li voglio rassicurare, perché mio fratello riceve continuamente gli amici più intimi, viene curato al meglio e sta superando un momento di difficoltà, anche serenamente. Non abbiamo nessuna preoccupazione di qualsiasi sorta”. Massimo riserbo, da parte della famiglia e dell’entourage, conservato in tutti questi anni. Un’osservazione più significativa rispetto al gossip la dava Mario Sgalambro, filosofo e scrittore che con Battiato ha collaborato per anni, scomparso nel 2014, in una premessa al libretto d’Opera di Battiato, Il Cavaliere dell’intelletto, scriveva che “la volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere; la storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori”.

Le onde gravitazionali che liberano Battiato. Andrea Indini il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Gli dei, i mali dell'uomo, la carne e l'anima. Battiato ha speso una vita a innalzare l'umano. Oggi ha iniziato l'ultimo viaggio verso quella perfezione che ha sempre cantato. Gli dei, i dadi, la sorte. Se lo sono giocato così, il mondo. A Zeus andò la Terra, ad Ade gli Inferi e a Poseidon il continente sommerso. Fu allora, nella notte dei tempi, che apparve Atlantide. E a un tratto la bellezza si stagliò dinnanzi agli uomini che per capricci sono da sempre secondi soltanto agli dei. Tanto che, pur vivendo in un paradiso immenso, dove il mare lambisce le isole e innalza le montagne e i canali sono "simili ad orbite celesti", bastò poco a farli risparire nei fondali marini. La distruzione si compì nel giro di una notte. La dottrina della sfera appresa da re Atlante, la conoscenza della geometria, della cabala e dell'alchimia, i principi divini che regolavano le leggi non bastarono a evitare l'inevitabile. Così, non appena "il carattere umano s'insinuò", gli abitanti di Atlantide non riuscirono più a sopportare la felicità. E caddero nel baratro. Franco Battiato li conosceva bene i "falsi miti del progresso" dietro cui corrono gli uomini. Non sono cambiati poi molto da quell'epoca classica tramandataci dagli autori che il cantautore siciliano amava tanto. Quando si spinsero in Oriente a fondare "nuove colonie a immagine di Roma", i comandanti che muovevano le legioni avevano negli occhi soltanto le ricchezze. A causa loro, delle ricchezze, gli eserciti e i popoli conquistati presero anzitempo la strada della morte. Lo sapeva Properzio che contro il denaro dedicò un'elegia in cui dipinse i "crudeli pascoli" dove pasciono "i vizi degli uomini" e germogliano "i semi degli affanni" della nostra esistenza. E lo sapeva pure Battiato quando musicò Delenda Carthago. Le dita colorate di henna, i patrizi triclini, le carni speziate d'aromi d'Oriente, i vini, le rose e il miele. Bisogna immaginarsi tutto. E bisogna immaginare pure l'ingordigia per toccare con mano la fine. È l'Animale, che vive dentro ognuno di noi, a spingerci sempre oltre, a non farci accontentare mai, a divorare tutto quello che s'incontra ("anche il caffé") calpestando e umiliando costantemente l'propria anima. È questo Animale a rendere l'uomo "schiavo delle proprie passioni". Ma come liberarsi da noi stessi? Franco Battiato, che oggi ci lascia all'età di 76 anni con un'eredità musicale e culturale sconfinata, ci ha provato per tutta una vita. Non sarà stato affatto facile affrancarsi dall'umano. Lui, che nella carnalità ha sempre creduto, ha dovuto studiare a fondo. Non ci saremmo aspettati diversamente da un cantautore che per tutta una vita ha scritto di amore, non tanto nel senso più pop del termine quanto piuttosto nell'ontologica dedizione all'Altro per ricercare la comune felicità. Come arrivarci, però? La Mescalina, forse? Per "scappare via dalla paranoia" in un mondo dove riecheggiano "urla di furore di generazioni senza più passato", dove si consumano lotte tra "tribù di sub-urbani", dove l'uomo moderno non è così diverso dai cavernicoli. Eccoci qui: "neo-primitivi, rozzi cibernetici, signori degli anelli". In una sola immagine: "l'orgoglio dei manicomi". Oggi, come ai tempi di Atlantide o di Cartagine, mossi dalle nostre debolezze e dai vizi della carne. Quello per cui Battiato ha costantemente lottato, non era una vera e propria ascesi ma una carnalità non più viziata dalle passioni, non più turbata dai "pensieri neri". Una carnalità purificata da un Oceano di silenzio dove "scorre lento il tempo di altre leggi" e "di un'altra dimensione". È il lavoro di tutta una vita. Una costante ricerca della calma, della pace. Ma non quella pace sbandierata dagli "addetti alla cultura". "Le barricate in piazza - cantava il maestro in Up patriots to arms - le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso". Col tempo, anche l'amore, trova un'altra dimensione. Si impara a lasciar fare al caso, ma senza abbandonarsi alla monotonia. E in dono si hanno "il silenzio e la pazienza", e un cammino condiviso lungo "le vie che portano all'essenza". E, soltanto superando "le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce", l'anima non invecchierà mai. Ma non si cada in illusioni: resterà comunque sempre "la stessa dolce guerra". Ora che Battiato non c'è più, che non dovrà più scendere a compromessi con la carne, che è solo anima, lo immaginiamo altrove. Non a tirare i dadi con gli dei capricciosi che, come gli umani, si piegavano all'ebrezza, alla lascivia e alle passioni. Lo immaginiamo in un posto dove "tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà". Lì "il mondo s'addormenta in una calda luce, di giacinto e d'oro". Vola ora verso quel Paese bellissimo dove il sole è languido e il cielo annebbiato. Vola "nello spazio tra le nuvole" senza curarsi più delle "regole assegnate a questa parte di universo, al nostro sistema solare". Adesso è libero.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il..

Gli ultimi giorni di Battiato: "Deperimento organico". Novella Toloni il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Il fratello Michele ha raccontato gli ultimi istanti di vita del cantautore: "Nelle ultime ore non ha capito, non c'era più, era in un coma profondo". Franco Battiato si è spento nella sua villa di Milo, tra l'Etna e il mare, senza accorgersene, attorniato dall'affetto dei suoi familiari quello del fratello Michele e di sua moglie, dei nipoti e del personale, che negli ultimi anni si era dedicato a lui e alla sua privacy. "Non ha sofferto", ha raccontato il fratello al Corriere, togliendo il velo di mistero sulle ultime settimane di vita del Maestro. Franco Battiato aveva detto addio alla scena pubblica nel novembre 2017 quando, vittima di un brutto incidente domestico, aveva riportato la frattura del femore e del bacino. Un infortunio dal quale il cantautore sembrava essersi ripreso, seppur lentamente, e che lo aveva visto ritornare sui social per salutare i suoi fan nel 2018. Nonostante i pettegolezzi e le notizie sulle sue condizioni sempre più critiche, nel 2019 Battiato era tornato alla musica con il disco "Toreneremo ancora" e per annunciarlo aveva scelto di pubblicare un video, senza l'audio, in cui appariva, provato ma sereno, al fianco dello storico manager Cattini. Le condizioni di salute di Franco Battiato sono però peggiorate negli ultimi mesi. Il 23 marzo scorso, in occasione del suo 76esimo compleanno, è riuscito a godersi la piccola festa in famiglia. "Era contento della festicciola. E riuscì ad assaggiare la torta", ha raccontato il fratello Michele al Corriere della Sera, poi il tracollo lento e inesorabile. "Franco cominciava da giorni a perdere le facoltà - ha proseguito il fratello che negli ultimi anni lo ha tenuto al riparo delle attenzioni di fan e media - Si è arrivati a un deperimento organico per cui, pian piano, si è, come posso dire? Si è quasi asciugato. Non si è accorto del trapasso. Circondato da tutti noi". Il cordoglio dei fan, del pubblico e dei personaggi famosi non si è fatto attendere, ma l'ultimo saluto al Maestro, almeno quello pubblico, non ci sarà. La famiglia ha deciso che il funerale sarà in forma privata e ridotta: "Un momento intimo e privato che non può essere violato da interviste e telecamere". A celebrare le esequie sarà un sacerdote amico di famiglia, che conosceva bene Battiato: "Ci sarà lui a benedire, accanto a noi, pochissimi, quasi gli stessi che mio fratello ha avuto vicini in questi mesi di sofferenza. Nessun altro". Proprio per questo, dopo l'annuncio della scomparsa del Maestro, attorno alla villa si è stretto un cordone di sorveglianza di sicurezza.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché...

La "malattia misteriosa" di Battiato. Francesca Galici il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Tutti sapevano che fosse malato ma pochi, quasi nessuno, sapeva quale fosse la sua patologia. Franco Battiato ha avvolto la sua vita, così come la sua morte, in un alone di mistero. Gli ultimi due anni della sua vita sono stati scanditi dal silenzio della sua assenza dalle scene, eppure la morte di Franco Battiato è deflagrata nelle prime ore di quello che, fino a oggi, era un qualunque giorno di maggio, facendo un rumore assordante. Si sapeva che era malato, che non voleva mostrare al pubblico i segni della sua sofferenza. Voleva che il mondo lo ricordasse nel pieno della sua vitalità, quindi nel 2019 lasciò la vita pubblica e si ritirò nella sua casa siciliana di Milo, in provincia di Catania. Qui si è spento il Maestro, la cui vita e la cui morte saranno per sempre avvolte dal mistero. Che fosse malato lo sapevano tutti ma solo pochissimi, che ora si sono chiusi nel dolore e nel pià assoluto riserbo, sanno quale fosse la malattia che affliggeva Franco Battiato. Non l'ha mai voluta rendere pubblica e questo ha contribuito a creare attorno a lui un alone enigmatico che, in misura diversa, ha sempre caratterizzato il suo personaggio. L'ha alimentato con i testi delle sue canzoni, versi criptici con messaggi nascosti tra le righe. Il Maestro pesava ogni singola parola, valutava ogni virgola e ogni pausa di ogni sua frase e verso per dare una dimensione aurea al personaggio e alla sua musica. Per alcuni, con la sua ultima canzone, aveva addirittura annunciato la sua malattia ma lo aveva fatto a modo suo, in poesia. "La vita non finisce, finché saremo liberi torneremo ancora. Lo sai che il sogno è realtà", cantava Franco Battiato in Torneremo ancora. Impalpabile nei suoi ultimi anni di vita, così come lo era stato nel videoclip dell'ultima canzone pubblicata, Franco Battiato ha consegnato il suo nome alla storia della musica e dell'Italia. È stato un musicista e un paroliere visionario, i cui testi non erano per tutti. Incomprensibili e geniali, anche i più giovani sanno oggi canticchiare almeno una strofa di una delle sue canzoni. Ha voluto che il pubblico lo ricordasse senza compassione, mantenendo l'assoluta riservatezza su quella malattia misteriosa che l'ha colpito strappandolo alle scene. Un suo caro amico qualche tempo fa compose per lui una poesia e la pubblicò su Facebook. L'"Ode all'amico che fu e che non mi riconosce più" rimase pochi minuti online, giusto il tempo perché si facessero le più varie elucubrazioni sullo stato di salute di Franco Battiato. In tanti parlarono di "quella" malattia, per la quale è giusto rispettare la volontà del Maestro di non nominare, lasciandola avvolta nel mistero elevato di Franco Battiato.

Il mondo di Franco Battiato. Andrea Muratore su Inside Over il 18 maggio 2021. Franco Battiato è stato interprete di un’arte in grado di fondere la ricerca costante dell’innovazione in campo musicale, l’estetica dei testi delle canzoni a una profonda riflessione filosofico-spirituale. Ascoltare Battiato significa incamminarsi nella lettura immersiva di mondi complessi, nella profonda ricerca di se stessi. Nel libro-intervista di Franco Pulcini, Franco Battiato. Tecnica Mista su Tappeto, uscito nel 1992, il cantautore siciliano recentemente scomparso sottolineò che “si è delineata perfettamente, per la mia attività, una figura particolare di ascoltatore: si tratta di persone che ricercano qualcosa, che hanno esigenze spirituali. Una lettera su cento mi richiede semplicemente un autografo. Tutte le altre contengono argomentazioni e interrogativi, spesso molto interessanti, riguardanti il misticismo, la ricerca spirituale, la religiosità”. Battiato guida alla scoperta di mondi eterogenei, di nuovi frattali, di profondità culturali, di sinergie profonde tra popoli. Non si può capire un viaggio se non si parte dal principio, che per Battiato e la sua poetica è la sua terra natale, la Sicilia. Terra per sua stessa natura votata a ergersi a piattaforma d’incontro tra popoli, storie, culture. La Sicilia, al tempo stesso, araba, normanna e popolare, italiana e mediterranea, limes tra Europa, Africa, Oriente. Battiato parte dalla Sicilia per condurci in terre lontane e in luoghi iconici. Il Café de la Paix e la Prospettiva Nevskij, Venezia e Istanbul nella nostra Europa, il confine tra Afghanistan e Iran attraversato dai profughi afghani che con “ira funesta” lasciavano il loro Paese conteso nella guerra scatenata dall’invasione sovietica, nella città tunisina di Tozeur, nelle sabbie dei deserti arabi e in altri mille luoghi remoti, base di partenza per il vero viaggio, di matrice sapienziale, culturale e introspettiva. Non si può capire Battiato se non si comprende la profondità degli influssi che su di lui hanno avuto la cultura del sufismo islamico, pensatori gnostici o esoterici come Gurdjeff e Guenon, un profondo sincretismo culturale che lo ha portato a un forte afflato di simpatia e a acquisire grandi influenze dalla cultura e dalla civiltà araba, dal cristianesimo delle origini, dal buddhismo. Battiato canta al tempo stesso Atlantide e Agarthi, il mitico luogo al centro della terra dove vivrebbe Il Re del Mondo degli scritti di Guenon che dà il nome a una sua omonima canzone; L’Imboscata, uno degli album scritti in collaborazione con il filosofo Manlio Sgalambro, riporta in copertina un dipinto di Antoine-Jean Gros, raffigurante Napoleone Bonaparte mentre arringa l’esercito prima della battaglia delle piramidi. Il brano Prospettiva Nevski si chiude con la frase “E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”, a richiamare sia il sempre meno vago accenno, nel corso della carriera del Maestro, al sostegno di Battiato alle tesi sulla possibilità di una reincarnazione dopo la morte sia l’idea di un percorso, culturale, umano e di vita, non focalizzato sul costante inseguimento della ciclicità, ma sulla contaminazione e la costante ricerca di diverse prospettive. L’alba di una vita può essere anche il suo imbrunire? “La vita non finisce. È come il sogno. La nascita è come il risveglio Finché non saremo liberi. Torneremo ancora. Ancora e ancora”, risponde a se stesso Battiato, enigmatico, profondo e colto nel suo ultimo inedito, Torneremo ancora, che dà il nome all’omonimo album studio realizzato con la Royal Philharmonic Orchestra di Londra e uscito nel 2019. Il lungo viaggio partito dalla Sicilia, che ha condotto un giovane artista nato sperimentatore a coniugare modernità e tradizione, ethos popolare e cultura dotta, canzone e filosofia, non finirà con la morte di Battiato, che priva l’Italia di un uomo di profonda sensibilità. Un uomo che ha invitato col suo lavoro di ricerca e con i ritmi dei suoi testi a cercare su più dimensioni del tempo e dello spazio il Centro di gravità permanente di ognuno di noi. Posto all’intersezione tra varie epoche storiche, lontano nel tempo, nello spazio e nell’identificazione materiale. Comprensibile attraverso la lettura analogica e il sincretismo: in Arabian Song, Battiato canta nella lingua dei sufi per parlare, indirettamente, della Sicilia. In Segunda Feira il Maestro parla in portoghese delle Maldive, di Macao e di Singapore, proiettando fuori dai suoi confini il Mediterraneo. In sostanza, Battiato è l’artista della scoperta, dell’incontro, del confronto. Dal suo lavoro traspare la versione contemporanea di una spiritualità “di tipo goethiano”. Un misto di Oriente e Occidente fondato sul’apertura a una vita a più dimensioni (materiale e soprattutto immateriale), in cui la cripticità dei testi di Battiato altro non è che un volano per un’ulteriore spinta all’approfondimento e alla ricerca culturale. “Non credo che basti il messaggio se non è supportato dal fascino di questo mistero”, disse compiaciuto il Maestro in un’intervista alla Rai di quasi trent’anni fa. Il mistero è garanzia di autenticità e profondità, e Battiato ispira e continuerà a ispirare i viaggi umani e spirituali alla scoperta di mondi reali e onirici. A unire popoli e culture, tradizioni e civiltà. Come fatto a tre anni di distanza, tra il 1989 e il 1992, con due concerti cruciali per la sua esperienza: dapprima quello in Vaticano, in cui fu voluto direttamente da Giovanni Paolo II, e in seguito quello andato in scena a Baghdad, condotto assieme all’orchestra nazionale irachena nel 1992. Per un paio d’ore, nella capitale ancora governata da Saddam Hussein, a un anno dalla guerra del Golfo, l’Iraq dimenticò l’isolamento internazionale, le ristrettezze del presente, le imposizoni della geopolitica mediorientale. Dall’esordio del concerto battezzato dalle liturgiche note in italiano prima e arabo poi de “L’Ombra della Luce” alla conclusione – mescolata nell’incanto della poetica di “Fogh in Nakhal” – Battiato cantò per celebrare lo splendore di un’indimenticata Terra dei Fiumi, una Mesopotamia crocevia di storia e civiltà. Un punto di convergenza, di complessità, di coesistenza. Un crocevia della storia. Come la Sicilia, porta dell’Italia sul Mediterraneo, del Mediterraneo sull’Italia, dell’Europa sul mondo. Mondi lontanissimi.

Addio a Franco Battiato, si è spento a 76 anni. Lo rende noto la famiglia. I funerali avverranno in forma privata. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Maggio 2021. Si è spento questa mattina nella sua residenza Franco Battiato. Lo rende noto la famiglia. I funerali avverranno in forma privata. Il cantautore, morto oggi nella sua residenza di Milo, era nato a Jonia il 23 marzo del 1945. Ha spaziato tra una grande quantità di generi, dalla musica pop a quella colta, toccando momenti di avanguardia e raggiungendo una grande popolarità. Gli acciacchi degli ultimi anni, ed anche una caduta dal palco poco prima dei suoi 70 anni nel 2015, li hanno resi difficili fino alla morte stamattina alle 5 nella sua casa di Milo. Ma per Franco Battiato erano passati oltre 50 anni dalle sue prime esperienze musicali a Milano, dal suo primo contratto discografico ottenuto grazie al suo grande amico Giorgio Gaber che tra l’altro, insieme a Caterina Caselli, (i due conducevano il programma «Diamoci del tu") ha ospitato, nel 1967, la sua prima apparizione televisiva. Lungo questi decenni Franco Battiato ha costruito un percorso davvero unico nel panorama italiano. Un ironico libero pensatore che ha praticato l’arte della provocazione e che ha avuto pure una breve esperienza (non retribuita) come assessore alla Regione Sicilia con la giunta Crocetta, durata da novembre 2013 a marzo 2014 e finita in modo a dir poco burrascoso. Anche se è sempre stato lontano da atteggiamenti militanti, non ha mai nascosto le sue simpatie per la Sinistra e con «Povera patria» ha firmato uno dei più intensi ritratti del degrado del nostro Paese. Battiato è stato certamente uno dei nomi più famosi della musica italiana, ha una lunga consuetudine con i piani alti delle classifiche e alcuni dei suoi brani sono entrati ormai nella storia del costume, ma negli anni '70 produceva album sperimentali come «Fetus» e «Pollution» che hanno fatto scoprire all’Italia le risorse della musica elettronica e le concezioni più avanzate del rock di quelle stagioni e le contaminazioni con i grandi autori di musica contemporanea. In quegli anni capitava che il pubblico reagisse in modo a dir poco vivace alle sue performance volutamente ai limiti dell’inascoltabile. Queste esperienze e questo tipo di approccio hanno ispirato il suo ultimo album , il Joe Pattìs Experimental Group, che è stato portato in tour di fronte a un pubblico molto più preparato di quello di 40 anni fa. Del suo grande successo commerciale parlava con la sua magistrale ironia e il suo proverbiale e sofisticato sense of humour senza per altro nascondere un certo imbarazzo. In realtà Franco Battiato è stato uno studioso dagli orizzonti amplissimi che sa praticare l’arte della canzone pop ma che, grazie alla sua cultura dai vasti orizzonti, usa linguaggi e riferimenti diversissimi, sia in campo musicale che in altre forme di espressione artistica, come il cinema, la pittura, l'opera. Così come è stato un precursore della musica elettronica, Battiato, che da molto tempo praticava quotidianamente la meditazione, era un cultore di musica classica e sinfonica che nei suoi racconti sembra essere praticamente l’unica musica che ascoltava. Però la lista delle sue collaborazioni va da Claudio Baglioni ai CSI, da Enzo Avitabile a Pino Daniele, dai Bluvertigo a Tiziano Ferro, Celentano, Subsonica, Marta sui Tubi, senza contare il decisivo ruolo svolto nelle carriere di Alice e Giuni Russo. Non è certo un caso che sia rimasto un punto di riferimento: i giovani vedono ancora oggi in lui un modello di originalità e di curiosità, quelli più grandi un difensore dell’intelligenza in un mondo che troppo spesso ne dimentica l'importanza.

IL RICORDO DI EMILIANO - «Ho vissuto tutta la mia adolescenza sino ad oggi con lui, ho avuto la fortuna di vederlo di recente a Bari e sono sconcertato. E’ come aver perso una presenza quotidiana, spessissimo mi capitava di ascoltare le sue canzoni. La Cura è tra le mie canzoni preferite, era un’artista mediterraneo: raccontava certamente la sua Sicilia, ma alla stessa maniera anche le altre regioni del sud hanno animato il suo pensiero e la sua poetica». Così il governatore pugliese, Michele Emiliano, ha ricordato Franco Battiato. 

Addio a Franco Battiato, il cantautore si è arreso alla malattia. Il Quotidiano del Sud il 18 maggio 2021. E’ morto Franco Battiato. Il cantautore siciliano aveva 75 anni e da tempo, per una malattia, si era ritirato dalla scena pubblica nella sua casa di Milo dove si è spento. Ne dà notizia la famiglia spiegando che “le esequie si terranno in forma strettamente privata. La famiglia ringrazia tutti per le innumerevoli testimonianze di affetto ricevute”. Artista visionario, colto, ironico, eclettico, curioso sperimentatore, Franco Battiato ha rivoluzionato la musica italiana fondendo più registri (musicale, linguistico, estetico) e coniugando lo spirito più avanguardistico e colto a quello più popolare. Il suo estro e la sua creatività hanno trovato espressione anche in altri ambiti artistici (pittura, cinema, editoria) contribuendo a definire la sua originale personalità. In occasione del 76esimo compleanno, a marzo, era stato ripubblicato il suo capolavoro “La voce del padrone”, del 1981. Ma l’ultimo brano in cui abbiamo avuto la possibilità di ascoltare la sua voce è stato “Torneremo ancora” del 2019. Si trovava all’interno di un album con 14 fra le canzoni più celebri dell’artista, registrati nel 2017 con la Royal Philarmonic Concert Orchestra, diretta dal Maestro Carlo Guaitoli. Una sorta di “testamento” del maestro, che da anni era scomparso dalle scene a causa di una lunga malattia. “Aver visto Franco stesso commuoversi durante l’ascolto finale dell’intero disco è stata la conferma che un lavoro importante era stato fatto”, aveva raccontato Guaitoli. Impossibile citare tutta l’opera del Maestro, troppi i brani che sono entrati nell’immaginario comune. Alto, colto e allo stesso tempo “pop” nel senso più nobile del termine, all’avanguardia. Fra i suoi brani indimenticabili “La cura”, “Centro di gravità permanente”, “Voglio vederti danzare”. Tanti remixati, molti anni dopo la loro uscita, e ritornati attuali anche per le giovani generazioni che non avevano vissuto l’epoca dell’uscita.

Originale e innovatore, fu lui a portare al grande pubblico italiano la prima musica elettronica, coniugandola con testi alti e ricercati, intelligenti e ironici. E’ così che ha affascinato intere generazioni diventando un punto di riferimento della canzone impegnata che diventa accessibile al grande pubblico. Di seguito, l’omaggio del maestro Battiato al filosofo calabrese Bernardino Telesio e quando incantò Matera.

Da liberoquotidiano.it il 18 maggio 2021. Franco Battiato è morto senza accorgersene. Così racconta l'addio del cantautore suo fratello Michele. "Nelle ultime ore non ha capito, non c’era più, per sua fortuna avvolto da un coma profondo...".. Lo stesso fratello ha deciso di celebrare i funerali in forma strettamente privata: "Ho chiamato un sacerdote nostro amico che conosceva e parlava con Franco. Ci sarà lui a benedire, accanto a noi, pochissimi, quasi gli stessi che mio fratello ha avuto vicini in questi mesi di sofferenza. Nessun altro. Ecco perché abbiamo pensato al servizio d’ordine...", spiega al Corriere della Sera. Negli ultimi anni per Battiato c'è stata una progressiva perdita di connessione lentamente, cominciata nel 2018 dopo un paio di incidenti, un femore rotto due volte, prima su un palcoscenico a Bari, poi in casa. Le condizioni sono poi peggiorate nel corso di questi due ultimi anni, anche se il 23 marzo il suo settantaseiesimo compleanno è riuscito a festeggiarlo. "Era contento della festicciola. E riuscì ad assaggiare la torta...", ha ricordato Michele. "Franco cominciava da giorni a perdere le facoltà. Si è arrivati a un deperimento organico per cui, pian piano, si è, come posso dire? Si è quasi asciugato. Non si è accorto del trapasso. Circondato da me, mia moglie, mio genero, i nipoti, i collaboratori e due medici che non ci hanno mai lasciato". Caloroso è stato il ricordo di Pippo Baudo: "Non è stato solo un paroliere e un musicista raffinato, è stato un poeta. Ha raccontato anche la nostra Sicilia, in maniera critica...", il ricordo del celebre conduttore.

Da music.fanpage.it il 18 maggio 2021. Franco Battiato era da tempo alimentato con un sondino. Lo ha rivelato Roberto Ferri a Fanpage.it, grande amico del cantautore siciliano scomparso questa mattina e collaboratore storico in un periodo compreso nel decennio tra il 2000 e il 2010. Il cantautore e paroliere italiano apre il suo baule di ricordi e ci racconta le telefonate più intime con l'amico Franco, nelle quali si parlava di politica – "condividevamo le stesse idee" – e di religione: "Su questo non eravamo d'accordo perché io ero ateo". E su "La cura", una delle canzoni più importanti della discografia di Battiato, rivela: "Lui si rivolgeva a un'entità suprema quando cantava, ma per me era una riflessione verso se stessi". 

Come ha reagito alla morte di Franco Battiato? 

Alla sua morte ero ormai preparato perché sapevo che soffriva di una malattia neurologica. Dopo che lui non mi riconosceva più ho interrotto i rapporti perché non riuscivo più a parlarci, era da un'altra parte del mondo.

Ma aveva avuto sue notizie di recente?

Sì, avevo saputo che era alimentato con un sondino e si sa che quando si arriva a questo punto, il tempo di vita è agli sgoccioli.

Proprio a Fanpage.it, in occasione dell'uscita della raccolta "Torneremo ancora", aveva provato ad avvisare tutti che i discografici tentavano di tenere vivo qualcosa che in realtà era già morto. 

E sono stato pesantemente criticato. Quando si crea il Mito tutto ciò che si dice sul Mito a meno che non sia positivo, viene rifiutato. Il pubblico rifiutava la malattia di Franco ma era da tempo che dava dei segnali. Sbagliava le parole durante i concerti, aveva reazioni strane. Il pubblico gli perdonava tutto, giustamente, ma Franco non stava bene già da un po'.

Crede che Franco Battiato sia morto in pace, intendo nell'affetto e nell'amore? 

Assolutamente sì. Penso che sia stato amato fino alla fine dai suoi cari, ne sono convinto. E lo sarà ancora di più dal suo pubblico.

Che ricordo conserva di lui? 

Abbiamo avuto due anni di concerti bellissimi con dei trionfi eccezionali. Abbiamo vissuto emozioni bellissime che resteranno per sempre nella storia.

Cosa le manca di più?

Le nostre conversazioni a telefono. Erano infinite. Ci siamo divertiti sempre, si parlava sempre di politica e ne condividevamo le idee. Dal punto di vista musicale, era uguale. Tutte le volte che lo consultavo non mi diceva mai di no, l'unica cosa che mi diceva era: "Non farmi muovere di casa perché sono stanco".

Molte canzoni di Battiato affrontano la reincarnazione e il divino. Dove potrebbe essere in questo momento?

Ah, no. Su questo non eravamo d'accordo.

Sulla reincarnazione?

Sì, perché io sono ateo. Le racconto questo. Quando cantai "La cura" io dedicai il brano a un'altra parte di me, per me era un dialogo su se stessi. E gli proposi una nuova chiave di lettura, lui mi disse: "Questa cosa non l'avevo considerata". Lui si rivolgeva a un'entità suprema quando cantava "La cura" perché lui era un credente. Ma non solo in questo vedevamo le cose in modo diverso.

E in quali altre cose eravate diversi?

Io credevo nella psicanalisi, lui no. Però avevamo tantissimi altri punti in comune. La passione per i cosmetici per esempio. Io producevo cosmetici e sono stato tra i primi a produrre l'acido ialuronico. Io ogni anno gli inviavo le forniture. Poi era un appassionato di profumi.

Profumi, sì, ce l'aveva già raccontato. 

Dovevamo seguire insieme un corso di profumeria, perché si era molto interessato a questo. Avevamo visitato una scuola di profumeria a Parigi dove ci incontrammo dopo un suo concerto. Ma da tre, quattro anni a questa parte purtroppo non ci siamo più incontrati di nuovo.

Uniti dalla sicilitudine parlavamo di tutto senza alcuna preclusione. Franco non ha eredi. I suoi pezzi sono immortali, resteranno sempre. Lascia un vuoto enorme. Pippo Baudo su Il Quotidiano del Sud il 19 maggio 2021. A Franco Battiato mi legava un rapporto bellissimo, tenero e dolce, che affondava le sue radici nella nostra terra comune. L’amicizia fu naturale non appena ci incontrammo, parlavamo di tutto, senza alcuna preclusione, soffermandoci spesso su Catania, i suoi problemi, la simpatia dei suoi abitanti. La “sicilitudine” ci univa anche se Franco non ha mai manifestato questa sua appartenenza con sentimenti da tifoso. Preferiva viverla coltivando le relazioni con i suoi amici d’infanzia, alcuni risalenti addirittura ai tempi delle scuole elementari. E qualche volta rivendicava di essere nato a Riposto, sul mare, vantandosi di essere un marinaro con gli abitanti della vicina e collinare Giarre, con cui c’era grande rivalità. Ricordo che quando ero direttore artistico del Teatro Stabile di Catania trovai assurdo non prevedere in cartello neanche uno spettacolo di un personaggio così importante. Ne parlai con il mio segretario, il quale mi disse di fare un tentativo. Andammo a trovare Battiato nella sua casa di Milo. Ci accolse in modo festoso. Mangiammo insieme gli spaghetti pomodori e basilico che preparava la madre, poi arrivai al punto. Gli dissi «Franco, devi fare qualcosa per lo Stabile». Lui accettò e propose uno spettacolo davvero particolare. «Per prima cosa togliamo tutti i posti a sedere» esordì. «Quindi facciamo stare gli spettatori in piedi?» chiesi. «No – rispose – il pubblico lo facciamo stare fuori. Tutti devono pensare che all’interno stia avvenendo qualcosa di strano, senza sapere cosa. In tal modo ognuno potrà figurarsi, con l’immaginazione, il suo spettacolo». Ovviamente non se ne fece niente. Ma era una bella idea, in linea con il personaggio. Ne sa qualcosa anche il professor Sgalambro. Si dilettava a recitare poesie, in modo serioso, e non aveva nulla a che fare con lo stile dei concerti di Battiato. Eppure lui lo utilizzava come mezzo comico, prima di suonare. Lo divertiva molto. Una volta gli fece cantare “La Vie en rose” con il pubblico che rideva mentre lui, poverino, pensava di aver un grande successo. Battiato era anche questo e lascia un vuoto enorme, grande come il suo patrimonio musicale. Ogni pezzo diverso dall’altro, da quelli scacciapensieri come “Bandiera bianca” a quelli dai toni forti come “Per Elisa”, canzone apparentemente d’amore che in realtà affronta il tema della droga. Un argomento, quello della tossicodipendenza fra i giovani, che lo addolorava molto. Perciò dico che Franco non ha eredi. I suoi pezzi sono immortali, resteranno sempre, mentre la musica di oggi è effimera, senza struttura, costruita per la manifestazione canora di turno e destinata a restare in auge per pochi giorni. Di Battiato ce n’è uno, come c’è stato un solo Leopardi. Un altro grande della nostra canzone che se ne va, come Lucio Dalla, suo compagno di vacanze e di casa a Milo. Ecco, mi piace pensare che Franco si sia già messo alla ricerca di Lucio, per fare insieme qualcosa di bello nel paradiso degli artisti.

Linda Varlese per huffingtonpost.it il 19 maggio 2021.  “Sapevamo che stava male, ma è un dolore, perché parafrasando Segnali di Vita è un pezzo di vita che se ne va con lui. Resta la fragranza, l’essenza, l’assenza che si fa presenza”. Raggiungiamo Pietrangelo Buttafuoco al telefono. Giornalista, scrittore, conterraneo, amico e grande estimatore di Franco Battiato, è in viaggio verso la sua terra, che è anche quella del grande cantautore scomparso questa mattina all’età di 76 anni, per salutarlo. “Preferisco parlare dell’artista, più che dell’amico”, ci dice subito, perché “certe personalità hanno un’impronta e una potenza tale d’arte da essere presente nella vita di un’epoca, di tante generazioni. Sarebbe come mettersi davanti a qualcun altro”. Ci racconta, nel corso della lunga e commossa conversazione, del grande artista, della sua poetica, del suo rapporto con la religione, della sacralità della sua opera, dunque; ma l’emozione tradisce ben presto la promessa che ci eravamo fatti all’inizio. O forse a ben guardare non c’è modo, come ci dice Buttafuoco, di scindere e separare le sfaccettature del meraviglioso prisma che Battiato rappresentava. “Franco Battiato è un prisma le cui sfaccettature variano dalla erudizione, all’essoterico, all’esoterico, alla ricreazione, all’umorismo e a una straordinaria capacità dionisiaca. E’ molto bello arrivare a Battiato, ad esempio, tramite le parodia che ne fa Fiorello. Questa è la potenza del suo segno artistico. Lui entrava di diritto nelle stanze immacolate dei più specchiati conservatori, così come nelle automobili dei tassisti che si sganasciavano dalle risate ascoltando Fiorello che lo imitava. Gli euclidei affidati a Fiorello davano un esito dadaista. E Franco Battiato ha realizzato questo miracolo”.

Il miracolo di raggiungere tutti.

“Esattamente. Mentre attraverso la strada, guardo intorno a me gli apecar con carichi di frutta e penso che hanno famigliarità con Battiato. Allo stesso modo se va a Salisburgo, l’orchestra ha familiarità con Battiato. E’ il suo miracolo: mettere insieme mondi lontanissimi”.

Che artista è Battiato?

“Ha un’originalità rispetto ai tanti musicisti, ai tanti artisti, ai protagonisti del nostro immaginario: l’unico ad aver attraversato la nostra epoca ed aver proposto una dimensione profondamente religiosa, non confessionale. Il senso del trascendente in lui è stato da sempre una costante attraverso la quale ha dato possibilità a tanti di alzare gli occhi verso il cielo. La sua opera è stata molto più efficace e forte di mille prediche. Ha avuto la capacità di saper decifrare il lascito sapientale della storia dell’uomo in formule musicali semplici e immediate. In un certo senso ha avuto la funzione che nella tradizione dell’arte medioevale avevano le icone: aprire il cielo verso la terra”.

Quali canzoni meglio interpretano questo messaggio?

“Tantissime. Penso a E ti vengo a cercare: molte delle sue canzoni che a un orecchio distratto possono sembrare sentimentali in realtà sono preghiere. E ti vengo a cercare è un sentiero. O anche L’Ombra della Luce che è in assoluto la più bella delle preghiere. “Riportami nelle zone più alte, In uno dei tuoi regni di quiete”, recita. Ed è perfetta per lui, in questo suo transito, perché dice ”è tempo di lasciare questo ciclo di vite”. E poi c’è il senso dell’abbandono al misericordioso perché dice “non abbandonarmi mai, non mi abbandonare mai”. Una preghiera sublime, struggente, commovente perché si radica nel profondo affetto: “Dei più lievi aneliti del cuore. Sono solo l’ombra della luce”.

Battiato era profondamente legato alla Sicilia, alle sue origini.

“Aveva un’idea dell’abitare che era una dimensione dell’universale. La Sicilia è il luogo universale per eccellenza, perché quando si viaggia, e questo lo insegnava lui, quando ci si trova a distanze incredibili, a Baghdad, come in Siberia, come nelle Americhe molto spesso le persone che incontriamo sono il nostro vicino, il nostro cugino, il nostro compare. Riconosciamo nei volti qualcosa che è profondamente famigliare. La sua non è mai stata una dimensione di cortile o provinciale, ma è stata sempre universale. Il calarsi nell’essenza della Sicilia non ha mai avuto una connotazione di paese, ma quel senso universale di stare nel mondo: sono radici che contemporaneamente diventano cielo”.

Come è arrivato a questa grandezza? A questa profonda conoscenza dell’altro? A questa poetica raffinata?

“Credo sia stato fondamentale per lui lo studio: ha saputo mettere in parallelo Karlheinz Stockhausen per quel che riguarda l’attraversare il pentagramma, le partiture e poi dall’altro lato l’incontro con personalità di grande spessore sconosciute ai più, il primo dei quali è Gurdjieff, autore tra le altre cose di “Incontri con uomini straordinari”.

Quale è stato l’apporto di queste conoscenze?

“Lo ha portato ad alzare lo sguardo. Poi non dimentichiamo che la ricerca di Franco Battiato si lascia alle spalle gli anni ’70. Lui ha vissuto profondamente Milano, ha avuto la possibilità di confrontarsi ed ascoltare i più straordinari esploratori dell’arte e della musica, i grandi gruppi quali erano gli Area. In quella Milano ci ha vissuto immerso totalmente. Ha avuto una compagnia eterogena, amicizie speciali quali sono state quelle con Ombretta Colli e Giorgio Gaber: una dimensione che ha acceso in lui la curiosità e capacità di assorbire i vari spunti. Accanto a questo c’è stato l’incontro con lo studio, la lettura. I grandi della Sapienza: sia quella a noi quasi contemporanea, sia quella dei grandi maestri. Le confraternite Sufi, Rumi, la grande tradizione presocratica che è quella greca. Se ci soffermiamo su moltissimi suoi testi troviamo riferimenti. Accanto a un platano (Scherzo in minore): sappiamo che il “platano” è Platone. Testi in cui riluce la lettura del Fedro, riluce Eraclito, riluce in lui tutto un mondo che non corrisponde poi a quello che è lo scientismo razionalista ottuso e chiuso, di una faciloneria conformista”.

La ricerca storica e filosofica a cui fa riferimento nei suoi testi, lo sfondo culturale di cui lei stesso ci sta parlando, probabilmente non è stato compreso da tutti quelli che lo amano. Eppure è arrivato al cuore di milioni di persone in egual modo. Come se lo spiega?

“Con la tecnica della paideia, della formazione dell’antica scuola: ci sono due livelli, uno esoterico e uno essoterico. Quello essoterico è quello della doxa, quello che arriva a tutti, e in “es un sentimento nuevo che mi tiene alta la vita” ha una freschezza che attraversa gli anni, può essere accolto oggi, come poteva essere ascoltato negli anni ’80 e ancora indietro. Poi ci sono degli spunti, segnali ben precisi dove lui apre degli squarci e quello è il livello esoterico. Non c’è niente di male: è un binario dove in parallelo camminano qualcosa che va al cuore di tutti nell’immediatezza e qualcosa che resta, nidifica e fruttifera qualcosa altro. In Franco Battiato c’è una dimensione che fa scuola perché lui è erede a se stesso”.

Dove lo possiamo iscrivere?

“Si avventura in ambiti delicatissimi, persino pericolosi nel confronto. Penso a certe sue incursioni nella grande canzone napoletana. Era de maggio deve avere una certa delicatezza, una certa fragranza che solo la grande tradizione della canzone napoletana può avere eppure lui sperimentando è riuscito senza far inorridire i palati raffinatissimi dei napoletani giustamente severi sul loro repertorio. Lo ha fatto anche facendo incursioni nell’Opera, nella Sinfonica, sempre con quella sua leggerezza bambina che gli consentiva di essere un punto di vista tutto suo da cui gli altri non possono che attingere”.

E’ stato un artista scomodo?

“Risultava odioso e antipatico a chi cercava di radicarsi in una sorta di chiesa occidentalista. Gli rinfacciavano tante cose. L’impronta sacrale, sacrissima, di religio, nel senso proprio di religione, è invisa a molti i quali ritengono tutto ciò una paccottiglia di superstizioni. Era inviso agli adoratori dello scontro di civiltà. Lui ha aperto alla consapevolezza dell’Islam molte persone: conosco moltissimi che tramite lui sono arrivati a questa consapevolezza. Se l’italiano medio sa chi sono i dervisci lo deve a Battiato. Era uno conoscitore della Sapienza, della Sacralità. E la Sapienza non ha una geografia”.

Quale era l’impronta religiosa a cui faceva riferimento?

Era incardinato in una visione sacra della vita. Non è confessionale, non c’è nessuna confessione a cui ricondursi in lui. In lui convivono Bernardo da Chiaravalle, come Rumi, come tutta la grande tradizione, il cosiddetto pensiero dell’origine. Ma è normale perché la tradizione sono raggi di una stessa luce.

Come si traduceva nella vita concreta questa sua visione sacrale?

Nel suo essere un artista. Un artista è sacerdote di per sé, è sciamano di per sé. Un artista è colui che riesce a farsi tramite del trascendente. Lo esprime attraverso i gioielli della sua opera. Se le capita di ascoltare Luna Indiana, percepisce perfettamente l’atmosfera dello schiudersi. E’ stata costruita sulla struttura di un celebre poema della tradizione persiana. Ossia la storia di un usignolo che incontra un bocciolo di rosa e se ne innamora. Gli vola intorno, con il suo canto celebra il desiderio, la passione, lo struggimento e il bocciolo ricambia schiudendosi sempre di più, facendosi rosa. E sempre di più Rosa, ebbra di questo canto, perde i petali fino a svanire. Tutti noi diremmo “il fiore è morto”. Invece l’usignolo ne è la fragranza, è l’essenza: questo in un certo senso è quello che ci ha lasciato adesso Franco Battiato, la fragranza, l’essenza, un’assenza che è diventata presenza.

Sappiamo molto dell’artista e poco dell’uomo. Che tipo era?

Era spassosissimo, profondamente dionisiaco, allegro, brillante. Si divertiva un mondo su questo equivoco per cui il “mistico” è soprattutto un “mastico”. Il mistico vero è colui che afferra la vita, la ama, e se ne fa carico. Si divertiva, sperimentava su se stesso i segni, i linguaggi. Anche le contraddizioni: “Non suonerò mai più con una batteria alle spalle” e poi invece si incuriosiva ancora una volta delle percussioni. E poi aveva anche la generosità, che insegnava a tutti gli artisti siciliani che, infatti, hanno sempre avuto un rapporto corale e chiassoso, di complicità. Chi gioca in serie A ha un obbligo morale che è quello di avvicinarsi agli spalti, sollevare la rete e fare entrare tutti.

Importantissimi anche alcuni suoi storici sodalizi.

Quello antico, forte è quello con Elisabetta Sgarbi: la rosa della Milanesiana è la rosa di Franco Battiato. Poi il sodalizio con Manlio Sgalambro, che è stato il nostro Eraclito, un filosofo presocratico a tutti gli effetti. Con Manlio Sgalambro sono nati veri capolavori. Era bellissimo vederli sul palcoscenico: quello più istrione era il Professore. Una coppia di una complicità straordinaria. Avevano i tempi comici di Totò e Peppino. Si divertivano come pazzi, erano due bambinoni nel recitare queste parti in commedia. Ricordo la gag di quando Sgalambro faceva una domanda e Battiato replicava dicendo “Manlio vuole dire...”, ma ripeteva la stessa cosa.

Ride di gusto...

Sì, perché erano spassosissimi. Battiato era poi il capocomico di musicisti, tecnici. Ogni tournèe era un caravanserraglio. Ci racconta una persona molto lontana da quel che appariva: riservato, timido, quasi un eletto, difficile da avvicinare.. Deve considerare i due livelli. Era rimasto il ragazzo di paese, ma aveva questa qualità: era universale, conosceva il mondo, viaggiava. Poteva stare contemporaneamente in un bivacco nel deserto a prendere il the con i beduino, come poteva starsene accomodato a conversare in uno studio di registrazione ovunque nel mondo. Era uno sciamano. Tutte le energie le sapeva caricare su di sé e portarle agli altri.

Da quanto tempo non lo sentiva?

Da prima della pandemia. Ultimo ricordo vivido che ho sono alcune conversazioni sulla pittura. Anche lì aveva aperto alla ricerca e poi alla sperimentazione, fino ad arrivare alla realizzazione. Faceva così per tutto.

Andrea Laffranchi per il "Corriere della Sera" il 19 maggio 2021. Il momento in cui nasce Franco Battiato. Caterina Caselli lo ha vissuto. Sino ad allora era Francesco Battiato, così diceva l' anagrafe di Ionia. A suggerire il cambio di nome fu Giorgio Gaber. Lo aveva conosciuto come chitarrista del gruppo della moglie Ombretta Colli e gli aveva procurato un primo contratto serio con la Jolly. Così era arrivata la prima grande occasione, la televisione. Un invito a «Diamoci del tu», programma della Rai per, allora si diceva così, i giovani, condotto dalla coppia Caselli-Gaber. Era il Primo maggio 1967.Gaber, scherzando, gli disse di farsi chiamare Franco per non creare confusione con l' altro ospite, Francesco Guccini...«Verso la fine della serie chiesi di invitare in una puntata Guccini, un esordiente interessante che scriveva canzoni sulla scia di Bob Dylan. E Gaber fece lo stesso con Battiato. Arrivò questo ragazzo, nascosto dietro capelli e barba lunghi. Nonostante gli occhiali scuri risaltavano due occhi scuri e un carattere sicuro di sé».

Cantò «La torre», pezzo beat (diverso da quello dell' 82) in cui si scaldava contro gli ipocriti e la società.

«Sapeva essere sarcastico e aveva una personalità spiccata. Si capiva già allora. Non abbiamo mai lavorato insieme, ma nonostante l' assenza di un rapporto professionale eravamo amici».

Tolta la musica, cosa le rimane?

«C'era empatia, che lui attribuiva al fatto che fossimo entrambi del segno dell' ariete. Mi ricordo pranzi e tè meravigliosi in sua compagnia: parlare con Franco ti apriva dei mondi. Aveva un modo tutto suo di vivere la vita, una spiritualità profonda, abbinata, ed è cosa non comune, a un' ironia singolare. Ci sentivamo spesso al telefono e lui cominciava sempre salutandomi con un "Caterina oh oh oh oh", come la famosa canzone di Perry Como. Mi mancherà sentire la sua voce. Spero che le sue canzoni e le sue opere riescano a tenermi compagnia e mi aiutino a riempire il vuoto lasciato dalla sua assenza».

La sua canzone preferita?

«"La cura" è un capolavoro assoluto, per qualità compositiva e anche per quella capacità singolare e personale che Franco aveva di portare la spiritualità in un testo».

Come percepiva il lato spirituale dell' amico?

«C'è stato un periodo in cui a Milano facevamo degli incontri con monsieur Henri Thomasson, un francese seguace di Gurdjeff (il mistico armeno di cui a cavallo fra anni 80 e 90 Battiato pubblicò i testi con la casa editrice L' Ottava ndr ) per leggere e commentare insieme le opere e fare meditazione. C' era Franco, c' erano anche Alice e Franco Messina. Non durò a lungo per me, ma anche per lui che in seguito mi confessò di aver trovato altre strade di meditazione, ma fu importante».

Siete rimasti legati per anni, ma non avete mai lavorato insieme. Come mai?

«Non abbiamo mai trovato il momento giusto. Però, ai tempi della CGD, noi avevamo in cast Giuni Russo con cui lui collaborava da tempo. Per lei scrisse, tra le altre, "Un' estate al mare", una canzone che è diventata il tormentone di quell' estate, ma che aveva qualcosa di nobile a differenza degli altri brani di quel genere. E poi lavorò, sempre con Giuni Russo, a quel capolavoro di "Vox". Più di recente non si è concretizzata una collaborazione con Bocelli. Gli chiesi un brano sul tema "migranti" ma poi cambiammo il concept del disco di Andrea e non venne incluso. Quella canzone è uscita due anni fa come la sua ultima inedita. Risentire il provino con la sua voce sublime mi emoziona».

Gli ultimi anni sono segnati dalla sofferenza e dalla malattia. Lo sentiva?

«Non lo vedevo da un concerto a Milano del 2016. Sentivo il fratello Michele per avere aggiornamenti sulle sue condizioni di salute. Avevo anche pensato di andare a trovarlo, ma la pandemia mi ha frenata». 

Andrea Laffranchi per corriere.it il 19 maggio 2021. Il dolore di Morgan per la morte di Battiato non è soltanto quello di oggi. «Quando la malattia aveva iniziato a farsi sentire scrissi “Battiato mi spezzi il cuore”, un brano che ovviamente non ho mai pubblicato. Sono affranto, ho il cuore spezzato, ma da allora. Pensarlo senza le sue facoltà intellettuali era un dolore. Era come un mandala spazzato via dal vento. Mi sono svegliato tante volte nel cuore della notte piangendo al pensiero».

Come ha scoperto la musica di Franco Battiato?

«Da piccolo ascoltando con papà La voce del padrone. Arrivavano quelle parole strane, un vocabolario mai sentito prima, immagini e concetti inediti... “una vecchia bretone” non è qualcosa che è nella mente di chiunque pensi a come potrebbero essere le parole di una canzone, non è un’alba chiara o una lacrima sul viso. Era il surrealismo di Breton che arrivava nella canzone. Fece entrare l’intelligenza nel pop. Era strano non nel senso che non si capisce ma nel senso di unico, originale. Fu il primo album a superare il milione di copie vendute, ma nonostante il successo lui si spostò a fare cose diverse, non ha mai usato lo stampino. faceva dialogare la canzonetta con la musica colta, ha abbattuto i muri fra musica alta e musica bassa».

La conoscenza personale quando è arrivata?

«Al Primo Maggio del 1995, apprezzava i Bluvertigo e ci volle conoscere. Ci siamo subito allineati, avrebbe detto lui. Era come Socrate nella conversazione, un maestro. Da lì in poi ci siamo frequentati moltissimo».

Un momento privato che non scorderà mai?

«Un giorno nel salotto di casa sua a Milano. Aveva delle vetrate lavorate come quelle delle cattedrali, la luce filtrava sul tavolino, noi due seduti in poltrona in silenzio. Dopo mezz’ora lui dice: “ti piace questo pomeriggio?”. Era la sua nobiltà d’animo. Era staccato dalle cose materiali, dalla corsa al profitto, aveva una purezza quasi infantile. In studio gli dicevi “bello questo synth” e lui te lo regalava. Andavo spesso a Milo in Sicilia da lui e ricordo che non amava molto il fatto che Lucio Dalla fosse vicino di casa perché avevano stili di vita opposti. Una volta ci andai con Asia incinta. Leggevamo Musil ad alta voce, raccoglievamo more di gelso, suonavamo Le scene infantili di Schumann per preparare la nascita. Asia si innamorò di un suo dipinto con un rinoceronte, lui lo staccò dal muro e glielo regalò».

Amicizia, tanta musica, ma mai un duetto...

«Era una collaborazione spontanea, non commerciale. Ci divertivamo a fare musica. Non gli chiesi mai un feat, non mi sentivo sul suo stesso piano, mi sembrava offensivo. Ricordo tutta la lavorazione di “Gommalacca” in cui mi chiamò per mettere assieme un gruppo di musicisti e mi fece suonare il basso... le giornate passate con lui e Manlio Sgalambro sono stati i momenti più importanti della mia vita culturale, conversazioni profonde ma anche cazzeggio. Poi lui venne a Montreux dove registravamo “Zero” e fece delle incursioni vocali. Rimpiango tutta la seconda metà degli anni 90 perché so che non ritorneranno più: per dirla come lui sono “orizzonti perduti”».

L’insegnamento di vita?

«Mi ha insegnato l’ironia e la capacità di essere critico, nel senso di saper distinguere il bene dal male. e poi aveva un’autoironia fuori dal comune. Raccontava aneddoti autodistruttivi come quello in cui ricordava un festival in Iran. Salì sul palco di uno stadio pieno, chiuse gli occhi e la sua sperimentazione allora era concentrata sul volume: partì da zero per salire lentamente, arrivato a 10 aprì gli occhi e lo stadio si era svuotato».

Le ha mai proposto di meditare insieme?

«Mi ha coinvolto in tutto: arte, musica, confidenze private... Ma la meditazione era un suo fatto intimo e privato. Un momento che ritagliava per sé e in cui non voleva essere disturbato. E che a volte era anche una semplice pennichella».

L’ultimo ricordo?

«L’anno scorso. Sono andato a trovarlo, gli ho suonato al pianoforte L’animale e gli ho detto “questa è una canzone di Ligabue”. Lui ha riso. Autoironico fino alla fine. L’ultimo ricordo lucido è del 2014, lo incontrai a un concerto di Cacciapaglia, una serata di musica e umorismo. Poi ha iniziato a perdere la connessione con le parole, ha smesso di fare concerti perché non ricordava più le parole, la cosa più terribile per uno come lui».

Il valore artistico di Battiato?

«Moravia disse di Pasolini che uno così nasceva ogni 300 anni. Lo stesso disco io oggi di Battiato: abbiamo perso un pilastro del dibattito culturale».

Franco Battiato abusato e tradito nel salotto tv di Lilli Gruber. Una rappresentazione quasi scenografica quella avvenuta nel salotto della Gruber, che ha riproposto la partecipazione di Battiato a una festa del Fatto Quotidiano, in una simpatica esibizione canora con Travaglio. Francesco Damato su Il Dubbio mercoledì 19 maggio 2021. È stato persino lirico, Marco Travaglio, che ne fu sicuramente e meritatamente amico, oltre che estimatore, come tantissimi altri a sinistra e a destra, in tutti i sensi, a descrivere gli ultimi anni e momenti di Franco Battiato, finalmente “libero” con la morte da tutti i lacci e limiti di una vita troppo angusta per contenere uno come lui: un “pazzo di Dio” e un “genio”, come lo ha felicemente definito Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Battiato si è liberato anche da quella specie di camicia di forza in cui da morto mi è sembrato di vederlo, magari a torto, nella rappresentazione quasi scenografica fattane nel salotto televisivo di Lilli Gruber, riproponendone la partecipazione a una festa del Fatto Quotidiano, in pur simpatica esibizione canora con lo stesso Travaglio, intonato a dovere e comprensibilmente commosso nel rivedersi e risentirsi. Direi persino spiazzato dalla generosità della conduttrice. Ma ancora più spiazzato poi, nel collegamento dal suo ufficio, dalla collega del Sole 24 Ore Lina Palmerini. Che di tutte le cose dette in vita da Battiato ha preferito ricordare e condividere, parolacce a parte, quel “Parlamento di troie” sfuggitogli quando era anche assessore alla Cultura della giunta regionale siciliana. Da cui si affrettò a dimettersi, avendo capito di averla detta troppo grossa per far finta di niente, lasciando nei guai l’amico presidente Rosario Crocetta. Il quale, intervistato da Repubblica, ha assicurato di non avere fatto alcuna pressione per strappargli quelle dimissioni. E gli credo, permettendomi di avere di Battiato più considerazione, stima e ammirazione di quanti adesso lo piangono manipolandone spirito, idee, fantasia, poesia e musica. Capita purtroppo ai morti di essere persino casualmente abusati, o traditi, ancor più che da vivi, per la loro irrimediabile incapacità di difendersi. Addio Francuzzo, come ti chiamavano gli amici, a cominciare naturalmente da Travaglio.

Dagospia il 19 maggio 2021. E' morto ieri Franco Battiato. Il cantautore catanese aveva 76 anni ed era malato da tempo. Si è spento nella sua residenza, l’ex castello della famiglia Moncada a Milo, in Sicilia, ai piedi dell’Etna. I funerali avverranno in forma privata. Nato a Ionia il 23 marzo 1945, Franco Battiato è stato un cantautore dalla vena poetica che ha scritto canzoni entrate nella memoria collettiva del Paese: da «La cura» a «Gli uccelli», da «L’animale» a «Voglio vederti danzare», da «Cuccurucucù» a «L’era del cinghiale bianco», da «Bandiera bianca» a «Centro di gravità permanente», «Prospettiva Nevsky» e «Povera patria». Il suo album di maggiore fortuna critica e commerciale risale al 1981, «La voce del padrone». Il 17 settembre 2017 Battiato ha tenuto il suo ultimo concerto al Teatro romano di Catania; le ultime quattro date del tour furono annullate per motivi di salute. E da quel momento il cantautore è sparito dalle scene, vittima di una malattia che lo ha lentamente spento.

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 19 maggio 2021. È morto ieri Franco Battiato. Il cantautore catanese aveva 76 anni ed era malato da tempo. Si è spento nella sua residenza, l' ex castello della famiglia Moncada a Milo, in Sicilia, ai piedi dell' Etna. I funerali avverranno in forma privata. Nato a Ionia il 23 marzo 1945, Franco Battiato è stato un cantautore dalla vena poetica che ha scritto canzoni entrate nella memoria collettiva del Paese: da «La cura» a «Gli uccelli», da «L' animale» a «Voglio vederti danzare», da «Cuccurucucù» a «L' era del cinghiale bianco», da «Bandiera bianca» a «Centro di gravità permanente», «Prospettiva Nevsky» e «Povera patria». Il suo album di maggiore fortuna critica e commerciale risale al 1981, «La voce del padrone». Il 17 settembre 2017 Battiato ha tenuto il suo ultimo concerto al Teatro romano di Catania; le ultime quattro date del tour furono annullate per motivi di salute. E da quel momento il cantautore è sparito dalle scene, vittima di una malattia che lo ha lentamente spento. Franco Battiato era un pazzo: era convinto che il cane di casa fosse la reincarnazione di suo padre, e il gatto di sua madre. Franco Battiato era un genio. Un giorno raccontò, sorridendo: «Ho passato gli anni 70 a fare vocalizzi ed esperimenti. Poi ho deciso di avere successo. Mi sono chiuso un mese in un garage a Milano, e ne sono uscito con La voce del padrone» . Forse il disco più bello, certo quello di maggior successo mai inciso da un cantautore. Franco Battiato era uomo di una rettitudine assoluta. Molto severo con i potenti e con la politica. Provò anche a farla, da assessore; ma capì presto che non era per lui. Disse che se a Catania avessero rieletto un sindaco che non stimava, avrebbe lasciato la città; e così fece. «Però il nostro giornale ti tratta sempre bene» gli obiettò uno scrittore. Lui rispose: «E tu credi che io sia così miserabile da giudicare le persone non per come sono, ma per come si comportano nei miei confronti?». È stato il più colto e il più profondo tra i musicisti italiani. Pensava che i grandi artisti si parlassero tra loro, in varie forme. Ti faceva ascoltare l' Adagio di Telemann e La canzone dell' amore perduto di De André e diceva: «Senti? Sono uguali. Ma Fabrizio non ha copiato; ha ripreso un discorso interrotto. De André è stato anche un bravo astrologo». Astrologo? «Dilettante. Ma di grande acume». Viveva a Milo, un posto bellissimo quindi adatto a lui, castagni e nuvole basse, a dieci minuti dal mare e a dieci minuti dall' Etna. Era molto diverso dalla sua immagine pubblica, un po' distanziante: ad esempio era molto alto, disponibile, allegro e ricordava fisicamente il suo conterraneo Pippo Baudo. Lo divertiva l' idea di essere nato in una città che non esiste più, Jonia, tornata dopo il fascismo a dividersi tra Giarre e Riposto. Famiglia di pescatori. Il padre, camionista e scaricatore di porto a New York, morì quando lui aveva 19 anni. Franco partì per Milano. «Allora era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo. Mettevo a frutto la mia poca conoscenza della chitarra in un cabaret, il Club 64, dove c' erano Paolo Poli, Jannacci, Toffolo, Cochi e Renato, Andreasi, Lauzi. Io aprivo lo spettacolo con due o tre canzoni siciliane: musica pseudobarocca, fintoetnica. Tra il pubblico c' era Giorgio Gaber che mi disse: vienimi a trovare, un giorno. Andai il giorno dopo. Diventammo amici anche con Ombretta Colli, fui io a convincerla a cantare». Poi si mise in viaggio verso Oriente. Visitò il monte Athos e Konya, la città dei dervisci rotanti, lesse Aurobindo e Gurdjieff, studiò il misticismo sufi e il buddismo tibetano, arrivò vicino ai segreti della vita e della morte. Raccontava divertito che Finardi una volta gli aveva detto: «Ho cercato sull' atlante città dai nomi suggestivi per una canzone, ma le avevi già esaurite tu». Però l' ascetico Battiato è anche l' autore di Povera patria , un durissimo testo di denuncia civile datato 1991, ultimo anno della Prima Repubblica. Diceva: «La canto sempre. E quando cito i "perfetti e inutili buffoni" che abbiamo tra i governanti, si alza un applauso, più forte e lungo di quelli di allora». Non era di destra, e si seccava quando lo scrivevano; ma era un anticomunista convinto. «I servizi d' ordine degli anni 70 erano uguali, non distinguevi gli estremisti neri da quelli rossi». E lei? «Io sono un proletario dello spirito. Non mi piace comandare, e non mi piace essere comandato». L' autore di Prospettiva Nevski - canzone di commovente bellezza ispirata alla «grazia innaturale di Niinskij», il più grande ballerino di ogni tempo finito in manicomio con l' ossessione di cadere danzando nella botola del palcoscenico, di cui si era innamorato «perdutamente» l' impresario dei balletti russi Diaghilev; una canzone che stamattina non si può ascoltare senza piangere - fece anche film e trasmissioni tv da titoli non esattamente pop, come Musikanten - dedicato a Beethoven, finisce con un incubo, un golpe planetario voluto da «una cordata di nazioni guidata dagli Stati Uniti, con al fianco l' Italia, che fondano il partito democratico mondiale» - e Bitte keine réclame , serie di interviste a mistici e maestri, tra cui Michelle Thomasson, moglie di Henri, l' uomo della sua iniziazione. Volle imparare a dipingere: ritratti di amici, tra cui Roberto Calasso, su fondo oro. «Il pittore inglese Spencer Hodge mi insegnò a raffigurare le nuvole. Quando ho imparato, ho smesso». Suonò per gli iracheni nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo, cantando L' ombra della luce in arabo («Alla fine sollevai lo sguardo sulle prime file. Lacrimavano tutti»). Era convinto che le bombe nei mercati di Baghdad le mettessero gli americani. Però esecrava Saddam: «Non è un vero musulmano. L' ho capito dal modo sbagliato con cui si inginocchiava». Suonò anche per Papa Wojtyla. Ratzinger gli stava simpatico: «Mille volte meglio la messa in latino di certe schitarrate in chiesa». La sua religiosità non era riducibile a una religione. Credeva nella reincarnazione, anzi, ne aveva certezza «per via sperimentale. Ma non sono cose che si spiegano. Diciamo che attraverso i sogni si possono ritrovare atmosfere, luci; una stanza, una scrivania...». Pensava si potesse cadere nel regno animale, o innalzarsi al di sopra del ciclo delle rinascite. «Il cattolicesimo nega la reincarnazione, ma è un' impostura posteriore. Origene ci credeva, come i primi cristiani. E sono convinto che non solo gli hindu e i tibetani ma anche i mistici occidentali, san Francesco, san Filippo Neri, san Giovanni della Croce, santa Teresa d' Avila, ne fossero consapevoli. Come Pitagora, Empedocle, Archimede...». La magia invece non lo interessava. Meditava due volte al giorno ed era vegetariano: «Fin da quando avevo due anni non potevo accostarmi alla carne. Qualche volta ho mangiato pesce, ma poi la notte ho sognato di essere divenuto un pesce anch' io». A volte scherzava delle sue ricerche: «Secondo i saggi armeni l'essenza di ogni uomo è impressa nella sua carne, nel suo volto. Come dimostra l' onorevole La Russa». Credeva negli angeli e in altri «dei intermedi», al di sotto del Dio comune alle varie religioni. Credeva anche al diavolo, che «è mancino, subdolo, e suona il violino». Anche Franco era mancino da piccolo: «In Sicilia lo consideravano un segno diabolico. Così mi legarono la mano sinistra per costringermi a usare la destra. Con una sciarpa di seta, però». Non credeva in Darwin: «Ha scritto sciocchezze. Ha mai visto una scimmia diventare uomo? Penso che la materia sia nata per manifestazione della mente. La coscienza come primo principio dell' essere umano. Quando un uomo comincia a prendere coscienza della propria esistenza, si ribalta tutto. Allora hai la visione perfetta di quel che sei». Scrisse una canzone molto amata, La cura , e un giorno chiarì che non si riferiva né al proprio corpo, né alla propria anima, ma all' anima della persona amata. Non chiariva però chi lui amasse: «I miei amici sono gli alberi, le piante, le rose, le nuvole...». Una volta in una tv locale per metterlo in imbarazzo gli chiesero di cantare una canzone popolare siciliana, Vitti una crozza ; lui ne intonò una versione stupenda e straziante, la storia di un vecchio giunto ai confini con la morte, sulla soglia dello spavento assoluto. Della morte lui però non aveva paura. «Tornerò nella mia casa d' origine, dov' ero prima di venire sulla terra». E non era neppure pessimista sul nostro futuro: «Sono convinto che anche l' Italia rinascerà. Lo capisco dai miei concerti, dal silenzio assoluto con cui la gente ascolta le canzoni mistiche. Sono convinto che sapremo andare oltre la corruzione, gli scandali, la dittatura del denaro, l' egemonia delle cose materiali. Lo Spirito avrà la sua rivincita. Comincerà presto un' epoca in cui saranno più importanti lo spirito, la bellezza, la cultura. Che sono poi le grandi ricchezze del nostro Paese». Franco Battiato era forse davvero un pazzo, ma un pazzo di Dio. Di sicuro, Franco Battiato era un genio.

Il ricordo del Maestro. Franco Battiato, il genio dall’anima pop che le provava tutte. Fulvio Abbate su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Di Franco Battiato, morto ieri a 76 anni nella sua casa di Milo, in Sicilia, chi lo ha conosciuto fin dal tempo dell’inizio, dagli esordi, o quasi, dai primi dischi segnati dall’anticarisma sonoro delle avanguardie, Fetus, Pollution e Sulle corde di Aries, apparsi tra il 1972 e l’anno successivo, manterrà sempre un’immagine, meglio, una percezione stilistica ed esistenziale prossima alla metafora della tessera del domino, dove appunto la sua esistenza avventurosa di compositore e interprete di se stesso, sembra possa essere divisa in due parti, nette distinte: il nero della sperimentazione, talvolta perfino feticistica, di maniera, e il bianco del canto infine concesso nella sua pienezza perfino popolare, tuttavia di un qualcosa che sembra volersi accostare al sinfonico, al “lied”, forse anche alle villanelle settecentesche, delle danze ungheresi, l’insieme sia pure riveduto e corretto, così nell’impasto d’ogni possibile sonorità. Oltre i tric-trac e la formaldeide accattivante del pop o del “progressive”. Le influenze esotiche ed esoteriche, le spezie allegoriche e talvolta la stessa paccottiglia d’Oriente, come in un quadro di Delacroix tra le donne di Algeri e la morte di Sardanapalo tra ori, sete e broccati, sguardo da viaggiatore, compiono il resto. Sembra che quando, i critici della sua stagione successiva, stupiti dalla svolta, provarono a interrogarlo su come mai avesse a un certo punto abbandonato la fumisteria d’avanguardia per dedicarsi a un andamento compositivo, diciamo pure, almeno inizialmente, tra pop e, appunto, pop progressivo, Battiato abbia detto che il trapasso era stato fluido, facilissimo, naturale, già, «mi sono messo lì, e ho deciso di farlo, nessuna fatica, è stata una semplice decisione». In breve, non restava che scegliere altri pentagrammi, ottoni, legni, voci, cori, sintetizzatori. Del primo Battiato ricorderemo i collage sonori, titoli come Ethika fon ethica, già del 1974, con Clic, tra John Cage e altri maestri della dissonanza perfino extra-melodica, quando lo sperimentalismo appariva forse doveroso, un dato di militanza antiestetica al passo con le orme di mammut delle avanguardie, magari con la stessa sfacciataggine esibizionistica che si concesse in una foto pubblicitaria dei divano “Busnelli”, lo scatto è di Gianni Sassi, art director, compagno di strada, maestro di molta comunicazione musicale: Battiato, il volto truccato di biacca, i pantaloni a stelle e strisce Usa, le zeppe, gli occhiali degni di un’appendice d’arancia meccanica di Kubrik. Eppure, facendo ancora di più macchina indietro nel tempo, riavvolgendo il nastro di suoi esordi da ragazzo, c’è anche modo di trovarlo, nel 1967, in un album dei cantanti – figurina bisvalida “Panini”, la numero 199 – giacchetta da beat, foularino degno del collega Lucio Battisti dei “fiori rosa, fiori di pesco”, montatura alla Peppino Di Capri. Insomma, questo per dire che l’uomo, il professionista, il cammello in carovana verso il successo compiuto, per sua storia, mistica risaputa a parte, è altrettanto assimilabile al tempo delle chitarre “Eko” del Cantagiro. Poi, come sappiamo, la svolta, dove il catanese Battiato raggiunge, tocca, conquista un’aura quasi da derviscio, Battiato maestro, forte di un registro, come dire, sapienziale ostentato. In verità, a dirla tutta, dimenticavo, la prima volta che ad alcuni ragazzi, già modellati nell’ascolto attento e “colto” della sua produzione iniziale, accadde di ascoltare L’era del cinghiale bianco, sarà stata la tarda estate del 1979, sebbene già fan, gli stessi ebbero fatica a riconoscere subito sia la voce sia l’autore del brano, sembrò infatti una sorta di “tradimento”, uno scadimento, una inaccettabile concessione alla musica “commerciale”, sorta di “new have” assimilabile ai popcorn sonori; il dato che a distanza di quarant’anni quel brano sia considerato un piccolo scrigno di perfezione musicale e compositiva potrebbe valere sia nella direzione della conquista del canto libero sia della regressione. Un tradimento allo spirito della ribellione accademica, che in qualche modo, con la sua rivolta, aveva lambito anche Battiato. Personalmente, abbiamo modo di ricordarlo in un locale “alternativo” di Palermo, La Locanda degli Elfi, per un concerto ancora artigianale, tra voce e forse “moog”, un istante prima della svolta definitiva verso i grandi numeri, il riscontro commerciale, l’arena dei fan pronta ad aprirsi a dismisura, perfino per “Discoring”. Pensando agli album da hit-parade come La voce del padrone, la copertina iconica, di un esotismo afro-tirolese, il vezzo del codino, il protagonista visto di scorcio seduto tra palme, scirocco e accenni di design neo-suprematista, e siamo nel 1981, con brani-citazioni quali Bandiera bianca, Centro di gravità permanente, Cuccurucucù, dove si mescolano «gesuiti euclidei vestiti come bonzi», «programmi demenziali con tribune elettorali», Minima Immoralia, «furbi contrabbandieri macedoni», e ancora lui che «a Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata; a Vivaldi l’uva passa, che mi dà più calorie…», compreso il rimando al mistico per signore da boulevard Georges Gurdjieff. Se la formula del “pastiche” letterario può essere assimilata alla musica, ed è proprio il caso di Battiato, con le sue citazioni incastonate nelle canzoni, cominciando dai titoli-sticker, sembra quasi che l’uomo voglia comporre una sorta di “gran tour” musicale e narrativo; quanto all’esotismo citazionistico, talvolta è tragicamente di maniera si è già detto. In questo senso, dobbiamo anche ricordarlo pittore, con immagini che rimandano alla tradizione culturale “sufi”, così come lo ritroviamo cantare seduto in posizione prossima a quella del loto. Da un certo momento in poi da quel suo “pastiche”, comprensivo di “cavigliere” e «una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù», e ancora di quanto «il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire», «la stagione dell’amore viene e va. All’improvviso senza accorgerti, la vivrai, ti sorprenderà», «percorreremo assieme le vie che portano all’essenza. I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi, la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi», «supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare». E su tutto, ancora una volta, «le cavigliere del Katakali», e via cantando, con un intento mistico, meglio sapienziale, come nel caso de La cura, sovente utilizzata perfino come viatico, ex-voto per scongiurare l’addio, il necrologio, come medicamento melodico. Così come altrove si attribuisce valore di canto “civile”, a una composizione come Povera patria, eppure Battiato non sarà mai un autore “politico”, quasi guardasse le cose dall’alto della sua villa di Milo. Se esiste il dio dell’antiretorica circa la mistica d’importazione, lo stesso che abbia guardato a tutti i Gurdjieff del mondo con il sorriso dell’ironia, è ora che si mostri. Sul suo stato reale di salute negli ultimi anni, i suoi cari hanno mantenuto un riserbo siciliano quasi secentesco.

Fulvio Abbate. Nato a Palermo nel 1956. Scrittore, critico d’arte e inventore della web-tv Teledurruti, ha pubblicato, fra l’altro, i romanzi Zero maggio a Palermo (1990), ripubblicato dalla Nave di Teseo nel 2017, Oggi è un secolo (1992), Dopo l’estate (1995), La peste bis (1997), Teledurruti (2002), Quando è la rivoluzione (2008), Intanto anche dicembre è passato (2013). E ancora, Il ministro anarchico (2004), Sul conformismo di sinistra (2005), Pasolini raccontato a tutti (2014), Roma vista controvento (2015), LOve. Discorso generale sull'amore (2018) e Quando è la rivoluzione (2018). Nel 2010 ha dato vita al movimento Situazionismo e Libertà, il cui simbolo è disegnato da Wolinski. Nel 2012, a Parigi, il Collège de ‘Pataphysique lo ha insignito del titolo di Commandeur Exquis de l’Ordre de la Grande Gidouille.

Estratto da “Franco Battiato”, di Aldo Nove (ed. Sperling & Kupfer), pubblicato da “La Stampa” il 19 maggio 2021. Battiato ha lottato tutta la sua vita per allontanarsi il più possibile dalle etichette che ci appiccichiamo l' un l' altro. Dai primordi della sua carriera, con Energia in Fetus, dove è consapevole degli sbagli commessi «per fare sul mio metro questa personalità». «Personalità» che deriva da «persona», ossia, etimologicamente, «maschera»: «E quanti personaggi inutili ho indossato / io e la mia persona quanti ne ha subiti», canta in Lode all' inviolato. La ripulsa verso il personaggio inventato con l' ausilio del geniale Gianni Sassi nei primi anni Settanta, il rifiuto del ruolo di rockstar conseguente al successo della triade L' era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone, l' imbarazzo verso l' etichetta di «Maestro» dopo l' acquisita accettazione pubblica (con Fisiognomica e Come un cammello in una grondaia) della sua dimensione artistica e spirituale a trascendere quella limitativa di «cantante» «Un irresistibile richiamo» apre l' album con una sequenza di riflessioni su quanto precede il «transito terrestre » e, in una concezione circolare del tempo, lo segue. Il «richiamo» è dunque, ancora in accordo con i principi della fisica quantistica e il pensiero mistico (in questo caso, con una citazione diretta di santa Teresa d' Avila), quello verso la vita, al fascino irresistibile della materia sottoposta alle leggi dell' universo, di cui noi siamo composita espressione. Testamento è, con Passacaglia, il brano più incisivo dell' album, con la sua rasserenata rassegna del nostro essere implicati nell' ordine del mondo, nell' ineluttabilità dell' amore come forza coesiva: «Lascio agli amici gli anni felici delle più audaci riflessioni». Battiato consegna al mondo i suoi esercizi per la respirazione, ma soprattutto la straordinaria passione per quanto di intenso e significativo la vita stessa, in ogni suo aspetto, ci dona. Trovo che i versi: «E mi piaceva tutto della mia vita mortale / anche l' odore che davano gli asparagi all' urina», siano tra i più potenti, e sconvolgenti, dell' intera produzione di Battiato. Con un' immagine superficialmente «volgare», quanto comune a tutti, Battiato lascia in eredità proprio quella «facoltà dello stupore», della poliedricità infinita dell' esperienza umana. In questo come in quasi tutti i brani dell'album è come se parlasse da un altrove che tutto include, quindi anche il presente e il suo generare ricordi. Torna, cantato insieme a Chiara Verganti, il martellante principio: «Noi non siamo mai morti e non siamo mai nati», e la citazione dantesca: «Fatti non foste per viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza».

Estratto da “Attraversando il bardo. Sguardi sull’aldilà”, di Franco Battiato (ed. Bompiani), pubblicato da “La Stampa” il 19 maggio 2021. L' unità primordiale è spazio e saggezza... inseparabili! Quando il praticante è in grado di riconoscere la sua natura, la Consapevolezza, è libero. Tutti gli ottantaquattromila tipi di emozioni disturbanti, istantaneamente, in un solo attimo si liberano senza lasciare traccia. Al momento della morte, non avviene una morte «reale», perché la nostra natura innata è al di là del tempo. Nel Bardo le fiamme non possono bruciarci, le armi non possono ferirci, tutto è illusorio e privo di sostanza: tutto è vacuità. L' economo del monastero di Tulku chökyi Nyima rimpoche, Bong Gompa, nel Nord del Tibet centrale, era in punto di morte, ma parlava continuamente: «Bene, ora questo elemento si sta dissolvendo, ora la coscienza si dissolve nello spazio. ora lo spazio si è aperto e le manifestazioni stanno apparendo. La catena del vajra fluttua come una ghirlanda di cristallo e fiori freschi. La dharmata è veramente incredibile!». Morì ridendo. Le esperienze che appariranno al momento della morte sono inconcepibili. La cosa più importante è ricordare di non essere tristi o depressi, non ve ne sarebbe motivo. Bisogna mantenere piuttosto l' atteggiamento di un viaggiatore che ritorna a casa. Gli elementi terra, acqua, fuoco, aria e spazio sono presenze non esistenti, non hanno natura propria. Il senso della nostra esistenza terrena è quello di crescere, diventare esseri completi, e ritornare all' un...

Da "repubblica.it" il 19 maggio 2021. In uno slancio di romanticismo, e per ricordare Franco Battiato appena scomparso, manda un messaggio alla moglie con le parole di una canzone, ma lei lo interpreta come la volontà di suicidarsi e chiama i carabinieri. E' accaduto ieri pomeriggio a Bologna, quando una donna, allarmata, ha telefonato alla centrale operativa. Così i militari della compagnia di Borgo Panigale sono andati a casa dell'aspirante suicida per salvarlo, ma lui stava bene. L'uomo, infatti, per ricordare il musicista, aveva inviato un messaggio alla moglie usando le parole di una canzone che lei aveva frainteso, scambiandole per un messaggio d'addio.

Da rollingstone.it il 18 maggio 2021. Dopo la morte di Franco Battiato, avvenuta questa mattina nella sua residenza di Milo, sono in tantissimi gli artisti che lo stanno ricordando, visto che il cantautore ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica italiana. Fra i molti, non poteva mancare un cantautore come Morgan, che sui social si è detto distrutto dal dolore per la scomparsa del Maestro. Ecco il messaggio che ha pubblicato sul suo profilo Instagram: «Santo cielo, non avrei mai voluto arrivasse questo momento. Mi fa tanto male pensare alla sua bontà alla sua ironia la sua intelligenza. Battiato era uno degli ultimi veri uomini di cultura in questa Italia mediocre e spenta. Finché è stato al mondo potevo dire che c’era qualcuno che mi capiva. Adesso sia io che la maggior parte del mondo che mi circonda siamo alla deriva, abbiamo quasi esclusivamente cattivi esempi di egoismo utilitarismo e ignoranza. Ecco, Battiato era il contrario esatto: un leader sensibile, generoso e colto. Mi ha sempre chiamato Morganetto. Pace all’anima sua. Sono triste, incazzato, affranto, malinconico, piangente, nostalgico e desolato, ho il, cuore spezzato e sono disperso, disperato».

Da rivistastudio.com il 18 maggio 2021. Tra nozioni filosofiche e proiezioni geografiche, con i testi di Franco Battiato gli italiani hanno cantato con verve di concetti ipercomplessi come la reincarnazione delle anime e posti incollocabili geograficamente. Quante volte ci siamo chiesti dove portano «i treni di Tozeur» o qual è la «parte sinistra (della città, ndr) di Baku»? Per rispondere a queste domande, per cantare Battiato con una qualche cognizione geografica, un utente su Google Maps ha creato una mappa dove ha inserito tutti i luoghi citati nei suoi testi, e l’ha chiamata Mappiato. Il risultato è una cartina geografica fittissima di spillette, associate ai versi di riferimento, che vanno dai citatissimi campi del Tennessee, «come vi ero arrivato, chissà», ad Alexanderplatz «come ti trovi a Berlino Est?». La mappa ritorna utilissima perché permette di tracciare un atlante soggettivo dei luoghi di riferimento di Battiato, cantante e autore altrimenti imperimetrabile. Risponde a quelle domande della “Chan-son Egocentrique”, come «Chi sono, dove sono / Quanto sono assente di me / Da dove vengo, dove vado». Alcuni luoghi citati sono vaghi, come il deserto di “Voglio vederti danzare”, posto saggiamente nei pressi del Sahara, altri sono più precisi come Baku, quando «Le truppe schierate di fronte / A un ordine sparano i fucili / Le prime file cadono a pioggia / Il fumo si addensa al sudore». Al momento sono 59, ma già nel 2017, sotto all’articolo di Rock.it che lo riporta, fanno notare che in realtà ne mancano alcuni. Grande assente è sicuramente l’iconico Grand Hotel Sea-Gull Magique, luogo che abita nitidamente i nostri immaginari, e che esisterà solo lì, mai su Google Maps, un po’ come il suo deserto.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 18 maggio 2021. Oggi è il giorno del dolore, ma domani sarà già il tempo di storicizzare un artista che ha scolpito il suo nome nell’albo degli immortali della musica d’autore italiana. Per farlo, però, manca ancora un tassello. È ormai risaputo che l’album “Torneremo ancora” in verità non conteneva l’ultimo inedito di Franco Battiato. Un brano registrato come “provino” dal maestro – benché sublime nel raccontare la fase finale della sua esistenza terrena – che non è ancora stato dato alle stampe. Mi riferisco a quello realizzato con Roberto Ferri, con il quale collaborò fra il 2000 e il 2010, che si intitola “Io non sono più io”. Quando riportai il racconto di Ferri, il clamore delle sue dichiarazioni sullo stato di salute di Battiato coprì tutto il resto, ma ora è forse venuto il momento di chiedere che quella canzone veda finalmente la luce. D’altronde, che non sia una bufala basta affidarsi all’Archivio Opere Musicali della SIAE dove è registrato proprio con quel titolo e con autori Franco Battiato (per la musica) e Roberto Ferri (per il testo). Lo stesso cantautore, in una mail, precisò al collega. «È un provinaccio, e manca un buon finale», a testimonianza che sul brano si concentrò la sua attenzione. Ora, oltre a Ferri che è coautore, dipenderà dalla famiglia di Battiato se, quando e come pubblicarlo. Chi scrive ha avuto il piacere di ascoltarlo e, al di là che si tratti di una “prova”, il testo cantato dalla magnetica voce di Battiato mette i brividi. La musica, una sorta di carillon avvolgente, ci conduce con disincanto nell’abisso di un testo che sembra una vera e propria seduta psicanalitica. Non volendo spoilerare troppo, sentirlo cantare il ritornello: “Io, non sono più io” seguito da “e mi ritrovo a fissare il muro (…) Ho bisogno di sognare quello che non riesco a fare ed il mio sentirmi male mi fa credere anche in Dio” non può che rimandare al sopraggiungere di un malessere che, benché non sappiamo ancora di preciso quale sia stato, lo costringerà a ritirarsi dalle scene. E prosegue così, andando a memoria: «Oggi il cielo non si fa guardare, un giorno nasce un giorno muore (…) non ho mai avuto paura di te, ma solo di me. Non odiarmi basto io (…) non ho più senso del limite, ho bisogno di infinito…». In mattinata, alla notizia della scomparsa del cantautore, ho così contattato Roberto Ferri per sapere se si sia mosso qualcosa rispetto all’ultimo capolavoro inedito realizzato con Battiato e per ricordare come nacque la collaborazione su un pezzo che, dopo la sua morte, risulta quanto mai di valore. «Io gli inviai alcuni testi e lui scelse “Io non sono più io» ha premesso Ferri, che poi mi ha spiegato come il testo, scritto da lui, inizialmente non si riferisse alla malattia: «Non raccontava del suo disturbo che già dava accenni, però credo che non sia stato un caso che lo avesse scelto in quanto esprime un disagio che lui avvertiva, quindi è probabile che lo scelse per quello». E ancora ha ricordato le fasi di elaborazione: «Lui personalmente realizzò il provino a casa sua definendolo un “provinaccio”, ma che lui però cantò bene». E poi siamo arrivati all’oggi, cioè alla speranza che presto possa essere ascoltato da tutti: «Decideranno la sua famiglia e il suo impresario se verrà pubblicato, io personalmente non avrei problemi, ma vivo di altro, pubblico libri, sto bene economicamente. Certo è che – ha concluso - storicamente questo è l'ultimissimo brano di Franco che esprime il suo disagio e quindi dovrebbe prima o poi vedere la luce soprattutto per il suo pubblico».

Dagospia il 18 maggio 2021. L’intervista di Giancarlo Dotto a Franco Battiato pubblicata da La Stampa – 31 maggio 2009 I cinquantuno chilometri dall’aeroporto di Catania a Milo bastano appena a Said per testimoniare quanto è bravo, generoso e illuminato l’uomo per cui da quindici anni lavora come autista tuttofare. E’ di Casablanca anche Sanàa, la giovane moglie. Anna è invece un’indigena. Paffuta, allegra e tonda, una cuoca da manuale. E’ a loro tre che Franco Battiato ha affidato la sua esistenza terrena in questa villa nel parco dell’Etna, il suo monastero “dove tutto è bellezza, calma e voluttà”. Da queste parti il sacro è ovunque, Maria, Padre Pio e Sant’Egidio. Contro la montagna che fiata e butta fuoco, lassù a tremila metri, le donne conoscono un solo metodo, pregare. Ogni tanto piove cenere. Estasi e scosse. Si trema e si gela tutti insieme, nella stessa lava, nella stessa neve e sotto le stesse nuvole. Battiato qui studia, ascolta e medita nella vibrante intesa dei sensi in festa. Le due piscine, l’amaca, il bosco con i pini e le querce. Allunga la mano e trova di tutto, nespole, prugne, ciliegie, melograni, l’albero di fico nato dal nulla, la sua pianta preferita. Niente animali, da quando è morto Clemente, il gatto impallinato dai cacciatori, che forse era stato una lepre in un’altra vita. Battiato è un maniaco dell’ospitalità. E degli orari. All’una in punto, a tavola per il pranzo. Da vegetariano convinto si avventa sullo spaghetto, perché bisogna pur che il corpo esulti. “Questi rossi dell’Etna sono straordinari... Io sono astemio. Il mio corpo rifiuta tutto ciò che è tossico, alcol e fumo inclusi. Bevo un litro di thè verde al giorno”.

Franco Battiato detesta.

“Detesto i politici che smaniano per piacere a tutti. Oggi si vive l’epoca dei leader tribali alla Tamerlano, ignoranti ed egoici. Leggevo un’intervista di Catherine Deneuve. Adoro questa donna per la sua brutalità. Quando dice: “Piacere a tutti mi fa schifo”.

Condivide?

“Gli applausi non mi piacciono, ma li accetto. Ho un certo disprezzo per le masse. Ti fanno diventare fetente anche se non lo sei”.

Le piacciono i fischi?

“Trovo sia un malcostume manifestare il dissenso. Una volta, era il 1980, Dario Fo aspettò che la gente defluisse dal concerto per venirmi a dire: “Sai, non condivido i testi che scrivi”.  “Non m’interessa”,  risposi”.

Complicato incastrarla in una definizione. Razionalista e spiritualista,  scientista e mistico.

“La scienza non è un dogma. Penso a certi cretini patentati. A certo determinismo che ti condanna a partire dai tuoi geni. Io credo a qualcosa di extracorporale che sta in un punto fuori di noi. Ma credo, ancora di più, al libero arbitrio. In un milionesimo di secondo possiamo cambiare la rotta della nostra esistenza”. 

E’ stato il primo a cantare in Vaticano. 

“Non era forse un titano del pensiero Wojtyla, ma mi conquistavano la sua bontà e la sua moralità”.

Canterebbe per Ratzinger?

“Lui e i suoi cardinali si comportano da anticristiani. Agevolano il mondano, contro tutti i religiosi che credono alla vita terrena come a un passaggio. Il caso  Englaro ci ha anche mostrato senza pietà che con i furiosi lanzichenecchi della politica l’unica  soluzione è l’esorcista”.  

La vita è sacra?

 “Solo se rifiuta la dittatura della carne. Mi stupisce un certo attaccamento alla vita. Credo nel passaggio da un’esistenza all’altra. Intanto liberiamoci di questa, se non ne vale più la pena”.

“Breve invito a rinviare il suicidio” è il titolo di una sua canzone. 

“I monaci tibetani ogni notte capovolgono la loro coppa perché potrebbe essere la loro ultima. L’occidente è pieno di zavorra, di dolori inutili, un fardello di schifezze emotive che ti annienta. Penso alla depressione di Gassman e di Tognazzi.  Nella mia “Stage Door” si dice: “Sapessi che dolore l’esistenza che vede nero dove nero non c’è ne”.

Come se la cava con la morte dei cari?

 “Ero molto legato a mia madre, ma sono rimasto inalterato alla sua morte. Questo lo trovo impagabile. Sarò capace di farlo con la mia morte? Vorrei non avere nessuno accanto quando sarà il momento”.

Meditare è l’equivalente dello svuotamento fisiologico. Un clistere spirituale.

“Svuotamento è il vocabolo giusto. Se stai in un  bosco, tra gli alberi, i fiori, gli uccelli, e sei vuoto dentro, puoi sentire tutta questa armonia pazzesca. Non hai bisogno d’altro. In quell’esatto momento potresti dire arrivederci alla vita senza rimpianto”.

I dolori inutili del giovane Battiato.

“Era il regno della paranoia e dei finti malesseri. Una piéce insopportabile. Ho avuto un periodo molto difficile dal ’70 al ’72. Una volta a New York provai un’attrazione fortissima a buttarmi sotto la metro. L’idea del mio corpo che si sfracellava m’inebriava. Un secondo prima di farlo mi afferrai a un palo vicino a me”.

 Niente incubi nel suo letto?

“Sono uno solare, trovo la notte minacciosa. Avverto presenze ostili. E allora dormo per difendermi. Dormo e resto immobile”.

L’inconscio non basta a spiegarli?

“L’inconscio è zavorra stupida. Fosse per me, il mestiere dello psicoanalista andrebbe in estinzione. L’individuo può e deve risolvere da sé il suo caso”.

Il corpo va punito?

“L’ho fatto una sola volta, nove anni fa, quando smisi di fumare. Una fatica bestiale perdere sedici chili. Mi facevo schifo, mi veniva voglia di sputarmi allo specchio. Il corpo è solo una custodia, un fagotto. Mi comporto con lui come un padre. A volte lo assecondo, altre no”.

Niente è come sembra.

“Non dovevo fare il cantante. Non mi piace esibirmi. La mia vanità è zero. Cerco di fare bene questo mestiere. Sono cosciente di aver scritto cose belle e cose pessime”.

Un esempio del pessimo.

“La voce del padrone”, tre milioni di copie in tutta Europa. Lo feci per guadagnare soldi, aggiunsi molta acqua al mio vino. “Centro di gravità permanente” è una canzoncina modesta con un buon testo”.

Il meglio.

“Le canzoni che incidono sul profondo. “Stage Door” è un pezzo formidabile. Anche “L’ombra della luce” è tra le mie preferite”.

“La cura”.  Perché ha così toccato gli italiani? Mi risultano decine di risvegli dal coma indotti da questa sua canzone.

“Di questo non parlo. Si rischia il macchiettismo. Un giorno Sgalambro, scherzando, mi propose di vendere la canzone alle case farmaceutiche. E’ un pezzo ispirato, per questo arriva alla gente. Ma non è tra le mie preferite”.

Questa sua casa sull’Etna s’ispira ai conventi di clausura?

“Ne ho frequentati di conventi e di suore di clausura. Non le dico quali, Ratzinger li farebbe chiudere. Quella è la veranda dove ogni giorno medito, mattina e sera. Mi sveglio alle cinque e ascolto musica classica. Alle sei e mezzo mi alzo e inizia l’avventura”.

Vedo libri su Haendel ovunque.

“Si chiamerà “Georg Friedrich Haendel “, sottotitolo “Viaggio nel regno del ritorno”, il mio nuovo film . Una riflessione sul Settecento che non è mai stato raccontato. Il problema sarà trovare i soldi.”

Sesso o castità?

“La castità è fantastica. Ogni volta che sono coinvolto in un progetto artistico, le mie energie sessuali si trasformano in atto creativo. Non sono disponibile ad altro che a questo”.

Sublimazione permanente.

“So di questi politici, poveretti, che s’imbottiscono di Viagra. Non avere pulsioni sessuali è una fortuna,  Pagherei per questo. La vera prigionia è quando sei schiavo dei tuoi sensi”.

Lei è un uomo fortunato?

“Purtroppo no, devo farci ancora i conti con la pulsione sessuale, ma non vedo l’ora che arrivi la pace dei sensi”.

Talenti della musica di oggi.

“Ascolto solo musica classica. A 64 anni, quando sento alcune arie di Haendel devo fermarmi per la gioia insostenibile che m’ingorga. La musica leggera l’ascolto incidentalmente sul taxi o in televisione”. 

Lucio Dalla e Carmen Consoli hanno casa da queste parti.

“Lucio l’ho visto poco negli ultimi anni. Carmen è un talento sorprendente con un grande cervello. Si sta anche liberando di un certo manierismo”.

Tre miti al femminile: Mina, Milva, Ornella Vanoni.

“La Vanoni l’ho capita in ritardo, però, quando l’ho capita, l’ho capita davvero. Mina l’ho capita in anticipo. Dopo, da cantante nazionalpopolare l’ho capita meno. Di Milva apprezzo il percorso intellettuale”. 

Un pezzo di strada insieme a Giorgio Gaber.

“Ero un ragazzo alle prime armi. Si prese cura di me. Ci siamo divertiti da pazzi nelle balere dell’hinterland milanese. Giocavamo a poker io, lui, la moglie Ombretta Colli, Roberto Calasso e Fleur Jaggy. Invece dei soldi, ci giocavamo i libri dell’Adelphi”.

Il suo sodalizio con le donne. Fiorella Mannoia, Elisabetta Sgarbi.  

“Fiorella è un talento. Mi piace il suo timbro vocale. Elisabetta è come il mio Etna, in continua eruzione. Siamo affiatatissimi”.

Un equivoco necessario l’amore?

 “E’ bello conoscere le pene e i piaceri dell’amore, una, due, tre volte, poi basta. Nell’innamoramento ci si annulla nell’altro. Se non sei equilibrato, arriva il dolore e quindi il massacro”.

Manlio Sgalambro. Più di un sodalizio.

“Con lui si respira l’aria delle vette. Un giorno eravamo lì che prendevamo una granita. “Perché non facciamo un disco pop?”, mi fa. Venivo dal mio periodo fondamentalista, accettai la sfida. I miei fan si ribellarono. Dovettero ricredersi”.

Il Fatto Quotidiano pubblicata da Dagospia il 21 agosto 2016. China sul buffet, attira la sua attenzione una donna con la giacca a scacchi neri e rossi: “Somiglia a Susan Sarandon” dice Franco Battiato. Continua ad affidarsi a fisiognomica e curiosità. A bere acqua gassata. A evitare veleni: “Ho smesso di fumare nel 1984” e animali sulla tavola: “A un certo punto mi hanno fatto orrore”. A mangiare poco dopo mezzogiorno e ad alzarsi nel cuore della notte: “Alle tre e mezza del mattino, ogni giorno”. A settant’anni, ogni cosa è relativa. Le cose passano, le mamme imbiancano e anche l’ultima doppia fatica in uscita a novembre per Universal -da un lato un disco triplo, Le nostre anime- con inediti, rivisitazioni e riscoperte, dall’altro un lussuoso compendio di mezzo secolo di scorribande - sei cd, quattro dvd, decine di canzoni, litografie e istantanee del Battiato dalla magrezza ascetica, del Franco ragazzo-con la barba, sotto la luna piena, seduto per terra con gli studenti e gli amplificatori a fianco, in cappotto a Catania, Milano o Kathmandu-riveste un’importanza momentanea: “Non ho neanche letto i testi che accompagnano la raccolta”.

Le nostre anime è un’antologia completa: c’è il Battiato sperimentalista, il Battiato di La Voce del Padrone, il Battiato regista.

È un distillato delle cose che ho fatto, la canzoni ci sono cadute dentro quasi per inerzia, se avessi dovuto mettere insieme proprio tutta la mia produzione avrei finito nel 2025.

È contento del percorso compiuto?

Ho scritto canzonette dai buoni testi e cose più serie.

In una bella intervista di Giancarlo Dotto aveva definito "canzonetta" anche Centro di Gravità permanente.

Ma certo, esistono le categorie. A volte scrivi per divertirti, altre ti interroghi sulla spiritualità. Se devo razionalizzare il mio percorso non mi va di nascondere la verità.

E qual è la verità?

Che certe canzoni, penso a Sentimiento nuevo che cantavo con Alice, erano un po’ delle cazzate. Cazzate divertenti e tendenti all’alto, ma pur sempre cazzate.

Si rifiutava di riconoscere a certi brani un valore artistico?

Quando feci ascoltare Prospettiva Nevskji a Giusto Pio mi disse “È bellissima” e quasi mi ribellai: “Come è bellissima? A me sembra una cazzata”.

Del successo- ha detto-non mi è mai importato nulla.

È vero. A essere più preciso, gli anni più difficili della mia vita hanno coinciso con il successo sfrenato. Dal ’78 all’82 ho sofferto.

Gli albergatori facevano entrare di soppiatto i fan a fotografarla nel cuore della notte.

Ero in Versilia, mi svegliai all’improvviso, mi ritrovai i fan a scattare foto sul ciglio del letto. Ero assediato e alla popolarità reagivo con turbamento. Che volevano da me? Non lo capivo.

La Voce del Padrone vendette più di un milione di copie.

Quel disco non aveva niente a che vedere con lo sperimentalismo degli anni ’70, ma dietro c’era comunque un lavoro e io nella vita non mi sono mai pentito di niente. Gli invidiosi dicevano: “È facile. Il vero Battiato ci ha traditi, lo abbiamo perso nel ‘75”. Non era vero e si sbagliavano di grosso, ma visto che vendevo era più facile sostenere che mi fossi piegato al sistema.

Ne Le nostre anime, tra Fetus e Pollution, c’è posto anche per quello sperimentalismo.

Sono stati anni folli, i ’70. Giocavo con i suoni, con le distorsioni, con i sintetizzatori. Avevo per le mani qualcosa che nessuno aveva mai osato proporre.

Prima ha citato Alice. Da Febbraio ad Aprile, dopo tanti anni sarete nuovamente sul palco insieme: venticinque date, venticinque concerti nei teatri di tutta Italia.

Siamo sempre stati amici, le voglio bene, non l’ho riscoperta di colpo. Ci alterneremo sul palco, poi canteremo insieme. Ma inizio io, così la salvaguardo.

Alcune sue vecchie canzoni, Battiato, si suonano remixate nelle discoteche.

Pensi che a Madrid, ho visto più di duemila persone cantare in sincrono e in italiano Cuccuruccuccù senza mai andare fuori tempo.

Viaggia, suona, scrive. Non si ferma mai.

Non mi fermo mai, è vero: “Non ti stancare” mi dicono tutti. E io non do retta.

Ormai è un venerato maestro. Si ricorda la tripartizione arbasiniana?

Vagamente.

La carriera dello scrittore italiano ha tre tempi: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro.

Io sarei stato anche il solito stronzo? La ringrazio.

No, Battiato, lei è un venerato maestro.

Non voglio essere chiamato maestro, mi dà fastidio. Maestro di che cosa? Sono stato fortunato, protetto da un patto stabilito altrove, ho avuto delle grandi soddisfazioni da quelli che stanno sopra di me.

Da chi? (Alza il dito, guarda in alto) Da questi tipi qua, le meccaniche celesti che cantavo le ho incontrate veramente.

Iniziò a meditare presto?

Da ‘autodidatta’. Mi sdraiavo per terra e iniziavo a viaggiare per conto mio. Un giorno venne da me Juri Camisasca, cantautore e amico fraterno, tutto eccitato: “C’è un guru pazzesco, devi venire ad ascoltarlo, sbrigati, è l’ultima lezione, finiscono i posti”. Mi feci convincere e arrivammo sul posto.

Descriva.

Un centinaio di persone e il guru al centro, circondato da due leccaculo. Entro, mi sdraio per terra e me ne vado con la testa. Dopo cinque minuti sento una voce nelle orecchie e vedo il vicino che mi scuote: “Guarda che il guru ce l’ha con te”.

Cosa voleva?

Non gli piaceva che mi fossi sdraiato per terra: “Mi dica” gli faccio. E lui: “In quella posizione stanno solo gli animali”. “Si vede che sono un animale” dico soave e lo vedo impazzire. Gli si deformano i lineamenti e inizia a urlare. I leccaculo, gli sgherri, i servi si agitano e si indignano, sembra mettersi male.

E si mette male?

Macchè, gira in trionfo. Gli allievi se la prendono con il guru, lo cacciano, lo contestano. Li avevo liberati, mi fecero festa, fu un piccolo momento di gloria.

A Luca Valtorta de La Repubblica ha raccontato di qualche momento meno glorioso vissuto ai tempi della Leva militare.

Ci avrei dovuto fare un film sulla mia leva, avrebbe spopolato. A Cassino, da dove partì la storia, marcai subito male. Mi sembrava di stare sulla luna, non capivo niente e andavo in giro con le maniche che arrivavano a metà della mano e un aspetto evidentemente troppo trasandato per i parametri militareschi.  Mi ferma un bruto, un generale napoletano, un vero figlio di puttana che mi prende a male parole: “Come cazzo vai in giro? Non ti vergogni”.

Aveva 25 stellette sulla giacca: “Sta parlando con me?” abbozzo e lui, rosso in volto: “Vedi qualcun altro intorno?”. Gli stava venendo un infarto. Da quel momento mi puntò. Decise di farmela pagare. Quando dimagritissimo, mi feci ricoverare per un sospetto esaurimento, si avvicinò minaccioso: “Ti devo mandare al Celio di Roma, ma siccome tornerai sicuramente qui, ti farò pulire i cessi con la lingua”.

Le venne risparmiata l’incombenza?

A Cassino non tornai e fu una fortuna, perché quel generale mi avrebbe rovinato.

Lei era impulsivo?

Molto, ma oggi sarei meno impulsivo. All’epoca, per un alterco sui capelli lunghi, venni sbattuto anche in carcere militare. “Faccia di merda, vatti a tagliare i capelli” mi dissero e a nulla valse il consiglio in tempo reale di Juri Camisasca: “Mettiti la lacca sui capelli così non devi tagliarti niente”. La mattina dopo venni convocato e per l’espediente della lacca, i graduati manifestarono disgusto: “Sei un’indecenza, Battiato”. Ebbi il torto di rispondere.

E cosa rispose?

“Si faccia psicanalizzare” dissi al militare. Come le ho detto mi misero in galera. 10 giorni. “Non puoi fumare” dicevano, però io fumavo lo stesso. Tra congedi e sospensioni, la leva non è durata poi tantissimo, ma fare il militare è stato un incubo. La sola idea di sparare mi faceva sentir male”:

Si sente più a destra o a sinistra?

Sto in alto.

La politica di ieri?

Mi era simpatico Pannella. Un giorno, per un calcio di troppo tra il servizio d’ordine e i carabinieri ai margini di un comizio radicale a cui avrei dovuto suonare, mi ritrovai nel bel mezzo di una rissa. Della politica mi importa sempre meno. E sono felice che non mi chieda di Renzi e Berlusconi, tanto qualunque cosa si dica, il quadro complessivo non cambia.

Franco Battiato è misogino, a Franco Battiato non piacciono le donne.

Vere cretinate dette da chi non sa neanche cosa voglia dire misoginia. Ho avuto molte storie, non tutte lunghe e al matrimonio non ho mai pensato. La sola idea mi fa venire voglia di spararmi.

Le storie “non tutte lunghe” furono importanti?

La prima risale alla fine degli anni ’60. Lei era sposata e gestiva una discoteca enorme. Mi chiamava quando il marito partiva, è andata avanti per un po’.

Era sposata, non si sentiva in colpa?

Ma che scherza? Lei mi si infilò nel letto e a quel punto, cosa avrei dovuto fare? Am i making my self clear?

È stato chiaro. E gli amici? Li ha conservati? Li ha persi?

Non ne ho perso neanche uno e non ho rimpianti, né delitti da confessare: della remissione dei peccati non sono stato mai un gran sostenitore.

E neanche della convivenza par di capire.

Guardi, una volta con una ragazza pensai anche: “Questa è quella giusta”.

E poi cosa accadde?

Uscii presto, comprai tre yogurt, li misi in cucina e poi andai a fare una doccia. Una volta lavato, gli yogurt non c’erano più.

Li aveva mangiati tutti lei?

Tutti e tre. Ora dico, se ne avesse lasciato almeno uno, avremmo parlato di altro. Ma li aveva fatti fuori tutti. Un saggio di egoismo, non solo simbolico. Tra noi la storia non poteva funzionare e infatti si arenò.

Lei è cresciuto con le sue zie e con sua madre, in una famiglia matriarcale.

Le zie sarte, quella straordinaria donna di mia madre, i parenti che andavano e venivano dall’America.

Andava e veniva anche suo padre, Turi.

Non c’era quasi mai. Ho sognato che si reincarnava in un cane e che era giudicato da un severo tribunale composto da 10 persone: “Suo padre entrerà nei regni inferiori”. Io testimoniavo a suo favore: “Non ce l’ho con lui, se condannandolo pensate di premiarmi vi siete fatti un’idea sbagliata”.

Uno strano sogno. Che rapporto ha con la memoria.

Mi ricordo tutto e non dimentico nulla. Per esempio mi ricordo di un meraviglioso pianoforte che mi regalarono le suore all’età di 16 anni. Una mia amica mi disse che dovendo liberare un convento, lo vendevano a basso prezzo. Mi presentai e la madre superiora me lo sbolognò senza pretendere una lira. Pensava fosse rotto e invece era solo scordato. Mi sentii felice.

Che rapporto ha avuto con la critica?

Me ne sono sempre fregato.

E con l’adulazione?

Direi che me ne sono sempre fregato.

Apprezza la sincerità?

Dipende dal garbo, dalla formula, dalla grazia. Poi se sei sincero fino a essere urticante devi aspettarti che anche l’altro possa rispondere con la stessa moneta. Nel 1980, alla fine di un’esibizione delirante con 5.000 persone, Dario Fo mi aspettò all’uscita del concerto.

Cosa le disse?

“I tuoi testi non mi piacciono”. E io risposi: “E a me che cazzo me ne frega?”. Eravamo sullo stesso piano, a quel punto. Ma non mi ritengo intoccabile, anzi. Se mi avesse criticato in un’altra maniera avrei anche apprezzato. È sempre il modo. Si può essere critici senza essere brutali. Una volta in motoscafo a Venezia ero con Nanni Moretti. Vide una ragazza corpulenta e la investì: “Ma non ti vergogni di pesare così tanto?”. Rimasi di stucco.

Rimase di stucco anche quando Di Lernia, dirigente della Emi, le chiese di suonare per Giovanni Paolo II?

“A Battià, te vole er Papa”. Così disse. Un po’ stupito ero, sì.

E suonerebbe per Bergoglio?

Ci andrei, sì. È un Papa anomalo.

Le piacciono gli anomali?

A volte sono molto simpatici.

Nomi?

Loredana Bertè. La incontro in aereo e mi fa: “A Battià, dove vai?”, Dove vai te?” rispondo. Poi parliamo e la guardo un secondo di troppo. Lei scorge ammirazione, si alza il pullover e senza preavviso mi fa vedere le tette. “Loredana, ti dico la verità, sono bellissime”. Avrei voluto uno specchietto retrovisore puntato sugli altri passeggeri.

Altri anomali: Celentano.

All’inizio Adriano, soprattutto per mia incapacità di valutarlo, non mi piaceva per niente. L’ho riscoperto dopo: quando azzecca la canzone è straordinario. Chi mi piaceva molto, un tipo veramente simpatico, generoso e squinternato era Jannacci. “Sei minuti all’alba/el gh’è gnanca ciar/sei minuti all’alba il prete è pronto già”. Sapevo le canzoni a memoria.

Il denaro è stato importante?

Mai. L’ho donato e quando non l’avevo, mi sono sempre arrangiato. Anche in modo acrobatico. Frequentando gli artisti, dal trapezio capitava di cadere. Una volta, ero a Roma, mi invitano a cena in trattoria Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann. Parliamo, beviamo, scherziamo e a un certo punto i due iniziano a litigare selvaggiamente. Volano schiaffi, colpi proibiti, si picchiano proprio. L’oste ci cacciò: “Ma con che gente si accompagna?” mi disse sprezzante. Sembrava un film.

Non gira un film da molti anni. Che fine ha fatto il progetto su Händel?

È pronto, aspetta da cinque anni e finalmente ho trovato il produttore. I tedeschi credono al film. Mi concentrerò sul rapporto conflittuale con il padre, sulle difficoltà iniziali di Händel, sul suo viaggio in Italia e sul complicato rapporto con gli italiani. La storia parte da lì. Gireremo a Roma, a Londra, in Germania e a Venezia, se dio vuole, in autunno.

Ha già scelto un attore per interpretare Händel?

È Johannes Brandrup. O è lui o il film non si fa.

E il film si fa?

Si fa, si fa, il film si fa. E ho il sospetto che sarà bellissimo.

Dagospia il 20 maggio 2021. Estratti dalle interviste di Marco Travaglio e Malcom Pagani a Franco Battiato, pubblicate da “il Fatto Quotidiano”. (…)

Chi altri non le piace?

Tutta la banda. I cloni, i servi, i killer alla Borgia col veleno nell' anello. Li ho sempre detestati questi tipi umani. (…)

Oggi Battiato non ha nemici?

Buddha parla dei tre veleni che opprimono l'uomo. L' attaccamento alle cose, l'ignoranza e l'avversione. Io non odio nessuno, al limite mi annoio. Sogno il dialogo, a patto che ci si elevi Non c' è nulla che mi interessi meno del pregiudizio altrui. Alla mia età, poi, non mi muove più neanche un capello. O mi vuoi così o me ne vado e forse, ti mando anche a fare in culo. (Ride)

Quando i fiumi sono in piena gli stronzi vengono a galla. Per fortuna mi difendo. Ho pochi contatti con l'esterno, imparo da libri scritti migliaia di anni fa "Questo Paese è una barzelletta, ma sei onesto e dici la verità non c' è smentita possibile. A poco a poco cadono le maschere. Dopo i 30 anni ognuno ha la faccia che si merita". (…) Sono stato fortunato, protetto da un patto stabilito altrove, ho avuto grandi soddisfazioni da quelli che stanno sopra di me.

Da chi?

(Alza il dito, guarda in alto) Da questi tipi qua, le meccaniche celesti che cantavo le ho incontrate veramente.

Si sente più a destra o a sinistra?

Sto in alto. Non ho rimpianti né delitti da confessare: della remissione dei peccati non sono stato mai un gran sostenitore.

Marco Travaglio per "il Fatto Quotidiano" il 30 ottobre 2009. Franco Battiato è molto diverso da come lo immagini. Allegro, scherzoso, spiritoso, talora persino un po' cazzone. Forse perché, con la sua cultura sterminata e la sua pace interiore, se lo può permettere. Un uomo, però, armato di un'intransigenza assoluta, di un'insofferenza antropologica per le cose che non gli piacciono. E' appena tornato da due concerti trionfali a Los Angeles e New York e ancora combatte il jet-lag nella sua casa di Milo (Catania). Parliamo del suo ultimo pezzo-invettiva "Inneres Auge", già anticipato sulla rete: uno dei due singoli inediti che impreziosiscono l'album antologico in uscita il 13 novembre ("Inneres Auge - Il tutto è più della somma delle sue parti"). Una splendida invettiva che si avventa sugli scandali berlusconiani e sulla metà d'Italia che vi assiste indifferente e imbelle, con parole definitive: "Uno dice: che male c'è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare Primari e Servitori dello Stato? Non ci siamo capiti: e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti...".

Che significa "Inneres Auge"?

"Occhio interiore. Ma lo preferisco in tedesco. In italiano si dice "terzo occhio", ma non mi piace, fa pensare a una specie di Polifemo. I tibetani hanno scritto cose magnifiche sull'occhio interiore, che ti consente di vedere l'aura degli uomini: qualcuno ce l'ha nera, come certi politici senza scrupoli, mossi da bassa cupidigia; altri ce l'hanno rossa, come la loro rabbia".

Lei, quando ha scritto "Inneres Auge", aveva l'aura rossa.

"Vede, sto bene con me stesso. Vivo in questo posto meraviglioso sulle pendici del Mongibello. Dalla veranda del mio giardino osservo il cielo, il mare, i fumi dell'Etna, le nuvole, gli uccelli, le rose, i gelsomini, due grandi palme, un pozzo antico. Un'oasi. Poi purtroppo rientro nello studio e accendo la tv per il telegiornale: ogni volta è un trauma. Ho un chip elettronico interiore che va in tilt per le ingiustizie e le menzogne. Alla vista di certi personaggi, mi vien voglia di impugnare la croce e l'aglio per esorcizzarli. C'è un mutamento antropologico, sembrano uomini, ma non appartengono al genere umano, almeno come lo intendiamo noi: corpo, ragione e anima".

I "lupi che scendono dagli altipiani ululando".

"Quello è un verso di Manlio Sgalambro che applico a questi individui ben infiocchettati in giacca e cravatta che dicono cose orrende, programmi spaventosi, ragionamenti folli e hanno ormai infettato la società civile. Quando li osservo muoversi circondati da guardie del corpo, li trovo ripugnanti e mi vien voglia di cambiare razza, di abdicare dal genere umano. C'è una gran quantità di personaggi di questa maggioranza che sento estranei a me ed è mio diritto di cittadino dirlo: non li stimo, non li rispetto per quel che dicono e sono. Non appartengono all'umanità a cui appartengo io. E, siccome faccio il cantante, ogni tanto uso il mio strumento per dire ciò che sento".

L'aveva fatto già nel 1991 con "Povera Patria", anticipando Tangentopoli e le stragi. L'ha rifatto nel 2004 con "Ermeneutica", sulla "mostruosa creatura" del fanatismo politico-religioso e della guerra al terrorismo ingaggiata dai servi di Bush, "quella scimmia di presidente": "s'invade si abbatte si insegue si ammazza il cattivo e s'inventano democrazie".

"Sì, lo faccio di rado perché mi rendo conto di usare il mio mezzo scorrettamente. La musica dovrebbe essere super partes e non occuparsi di materia sociale. Ma sono anch'io un peccatore e la carne è debole..."

Lei non crede nel cantautore impegnato.

"Per il tipo che dovrei essere, no. Ma non sopporto i soprusi e ogni tanto coercizzo il mio strumento. Il pretesto di "Inneres Auge", che ha origini più antiche, è arrivato quest'estate con lo scandalo di Bari, delle prostitute a casa del premier. E con la disinformazione di giornali e tiggì che le han gabellate per faccende private.

Ora, a me non frega niente di quel che fanno i politici in camera da letto. Mi interessa se quel che fanno influenza la vita pubblica, con abusi di potere, ricatti, promesse di candidature, appalti, licenze edilizie in cambio di sesso e di silenzi prezzolati. Questa è corruzione, a opera di chi dovrebbe essere immacolato per il ruolo che ricopre".

"Non ci siamo capiti", dice nella canzone.

"Non dev'essere molto in gamba un signore che si fa portare le donne a domicilio da un tizio che poi le paga, dice lui, a sua insaputa per dargli l'illusione di piacere tanto, di conquistarle col suo fascino irresistibile. Quanto infantilismo patologico in quest'uomo attempato! Ma non c'è solo il premier".

Chi altri non le piace?

"Tutta la banda. I cloni, i servi, i killer alla Borgia col veleno nell'anello. Li ho sempre detestati questi tipi umani. Per esempio il bassotto che dirige un ministero e fa il Savonarola predicando e tuonando solo in casa d'altri, senza mai applicare le stesse denunce ai suoi compagni partito e di governo. Meritocrazia: ma stiamo scherzando? Badi che, quando dico bassotto, non mi riferisco alla statura fisica, ma a quella intellettuale e morale: un occhio chiuso dalla sua parte e uno aperto da quell'altra".

"La Giustizia non è altro che una pubblica merce", dice ancora.

"Penso al degrado della giustizia: ma i magistrati dovrebbero ribellarsi tutti insieme e appellarsi al mondo contro le condizioni in cui sono costretti a lavorare. Non possono accettare, nell'èra dell'informatica, di scrivere ancora sentenze e verbali col pennino e il calamaio, mentre la prescrizione si mangia orrendi delitti e, in definitiva, la Giustizia".

Quando Umberto Scapagnini divenne sindaco di Catania, lei minacciò addirittura di espatriare. Come andò?

"Avevo previsto un decimo di quel che poi è accaduto. Un inferno. Catania era uno splendore: in pochi anni, come Palermo, è stata devastata da questa cosiddetta destra. Ma nessuno ne parla".

Lei è di sinistra?

"E chi lo sa cos'è la sinistra. Basta parlare di destra e di sinistra, anche perchè a sinistra c'è un sacco di gente che ha sempre fatto il doppio gioco al servizio della destra, spudoratamente. Per evitare tranelli, uso un sistema tutto mio: osservo i singoli individui, poi traggo le mie conclusioni".

Ha votato alle primarie del Pd?

"Sì, per Bersani. Non che sia il mio politico ideale, ma mi sembra un tipo in gamba. Forse l'ho fatto perché almeno, in queste primarie, il voto non era inquinato. Non è poco, dalle mie parti, dove alle elezioni politiche e alle amministrative i seggi sono spesso presidiati da capibastone e capimafia che ti minacciano sotto gli occhi della polizia".

Quella cosa dell'espatrio non era esagerata?

"La ripeterei oggi. Io sono sempre pronto: se in Italia le cose dovessero peggiorare, me ne andrei. Ubi maior, minor cessat. Mica puoi fare la guerra ai mulini a vento. Per fortuna è difficile che si ripeta il fascismo, anche perché sono convinto che molti italiani la pensano come me e sarebbero pronti a impedirlo. Comunque, "pi nan sapiri leggiri nè sciviri", comprerò una casa all'estero".

Lei è molto antiberlusconiano.

"Sono un Travaglio un po' più bastardo. Penso che la tecnica migliore sia l'aplomb misto all'irrisione, senza urli né insulti".

Ma Berlusconi non è finito, al tramonto?

"Dipende da quanto dura, il tramonto. Ma non credo sia finito: la cordata è ancora robusta. Però mi sento più tranquillo di qualche mese fa: sta commettendo troppi errori".

I partiti hanno mai provato ad arruolarla?

"Mai. A parte Pannella, tanti anni fa. Qualche mese fa mi ha chiamato un ministro di questo governo per dirmi che mi segue da sempre e concorda in pieno con una mia intervista. Forse non aveva capito o avevo sbagliato qualcosa io. Ma ora, dopo il mio ultimo singolo, magari fa marcia indietro".

"Inneres Auge" già impazza sulla rete. Teme reazioni politiche?

"Mi aspetto la contraerea. Ma siamo pronti".

Non teme, con una canzone così "schierata", di perdere il pubblico berlusconiano?

"Mi farebbe un gran piacere. Se invece uno che non mi piace viene a dirmi di essere un mio fan, sinceramente mi dispiace".

Ai tempi del "La voce del padrone", a chi la interpellava sul significato dei suoi testi ermetici, lei rispondeva "sono solo canzonette". Lo sono ancora?

"Quello era un gioco, ma non sono mai stato d'accordo con questa massima di Edoardo Bennato. "La voce del padrone" era un'operazione programmata come un divertimento frivolo e commerciale, e riuscì abbastanza bene, mi pare. Ma in realtà avevo inserito segnali esoterici che sono stati ben percepiti e seguiti da molti ascoltatori. Ogni tanto mi dicono che qualcuno, ascoltando i miei pezzi, ha letto Gurdjieff e altri grandi mistici. E questo mi rende un po' felice".

"Inneres Auge": serve a qualcosa, una canzone?

"Lei parla di corda in casa dell'impiccato: ho sempre avuto dubbi su questo nella mia vita. Ma, dopo tanti anni, posso affermare che un brano molto riuscito può scatenare influenze esponenziali. Una canzone può migliorarti e farti cambiare idea e direzione. Un giorno domandarono a un grande pianista dell'Europa dell'Est, ora a riposo: lei pensa di emozionare il suo pubblico? E lui: "Quando sono riuscito a emozionare anche un solo spettatore nella sala gremita di un mio concerto, ho raggiunto il mio scopo".

Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando - o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti - precipitano roteando come massi da altissimi monti in rovina - Uno dice che male c'è a organizzare feste private - con delle belle ragazze per allietare Primari e Servitori dello Stato? - Non ci siamo capiti - e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti? - Che cosa possono le Leggi dove regna soltanto il denaro?

La Giustizia non è altro che una pubblica merce... - di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori - se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente - La linea orizzontale ci spinge verso la materia, - quella verticale verso lo spirito - Con le palpebre chiuse s'intravede un chiarore - che con il tempo e ci vuole pazienza, - si apre allo sguardo interiore: Inneres Auge, Das Innere Auge - La linea orizzontale ci spinge verso la materia, - quella verticale verso lo spirito - Ma quando ritorno in me, sulla mia via, - a leggere e studiare, -ascoltando i grandi del passato... - mi basta una sonata di Corelli, perchè mi meravigli del Creato!"

Malcom Pagani per il "Fatto quotidiano" il 7 settembre 2012. Per emanciparsi dall'incubo delle passioni: "Adesso faccio solo questo, all'epoca lo cantavo, dilettandomi in altre direzioni" volare non basta. Per i 67 anni di Franco Battiato, in ascesa velocissima da Milo, il trasporto aereo nazionale ha nutrito ieri rispetto relativo: "Tipica giornata di un paese al limite del sopportabile. Alitalia ha annullato la tratta mattutina tra Catania e Milano. Così mi sono imbarcato con un'altra compagnia, ma dopo un minuetto su pista durato un'ora, una voce ci ha imposto di scendere: "Problemi tecnici". Il cielo ha qualche cosa di infernale, ma a terra, tra i pronipoti di sua maestà il denaro, Battiato ha ritrovato la leggerezza di ogni gravità permanente. "Ora sono in macchina, l'acustica somiglia a un vento di guerra, ma sono felice. Quando senti di ricevere dall'alto un aiuto esagerato, le miserie scivolano via come affluenti". Tra poche settimane, con titolo in bilico tra la caverna neoplatonica e la Persia "Apriti sesamo", Battiato proporrà un nuovo album, 10 canzoni. Nell'attesa chiuderà i 3 giorni di festa del Fatto, domenica sera, a Marina di Pietrasanta, in concerto con l'arte che da 40 anni, traversando gli sguardi in cui si intravede l'infinito, non ha smesso di affinare. Un'esibizione. Una comunità. I re del mondo disprezzano i troni.

Ricorda il primo palco?

Anni ‘70, Parco Lambro, a Milano. Uno dei pochi posti in cui potevo cantare. Il pubblico era un branco di squali. Sentiva odore di affare ti massacrava.

Domenica sera non accadrà.

Sono contento di venire, ma non ho idea di chi incontrerò. Ormai non mi aspetto più niente. Mi sento in cammino. Un percorso di studio che fa di me un uomo diverso.

Migliore?

Credo di sì, non posso sostenere di essere completamente soddisfatto, né uguale a 10 anni fa. Mi sto evolvendo, cambiando gesti, umore e attitudine nei confronti di chi mi circonda.

Oggi Battiato non ha nemici?

Buddha parla dei tre veleni che opprimono l'uomo. L'attaccamento alle cose, l'ignoranza e l'avversione. Io non odio nessuno, al limite mi annoio. Sogno il dialogo con chi la pensa diversamente da me, a patto che ci si elevi, non rimanendo su una piattaforma circolare, dove alla fine, si torna sempre al punto di partenza.

Lei ha fatto molta strada.

Al princìpio sperimentavo. Erano anni terribili, i '70. Dominava l'ideologia, bastava uno stemma della Coca-Cola per scatenare reazioni inconsulte.

Oggi?

Siamo all'apologia del marchio. Lo schema si è ribaltato.

Bertoncelli scrisse che lei era estremo, che la gente la rincorreva furibonda.

Balle, anche se capisco che raccontare la mia parabola colorandola d'assurdo, diverta. In realtà ho sempre avuto un mio pubblico, ma sul palco, planava una truppa eterogenea.

In che senso?

Usavo una radio a onde corte che poi sintonizzavo su un canale di musica classica. Filtravo il segnale nel mio sintetizzatore e capitò così che in un concerto strozzai artificialmente un soprano che cantava un'aria chiudendo progressivamente il volume del filtro.

E il pubblico?

Sapevo che non poteva apprezzare, ma reagivo all'omologazione . Non c'è nulla che mi interessi meno del pregiudizio altrui. Alla mia età, poi, non mi muove più neanche un capello. O mi vuoi così o me ne vado e forse, ti mando anche a fare in culo. (Ride)

Lo scontro era un'eventualità. De Gregori, al Palalido, rischiò grosso.

Ci passai anch'io. Diecimila persone, altrettanti fischi. Così, per reazione usai gli oscillatori dei miei sintetizzatori tra i 7.000 e i 10.000 hertz. Non si distinguevano più dissenso e parole. Yuri Camisasca era ammirato.

Quando tocco a Yuri?

Salì, si sedette come gli indiani. Non iniziò neanche.

La critica?

A Napoli accompagnai Toni Marcus. Una jam session violentissima, devastatoria. Loro erano figli dei fiori, io offrivo schegge musicali di pazzia pura. Sui giornali, non ebbero pietà: "Battiato ha rovinato completamente l'atmosfera di Marcus".

Improvvisa, l'approvazione.

Mi mise in crisi. A San Giovanni Valdarno, assediato da 20.000 fan, tornai in albergo. Mi svegliai, c'era gente in camera. Il portiere aveva fatto entrare i curiosi per vedere "il mostro che dormiva". Mi strappavano i vestiti di dosso, valutai il ritiro.

Poi?

Sviluppai una poetica diversa e il plebiscito si placò.

Vivere a un'altra velocità?

Non sei bravo perché vendi 25 milioni di dischi e il gusto è un fattore del tutto personale. Certi cantanti, poi, soprattutto se bellocci, sono giudicati per quel quid che abbiamo tra le gambe e non per l'arte.

Il sesso.

L'ordinaria uccisione di troppe donne dipende da una pulsione bestiale. Da un animale che pensa di essere proprietario dei genitali altrui. Ma come ti permetti, brutto cretino?

Fatti non foste a viver come bruti?

Ho messo il verso in una canzone del nuovo disco. I tempi della crisi sono duri. Quando i fiumi sono in piena gli stronzi vengono a galla. Per fortuna mi difendo. Ho pochi contatti con l'esterno, imparo da libri scritti migliaia di anni fa. Se analizziamo le cose, ci accorgiamo di una verità assoluta.

Quale Battiato?

Tutto è legato Alberi, sassi, fiumi, animali e naturalmente gli esseri umani. Come scrisse David Bohm: "Avevano ragione i mistici, non ce ne siamo mai accorti".

Latita anche la Chiesa.

Prenda le esequie del Cardinal Martini. Ratzinger, in un momento simile, sarebbe dovuto andare a Milano a piedi.

Invece?

Ha evitato. Vedrò il film di Bellocchio. Non mi sono dimenticato di certe facce che parlavano di Eluana. Dicevano cose orribili

Lei si piace?

Mi auguro sempre di elevarmi. Di ascoltare un esempio alto, per potermi considerare cretino. E non un idiota per ritenermi intelligente. Sono in movimento. Rispetto a 10 minuti fa, sono già cambiato. Certo, poi l'umanità deve arrivare alla liberazione finale. All'immobilità.

Proprio tutti?

Anche quelli del Pdl.

Dagospia il 18 maggio 2021.Malcom Pagani per il “Fatto Quotidiano” pubblicata da Dagospia il 24 marzo 2015. La voglia di vivere a un’altra velocità, la stessa di sempre: “Ora cammino con le stampelle, ma tra un po’ le butto. Mi dicono ‘Franco, calmati, ci vuole ancora un mese’. Si sbagliano. Penso che nel giro di una settimana la mia frattura non sarà che un ricordo”. Ragionando nell’imminenza della celebrazione su quelli di un’esistenza intera: “Io lavoro sulla spiritualità, cosa vuole che me ne freghi del mio compleanno?” Franco Battiato non si emoziona per il dato anagrafico. Oggi compie settant’anni, lo fa guardando in faccia Milo, Catania e il suo passato. Anche se il tempo cambia molte cose, e opinioni e amicizie non sono necessariamente più quelle di ieri, di tanto in tanto un grido copre ancora le distanze: “In effetti rompendomi il femore al Petruzzelli un po’ devo aver urlato”. Era metà Marzo e Battiato – tornato da un lungo viaggio europeo tra Londra, Parigi, Oviedo e Barcellona e l’Irlanda: “Una cosa pazzesca, a Dublino, introducendo il concerto in inglese mi interrompevano dalla platea ‘parla italianoooo’” – chiudeva la tournée in Puglia cantando di ritmi ossessivi e danzatori bulgari:  “A bordo palco c’era un certo fanatismo. Un entusiasmo impossibile. Cerco di ringraziare e durante la canzone vado a toccare le mani delle ragazze in prima fila. Quelle mi prendono per il braccio. Perdo l’equilibrio, inciampo e cado all’indietro. Ciao Battiato. Una cosa allucinante”.

Quindi, la cronaca racconta di una corsa in ospedale.

Avrei fatto bene a rimanere sdraiato. Farmi spostare a braccia nei camerini non è stata una buona idea. Oltre al dolore, ha provocato una sovrapposizione ossea che ha complicato l’operazione. Ma non si poteva fare altrimenti.

Perché?

E che potevo aspettare l’ambulanza sul palco con il pubblico in sala a piangere il morto? C’erano millecinquecento persone. Non era il caso.

Quanto affetto però. Corsi e ricorsi. Mi sembra di essere tornato agli anni ’80, quando negli alberghi della Versilia, dietro compenso, gli inservienti vendevano ai fan la vista notturna sul cantautore dormiente. In altre forme, si sta verificando tutto quel che mi accadde allora. In Europa avevo previsto esibizioni poco più lunghe di un’ora. Tra un bis e l’altro, non sono mai riuscito a lasciare il teatro prima di due ore e mezza. All’epoca mi turbai, oggi l’affetto mi fa un’altra impressione. Del successo, in generale, non me ne è mai importato nulla.

Dice sul serio?

Non ho mai compiaciuto nessuno. Sono partito dallo sperimentalismo, ho scritto canzoni popolari, girato film, dipinto quadri senza mai accontentarmi della culla protetta o delle sicurezze. Come per magia quelli che mi apprezzavano in una veste, mi hanno dato retta anche quando mutavo essenza senza pretendere che somigliassi a un juxe-box e che a ogni monetina inserita, corrispondesse un loro desiderio. Mi hanno lasciato essere come volevo e se posso dirlo spudoratamente, io sono cambiato e ho fatto tutto il mio percorso solo per loro. Me ne frego delle sicurezze e me ne frego di offrirle. Sa cosa mi diceva Lucio Dalla?

Il suo amico Dalla.

Il mio amico Dalla, certo. "Io inseguo il pubblico, Franco. Tu ti fai inseguire". Sembra una cazzata, ma è vero. Io dei gusti dei fans me ne frego, loro lo sanno. Non ho mai fatto una capatina su Facebook. Non esiste. Se lo possono scordare.

Senza Facebook, ma con settant’anni sul groppone.

Tanto non dominiamo nulla, quindi anche l’età, come molto altro, resta un’astrazione. Giada Colagrande, la moglie di William Dafoe, mi ha mandato un documento importantissimo per spiegarmi il mio piccolo incidente fisico. Lei sapeva esattamente quel che mi sarebbe accaduto.

Un’indovina?

Potrei parlarle di astrale karmico e di cerchi della vita, ma semplificherò perché la gente è scettica e scherza su cose serissime.

La delude?

La delusione è nell’osservare qualsiasi volo ridotto alla tangibilità. Grazie a David Bohm, la scienza è entrata nel campo del misticismo, ma i fisici fanno finta di nulla e sembra che abbiano bisogno sempre di una prova. Di una dimostrazione empirica. Per capire che due persone si amano, devi vederli scopare?

Torniamo a Giada Colagrande. Che documento le ha mandato?

Uno scritto in cui, in parole poverissime, mi dice che nel futuro mi attende quel che il mio inconscio sta preparando. Si va di 9 anni in 9 anni, così per un’altra frattura o per una qualsiasi altra manifestazione rilevante, possiamo riparlarci nel 2024. (Ride).

Rimanendo al 2015 cosa possiamo dirci?

Che abbiamo perso per strada una qualità umana che sarà impossibile recuperare.

Ha nostalgia di qualcosa?

La nostalgia non è un valore. Se la provassi non avrei scritto una canzone come Sui giardini della preesistenza.

“Voglio di nuovo gioia nel mio cuore/ un tempo in alto e pieno di allegria” diceva.

L’unica cosa per cui si può avvertire nostalgia sono i paradisi perduti. Gli angeli nascosti. Ciò che di meraviglioso, magari fugacemente, abbiamo incontrato. Se c’è una cosa bella dell’età che avanza, è in questo miracolo: saper riconoscere la bellezza. Quando mi passa davanti, adesso, la colgo.

“Vorrei tornare indietro per rivedere il passato, per comprendere meglio quello che abbiamo perduto” cantava.

Forse oggi non basterebbe neanche capire. Mi ricordo molto bene i veri siciliani di un tempo. Quelli del dopoguerra. Gente che aveva voglia di vivere e di pensare con la propria testa.

Poi cosa è successo?

Siamo entrati nel regno della vanità. Ci hanno fottuto lì. Prenda i politici di oggi: quando li osservo ho pietà per loro. Mi sento male: santo dio, ma da dove vengono?

Non soffrirà per loro?

Quando vedo gente incapace di spogliarsi delle propria bestialità, soffro sempre. Anche se è una bestialità in giacca e cravatta. Detto questo, aiuterei anche uno come Lupi, uno che mi fa schifo. Anche Renzi. Anche Berlusconi che è un mostro totale. Detesto i politici di oggi, ma non escludo possano cambiare.

Perché li aiuterebbe?

Perché siamo tutti uguali. È inutile dire “Quello è cretino”. Non è escluso che una faccia di merda, un ladro o un delinquente, un giorno non possa essere illuminato da un’intuizione, redimersi e superarti nel percorso della virtù e della conoscenza. Sa qual è una cosa interessante dell’esistenza?

Dica pure.

La possibilità di elevarsi. Il fatto che qualcuno, un mascalzone o un assassino, guardandosi allo specchio, possa improvvisamente riflettere e capire: ‘Ma che cazzo di vita ho condotto fino a ora?’. Succede. Ed è più utile di una sciatta preghiera innalzata pigramente a dio nell’illusorio tentativo di salvarsi. Secondo il calendario del Bardo l’uomo ha sette possibilità di finire in zone elevatissime. Per certi parlamentari, l’eventualità è oggettivamente tenue. Mai dire mai però.

Tra il ’79 e l’82 tra una bandiera bianca e un cinghiale della stessa tinta, l’Italia scoprì Battiato. È vero che ha retrospettivamente abiurato quel periodo.

La parola abiura non mi piace. Ho scritto delle cose più o meno buone e alle quali sono più o meno affezionato. Qua e là, ci sono canzoni a cui qualcuno ha avuto la generosità di riconoscere un valore letterario. All’epoca de Il re del mondo mi chiamarono molti poeti per congratularsi e chiedermi come avessi fatto a scrivere e a inserire senza anatemi del pubblico in un disco vendutissimo: “Strano come il rombo degli aerei da caccia un tempo/ stonasse con il ritmo delle piante al sole sui balconi”. Erano riconoscimenti liberi dall’invidia e dal livore. Telefonate che facevano piacere.

Lei cosa rispondeva?

Che erano frasi venute così, senza particolare rovello. Senza impegno metodologico. Pensi che ai tempi di Prospettiva Nevskij, non ero convinto del testo. Scritto quella canzone tutta di seguito e poi la feci sentire a Giusto Pio: ‘Ma è bellissima’ disse. Io ero scettico, cercavo di convincerlo: "Sicuro? A me sembra una cazzata". Fui lui a spingermi a inciderla: fosse stato per me sarebbe finita nella spazzatura.

È stato severo nel valutarsi in questi 40 anni di percorso?

Credo giusto. Sono stato sempre assai poco geloso delle mie creazioni. Anni fa andai ad ascoltare un gruppo punk di Bologna in un teatro milanese in Via Larga. Mi si avvicina il leader e fa: "Suoneremo una cover di Up patriots to arms, ti dispiace se cambiamo qualche parola?". "Ma cosa vuoi che me ne freghi?". Detto fatto. Salgono sul palco e attaccano: "Mandiamole in pensione quelle facce di merda, ci hanno rotto i coglioni".

Diverso dal suo “Mandiamoli in pensione i direttori artistici/ gli addetti alla cultura”. Si arrabbiò?

Mi sono divertito più in quell’occasione che a cantare migliaia di volte l’originale.

Felice Cavallaro per "corriere.it" il 19 maggio 2021. La lettura di un brano del Libro della Sapienza e di un passo del Vangelo, le Beatitudini, hanno segnato l’ultimo saluto di parenti e amici a Franco Battiato, scomparso martedì a 76 anni, nella cappella annessa a Villa Grazia, questo gioiello verde che il maestro aveva scelto come suo buen retiro. Qui, sotto l’Etna, a Milo, in una giornata di sole sarebbero arrivati a migliaia, ma la famiglia, il fratello Michele, sua figlia Grazia, hanno scoraggiato tutti optando per un rito privato. Con l’ingresso del giardino aperto solo ad amici cari come i musicisti più legati a lui, Alice, Carmen Consoli, Luca Madonia, Giovanni Caccamo e pochi altri.

I compagni buddisti. Ma c’era anche un gruppo di “compagni buddisti” ad ascoltare l’omelia di padre Guidalberto Bormolini, il sacerdote arrivato da Prato, presidente di TuttoèVita, una antica frequentazione con Battiato, e del parroco di Linguaglossa, don Guidalberto Bormolini, monaco e teologo, che tratteggia il trasporto mistico del poeta tante volte incontrato: «Un sincero e onesto ricercatore spirituale, un artista che aveva fatto della ricerca del divino uno scopo di vita».

Il saluto dell’Etna. Un rito concluso mezz’ora dopo mezzogiorno quando dal cancello del giardino è comparsa fra gli applausi la macchina funebre con la bara di Battiato coperta da un cuscino di rose gialle. Ultimo viaggio con ritorno perché, dopo la cremazione, l’urna sarà collocata nella villa intitolata alla madre di Battiato. Espressa volontà del cantautore che tanti ammiratori avrebbero voluto raggiungere sotto l’Etna, il gigante buono dal quale Battiato trovava ispirazione e che a suo modo ha voluto salutare questo mistico artista. L’ha fatto a mezzanotte con una eruzione leggera, quasi educata, come la descrive il vulcanologo Boris Behncke in un post su Facebook: «Sarà come dicono da queste parti che l’Etna abbia voluto mandare il suo saluto al grande maestro defunto. Lo ricorderemo così, non come parossismo numero 18’ (o ‘numero 22’ se si conta dal 13 dicembre 2020). In maniera del tutto sorprendente, intorno alla mezzanotte, si è riattivata la ‘Bocca della sella’ al cratere di Sud-Est, e fino all’alba ha dato uno spettacolo sublime...».

La folla degli ammiratori. Un po’ di cenere è arrivata a lambire Villa Grazia, una carezza del gigante attorno alla dimora dove è stata chiamata una agenzia specializzata per il servizio d’ordine. Ma è risultata discreta la presenza di carabinieri, agenti privati, vigili urbani, tutti sull’attenti al passaggio del feretro. Come è stata discreta la folla dei cronisti che rispetta le distanze e il momento limitandosi a qualche domanda rivolta agli ammessi. «Amici stretti?», chiede una giornalista. E un signore con i capelli grigi: «Amici da una vita». Non arrivano potenti, ma persone semplici, qualche parente. Un centinaio in tutto. Bussano al citofono e attendono perché ogni nome, ogni volto va controllato dal fratello Michele, da sua moglie o da Said, lo storico autista tuttofare, intristito come Anna la governante.

Il ritorno del poeta. Un dolore riflesso nel manifesto del «lutto cittadino» proclamato dal sindaco Alfio Cosentino, negli striscioni per strada, sul cartello affisso all’inferriata della villa: «Ora guarirai da tutte le malattie». Dall’interno, un bimbo si affaccia incuriosito da parabole e telecamere, scruta dalla balaustra del passaggio rialzato, in giacca blu, giocando con una pallina da tennis, accanto a un gazebo dove si raccolgono amici, parenti, colleghi del maestro che nel buen retiro di Milo tornerà presto, senza andare più via.

Carlo Massarini per rewriters.it il 21 maggio 2021. Noi non siamo mai morti. Noi non siamo mai nati. Un’anima antica è rientrata nei reami interiori, si è ricongiunta con l’Assoluto. Il percorso del più originale cantautore (in senso molto lato) dei nostri tempi si è compiuto, lasciando dietro di sé tonnellate di ricordi, di momenti memorabili, di intuizioni geniali, di messaggi subliminali. A volte mascherati, a volte espliciti. Siamo noi, adesso, che dobbiamo trovare, aldilà dei ritornelli orecchiabili, aldilà dell’evidente rispetto che dobbiamo a un grande artista, il senso di quello che ha scritto, che ha cantato. Franco Battiato è stato un rivoluzionario. Uno che è entrato nel campo del pop portando con sé un bagaglio di esperienze diversissime – dalla musica leggera anni 60 all’elettronica, dalla contemporanea all’etnica, dalla musica classica al rock duro e indie – riuscendo a crearne una sintesi alta, sofisticata e accessibile insieme, cantabile e a volte persino ballabile. Questi tappeti sonori, magici e volanti, ci hanno fatto planare su mondi lontanissimi, ci hanno fatto capire che la musica è una, è quella che nasce dall’incontro di radici e di realtà quotidiane fra le più disparate. Dall’occidente all’oriente, e tutto ciò che ci sta in mezzo. Battiato diceva che la musica era la cosa importante, che i testi erano scritti di conseguenza, ma mica è vero. I testi di Franco sono un lascito prezioso, sui quali riflettere e cercare di vedere, aldilà dell’apparenza. Certo, molti sono collage di parole, alla cut&paste di Burroughs, che suonano bene, che fanno sorridere e lasciano farsi prendere in giro, ma occhio: è anche lo svelamento che il pop di massa non ha bisogno di contenuti soggettivi, di significati personali, può essere benissimo consumato per i suoi contenuti superficiali, in cui più persone possibili possono ritrovare un’identificazione non profonda, ma bellamente ludica. Ma a parte che anche nelle citazioni più strambe ci sono dietro citazioni a 360°, fra le righe di quasi tutte le canzoni c’è ben altro. Senso civile, certo, Povera Patria è uno struggente lamento di perdita di etica e visione di una (parte di) nazione. La cura è una canzone d’amore e devozione totale altrettanto toccante, e rimane uno dei messaggi più puri, più confortanti, che siano mai stati messi in versi. Un balsamo per anime ferite. Ma il vero tesoro che Battiato ci ha lasciato a piccole dosi a 33 giri per oltre 40 anni, e che adesso ci ritroviamo a poter valutare nel suo insieme, è una visione interiore. E’ il senso di una persona che ha fatto dell’evoluzione una missione. E’ l’aver fatto da interfaccia, da messaggero, fra l’esoterismo di cui è stato ricercatore e praticante e chi era pronto ad ascoltare. In mezzo ai nonsense e alle frasi più descrittive, ci sono perle di saggezza, gocce di spiritualità, essenza di misteri che solo i nomadi dello spirito hanno intuito, a volte conquistato. E’ quella la vera eredità. Sono messaggi di ispirazione, indicazioni e svelamenti per farci riflettere e crescere, per liberarci un po’ alla volta dell’animale che è in noi, per farci trovare l’alba dentro il nostro quotidiano imbrunire. Un mistico in cima alle classifiche, questo è un gioioso miracolo di questa epoca spesso senza luce. Ciao Franco, non hai solo fatto della musica meravigliosa, hai toccato la nostra anima anche se la mente non lo sapeva, ed è questo il regalo più bello che qualsiasi persona, non solo artista, può fare per noi che rimaniamo.

PS. Attraversando il Bardo, ovvero il percorso dopo la morte, film che Franco ha prodotto sette anni fa, mi sembra la maniera migliore per ricordarlo: eccovi il film completo.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2021. Grandi omaggi televisivi a Franco Battiato. Ne abbiamo scelti tre, per la loro diversità. Martedì sera la puntata di Blob era interamente dedicata al cantante. Poi è toccato a Che tempo che fa, sempre su Rai3, riproporre la partecipazione del maggio 2013. Infine, Sky Arte ha riproposto «Battiato Live @ PirelliHangar Bicocca», il concerto del 2016. Per oltre un'ora, l'artista ha regalato alla platea una scaletta di tutto rispetto. Da L' ombra della luce a La Cura, il cantante ha rispolverato i grandi classici del suo repertorio, accompagnato dall' Ensemble Symphony Orchestra, confermando tutta l'originalità e la potenza del suo stile. Con Fabio Fazio abbiamo rivisto un Battiato seduto su un tappeto orientale che misura le risposte, che rimanda ad atmosfere esoteriche (quanto meno new age), che ci tiene a trasmettere il pathos di un pensiero solitario. È un Battiato indeciso se seguire il suo nuovo «paroliere» Manlio Sgalambro, secondo cui l'indifferenza è il maggior sforzo che si possa fare per l'altro, o se cedere alle sirene dei media piazzando le sue canzoni più trascinanti. Ovviamente è Blob l' occasione che ci permette di capire meglio l' universo dell' artista siciliano. Perché Blob è fatto di frammenti, esattamente come molte canzoni di Battiato: frammenti di pensieri, di immaginari, di citazioni. Molte sue canzoni esprimono la vertigine della lista (piene come sono di soggetti, di argomenti, di elenchi), un modo per definire le cose per essenza e per creare un paesaggio composito, dove sono essenziali sia Gurdjieff che le «immondizie musicali». Le canzoni di Battiato sono prima di tutto un gioco e come tali andrebbero interpretate perché rappresentano un filone della cultura italiana ancora tutto da decifrare: il kitsch colto, da non confondersi con il camp. La sua interpretazione che mi emoziona di più è La canzone dei vecchi amanti di Jacques Brel. 

La scomparsa di Franco Battiato: le parole della famiglia del cantautore. Denise Ragusa il 22/05/2021 su Notizie.it. Il 18 maggio 2021 è stato il giorno della scomparsa di Franco Battiato, a distanza di qualche giorno, la famiglia ha pubblicato alcune parole su Facebook. La scomparsa di Franco Battiato, avvenuta all’alba di martedì 18 maggio, nella sua abitazione di Milo, ha suscitato grande emozione e commozione tra i protagonisti del mondo dello spettacolo, della musica e della politica, ma anche tra i suoi tantissimi fans. Arrivano qualche giorno dopo quel 18 maggio, che si è portato via Franco Battiato, le parole della famiglia del noto cantautore e compositore italiano, che ha sicuramente lasciato un vuoto incolmabile nel cuore di molti. Così nella giornata del 22 maggio 2021, un post è apparso sulla bacheca Facebook del profilo ufficiale di Franco Battiato ed è stato scritto proprio dalla sua famiglia. Ecco le dichiarazioni dei familiari del cantautore: “La famiglia Battiato ringrazia il mondo della politica, della cultura, dello spettacolo, i giornalisti e gli innumerevoli fans che in questi giorni hanno ricordato Franco con grande affetto e stima, rispettando la sua riservatezza”. Un post commosso e sincero quello scritto dalla famiglia di Battiato, che ha voluto rendere grazie, a distanza di qualche giorno dalla morte del cantautore, a tutte le persone che hanno manifestato il proprio cordoglio per il triste accaduto. La morte di Franco Battiato, si può definire esclusivamente fisica, il suo ricordo, la sua musica e la sua presenza sono infatti ancora aspetti estremamente vivi, all’interno della memoria collettiva di un’intera nazione, quella italiana. I funerali di Battiato si sono svolti mediante una riservatissima cerimonia, celebrata alla presenza dei parenti e degli amici più cari. L’ultimo saluto al cantautore siciliano si è svolto in maniera riservata, per un uomo che viveva ormai da tempo proprio la sua vita in maniera riservata, in un piccolo paesino alle pendici dell’Etna. Tra i tantissimi messaggi di cordoglio espressi in occasione della scomparsa del grande Maestro, Franco Battiato, uno tra tutti è stato quello del cantante Morgan. Ecco cosa ha scritto su un post pubblicato su Instagram: “Santo cielo non avrei mai voluto arrivasse questo momento, mi fa tanto male e mi fa pensare alla sua bontà, alla sua ironia, la sua intelligenza. Battiato era uno degli ultimi veri uomini di cultura, in questa Italia mediocre e spenta. Finchè è stato al mondo potevo dire che c’era qualcuno che mi capiva. Adesso sia io sia la maggior parte del mondo che mi circonda siamo alla deriva, abbiamo quasi esclusivamente cattivi esempi: egoismo utilitarismo ed ignoranza. Ecco Battiato era il contrario esatto: un leader umile, generoso e colto. Mi ha sempre chiamato Morganetto. Pace alla sua anima”.

Da liberoquotidiano.it il 22 maggio 2021. Se gli artisti si scannano giù sull'eredità "culturale" di Francesco Battiato, per quanto riguarda il suo patrimonio "materiale", il Maestro non ha molto da lasciare, se non un villino e una depandance dove ha vissuto fino alla fine a Milo, provincia di Catania, un appartamento a Milano e quel che resta dell'Ottava srl, la sua società. Rivela Franco Bechis su Il Tempo che il Maestro acquistò la casa di Milo nel 1988 per 40 milioni di lire dell'epoca. La casa è stata ristrutturata e ampliata negli anni e non si sa quale possa essere il suo destino. Il fratello di Battiato, Michele, provò a metterla in vendita tempo fa, con Franco malato, ma quando la notizia uscì il mandato all'agenzia immobiliare fu ritirato. Battiato non era autosufficiente da molto tempo e Michele, con moglie e la figlia avvocato viveva a Milano dove avrebbe voluto trasferirlo. Oggi quella villa che erediterà proprio la nipote a cui sembra Battiato "volesse lasciare ogni bene, è una sorta di casa-museo con la storia e il patrimonio artistico e culturale di Battiato", scrive Bechis. "Il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, secondo quanto risulta a II Tempo, sarebbe disposto ad occuparsene e trovare una soluzione per proteggerla come un bene culturale nazionale. Ma non è mai stato contattato dai familiari di Battiato e non può certo muoversi senza richiesta dei legittimi eredi". Poi c'è un appartamento a Milano, vicino a corso Italia: nove vani più un posto auto. Mentre il resto del suo patrimonio è racchiuso in una società di Giarre, l'Ottava srl, che nell'oggetto sociale ha la "edizione di libri, periodici ed altre attività editoriali e che al 99% era controllata da Franco Battiato - che per anni ne è stato amministratore unico - e all'1% dal fratello Michele". La società però oggi vale ben poco. "Anzi, a questo proposito sembra esserci un vero e proprio giallo", rivela Bechis. "Al registro della Camera di commercio sono depositati tutti i bilanci fino al 2017, ultimo anno in cui il cantante ne è stato amministratore. Poi si passa direttamente al bilancio della società al 31 dicembre 2019. Si sa solo che - per le note ragioni di salute del musicista - il 5 gennaio 2018 nella amministrazione unica subentrò il fratello, Michele, che ne ha avuti i pieni poteri", "il suo patrimonio però proprio in quel 2018 è diminuito sensibilmente. Le disponibilità liquide che a fine 2017 ammontavano a 751.977 euro a fine 2018 sono scese a 75.795 euro, con 676 mila euro circa che sono volati via dai conti correnti." Non solo, conclude Bechis, "La società aveva a patrimonio netto una riserva straordinaria di 1.332.551 euro a fine 2017, che l'anno dopo è scesa a 458.224 euro (-874 mila euro) e nel 2019 si è ancora assottigliata a 387.830 euro. Si è assottigliata anche la partita dei crediti esigibili indicata nello stato patrimoniale, che nel 2017 erano 448.820 euro ma l'anno dopo ammontavano a 143.541 euro. Non essendo stato depositato come prevedeva la legge il bilancio di quell'anno diventa impossibile comprendere cosa sia accaduto: se quei crediti si siano rivelati inesigibili o se invece siano stati incassati". Insomma, "resta un mistero quindi cosa sia accaduto in quel 2018, in cui di fatto la società ha perduto fra liquidità e patrimonio qualcosa come due milioni di euro".

Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 24 maggio 2021. Povera patria. "Franco Battiato, grande Artista ma piccolo Uomo" (Matteo Salvini, 27.3.2013). "'Perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te'. Una preghiera, un ricordo e una canzone per il grande Maestro, Franco Battiato" (Matteo Salvini, 18.5.2021). "Salvini? Cambio canale" (Franco Battiato, Ottoemezzo, La7, 12.11.2015). (…) Il rosicone. "Di Gurdjieff si sa che ispirò anche Gianroberto Casaleggio, forse Beppe Grillo, e probabilmente certi ultimi tristi duetti del Maestro con Marco Travaglio. Ma di questo non si può dare colpa a nessuno" (Alberto Piccinini, Domani, 19.5). Triste sarai tu, noi ci siamo divertiti moltissimo. Comunque, se ti sbrighi, sei ancora in tempo a farti un duetto con Pupo. (…) Il titolo della settimana/4. "Nessuno dirà che Battiato era di destra" (Renato Farina e Francesco Specchia, Libero, 19.5). Forse perché non lo era.

Da repubblica.it il 12 settembre 2021. Morgan lancia l'appello: modificare il nome inciso sulla lapide di Battiato. Non quello di battesimo, Francesco, ma Franco, quello con cui il cantautore siciliano è noto al grande pubblico «per il rispetto che gli è dovuto», si legge nel lungo post pubblicato su Facebook dal cantante. Ed è subito polemica. «Franco Battiato è stato e sempre sarà uno dei più grandi artisti che l'Italia ha cantato e sempre verrà ricordato con questo nome. Perché allora sulla lapide che ne dovrebbe portare iscritta la memoria è stato inciso nel marmo Battiato Francesco?», scrive Morgan. A sostegno della propria tesi, menziona Leonardo Da Vinci e David Bowie. «Conoscete Leonardo Da Vinci? Si. Perché ha dipinto la Gioconda. Il mondo si ricorderà per sempre e custodirà questa opera firmata da un toscano del Quattrocento chiamato Leonardo». E, al contrario, «conoscete Robert Jones? Onestamente no. Ma come? È uno dei più grandi comunicatori del '900 e anche dei cantanti e anche dei performer. Ma davvero? Strano, non lo conosco». Il signor Robert Jones è, in effetti, niente meno che David Bowie. Insomma, le cose esistono perché hanno un nome, si direbbe in filosofia scomodando Platone, e - per Morgan - Battiato andrebbe ricordato con il nome con cui è esistito per tutti: Franco.  Il controverso artista milanese va oltre. Definisce inelegante la scelta di anteporre il cognome di famiglia al nome proprio di persona e pubblica, a corredo del post, la foto della lapide di Battiato. Una scelta quest'ultima aspramente criticata dal popolo della rete: «Che bassezza! Pubblicare la foto della lapide privata di un uomo che ha fatto della riservatezza il suo marchio di fabbrica», si legge tra i commenti. La crociata social di Morgan corre veloce tra il popolo della rete e scatena migliaia di commenti negativi. «Sarà pure un diritto della famiglia decidere, o no?», scrive qualcun altro. E ancora: «Franco Battiato rimane per il suo pubblico Franco Battiato qualunque cosa ci sia scritta sulla lapide, la tomba è per la famiglia, l'artista è celebrato attraverso la sua musica». Tra i commenti si legge anche la spiegazione del nome d'arte del cantautore scomparso a Milo il 18 maggio scorso: «Il nome Franco glielo diedero Giorgio Gaber ed Ombretta Colli poco prima di salire sul palco in una lontana trasmissione Rai degli anni '60. Per non confonderlo con l'altro Francesco debuttante di giornata in televisione, Guccini».

Aldo Grasso per “Oggi” il 28 maggio 2021. Quando muore un personaggio importante nelle redazioni dei giornali e delle televisioni scatta la gara a chi l'ha conosciuto meglio e, di solito, i pezzi di commemorazione finiscono per parlare più dello scrivente che dell'illustre scomparso. È successo tante volte, è successo anche con Franco Battiato: «Mi ricordo quella volta che mi disse...», «Una sera Franco mi prese e mi confidò...», «Ho scritto con lui il testo di una canzone...», «Franco non era solo il cantante che tutti conoscono, per me era un amico», «Ho conosciuto Franco quando era un illustre sconosciuto...», e così via. Tra i primi a commentare la scomparsa è stato Dario Franceschini, il ministro della Cultura: «Ci ha lasciato un Maestro. Uno dei più grandi della canzone d'autore italiana. Unico, inimitabile sempre alla ricerca di espressioni artistiche nuove. Lascia una eredità perenne». E uno subito immagina Franceschini che canta «Cuccurucucu paloma/Ahia-ia-la-lai cantava/ Cuccurucucu pa/oma/ Ahia-ia-ia-lai cantava». «Ciao Stranizza d'amuri, Maestro di molti. Oggi piangiamo in tanti», scrive Levante su Instagram citando uno dei più noti brani in dialetto siciliano dell'artista. Più sobrio Marco Mengoni: «Che grande tristezza. Sono senza parole». Per Roby Facchinetti «il mondo della musica ha perso un grande e impareggiabile artista. La tua sensibilità artistica e umana, ha saputo con nobiltà, trasmettere a noi tutti la grande bellezza della musica. Grazie e buon viaggio artista vero». Poi è toccato ai televisivi. «A te caro Franco, con il cuore colmo di tristezza dedico il mio silenzio nel ricordo delle emozioni e dei sorrisi che mi hai regalato», scrive Fabio Fazio. «Se ne va il più grande poeta contemporaneo. Dopo tante sofferenze, che la terra ti sia lieve», gli fa eco Simona Ventura. «Addio Maestro, che dispiacere! Ti ricorderemo sempre attraverso la tua meravigliosa musica, di cui avremo cura», dice Stefania Orlando. Ombretta Colli: «Franco Battiato è stato un amico del cuore, un compagno inseparabile fin dai primi anni della mia carriera musicale. Si presentò la prima volta alla porta di casa alle prime ore del mattino buttandomi giù dal letto. Non so cosa mi spinse ad aprire, so solo che poche ore dopo avevamo consolidato un'amicizia che mai si sarebbe allentata o scalfita». Ma anche Caterina Caselli: «Battiato? L'ho scoperto io insieme a Guccini. Facevamo meditazione trascendentale». Ma il commiato più incredibile l'ha firmato Povia, il cantante più lontano che esista dalle sensibilità di Battiato. Ha straziato la canzone La cura, promettendo di prendersi cura dello scomparso. Se andate su YouTube ne avrete la prova.

Tutto il pop ricorda Franco Battiato. Paolo Giordano il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Nannini, Jovanotti, Morandi e gli altri: ieri all'Arena di Verona un concerto unico. Ma che atmosfera c'è qui all'Arena di Verona per «Invito al viaggio», il concerto- tributo a Franco Battiato che è mancato il 18 maggio e che proprio quarant'anni fa pubblicò La voce del padrone, uno dei dischi più importanti della musica d'autore italiana. Una gigantesca rassegna di artisti - da Jovanotti alla Nannini a Capossela a Emma ad Alice, Morgan, Carmen Consoli, Max Gazzé e Mahmood tra gli altri - che sono arrivati giusto per ricordare l'artista che sfugge a ogni catalogazione e che, adesso, si trova senza eredi. Forse per questo «Invito al viaggio», con la direzione artistica del grande Francesco Cattini, dell'impareggiabile Stefano Senardi, di Carlo Guaitoli e del leggendario Pino «Pinaxa» Pischetola, si è rivelato una sorta di «compendio ex post» della carriera di Battiato, una rivisitazione della sua musica come è stata ascoltata, vissuta e rielaborata dagli altri artisti. Per capirci, già nel pomeriggio le prove avevano quell'«aura di sacralità» che di solito non c'è nei grandi eventi. L'Arena di Verona quasi deserta, ovviamente. Il palco pieno di tecnici, fonici, musicisti e basta. E gli artisti che uno dopo l'altro provavano il brano che poi, sul palco davanti al pubblico, avrebbero dedicato a Battiato. Emma sontuosa e sofferta con L'animale. Morandi inaspettato in Che cosa resterà di me. Mahmood con una versione di No time no space che ha strappato i complimenti addirittura di Pinaxa, praticamente il «creatore di suoni» di Battiato grazie a una cura e una confidenza lunga decenni. E che questo artista siciliano fosse completamente anomalo lo dimostra anche che al suo tributo sia arrivata Cristina Scabbia, la cantante dei Lacuna Coil, uno dei gruppi heavy metal più seguiti in assoluto. All'apparenza due mondi distanti, quello del metal e quello di Battiato. Ma poi, quando lei ha iniziato Strani giorni con (anche) Saturnino al basso, si è capito che questa distanza non c'era o, se c'era, non era così abissale. In fondo, in tutta la sua carriera, Franco Battiato è andato oltre a ogni classificazione, ha scardinato i legacci della musica d'autore togliendo le zavorre formali e quelle politiche. Ha aperto le finestre della canzone. E ieri sera, su di un palco essenziale e benedetto da un pubblico di affezionarti e conoscitori, il concerto è stato come nelle premesse: autentico. Così autentico da andare oltre le catalogazioni retoriche, i saluti stucchevoli, le dediche tanto per. Una essenzialità sentimentale che si notava anche durante le prove, quando davvero l'artista si mette a confronto con il «totem«, ossia la canzone che deve interpretare. Se poi la canzone è un capolavoro conosciuto da tutti, potete immaginare la tensione. E invece no. Ieri all'Arena di Verona c'è stata una festa che è andata oltre i limiti formali o stilistici, è stata l'ideale celebrazione di un artista che odiava le celebrazioni e che quindi mirava alla sostanza, al nocciolo dell'arte. E si era circondato di (pochi) amici, ma amici sul serio. Quando alle prove è arrivato Lorenzo Jovanotti, ospite annunciato all'ultimo momento, ha abbracciato Gianni Morandi dopo aver cantato L'era del cinghiale bianco di fianco a Saturnino. E nel loro abbraccio c'era entusiasmo, non dolore. C'era la gioia di poter interpretare pezzi complicati ma essenziali che sono stati decisivi per tutti. Come ha scritto Lorenzo su Instagram «dopo due anni esatti torno sul palco» proprio per Battiato. E così hanno fatto tutti. Nell'omaggio più sincero da tanto tempo a questa parte. Paolo Giordano

Complesso e semplice: Battiato era il vero "artista totale". Morgan il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Franco Battiato è molto importante nella cultura del nostro Paese. E forse non solo del nostro Paese. Un artista così importante è sicuramente una risorsa per l'evoluzione della civiltà. Perché? Perché Battiato, con quella curiosità che l'ha spinto sempre in territori inesplorati, ha sempre connesso zone diverse che non erano collegate, che non avevano margini in comune. Per capirci, dischi alla stregua di Come un cammello in una grondaia hanno messo insieme il popolo e l'arte. Quello non è semplicemente un disco. È un intellettuale che ha spinto all'apertura intellettuale. Ha «acculturato» il popolo. Ha ristrutturato l'idea stessa di Accademia. E il tributo di ieri sera all'Arena di Verona si è rivelato un grande abbraccio musicale perché il segno di Franco Battiato è stato talmente trasversale da andare al di là delle generazioni e delle ideologie politiche. Battiato entra nella vita di tutti perché questa sua grande capacità di esprimere la vita stessa non è solo estetica ma anche etica. Mi spiego meglio. Dentro una sua canzone c'è il bello ma c'è anche il buono. Perciò dall'inizio degli anni Novanta abbiamo iniziato a chiamarlo «maestro». Non un maestro come quello che trovi a scuola, con tutto il rispetto per loro. Ma un maestro come quello che trovi fuori da scuola, nella vita di tutti. Non a caso, la sua complessità è enorme. C'è un aspetto etico, come abbiamo detto. C'è quello artistico, ovviamente. E c'è quello spirituale. Che molti hanno sentito, percepito e assimilato. È un aspetto che non c'è negli altri cantautori. Proprio per questo, la completezza di Battiato è totale. Assoluta. E, paradossalmente, questa complessità si combina con un essere umano totalmente semplice. E senza quelle spigolosità che si incontrano spesso negli artisti. Lui era armonico. Nel brano È stato molto bello, dal disco Gommalacca, canta che «io non invecchio niente più mi incatena». Un testo di Manlio Sgalambro, una figura molto importante per Battiato. Avevano una relazione ironica, loro due, si davano addirittura del lei. Insomma, Battiato aveva incontrato qualcuno che era più Battiato di Battiato. Il testo de La cura, ad esempio, è di Sgalambro. Facendo Gommalacca, chiesi a Battiato perché non scrivesse più i testi delle canzoni. Mi rispose che, da quando era morta sua mamma, lui non aveva più messo mano a nessun testo. Ora lascia una grande eredità. E che cosa si farà di questo lascito? Ho sollevato la questione della lapide, che è stata male interpretata. Ma, a parte questo, il lascito è da trattare con grande rispetto. Lui non assomigliava a nulla e quello che ha fatto è al cento per cento originale. Chi potrà prendere in mano questo messaggio e trasmetterlo? Non lo so. Basta solo che non venga sfruttato. La cosa più orrenda e schifosa è quando si usano i grandissimi artisti come fossero fenomeni commerciali. Morgan

Sgarbi e Al Bano cacciati a fischi al concerto all'Arena di Verona per Franco Battiato. La Repubblica il 22 settembre 2021. Vittorio Sgarbi sale sul palco della serata-omaggio a Franco Battiato e il pubblico dell'Arena fischia a tal punto che il critico d'arte deve abbandonare la scena. Con lui anche Al Bano, evidentemente imbarazzato di fronte all'inaspettata reazione dei fan del Maestro. È quanto avvenuto martedì sera a "Invito al viaggio", il concerto dedicato a Franco Battiato, recentemente scomparso, in Arena di Verona. Alice, Fiorella Mannoia, Colapesce e Dimartino, Eugenio Finardi e Jovanotti: sono solo alcuni dei numerosi artisti arrivati per ricordare il Maestro. Fuori programma, a dare il loro saluto si sono presentati anche Vittorio Sgarbi e Al Bano. Ad annunciarli è stato Umberto Broccoli, di fatto il narratore della serata. I due sono stati accolti tra i fischi di mezza Arena. "Fascista", grida qualcuno all'indirizzo del critico d'arte. E ancora: "Sei inopportuno, vai via". A fatica Sgarbi riesce a parlare tanti sono i fischi e prima di andarsene fa un cenno alla sorella tra il pubblico: "Saluto mia sorella e tanto mi basta, e a quelli che mi insultano dico "siate felici"". Detto questo, il ferrarese ha quindi abbandonato il palco. Stessa sorte è toccata ad Al Bano, forse colpevole solamente di essere entrato in scena con Sgarbi. Imbarazzato, il cantante pugliese ha cercato di sdrammatizzare: "Se sono qua è colpa di Sgarbi. Ma la miglior cosa è che come sono arrivato, me ne vada". Un siparietto poco piacevole in una serata che fino a quel momento aveva dimostrato ben altro calore.

Maria Volpe per corriere.it il 23 settembre 2021. «In questo istante sono diventato nonno per la terza volta. È nata la terza figlia di mia figlia Cristel. Si chiama Rio Ines». Sono le 9.45 di giovedì 23 settembre e Al Bano è al settimo cielo per la terza nipotina. Cristel sta a Zagabria «e appena potrò prendo un aereo e vado a vederla. Ora sono occupato con le prove di “Ballando con le stelle”». 

La serata all’Arena di Verona per Battiato. Al Bano è di ottimo umore e quindi racconta quasi divertito l’episodio di martedì sera quando è salito sul palco dell’Arena di Verona ed è stato fischiato insieme a Vittorio Sgarbi. Pochi minuti e se ne sono andati. C’era in corso una bella serata organizzata in memoria di Franco Battiato cui partecipavano tantissimi artisti, da Morandi a Mannoia, da Jovanotti a Morgan. Perché gli insulti a voi due? «Incomprensibili. Direi i 5 minuti più inutili della mia vita artistica» 

L’insulto «fascista». Al Bano racconti come è andata? «Io e Sgarbi eravamo ad Abano, c’era una manifestazione del personaggio dell’anno e mi hanno premiato. Terminata la serata Sgarbi mi dice: “Andiamo all’Arena di Verona che c’è anche mia sorella . Arriviamo, e il direttore artistico Gianmarco Mazzi ci porta dietro le quinte. Io non sapevo nulla. Vittorio mi dice “Dai saliamo sul palco”. 

Entriamo e la gente urla “Fascisti, fascisti”. Mi son trovato in un girone dantesco. Mi chiedevo “sogno o son desto?”. A quel punto mi sono scusato e sono uscito». Ma perché l’insulto «fascista»? «Questo proprio non lo so. Sono antipolitico da sempre». 

La violenza choc contro Al Bano e Sgarbi: cosa è successo al concerto. Samuele Finetti il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Il cantante e il critico d'arte sono intervenuti nel corso di una serata in omaggio a Franco Battiato. Il pubblico li ha sommersi di fischi. Al Bano: "I cinque minuti più inutili della mia vita artistica". Quella di martedì 21 settembre avrebbe dovuto essere una serata di celebrazione della musica di Franco Battiato, il maestro siciliano scomparso lo scorso 18 maggio. Il palcoscenico delle grandi occasioni - l'Arena di Verona - una cinquantina di artisti di punta della scena musicale nostrana (Mannoia, Morandi, Alice per dirne alcuni) e biglietti esauriti da tempo. Uno spettacolo "macchiato" dai fischi ingenerosi e dagli insulti choc rivolti da un gruppo di maleducati ad Al Bano e Vittorio Sgarbi, amici del cantautore nato alle pendici dell'Etna, che sono saliti sul palco per un breve omaggio. Ancora prima che dicessero qualcosa, i due sono stati sommersi dai fischi. Il primo a prendere la parola, mentre volavano insulti, è stato il cantante pugliese: "Vorrei dedicarvi un sonetto - ha detto rivolgendosi alla platea - vorrei dedicarvi una poesia, vorrei fare tante cose di quelle che avevo in mente di fare, ma la miglior cosa è che io me ne vada così come sono arrivato". Poi il microfono è passato al critico d'arte che, dopo aver salutato la sorella Elisabetta, ha augurato "di essere felici" a chi lo insultava. Due giorni dopo l'accaduto è lo stesso Al Bano a dare la sua versione dei fatti: "Io e Sgarbi eravamo ad Abano - racconta a freddo al Corriere della Sera - c’era una manifestazione del personaggio dell’anno e mi hanno premiato. Terminata la serata Sgarbi mi dice: “Andiamo all’Arena di Verona che c’è anche mia sorella. Arriviamo, e il direttore artistico Gianmarco Mazzi ci porta dietro le quinte. Io non sapevo nulla. Vittorio mi dice “Dai saliamo sul palco”. Entriamo e la gente urla “Fascisti, fascisti”. Mi son trovato in un girone dantesco. Mi chiedevo “sogno o son desto?”. A quel punto mi sono scusato e sono uscito". Tra gli insulti urlati, anche quello di essere "fascisti": "Incomprensibile - commenta il cantante - mi sono sempre dichiarato apolitico". E conclude, quasi divertito: "Sono stati i cinque minuti più inutili della mia vita artistica".

Samuele Finetti. Nato in Brianza nel 1995. Due grandi passioni: la Storia, specie quella dell’Italia contemporanea, che ho coltivato all’Università Statale di Milano, dove mi sono laureato con una tesi sulla strage di piazza Fontana. E poi il giornalismo, con una frase sempre in mente: «Voglio poter fare, soltanto, una cronaca di fatti e di parole veri». Ostinatamente prezzoliniano 

"Io insultato da quei talebani...": il racconto di Sgarbi. Samuele Finetti il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Il critico d'arte: "Battiato era un mio caro amico, ma i talebani del battianesimo hanno ritenuto che fossimo inadeguati". Fischi, insulti, “vergogna” e “fascisti”. È l’accoglienza riservata a Vittorio Sgarbi e Albano Carrisi dal pubblico della serata in ricordo di Franco Battiato, organizzata martedì 21 settembre nell’arena di Verona. Una violenza verbale e sonora incomprensibile, specie durante un concerto che ricordava uno dei più grandi artisti della nostra musica. A spiegare come sono andate le cose è proprio il professor Sgarbi.

Professor Sgarbi, cos’è successo a Verona?

"In realtà quella sera ero da un’altra parte. Ero a Catajo, vicino Padova, dove si trova uno splendido castello, il più bell’edificio del Veneto dopo le Ville, che io ho salvato da un centro commerciale di 400.000 metri cubi che doveva essere costruito proprio di fronte. È una battaglia che ho cominciato quattro anni fa. I costruttori hanno pure fatto ricorso al Tar e, di recente, al Consiglio di Stato, ma hanno perso. Così il proprietario del castello ha deciso di dedicarmi una lapide. In occasione della posa è stata organizzata una grande serata con Iva Zanicchi, Valeria Marini e Al Bano".

Riformuliamo: com’è capitato a Verona?

"Più o meno alle 22.00, mi viene in mente che mia sorella Elisabetta mi ha detto che Morgan e gli Extraliscio, quella stessa sera, avrebbero suonato a Verona. Ero convinto che fosse una cosa di famiglia, dato che Morgan è un amico e gli Extraliscio sono stati lanciati da mia sorella. Al Bano si convince subito e così partiamo. Arriviamo alle 23.00 all’Arena e ci sediamo tra il pubblico. Chiedo a una ragazza il programma della serata. Vedo i nomi dei cantanti – tutti importanti: Morandi, Mannoia, Branduardi - e la ragazza dice che il titolo è “Oriente e Occidente. Aria di rivoluzione”. Subito dopo, veniamo invitati dietro le quinte, cinque minuti prima che suonino gli Extraliscio. Così dico ad Al Bano: “Saliamo sul palco per fare un po’ di festa”, perché pensavo fosse una cosa ludica".

Sul palco però siete saliti durante una pausa. Come mai?

Dietro le quinte c’è anche l’ex sovrintendente ai beni culturali di Roma, Umberto Broccoli, un mio amico. Broccoli mi dice: “Salite durante un inframezzo”. Io sinceramente avrei anche desistito, ma visto che c’era anche Al Bano, cantante tra i cantanti, mi è sembrato naturale. Non c’era alcun intento provocatorio. Quando siamo saliti sul palco abbiamo cominciato a sentire “fascisti”, “vergogna”.

Un’accoglienza inaspettata …

Al Bano era stordito dai fischi, non gli era mai successa una cosa del genere. Dopo trenta secondi di imbarazzo, ho preso la parola, ho salutato mia sorella e ho augurato “siate felici” a chi ci insultava. Tutti sono rimasti esterrefatti perché sono sceso dal palco senza replicare agli insulti.

E poi che è successo?

Appena scesi dal palco, veniamo avvicinati dagli altri cantanti e dagli organizzatori che si scusano per il comportamento incivile. Io dico che francamente non m’interessa. Solo a quel punto – sembra incredibile ma è così, qui sta l'equivoco inaudito – scopriamo che la serata è dedicata a Battiato. E cominciamo a capire che quell’aria un po’ da setta di parte politica è legata a quello.

Cosa c’entra Battiato?

Nulla, anche perché non era un No global o che altro. Anzi, io e Franco eravamo amici, ci siamo sempre frequentati, tanto che gli dedicherò una piazza a Sutri. E ha composto le musiche per i film di mia sorella. Ma i talebani del battianesimo hanno ritenuto che fossimo inadeguati.

Samuele Finetti. Nato in Brianza nel 1995. Due grandi passioni: la Storia, specie quella dell’Italia contemporanea, che ho coltivato all’Università Statale di Milano, dove mi sono laureato con una tesi sulla strage di piazza Fontana. E poi il giornalismo, con una frase sempre in mente: «Voglio poter fare,

LA PLAYLIST - 10 tra le più famose canzoni dell'indimenticabile Battiato. Maria Assunta Castellano su Il Quotidiano del Sud il 18 maggio 2021. È morto oggi, 18 maggio, Franco Battiato. Il cantautore siciliano lascia oggi agli italiani una grande tristezza, ma anche un vasto patrimonio di vere e proprie poesie in musica. La stessa musica che lui stesso ha sovvertito. Ognuno avrà sicuramente la sua playlist personale di Franco Battiato. Ma di seguito proponiamo una serie di brani del cantautore che hanno fatto la storia della musica italiana.

L’ERA DEL CINGHIALE BIANCO (1979)

È il brano che dà il titolo all’album che, sebbene non sia mai entrato in classifica il disco, la canzone è diventata una delle principali del suo repertorio. All’interno si trovano molti riferimenti alla mitologia che sono poi metafora del rifiuto delle contraddizioni a un mondo moderno

PROSPETTIVA NEVSKI (1980)

La canzone si riferisce all’Unione Sovietica negli anni in cui era ancora attiva la guerra civile. Periodo che si concluse con la morte di Lenin. Il brano è stato pubblicato per la prima volta nell’album “Patriots” e 14 anni dopo, anche nell’album “Unprotected”

CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE (1981)

Un brano apparentemente senza senso, che in realtà racconta della sensazione di smarrimento che prima o poi si prova almeno una volta nella vita. La canzone è contenuta all’interno de “La voce del padrone”, uno degli album di maggiore successo di Franco Battiato.

BANDIERA BIANCA (1981)

Il ritornello di questa canzone “sul ponte sventola bandiera bianca” riprende i versi di una poesia di Arnaldo Fusinato. Con questo brano, Battiato fa una critica alla società contemporanea, focalizzando l’attenzione sul terrorismo, la dipendenza dai soldi e la politica. E cita anche alcuni artisti tra cui i Doors, Alan Sorrenti e Bob Dylan. Anche “Bandiera bianca” è un singolo contenuto nell’album “La voce del padrone”.

CUCCURUCUCU’ (1981)

Contenuto anche questo ne “La voce del padrone”, album considerato una delle colonne portanti della musica italiana. Un brano che, come per “Centro di gravità permanente”, sembra avere un testo non sense e casuale. In realtà “Cuccurucucù” è costituita da una serie di citazioni, prima fra tutte  «cuccurucucù Paloma», canzone di Tomas Mendez e poi l’Illiade, Mina, Milva, Nicola di Bari; e ancora, canzoni dei Beatles, dei Rolling Stone di Bob Dylan.

VOGLIO VEDERTI DANZARE (1982)

Contenuta nell’album “L’Arca di Noè”, sostanzialmente indica le differenze e le divergenze tra il mondo musicale occidentale e quello orientale. Con un testo esoterico ed esotico, il ritmo incalzante e coinvolgente l’ha reso uno dei brani di maggiore successo di Battiato. Tanto che ne esiste anche una versione dance di dj Prezioso, diventata celebre negli anni ’90.

LA STAGIONE DELL’AMORE (1983)

Un brano che si contraddistingue per l’assenza di strumenti acustici e la presenza esclusiva del digitale. Contenuto nell’album “Orizzonti perduti”, racconta lo scorrere del tempo e l’alternanza delle stagioni attraverso il sentimento dell’amore.

E TI VENGO A CERCARE (1988)

“E ti vengo a cercare” rappresenta per Franco Battiato il ritorno alla musica leggera e intima. Il cantautore siciliano l’aveva abbandonata infatti, per dedicarsi a esperienze più commerciali. Un testo ricco di significati profondi e di successioni, per un brano contenuto in uno dei suoi album di successo, “Fisiognomica”.

POVERA PATRIA (1991)

È quasi un punto di svolta nella musica del cantautore. “Povera patria” rappresenta infatti la volontà di Battiato di unire la musica leggera a quella classica. Contenuta nell’album “Come un cammello nella grondaia”, nonostante risalga agli anni ’90, resta ancora molto attuale.

LA CURA (1996)

È considerata tra le più belle e commuoventi canzoni d’amore ed è anche stata proclamata Canzone italiana dell’anno, nel 1997. Ne “La cura”, Battiato si rivolge alla persona amata rassicurandola e promettendo la sua vicinanza. E ancora, facendo leva sul potere curativo della musica ed esortandola alla guarigione.

Estratto dell’articolo di Luca Valtorta per “la Repubblica” il 20 ottobre 2021. È proprio Come in un incantesimo per cui, nell'appendice del libro di Carla Spessato sulla discografia di Franco Battiato, appare la notizia di un suo album perduto. A raccontarla è Franco Zanetti, discografico e poi giornalista di lungo corso. A certificarne l'interesse è Riccardo Bertoncelli, storica firma della critica (citato da Guccini ne L'avvelenata) e curatore dell'area musicale del gruppo Giunti […]  Zanetti, nel 2003 l'etichetta discografica Universal le ha chiesto una consulenza per realizzare una compilation di pezzi di Franco Battiato. Che cosa è successo?

 «Sapevano che conoscevo Battiato e la sua produzione da molto tempo e così ho proposto di recuperare quello che all'epoca non era disponibile in nessun modo, perché nel 2003 le canzoni di Battiato pre-discografia ufficiale non si trovavano da nessuna parte, neanche su Internet: o avevi i 45 giri o non li conoscevi. Per fare la tracklist Universal mi ha dato tutto quello che c'era in archivio, su due musicassette, che era il supporto di allora. Dentro c'erano 27 canzoni delle quali, a parte due o tre, non avevo mai sentito parlare. Ho cercato di capire se potevano essere inserite nella compilation ma la maggior parte non erano depositate in Siae e quindi non sarebbe stato possibile». […]

E ora invece cosa è successo? 

«Che quando ho saputo che Riccardo Bertoncelli stava lavorando a un libro sulla discografia di Battiato gli ho detto: "Perché non raccontiamo anche la storia del suo album perduto?". Lui era entusiasta e a quel punto sono andato a fondo: ho cercato di ricontattare Malasoma, che purtroppo nel frattempo è morto di complicanze legate al Covid. Allora ho cercato uno dei musicisti, Giorgio Logiri, che però non ricordava nulla; lui mi disse di provare con Alberto Mompellio: contattarlo non è stato semplice ma ci sono riuscito». […] 

Che tipo di canzoni sono? 

«Sono pezzi del genere "cantautore malinconico fine anni 60", come È l'amore, uno dei più famosi del Battiato pre-sperimentale».  

Ma è un disco interessante o no? 

«Dal punto di vista storico di sicuro». 

E da quello musicale? 

«Ci sono almeno un paio di cose piuttosto strane: una è una canzone registrata al contrario intitolata Iloponitnatsoc ovvero Costantinopoli, come forse si sarebbe dovuto intitolare il disco. […] 

·        E’ Morto Alessandro Talotti, campione del salto in alto.

Morto a 40 anni Alessandro Talotti, azzurro del salto in alto. Aveva raccontato la sua battaglia contro il tumore. La Repubblica il 16 maggio 2021. Due Olimpiadi (Atene 2004 e Pechino 2008), pochi giorni fa si era sposato con Silvia Stibilj, campionessa di pattinaggio a rotelle. La coppia ha avuto lo scorso autunno un bambino. Mondo dello sport in lutto, messaggio anche dell'Udinese di cui Talotti era tifoso. È morto nella notte, a quarant'anni, Alessandro Talotti, tra i migliori azzurri del salto in alto. Nel corso della sua carriera l'atleta udinese ha partecipato alle Olimpiadi di Atene 2004 e Pechino 2008. Il suo primato indoor era 2,32, nel 2002 aveva ottenuto il quarto posto agli Europei. In più occasioni nell'ultimo anno aveva raccontato la sua battaglia contro il tumore che lo aveva colpito. Pochi giorni fa si era sposato con Silvia Stibilj, campionessa di pattinaggio a rotelle che nello scorso autunno lo aveva reso padre di un bambino, Elio. Commovente il ricordo della moglie: "Buonanotte Angelo mio! Grazie per tutte le cose spettacolari che abbiamo vissuto assieme... grazie per il dono più grande che mi hai lasciato... grazie per esser stato semplicemente te stesso! Ti amo ora e per sempre". In un ideale passaggio di consegne, Silvia aveva postato nelle settimane scorse una foto del figlio che giocava con tutte le medaglie del padre. Aggiungendo in un altro post: "Cresceremo assieme, mano nella mano e ti aiuterò sempre a scoprire il mondo che ci circonda! Ti amo più della mia vita...". Talotti aveva deciso di rendere pubblica la sua malattia, anche attraverso i social, ricevendo moltissimi attestati di solidarietà e amicizia ai quali aveva risposto così su Instagram: "Centinaia di messaggi di auguri, affetto e simpatia. Centinaia di persone che ho incontrato nella mia vita e con le quali è rimasto un segno indelebile nella memoria. Vi ho letti tutti. Ognuno di voi è importante per me. Con ognuno di voi ho un ricordo. Dirvi grazie non basta, così ho deciso di dedicarvi una foto di oggi per farvi vedere che sto bene, col sorriso, passeggio al sole e domani si vedrà". Tutto è nato da una lettera al Messaggero Veneto, in cui Talotti aveva raccontato la sua sfida: "Oggi ho iniziato il mio secondo ciclo di chemioterapia. Tutta la mia triste avventura è iniziata i primi di marzo con un'operazione all'intestino, proprio in concomitanza dell'insorgere dell'emergenza Covid 19. Ho avuto modo di pensare molto in queste settimane. Alla mia situazione, al mondo che guardavo da una finestra correre ai ripari. Agli italiani che stanno riorganizzando le loro vite tra scuola e lavoro all'interno delle quattro mura domestiche. C'è chi la vive bene, chi la prende peggio. C'è chi parla di "guerra", salvo poi postare una foto della griglia pronta con le migliori prelibatezze sopra... Ecco vorrei dire a coloro che vedono tutto nero che anche bere un bicchiere d'acqua con una fettina di limone è stato per me un sogno che si realizzava quando, tolto i tubi e le flebo, mi hanno detto che potevo tornare a sorseggiare l'acqua in modo normale e non mi avrebbe provocato nessun dolore o fastidio. I miei amici più cari lo sanno già questo aneddoto dell'acqua perché gliel'ho raccontato subito, ma vorrei che lo sapessero tutti perché tornare ad apprezzare le piccole cose è fondamentale in questi momenti. E io ogni giorno sogno quel bicchiere d'acqua. Durante tutto il giorno sorseggio l'acqua e mi sembra sempre la cosa più buona che ci sia. È così, quando si torna a desiderare il 'normale'". Immediate le reazioni nel mondo dello sport, dove Talotti aveva lasciato un ricordo non solo sulle pedane del salto in alto. "Con i tuoi salti ci hai regalato tante emozioni...oggi, purtroppo, un grandissimo dolore" il ricordo di Giovanni Malagò, presidente del Coni. "Sei volato troppo in alto ma resterai per sempre con noi...uno di noi. Ciao, Alessandro!".  "L'atletica italiana è in lutto: è scomparso a 40 anni Alessandro Talotti, campione nel salto in alto e nella vita. Ciao Ale, non ti dimenticheremo mai" scrive la federatletica (Fidal). A ricordarlo anche l'Udinese, di cui il saltatore era un grande tifoso: "L'Udinese Calcio si stringe alla famiglia Talotti per la scomparsa di Alessandro, campione di salto in alto udinese che ha rappresentato l'Italia sui massimi palcoscenici internazionali. A sua moglie Silvia, suo figlio Elio e a tutti i suoi familiari la vicinanza del Club".

Morto a 40 anni Alessandro Talotti, ex nazionale di salto con l'asta. Francesca Galici il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. Un tumore in forma molto aggressiva ha portato via uno dei saltatori in alto più apprezzati degli anni Duemila. Lascia una moglie e un figlio. Si è spento a soli 40 anni Alessandro Talotti, saltatore in alto che ha vestito anche la maglia azzurra, con la quale partecipò ai campionatii europei nel 2002 conquistando il quarto posto con un buon 2,32 metri di salto. Un risultato che gli sarebbe anche potuto valere il terzo gradino del podio di quella competizione, perché la medaglia di bronzo andò a un atleta svedese che fece lo stesso risultato ma con meno errori. Nel 2009 fu uno dei quattro italiani a ottenere il pass per le finali del World Athletics Tour. È morto a causa di una grave forma di tumore. Era stato una grande promessa dell'atletica leggera italiana, nel 2010 ai campioneati Europei indoor arrivò a 2,28 metri d'altezza e nella stagione successiva saltà fino a 2,23 metri. I suoi primati persnali erano peròben più alti: in ambito indoor era arrivato a saltare 2,30 metri mentre in outdoor aveva superato quel risultato, riuscendo a conquistare i 2,32 metri. Con la casacca azzurra ha partecipato a due Olimpiadi, quelle di Atene e quelle di Pechino. La sua permanenza in nazionale è durata circa 10 anni ma Alessandro Talotti non è mai davvero uscito dal giro dell'atletica leggera, tanto che nel 2012 fu eletto in Consiglio federale FIDAL per il quadriennio 2012-2016. È considerato uno dei maggiori esponenti della prestigiosa tradizione friulana del salto in alto e dopo un passaggio nel Gruppo sportivo dei Carabinieri ha fatto ritorno alla sua società sportiva natale di Udine per continuare a gareggiare. Colpito da una grave forma tumorale, di cui aveva raccontato lui stesso, un anno fa aveva iniziato il secondo ciclo di chemioterapia mentre il Paese scopriva il coronavirus. Qualche giorno fa ha sposato la sua compagna Silvia Stibilj, campionessa di pattinaggio a rotelle, che a ottobre 2020 gli ha regalato la gioia di un figlio, Elio. "È stato un grande atleta, Talotti", lo ha ricordato la Federazione italiana di atletica leggera, che oltre a mettere il focus sull'aspetto sportivo ha voluto sottolineare anche il cuore grande di Alessandro Talotti: "Ma della sua carriera resta soprattutto, in chi l'ha conosciuto, la sensazione di leggerezza che sapeva dare sia con il volo oltre l'asticella, sia con il suo sorriso". Alessandro Talotti era un grande appassionato di sport in generale, anche di calcio e in particolare dell'Udinese, la sua squadra del cuore. Per omaggiarlo, oggi allo stadio Friuli prima di Udinese-Sampdoria si è osservato un minuto di silenzio. Nel frattempo sui maxischermi sono state trasmesse le immagini delle sue imprese. Tantissimi i messaggi di cordoglio per Alessandro Talotti da parte del mondo sportivo e non solo, a dimostrazione della sua grandezza.

Aveva raccontato la sua battaglia contro il tumore. Alessandro Talotti non ce l’ha fatta, muore a 40 anni il campione del salto in alto: “Buonanotte angelo mio”. Redazione su Il Riformista il 16 Maggio 2021. Non ce l’ha fatta Alessandro Talotti. L’atleta italiano, tra i migliori nel salto in alto, è morto all’età di 40 anni dopo la battaglia contro il tumore che lo aveva colpito. Talotti è deceduto nella notte del 16 maggio a Udine, sua città natale. Nel corso della sua carriera aveva partecipato alle Olimpiadi di Atene 2004 e Pechino 2008. Il suo primato indoor era stato 2 metri e 32 centimetri. Nel 2002 aveva ottenuto il quarto posto agli Europei. Pochi giorni fa, Alessandro Talotti si era sposato con Silvia Stibilj, campionessa di pattinaggio a rotelle; la coppia ha avuto un bambino, Elio, lo scorso 30 ottobre. Commovente il ricordo della compagna: “Buonanotte Angelo mio! Grazie per tutte le cose spettacolari che abbiamo vissuto assieme… grazie per il dono più grande che mi hai lasciato… grazie per esser stato semplicemente te stesso! Ti amo ora e per sempre”. Nel corso dell’ultimo anno, Talotti aveva parlato della sua malattia: “I medici mi chiedevano ogni volta se me la sentivo di affrontare un nuovo ciclo di chemio — aveva raccontato al Corriere lo scorso novembre — io rispondevo di sì. Se la tua vita è stata superare un’asticella a due metri e venti, il tuo corpo diventa così sensibile da percepire e amplificare anche il minimo fastidio. Il lavoro che il saltatore fa su se stesso è annullare quel dolore, risparmiare le forze e trovare segnali positivi in altre parti del corpo sottraendo energia alla negatività. Non ho mai mollato, ho superato anche gli incubi prima di entrare in sala terapie, uguali a quelli irrazionali che ti vengono di fronte a un’asticella troppo alta e ti paralizzano”. “E’ stato un grande atleta, Talotti – si legge nella nota della Federazione Italia di Atletica Leggera (FIDAL) -. Il suo 2,32 realizzato a Glasgow, in maglia azzurra, sotto il tetto della storica Kelvin Hall Arena, in un fine gennaio del 2005, è stato la vetta tecnica; ma della sua carriera, contraddistinta da due partecipazioni ai Giochi Olimpici (con il dodicesimo posto finale di Atene 2004), ed il podio sfiorato agli Europei di Monaco 2002, resta soprattutto, in chi l’ha conosciuto, la sensazione di leggerezza che sapeva dare sia con il volo oltre l’asticella, sia con il suo sorriso”. “Sapeva essere profondo, Alessandro, e improvvisamente virare, sdrammatizzando, verso la battuta. L’empatia, l’attenzione agli altri, la sua cifra quotidiana”, continua la Fidal. Nel post esperienza agonistica, mille iniziative, l’impegno nello sport che prende la strada della dirigenza (consigliere federale nel quadriennio 2012-2016, recentemente era stato anche confermato delegato CONI di Udine), fino ad essere spalla di Massimo Di Giorgio nell’organizzazione, lo scorso inverno, di Udin Jump Development, il salto in alto che trova casa, con una manifestazione ad esso interamente dedicata, nella sua terra. “L’Atletica Italiana piange oggi, riunita, per un figlio che completa il suo percorso terreno. Alla famiglia Talotti – conclude la nota – vanno le condoglianze e l’abbraccio ideale e commosso del presidente federale Stefano Mei, del Consiglio, e di tutti coloro che si riconoscono nei valori del movimento tricolore. Ciao Ale, sei stato davvero “Top”, come amavi dire tu. Non ti dimenticheremo”.

·        E’ morto Neil Connery rip.

Marco Giusti per Dagospia il 12 maggio 2021. Dopo Sean Connery se ne va anche suo fratello minore Neil, 83 anni, celebre soprattutto perché, da non attore, interpretò nel 1967 una totale stravaganza bondiana dal titolo “O.K. Connery” diretto in Italia da Alberto de Martino, prodotto da Dario Sabatello e interpretato da una serie di attori della saga di 007, Daniela Bianchi, Lois Maxwell, Bernard Lee, Alfredo Celi, Anthony Dawson. Confesso che fui io un po’ l’artefice della reunion, che si svolse al Festival del Noir di Courmayer nel 2008, tra il regista e il vecchio Neil Connery, molto somigliante al più noto Sean, massiccio, simpatico, ma dotato di pochissimo glamour, che non si vedevano da allora. L’idea del produttore Dario Sabatello, e forse anche della United Artists, che distribuì il film in tutto il mondo, era quella di riunire un po’ di volti celebri bondiani e, ciliegina sulla torta, chiamare come eroe proprio il fratello del celebre attore, Neil, che faceva tutt’altro nella vita, l’imbianchino, e non se la passava benissimo. Così lo raccontava De Martino: “Mi dicono: prendiamo il fratello di Sean Connery, lo vestiamo da James Bond, ci mettiamo attorno tutti gli attori dei film di Bond e facciamo un grande successo. Mah… Quando ho raccontato a Sergio Leone quest’idea, mi ha detto: Ma che so’ matti? Sarebbe come se io prendessi il fratello di Alberto Sordi e gli metto attorno i suoi attori….”. Così la racconta invece lo stesso Neil Connery a “Cinema Retro”. Neil era nato nel 1938 a Edinburgh, sette anni dopo suo fratello maggiore Thomas, poi conosciuto al cinema come Sean. Faceva l’operaio e lo stuccatore in Scozia, quando un servizio sulla BBC Radio Scotland e poi un articolo su un giornale inglese dove Neil parlava del suo sindacato, lo fecero uscire allo scoperto come fratello di Sean Connery. Fu allora che il cinema si interessò di lui. Fu Terence Young ad avvisare la United Artist e a arrivare al produttore italiano. “Dario Sabatello mi inviò un telegramma firmato Fawcett Publications. (..) Diceva: Vediamoci al Cali (Caledonian Hotel di Edimburgo). Arrivai lì e chiesi del signor Sabatello. Un tizio mi venne incontro e iniziò a squadrarmi, girandomi addirittura intorno, e io pensai ‘Ma che vuole questo? Sarà gay?’, ma poi mi disse ‘Molto piacere di conoscerti. Sei molto atletico. Vuoi bere qualcosa?’ Presi un doppio whiskey. (..) Lui disse: ’Ti piacerebbe diventare un attore?’ e io risposi ‘Un attore? Wow! Mi sembra una bella occasione!’ perché è così che di solito reagisco alle cose”. Così gli fecero un contratto di 5000 dollari per girare un film. Poi scrissero il copione su di lui e lo portarono a Roma per il provino, che girò Peter Baldwin. Poco tempo dopo lo richiamarono a Roma per girare il film. Questa la storia. L’agente 007 è stato ucciso. Il Dottor Neil Connery, vero fratello di Sean Connery-James Bond, è chiamato per unirsi ai servizi segreti britannici, che vedono qui come capi proprio la Lois Maxwell già Miss Moneypenny e qui solo Max e Bernard Lee già M, che qui diventa certo Cunningham. Se la vedrà con il cattivissimo Adolfo Celi e la sua banda di perfidi figuri, l’ambigua Maya di Daniela Bianchi e la bellona di turno Agata Flori, fidanzata del produttore. La solita organizzazione criminale distruzioni con laser delle maggiori città del mondo se non verranno svuotate le loro riserve aurifere. Pieno di momenti assurdi che rendono il film un delirio, Celi che fa il cattivo bondiano (è il numero 2 dell’organizzazione criminale Thanatos) pieno di belle ragazze marinarette, una torturatrice lesbica. Senza scordare il finale sulla neve a Courmayer dove un gruppo di arceri scozzesi se la vedono con i cattivi e con un conto alla rovescia di 120 secondi nei quali può succedere di tutto. Connery Jr. risolve tutto con “l’ipnosi totale del profondo”. Secondo De Martino era l’unico modo per poterlo vedere se non in movimento, almeno impegnato a far qualcosa di potente. Non riuscivano a farne un judoka. Inoltre doveva stare fermo perché lo avevano completamente ripulito, parrucchino, denti nuovi, trucco pesante. Quando arrivò a Roma, infatti, De Martino si accorse che non era adatto al film e non somigliava neanche tanto al fratello. Dovette chiamare suo padre, celebre truccatore del cinema, per rimetterlo un po’ a posto e renderlo presentabile. “Quando me l’hanno presentato sembrava un ciclista olandese, non so se rendo l’idea, senza capelli, senza denti, con gli occhi piccoli, piccoli. Ho dovuto ricominciare da capo. La parrucca, la dentiera, mio padre gli ha messo dei tiranti agli occhi, per aprirli un po’ di più. Mi disse: però stai attento che non può portarli tutto il giorno…”. Durante la conferenza stampa di inizio riprese del film, riportata sul “Messaggero” in data 25 novembre 1966, Neil Connery, che aveva allora 28 anni, otto meno di Sean Connery e non si vergognava di dire che faceva il muratore, non si dimostra molto affettuoso verso il fratello. “Sean mi ha regalato qualche vestito e qualche paio di scarpe. Una volta mi regalò una Jaguar, ma aveva il motore fuso. Sì, non è mai stato molto generoso”. Ma non vuole neanche che si facciano troppi paragoni. Oggi, a dire il vero ricorda che alla stessa conferenza stampa, alla domanda sui suoi rapporti col fratello, rispose: “Va tutto bene, siamo due anime gemelle”. Ovviamente tutti gli attori del film, da Franco Giacobini alla Bianchi, ricordano che fisicamente non era molto in forma e venne completamente ricostruito in sala trucco. Neil Connery ricorda “O.K. Connery” il titolo italiano del film, che in inglese si chiamava “Operation Kid Brother”, nasceva perché “Quando giravo il film mi dicevano sempre ‘O.K. Connery, O.K.’ e a quel punto decisero di chiamare il film così”. Neil ricorda anche che si allenò nel tiro con l’arco a casa di Adolfo Celi a Ostia Antica per una scena che venne girata a Montecarlo e che in Marocco rischiò di morire per un’appendicite, perché giravano in un posto dove non c’erano né medici né infermieri. Si opera di urgenza di appendicectomia e non può fare il doppiaggio del film a Roma. “Non stavo così male, avrei potuto comunque doppiare il film. Ma loro decisero di affidarlo a un altro e penso che in questo modo abbiano ucciso il film perchè la mia voce avrebbe avuto un effetto migliore”.  Ha anche un buon ricordo di Daniela Bianchi. “Durante i pasti fumavo le Benson&Hedges, il pacchetto dorato. Tirai fuori una sigaretta ma non avevo da accendere. Allora Daniela Bianchi mi offrì il suo accendino d’oro Dupont. Era molto maneggevole, e quando glielo restituii, lei mi disse: ‘No, no, mi fa piacere se lo tieni. Ho lavorato molto meglio con te che con tuo fratello’”. Daniela Bianchi ricorda che oggi “questi film sembrano tutti così carini, così strani, ma allora non venivano percepiti nello stesso modo”. La bellissima Kitty Swan ricorda il film come un’esperienza fantastica. “Abbiamo girato su uno yacht bellissimo a Montecarlo, poi siamo stati a Granada, a Tetuan in Marocco, in un palazzo meraviglioso. La cosa più divertente era come si comportava il fratello di Sean Connery. All’inizio, appena arrivato, era timidissimo. Già a metà film era diventato un Don Giovanni”. Il film venne stroncato in Italia da quasi tutti, per non parlare della recitazione del fratellino. In Inghilterra il film venne distribuito nel maggio 1968 assieme a Spiaggia rossa di Cornel Wilde, che era un film vietato. Così vietarono anche O.K. Connery e questo lo penalizzò parecchio. Lo distribuì internazionalmente la United Artists, lo stesso studio che distribuiva i film di Bond. Neil Connery ricorda che a Londra il suo nome giganteggiava all’entrata di Piccadilly Circus! Oggi è rivalutato da molti fan del genere. Per Brian Smith “È davvero divertente vedere tanti veterani dei veri film di Bond riuniti in questa stravagante produzione e, malgrado la sua semplicità, il film ha dei meriti. La fotografia è bellissima, la colonna sonora di Ennio Morricone è enfatica e memorabile, e tutto viene tenuto insieme dalla carismatica performance centrale di Neil Connery, al suo debutto cinematografico assoluto”. Neil ebbe qualche altra rara occasione di recitare, anche se Sean gli chiese di lasciar perdere James Bond. Lo troviamo in “Galaxy Horros” di Gerry Levy, 1969, fece un po’ di tv in Inghilterra. Tornò addirittura a interpretare Mr. Bond nel film di Tsui Hark “Zui jia pai dang 3: Nu huang mi ling”, 1984, poi fece un episodio di “Taggart”, 1989. La sua ultima apparizione fu nella docufiction “The Paisley Snail” del 1996, dove interpreta Lord Hatkin.

·        E’ morto il serial killer Michel Fourniret.

Morto Michel Fourniret, serial killer francese che uccise nove ragazze tra gli anni ’80 e 2000. Jacopo Bongini il 10 maggio 2021 su Notizie.it. È morto all'età di 79 anni il serial killer francese Michel Fourniret, colpevole di aver ucciso nove ragazze tra gli anni '80 e gli inizi del 2000. È morto all’età di 79 anni il serial killer francese Michel Fourniret, noto alle cronache per aver ucciso almeno nove ragazze tra gli anni ’80 e i primi anni del 2000. Fournite – conosciuto anche con il soprannome di “Mostro delle Ardenne” – stava scontando due ergastoli quando è deceduto dopo essere stato ricoverato d’urgenza a Parigi, all’ospedale della Pitié-Salpetrière, per alcuni problemi respiratori. Da tempo la salute dell’uomo si era deteriorata, complici anche i problemi cardiaci e il morbo di Alzheimer di cui soffriva da tempo. Michel Fourniret fu arrestato nel 2003 dopo aver tentato di rapire una ragazza belga, che riusci a fuggire dal furgone dov’era stata rinchiusa e ad avvertire la polizia. Fu successivamente la moglie dell’uomo, Monique Olivier, anche lei condannata all’ergastolo, a denunciarlo alle autorità. All’epoca il serial killer fu accusato di sequestro di minori e violenza sessuale, mentre la moglie è stata invece accusata di essere stata complice del marito durante gli anni in cui compi gli omicidi. Fourniret doveva ancora essere processato per altri due omicidi, dei quali aveva ammesso la responsabilità quando era già in carcere. Come riportato in queste ultime ore dalla stampa transalpina, negli anni ’80 Fourniret era stato condannato per ben due volte per molestie sessuali, ed è stato durante la seconda carcerazione, nel 1984, che iniziò una corrispondenza con quella che sarebbe stata la sua futura moglie, una donna separata madre di due bambini. La coppia andò convivere nel 1987, dopo la scarcerazione di Fourniret. L’anno successivo il compagno di cella dell’uomo gli chiese aiuto per recuperare un bottino in lingotto d’oro sepolto in un cimitero a Fontenay-en-Parisis, nei pressi di Parigi. Fourniret si tenne tutto il denaro, uccidendo la compagna del suo amico, e si comprò una magione a Satou nelle Ardenne, che in seguito utilizzò come base per i suoi omicidi. Nell’estate del 2004 Fourniret confessò di aver rapito, stuprato e ucciso nove ragazze – di cui cinque minorenni – tra gli anni ’80 e i primi anni del 2000, e oltre a questo venne anch accusato di altri 10 omicidi. Il processo a suo carico iniziò nel marzo del 2008, e finì il 28 maggio dello stesso anno: Fourniret venne condannato all’ergastolo assieme la moglie, anche se quest’ultima non avrà la possibilità di richiedere la libertà condizionata per 28 anni. Nel marzo del 2020, Fourniret confessò anche l’uccisione di una bambina di 9 anni, Estelle Mouzin.

Jacopo Bongini. Nato a Milano, classe 1993, è laureato in "Nuove Tecnologie dell’Arte" all’Accademia di Belle Arti di Brera. Prima di collaborare con Notizie.it ha scritto per Il Giornale.

Così il "mostro delle Ardenne" rapì e stuprò nove ragazzine. Francesca Bernasconi il 10 Maggio 2021 su Il Giornale. Michel Fourniret è morto all'età di 79 anni. Nel 2008 venne condannato a due ergastoli per aver rapito, violentato e ucciso diverse donne, tra cui alcune adolescenti. È morto Michel Fourniret, 79 anni, il serial killer francese soprannominato "il mostro delle Ardenne". Ad annunciarlo, questo pomeriggio, è stato il procuratore di Parigi, precisando che l'uomo si trovava "nell'unità ospedaliera Pitiè-Salpètrière (UHSI)". Ma chi era il killer condannato a due ergastoli? E di quali crimini si era macchiato? I delitti compiuti da Michel Fourniret sconvolsero la Francia e il Belgio dalla fine degli anni '80 fino ai primi del 2000. Le vittime, nove quelle accertate fino ad oggi, furono tutte ragazze che vennero rapite, violentate e uccise dall'uomo. L'uomo venne arrestato, insieme alla compagna, nel 2003, dopo che una ragazzina di 13 anni era riuscita a scendere dal furgone in cui era stata rinchiusa e ad avvertire la polizia. Come spiega il Corriere della Sera, nel 2004, Fourniret confessò di aver ucciso diverse ragazze adolescenti tra il 1987 e il 2001. Le Parisien, inoltre, ha ricordato la duplice condanna dell'uomo per molestie sessuali. Proprio durante la seconda carcerazione, avvenuta nel 1984, il "mostro delle Ardenne" avviò una corrispondenza con Olivier, una donna separata che divenne la sua compagna nel 1987, dopo la scarcerazione. L'anno dopo, un ex compagno di cella gli chiese aiuto per recuperare dei lingotti, ma dopo averli trovati Fourniret si tenne il bottino e uccise la fidanzata dell'amico. Una delle vittime più giovani dell'uomo sembra essere una ragazzina di 12 anni, rapita dopo essere stata a giocare con un'amica. Spesso, l'uomo ricorreva alla stessa dinamica per ingannare le ragazze: spesso chiedeva aiuto, poi le rapiva per seviziarle e ucciderle. Ad oggi sono 9 i delitti ricondotti al "mostro", ma in altrettanti casi serpeggia il dubbio di un suo coinvolgimento: si tratta di altre 9 ragazze stuprate e uccise tra il 1990 e il 2000. L'ultima vittima accertata è stata Estelle Mouzin, una bambina di 9 anni scomparsa nel 2003 dalla cittadina di Guermantes. Lo stesso Fourniret ha confessato, lo scorso anno, di averla rapita e uccisa. La conferma è arrivata anche dall'allora compagna del killer, Monique Olivier, che ha confermato il rapimento, a cui seguirono la violenza e la morte. Qualche giorno dopo, la polizia ha trovato tracce di Dna appartenenti alla bambina sopra un materasso della sorella di Fourniret. Non solo: sono state trovate tracce anche di altre persone, tra cui quelle di una delle altre vittime. Dal 2008 Fourniret stava scondando la condanna a due ergastoli, mentre la compagna, ritenuta complice dell'uomo, era stata condannata a un ergastolo. Lo scorso 28 aprile, il serial killer era stato ricoverato nella struttura legata al carcere di Fresnes, dove era detenuto: secondo Le Parisien, l'uomo soffriva di problemi cardiaci ed era affetto dal morbo di Alzheimer. E oggi, all'età di 79 anni, "l'orco delle Ardenne" è morto.

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo

·        E’ morta Beryl Cunningham, l’attrice, modella e cantante giamaicana.

Beryl Cunningham rip. Marco Giusti per Dagospia il 5 maggio 2021. Aveva carattere, bellezza e talento, Beryl Cunningham, l’attrice, modella e cantante giamaicana, scomparsa a 75 anni, che ha illuminato gli schermi del cinema e della tv italiana tra gli anni ’60 e ’70, anni d’oro del cinema esotico-erotico e dei thriller e polizieschi. Fu una delle pochissime ragazze nere a poter vantare ruoli da protagonista, da “Le salamandre” di Alberto Cavallone in coppia con Erna Schurer, tra i primissimi film lesbo italiani, a “Tarzana, sesso selvaggio” di Guido Malatesta in coppia con Femi Benussi, da “Il dio serpente” e “Il Decamerone nero”, diretti dall’allora marito Piero Vivarelli, dei quali fu anche costumista, a “Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola. Ma nel corso della sua carriera è stata anche presentatrice del “Cantagiro” nel 1970 in una celebre edizione dove si esibirono anche i Led Zeppellin, cantante, notevolissima la sua versione di “Tua”, un hit di Julia De Palma ma anche i suoi dischi musicati da Alberto Baldan Bembo e perfino soubrette sexy a teatro in coppia con Maria Grazia Buccella nello spettacolo osée del 1973 “Che sventola, ragazzi!” di Amendola e Corbucci, dove cantavano assieme “Erotic”. L’avevo incontrata qualche anno fa per Stracult, quando da tempo si era ritirata dal mondo dello spettacolo e da anni aveva sviluppato la sua passione per le pratiche esoteriche. Grazie a questo, mi disse, parlava costantemente coi morti, dal suo amico Federico Fellini, anche lui grande esperto di esoterismo, all’ex-marito Piero Vivarelli, in una specie di comunione di anime che mi presentava però con una certa diffusa ironia.  A molte mie domande, infatti, mi rispondeva che potevo chiederlo tranquillamente ai cari estinti. Loro sapevano tutti. Non ci avevo pensato. Era nata a Montego Bay, in Giamaica, nel 1944 e giovanissimo era andata a Londra per studiare Legge all’università. Lì aveva iniziato subito a fare la fotomodella e l’attrice in piccoli ruoli di ballerina nera nel cinema e nella tv inglese. La ricordiamo in “Mr Sebastian” di David Greene con Dirk Bogarde, in “Curse of the Vudoo” di Lindsay Shonteff. Nei primi anni ’60 si divide tra Londra e Roma. Mi disse che aveva fatto un’apparizione in un documentario esotico di Gualtiero Jacopetti, era vero, ma la troviamo anche nei peplum, come “Anthar l’invicibile”, nel ruolo di schiava. Alla fine degli anni ’60 arrivano parti migliori e il nome sui titoli di testa e nei cartelloni, come in “Temptation” di Lamberto Benvenuti con Mark Damon, Stefania Careddu e Nicoletta Machiavelli. Con “Le salamandre”, opera prima di Alberto Cavallone, film scandalo perché sia lesbo sia d’amore bianca/nera, diventa popolare. Arrivano così “Tarzana, sesso selvaggio” di Guido Malatesta assieme a Femi Benussi dove è Kamala, il thriller di Umberto Lenzi “Così bella… così perversa” con Carroll Baker, “Una storia d’amore” di Michele Lupo con Anna Moffo e Gianni Macchia, il giallo “La morte risale a ieri sera”, “Concerto per pistola solista”.  E’ a quel tempo, nel 1970, che conosce e sposa Piero Vivarelli, che si innamora pazzamente di lei, e la porta in Venezuela per “Il dio serpente”, altro film scandalo per i nudi di Nadia Cassini e esotico-erotico di grande successo. Nel film successivo, “Il Decamerone nero” ha un ruolo ancora maggiore, perché si occupa anche di ambientazioni e costumi oltre che interpretare il ruolo della Regina Bella. Cavallone la richiama per “Quickly”. Ma nei primi anni ’70 diventa anche cantante e presentatrice per la tv. Si lascia con Piero Vivarelli a metà degli anni ’70, si mette con un industriale playboy re del caffè, Carlo Fiocchetto, che ha celebri storie con altre belle attrici, come Zeudy Araya. Tenta una carriera di soubrette con spettacoli estivi sulla Costa Smeralda. Cerca così di staccarsi dal cinema, tornando marginalmente a recitare in ruoli curiosi per film come “Tutto in ordine” di Ghigo Alberani con Fabrizio Capucci, “La ragazza del prete”, “L’isola degli uomini pesce” di Sergio Martino, fino a “Il giustiziere della strada”, postatomico diretto da Giuliano Carnimeo nel 1983, che è poi il suo ultimo film. Scrive un libro di cucina giamaicana. Ma negli ultimi trent’anni scompare proprio di scena. Era riuscita a ritrovarla il nipote Nick Vivarelli, che l’ha intervistata anche per il documentario che ha girato un paio d’anni fa sullo zio, mentre ha dato notizie della sua morte, avvenuta l’11 dicembre del 2020 in un ospedale vicino a Borbona, il figlio adottivo, Oliver, che vive a Siena. Perdiamo una delle presenze più stravaganti e più interessanti della piccola comunità di attori e attrice neri attive nello spettacolo italiano del novecento.

·        E' morto il modello e cantante britannico Nick Kamen.

(ANSA il 5 maggio 2021) E' morto, all'età di 59 anni, il modello e cantante britannico Nick Kamen. Lo riferiscono i media britannici. Nato Neville Kamen, in Essex, divenne famoso in tutto il mondo per uno spot pubblicitario dei Levi's 501 lanciato nel 1985 e ambientato in una lavanderia a gettoni. Proprio grazie a quel video il giovane modello fu notato da Madonna, che collaborò alla produzione del brano pop “Each Time You Break My Heart”. A guidare i tributi in suo ricordo oggi il grande amico di sempre Boy George. (ANSA).

Addio a Nick Kamen, modello e cantautore britannico: innamorato di Bari e del Petruzzelli. Il pubblico barese lo ricorda per le sue partecipazioni alla nota kermesse musicale Azzurro, trasmessa dal Teatro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Maggio 2021. Addio a Nick Kamen, modello e cantautore britannico innamorato di Bari e del Teatro Petruzzelli. A dare la notizia, su Instagram è stato l’amico e collega Boy George. Kamen aveva 59 anni ed era diventato famoso negli anni’80 dopo aver partecipato a uno spot della Levi’s. Madonna lo aveva notato e aveva lanciato la sua carriera discografica. La sua malattia era stata resa pubblica su Instagram nel 2018. Il pubblico barese lo ricorda per le sue partecipazioni alla nota kermesse musicale Azzurro, trasmessa dal Teatro Petruzzelli.

Morto Nick Kamen, modello e cantante degli anni '80. Ansa il 6/5/2021. Nick Kamen, una delle icone più celebri degli anni '80, è morto per un tumore a 59 anni. Era malato dal 2018 e la notizia della scomparsa è stata annunciata sui social media. "R.I.P. - ha scritto l'amico Boy George su Instagram - all'uomo più dolce e più bello". Kamen, al secolo Ivor Neville Kamen, originario dell'Essex, nel Regno Unito, divenne una celebrità internazionale poco più che ventenne, nel 1985, grazie ad uno spot della Levi's: era il modello che in una lavanderia a gettoni si toglie i jeans e li mette nella lavatrice, restando in boxer ad aspettare la fine del lavaggio. Un mini-strip accompagnato dalle note sensuali del brano 'Heard It Through The Grapevine' di Marvin Gaye. Lo spot si rivelò una gallina dalle uova d'oro per la Levi's e balzò anche ai primi posti della classifica dei cento migliori di sempre. Kamen non sfuggì neanche agli occhi di Madonna che, intuendone le potenzialità sia canore che di immagine, nel 1986 decise di produrgli un singolo scritto da lei stessa, Each Time You Break My Heart. Il brano divenne una hit mondiale, raggiungendo il quinto posto nelle classifiche del Regno Unito. Tra il 1987 e il 1992 Kamen incise cinque album e quello d'esordio, intitolato semplicemente 'Nick Kamen', contiene il singolo 'Loving You Is Sweeter Than Ever', una cover del brano del 1966 del gruppo musicale statunitense Four Tops. Fu composto da Stevie Wonder e Ivy Hunter. Loving You Is Sweeter Than Ever arrivò al primo posto nella classifica in Italia. L'anno dopo tornò in vetta alla nostra hit parade con 'Tell Me', nel quale Madonna prestava la voce nei cori del singolo. L'artista abbandonò le scene musicali all'inizio degli anni duemila, dedicandosi soprattutto alla pittura. Tra gli altri tributi anche quelli di John Taylor, dei Duran Duran,che lo ha ricordato come uno degli uomini più piacevoli e gentili da lui conosciuti, e della cantante Tanita Tikaram che su Twitter ha scritto: "Era gentile e dolce, ha illuminato il mondo con la sua straordinaria bellezza".

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 6 maggio 2021. Quando arrivò in Italia, ospite nel febbraio del 1987 del Festival di Sanremo con Each Time You Break My Heart, Nick Kamen trovò ad accoglierlo un'orda di ragazzine disposte a tutto pur di toccarlo o anche solamente sfiorarlo, fuori e dentro il Palarock della città dei fiori: «Non credo ci siano nemmeno bisogno di presentazioni, se il suono è buono e vi arriva fino a casa...», commentò Carlo Massarini quando all' ingresso del cantante partì un boato assordante.

LA PARABOLA. La popolarità di Ivor Neville Kamen (questo il suo vero nome, partito dall' Essex alla conquista prima delle passerelle e poi dei Dischi d' oro), la cui parabola si è tristemente conclusa ieri l'altro con la morte a soli 59 anni (dal 2018 lottava contro un cancro al midollo osseo), era già alle stelle. Non solo per quella hit, uscita pochi mesi prima e in testa alle classifiche internazionali. Ma anche e soprattutto per la pubblicità girata due anni prima per la Levi' s, quando - prima di buttarsi nel mondo della musica - faceva il modello. Nello spot, che lo fece diventare il protagonista dei sogni erotici delle adolescenti, divise ancora tra i Duran Duran di Simon Le Bon e gli Spandau Ballet di Tony Hadley, l'allora 23enne Kamen entrava in una lavanderia, si toglieva i jeans e restava in boxer a leggere il giornale. Conquistò anche Madonna: pare che quella Each Time Your Break My Heart, prima di affidarla al bel modello britannico, Lady Ciccone l'avesse provinata per il suo True Blue (l'album di Papa Don' t Preach e de La Isla Bonita, il disco della consacrazione definitiva due anni dopo Like a Virgin), salvo poi scartarla. Interpretata da Kamen - Madonna la produsse e contribuì ai cori - diventò una hit al di qua e al di là dell'Atlantico. Il pubblico italiano fu tra i più generosi, nei confronti dell'ex modello diventato popstar: l' album d' esordio, intitolato semplicemente Nick Kamen, nel nostro Paese vendette oltre 100 mila copie, conquistando il Disco d' oro. Alla fine del 1987 due suoi singoli, Each Time Your Break My Heart e il successivo Loving You Is Sweeter Than Ever, risultarono essere entrambi tra i più venduti della stagione, rispettivamente al diciottesimo e al sedicesimo posto, davanti a successi italiani come Bella d' estate di Mango e La notte dei pensieri di Zarrillo. E d' altronde tra l'87 e l' 88 Kamen fu praticamente di casa, qui: poche settimane dopo Sanremo riapparve in Italia partecipando ad Azzurro con la stessa Loving You Is Sweeter Than Ever, poi nell' estate dell' anno successivo si godette il bagno di folla all' Arena di Verona per il Festivalbar, rilanciando con quella camicia risvoltata e la giacca dalle spalle larghe la moda degli Anni 50.

AMANDA DE CADENET. Nel 90 eccolo di nuovo ad Azzurro, stavolta con maglietta a maniche lunghe, jeans e chitarra a tracolla sulle note di I Promised My Self, ultimo successo prima del risveglio dal sogno del pop. Nick Kamen continuò a crederci ancora per un paio d' anni: nel 92 pubblicò un altro disco, Whatever, Whenever. Poi mollò la presa e fece perdere le sue tracce. I giornali tornarono a parlare dell'ex modello alla fine degli Anni 90 per la sua relazione con l'attrice Amanda De Cadenet, nel 2002, a 40 anni, ancora bello e impossibile, tornò sulla copertina di una rivista, Vogue. Negli ultimi anni si era allontanato dai circuiti mediatici, dedicandosi alla pittura. Se non fosse stato per l'amico Boy George, forse nessuno sarebbe venuto subito a conoscenza della sua morte. L'ex Culture Club, uno che invece agli Anni 80 in un modo o nell' altro è sopravvissuto, ha pubblicato su Instagram una foto scattata insieme nel fulgore di quella decade magica ma al tempo stesso crudele, di glamour e stelle che negli anni successivi si trasformarono in illusioni e meteore: «Riposi in pace, l'uomo più bello e dolce», il saluto del cantante.

Lucia Esposito per "Libero quotidiano" il 6 maggio 2021. È stato l'uomo che ha cancellato dalle lavanderie ogni alone di candore per macchiarle di fantasie erotiche. Dal 1986, da quando Nick Kamen entrò in una tintoria a gettoni, si sfilò lentamente i suoi Levi' s 501 rimanendo in boxer sotto gli occhi di signore i cui ormoni arrugginiti si risvegliarono da un antico torpore, ecco, da quel momento per milioni di donne entrare in una lavanderia con il carico di panni sporchi non è più stata la stessa cosa. Per anni abbiamo consegnato e ritirato tonnellate di vestiti sperando che tra un lavaggio a secco e una centrifuga, con uno spruzzo di appretto si materializzasse lui, con i suoi occhi di smeraldo e gli addominali di acciaio. Il celebre spot anni '80 della «Levi' s» con protagonista Nick Kamen. L'ex modello è scomparso ieri a soli 59 anni.

MADONNA. Lo spot di un paio di jeans ha turbato i sogni di milioni di ragazzine brufolose e ha trasformato Nick Kamen in un sex symbol. Perfino Madonna fu folgorata da quel giovanotto. All' epoca i giornali di gossip scrissero paginate su una presunta relazione clandestina tra il modello inglese e la signora Ciccone che ai tempi era sposata (con Sean Penn) ma questa è un' altra storia che le adolescenti degli anni Ottanta non hanno mai voluto davvero approfondire...Fu comunque grazie a Madonna che Kamen divenne anche cantante, fu lei a lanciarlo nel mondo della musica e così, al fisico dell' inglesino che campeggiava sui poster appesi alle pareti di tutte le case abitate da adolescenti, si associò la sua voce sensuale che rimbalzava dalla radio a tutte le ore: "Each time you break my heart "(Ogni volta che spezzi il mio cuore). Ieri il suo cuore si è fermato: Nick Kamen è morto a 59 anni per un tumore che lo aveva colpito anni fa. Lo avevamo rinchiuso in qualche nascondiglio della memoria ma la notizia della sua scomparsa ci ha restituito l'immagine di quel modello bello come il sole che sembrava un marziano sbarcato in una tintoria e che, spudorato, si sedeva mezzo nudo tra signore fintamente sconvolte. Una pubblicità che oggi farebbe inorridire le femministe e i moralisti. Le donne invece di accomodarsi serenamente e godersi lo spettacolo dello spogliarello in una tintoria a gettoni, griderebbero al sessismo e farebbero petizioni per cancellare una pubblicità maschilista. Ma no, forse nessuna azienda avrebbe il coraggio di girare uno spot come quello di trentasei anni fa. La morale censoria che tutto domina non avrebbe permesso la messa in onda di una pubblicità in cui le donne sono mere spettatrici. Si griderebbe alla sottomissione, si denuncerebbe la visione fallocentrica del mondo. Col risultato che Nick Kamen non si svestirebbe.

L' AMICO. Dopo lo spot e la canzone scritta da Madonna, Kamen pubblicò un secondo album. Il brano Tell me rimase nove settimane in prima posizione nella classifica dei singoli. Nel 1990 l'artista inglese sfondò ancora con I promised myself che raggiunse il primo posto in classifica in otto Paesi europei. Nel 1992 l'ultimo album. Poi il silenzio. «È morto l'uomo più dolce e bello del mondo», ha scritto il suo amico Boy George dando al mondo la notizia. Nick Kamen era sparito da anni ma noi eravamo convinte che fosse ad aspettarci, ancora ventenne, in qualche lavanderia sperduta con quella faccia da schiaffi e quella bocca da baci. Da oggi andare in tintoria sarà più triste.

Morto Nick Kamen, cantante, modello e protégé di Madonna. Carlo Moretti su La Repubblica il 5 maggio 2021. La notizia diffusa da Boy George. Il cantante aveva 59 anni e aveva avuto grande successo alla fine degli anni Ottanta anche grazie a uno spot dei jeans Levi's. È morto il modello e cantautore inglese Nick Kamen, pupillo di Madonna. Conosciuto per la sua hit Each time you break my heart del 1986, Kamen aveva 59 anni. La notizia è stata data dal suo amico Boy George con un messaggio via Instagram. Da tre anni Kamen combatteva contro un tumore. Nick Kamen, che era nato nell’Essex con il nome di Ivor Neville Kamen, raggiunse la notorietà a 23 anni prima di diventare cantante grazie alla pubblicità uscita in tutto il mondo dei jeans Levi's 501. Nello spot si vede il modello, al quale proprio in quella occasione venne dato il soprannome di Nick, entrare in una lavanderia in jeans e maglietta bianca e togliersi poi i vestiti rimanendo in boxer prima di metterli in lavatrice, sulle note di Heard it through the grapevine di Marvin Gaye. Fu proprio quello spot, notato da Madonna, a mettere in contatto Kamen con la Material Girl che scelse di affidargli una canzone scritta con Stephen Bray, proprio la hit Each time you break my heart, in cui Madonna compare per i cori. La hit, che raggiunse la vetta della classifica inglese e ottenne grande successo anche in Germania, Spagna, Francia e Italia, diede il titolo all'omonimo album che seguì, primo dei quattro dischi che Nick Kamen pubblicò tra il 1987 e il 1992. Per il suo secondo album Us del 1988, Madonna gli assicurò la collaborazione del suo produttore Patrick Leonard, offrì i cori in Tell me ma non si occupò più della scrittura e della supervisione come aveva fatto in occasione del primo album. Il brano Tell me ottenne uno straordinario successo soprattutto in Italia, dove durante i mesi estivi rimase per nove settimane in prima posizione nella classifica dei singoli. L'anno successivo Kamen cantò il brano Turn it up per la colonna sonora del film Disney intitolato Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi. Ma è nel 1990 che l'artista inglese piazza il suo successo internazionale più grande, I promised myself, che raggiunse il primo posto in classifica in otto Paesi europei, il quarto singolo più suonato dalle radio e dalle tv quell'anno. Il suo ultimo album nel 1992, quando Kamen fece uscire Whatever, whenever. Da allora un sostanziale silenzio interrotto oggi dalla notizia della sua morte. Il motivo non confermato della sua morte sarebbe un cancro al midollo osseo: unica fonte della notizia è la pagina Instagram dell'amico fotografo Johnny Rozsa, che nel 2018 aveva pubblicato una foto insieme a Kamen in una stanza d'ospedale e ora dopo l'annuncio della morte in un post scrive: "Non molto tempo prima della diagnosi di cancro al midollo osseo, Nick Kamen venne a farmi visita quando era di passaggio a Londra. Ho milioni di ricordi della nostra lunga amicizia e sono veramente devastato dalla notizia della sua scomparsa questa mattina".

Da "lastampa.it" il 6 maggio 2021. «So che te ne sei andato. Sei sempre stato un essere umano così gentile e dolce e hai sofferto troppo. Spero che tu sia più felice ovunque tu sia Nick Kamen». Con questo toccante post sul suo canale Instagram, Madonna ricorda il suo pupillo Nick Kamen, il cantante inglese scomparso nella notte di martedì, a 59 anni, a causa di un tumore contro il quale combatteva da qualche anno. Nella prima delle quattro foto del post si vede Madonna insieme a Kamen al banco mixer, un’immagine del periodo in cui iniziò la loro collaborazione per il brano Each time you break my heart nel 1986. Nick Kamen, una delle icone più celebri degli anni '80, era malato dal 2018 e la notizia della scomparsa è stata annunciata sui social dall’amico Boy George. «R.I.P. all'uomo più dolce e più bello». Kamen, al secolo Ivor Neville Kamen, originario dell'Essex, nel Regno Unito, divenne una celebrità internazionale poco più che ventenne, nel 1985, grazie ad uno spot della Levi's: era il modello che in una lavanderia a gettoni si toglie i jeans e li mette nella lavatrice, restando in boxer ad aspettare la fine del lavaggio. Un mini-strip accompagnato dalle note sensuali del brano I heard It Through The Grapevine di Marvin Gaye. Lo spot si rivelò una gallina dalle uova d'oro per la Levi's e balzò anche ai primi posti della classifica dei cento migliori di sempre. Kamen non sfuggì neanche agli occhi di Madonna che, intuendone le potenzialità sia canore che di immagine, nel 1986 decise di produrgli un singolo scritto da lei stessa, Each Time You Break My Heart. Il brano divenne una hit mondiale, raggiungendo il quinto posto nelle classifiche del Regno Unito. Tra il 1987 e il 1992 Kamen incise cinque album e quello d'esordio, intitolato semplicemente Nick Kamen, contiene il singolo Loving You Is Sweeter Than Ever, una cover del brano del 1966 del gruppo musicale statunitense Four Tops. Fu composto da Stevie Wonder e Ivy Hunter. Loving You Is Sweeter Than Ever arrivò al primo posto nella classifica in Italia. L'anno dopo tornò in vetta alla nostra hit parade con Tell Me, nel quale Madonna prestava la voce nei cori del singolo. L'artista abbandonò le scene musicali all'inizio degli anni duemila, dedicandosi soprattutto alla pittura. 

·        E’ morta la giornalista Rita di Giovacchino.

Covid, morta la giornalista Rita Di Giovacchino: «Era la cronista dei misteri italiani». Paolo Brogi il 3/5/2021 su Il Corriere della Sera. Giornalismo romano in lutto per la morte di Rita Di Giovacchino, cronista giudiziaria, inviata e scrittrice, stroncata dal Covid all’ospedale Spallanzani dove era ricoverata in gravi condizioni da oltre venti giorni. Aveva 74 anni. Bergamasca di origine aveva svolto tutta la sua attività a Roma, da dove aveva seguito i grandi casi di cronaca e i misteri d’Italia. Prima all’Ansa e poi per oltre un quarto di secolo al Messaggero, da ultimo con collaborazioni e un blog per Il Fatto quotidiano. Tra i suoi libri più noti si ricordano quelli su Mino Pecorelli, sulle mafie e sui gangli corrotti del potere, editi da editori come Pironti, Fazi e Castelvecchi. Come inviata aveva seguito il maxi processo di Palermo e le stragi di Falcone e Borsellino. «A Palermo mi hanno lasciata per sei mesi», raccontava. «È arrivato l’inverno e mi hanno dovuto mandare i vestiti». Attenta e scrupolosa aveva fatto dei casi giudiziari più noti, a partire dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro, il campo delle sue ricerche che si erano prolungate oltre le cronache per i giornali. Il Sindacato dei cronisti romani (Scr) ha ricordato Rita Di Giovacchino con una nota nel quale ha sottolineato la sua passione per la cronaca giudiziaria. «Una passione generosa, perché Rita non si fermava alla superficie, era scettica e curiosa. E generosa anche perché la qualifica da inviato le andava stretta. Faceva quella che si dice “vita di redazione”, con i colleghi della cronaca giudiziaria, affrontando anche la routine e non confinandosi solo nel grande pezzo, nella grande storia. Condividendo anche gli orari più pesanti. È giusto definirla la “cronista dei misteri” perché su grandi vicende non risolte, non chiare, non aveva mai smesso di cercare, di provare a capire. Con caparbietà accompagnata ad ironia». Amaro il ricordo di queste ultime settimane: «Rita aveva 74 anni ma si sentiva giovane e le sue energie professionali non erano toccate dal tempo. L’ha travolta il Covid. Ricoverata all’ospedale Spallanzani, tre settimane di terapia intensiva non hanno potuto salvarla».

Covid, morta la giornalista Rita di Giovacchino: aveva 74 anni. Giampiero Casoni il 03/05/2021 su Notizie.it. Covid, morta la giornalista Rita di Giovacchino: aveva 74 anni. Dal caso Moro alle stragi di mafia e ai processi ad Andreotti, lei era sempre sul pezzo. Covid, morta la giornalista Rita di Giovacchino: aveva 74 anni, buona parte dei quali messi a servizio della cronaca giudiziaria più incisiva dell’ultimo trentennio. Rita di Giovacchino era nata il 19 febbraio 1947 a Bergamo ed è deceduta presso l’ospedale Spallanzani di Roma, dove era ricoverata da un mese a causa della sua positività al coronavirus e dell’aggravarsi progressivo delle sue condizioni generali. E al di là dell’aspetto umano e del dolore comprensibile ed assurdo di chi la amava, la morte della Giovacchino ha davvero lasciato un vuoto grande in chi la rispettava come professionista. Perché? Perché per gli addetti ai lavori Rita di Giovacchino era la cronista di giudiziaria allo stato dell’arte. Tutta la sua vita professionale lei l’aveva trascorsa ad occuparsi del tipo più difficile di giornalismo, quello che rimanda agli atti delle procure e dei tribunali, alle versioni delle parti in gioco ed alle sottigliezze della procedura. Quando la cronaca nera metteva la toga e sedimentava nel complesso universo del diritto, la Giovacchino era lì, prima in forza all’Ansa e poi al Messaggero. La Giovacchino aveva seguito il caso Moro, le stragi di Capaci e dia Via D’Amelio, i processi ad Andreotti e il correlato caso Pecorelli. Rita aveva anche un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. E non è un caso che, fra i primi ad esprimere il suo cordoglio sincero per la scomparsa della giornalista sia stato un avvocato, il cassazionista Bonaventura Zizzo: “Ho appena appreso che l’Amica e Giornalista Rita di Giovacchino se ne è andata, portata via dal Covid, che continua a devastare le nostre vite e i nostri affetti. L’avevo conosciuta nel 2016 a Trabia, quando l’avevamo invitata per la presentazione del suo libro, ‘Stragi: quello che Stato e mafia non possono confessare’ e, da allora, mi piaceva confrontarmi con lei, sui fatti italiani di ieri e di oggi *, incontrandola anche a Palermo, che lei aveva scelto come sua seconda casa”. E ancora: “Rita era una grande Giornalista, una delle più grandi conoscitrici del caso Moro, di Cosa Nostra, del caso Pecorelli e dell’oscurità del potere andreottiano. Da questo punto di vista, il suo ‘Libro nero della Repubblica’ è una summa delle sue inchieste e della sua capacità di essere Giornalista sul campo. Con lei, se ne va tutto questo. Se ne va una voce autorevole, seria ed indipendente, che sapeva cercare e raccontare le parti più buie della nostra Storia”.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

·        È morta Olympia Dukakis, premio Oscar per "Stregata dalla luna".

È morta Olympia Dukakis, premio Oscar per "Stregata dalla luna". La Repubblica l'1 maggio 2021. L'attrice aveva 89 anni: una lunghissima carriera cominciata negli anni Sessanta. "La mia adorata sorella, Olympia Dukakis, è scomparsa questa mattina a New York City. Dopo molti mesi di salute cagionevole, è finalmente in pace con il suo Louis", ha scritto il fratello dell'attrice, Apollo, citando il marito Louis Zorich, anche lui attore, deceduto nel 2018. Con questo messaggio viene annunciata la scomparsa di un'altra grande attrice hollywoodiana di origini greche. Dopo il debutto nel 1962, Dukakis ha recitato in numerose serie tv e film di successo, da Il giustiziere della notte (1974) con Charles Bronson alla celebre soap opera Aspettando il domani nella parte della dottoressa Barbara Moreno. Nata a Lowell, nel Massachusetts, ha desiderato diventare un'attrice sin dalla tenera età. Avrebbe voluto studiare recitazione al college, ma i suoi genitori, immigrati greci, la convinsero a seguire un'istruzione più pratica. Studiò fisioterapia alla Boston University con una borsa di studio della National Foundation for Infantile Paralysis. Dopo aver conseguito la laurea, lavorò in un ospedale a Marmet, West Virginia, e presso l'Ospedale per le malattie contagiose di Boston. Ma il richiamo del teatro alla fine la portò a studiare recitazione alla Boston University e, una volta entrata in teatro, non abbandonò più la carriera di attrice. Appassionata, regista, produttrice e insegnante, Dukakis nella sua lunga carriera ha trovato il tempo per l'impegno civile, dedicandosi ai diritti delle donne e la difesa delle donne. L'oscar come attrice non protagonista è però arrivato nel 1988 con Stregata dalla luna, film cult nel quale interpretata la madre di Loretta Castorini (la popstar e premio Oscar per quel ruolo, Cher), ruolo che le valse anche un Golden Globe. Ha recitato anche in Una donna in carriera (Working Girl), la commedia di Mike Nichols del 1988, Fiori d'acciaio (1989) di Herbert Ross, in Goodbye Mr. Holland (1995) di Stephen Herek, Il club delle vedove (The Cemetery Club) diretto da Bill Duke nel 1993 e nella trilogia di film comici Senti chi parla (1989), Senti chi parla 2 (1990) e Senti chi parla adesso! (1993), tutti con John Travolta. Nel 2013 ha ricevuto la stella sulla Hollywood Walk of Fame, grazie ai suoi contributi all'industria cinematografica.

Marco Giusti per Dagospia il 2 maggio 2021. Se ne va in quel di New York City a 89 anni la leggendaria Olympia Dukakis, per tutti la mamma italo-americana di Cher in “Stregata dalla luna” di Norman Jewison, il ruolo che le fece vincere l’Oscar come miglior attrice non protagonista e la lanciò definitivamente anche nel cinema. Capelli bianchi argento, parlantina scatenata, era impossibile non notarla. Fu la mamma italiana, greca, ebrea, di qualsiasi attore piccolo e grande, da Dustin Hoffman in “John e Mary” a Ted Danson in “Dad”, da Joseph Bologna in Teraia di gruppo” a Kirstie Allen in “Senti chi parla”. Perfino la mamma di un giovane Frank Sinatra in tv. Norman Jewison l’aveva notata a teatro, dove era inarrestabile, nella commedia “Social Security” diretta da Mike Nichols e andò sul sicuro. Con Vincent Gardenia, che fa suo marito, aveva già recitato in “Il giustiziere della notte”. Era nata nel 1931 a Lowell, Massachussetes, figlia di due immigrati greci, madre del Peloponneso e padre dell’Anatolia, cugina del candidato democratico alla presidenza Michael Dukakis. Del resto anche lei è sempre stata un’attivissima democratica pronta a ogni battaglia. Si laurea alla Boston University in Phisical Therapy, e lavora come medico durante la grande epidemia di polio negli anni ’50. Ma dai primi anni ’60 la troviamo a teatro, la sua grande passione. Durante un provino incontra Louis Zorich, nessuno dei due ottiene la parte ma trovano l’amore. Si sposano nel 1962 e passeranno 55 anni felici assieme coi loro tre figli. Zorich, che è morto nel 2018, ha detto riguardo quel loro primo incontro. “Ricordo i suoi occhi, lei era molto sexy, e mi sono detto, Dio mio, questa donna… E lei non era una violetta striminzita, non lo è mai stata”. Nel 1964 la troviamo a Broadway con “Abraham Cochrane” e da lì partecipa a qualcosa come 130 produzioni teatrali, Shakespeare, Pirandello, Tennesse Williams. E’ stata anche la protagonista di “Ecuba”, di “Rose”, grande successo di Broadway nel 1998, di un’edizione di “Madre Coraggio e i suoi figli” di Bertold Brecht nel 2013. Col marito mette in piedi una compagnia teatrale, The Whole Theater Comany a Montclair, New Jersey che va avanti dal 1971 al 1990. Al cinema inizia nel 1962 con “Lilith” di Robert Rossen, ma lo trascura perché preferisce il teatro. Lo troviamo anche in “Sisters” di Brian De Palma, in “The Rehearsal” di Jules Dassin, “The Wanderers” di Philip Kaufman. Ma è con l’Oscar di “Stregata dalla luna” che diventa la mamma del cinema americano. La troviamo così in “Una donna in carriera”, in “Fiori d’acciaio” di Herbert Ross a fianco di Shirley MacLaine, in “Senti chi parla” I e II, “Il club delle vedove” di Bill Duke, dove divide la scena con altre mamme terribili di Hollywood, Ellen Burstyn e Diane Ladd, in “La dea dell’amore” di Woody Allen dove è Giocasta, in “Goodbye Mr Holland”, “Mother”. In tv il suo ruolo di maggior successo è quella della padrona di casa transgender di “Tales of the City”, serie che inizia nel 1993 e viene più volte ripresa, fino all’ultima serie del 2019. Aveva da poco ultimato un nuovo film, “Not To Forget” di Valerio Zanoli. La sua attrice preferita, diceva, era Geraldine Page. L’Oscar glielo hanno portato via i ladri nel 1989. Cher ha scritto un tweet commovente sulla sua scomparsa.

·        E’ morto il compositore Shunsuke Kikuchi.

Dagotraduzione da Le Monde il 29 aprile 2021. Il suo nome potrebbe non suonare familiare, ma la sua musica ha accompagnato l'infanzia di un'intera generazione di fan delle anime giapponesi. Shunsuke Kikuchi, che ha composto tra le altre la colonna sonora di Doraemon e di Dragon Ball, è morto il 24 aprile all'età di 89 anni. A dare l'annuncio è stata ieri la Japan Music Copyright Association. In Giappone, il compositore era una leggenda della musica animata, conosciuto per le musiche di Kamen Raider e Doraemon. In Europa, l'artista è più famoso per il suo lavoro su Goldorake, Albator 84, Dragon Ball e il suo sequel, Dragon Ball Z. Le sue melodie minimaliste, molto riconoscibili, mettono al centro ottoni e percussioni e ora sono diventate lo standard musicale dei «shonen animes», un genere di manga rivolto a un pubblico giovane maschile. Shunsuke Kikuchi era nato nel 1931 a Hirosaki, nella prefettura di Aomori. Dopo essersi laureato al Nihon University College of Art, Kikuchi aveva studiato con il famoso compositore cinematografico Chuji Kinoshita, con l'obiettivo di seguire le sue orme. Dagli anni '60 in poi, lavorava a stretto contatto con gli studi televisivi Toei. La sua prima serie animata risale al 1964, Uchu Patrol Hopper. È passato poi alla serie Tiger Mask e Getter Robo. Ha composto la famosa sigla Doraemon no Uta, dalla serie Doraemon, utilizzata dal 1979 al 2005. Dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni 2010, ha iniziato una lunga serie di lavori per la televisione e l'animazione giapponese. Possiamo citare, ad esempio, le serie televisive Kamen Rider e Iron King. E un gran numero di serie animate, come Polymer, Misha, Dr Slump, Goldorak (1975), Albator 84 (1982) e le due serie leggendarie adattate dal manga di Akira Toriyama, Dragon Ball (1986) e Dragon Ball Z (1989) ). Le tracce di Shunsuke Kikuchi hanno avuto una tale influenza sul cinema giapponese che due di loro, Champion of Death, il tema del film del 1975 con lo stesso nome, e Urami Bushi, una composizione che ha scritto per il film Scorpion Woman del 1972, sono stati usati da Quentin Tarantino nel film «Kill Bill». Nel corso della sua carriera, il compositore ha vinto numerosi premi, tra cui nove dal Japan Society International Copyright Award: quattro per il suo lavoro su Dragon Ball Z e due per il suo lavoro su Doraemon. Ha anche ricevuto un premio alla carriera alla 57a edizione del Japan Record Award e un Merit Award ai Tokyo Anime Awards 2013.

·        È morto Filippo Mondelli, campione del mondo di canottaggio.

Da leggo.it il 29 aprile 2021. È morto Filippo Mondelli, campione del mondo di canottaggio nel 2018 nel quattro di coppia: avrebbe compiuto 27 anni il prossimo 18 giugno. Lo sport italiano è in lutto per la scomparsa di Mondelli, che faceva parte in quota atleti del Consiglio nazionale del Coni: il giovane atleta aveva un osteosarcoma alla gamba sinistra. Mondelli, originario di Como, aveva cominciato a praticare il canottaggio nel 2007 e nel 2015 aveva vinto l'oro nel 4 Con ai Mondiali Under 23. Passato nel gruppo della Nazionale maggiore dopo l'Olimpiade di Rio 2016, aveva gareggiato per un'intera stagione nella specialità del doppio con Luca Rambaldi, vincendo la medaglia d'oro ai Campionati europei del 2017 e la medaglia di bronzo ai Mondiali dello stesso anno. Nel 2018 aveva fatto parte del quattro di coppia, con Luca Rambaldi, Andrea Panizza e Giacomo Gentili, vincendo la medaglia d'oro agli Europei di Glasgow e ai Mondiali di Plovdiv. La tragica notizia della sua morte, a 27 anni ancora da compiere, arriva a due settimane di distanza dalla sua elezione nel Consiglio nazionale del Coni con 54 preferenze su 109 aventi diritto. Ora il suo posto verrà preso dal tennista Paolo Lorenzi, primo dei non eletti, che domani verrà cooptato dalla Giunta.

Abbagnale: era atleta e ragazzo stupendo. «Siamo letteralmente sconvolti. La perdita di Pippo ci lascia senza parole. Ci lascia un atleta fortissimo e un ragazzo stupendo con grandi valori». Così il presidente della Federazione italiana canottaggio, Giuseppe Abbagnale, sulla tragica scomparsa a soli 26 anni di Filippo Mondelli, campione del mondo nel 2018 con il 4 di coppia. «È davvero difficile parlare in questo momento - aggiunge all'Adnkronos il numero uno del canottaggio italiano -. Sapevamo della sua malattia (un osteosarcoma alla gamba sinistra ndr) ma la rapidità con cui se n'è andato ci ha sorpresi. Voglio solo pensare che se ne sia andato sereno. Siamo vicini alla famiglia. L'avevo sentito pochi giorni fa, eravamo in contatto costante purtroppo negli ultimi 2-3 giorni non ha più risposto e oggi questa tragica notizia».

L'addio della Federcanottaggio. «Nella sua vita è sempre stato un guerriero», scrive la Federcanottaggio sul suo sito ufficiale. «È stato un ragazzo che ha lottato, gioito e goduto della vittoria più bella, il titolo mondiale sul quattro di coppia conquistato il 15 settembre 2018 a Plovdiv al termine di una gara perfetta. Uno spettacolo straordinario! Un risultato che doveva essere il preludio di altri traguardi sportivi ancora più importanti. E quindi il 31 agosto 2019 è ancora Filippo, con il suo quattro di coppia, a qualificare la barca per le Olimpiadi e vincere la medaglia di bronzo». «Tutto perfetto, tutto andava secondo programmi, ma poi, era il 13 gennaio 2020 e ancora non si percepiva la crisi pandemica, abbiamo dato la notizia che Filippo, il "Pippo nazionale", doveva fermarsi per un problema che pareva si potesse risolvere e permettergli di tornare con i suoi compagni di barca, con la sua nazionale olimpica, e con il piglio giusto è iniziato il suo percorso verso l’agognato recupero. Ma oggi ad un anno, tre mesi e sedici giorni dalla scoperta della grave malattia dobbiamo dare la notizia che mai nella vita avremmo voluto dare: Pippo non ce l’ha fatta!». «Pippo, da guerriero quale era, è stato vinto da un avversario implacabile che non ha avuto rispetto per la sua giovane età – a soli 27 anni –, non ha avuto rispetto per la sua famiglia e per tutte le persone che lo hanno amato. Saremo noi, insieme a tutti quelli che hanno apprezzato la sua passione per la vita e per il canottaggio, amato per il ragazzo solare che era, condiviso con lui tutto, supportato ogni volta che ne aveva bisogno, gioito con lui per tutte le belle cose che ci ha regalato, a rimanere in rispettoso silenzio per la grave perdita che ha colpito la sua famiglia e tutta la comunità remiera e sportiva nazionale, poiché da poco era stato eletto, il più votato, come componente in quota atleti del Consiglio Nazionale CONI». «Silenzio e rispetto per la perdita incolmabile di un ragazzo speciale in tutto - conclude la nota della federazione - Silenzio e rispetto per il dolore che ha colpito la sua famiglia. Silenzio e rispetto per il dispiacere e l’amarezza di tutte le persone che lo hanno conosciuto. Con silenzio e rispetto tutta l’Italia del canottaggio, insieme al Presidente del CONI, al Presidente della Federazione, al Consiglio federale, allo Staff Tecnico, a tutti i compagni di nazionale, formula le più sentite condoglianze per la scomparsa del caro Filippo. Rimarrai sempre nei nostri cuori. Ciao Filippo!!».

·        E’ morto Giulio Biasin, l'ultimo corazziere del Re.

Da ilgazzettino.it il 26 aprile 2021. Si è spento a Venezia all'età di 101 anni Giulio Biasin, l'ultimo corazziere del Re. Biasin, carabiniere con decenni di servizio al Quirinale, era stato nominato nel 2019 dal presidente Mattarella Commendatore della Repubblica. Onorificenza che aveva ricevuto, come ospite speciale, durante la Festa dell'Arma nel comando provinciale Carabinieri di San Zaccaria, a Venezia. L'anziano corazziere la storia d'Italia l'aveva vissuta in prima persona. Era stato in servizio al Quirinale dal 1939 al 1943 con Vittorio Emanuele III, e con lo "Squadrone Carabinieri Guardie del Re" aveva visto sfilare davanti al suo picchetto papi, come Pio XII, e teste coronate. Un corazziere tra le due guerre: Biasin era arrivato a Roma dalla sua Venezia ad appena 20 anni, e dopo l'Armistizio era entrato per un breve periodo nelle formazioni partigiane. Poi, rientrato nell'Arma, aveva partecipato assieme a pochi colleghi all'azione che portò a liberare dai tedeschi proprio la caserma di San Zaccaria. Il 19 settembre 2019 il suo centesimo compleanno era stato festeggiato con tutti gli onori dai Carabinieri del Comando Provinciale a dall'Associazione Nazionale Carabinieri, ricevendo anche una telefonata del generale Nistri, all'epoca Comandante dell'Arma dei Carabinieri.

·        Addio a Michael Collins, fu uno dei tre astronauti dell’Apollo 11.

Addio a Michael Collins, fu uno dei tre astronauti dell’Apollo 11. Valentina Mericio su Notizie.it il 28/04/2021. Il mondo dell'aeronautica spaziale internazionale dice addio a Michael Collins. l'astronauta è noto per aver fatto parte della missione Apollo 11. Fu conosciuto per essere l’uomo più solo dell’universo. L’astronauta Michael Collins, uno dei tre uomini della celebre missione Apollo 11, è morto all’età di 90 anni dopo aver sofferto per diverso tempo di cancro. A darne notizia la NASA che in un comunicato diffuso su Twitter ha scritto: “Mike ha sempre affrontato le sfide della vita con grazia e umiltà, e ha affrontato allo stesso modo quest’ultima sfida”, mentre tra le persone a dare l’addio all’astronauta troviamo Buzz Aldrin, l’unico dei tre astronauti della missione Apollo 11 a rimanere ancora in vita. L’astronauta e aviatore Neil Armstrong è scomparso a Cincinnati il 25 agosto del 2012. A salutare il grande astronauta anche Buzz Aldrin, il secondo uomo che insieme a Neil Armstrong mise il piede sul suolo lunare: “Caro Mike, ovunque tu sia stato o sarai, avrai sempre il fuoco per portarci abilmente a nuove altezze e verso il futuro. Ci mancherai. Che tu possa riposare in pace”, le parole di Buzz Aldrin sui social. Anche i familiari dell’ex astronauta non hanno mancato di dedicare un pensiero al loro nonno e padre: “Ci dispiace condividere che il nostro amato padre e nonno sono morti oggi, dopo una coraggiosa battaglia contro il cancro. Ha trascorso i suoi ultimi giorni pacificamente, con la sua famiglia al suo fianco. Mike ha sempre affrontato le sfide della vita con grazia e umiltà e ha affrontato questa, la sua ultima sfida, allo stesso modo. Michael Collins dopo l’esperienza dell’Apollo 11, ha dato le sue dimissioni alla NASA nel 1970 “il piu’ bel lavoro al mondo il piu’ scintillante capitolo della mia vita, ma non il solo”, si legge dalla nota. Collins dopo aver ricoperto il ruolo generale, entra nel dipartimento di stato arrivando poi a ricoprire il ruolo di direttore presso lo “Smithsonian National Air and Space Museum a Washington” del quale ne ha seguito la costruzione nel 1976.

Morto Michael Collins, perché era l’uomo più solo dell’universo? Non tutti sanno infine che Michael Collins a differenza di Buzz Aldrin e Neil Armstrong, non mise piede sulla luna, rimanendo invece in orbita a differenza dei suoi compagni di viaggio. “La cosa che ricordo di piu’ e’ l’immagine del pianeta Terra da grande distanza: piccolo, molto luminoso, blu e bianco. Splendente, bello, sereno e fragile”, aveva raccontato Michael Collins, che forse proprio per questo sentimento di attesa fu soprannominato “L’uomo più solo dell’universo”.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. Era l’antieroe per eccellenza. Quello che si danna per essere invitato alla festa del secolo e poi rimane tutto il tempo davanti al guardaroba a presidiare i cappotti. Si chiamava Michael Collins, come il patriota irlandese, e a fregarlo fu la bravura. Dei tre astronauti della missione Apollo 11 destinata alla Luna, pare che Collins fosse di gran lunga il pilota più capace. Per questo gli venne affidato il timone del modulo di comando che rimase in orbita intorno al satellite, mentre Armstrong e Aldrin scendevano sulla superficie a coprirsi di gloria. Un uomo più cattivo di lui non li avrebbe più fatti risalire a bordo. E un uomo più narciso di lui sarebbe impazzito. Prepararsi tutta la vita per realizzare il sogno dei sogni, superare chissà quante selezioni, ritrovarsi nel tris degli eletti e a quel punto accettare il passo indietro per il bene comune, consegnandosi a un ruolo gregario. Parcheggiato in un cono d’ombra come il bassista di un concerto rock, quando tutti i riflettori e gli urletti dei fan sono per il cantante e gli assolo del chitarrista, ma lui continua a suonare con la tranquilla consapevolezza che senza il suo basso non ci sarebbe la musica. Collins era nato a Roma, novant’anni fa, in via Tevere 16, dove una targa ancora lo ricorda con una bugia: «Primo uomo sulla Luna». Ma forse non è una bugia: gli altri due sono scesi a toccarla, però lui le ha girato intorno. Si è spinto più in là di tutti ed è l’unico ad avere visto che cosa ci sia dietro.

Da ilMessaggero.it il 29 aprile 2021. Orgoglio capitolino: è nato a Roma Michael Collins, fra gli astronauti che il 21 luglio di 47 anni fa conquistarono la Luna. Da Roma alla Luna: è il lunghissimo viaggio dell'astronauta statunitense Michael Collins che esattamente 47 anni fa, alle 5.56 del 21 luglio 1969, guardò dal Modulo di Comando e di Servizio in orbita i compagni Neil Armstrong e Buzz Aldrin allunare. Non è un segreto e non c'entrano oscure manovre dei complottisti che sostengono che la missione Apollo 11 sia una fandonia, ma al tempo stesso sono in tanti a non sapere che l'espertissimo pilota di moduli spaziali Collins nacque a Roma il 31 ottobre 1930 in via Tevere al quartiere Salario di Roma. Il padre lavorava in quel periodo all'ambasciata americana che proprio in quei mesi si sarebbe trasferita in via Veneto. Fatto sta che Roma, come ricorda con orgoglio in via Tevere una targa di marmo voluta dal Comune, ha dato i natali a uno dei tre astronauti della missione più importante della storia, mentre solo 16 anni dopo sarebbe venuto al mondo in Italia Franco Malerba, il primo astronauta azzurro. 

Lutto per il mondo intero, l’addio a un grande uomo: “Con lui se ne va un pezzo di storia”. Caffeinamagazine.it 29/4/2021. È morto uno degli uomini più importanti della storia del ‘900: Michael Collins, protagonista della missione dell’Apollo 11 che portò Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla Luna. L’uomo dello spazio è morto all’età di 90 anni. Collins ebbe un ruolo determinante e delicatissimo, ma per forza di cose meno esposto alla gloria rispetto a chi aveva lasciato l’impronta dei propri piedi sulla polvere lunare. In effetti Collins, anche essendo stato fondamentale per l’allunaggio, non toccò mai la superficie con gli scarponi perché restò in orbita: solo per 28 ore a 100 km dalla luna. Fu tra i pochi uomini al mondo, perlomeno nei paesi che avevano raggiunto un certo sviluppo, a non vedere nemmeno un’immagine dell’allunaggio in diretta tv, come gli fece notare la sala di controllo di Houston. “Fa lo stesso”, rispose Collins. Collins poi è molto legato all’Italia: c’è una targa non proprio conosciutissima in via Tevere 6 in suo onore. Il motivo? Collins era nato a Roma perché il padre in quel periodo era in servizio nell’Ambasciata degli Stati Uniti. Nel 2019 il Campidoglio ha deciso finalmente di attribuirgli la cittadinanza onoraria: il gesto ha fatto molto piacere al veterano dello spazio, riferirono le cronache. Collins era malato da tempo di cancro. “Ha passato i suoi ultimi giorni in pace, con i suoi congiunti al fianco”, ha scritto in un comunicato la famiglia. “La cosa che ricordo di più – raccontò in seguito – è l’immagine del pianeta Terra da grande distanza: piccolo, molto luminoso, blu e bianco”. “Splendente, bello, sereno e fragile”. Con Collins se ne va un pezzo di storia, non solo americana, ma occidentale e quindi del mondo intero. E per certi versi, è un lutto che riguarda direttamente anche l’Italia. Addio uomo delle stelle, addio, Mike. Ti potrebbe anche interessare: “Mi sono lasciata con Pierpaolo”. Giulia Salemi, l’annuncio è un fulmine a ciel sereno: “Ho dovuto”. Ma dopo 30 minuti la verità.

·        E’ morta Milva.

A 81 anni muore Milva, era malata da tempo. L'addio dell'Orchestra Magna Grecia. A confermare la notizia la figlia Martina, critica d'arte. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 aprile 2021. È morta Milva: la grande cantante e attrice, Ilvia Maria Biolcati, aveva 81 anni e viveva a Milano con la segretaria Edith e la figlia, Martina Corgnati, critica d’arte. Proprio quest'ultima ha confermato che la madre, malata da tempo, è mancata ieri a Milano. La famiglia sta organizzando in queste ore l'ultimo saluto all'artista. «Milva è stata una delle interpreti più intense della canzone italiana. La sua voce ha suscitato profonde emozioni in intere generazioni. Una grande italiana, un’artista che, partita dalla sua amata terra, ha calcato i palcoscenici internazionali, rendendo globale il suo successo e portando alto il nome del suo Paese. Addio alla pantera di Goro». Così il Ministro della Cultura, Dario Franceschini, ricorda Milva nel giorno della sua scomparsa. «Se l’Orchestra della Magna Grecia si impegna a rendere speciale ogni concerto, è perché Milva, ci ha trasferito questo insegnamento: per lei salire sul palco era la sfida della vita. Questo è stato il più grande regalo che questa immensa artista potesse farci». Questo il primo commento di Piero Romano, direttore artistico dell’Orchestra della Magna Grecia una volta appresa la notizia della scomparsa di Milva, madrina della stessa OMG. Milva, “la rossa” non c’è più. Di lei resteranno scolpiti nel cuore e nella memoria i suoi grandi insegnamenti. Aveva 81 anni. Fra le più grandi interpreti della canzone italiana, aveva registrato successi nei teatri di tutto il mondo. Dal 1994 aveva avuto inizio la sua  collaborazione con l’Orchestra della Magna Grecia della quale era madrina. Dalla Stagione 94/95, una cinquantina sono stati i concerti tenuti con l’Orchestra della Magna Grecia in tutto il mondo: diciannove in Giappone, quattordici fra Germania, Austria e Svizzera, il resto in Italia. Fra gli spettacoli portati in scena con l’OMG, “Thalassa”, le melodie del Mediterraneo, musiche da Teodorakis a Morricone; “I sette peccati capitali” di Kurt Weill su testo di Bertold Brecht (Taranto, Matera, Bari); “Astor Piazzolla, le canzoni, le musiche”. La grande classe il suo marchio di fabbrica. Unica artista italiana ad essere insignita contemporaneamente delle massime onorificenze riconosciute a quanti si sono spesi nelle Arti: Ufficiale dell’Ordre des arts et des lettres (1995), Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania (2006), Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2007) e Cavaliere della Legion d’onore della Repubblica Francese (2009). «Milva è stata la donna che ha dato più intensità al nostro rapporto – dichiara Romano – trasmetteva grande passione, viveva il palcoscenico con tutta se stessa, reale e regale quando era in scena. Lei impersonava il teatro, trasmetteva grande energia: questo l’insegnamento che ha dato all’Orchestra della Magna Grecia; oggi se l’OMG riesce a rendere speciale ogni concerto, è perché lei ci ha trasferito questo insegnamento. Per lei salire sul palco era la sfida della vita. Questo il più grande regalo che potesse farci».

Milva: la camera ardente al Piccolo, funerali in privato. (ANSA il 24 aprile 2021) Sarà allestita nel foyer del Piccolo Teatro Strehler, martedì 27 aprile, dalle 9.30 alle 13.30, la camera ardente per Milva. I funerali seguiranno in forma strettamente privata. Lo comunica il Piccolo. "Oggi - dice il direttore Claudio Longhi - ci ha lasciato Milva, uno strappo doloroso per il Piccolo Teatro di Milano e per la sua memoria. La sua voce indimenticabile, inconfondibile, luminosa e incisiva come il soprannome che indossava con eleganza, ha tracciato un capitolo importante della storia della musica e del teatro italiano, colorandolo del rosso della sua chioma e della sua incandescente personalità".

Milva: Mattarella, scompare una protagonista musica italiana. (ANSA il 24 aprile 2021) "Con Milva scompare una protagonista della musica italiana": così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha reso omaggio alla cantante deceduta ieri con un messaggio sull'account twitter del Quirinale. Il Capo dello Stato l'ha definita "una interprete colta, sensibile e versatile, molto apprezzata in Italia e all'estero". "Esprimo sentimenti di cordoglio e vicinanza - ha aggiunto - alla famiglia."

Milva: Vanoni, aveva bellezza, talento e voce meravigliosa. (ANSA il 24 aprile 2021) "Milva se ne è andata la notizia mi ha colpita profondamente. L'ultima volta che l'ho chiamata non mi parlava ma mi faceva vedere che sfogliava il mio album. Due giorni fa sembrava fosse ancora normale, se normale era la vita che faceva". Lo scrive Ornella Vanoni sui suoi profili social ricordando l'amica e collega. "Un donna che ha avuto tutto - aggiunge - bellezza, talento, una voce meravigliosa ed una carriera straordinaria. Penso ad Edith la sua assistente che le ha dedicato la vita".

Milva: Ruggeri, aveva intelligenza, classe, passione cultura. (ANSA il 24 aprile 2021) "Mi porto dentro questo momento, onorato per aver cantato con lei. Intelligenza, classe, passione, cultura, carisma. E una meravigliosa canzone di Giorgio Faletti". Lo scrive sui social Enrico Ruggeri, ricordando Milva e condividendo un video della loro esibizione insieme a Sanremo nel 2007 in 'The show must go on". Il cantautore l'aveva affiancata nella serata dei duetti.

Milva: Borgonzoni, voce storica musica italiana. (ANSA il 24 aprile 2021) "Sono vicina alla famiglia di Milva per la sua scomparsa. Grande artista, donna carismatica e voce storica della musica italiana". Commenta così il sottosegretario alla cultura Lucia Borgonzoni la scomparsa di Milva, all'anagrafe Ilvia Maria Biolcati, che si è spenta ieri nella sua casa di Milano a 82 anni. "Oltre cinquant'anni di ininterrotta attività, migliaia di concerti e spettacoli in tutto il mondo, cantante e interprete teatrale. Con lei se ne va un pezzo di storia del panorama musicale italiano" conclude Borgonzoni.

Milva: Bonaccini, scompare interprete raffinata e straordinaria. (ANSA il 24 aprile 2021) "Con Milva scompare un'interprete raffinata e straordinaria. Una voce intensa e inconfondibile, amata dal pubblico e che in oltre mezzo secolo di successi ha calcato i palcoscenici di tutto il mondo, dividendosi tra musica leggera, d'autore e opere teatrali". Così il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, esprime il suo cordoglio per la morte cantante e attrice teatrale. "Una figlia dell'eccezionale tradizione canora dell'Emilia-Romagna - aggiunge in una nota -, dove iniziò la propria carriera tra i locali del ferrarese e di Goro, il suo paese natale". Nel corso di una carriera durata più di 50 anni Milva, è l'artista italiana con il maggior numero di album realizzati, in totale 173, e ha venduto oltre 80 milioni di dischi. "Esprimo le più sentite condoglianze alla figlia Martina e a tutti i familiari, a nome personale e di tutta la comunità regionale", ha concluso Bonaccini.

Milva: Letta, Italia piange una icona fra le più amate. (ANSA il 24 aprile 2021) "L'Italia piange una delle sue icone più amate. Milva". Lo scrive su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta.

(ANSA il 24 aprile 2021) "Sono troppo triste per esprimere il mio dolore, per la perdita di Milva , una amica, ma soprattutto la più grande Artista che il nostro Paese abbia mai avuto. Non so più cosa aggiungere. . . Non trovo le parole" scrive Cristiano Malgioglio su twitter, nel ricordare la grande artista scomparsa ieri a Milano. Malgioglio aveva duettato con Milva nel brano "Amica" del disco "Amiche", composto interamente da duetti, pubblicato nel 1991 dalla Dischi Ricordi, e più recentemente aveva proposto che le fosse assegnato il premio alla carriera al Festival di Sanremo. Su twitter l'artista posta una foto che lo ritrae insieme a Milva, lei con un mazzo di rose rosse in mano.

 (ANSA il 24 aprile 2021) "Milva, Milva, Milva...eleganza, classe voce straordinaria, una capacità di passare da una lingua all'altra con una semplicità, quanti ricordi ma anche una punta di nostalgia perché siamo sinceri in Italia nonostante la notorietà, le onorificenze avrebbe meritato di più, il suo talento è stato apprezzato prima e di più all'estero". Pippo Baudo raggiunto dall'ANSA parla misurando le parole ma con commozione sincera di Milva scomparsa ieri a 81 anni per tutti "La rossa", l'intramontabile 'Pantera di Goro' che ha incantato milioni di persone con il fascino irresistibile della sua voce. "Per anni ha inondato il palcoscenico con la sua intrigante presenza", ma non dimentichiamo osserva Baudo che proveniva da una famiglia di origini modeste molto lo deve a suo marito Maurizio Corgnati, conosciuto dopo che aveva iniziato a muovere i primi passi nelle piccole balere ottenendo anche un discreto riscontro, e padre della figlia Martina, è una delle figure più importanti del suo percorso, che le ha impartito tante dosi di cultura, le ha fatto conoscere i classici, studiare le lingue avvicinare al teatro e la sua presenza scenica arriva a Strehler, tanto da diventare la "portavoce" europea di Brecht… Insieme a lei, altre due donne hanno imposto la loro firma sui mitici anni '60 e '70, figure imprescindibili in un irripetibile triangolo di stelle: Mina, la 'Tigre di Cremona' e Iva Zanicchi, 'L'aquila di Ligonchio'". Ecco riusciva a stare sul palco a muoversi come una diva del teatro degli anni 50, le sue sue mani la sua eleganza facevano il resto. Poi se Baudo detiene il record tra i presentatori del festival Milva forse tra le donne credo è quella che ha partecipato più volte: "15 volte - se non ricordo male - ottenendo due secondi posti e quattro terzi posti. La sua ultima partecipazione risale al 2007 con la canzone 'The Show Must Go On' di Giorgio Faletti". Ma Pippo ricorda anche i momenti di nostalgia di Milva "la sua bella casa milanese, e i suoi occhi che talvolta si velavano di malinconia". Pippo Baudo e Milva sono stati anche tra i protagonisti di un duetto tutto ironia ed eleganza all'interno del varietà "Al Paradise", programma Rai andato in onda il sabato in prima serata dal 1983 al 1985. Tutto avviene in maniera particolare, prendendo spunto dalle note di celebre brano di Milva: "Dicono di me".E cosa dicono, o meglio, dicevano di Milva? "Dicono di me che non ho paura/Dicono di me che non ho misure/che non ho pietà/che non ho candore". Da qui prende le mosse un'intervista sui generis, in cui Baudo stuzzica le curiosità più recondite e impronunciabili del telespettatore sul conto di Milva.

Milva, Pippo Baudo: «Era un’artista vera. Con lei noi italiani non siamo stati generosi». Chiara Maffioletti per corriere.it il 24 aprile 2021. «Era un’artista vera, nel senso naturale della parola». Pippo Baudo descrive così Milva la Rossa. Lui, re di Sanremo. Lei, l’artista che più volte in assoluto ha calcato quel palco. «Era molto riconoscente perché il Festival l’aveva lanciata e così, ogni volta che le si proponeva di partecipare, non diceva mai di no». Nella mente del conduttore tornano quegli anni, la presunta rivalità tra dive: «C’erano lei, Mina e Iva Zanicchi: erano le tre divine creature del canto. Milva era una ragazza provinciale, nata a Goro. Poi era arrivato il teatro che l’aveva portata a leggere i classici. Perfino in tedesco, infatti diventò una grande star anche in Germania».

Nessuno è in grado di scoprire i talenti come lei. Come andò con Milva?

«Mi accorsi subito di come teneva la voce. Il suo timbro mi aveva incantato e in più, la cosa formidabile, era che la voce non si stancava mai: era impressionante, sembrava non facesse il minimo sforzo».

Come era sul palco?

«Quando arrivava lei, lo riempiva, anche per via di quella montagna di capelli rosso fuoco. E poi la sua mimica, unica. Era una donna di spettacolo, completa».

In Italia l’abbiamo sottovalutata?

«Di crto non è stata valutata da noi italiani come lo era stata all’estero, per esempio. No, non siamo stati molti generosi con lei».

Ha dei ricordi recenti con lei?

«Appena potevo andavo a trovarla nella sua casa in centro a Milano. E parlavamo, parlavamo. Era sempre molto contenta quando andavo da lei».

È morta Milva, la "Rossa" della canzone d'autore. Anna Bandettini per repubblica.it il 24 aprile 2021. Nel 2010 sulla sua pagina Facebook aveva scritto una lettera bella e commovente. "Dopo cinquantadue anni di ininterrotta attività, migliaia di concerti e spettacoli teatrali sui palcoscenici di una buona metà del pianeta, dopo un centinaio di album incisi in almeno sette lingue diverse, ho deciso di mettere un punto fermo alla mia carriera (...) che credo grande e unica, non solo come cantante ma come attrice ed esecutrice musicale e teatrale (....). Ho deciso di abbandonare definitivamente le scene e fare un passo indietro". A undici anni da quel saluto, Milva ha dato addio alla vita. La "Rossa", come la sua famosa fulgida chioma di capelli ramati, è morta a 82 anni: da un po' aveva perso la coscienza del tempo e della memoria, viveva nella casa di via Serbelloni, pieno centro di Milano, con la fida segretaria Edith e l'affetto incondizionato della figlia, Martina Corgnati, critica d'arte. Con Mina e Ornella Vanoni, è stata protagonista della musica italiana dagli anni Sessanta, ma, più irrequieta e volitiva delle colleghe, Milva ha saputo cambiare e trasformarsi, usando curiosità, bravura, versatilità per costruire una carriera unica, lunga oltre mezzo secolo, 173 album e lanciata in più direzioni, talvolta anche opposte: cantante ma anche attrice, pop a Sanremo, dove fu in gara per quindici volte - senza mai vincere (e le scaramucce non sono mancate)-; engagé come interprete dei canti della Resistenza, di Bella ciao, delle Canzoni del tabarin e dei Canti della libertà; protagonista alla Deutsche Oper di Berlino con I sette peccati capitali di Brecht e Weill e conduttrice di Al Paradise il varietà del sabato sera, fino a diventare la sofisticata interprete prediletta di autori, registi e compositori come Giorgio Strehler e Astor Piazzolla, Franco Battiato e Vangelis, Luciano Berio ed Ennio Morricone. Maria Ilva Biolcati era nata a Goro (e la "pantera di Goro" è stato a lungo il su nomignolo), il 17 luglio del 1939. "A 7 anni insistevano con mia madre di farmi cantare, lei minimizzava", ricorderà. Giovanissima, nel 61, ventiduenne timida e naif, magra e longilinea come è sempre rimasta, dotata di una estensione vocale straordinaria, approda al festival di Sanremo, dove si qualifica terza con Il mare nel cassetto. Quello stesso anno debutta nel cinema (La bellezza d'Ippolita accanto a Gina Lollobrigida) e sposa Maurizio Corgnati regista televisivo, intellettuale, parecchio più anziano ("mi sentivo la sua bambina"), un pigmalione che avrà su Milva una influenza importante, come non accadrà, dopo la separazione, con altri compagni, gli attori Mario Piave e Luigi Pistilli, il filosofo Massimo Gallerani. Ha già assimilato ricchezze e successo - nel '62 era approdata all'Olimpia di Parigi - quando nel 1965 Paolo Grassi invita Milva al Piccolo a interpretare i Canti della Libertà, il primo passo di un trentennale sodalizio con Giorgio Strehler che con lei farà Io, Bertolt Brecht e poi la dirigerà in Milva canta Bertolt Brecht e in Io, Bertolt Brecht N°2 con Tino Carraro. "Strehler amava la mia umiltà. A lui devo tutto quello che so, così come a Maurizio Corgnati: mi hanno insegnato tanto e mi mancano molto", dirà. Strehler fa di Milva una delle più accreditate interpreti del repertorio brechtiano, in Italia e perfino in Germania, e la sceglierà come indimenticabile Jenny delle Spelonche nell'edizione del '73 dell'Opera da tre soldi accanto a Domenico Modugno, che indossava i panni di Mackie Messer. La voce, la capacità di adeguarsi a qualsiasi genere di musica, la facilità a parlare lingue straniere fanno il resto: Milva diventa una delle grandi interpreti della musica colta e d'autore. Incanta il pubblico tedesco con i Lieder (riceverà la prestigiosa Onorificenza di Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania), affascina anche i francesi con la versione italiana di Milord di Edith Piaf, entra nelle hit parade con La filanda dal repertorio di Amalia Rodrigues, diventa la voce preferita di Mikis Theodorakis, senza contare le incursioni nella musica colta d'avanguardia, come quando alla Piccola Scala di Milano, interpreta il Diario dell'assassinata di Gino Negri e alla Scala La vera storia, di Luciano Berio, tratta da Calvino, con esiti trionfali tanto che replicò all'Opéra di Parigi, al Maggio Fiorentino, all'Opera di Amsterdam. Dagli anni Ottanta prolificano le collaborazioni importanti: con un grande regista come Peter Brook (tra gli esiti c'è El tango poi curato da Filippo Crivelli), con Astor Piazzolla, Franco Battiato (gli album Milva e dintorni con la bellissima Alexanderplatz, Svegliando l'amante che dorme e l'ultimo del 2010 Non conosco nessun Patrizio), Vangelis (Dicono di me), canta Luigi Tenco, Fiorenzo Carpi, Fabrizio De André, Alda Merini, Enzo Jannacci che la avvicinò al suo surreale mondo con l'album La Rossa. Tra gli ultimi impegni il teatro: La Variante di Lüneburg dal libro di Paolo Maurensig e a Vienna Der Besuch der alten Dame (La visita della vecchia signora) di Durrenmatt dove recita nientemeno che in lingua tedesca. Infine, nel 2018 il Festival di Sanremo di Claudio Baglioni le assegna il premio alla carriera e nel ringraziamento letto dalla figlia Martina sul palco dell'Ariston, Milva si rivolge ai giovani: "La musica spazza via la polvere dalla vita e dall'anima degli uomini. Ma perché questo accada bisogna studiare e attingere dal passato". E il "passato" che Milva lascia è nel segno del coraggio, di quando cantava, prima che si parlasse dei femminicidi, la femminilità negata in Sono felice o Uomini addosso, un grido contro la violenza contro le donne.

Bella Ciao, la "Rossa" che piaceva ai compagni. Paolo Giordano il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Vicina ai socialisti di Nenni, votò Pci contro "l'avvento di Craxi". Le posizioni pro migranti. E figurarsi se taceva. Con quella voce lì, poi. La potenza interpretativa di Milva non si fermava sul palco. Andava oltre, esondava, diventava il suono teatrale della Weltanschauung, di una concezione del mondo che era chiaramente ispirata ai valori integrali della sinistra socialista. Sin dalla fine degli anni Sessanta, quando più o meno si avvicinò al mondo complesso e impegnato di Giorgio Strehler con il quale ebbe un grande «amore intellettuale», Maria Ilva Biolcati, in arte prima Sabrina e poi Milva, si è spesa per i diritti dei lavoratori, per la parità di genere e per la tutela dei deboli e degli esclusi. Più nei fatti, ossia con le scelte artistiche, che con le parole o le dichiarazioni imbellettate che compiacciono tanto i salotti. Milva era una «pasionaria». Non usava giri di parole, salvo quando recitava o cantava. E non si è mai smentita, diventando anche in questo caso un unicum in un panorama artistico come quello italiano, così fitto di voltagabbana, di opportunismi, di non detti (ma pensati) e di democristianità vaga e conveniente. Aveva recitato per Gino Bramieri, poi recitò Bertolt Brecht, il drammaturgo di riferimento della cultura comunista. E lo fece ad altissimi livelli, non soltanto grazie a una dizione cristallina e a una gestualità elegante ma popolana, autorevole ma non arrogante. Diventò una delle interpreti brechtiane in assoluto più apprezzate nel mondo anche grazie alla vicinanza ideologica, all'identità tra recitazione e pensiero, alla contiguità tra il suo universo culturale e quello del poeta e regista tedesco obbligato all'esilio durante il Terzo Reich. Già quando si presentò poco più che ventenne al concorso per voci nuove (che poi vinse e la portò al Festival di Sanremo) era vestita più come un'esistenzialista alla Edith Piaf che come Nilla Pizzi. Pantaloni neri, dolcevita nero e foulard al collo, non gonna e camicetta bianche. E aveva di certo fortissima la passione, l'impegno di chi non si limita soltanto a fare la cantante. Milva era un'artista e, come tale, creava contrasti, divisioni, flussi di pareri contrastanti. Anche tra i critici, che non l'hanno sempre accolta come meritava, a conferma del fatto che la «frontalità artistica» non sempre coincide con il consenso unanime. Mentre cresceva il suo consenso all'estero, dalla metà degli anni Ottanta, la Milva che aveva cantato Bella ciao a Canzonissima, iniziò a perdere punti di riferimento nella scena politica italiana. Venendo dalla cultura socialista, quella combattente dei Nenni e dei Pertini, era rimasta disorientata dal Psi di Bettino Craxi, arrivando a fare pubblicamente la dichiarazione che all'epoca molti altri artisti facevano, ma soltanto in privato: «L'avvento di Craxi ha portato alla distruzione del partito socialista e tutti noi che eravamo socialisti, ad esempio Strehler, abbiamo deciso di votare Pci». Un percorso coerente, forse inevitabile, ma chiaro, netto e, soprattutto, confermato fino alla fine. In una delle sue ultime interviste aveva commentato così il malumore della sua Goro per l'arrivo dei migranti: «Se vivessi ancora nella mia Goro e potessi disporre di adeguati spazi sarei stata lieta di dare una mano, una speranza, un sollievo a chi ha dovuto abbandonare tutta la propria vita, verso un futuro incerto». Non lo poteva fare perché era malata e perché viveva ormai da tanti anni nel centro di Milano con la sua fedelissima e riservata assistente. Con lei se ne va una delle ultime voci indomate che non parlava per avere consenso (oggi sono like), ma per il coraggio delle proprie idee. Anche quando erano indifendibili.

Mattia Marzi per “Il Messaggero” il 25 aprile 2021. Nel 2002 tra battutine e frecciatine scherzose da grandi dive il loro duetto in tv a Testarda io, lo show di Iva Zanicchi su Rete 4, conquistò i telespettatori: l'Aquila di Ligonchio e la Pantera di Goro si scambiarono i successi, da Zingara a Canzone, passando per Ci amiamo troppo e La filanda. Dodici anni dopo ricordando quel momento e l'amica appena scomparsa la grintosa cantante emiliana, 81 anni, non nasconde l'emozione: «Ora la veneriamo e la omaggiamo, ma per anni Milva è stata dimenticata da tutti. A partire dalla Rai». Da ieri, però, in onda ci sono diversi speciali, sia in tv che in radio. Tra le altre cose, sarà ricordata stasera a Che tempo che fa su Rai3, alle 12.55 Su Rai5 con la registrazione del balletto I 7 peccati capitali dei piccolo e su Radio2 alle 12 con una puntata speciale di Grazie dei fiori di Pino Strabioli.

Troppo tardi?

«Sì. Ora la mettiamo sull'altare, ma con la quantità di materiale d'archivio che la Rai ha a disposizione avrebbe potuto e dovuto organizzare grandi omaggi prima. Invece non ne hanno mai parlato. Hanno ricordato e fatto speciali televisivi per i cani e per lei niente. La figlia Martina ha dovuto battersi anche per farle avere un premio alla carriera a Sanremo...». 

Forse era considerata troppo poco pop per speciali tv?

«Che discorso è? Milva è stata un'artista grandissima. E nella sua carriera non ha fatto solamente teatro e musica colta, da Brecht a Berio, ma anche pop. Penso alla collaborazione con Battiato: Alexander Platz resta un successo senza tempo. E poi i Festival di Sanremo: 15 in tutto, un record. Davvero, non mi spiego i motivi di questo disinteresse. Ma ora basta polemiche. Parliamo di Milva».

Quando vi conosceste?

«Nel 59 ai provini di un concorso per voci nuove della Rai, a Bologna. Cantai di fronte a un maestro e a una signora alta, severa. Mi dissero: Rimanga qui fuori, dobbiamo riascoltarla. Allora mi sedetti su una panchina. C'era una ragazza con una cofana rossa e un naso particolare. Ci presentammo. Ma subito dopo quella signora uscì e rivolgendosi a lei disse: Cara, ce l'hai fatta: hai vinto tu. Poi, però, anche io cominciai a prendermi le mie soddisfazioni».

C'era rivalità?

«Non proprio. Il fatto è che Milva piaceva tantissimo alla mia mamma. Non si perdeva un'esibizione in tv. Le dicevo: Sei più fan di Milva che di tua figlia. Non ti piace come canto?. E lei mi rispondeva: Tu sei brava, ma la Milva è la Milva.... Alla fine diventai anche io sua fan per far contenta la mamma».

Che ricordi ha degli show degli Anni '60?

 «Dietro le quinte facevamo a gara a chi era più elegante. Poi arrivava lei e non ce n'era per nessuno: semplicemente inarrivabile. Sul palco aveva una classe unica: forse anche per l'esperienza teatrale».

Un aneddoto?

«Eravamo a Napoli per registrare una puntata del varietà Senza rete. Cenavamo insieme in albergo. La prima sera io mangiai una mozzarella enorme, quattro pomodori, spaghetti al pomodoro e pure il dolce. Lei un pezzettino di carne e un bicchiere d'acqua. Pensai: Ma questa non sta bene. La scena si ripeté anche la seconda sera. Mentre mangiavamo mi guardò e mi disse: Quanti anni hai, cara?. Le risposi: Siamo coetanee. Perché?. E lei: Se continui a mangiare così quando arriverai a 50 anni sarai una botte. Mi distrusse. Però la terza sera mangiai comunque l'ira di Dio. Forse è arrivato il momento di fare un fioretto in suo onore (ride)».

L'ultima volta che l'ha sentita?

«Lo scorso autunno, quando sono stata ricoverata in ospedale per Covid. Mi arrivò sul cellulare un messaggio affettuoso, firmato Milva. Non pensai a lei, ma ad una mia amica che ha il suo stesso nome, e non le risposi. Il giorno dopo mi chiamò la segretaria Edith: Zanicchi, sta bene? La signora Milva ci teneva ad avere sue notizie. Me la passò e mi scusai. Ma mi accorsi subito che era in grande difficoltà. Le dissi che l'avrei richiamata, ma quella fu l'ultima volta che parlammo».

"Se l'è cercata". Il delirio degli odiatori no vax contro Milva. Novella Toloni il 25 Aprile 2021 su Il Giornale.  La cantante è finita nel mirino di negazionisti e no vax che hanno commentato con odio e violenza il post del 26 marzo sul vaccino. "Ora che sei morta ti vaccineresti ancora?" "Ora che sei morta ti vaccineresti ancora?", "Se l'è cercato", "Ha fatto l’effetto desiderato??". Il delirio no vax non risparmia neppure il dolore, quello per la morte della cantante Milva. A poche ore dalla notizia della scomparsa della "Pantera di Goro", decine di no vax hanno preso di mira il suo profilo Facebook, commentando con estrema violenza il post in cui la cantante si vaccinava e invitava i fan a fare altrettanto. L'annuncio della morte di Milva - scomparsa all'età di 81 anni dopo aver lottato per lungo tempo contro una malattia, che le aveva fatto perdere l'uso delle gambe e la memoria - ha lasciato attonito il mondo della musica e non solo. Decine i messaggi di affetto e stima pubblicati sui social network da volti e noti e fan per ricordare la sua voce e una carriera lunga oltre mezzo secolo. Lo scorso 26 marzo Milva si era sottoposta al vaccino e sulla sua pagina Facebook aveva condiviso quel momento: "Io mi vaccino perché tengo alla mia vita a e alla vita altrui. Fatelo anche voi. Abbiamo bisogno di tornare alla vita di prima, e di abbracciare i nostri cari. Tutti quanti insieme possiamo farcela a sconfiggere questo virus". Dopo neanche un mese ecco sopraggiungere la morte e il popolo del web si è scatenato con commenti che lasciano a dir poco sconcertati. "Era un soggetto molto fragile e già molto ammalata di conseguenza non sappiamo se ci sia relazione con il vaccino", ha scritto un fan sotto l'ultimo post della cantante. Nemmeno il lutto ha fermato l'ondata di odio dei no vax che hanno preso letteralmente d'assalto il profilo di Milva con vergognosi commenti: "Come vedi cara Milva quando arriva la tua ora nn c'è vaccino che tenga... Neh!! se nn è stato proprio il vaccino a farti stendere i piedi", "Eh beh! Oggi la vita ti ha salutata... sarà mica il prezioso vaccino". E ancora: "Ecco infatti è morta subito, neanche 1 mese è passata", "Se non ti fossi fatta vaccinare, magari saresti ancora viva..". Decine di commenti, i più violenti addirittura rimossi dallo staff della cantante scomparsa, che non hanno risparmiato la famiglia e i fan dall'ulteriore dolore.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 25 aprile 2021. Una donna che ha amato tanto. «Mia mamma è stata una persona che ha dato tutto ciò che aveva per amore del suo pubblico, della musica e dell'arte. Senza risparmiarsi, sempre con grande passione». Primo pomeriggio di sabato, casa di via Serbelloni a Milano. Martina Corgnati, 57 anni, una carriera di affermata storica e critica dell'arte, si sta occupando di ciò che non avrebbe mai voluto: il funerale della madre Ilvia Maria Biolcati, per tutti Milva. «Una grande donna, con un carattere bello forte. Del resto non si arriva così in alto se non si è forti», riflette la figlia. «Ha dato tanto al mondo dello spettacolo ed è stata ricambiata, forse in alcuni momenti più e in altri meno. Leggevo proprio adesso delle cose un po' irritanti che hanno scritto su di lei». Gli amori, i colpi di testa e i tormenti di una donna che ha vissuto la luce e il buio dell'amore. Nel 1961 sposa Maurizio Corgnati, regista televisivo colto, ventidue anni più grande di lei. Si incontrano negli studi Rai di Torino, lei cammina a piedi scalzi. Corgnati resta folgorato, nel 1963 si sposano, per Milva sono anni di grande crescita intellettuale e affettiva, grazie alla nascita della figlia. «L'ho fatto tanto soffrire», confesserà lei dopo averlo lasciato. È il 1969 e la cantante diventa la protagonista dell'amore estivo più chiacchierato: quello per l'attore Domenico Serughetti, in arte Mario Piave. La relazione dura quattro anni, lui tenta due volte il suicidio e nel 79, dopo la rottura, viene trovato morto nella sua auto a Roma, ucciso da cinque colpi di pistola. Nei primi anni 70 il destino di Milva incrocia quello del filosofo Massimo Gallerani, si innamorano e l'unione è profonda: vivono in case separate distanti pochi metri e restano insieme quindici anni. Negli anni Novanta la passione per Brecht e il teatro la unisce a Luigi Pistilli, uno dei principali interpreti del drammaturgo tedesco, e per lei divorzia dalla moglie Liliana Zoboli. Dopo cinque anni si lasciano, lui sfoga il suo rancore sui giornali, viene travolto dalla depressione e nel 1996 si impicca prima di andare in scena. Lasciandole un messaggio: «Ho sbagliato tutto, scusa per l'intervista, è infame». Il risultato di tutto questo è Milva, che lascia un ricordo «di forza, di energia capace di affrontare qualsiasi sfida, di scalare qualunque montagna», racconta la figlia. «È stata serena fino all'ultimo. Non voleva mostrarsi in pubblico, aveva pudore della decadenza fisica dell'età. Ma ascoltava ancora musica, la sua curiosità è rimasta intatta. Sia classica che leggera. Ha guardato anche l'ultimo Festival di Sanremo».

Masolino D'Amico per “La Stampa” il 25 aprile 2021. Nella sua carriera Milva riuscì a conciliare con pari successo due facce che di rado coesistono nello stesso performer, popolare e colta; una televisiva, per le masse, e una teatrale, per i raffinati. Con la prima nacque; la seconda la conquistò. Sì, il merito della sua evoluzione fu almeno inizialmente attribuito ai guru che vollero istruirla, prima il marito intellettuale Maurizio Corgnati, e poi il sommo maestro Giorgio Strehler. Da entrambi imparò avidamente. Senza dubbio attirato dalla sua voce così insolita e così espressiva, Strehler si mise in testa di insegnarle il repertorio brechtiano, praticamente sconosciuto in Italia (era il 1965). A chi gli chiedeva come se la cavasse in quel mondo da lei così lontano, «Bene - rispose -. Però oggi mi ha domandato, maestro, si può sapere chi è questo imbianchino e perché ce l'ho tanto con lui?» L'imbianchino era ovviamente Hitler, pittore della domenica, di cui Brecht si beffava amaramente. Strehler le insegnava a tirare fuori tutto il disgusto che l'allusione ispirava, ma dava per scontato che Milva sapesse di cosa si stava parlando...L'aneddoto farebbe ridere se applicato a una sprovveduta principiante; ma fatto sta che in capo a pochi anni Milva si sarebbe impossessata di quel repertorio con una forza tale da diventarne l'interprete più ammirata, anche nei paesi di lingua tedesca. Da Strehler non aveva preso solo la superficie, i gesti, gli accenti da mettere sulle parole, aveva inghiottito, digerito, assimilato, nel più profondo di sé. Anche nel repertorio leggero del resto certe volte la voce le veniva fuori dalle viscere, e lei diventava una specie di Edith Piaf padana. Gli spettacoli brechtiano-strehleriani furono quattro, tre tra il '65 e l'82, più uno ancora - Milva canta un nuovo Brecht - nel '95. Nel frattempo Strehler l'aveva anche inserita nella riedizione della sua celebre Opera da tre soldi, al posto della mitica Milly. Milly era stata una cinica, disincantata Jenny dei Pirati, una misteriosa, vecchia donna di vita che ne ha viste di tutti i colori. Milva invece era giovane, anche se Strehler la invecchiò un po' con occhiaie e caschetto nero; e pronunciata con calma, dizione impeccabile e sarcasmo contenuto, la sua profezia di una nave pirata che presto arriverà a bombardare la città e a vendicare la reietta Jenny sterminandone gli abitanti risultava altrettanto inquietante. Naturalmente l'attività teatrale di Milva non cominciò né finì con Strehler. Ci furono apparizioni in commedie musicali brillanti - Angeli in bandiera di Garinei e Giovannini ('69) - recital concepiti e diretti da Filippo Crivelli (Canzoni tra le due guerre, '79, '92 e '97, El tango '87), esperienze con altri registi importanti come Gianfranco De Bosio (Ruzante, '68), Maurizio Scaparro (La vera storia, '82), Lulu di Wedekind con Mario Missiroli ('90). Un altro Brecht-Kurt Weil, senza Strehler stavolta ma con Marcello Panni anche direttore d'orchestra, fu I sette peccati capitali, ripreso parecchie volte tra l'81 e il 2000. Quasi sempre testi che richiedevano la musica e il canto. Come attrice di prosa pura ebbe meno occasioni, anche il cinema la sfruttò poco, ed è un peccato che non abbia avuto seguito la sua apparizione in un film oggi dimenticato, La bellezza di Ippolita di Giancarlo Zagni ('62), dove era l'infida amica di Gina Lollobrigida e sfoggiava un umorismo che pochi avrebbero saputo sfruttare in seguito. Ma che senso ha rimpiangere quello che non è avvenuto nella carriera di un talento straordinario che la sua fortunata proprietaria seppe investire al meglio, partendo da molto in alto, arrivando in cima e poi continuando a salire? Una volta rimproverarono Nureyev di avere ingaggiato nella sua troupe un ballerino giovane e forse troppo bravo. Lui rispose, «Voglio che il pubblico veda cento, e poi quando arrivo io voglio che veda centouno.» I grandi artisti sono così.

Gli 80 anni di Milva. Intervista. Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” (da cinquantamila.it). Ilva Biolcati, in arte Milva, compie oggi 80 anni. Assieme a Mina e Ornella Vanoni è una delle più grandi cantanti italiane. Per estensione vocale, per varietà di repertorio e per un intrinseco talento. Stupiva la sua capacità di incantare il pubblico tedesco con i Lied cantati in lingua originale. Lucida, disturbata da due fratture del femore, esce poco. Milva, nata a Goro, un paesino del delta padano, (da cui l’attributo «La pantera di Goro») è stata tra i protagonisti di Sanremo e di importanti palcoscenici nel mondo. A Milano era la beniamina di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, ma anche la preferita della sinistra italiana e internazionale: amica di Teodorakis, di Luciano Berio, interprete brechtiana per eccellenza. Ha avuto onorificenze in Francia, in Germania e in Italia. Raiuno la celebra stasera a Techetecheté, Goro la festeggia sabato 20. Per i suoi 80 anni Milva ha concesso un’intervista al Corriere, aiutata dalla figlia Martina e da Edith, la sua assistente.

Ha appena acceso una sigaretta. Irriducibile?

«Mi dà piacere fumare».

A parte il fumo che cosa le dà ancora emozioni?

«Fumare non è un’emozione, è solo un piacere, un piccolo vizio se vuole. Trovo delle emozioni nella musica, in un’opera d’arte, nell’affetto profondo dei miei familiari e nelle persone che mi sono vicine, nei tortellini come li faceva mia madre… e nel dormire bene».

Quali figure sono state determinanti per la sua vita artistica?

«Parecchie ma in fondo non moltissime: mio marito, Maurizio Corgnati; il regista Giorgio Strehler; Astor Piazzolla e, per altri versi, Franco Battiato, Enzo Jannacci e Luciano Berio. Un’altra persona alla quale devo molto è Klaus Ebert, il mio primo produttore discografico in Germania e alcuni altri».

Chi è stato fondamentale nella sua vita privata?

«Mia mamma Noemi (mi ricordo di lei tutti i giorni e la sua presenza mi manca ancora); Madre Giannina: ero una bambina nel periodo che ho passato a Bassano del Grappa in collegio dalle suore Canossiane; Madre Teresa che mi ha insegnato a suonare l’organo e il pianoforte; mia sorella Luciana che è sempre stata con me soprattutto agli inizi della mia carriera; mio marito Maurizio; mia figlia Martina... forse non è stato facile quando lei era piccola ma siamo sempre state profondamente unite; Massimo Gallerani, con cui ho avuto una lunga storia, importante; e la mia assistente Edith Meier, alla quale sono molto legata».

Come è riuscita a cantare i «lied» meglio dei tedeschi?

«Non lo so, non so se sia meglio… l’ho fatto a mio modo, con un calore e un coinvolgimento che a me era indispensabile e che forse era diverso».

Le manca il palcoscenico?

«Sempre e mai. Fra i sogni, qualche volta è un incubo ma anche un bisogno e una missione che, a mio modo, credo di aver compiuto».

Come ha visto cambiare negli anni in teatro e la canzone italiana?

«È cambiata, ma non saprei dire con esattezza in che modo. Penso che oggi come allora ci siano dei grandi talenti. Dei giovani mi piace Francesco Gabbani che riesce ancora a divertirmi, Laura Pausini e pochi altri».

Lei è stata attrice e cantante molto versatile, da Battiato a Strehler. Ma c’è qualcosa che ha prevalso nei suoi gusti personali?

«Sono lusingata di aver collaborato con grandi personaggi e uomini di cultura come Strehler o Werner Herzog … però io ho sempre fatto quello che mi piaceva, che mi sembrava importante e, comunque, nel mio gusto. La buona musica mi ha sempre raggiunta nel più profondo dell’anima e ho cercato di renderle giustizia con la mia voce. Interpretare è amare».

Guarda la tv?

«Guardo poco la televisione, soprattutto dei buoni film ma anche tanti documentari su luoghi che magari ho attraversato senza vederli davvero. E poi arte, tanta arte».

Un consiglio alle nuove generazioni...

«Rischiare, essere ambiziosi, andare fino in fondo. Come il messaggio che ho voluto mia figlia portasse a Sanremo: “Gli artisti spazzano via la polvere dalla vita degli uomini ma perché questo accada l’arte deve essere continua ricerca. Bisogna studiare, attingere dal passato e modellare il sentimento, le emozioni e il gusto del presente».

Che cosa significa per lei la vecchiaia?

«I pregi, a dire il vero, sono davvero pochi. Ma forse c’è più tempo per ricreare equilibri, fare valutazioni, assaporare il vissuto, arrivare a una saggezza».

Come si sente?

«Sempre in bilico, indecisa su tutto, come 60 anni fa, quando iniziai la mia carriera. Sono onorata che Goro, il paese dove sono nata, il 20 luglio dedicherà a me una giornata con degli artisti locali».

Rimpianti?

«Keine Stunde, tut mir Leid. È il titolo di un mio cavallo di battaglia (di Peter Maffay e Burkhard Brozat), l’ho cantato tantissime volte in Germania… Vuol dire: “Nemmeno un’ora rimpiango”».

Arianna Ascione per corriere.it il 24 aprile 2021.

Nemmeno un’ora rimpiango

«Keine Stunde, tut mir Leid. È il titolo di un mio cavallo di battaglia (di Peter Maffay e Burkhard Brozat) , l’ho cantato tantissime volte in Germania…Vuol dire: “Nemmeno un’ora rimpiango”»: ecco cosa diceva Milva (nell’intervista del 2019 realizzata in occasione dei suoi 80 anni da Mario Luzzatto Fegiz) a proposito dei suoi rimpianti. Il 17 luglio 2021 la «pantera di Goro» - che nel 2010 si è ritirata dalle scene - avrebbe compiuto 82 anni: si è spenta a Milano il 24 aprile 2021. Forse un piccolo rimpianto lo porterebbe ancora con sé, guardando alla sua tormentata vita sentimentale. «È l’uomo che ho amato di più e rimpianto sempre» diceva qualche anno fa a proposito dell’unico uomo che ha sposato: Maurizio Corgnati.

Maurizio Corgnati, il suo pigmalione.

«Penso alla morte di mio marito Maurizio Corgnati, che non ho saputo amare abbastanza, che ho fatto tanto soffrire»: cruciale per Maria Ilva Biolcati (che nel 1959 aveva partecipato ad un concorso per voci nuove, vincendolo) e il regista fu il loro primo incontro negli studi Rai di Torino, durante la registrazione del programma televisivo «Quattro passi tra le nuvole».

Lei lo colpì con una sua insolita abitudine: «Camminava scalza e portava le scarpe dentro una borsa. “E' un' abitudine che ho preso da bambina” mi spiegò. Non conosceva nulla. Per questo decisi di prenderla sotto la mia protezione». Corgnati aveva 22 anni più di lei e quell’amore, che sbocciò mentre lavoravano insieme, diede subito scandalo nell’Italia benpensante dell’epoca.

Si sposarono, nel 1961, nel 1963 nacque la figlia Martina, e la coppia iniziò fin da subito a lavorare sodo: forte della sua lunga esperienza Maurizio insegnò a Milva tutti i segreti del mestiere, facendola evolvere artisticamente (fu lui ad esempio a raccontarle chi fosse Bertolt Brecht, visto che Giorgio Strehler le aveva proposto di preparare un suo monologo). Ma nel 1969 la cantante perse la testa per un altro uomo: Domenico Serughetti, in arte Mario Piave. E, dal giorno alla notte, il matrimonio finì. «Se ne andò una notte e si portò via anche la nostra bambina» raccontò Corgnati.

Mario Piave, un amore scandaloso. Quello tra Milva e Mario Piave fu l’amore più chiacchierato dell’estate del 1969: la coppia si era conosciuta l’anno prima, durante le repliche de «Il Ruzante», e dopo pochi mesi la rossa più famosa della musica italiana lasciò suo marito (non senza scatenare roventi polemiche). Una decisione di cui la cantante si è sempre pentita: «Ebbero ragione a criticarmi. È stata la più grande cavolata della mia vita. Ero giovane, avevo 28 anni, fui attratta da un mio coetaneo», raccontava nel 2007 a Io Donna. La relazione fu burrascosa: durò soltanto quattro anni, tra alti e bassi (i due litigavano frequentemente e Piave tentò due volte il suicidio). Anche a distanza di tempo Milva non ha mai più voluto parlare di quell’amore, purtroppo segnato da un evento tragico: nel 1979, qualche anno dopo la rottura, Mario fu trovato morto alle porte di Roma nella sua auto, una Fort Taunus. Era stato ucciso con cinque colpi di pistola.

Il legame con il filosofo Massimo Gallerani. «Un amore fatto di passione ma anche di tante altre cose. Certamente la vicenda sentimentale più completa della mia vita». Con il filosofo Massimo Gallerani, conosciuto nei primi anni Settanta, Milva rimase ben quindici anni. Hanno sempre vissuto in due case separate, distanti pochi metri - lei non si sentiva pronta per andare a convivere - e durante la loro relazione lui si occupò anche dei testi di alcune sue canzoni (come «L’ultima Carmen» e altre contenute nel disco del 1986 «Tra due sogni»). Era «bello, intelligente e speciale» (così lo descriveva lei) ma nel 1989 la abbandonò per una donna più giovane. Un evento che la cantante visse «come un lutto, come una morte, come la scomparsa di una persona cara». Così cadde in depressione: «È stato un grande amore. Che avrei potuto vivere infinitamente meglio, se non fossi stata sempre lontana, trascinata via da mille impegni ai quali non riuscivo, non volevo sottrarmi».

Luigi Pistilli, che lasciò tutto per lei. Fu la passione per Brecht e per il teatro ad unire negli anni Novanta Milva e l’attore Luigi Pistilli - considerato uno dei migliori interpreti delle opere del drammaturgo tedesco - che per lei trovò il coraggio di divorziare dalla moglie Liliana Zoboli, da cui era già separato: «Sono molto innamorato - raccontò nel 1990 al Corriere della Sera - ho nella testa Milva da molto tempo ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Poi, una sera a cena del gennaio ‘91, finito di recitare insieme la Lulù di Wedekind, le feci una dichiarazione come si usava una volta». Lei rispose: «Forse non dovrei dirlo ma: non potevi muoverti prima?». Si parlò di matrimonio, ma dopo cinque anni Milva interruppe il rapporto. L’attore, che soffriva di depressione, nel marzo 1996 rilasciò un’intervista al settimanale Oggi in cui attaccò ferocemente l’attrice: «Milva non ama gli uomini, lei li mastica, le fanno comodo. Lo dimostra il fatto che l' anno più felice della nostra tormentata relazione è stato il ' 95, quando ero in tournee e con "Terra di nessuno". In quel periodo Milva era molto disponibile e tenera con me, ha visto lo spettacolo sedici volte, raggiungendomi ovunque. Mi sentiva indipendente, vedeva che il mio lavoro andava bene e quindi mi stimava, non costituivo un peso per lei». Un mese dopo, il 21 aprile, si tolse la vita, impiccandosi nella sua casa di via Mozart a Milano poche ore prima di apparire nell’ultima replica di «Tosca ovvero prima dell'alba» di Terence Rattiga al Teatro Nazionale (spettacolo che era stato duramente stroncato dalla critica). Prima di morire scrisse un biglietto, in cui si scusava con la cantante per i toni usati nell’intervista: «Ho sbagliato tutto, scusa per l' articolo su Oggi. È infame». Quando la notizia del suicidio arrivò in sala - si attendeva proprio l’arrivo dell’attore per dare il via alla rappresentazione - Milva, che si trovava nel suo camerino, lanciò un urlo e si chiuse nella stanza insieme alla sua assistente. Arrivata a casa staccò il telefono, per non parlare con nessuno e ai funerali non si presentò. Per questo fu attaccata dalla stampa: «Non hanno avuto pietà, nè di Gigi, nè di me. Perchè non c'è più pudore nei sentimenti. Non c'è più compassione, nè cristiana nè, semplicemente, umana - replicò in un’intervista pubblicata su Famiglia Cristiana - Hanno scritto persino che sono fuggita in Germania pur di non essere al funerale di Gigi. Dovevo partecipare a uno spettacolo televisivo europeo dedicato a Brecht. Ho scongiurato gli organizzatori di cancellare la mia partecipazione. Nel cuore avevo un dolore immenso». A differenza di quanto è stato scritto - che era una donna fredda, incapace di amare - Milva si è sempre considerata «una donna vitale» mentre Pistilli, che lei aveva amato «in maniera che a lui non sembrava mai abbastanza», «era fortemente malato dentro, senza appigli, senza il senso della vita. Soffriva (nel giro di pochi anni aveva perso l’amata madre e suo figlio, ndr). Io ho cercato di aiutarlo e di seguirlo anche nel lavoro. La Tosca l'ho fatta per lui. Mi sono tolta un anno dal mio programma artistico per farlo contento. Ho pagato di persona perché gliel'avevo promesso, e ho sopportato le brutte critiche, gli incidenti di uno spettacolo nato male, non curato».

Gli ultimi anni. «Sono rimasta mezza persona. Piano piano, pezzo per pezzo che continuo a perdere. Ora è la seconda gamba (femore) che dopo un volo è andata in pezzi. Comunque, credere, credere che c’è sempre una via di uscita». Così Milva aveva raccontato il travaglio contro cui aveva lottato negli ultimi anni di vita. Nel 2010 aveva scelto di allontanarsi dalle scene proprio per i suoi problemi di salute che ultimamente la portavano a perdere sempre più spesso memoria e coscienza.

·        E’ morta la star di burlesque Annie Blanche Banks.

Gl. S. per "il Messaggero" il 22 aprile 2021. Si chiamava Annie Blanche Banks, ma tutto il mondo la conosceva come Tempest Storm, mitica star di burlesque specializzata in roventi spogliarelli. È morta a 93 anni nella sua casa di Las Vegas, dove si era stabilita nel 1995 dopo il ritiro dalle scene. Corpo prorompente, capelli fiammeggianti, sex appeal esplosivo e grande senso dell' umorismo, l' artista aprì la strada a un genere di spettacolo che oggi ha la sua massima esponente in Dita Von Teese. E di certo non scandalizza più nessuno. Ma quando Tempest Storm, soprannominata anche «l' uragano dai capelli rossi», si esibiva mandando il pubblico in visibilio, le stelle del burlesque incarnavano la trasgressione: Betty Grable, Bettie Page, Gypsy Rose Lee, Lily St. Cyr, Blaze Starr, Sally Rand, Jennie Lee, Josephine Baker con la stessa Tempest Storm hanno dato vita, nel secondo dopoguerra, all' epoca d' oro del genere che coniuga la danza con lo strip tease, la presenza scenica con le movenze erotiche. LA VITA Annie Blanche Banks aveva avuto una vita degna di un romanzo. Vittima di abusi nell' infanzia, era fuggita di casa molto presto. A 20 anni, già sposata e divorziata, sbarcò a Hollywood per lavorare come comparsa. Ma la sera faceva la cameriera in un bar e, come nelle migliori favole, venne notata da un cliente che la incoraggiò a debuttare nello strip tease.

IL SUCCESSO Presto diventò una star strapagata, interpretò molti film (The French Peep Show, Paris After Midnight, Striptease Girl, Teaserama) e alla fine degli anni '50 i suoi leggendari seni vennero assicurati ai Lloyd' s di Londra per un milione di dollari. Nel 1987 scrisse l' autobiografia Tempest Storm: The Lady Is a Vamp. Si sposò quattro volte, ma le vennero attribuiti flirt eccellenti con Elvis Presley, Sammy Davis jr, Vic Damone. E perfino con il presidente John F.

·        E’ morto il regista Monte Hellman.

Monte Hellman rip. Marco Giusti per Dagospia il 21 aprile 2021. Se ne va il leggendario Monte Hellman, 92 anni, regista di un capolavoro on the road della New Hollywood come “Two Lane Blacktop” con James Taylor e Dennis Wilson, del mai arrivato da noi “The Cockfighter” con Warren Oates, di western beckettiani, minimalisti e innovativi girati col suo amico Jack Nicholson, “La sparatoria” e “Le colline blu”, dello spaghetti western “Amore, piombo e furore”/”China 9, Liberty 37”, prodotto in Italia da Valerio De Paolis, fotografato di Giuseppe Rotunno con Warren Oates, Fabio Testi, Jenny Agutter e Sam Peckinpah, che si fece pagare con un paio di stivali di pelle di serpente. Anche dialoghista, location man, e soprattutto montatore, pochi conoscevano il cinema come lui e la lista di sue partecipazioni più o meno segrete per rimettere a posto piccoli e grandi film di amici e non amici è una specie di rompicapo hollywoodiano. Per Peckinpah fu montatore di “Killer Elite”, per Samuel Fuller fu regista della seconda unità di “Il Grande Uno Rosso”, per Paul Verhoven seguì la seconda unità di “RoboCop”, per Roger Corman, il suo maestro, fece davvero di tutto, montò “I selvaggi”, girò film nelle Filippine, e varie scene con Jack Nicholson di “La vergine di cera”. Per la Hammer Film filmò tutte le scene con Peter Cushing e Anton Diffring di “Shatter”, un action movie coprodotto con gli Shaw Brothers a Hong Kong, ma dopo tre settimane venne cacciato e il film fu firmato da Michael Carreras. Portò a termine la lavorazione di “Avalanche” con John Cassavetes e Lee Marvin dopo la morte di Mark Robson, il regista. E fu, soprattutto, il produttore esecutivo di “Reservoir Dogs”/”Le iene” di Quentin Tarantino che lo ha sempre considerato suo maestro. Quando venne a Venezia, invitato da Marco Muller nel 2010 col suo ultimo film, “Road to Nowhere”, il premio speciale della giuria glielo consegnò proprio Tarantino che lo definì “un grande artista del cinema e un grande poeta minimalista”. Fu qualcosa di commovente. Per tutti noi che avevamo seguito con affetto e attenzione la carriera spesso scombinata e non ufficiale di Monte Hellman conoscendone però il grande talento, fu una sorta di liberazione e una ricompensa per aver cercato di sopravvivere con dignità nella giungla del cinema americano. Monte Hellman era nato per caso a New York nel 1929, ma era cresciuto a Los Angeles. Aveva studiato Dramma a Stanford e poi cinema all’Ucla. Come Coppola, Scorsese, Demme e tanti altri giovani registi, il suo maestro e pigmalione fu Roger Corman. Gli dette perfino i soldi per presentare a Los Angeles per la prima volta a teatro “Aspettando Godot” di Samuel Beckett alla fine degli anni’50. Il suo primo film da regista, ovviamente per Corman, è “Beast From Haunted Cave” con Michael Forest e Frank Wolff nel 1959. Dopo aver girato alcune scene di “La vergine di cera” firmato da Roger Corman, nel 1964 firma ben tre film sempre per Corman e la AIP, “Backdoor to Hell” con Jimmie Rodgers e Jack Nicholson, “Flight to Fury” con Jack Nicholson e Fay Spain e “Cordillera”, co-diretto dal filippino Eddie Romero. Sono piccoli film di pura azione per un mercato internazionale che può assorbire tutto. Il vero Monte Hellman arriva nel 1966 coi suoi due incredibili western “La sparatoria”, con Jack Nicholson, Warren Oates e Millie Perkins e “Le colline blu”, con Jack Nicholson, Cameron Mitchell e Harry Dean Stanton, nati come due piccoli film di serie B, ma così stravaganti e affascinanti che lo impongono in tutto il mondo come regista di prima grandezza. Nel 1971 gira il suo film più famoso e amato dalla critica, “Two Lane Blacktop” con due star della musica americana con James Taylor e Dennis Wilson. Un road movie, ovviamente. “Io credo che i migliori film siano i road movies. La strada è molto enigmatica. La strada è la vita”, disse Hellman, che riteneva il film qualcosa che riguardava la vita interiore e non quella esteriore. Subito dopo è la volta di “Cockfighter”, con Warren Oates che traffica in polli da combattimento in Messico e Harry Dean Stanton. Prodotto da Roger Corman per la sua New World, fu uno dei pochi flop della società, e non venne mai distribuito in Europa proprio per le crudeltà sugli animali che si vedevano. E’ in questo periodo che gira, segretamente, per la televisione, una sorta di scena pre-titoli per la versione americana di “Per un pugno di dollari” con lo Straniero, una controfigura di Clint Eastwood, che viene rilasciato dalla prigione dal governatore, Harry Dean Stanton, e spedito a San Miguelin. Un brano che si vide in tv solo in America nel 1977 e che trovate anche su youtube. Quanto a “Amore, piombo e furore”, che nell’edizione originale si intitola in maniera più enigmatica “China 9, Liberty 37”, anche rivisto è un grande western alla Monte Hellman adattato allo spaghetti western e costruito su una passione che sconvolge i tre personaggi principali, Warren Oates, sua moglie Jenny Agutter e il nostro Fabio Testi. “Per me”, ha detto Hellman, “Fabio Testi rappresenta un po’ l’eroe. Warren Oates è la mia interiorità e la mia imperfezione. Conoscevo già Fabio Testi, che qui è stato davvero bravo. C’è un modo cioè di recitare delle scene che dà la dimensione non solo della bravura di un attore ma apre alla comprensione di tutto il film”. Sam Peckinpah, nel cammeo di un giornalista del west, sembra che abbia allungato molto la sua scena, visto che voleva chiuderla con un’ultima battuta che non arrivava mai. Hellman ha dichiarato che erano previste anche le partecipazioni di Federico Fellini e di Sergio Leone, quest’ultimo nel ruolo di un portiere d’albergo. Leone, quando vide Peckinpah ubriaco si rivolse al produttore e disse: “Mi dispiace ma con questo pazzo non ci lavoro”. Lo troviamo ancora al montaggio e al rimontaggio di parecchi film, anche di “Harry and Walter Go To New York” di Mark Rydell. Alla fine degli anni ’70, viene chiamato da Gene Corman, fratello di Roger, a completare e supervisionare “Avalanche Express”, film di super-azione dove nel giro di due mesi sono morti il coprotagonista Robert Shaw, giugno 78, e il regista-produttore Mark Robson, agosto 78. Parte delle riprese vengono completate anche dal direttore della fotografia Jack Cardiff, ma è Hellman a ricostruire il film al montaggio. Non si capisce bene cosa abbia fatto negli anni ’80, a parte dare una mano alla regia su “Il Grande Uno Rosso” di Samuel Fuller e su “RoboCop”. Rimonta anche parte di “Alla 39° eclisse” di Mike Newell. Torna con un film assolutamente stravagante, “Iguana”, un film di pirati italo-spagnolo con Everett McGill e Fabio Testi, nel 1988, e il film si vide a Venezia. Ma definì il film e tutta l’operazione come terribile. Un anno dopo gira un piccolo horror, “Silent Night, Deadly Night 3: Better Watch Out!” con Samantha Scully. Come regista di lungometraggi lo ritroveremo solo nel 2010 con il curioso e personalissimo “Road to Nowhere” con Thygh Runyan, Dominique Swain e il suo adorato Fabio Testi, un film sul cinema che sembra un po’ il testamento di una carriera contorta nei fatti, ma lineare nei risultati. Grande uomo di cinema e grande poeta minimalista. Come lo presentò Tarantino. Se ne va in quel di Palm Desert in California.

·        E’ morto il ballerino Liam Scarlett.

Da "leggo.it" il 18 aprile 2021. Liam Scarlett, ex ballerino e coreografo di fama internazionale, è morto all'età di 35 anni. Aveva lasciato il Royal Ballet lo scorso anno a seguito di accuse di abusi sessuali ai danni di giovani allievi. La sua famiglia ha parlato di «morte tragica e prematura», senza rivelarne la causa. Lo riferisce la Bbc. Appena un giorno prima il Royal Danish Theatre aveva annullato il suo spettacolo accusandolo di comportamenti inappropriati. Il Royal Ballet lo aveva invece trattenuto dopo una indagine interna, ma era stato lo stesso Scarlett, poco dopo, a lasciare la compagnia. Scarlett era entrato a far parte del Royal Ballet nel 2006 come ballerino e si era ritirato sei anni dopo per dedicarsi alla coreografia, firmando alcuni degli spettacoli di maggior successo, tra cui una nuova produzione del Lago dei cigni nel 2018. Nel 2019 era stato sospeso dal suo incarico dopo l'emergere di accuse di molestie ai danni di alcuni allievi, a seguito delle quali anche il Queensland Ballet australiano aveva cancellato una collaborazione con il coreografo. Venerdì, il Royal Danish Theatre aveva annunciato l'abbandono del progetto di un balletto dedicato a Frankenstein, di cui Scarlett avrebbe curato la coreografia. 

·        E’ morto lo l’inventore del pdf Charles Geschke.

Scomparso un "padre" della Silicon Valley. È morto Charles Geschke, inventore del formato Pdf e fondatore di Adobe. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Aprile 2021. Chiunque abbia un computer, ma anche un semplice smartphone, ha almeno una volta aperto un file in formato Pdf, acronimo di Portable Document Format. Venerdì, all’età di 81 anni, è morto il suo creatore. Charles ‘Chuck’ Geschke, co-fondatore della società di software Adobe Inc. che ha contribuito a sviluppare la tecnologia del Pdf, è morto a Los Altos, nella baia di San Francisco, stando a quanto riferito dalla società. “Questa è un’enorme perdita per l’intera comunità Adobe e l’industria tecnologica, per la quale è stato una guida ed un eroe per decenni”, ha scritto il ceo di Adobe, Shantanu Narayen, in un’e-mail ai dipendenti. “In qualità di co-fondatori di Adobe, Chuck e John Warnock hanno sviluppato un software rivoluzionario che ha trasformato in maniera radicale il modo in cui le persone creano e comunicano”, ha affermato Narayen. “Il loro primo prodotto – ha proseguito – è stato Adobe PostScript, una tecnologia innovativa che ha fornito un nuovo modo di stampare testo e immagini su carta e ha innescato la rivoluzione del desktop publishing. Chuck ha instillato in azienda una spinta incessante all’innovazione, dando vita ad alcune delle invenzioni software più rivoluzionarie, tra cui gli onnipresenti Pdf, Acrobat, Illustrator, Premiere Pro e Photoshop”. “Era un famoso uomo d’affari, il fondatore di una grande azienda negli Stati Uniti e nel mondo, e ovviamente ne era molto, molto orgoglioso ed è stato un grande risultato nella sua vita, ma non era il suo focus, davvero, la sua famiglia lo era”, ha detto sabato a Mercury News Nancy ‘Nan’ Geschke, 78 anni. “Si è sempre definito l’uomo più fortunato del mondo”, ha aggiunto. Dopo aver conseguito un dottorato alla Carnegie Mellon University, Geschke ha iniziato a lavorare allo Xerox Palo Alto Research Center, dove ha incontrato Warnock, secondo quanto riportato da Mercury News. Gli uomini hanno lasciato l’azienda nel 1982 per fondare Adobe, sviluppando software insieme. Nel 2009, il presidente Barack Obama ha conferito a Geschke e Warnock la National Medal of Technology. Nel 1992, Geschke è sopravvissuto a un rapimento, stando a quanto riferito dal Mercury News. Secondo quanto ricostruito da Associated Press, una mattina, mentre arrivava al lavoro, due uomini rapirono Geschke, allora 52enne, sotto la minaccia di una pistola e lo portarono a Hollister, in California, dove fu trattenuto per quattro giorni. Un sospetto bloccato con 650mila dollari di riscatto alla fine ha portato la polizia al nascondiglio dove era tenuto prigioniero.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia.

Morto Charles Geschke, fondatore di Adobe e creatore del formato pdf. Era uno dei padri della prima Silicon Valley: la società prese il via nel 1982 nel garage del co-fondatore, John Warnock. Nel 1992 Geschke fu rapito per ottenere un riscatto. Federico Cella su Il Corriere della Sera il 18 aprile 2021. Charles Geschke è morto all’età di 81 anni. Si tratta di uno dei pilastri della prima Silicon Valley, figura magari meno appariscente, ma i frutti del suo lavoro sono sui nostri computer tutti i giorni. Geschke è il co-fondatore della società di software Adobe e insieme a John Warnock, che aveva personalmente assunto al Palo Alto Research Center di Xerox, hanno creato il formato Pdf (Portable Document Format) e un’infinita di altri software. Oltre a un concetto alla base dell’informatica moderna come il Wysiwyg- acronimo dall’inglese What you see is what you get - ossia che quanto vediamo a monitor corrisponde a quanto stiamo facendo. Prima di allora, erano gli inizi degli anni ’80, anche la grafica a monitor era basata su stringhe di testo. Geschke viveva a Los Altos nella baia di San Francisco ed è morto venerdì scorso, stando a quanto riferito dalla società in una nota. «Questa è un’enorme perdita per l’intera comunità Adobe e l’industria tecnologica, per la quale è stato una guida ed un eroe per decenni», ha scritto l’attuale ceo di Adobe, Shantanu Narayen. «In qualità di co-fondatori di Adobe, Chuck e John Warnock hanno sviluppato un software rivoluzionario che ha trasformato in maniera radicale il modo in cui le persone creano e comunicano», ha affermato Narayen. «Il loro primo prodotto - ha proseguito - è stato Adobe PostScript, una tecnologia innovativa che ha fornito un nuovo modo di stampare testo e immagini su carta e ha innescato la rivoluzione del desktop publishing. Chuck ha instillato in azienda una spinta incessante all’innovazione, dando vita ad alcune delle invenzioni software più rivoluzionarie, tra cui gli onnipresenti Pdf, Acrobat, Illustrator, Premiere Pro e Photoshop». Geaschke e Warnock una volta usciti da Xerox, proseguirono la tradizione dei garage californiani: fu in quello di Warnock che nacque la Adobe, con il nome che era ripreso dall’Adobe Creek, un ruscello che scorreva dietro la casa di Warnock. «Era un famoso uomo d’affari, il fondatore di una grande azienda negli Stati Uniti e nel mondo, e ovviamente ne era molto, molto orgoglioso ed è stato un grande risultato nella sua vita. Ma non era il suo focus, davvero, la sua famiglia lo era», ha detto sabato al Mercury News la moglie Nancy Geschke, 78 anni. Nel 2009, il presidente Barack Obama ha conferito a Geschke e Warnock la National Medal of Technology. Fa parte dell’avventurosa biografia di Geschke anche un rapimento: era il 1992 quando venne sequestrato da due uomini per chiedere un riscatto. Sotto la minaccia di una pistola, venne portato a Hollister, in California, dove fu trattenuto per quattro giorni. Un sospetto bloccato con 650mila dollari di riscatto alla fine ha portato la polizia al nascondiglio dove era tenuto prigioniero.

·        E’ morta l’attrice Helen McCrory.

Marco Leardi per "davidemaggio.it" il 16 aprile 2021. Addio ad Helen McCrory. Il pubblico la conosceva come la Narcissa Malfoy di Harry Potter o come Polly Gray in Peaky Blinders, solo per citare alcuni dei ruoli da lei interpretati davanti alla cinepresa. L’attrice britannica, che era malata di cancro, è scomparsa oggi all’età di 52 anni. A dare il tragico annuncio è stato tramite i social suo marito, l’attore e produttore cinematografico Damian Lewis (l’iconico protagonista di Billions e delle prime stagioni di Homeland). “Ho il cuore spezzato nell’annunciare che dopo un’eroica battaglia contro il cancro, la bella e forte donna che è Helen McCrory è morta pacificamente a casa, circondata da un’ondata d’amore da parte di amici e familiari. È morta come ha vissuto. Senza paura. Dio, la amiamo e sappiamo quanto siamo fortunati ad averla avuta nella nostra vita“ ha scritto Damian Lewis. Nata il 17 agosto 1968 a Londra, Helen McCrory aveva iniziato la sua carriera nel 1994 con un piccolo ruolo in Intervista con il Vampiro, prima di recitare in Montecristo. Nel 2005, ha interpretato la moglie di Tony Blair, Cherie Blair, nel film biografico The Queen. Poi, il ruolo di Narcissa Malfoy in Harry Potter. Ha recitato in serie televisive popolari come Doctor Who, nel 2010, e dal 2013 ha interpretato il personaggio di Polly Gray nella già citata serie cult Peaky Blinders, in Italia visibile su Netflix e Prime Video. Recentemente ha recitato accanto a Richard Gere nella serie di Sky Atlantic Mother Father Son e nella miniserie Quiz, in streaming su Tim Vision.

È morta Helen McCrory, in Harry Potter era la madre di Draco Malfoy. Aveva 52 anni. Celebre anche per la serie tv 'Peaky Blinders' in cui interpretava la zia Polly. su La Repubblica il 16 aprile 2021. È morta Helen McCrory, l'attrice inglese che interpretava Narcissa Malfoy, madre di Draco nella saga di Harry Potter e Polly Gray nella serie tv Peaky Blinders. Aveva 52 anni. Ha dato l'annuncio sui social il marito, Damian Lewis, attore visto in serie tv come Homeland e Billions. "Ho il cuore spezzato nell'annunciare che dopo un'eroica battaglia contro il cancro, la bella e potente donna che è Helen McCrory è morta pacificamente a casa, circondata da un'ondata d'amore da parte di amici e familiari. È morta come ha vissuto. Senza paura. Dio, la amiamo e sappiamo quanto siamo fortunati ad averla avuta nella nostra vita. Ha illuminato ogni cosa. Va' adesso, Piccola, in cielo e grazie". Nella sua carriera ha interpretato Cherie Blaire nel film The Queen con Helen Mirren, ha partecipato alla serie Life insieme al marito ed è stata nuovamente Cherie Blair nel 2010 per I due presidenti. Nel 2011 è stata diretta da Martin Scorsese in Hugo Cabret ed è apparsa nel film di James Bond Skyfall. La carriera è stata divisa tra teatro, cinema e tv, nel 1995 era stata insignita del Shakespeare Globe Awards. Lascia due figli adolescenti. Tra i primi a porgere le condoglianze alla famiglia e a ricordare l'attrice la scrittrice inglese J.K. Rowling che scrive: "Sono devastata dalla notizia della morte di Helen McCrory, straordinaria attrice e donna meravigliosa che ci ha lasciato veramente troppo presto". Mentre il collega Cillian Murphy, che ha condiviso con lei il set di Peaky Blinders, l'ha ricordata così: "Ha reso migliore e più umana ogni scena, ogni personaggio che ha interpretato. È stato un privilegio lavorare con questa donna brillante".

Morta a 52 anni Helen McCory. Francesca Galici il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. È stata zia Polly in Peaky Blinders e Narcissa Malfoy in Harry Potter: a 52 anni si è spenta l'attrice inglese Helen McCory. Aveva un tumore. Si è spenta a 52 anni Helen McCory. A darne l'annuncio è stato suo marito Damian Lewis. L'attrice combatteva da tempo contro un cancro. Il grande pubblico ha avuto modo di conoscerla e amarla nella serie Peaky Blinders. Lascia due figli. "Con il cuore a pezzi devo annunciare che dopo un'eroica battaglia contro il cancro, la bella e straordinaria donna che è Helen McCrory è morta in pace a casa, circondata da un'ondata di affetto da parte di amici e familiari", ha scritto suo marito nell'annunciarne la dipartita. Un post pieno di amore e di disperazione da parte dell'attore, che ha così voluto darle l'ultimo saluto: "È morta come ha vissuto. Senza paura. Dio, l'abbiamo amata e sappiamo quanto siamo stati fortunati ad averla avuta nelle nostre vite. Ora vai in cielo, piccola, e grazie".

Il suo ruolo in Peaky Blinders. Nella fortunatissima serie britannica, Helen McCory interpretava Polly Gray, zia dei fratelli Shelby, membri della gang dei Peaky Blinders. La serie tv è ambientata a Birmingham nel primo Dopoguerra, un periodo durante il quale nella città inglese, così come nelle altre di tutta Europa, la popolazione viveva una profonda crisi economica e sociale. Il ruolo interpretato da Helen McCory è cruciale nella serie, perché lei è la vera matriarca della famiglia Shelby, ne custodisce i segreti ma, soprattutto, ne è tesoriera. La sesta stagione di Peaky Blinders è attesa tra la fine del 2021 e l'inizio del 2022 e per i tantissimi fan della serie sparsi in tutto il mondo sarà il vero ultimo saluto alla grande attrice. I profili social di Peaky Blinder, appresa la notizia, ha voluto rendere omaggio all'amatissima zia Polly: "Tutto il nostro amore e i nostri pensieri sono con la famiglia di Helen. Riposa in pace".

La parte in Harry Potter. Altra grande saga, stavolta cinematografica, alla quale ha preso parte Helen McCory è Harry Potter. Protagonista degli episodi "Harry Potter e il principe mezzosangue" e di entrambe le parti di "Harry Potter e i doni della morte", l'attrice ha interpretato il ruolo di Narcissa Malfoy fino agli ultimi capitoli della saga. Nella saga, Narcissa appartiene a una delle famiglie Purosangue e per questo è cresciuta odiando i Babbani. Nella serie il suo era un personaggio cattivo, che minacciò di morte anche il maghetto Harry Potter. Un personaggio che, però, nel corso della storia ha mostrato anche il suo lato positivo, tradendo Voldemort.

·        E’ morto l’attore Lee Aaker di Rin-Tin-Tin.

Rusty rip. Marco Giusti per Dagospia il 16 aprile 2021. La morte di Lee Aaker, il piccolo Rusty della serie della nostra infanzia “Le avventure di Rin Tin Tin”, serie di ben 164 episodi, rigorosamente in bianco e nero, che in America andarono in onda dal 1954 al 1959 e da noi dal 1957 in avanti, ve la volevo risparmiare. Chi si ricorderà più del vecchio Rusty, ho pensato. Anche se io ne ho ancora un ricordo vivissimo, e perfino Ciro Ippolito ricorda perfettamente che nessun bambino sfuggiva al richiamo di Rin Tin Tin e della tromba (ta-ta-ta-ta-ta-ta…) che ne accompagna l’inizio puntata ogni pomeriggio alle cinque in punto, magari con la merenda, pane e marmellata, pane e burro, pane vino e zucchero. Non solo. Avevo anche dei soldatini, con tanto di fortino uguale al Fort Apache della tv,  con i quali potevo riproporre sul tavolo di cucina di mia mamma le avventure di Rusty, del sergente O’Hara, Joe Sawyer, e del tenente Rip Master, James Brown. Roba vecchia, insomma, che uno tiene un po’ per sé, come l’indianino Pow Waw, il primo eroe animato della tv che adoravo da piccolissimo del quale c’è poca e nessuna traccia negli archivi. E invece vedo che sia Aldo Grasso che Massimo Gramellini si sono scatenati sulla scomparsa di Rusty nemmeno fosse stato un Corrado, un Don Lurio, un Enzo Tortora della prima eroica tv, piangendo la triste storia dei bambini attori che da grandi vanno nel dimenticatoio o puntando sul politicamente scorretto del piccolo bianco adottato dai soldati perché gli indiani, oggi nativi, gli hanno ucciso i genitori. “Rapidamente, dopo che la serie venne cancellata”, disse Lee Aaker ricordando il suo glorioso passato, “ e io iniziai a fare delle apparizioni come guest star, mi resi conto che qualcosa era cambiato… Io non ero più al centro delle attenzioni. Chi mi stava vicino mi aveva sempre detto che la mia carriera avrebbe potuto non durare a lungo, ma quando avvenne, fu una cosa dura da digerire per me”. Lee Aaker morto in Arizona a 77 anni, era nato a Inglewood, California, nel 1943. Cresciuto dentro il mondo di Hollywood, la mamma aveva una scuola di danza, assieme al fratello Dee, fanno un numero di ballo con cui si esibiscono da piccolissimi. Ma è lui a apparire da subito nel cinema. Quando arriva a interpretare Rusty nella serie di Rin tin Tin nel 1954, ha già fatto decine e decine di ruoli nel cinema e nella stessa tv. Lo aveva scoperto Fred Zinnemann, che gli fa fare il protagonista di un documentario corto, “Benji” nel 1951, che vincerà l’Oscar. E lo ripropone subito dopo in “Mezzogiorno di fuoco”. Solo nel 1952 fa ben nove film. Lo vediamo così in “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. De Mille, “La giostra umana”, dove recita con Marilyn Monroe, “Hans Christian Andersen” di Charles Vidor, “Atomic City”, “La spia dei ribelli” di Hugo Fregonese, “Arena”, “Allegri esploratori”. Ma è nel western che si muove meglio. Lo vediamo come figlio di Geraldine Page nel bellissimo western in 3D “Hondo” di John Farrow, prodotto da John Ford con John Wayne e gli indiani, scusate, nativi, che lanciano frecce direttamente a noi spettatori in sala. Fa il provino per un ruolo ancora più importante, il bambino che diventa amico del pistolero Shane, cioè Alan Ladd, in “Il cavaliere della valle solitaria” di George Stevens, uno dei più importanti western che si siano mai fatti. Lo vince Brandon De Wilde, bambolotto biondo che non avrà tanto futuro nel cinema. Ma vince il provino per Rusty, il bambino mascotte del fortino del tenente Rip Masters e del sergente O’Hara dove qualsiasi problema è risolto da Rin Tin Tin, cane protagonista interpretato da Golden Boy Jr, un attore di tutto rispetto con accurato pedigree. A Lee Aaker offrono 250 dollari a episodio i primi anni e poi 500 a episodio. Diventa l’eroe, assieme a Golden Boy jr, dei bambini di tutto il mondo. Ma è Hollywood, anzi, la tv di Hollywood, dove tutto è finto. Si sa. Gli stessi attori che fanno i nativi nella serie, se vai a scavare, non sono veri nativi, “Iron Eyes Cody” si chiama in realtà Oscar De Corti, è italiano, anche se si sposa una nativa, “Michael Ansara”, che tanto ci spaventava da ragazzini, è nato addirittura in Siria, “John War Eagle” è inglese, nato a Leicester. Alla fine dei 164 episodi della serie, Lee Aaker, a 16 anni, non è più l’adorabile bambino pieno di lentiggini col vestito da soldatino e il cappello messo di traverso che conoscevamo. Fa qualcosa. Compare anche in “Ciao, ciao Birdie” di George Sidney con Ann-Margret nel 1963, ma non riesce a riciclarsi nel cinema. Per un po’ è assistente del produttore Herbert B. Leonard sulla serie “Route 66”, dove recita anche Golden Boy jr, alias Rin tin Tin, come Rex. Ma la sua storia cinematografica finisce lì. I suoi partner nella serie non fanno una fine migliore. Il texano James Brown fa un po’ di serie e di piccoli ruoli in tv, fino a “Dallas” negli ann ’80. Il canadese Joe Sawyer, lo vediamo in molti western e in molti film di fantascienza del tempo, ma in ruoli sempre minori. Scompare dopo “La conquista del West”, nel 1962. Lee Aaker, a 20 anni, ha già lasciato il cinema e Hollywood. Lavora come carpentiere per vent’anni. Poi insegna a sciare a Mammouth Mountain in California ai bambini con disabilità. Gli ultimi vent’anni li passa tra alcool e droghe, una dura battaglia, con una pensione di 1500 dollari della SAG, l’Inps degli attori americani, prima di morire a soli 77 anni, nel totale abbandono, a Mesa, in Arizona. In condizioni talmente indigenti da non potersi pagare nemmeno le spese funebri.

Quando c’era Rin-Tin-Tin. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 15 aprile 2021. Rusty nella vita reale si chiamava Lee Aaker e doveva essere orfano anche lui, quantomeno di agente, perché veniva pagato solo 250 dollari a puntata. Hollywood lo spremette e poi lo buttò via. È morto povero e solo come un cane, senza neanche un cane. Gli sia di non magra consolazione sapere che per milioni di vecchietti sparsi in tutto il mondo avrà sempre sette anni e Rin-tin-tin al fianco. Se avete ancora più capelli che rughe, questo articoletto vi sembrerà un reperto storico, collocabile tra la stele di Rosetta e il codice di Hammurabi. Narra di un cane pastore e di un orfano adottati da un reggimento di Forte Apache, in lotta con indiani caricaturali che assaltano le diligenze agitando i fucili come bastoni. Rin-Tin-Tin e il piccolo Rusty erano il cuore della Tv dei Ragazzi, attorno a cui hanno ruotato i pomeriggi di svariate generazioni. Oggi quel telefilm verrebbe sospeso dopo la prima puntata per oltraggio dei nativi americani e maltrattamento di prole e animali: il cane e il bambino erano costretti a irrigidirsi in pose militaresche fin dai titoli di testa, annunciati da uno squillo di tromba inconfondibile. Invece, tra il 1954 e il 1959, di puntate ne andarono serenamente in onda cento e sessantaquattro, con un’infinità di repliche nei due decenni successivi, in molte delle quali si imbatté anche chi scrive, mai immaginando che un giorno avrebbe commemorato quel bimbo col naso schiacciato e il cappello da soldato yankee.

·        E’ morto il finanziere Bernie Madoff.

Da ilsole24ore.com il 14 aprile 2021. Bernie Madoff, il finanziere che costruì il più grande schema Ponzi della storia, è morto nel carcere di Butner, North Carolina, dove stava scontando la sua pena. Il 29 aprile avrebbe compiuto 83 anni. Lo scorso anno i suoi avvocati avevano chiesto di trasferirlo agli arresti domiciliari a causa delle sue precarie condizioni di salute.

Massimiliano Jattoni Dall’Asén per corriere.it il 14 aprile 2021. Morto a 82 anni l’artefice della più grande frode finanziaria nella storia degli Stati Uniti. Questo il “saluto” che i media di tutto il mondo riserveranno oggi a Bernard Madoff, detto «Bernie», deceduto il 14 aprile 2021 nella prigione federale di Butner, in North Carolina, dove stava scontando una condanna a 150 anni per una frode durata 40 anni e che riguardò oltre 37 mila persone in 136 Paesi diversi.

L’arresto nel 2009. Madoff era finito in carcere nel 2009, quando si dichiarò colpevole di undici diversi reati finanziari. Furono i giudici a definirlo «il più grande truffatore» finanziario della Storia, anche se per Forbes quella architettata da Madoff fu sì una truffa gigantesca, ma seconda a quella del gigante dell’energia Enron. Con o senza il primato, Madoff fece perdere a chi affidò a lui i propri risparmi circa 65 miliardi di dollari. Tra le sue vittime, anche personaggi famosi come il regista Steven Spielberg, l’attore Kevin Bacon e il premio Nobel per la Pace Elie Wiesel. Tra le banche italiane, UniCredit e il Banco Popolare.

Lo «schema Ponzi». Di fatto, Madoff, ex presidente del Nasdaq e uomo molto noto nell’ambiente di Wall Street, applicò, riportandolo alla ribalta internazionale, il cosiddetto schema Ponzi, una tecnica truffaldina che prende il nome da Carlo “Charles” Ponzi, un immigrato italiano che divenne famigerato negli Stati Uniti per aver escogitato nel 1918 una sorta di catena finanziaria a danno dei suoi connazionali e che prometteva forti guadagni ai primi investitori coinvolti, a discapito dei nuovi e successivi “investitori”, comunque alla fine tutti vittime della truffa. Lo schema è piuttosto semplice: inizialmente al potenziale cliente viene promesso un investimento con rendimenti superiori ai tassi di mercato e in tempi ravvicinati. Dopodiché viene restituita parte della somma investita, facendo credere che il sistema funzioni veramente. E’ a questo punto che il truffatore confida nel passaparola, attirando così nuovi clienti nella rete. Nel frattempo, gli investitori continuano a pagare gli interessi con i soldi via via incassati (la finanziaria ha capitale sociale zero, ma gli investitori non lo sanno) fino a quando lo schema si interrompe perché le richieste di rimborso superano i versamenti.

Tutto ha inizio con i soldi guadagnati come bagnino. In buona sostanza è ciò che ha fatto Madoff, che il giorno prima di essere arrestato (era l’11 dicembre del 2008) confessò ai figli Mark e Andrew che la sua società di brokeraggio e consulenza, la Bernard L. Madoff Investment Securities LLC, fondata nel 1960, era una scatola vuota che si basava proprio su un gigantesco “schema Ponzi”. Come fece l’italo-americano esattamente 90 anni prima, anche Madoff scelse le sue vittime tra i membri della sua stessa comunità, nel suo caso quella ebraica. Madoff però non puntò a chi non sapeva nulla di finanza. Se voleva attirare molto denaro doveva rivolgersi a chi aveva grandi ambizioni. Il capitale iniziale era costituito dai risparmi che l’uomo aveva messo da parte facendo il bagnino. A quel denaro si aggiunse poi quello prestato dal padre di sua moglie. Tra i primi clienti ci furono proprio gli amici del suocero ai quali la società di Madoff offriva liquidità per comprare titoli e obbligazioni a Wall Steet.  I rendimenti proposti erano garantiti tra il 10 e il 12 percento, cifre alte ma credibili (Ponzi alle sue vittime proponeva il 400 percento!), cosa che rassicurava gli investitori. Ma a rendere il tutto ancora più attraente era la convinzione che senza una presentazione di qualcuno vicino a Madoff, difficilmente si sarebbe riusciti ad affidargli il proprio denaro. Nonostante l’uomo avesse migliaia di clienti, l’idea era che essere seguiti dalla sua società fosse qualcosa di molto esclusivo.

Una storia che ha ispirato il cinema. Secondo gli investigatori, le attività illegali cominciarono negli anni Settanta, anche se il tribunale riuscì a dimostrare le truffe solo a partire dagli anni Novanta. Fin da subito, comunque, il rituale con cui Madoff ammaliava i propri clienti era degno della sceneggiatura di un film. E non è un caso che la sua vicenda sia diventata prima una pièce teatrale, poi abbia ispirato varie pellicole, da Blue Jasmine di Woody Allen a Those People, fino alla miniserie televisiva Madoff, in cui a interpretarlo è Richard Dreyfuss, e il film per la televisione The Wizard of Lies, con Robert De Niro e Michelle Pfeiffer. Madoff aveva una serie di agenti che giravano nei club più esclusivi alla caccia di potenziali clienti, trovata una nuova vittima, questa veniva invitata al diciassettesimo piano del Lipstick Building, il lussuoso palazzo al centro di Manhattan dove Madoff spiegava nei dettagli la rendita sicura che era capace di assicurare. Così, finirono nelle sue maglie molti attori di Hollywood e decine di associazioni benefiche ebraiche, che diedero il denaro a Madoff convinti sarebbe stato investito, mentre finiva direttamente su un conto che l’uomo aveva aperto alla Chase Manhattan Bank.

La fine. Wall Street non fece mai affari con Madoff e, nonostante in tanti pensassero che ci fosse qualcosa di losco dietro a tutta questa storia, la sua società passò sempre indenne i controlli delle autorità. Fino a quel fatidico dicembre 2008, quando come sempre accade con lo schema Ponzi, anche la truffa ideata da Madoff arrivò al capolinea: gli interessi da pagare ai primi clienti erano maggiori dei soldi che gli erano stati affidati. Madoff aveva le ore contate. Ma prima di essere arrestato, volle pagare un bonus a sé e a tutti i familiari coinvolti nella società. Poi, l’annuncio ai figli: «la società non ha più nemmeno un centesimo».

Da ilmessaggero.it l'8 febbraio 2020. La sua prima richiesta a settembre era stata respinta. Ora Bernie Madoff, il finanziere newyorchese condannato per una delle truffe più grandi di tutti i tempi, ci riprova. Ha una malattia renale terminale e sta morendo, per questo, ha fatto richiesta a un tribunale federale di New York, appellandosi alle linee guide federali, che prevedono la possibilità di scarcerazione per le persone con un’aspettativa di vita di 18 mesi o meno. Un avvocato dell'ex finanziere, che attualmente è dietro le sbarre in una struttura federale della North Carolina, ha detto che il suo cliente ha «meno di 18 mesi di vita» e soffre di «numerose altre gravi patologie» tra cui malattie cardiovascolari e ipertensione. Madoff, 81 anni, sta scontando una pena di 150 anni di carcere per aver orchestrato una truffa ai danni di migliaia di investitori per miliardi di dollari, per la quale si è dichiarato colpevole di 11 capi d'imputazione. «Sono malato terminale», ha detto Madoff al Washington Post: «Non esiste una cura per il mio tipo di malattia. Ho scontato 11 anni e, francamente, ho sofferto». La scorsa estate è stato trasferito nel reparto per le cure palliative del Federal Medical Center del carcere di Butner. Visto che ha perso tutti i suoi beni quando è stato condannato, se venisse scarcerato vivrebbe con un amico. «Non contesta la gravità dei suoi crimini né cerca di minimizzare la sofferenza delle sue vittime, anzi ha espresso rimorso per i suoi reati», ha scritto l'avvocato Brandon Sample: «Ma dopo oltre dieci anni di detenzione e con meno di 18 mesi di vita, chiede umilmente a questa Corte un minimo di compassione».

Madoff, il "genio del male" che fece tremare la finanza globale. Così ha ingolosito Paperoni e big di Wall Street. Federico Rampini su La Repubblica il 14 aprile 2021. La vicenda del finanziere è il simbolo dell'ubriacatura che anche i più importanti "guru" si presero di fronte alla prospettiva di rendimenti da capogiro. Dopo che il suo schema-Ponzi venne alla luce, per una auto-denuncia, il figlio si tolse la vita. Karry Markopolos fu il primo a confidare alla Securities and Exchange Commission (Sec, l'organo di vigilanza della Borsa americana) i sospetti sullo strano caso di Bernard Madoff, appena morto in carcere e artefice del crac da 50 miliardi di dollari che fece tremare la finanza mondiale. Attenzione alla data: la denuncia di Markopolos è del 1999. "C'erano tutti gli indizi di una maxitruffa ma la gente preferì ignorarli, attratta dagli alti rendimenti", disse. Gli ingenui, disposti a chiudere gli occhi di fronte ai segnali di allarme, non erano piccoli risparmiatori sprovveduti, ma il Gotha del capitalismo globale: dal colosso bancario giapponese Nomura alla Royal Bank of Scotland, da Santander ad alcuni fondi esteri Pioneer del gruppo Unicredit. Più il fior fiore degli hedge fund di Wall Street, l'alta società newyorchese, proprietari di squadre di baseball, celebri redditieri che Maloff frequentava in un esclusivo club di golf. Anche Steven Spielberg. L'inverosimile "affaire Madoff", col senno di poi è soprattutto interessante perché il suo genio consisteva nell'abbindolare chi aveva tutti gli strumenti per difendersi. E comunque a 13 anni dallo schianto sistemico del 2008 la vicenda Madoff appare come un episodio di colore, una nota a piè di pagina, in un contesto in cui le grandi banche fecero di molto peggio ingannando mezzo mondo sui mutui subprime. Madoff fu solo il comprimario, il lestofante quasi solo pittoresco, simbolo estremo di un'èra in cui tutti hanno perso la bussola, ogni regola è stata stravolta, i controlli sono saltati. Da questa storia grottesca non si salva nessuno. I segugi della Sec dopo aver ricevuto quella prima segnalazione-denuncia nel 1999 chiusero le loro indagini rapidamente: tutto regolare. Nel 2001 un'altra ondata di sospetti su Madoff fu sollevata dalla stampa americana. Inutile. Lui continuava la sua ascesa, culminata con la nomina alla presidenza del Nasdaq. Del resto la ricostruzione dell'Fbi lascia esterrefatti: Madoff non è stato smascherato, si è autodenunciato. Ha fatto tutto da solo. Arrivato a fine corsa nel dicembre 2008 ha chiamato i due figli - apparentemente estranei all'azienda paterna e anche loro derubati dei loro risparmi - e ha detto semplicemente: "Il mio business è uno schema Ponzi". Negli anni Venti l'italoamericano Charles Ponzi rovinò 40.000 risparmiatori con un sistema tipo catena di Sant'Antonio o "piramidi albanesi". Una tipica truffa che garantisce forti guadagni finché affluiscono nuovi investitori, i cui fondi servono a pagare le prime vittime mantenendo l'illusione. Ponzi nel 1920 venne condannato a cinque anni di galera. Tra gli indizi che Markopolos segnalò alla Sec quasi dieci anni prima dell'auto-denuncia di Madoff, c'erano i rendimenti elevati e costanti che il truffatore garantiva alla sua clientela: non importa come andassero le Borse, le obbligazioni, le valute, l'oro o il petrolio, lui offriva comunque gli stessi guadagni alti e regolari anno dopo anno. I suoi metodi d'investimento erano un mistero custodito da una ventina di collaboratori nell'impenetrabile ufficio al 17esimo piano del Lipstick Building, sulla Terza Strada di Manhattan. Dove la fantasia umana non arriva, però, è a spiegare il comportamento dei superclienti. Quando Madoff confessa tutto ai figli, ormai sono passati 17 mesi dai primi scossoni che hanno turbato i mercati finanziari globali: nel luglio 2007 la Bnp fu costretta a sospendere alcuni hedge fund, vittime dell'uragano che si avvicinava. Sono passati più di dieci mesi dalla truffa di Jerome Kervel alla Société Générale. Tre mesi dalla bancarotta di Lehman Brothers. I grandi investitori istituzionali dovrebbero essere in stato di massima allerta. Invece eccoci nel dicembre 2008: le più note banche europee, gli hedge fund esclusivi, l'aristocrazia del denaro di Wall Street, tutti assistono sotto choc alla scoperta che un signore stava spolpando i loro patrimoni. Purtroppo la dabbenaggine dei ricchi non è una consolazione. Tra i clienti di Madoff c'erano fondi d'investimento che le banche distribuivano anche ai piccoli risparmiatori. Perfino alcune fondazioni filantropiche avevano affidato a lui i loro capitali. Una coda tragica avviene due anni dopo: quando muore suicida il figlio di Madoff. Ha scelto il giorno del secondo anniversario dell'arresto di suo padre, ha scelto d'impiccarsi col guinzaglio di cuoio del cane. Alle 7.27 dell'11 dicembre 2010 a New York una telefonata al 911 ha avvisato di un "possibile suicidio" al 158 della Mercer Street, quarto piano, nel quartiere di Soho a Manhattan. Lì la polizia ha trovato il corpo di Mark Madoff, 46 anni, che penzolava da un tubo di ghisa del soffitto. Nella stanza a fianco suo figlio, un bambino di due anni, dormiva ancora. 

Era l'11 dicembre 2008, quando gli agenti dell'Fbi andarono a prelevare suo padre Bernard. La vigilia dell'arresto di Bernard, i due figli Mark (il maggiore) e Andrew avevano avuto con lui un incontro teso, e decisivo. Erano andati a chiedergli spiegazioni su una decisione sospetta: improvvisamente Bernard aveva voluto distribuire centinaia di milioni di dollari in "bonus" di fine anno ai collaboratori della sua società finanziaria. Un gesto anomalo, eccessivo, che i due figli non capivano. Dietro il quale forse intuirono (per la prima volta?) quel disastro che secondo i loro legali il padre aveva sempre tenuto nascosto. Perché questa è la versione che l'indomani Bernard Madoff diede all'Fbi, la versione che ha sempre difeso dal carcere dopo la condanna a 150 anni: l'immensa "trama di Ponzi", piramide o catena di Sant'Antonio, durava da anni eppure era tutta opera sua. Né la moglie né i figli sapevano nulla. Una versione che deve avere qualche solidità, visto che non si sono mai avverate le voci sull'arresto dei familiari, e neppure le previsioni di una loro incriminazione penale. Ma anche in libertà, la vita di Mark era distrutta. 

Il “mago di Wall Street” Bernie Madoff è morto in carcere a 82 anni. Rifiutata l'ultima istanza di scarcerazione dei suoi legali. Il finanziere americano era finito in cella per aver messo in piedi la più grande truffa finanziaria della storia americana, sottraendo ai decine di migliaia di clienti 65 miliardi di dollari. Il Dubbio il 14 aprile 2021. Bernard Madoff, detto Bernie, il finanziere che ha messo in piedi la più grande truffa finanziaria della storia americana, è morto in carcere ad 82 anni dopo una lunga malattia. Madoff stava scontando una pena di 150 anni nella prigione federale di Butner, in North Carolina. L’anno scorso, gli avvocati di Madoff presentarono una richiesta di scarcerazione per l’82enne, sottolineando che soffriva di una malattia renale allo stadio terminale e altre condizioni mediche croniche, ma la richiesta è stata rifiutata. Madoff ammise di aver truffato migliaia di clienti per miliardi di dollari nel corso di decenni. Un fiduciario, nominato dal tribunale, ha recuperato più di 13 miliardi di dollari sui 17,5 miliardi che gli investitori avrebbero dato a Madoff. Al momento del suo arresto, aveva falsi estratti conto per dimostrare ai suoi clienti che detenevano partecipazioni per un valore di 60 miliardi di dollari. Nato nel Queens, a New York, da genitori ebrei, lui idraulico e lei casalinga, Bernie resterà per sempre la mente diabolica di una truffa che scosse le fondamenta di Wall Street e mandò sul lastrico migliaia di persone. Uno schema Ponzi, con la promessa a catena di ricavi agli azionisti finanziati da altri investitori, che ha finito per creare un abolla finanziaria da 65 miliardi di dollari, scoppiata nel momento in cui le richieste di rimborsi superarono gli investimenti. Nel 2009 Madoff si era dichiarato colpevole di uno “schema”, cominciato agli inizi degli anni ’70, e che aveva truffato 37mila persone in 136 Paesi.

BERNARD MADOFF (1938-2021). Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 15 aprile 2021. Detto Bernie. Banchiere statunitense. Uno dei più grandi truffatori di tutti i tempi. Ha organizzato una gigantesca truffa, basata sullo schema Ponzi, con cui aveva sottratto 64,8 miliardi di dollari a investitori che avevano affidato i loro risparmi alla sua società di consulenza. Morto per cause naturali nel carcere federale di Butner, in North Carolina, dove stava scontando una pena di 150 anni. Lo scorso anno i suoi avvocati avevano chiesto di trasferirlo agli arresti domiciliari a causa delle precarie condizioni di salute legate a una grave malattia ai reni, sostenendo che avesse solo 18 mesi di vita, ma la richiesta era stata respinta in tribunale. «Nato a New York, aveva fondato la sua prima società nel 1960 investendo cinquemila dollari guadagnati facendo il bagnino in spiaggia. Era poi stato presidente del Nasdaq, il listino tecnologico, al quale era riuscito ad attirare società di primo piano quali Apple, Sun Microsystems, Google e Cisco System. La carica ricoperta gli era valsa un'ottima reputazione e quindi una quasi incondizionata fiducia, sulla quale basò la truffa. Nel 2009, si dichiarò colpevole di una frode che ha colpito fino a 37 mila persone in 136 Paesi nell'arco di quattro decenni, fino alla fine del 2008. Tra le sue vittime, anche personaggi famosi come il registra Steven Spielberg, l'attore Kevin Bacon e il premio Nobel per la Pace Elie Wiesel. La truffa che aveva architettato valeva oltre 60 miliardi di dollari, l'aveva portata avanti per anni e nessuno, né le autorità né gli investitori, se ne erano mai accorti. I 64,8 miliardi erano la cifra riportata sulla carta da Madoff nei documenti falsificati ai suoi clienti; investitori, a volte celebri, negli anni gli avevano affidato almeno 17,5 miliardi e la magistratura ha a oggi recuperato circa 13 miliardi del maltolto. [...] Il suo schema, la promessa di investimenti da profitti stellari, permette a chi inizia la catena e ai primi coinvolti di ottenere alti ritorni economici a breve termine, ma richiede continuamente nuove vittime disposte a pagare: i guadagni arrivano infatti solo dalle quote pagate dai nuovi investitori e non da attività produttive o finanziarie» [Valsania, S24]

«Lo schema era crollato nell'inverno del 2008 con una drammatica confessione resa ai figli nell'appartamento nell'Upper East Side. In un incontro aveva confidato che i suoi affari erano "tutti solo una grande bugia". Dopo l'incontro, un avvocato della famiglia aveva contattato le autorità di regolamentazione, che avevano allertato i pubblici ministeri federali e l'Fbi. Madoff era in accappatoio quando due agenti dell'Fbi arrivarono alla sua porta senza preavviso una mattina dell'11 dicembre. Li fece entrare e alla domanda se ci fosse "una spiegazione innocente" aveva risposto di no. Poi il processo e la condanna nel 2009» [Chiesa, CdS]

«"C'erano tutti gli indizi di una maxitruffa ma la gente preferì ignorarli, attratta dagli alti rendimenti". Così parlò Karry Markopolos. Fu il primo a confidare alla Securities and Exchange Commission (Sec, l'organo di vigilanza della Borsa americana) i sospetti sullo strano caso di Bernard Madoff, il "genio del male" artefice del crac che fece tremare la finanza mondiale. Attenzione alla data: la denuncia di Markopolos è del 1999. Gli ingenui, disposti a chiudere gli occhi di fronte ai segnali di allarme, non erano piccoli risparmiatori sprovveduti. La lista include il Gotha del capitalismo globale: dal colosso bancario giapponese Nomura alla Royal Bank of Scotland, da Santander ad alcuni fondi esteri Pioneer del gruppo Unicredit. Più il fior fiore degli hedge fund di Wall Street, l'alta società newyorchese, proprietari di squadre di baseball, celebri redditieri che Maloff frequentava in un esclusivo club di golfi> [Rampini, Rep]

«Almeno quattro persone vicine a Madoff si sono suicidate dopo lo scandalo, compreso suo figlio Mark che si è tolto la vita nel secondo anniversario dell'arresto del padre. L'altro figlio di Madoff, Andrew, è morto di cancro nel 2014 dopo aver collaborato con gli inquirenti per recuperare più denaro possibile, in modo da risarcire gli investitori truffati. Tra le altre vittime legate al crac Madoff, il suicidio del finanziere francese Thierry Magon de La Villehuchet, che guidava un fondo che aveva investito 1,4 miliardi di dollari nelle società di Bernard Madoff, trovato morto nel suo ufficio a Manhattan» [Massaro, CdS].

La morte in cella. Chi era Bernie Madoff, condannato a 150 anni per la più grande truffa della storia grazie allo schema Ponzi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Aprile 2021. In America, non è che scherzano: Bernie Madoff è morto nella cella in cui scontava i 150 anni di condanna per aver truffato mezza America e mezzo mondo con quello che gli statunitensi chiamano “Schema Ponzi”. Lo schema Ponzi fu inventato da un signor Ponzi di origine italiana che perfezionò quello che da noi si chiamava “Catena di Sant’Antonio”: voi mandate a me i vostri soldi e io ve ne rimando il doppio. Nel frattempo, ne troviamo altri che riforniscano i primi dieci e in questo modo, aspettando il proprio turno, diventiamo tutti ricchi. Non ci vuole moltissimo – ma neppure pochissimo – prima che gli ultimi scoprano che la truffa è una truffa e ricorrano ai giudici che portano tutti in tribunale e poi in galera. Giustizia è fatta. Io personalmente ho testimoniato in Italia contro quelli che sono stati chiamati frettolosamente i Madoff dei Parioli, e che usavano in Italia uno schema simile. Posso solo ringraziare Dio che mia madre, la quale novantenne affidò loro i suoi risparmi, fece in tempo a morire ignorando di avere nutrito una truffa. In America non si usa perdonare. Nessun candidato Presidente ha mai potuto aspirare alla Casa Bianca– indipendentemente dal colore della sua pelle o di quanto si sentisse buono e di sinistra, annunciando la fine della pena capitale. Gli Stati Uniti sono l’ultimo paese civile moderno a comminare la pena di morte, che ha un seguito popolare che io personalmente ho constatato anche nelle persone più miti e buone negli anni in cui ho vissuto in quel grande e strano paese. Se la pena capitale è stata ripristinata in America dopo un lungo periodo di sospensione, vuol dire che quello è un paese che crede in maniera calvinista al bene e al male, all’inferno e al paradiso, al delitto e al castigo. E del resto vi si impara fin da bambini a perorare “a second chance”, una seconda possibilità: “Ti prego, ti prego, give me a second chance”. Dammi una seconda opportunità per dimostrare di essere tornato o diventato buono. Negli Stati Uniti non esiste il concetto giuridico di pentimento. Se uno si dichiara pentito e con lacrime supplica il perdono di coloro cui ha arrecato danno o offesa, la risposta di gran parte della popolazione americana e: “Buon per te che ti sei pentito, questo ti aiuterà con il tuo Dio, ma adesso metti il collo in questo cappio, ovvero porgi la tua vena all’ iniezione letale”. Madoff era malato di un cancro non guaribile e chiese di poter morire a casa. Autorizzazione negata, si proceda. Bernie Madoff nelle foto somiglia ai padri fondatori americani: volto rasato e onesto, sopracciglia folte su occhiali senza montatura che illuminano occhi limpidi, una capigliatura argentea con taglio da illuminista del ‘700. E invece era il capofila di una banda di malfattori che vendevano agli avidi o agli ingenui progetti irrealizzabili in cambio di denaro. È la storia più antica dell’umanità: è quella del gatto e della volpe che catturano Pinocchio che ha incassato i dobloni di Mangiafuoco e che promettendogli guadagni lo impiccano a testa in giù affinché le monete possano cadere a terra. Pinocchio accetta anche la gita nel paese dei Balocchi dove non si fa nulla, ma ci si diverte da pazzi tra un Luna Park e l’altro salvo diventare un vero somaro destinato a fornire pelle per i tamburi. Barnie Madoff è morto al Federal Medical Center in Butner, North Carolina, e la sua morte è stata confermata dal Federal Bureau of Prisons: deceduto “per cause naturali” e all’età di 83 anni non compiuti. Si era dichiarato colpevole nel 2009 raccontando di avere cominciato il suo imbroglio del 1970 e di aver fregato circa 37.000 persone di 136 paesi diversi per quattro decenni durante i quali lui raccattava risparmi e li distribuiva come se fossero profitti mentre l’altra metà finiva nelle sue tasche e poi due dei suoi stessi figli lo hanno denunciato portandolo alla fine. Fra le sue vittime, leggiamo che ci sono stati Steven Spielberg, l’attore Kevin Bacon, più personaggi del baseball, un premio Nobel per la pace e investitori di grande prestigio come Burt Ross che perse 5 milioni di dollari. Madoff raccontò con candore che la sua frode cominciò all’inizio degli anni 90 quando lui disse: «Il mercato era bloccato dalla recessione seguita alla guerra del Golfo e io ebbi l’idea di rimettere in moto il mercato con qualche trucco: pensavo che sarebbe stata cosa di breve tempo che invece si trasformò in un meccanismo che mi ha travolto senza che potessi fare nulla». Gli investigatori certificarono in tribunale che aveva creato uno schema a piramide corredato da resoconti fasulli. Adesso Bernie è morto e con lui se ne è andata una generazione di truffati che nel frattempo sono morti anche loro o hanno trovato come riadattarvisi. Resta la perplessità della proporzione tra delitto e castigo. Ricordo che negli Stati Uniti ancora all’inizio del secolo scorso si procedeva nelle campagne a un tipo di esecuzione che sembra comica ma che era invece era terribilmente tragica: il condannato – di solito per truffa – veniva cosparso di pece nera su cui veniva applicato uno strato di piume di pollo. Quindi, il condannato veniva lasciato libero di correre urlando alla ricerca di aiuto perché la pece impediva alla sua pelle di respirare, finché cadeva stecchito. La pena della pece e delle piume oggi è usata solo come metafora, ma ancora funziona bene per rendere l’idea.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Tutti i numeri di Bernie Madoff, l’uomo che architettò la truffa più grande della storia. Uomo di successo, mago della finanza, re della truffa. La parabola di Bernie Madoff, morto a 82 anni in un carcere americano dove stava scontando una pena di 150 anni. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 15 aprile 2021. Ottantadue anni, condannato a 150 di carcere dopo l’arresto nel 2008, 65 miliardi di dollari l’ammontare della colossale truffa da lui architettata e durata circa 40 anni, di cui solo 14,3 recuperati, 37 mila persone truffate in 136 Paesi diversi, 6 esposti presentati alla Sec – la Consob americana – tra il 1992 al 2008 contro di lui e tutti e sei “passati” tranquillamente, nel febbraio 2020 presentò istanza per poter uscire perché gli restavano meno di 18 mesi di vita per una malattia renale senza cura, respinta, morto il 14 aprile nella prigione federale di Butner, in North Carolina. Questi sono i numeri di Bernie Madoff. Ma i numeri non sono tutto in questa storia. Due suicidi, uno era il finanziere francese Thierry Magon de La Villehuchet, che guidava un fondo che aveva investito 1,4 miliardi di dollari nelle società di Bernard Madoff, trovato morto nel suo ufficio a Manhattan. Un altro dei suoi investitori ebbe un attacco di cuore dopo mesi di contenzioso, rispetto il suo ruolo nello schema di Madoff. Molti persero le loro case. Molti persero i loro amici, che avevano convinto a entrare nel gorgo finanziario. Lo stesso Madoff non fu risparmiato: il suo figlio maggior Mark, si suicidò la mattina dell’11 dicembre 2010 – a due anni di distanza dall’arresto del padre, a cui aveva contribuito in modo determinante con le sue accuse. Lasciò un biglietto all’avvocato: «Nessuno vuole sapere la verità». Nel giugno 2012 il fratello di Madoff, Peter, fu accusato di complicità e patteggiò con il governo la consegna di tutte le sue proprietà per risarcire le vittime della truffa: fu comunque condannato a dieci anni. Il figlio minore di Madoff, Andrew, morì di cancro il 3 settembre del 2014 a 48 anni, quello stesso cancro che aveva combattuto nel 2003 e che si era riaffacciato nel tumulto delle vicende. Il nome “Madoff” fu bandito: una nuora nel 2010 chiese alla Corte suprema dello Stato di New York di poter cambiare il cognome del figlio, in Morgan. Il nome “Madoff” divenne sinonimo di truffatore: da noi in Italia abbiamo avuto, negli anni: il “Madoff dei Parioli”, il signor Lande che, con lo stesso schema, riuscì a raggirare a Roma molta gente dello spettacolo; la “Madoff in gonnella”, Bruna Giri, arrestata nel 2015 a Santo Domingo, che per anni aveva raggirato e stornato risparmi di professionisti, medici e vip dell’alta borghesia romana; e il “Madoff della Maremma”, Robert da Ponte, un italo-americano arrestato nel 2014 a Monaco di Baviera che era riuscito a rastrellare investimenti per 250 milioni, scomparsi. I numeri non sono tutto in questa storia. Che è anche una storia dannata di “successo” – un giovane bagnino di vent’anni, Bernie Madoff, investì i risparmi del suo lavoro estivo sulle spiagge, convinse il suocero a dargliene un po’, e da lì iniziò la sua scalata al denaro. D’altronde, lo stesso Charles – Carlo, perché era un emigrato italianissimo – Ponzi aveva iniziato da lavapiatti. Non solo, ma come Ponzi si era mosso soprattutto nella propria comunità italiana, Madoff si mosse soprattutto nella propria comunità ebraica. Lo schema è semplice: prometti rendimenti alti (il 10 percento in genere) e ti fai dare i soldi e con quegli stessi soldi paghi i rendimenti; ma per continuare a farlo devi avere altri soldi, anche perché le “spese fisse” – lussuosi uffici che servono a dare credibilità alla tua astuzia e sagacia – aumentano; finché il giro continua e soltanto qualcuno, per un motivo improvviso, chiede la restituzione dell’intero capitale regge; il guaio accade quando la cerchia si è fatta molto larga e non si “pesca” più e quando la richiesta di restituzione diventa molteplice: nel caso di Madoff fu la crisi Lehman Brothers che indusse i suoi investitori a riavere indietro il denaro: ma il denaro non c’era più. Nel cinema se ne trovano tracce. In Blue Jasmine – del 2013, scritto e diretto da Woody Allen, con protagonista Cate Blanchett, che si è aggiudicata il Premio Oscar per la Miglior attrice protagonista – Jasmine si trasferisce da New York, dove conduceva una vita agiata, a San Francisco, nel modesto appartamento della sorella adottiva Ginger. Jasmine è affetta da alcuni problemi psicologici, aumentati dopo la fine del suo matrimonio con Hal, uomo ricchissimo che tramite investimenti finanziari ha truffato molta gente. Hal è stato arrestato, e si è tolto la vita in carcere. In Those People, scritto e diretto da Joey Kuhn nel 2015, Charlie, un giovane studente d’arte di New York, viene invitato dal suo migliore amico, Sebastian, a trasferirsi nel suo appartamento mentre si sta occupando della sua stessa depressione e del pubblico disprezzo che sta ricevendo a seguito dell’arresto di suo padre, ricco finanziere, sul quale pende una condanna per un crimine finanziario di alto profilo. E poi ci sono le storie proprio dirette: The Wizard of Lies è un film per la televisione del 2017 diretto da Barry Levinson, con protagonisti Robert De Niro e Michelle Pfeiffer. La pellicola è l’adattamento cinematografico del libro biografico Wizard of Lies: Bernie Madoff and The Death of Trust della giornalista Diana B. Henriques. E la miniserie televisiva americana del 2017 Madoff – in Italia è andata in onda su Sky – scritta da Ben Robbins, ispirata al libro di Brian Ross The Madoff Chronicles.I giochi e gli intrighi del denaro sono altamente drammaturgici, tragici e grotteschi allo stesso tempo. Nella Compagnia degli uomini (2011), Edward Bond, drammaturgo inglese, mette in scena il conflitto tra un padre e un figlio nella cornice di uno spietato gioco di finanza. Il figlio, disprezzato dal padre contro cui trama e complotta, viene aggirato e schiacciato dagli intrighi degli altri personaggi e finisce per impiccarsi. Colpisce – il testo è del 1990 – il riverbero nella storia reale di Bernard Madoff, inchiodato dalle accuse del figlio, Mark, che, tormentato, ha finito proprio per impiccarsi. I giochi e gli intrighi del denaro sono altamente drammaturgici, tragici e grotteschi allo stesso tempo. Non è una scoperta del teatro contemporaneo: in fin dei conti, cos’altro è Il mercante di Venezia di Shakespeare se non la riflessione tragica e grottesca su un’obbligazione, sulla riscossione di un’assicurazione su un credito, su – diremmo oggi – un Cds? C’è un momento in cui le navi di Antonio sono date per disperse, forse naufragate, la sua ricchezza è sfumata, lui è in bancarotta: la libbra di carne richiesta da Shylock non è come uno swap? D’altronde, è dell’avidità umana che stiamo parlando.

·        E' morto il truccatore Giannetto De Rossi.

Giannetto De Rossi rip. Marco Giusti per Dagospia il 13 aprile 2021. Era il mago che aveva creato i celebri invecchiamenti di Robert De Niro e Gérard Depardieu in “Novecento” di Bernardo Bertolucci, l’incredibile trucco di Donald Sutherland in “Casanova” di Federico Fellini, tutto il make-up di “Dune” di David Lynch, basterebbero le pustole del Barone Harkonnen, i paurosissimi zombi di “Zombi 2” di Lucio Fulci. Insomma, se ne va un genio del trucco e del cinema non solo italiano, ma mondiale, come Giannetto De’ Rossi, nato e morto a Roma, 82 anni, figlio e nipote d’arte, il padre era Alberto De Rossi, il truccatore di Liz Taylor in “Cleopatra”, e il nonno Alberto De’ Rossi, anche lui truccatore del cinema, uno dei primi a inventarsi questo mestiere. Giannetto cresce nella bottega del padre e del nonno. Su “Cleopatra”, racconta, è il padre a affidargli il trucco di 18 nani a cavallo di 18 asini che devono sembrare delle zebre. E quindi deve colorare a strisce bianche, sia i nani che le zebre. Inizia a fare film tutti suoi più o meno dai giorni di “Cleopatra”. Lo troviamo in “le ore dell’amore” di Marco Vicario, “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli con Liz Taylor e Richard Burton, diventando così il truccatore di Liz in Italia. Suoi sono tutti i make up di un film complesso come “Il dottor Faustus” di Richard Burton, con Liz come Regina Elena, girato a Roma, ma anche il curioso e stracult “Mercoledì delle ceneri” con Liz girato a Cortina. Lavora sui kolossal prodotti in Italia e in America da Dino De Laurentiis, “Waterloo”, “Joe Valachi”, “Conan il distruttore”, “King Kong 2”, ma anche il faccione buffo alla Marlon Brando di Alighiero Noschese in “L’altra faccia del padrino”. Sono suoi anche tutti i faccioni buffi dei trogloditi di “Quando le donne avevano la coda”, coda di Senta Berger compresa. Incontro Sergio Leone sia su “C’era una volta il West” per ringiovanire Henry Fonda, e poi per invecchiare De Niro in “C’era una volta in America”. Con Lucio Fulci, che incontra già negli anni’60 ne “I maniaci”, quando deve invecchiare Raimondo Vianello, e poi quando deve ricostruire Lando Buzzanca come se fosse il Ministro Colombo in “All’onorevole piacciono le donne”, è un grande amore, che trionferà negli eccessi gore degli horror come “Zombi 2”, “Quella villa accanto al cimitero”, “L’aldilà”. Ma sono suoi anche altri celebri trucchi, il buco nella pancia di Giovanni Lombardo Radice in “Apocalisse domani” di Antonio Margheriti, i seni tagliati e altre efferatezze di “Emanuelle in America” di Joe D’Amato, il mostruoso protagonista di “L’umanoide” di Aldo Lado e tutti i personaggi bizzarri del film. Ma lo abbiamo visto anche su film internazionali, come “La maschera di ferro” con Leonardo Di Caprio, “Seven Sisters”, dove costruisce le sette sorelle gemelle di Noomi Rapace protagoniste del film, “Asterix contro Cleopatra”, “Alta tensione” di Alexander Aja. Ha girato anche due film, “Cyborg – Il guerriero d’acciaio” nel 1989 e “Killer Crocodile” nel 1990. Nel suo campo era una star assoluta.

·        E' morto il cartellonista cinematografico Enzo Sciotti.

Marco Giusti per Dagospia il 13 aprile 2021. Brutto giorno per il cinema di genere italiano. Se ne va, a 76 anni, Enzo Sciotti, cartellonista, gran lavoratore, riservato e molto timido, famoso per aver dato vita su carta ai sogni erotici degli italiani con le sue discintissime Edwige Fenech, Gloria Guida, Lilli Carati, Nadia Cassini, Anna Maria Rizzoli. Credo che non ci sia diva della commedia sexy che non abbia disegnato nella sua carriera. Sfogliando i suoi manifesti più celebri, non manca nessuna, c’è pure una nudissima Giuliana De Sio ne “I picari” di Mario Monicelli. Ma era celebre anche per i manifesti del cinema horror e fantastico italiano, quello di Dario Argento, di Lucio Fulci&Co., per intenderci, “Phenomena”, “Demoni”, “Due occhi diabolici”, “Quella villa accanto al cimitero”, “Lo squartatore di New York”, “Nero veneziano”. Ma sono suoi anche i manifesti italiano di “Velluto blu” di David Lynch, di “La casa” di Sam Raimi e di moltissimi altri film tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, sia horror che sexy (Sexy Jeans, Greta la donna bestia, Venus Foemina Erotica, Morte a 33 giri). Anche se rendeva sexy qualsiasi film, come “L’estate assassina” con Isabelle Adjani, ha trattato anche la commedia, a cominciare da certi film di Carlo Verdone come “Borotalco” e “In viaggio con papà”, da quelli di Tomas Milian come “Messalina, messalina”, di Lino Banfi, “Il commissario Lo Gatto” o dai film di Alvaro Vitali solista come “Paulo Roberto Cotechino” o “Gian Burrasca”. Nato a Roma nel 1944, ha iniziato da grafico nello Studio Bat di Riccardo Battaglia, poi con il cartellonista Maro, e infine in proprio. Ha disegnato anche fumetti e copertine di fumetti, ovviamente horror-erotici. Non si è mai arreso al digitale, ma ha lavorato sempre con colori ad olio in maniera più che tradizionale. Gentilissimo, negli ultimi anni gestiva le vendite dei suoi manifesti personalmente, andando in giro per le fiere e i raduni di collezionisti per tutta l’Italia. Per i fan la perdita di Enzo Sciotti è un duro colpo.

·        E’ morto l’attore-cantante Harold Bradley.

Harold Bradley rip. Marco Giusti per Dagospia il 13 aprile 2021. Se ne è andato nella sua Roma che ha tanto amato Harold Bradley, 92, artista, cantante, attore, musicista, campione di football, nonché fondatore del Folkstudio, la mitica cantina dove dagli anni ’60 passò chiunque, da Odetta a Bob Dylan. Diceva, inoltre, che a Bob Dylan, arrivato in Italia alla ricerca della fidanzata Susie Rotolo, non gli fece cantare molti pezzi perché temeva che puntasse sua moglie, Hannelore, profuga ebrea arrivata dai campi di concentramento nazisti. Harold era tra i primi afro-americani che avevano deciso di vivere a Roma, come aveva fatto John Kitzmiller, ufficiale dell’esercito americano che era entrato nel cinema casualmente, scelto da Luigi Zampa e Carlo Ponti come protagonista di “Vivere in pace” e poi rimasto fino alla morte improvvisa nel 1964. In quegli anni nel cinema americano non c’erano ruoli da protagonista per gli attori neri né ci potevano essere, fino a film come “La cavalletta” con Jim Brown e Jacqueline Bisset e “El Verdugo” con Jim Brown e Raquel Welch, possibilità di vedere un attore nero baciare una donna bianca sullo schermo. Harold Bradley, come tanti altri afro-americani, aveva notato che il cinema italiano, coi film interpretati da John Kitzmiller, “Senza pietà”, “Tombolo”, ma arriverà perfino a vincere il premio per il miglior attore a Cannes nel 1956 con un film jugoslavo, non avevano proprio questo problema. C’era perfino un film, “Il peccato di Anna” di Camillo Mastrocinque, del 1951, dove il protagonista, Ben A. Johnson, è un attore americano chiamato per fare Otello a teatro a Roma che si innamora contraccambiato della sua Desdemona, Anna Vita. Arrivato a Roma nel 1959 come studente di Belle Arti all’Università per stranieri di Perugia, Harold Bradley, che aveva un fisico imponente, visto che era stato un campione di football famoso ancor prima di Jim Brown, venne presto adocchiato dai cinematografari italiani e finì in qualsiasi tipo di film, a cominciare da “La tragica notte di Assisi” e da “Barabba” di Richard Fleischer, dove era un gladiatore. Un percorso che attraverserà sia il peplum (“Io Semiramide”, “L’eroe di Babilonia”, “Maciste l’eroe più grande del mondo”) che un po’ tutto il nostro cinema di genere, da Franco e Ciccio (“00-2 agenti segretissimi”, dove assieme a Pietro Torrisi fanno due culturisti gay) allo spaghetti western (“i giorni della violenza”), alla tv anni’60 (“Peppino Girella”), lo porterà fino agli anni di “Daylight” con Stallone e di “Habemus Papam” di Nanni Moretti, dove interpreterò un cardinale. Harold, come Kitzmiller, ma come un po’ tutti gli attori afro americani che arrivarono a Roma in quel periodo, scoprì che l’Italia, e Roma in particolare, era un posto meraviglioso dove non c’era alcun tipo di razzismo e dove gli attori afro-americani erano trattati come gli attori bianchi. Al punto che quando sul set di “Cleopatra” di Joseph L. Mankiewicz si incontrerà a Cinecittà con un gruppo di attori e ballerini arrivati da tutto il mondo, da Archie Savage a Calvin Lockhart, da Van Aikens ai fratelli Hawkins, da Jay Riley a Leo Coleman, Norman Davis, quasi tutti decideranno di rimanere a Roma. Fra loro si chiamavano “gypsies”, erano davvero un gruppo di amici. Li potete vedere sia nella grande scena del balletto di “Cleopatra” che nell’episodio di Fellini di “Boccaccio 70” o nel curioso “TarzaN contro gli uomini leopardo”. Nato a Chicago nel 1929, figlio di un lavoratore delle poste, già piccola star di football locale, come era stato il padre, Harold decise presto di studiare arte e si iscrisse all’Università dell’Iowa nel 1946. Anche il padre si era iscritto alla stessa università, ma non aveva potuto finirla perché aveva preferito lavorare subito. Malgrado le leggi razziali e un clima ancora pesante per i giovani neri nell’Iowa, Harold diventò nella stagione 1950 il Most Valuable Player dell’Hawkeye Footbal Team. Dopo essersi laureato nel 1951 e dopo tre anni di militare nei Marines, diventa un giocatore di football professionista vincendo due campionati di NFL coi Cleveland Browns nel 1954 e nel 1955. La sua ultima stagione la gioca nel 1958 coi Philadelphia Eagles. E’ allora che arriva in Italia a studiare Belle Arti a Perugia, dove incontra la donna della sua vita, Hannelore Zaccharias, ebrea sopravvissuta all’Olocausto, che sposerà nel 1962, quando è ormai un attore del cinema italiano. Nello stesso anno fonda il Folk Studio nel centro di Roma, in Via Garibaldi 59 a Trastevere, che diventerà presto un luogo di cultura, musica e arte, presto noto in tutto il mondo. Fonda anche il gruppo dei Folkstudio Singers con Jimmy e Eddie Hawkins, Archie Savage e altri, pronto a spostarsi in tutta Italia per recital e concerti. Sempre nello stesso periodo segue Calvin Lockhart e Jay Riley e tutto il gruppo degli afro-americani di Roma nello spettacolo “Shakespeare in Harlem” di Langston Hughes in giro per l’Italia, dove canterà e reciterà. Nel 1968 Harold lascia il Folkstudio in mano all’amico Giancarlo Cesaroni e con tutta la famiglia, Hannelore e i loro tre figli, Michael, Oliver e Lea, vanno a Chicago, dove gli era stata offerta un lavoro di curatore all’Illinois Arts Council. Lavora anche in tv a Chicago.  A differenza di tanti altri attori afro-americani, come Calvin Lockhart, Jay Riley, Archie Savage o Van Aikens, che partirono negli anni ’70 e non ritornarono più, Harold e sua moglie tornano nel 1987 per le celebrazioni del cinquantenario del Folk Studio e decidono di rimanere per sempre a Roma. Si sentivano a casa. Harold riprenderà a cantare e a recitare in qualche nostro film. Hannelore se ne andrà nel 2014 e Harold l’ha seguita adesso. Ma, come ricordo nell’intervista che gli ho fatto per Stracult qualche anno fa, non solo non aveva nessun rimpianto riguardo le sue scelte, ma sapeva di aver fatto una vita bella e felice.

·        E’ morto il regista Richard Rush.

Richard Rush rip. Marco Giusti per Dagospia il 13 aprile 2021. Ahi! Perdiamo anche Richard Rush, 92 anni, geniale regista dei più celebri film di Hells Angels e di motociclisti pippati negli anni ’60, “Hells Angels on Wheels”/“Angeli dell’inferno sulle ruote”, “Psych-Out – Il velo sul ventre”, “Violence Story”, poi del cult movie sessantottino “L’impossibilità di essere normale” con Elliott Gould e Candice Bergen, infine di “Professione pericolo” con Peter O’Toole, film sul cinema, che finì con quattro nomination all’Oscar e gli riaprì la carriera o, almeno, il culto, alla faccia delle majors che lo avevano sempre odiato. La sua è sempre stata una guerra con i produttori pronti a tagliare, a rimontare film che erano perfetti così. Il suo ultimo film, “Il colore della notte”, ero-thriller con Bruce Willis e Jane Marsh venne massacrato dalla produzione, che spingeva verso la chiave più erotica del film, e gli fece una guerra senza pietà per imporre contro il suo volere la sua versione. Amico di Jack Nicholson fin da ragazzo, Richard Rush esordisce nel cinema con lui in uno dei suoi primi ruoli in “Too Soon To Love”, storia d’amore giovanile con uno sviluppo drammatico, mai arrivato in Italia. Dirige poi in quel di Acapulco un mélo minerario con Merle Oberon ninfomane che si divide tra un fratello incestuoso, Curd Jurgens, e il più aitante Steve Cochran, “Amore e desiderio”, prodotto dalla New World di Roger Corman per la distribuzione della Fox. Quando un piccolo produttore, Joe Solomon della Fanfare Films, si presenta con 100 mila dollari per lui e il contratto per un film con gli Hells Angels protagonisti, vorrebbe rifiutare, sa quanto possano essere pericolosi gli Hells Angels sul set, ma poi lo accetta, così gira “Hells Angels on Wheels” con Adam Roarke, un attore che ritroveremo in tutti i suoi film, Jack Nicholson, Sabrina Sharf e tutti gli Hells Angels di Oakland con il loro capo, Sonny Barger, di San Francisco, di Richmond, di Sacramento. Subito dopo gira per la American International Pictures un film giovanile di auto da corsa con Annette Funicello e Fabian, “Thunder Alley”. Lo troviamo in Spagna per un sorta di giallo prodotto da Sidney Pink, re della serie Z, “La mano del destino” con Tab Hunter e Luis Prendes. Nella sua autobiografia Tab Hunter raccontò che trovandosi in Spagna per girare un altro film, “The Christmas Kid” e trovando all’aeroporto il collega Jeffrey Hunter chiamato per “La mano del destino”, i due decidessero di scambiare i film. Nessuno se ne sarebbe accorto. Lo fecero e nessuno se ne accorse. Non è un granché “Un agente chiamato Daggher” con Paul Mantee, Terry Moore e Jan Murray, spy con i nazisti redivivi comandati da un megalomane sulla sedia a rotelle, ma è molto riuscito “Psych-Out – Il velo sul ventre”, nuovo film di droghe e di hippies con Jack Nicholson, Bruce Dern, Susan Strasberg, Dean Stockwell, prodotto per la AIP da Dick Clark, che produce anche il successivo “Violence Story”, storia di motociclisti pazzi in giro per l’Indiana con Robert Walker Jr, Joanna Frank, Larry Bishop, Adam Roarke. Tarantino lo adorava al punto che lo scelse per aprire il primo Quentin Tarantino Film Festival a Austin in Texas nel 1997. Con “Getting Straight”/”L’impossibilità di essere normale” con Elliott Gould e Candice Bergen, uscito subito dopo “Mash” nel 1970, e tratto da un celebre romanzo di Ken Kolb di tre anni prima su università, guerra in Vietnam e rivolte giovanile, Richard Rush passa dalle piccole produzioni alla Serie A. Il film ha pure un grande successo, ma iniziarono i veri problemi del regista che si scontrò sempre di più con le major. Gli offrono la possibilità di girare “The Stunt Man” /”Professione pericolo”, tratto da un romanzo di Paul Brodeur, che voleva girare anche François Truffaut, e lo riprenderà come ispirazione in “Effetto notte”, ma ci metterà dieci anni per portarlo a termine. In mezzo, cioè in dieci anni di tempo, girerà solo un altro film, uno dei primissimi buddy buddy di poliziotti, anche piuttosto riuscito, “Una strana coppia di sbirri” con Alan Arkin e James Caan, su soggetto di Floyd Mutrux. Arkin e Caan non sopportavano però che Rush perdesse più tempo dietro agli stunt men che a loro, che lo vedevano come un action comedy. Ma proprio per la cura degli scontri fra auto, delle azioni pericolose, il film funzionò benissimo e fece nascere un genere. E qualcosa della follia del regista per le scene pericolose ritroviamo in “The Stunt Man”/”Professione pericolo” dove Peter O’Toole è un regista che fa fare ogi tipo di assurdità al suo stunt man, Steve Railsback. La Fox, malgrado le ben tre nomination del film, miglior attore, miglior regia e miglior sceneggiatura, non volle dare 3000 sale come sarebbe stato giusto, ma solo 200. Così il film non andò come avrebbe potuto andare con il lancio dell’Oscar e non ci fu il giusto rilancio della stella di Ruchard Rush come ci si sarebbe aspettati. Così passarono altre quattordici anni prima che approdasse alla regia di un nuovo film. In mezzo ci furono due infarti e vari progetti che andarono in fumo, come “Air America”. Nel 1994 si ritrovò fra le mani un thriller erotico di un certo peso, “Il colore della notte”, con Bruce Willis e Jane Marsh, che, oltre a essere massacrato dalla produzione, sarà anche l’ultimo film del regista. 

·        E’ morto il filosofo Ernesto Paolozzi.

Lascia moglie e due figli. E’ morto Ernesto Paolozzi, intellettuale acuto e raffinato. Il ricordo dei colleghi. Redazione su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Un intellettuale acuto, raffinato, ironico e mai banale. Di Ernesto Paolozzi, tra i più importanti studiosi italiani del pensiero liberale e del pensiero crociano in particolare, scomparso oggi improvvisamente a 67 anni, c’è un ricordo chiaro, nitido ma soprattutto unanime tra i docenti dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. La più antica libera Università italiana era da oltre 30 anni la ‘casa’ privilegiata dei suoi studi, delle sue ricerche e delle sue docenze di Storia della filosofia. Insieme con l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici di cui è stato per lunghi anni membro e del comitato scientifico e pilastro della Scuola estiva di Alta Formazione “Ottavio Colecchi”. “Non esistono principii assoluti, tranne il principio di libertà che, per sua natura, non ammette assoluti”. Uno dei suoi tanti aforismi, raccolti anche sul suo sito ernestopaolozzi.it, è stato scelto proprio dall’Università Suor Orsola Benincasa per ricordare attraverso i canali social dell’Ateneo l’essenza del suo pensiero liberale. “Il pensiero crociano per lui non è stato soltanto una missione di studio e di ricerca ma anche e soprattutto una bussola operativa nel suo grande impegno nella vita civile e sociale”. Nel ricordo tracciato da Lucio d’Alessandro, Rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa, dell’impegno intellettuale militante di Ernesto Paolozzi c’è anche il suo ruolo di presidente della Commissione toponomastica del Comune di Napoli, lo stesso ruolo che aveva ricoperto proprio Benedetto Croce. Un ruolo nel quale Paolozzi, come sottolinea d’Alessandro, “si era impegnato particolarmente per il mantenimento dell’identità storica della città di Napoli anche attraverso la toponomastica”. “Ernesto era un liberale antidogmatico. A differenza di tanti sedicenti liberali la cui fede non è mai sfiorata da dubbi”. Nel ricordo commosso del filosofo Gennaro Carillo, professore ordinario di Storia del pensiero politico e filosofico del Suor Orsola, c’è proprio uno dei tratti dominanti dell’uomo Paolozzi prima ancora dello studioso. Uno dei tratti del “filosofo alieno da tutti quei tic che troppo spesso rendono la filosofia una posa e il filosofo un pavone che fa la ruota”, come evidenzia Carillo. Al Suor Orsola lo ricordano con commozione anche tutti i dipendenti dell’Ateneo. Era un rito immancabile del lunedì la chiacchierata sul calcio con il ‘filosofo’. Quella discussioni appassionate sulle sorti del Napoli calcio erano diventate negli anni un appuntamento quasi fisso della rubrica sportiva radiofonica “Albalunga” del lunedì di Run Radio, la web radio del Suor Orsola. “I suoi interventi sul calcio – ricorda il direttore artistico di Run Radio, Antonio D’Amore – diventavano lezioni d’amore verso la nostra città, spesso bistrattata ma non per questo seconda a nessuno come ci teneva sempre a ribadire”. “L’incertezza è sul piano psicologico l’equivalente della libertà sul terreno filosofico ed etico politico. Imparare a vivere nell’incertezza significa imparare a vivere nella libertà”. Lo avrebbe ricordato oggi Ernesto se qualcuno gli avesse comunicato all’improvviso la scomparsa di un caro amico ancora giovane con il quale fino a due giorni prima si sognava di ritornare presto sui campi di calcetto. Sul rettangolo verde faceva il centravanti Ernesto Paolozzi. Di pensiero e di manovra anche in campo. Spesso in squadra con i più giovani. Perché le migliori lezioni si trasmettono in azione.

La scomparsa del filosofo. Addio a Ernesto Paolozzi, baluardo dei diritti e del pensiero libero. Massimiliano Marotta su Il Riformista il 10 Aprile 2021. Ernesto Paolozzi è andato via, ci ha lasciato più soli, ha raggiunto comuni amici e adesso collabora diversamente. Un amico dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici, un amico personale dell’avvocato Gerardo Marotta, di Antonio Gargano, di Aldo Tonini, di Arturo Martorelli, di Sergio Marotta, dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, del Suor Orsola Benincasa, di Lucio D’Alessandro, di Marta Herling, di Gaetano Manfredi, di tutte le Università napoletane e italiane, un amico mio caro. Perché? Perché è sempre stato un libero pensatore, aperto al dialogo, con le sue profonde certezze, ma sempre pronto a metterle in discussione, a verificare. Di formazione crociano, liberale, mai liberista, promotore della religione della libertà, di casa nelle istituzioni culturali della città e della Repubblica, pilastro della prima scuola estiva dell’Istituto, la Scuola di alta formazione Ottavio Colecchi a Pescocostanzo, gratuitamente, per spirito di servizio: servire la patria attraverso l’educazione e formazione dei giovani. Ernesto Paolozzi, già manchi assai! Mancherai ancor di più a Lea, Federica e Mariano, il calore dei tuoi sorrisi e degli abbracci mai negati, anticorpo del distanziamento emotivo, empatico come un Remo Bodei; perdonate i paragoni! Ma mettetevi in discussione, non rinunciate al vostro spirito critico: dove stiamo andando? Come e cosa stiamo operando nell’antropologia dell’umano? Salvarci la vita è veramente il nostro obbiettivo preferibile? Ernesto era un animatore culturale. Animatore, colui che si occupa dell’anima di una città, di una Repubblica, di una Federazione che irresponsabilmente tarda, tarda, tarda, tarda, tarda. Cittadini babbei degli Stati Uniti d’Europa che non traggono alcun insegnamento dall’esperienza nord, centro e sud americana: dal Messico al Cile e all’Argentina, avete sofferto invano; intellettuali immemori, manicomi ciechi, industrie di denaro e disperazione diaboliche! Siamo stati momentaneamente in disaccordo: lo Stato non può ritenersi etico, sono i cittadini che conferiscono moralità alle istituzioni. Ma Ernesto, siamo individui morali e costituiamo organismi morali, gravidi di eticità, con una gerarchia delle fonti del diritto splendidamente espressa dalla nostra Costituzione repubblicana. Sorridevi… e siamo stati interrotti, ma la nostra conversazione prosegue, storicamente, filosoficamente, con le parole del comune nostro maestro: «Come la storia, dunque, è azione spirituale, così ogni problema pratico e politico è problema spirituale e morale; e in questo campo va posto e trattato, e via via, nel modo che si può, risoluto; e qui non hanno luogo specifici di veruna sorta. Qui l’opera è degli educatori, sotto il qual nome non bisogna pensare ai maestri di scuola e agli altri pedagoghi, o non a essi soli, ma a tutti, in quanto tutti siamo e dobbiamo e possiamo essere effettivi educatori, ciascuno nella propria cerchia e ciascuno in prima verso sé stesso. Ricercando la tradizione politica nell’Italia meridionale, ho trovato che la sola di cui essa possa trarre intero vanto è appunto quella che mette capo agli uomini di dottrina e di pensiero, i quali compierono quanto di più bene si fece in questo paese, all’anima di questo paese, quanto gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò e gli schiuse un migliore avvenire, e l’unì all’Italia. Benedetta sia sempre la loro memoria e si rinnovi perpetua in noi l’efficacia del loro esempio!» Benedetto Ernesto, buon viaggio, sei amato, sei d’esempio.

·        E’ morto il rugbista Marco Bollesan.

Da ansa.it il 12 aprile 2021. Marco Bollesan, 79 anni, leggenda della palla ovale italiana. Era stato quarantasette volte azzurro, trentaquattro volte capitano della nazionale, commissario tecnico alla prima Rugby World Cup del 1987, team manager nelle rassegne iridate del 2003 e del 2007, fondatore delle Zebre nella loro forma originaria di invitational club italiano. "Il rugby italiano ha perso uno dei suoi figli prediletti - ha dichiarato il presidente della Fir, Marzio Innocenti, esprimendo il cordoglio della federazione - Per i rugbisti della mia generazione, per chiunque abbia praticato lo sport tra gli Anni '60 e gli Anni '80, ma anche per chi è venuto dopo Marco Bollesan, è stato un esempio, l'epitome del rugbista coraggioso, il simbolo di un gioco dove fango, sudore e sangue rappresentavano i migliori titoli onorifici. Gli saremo eternamente grati per il suo straordinario contributo. Siamo vicini alle figlie Miride e Marella ed a tutta la sua famiglia". morto Massimo Cuttitta, 70 volte azzurro, e la leggenda della palla ovale. Il rugby italiano piange anche Massimo Cuttitta. La Fir fa infatti sapere che, a causa di complicazioni legate al Covid-19, è morto ad Albano Laziale l'ex pilone azzurro, 54 anni, e uno degli uomini-simbolo della Nazionale del ct Georges Coste che, negli anni '90, fece guadagnare all'Italia un posto nel torneo che divenne il Sei Nazioni. In azzurro Massimo Cuttitta, originario di Latina ma poi trasferitosi al seguito dei genitori in Sudafrica doveva aveva cominciato a giocare a rugby, aveva messo insieme 70 presenze tra il 1990 e il 2000 prendendo parte ai Mondiali del 1991 e del 1995. Assieme al gemello Marcello giocò il match della storica vittoria dell'Italia sulla Francia nella finale della Coppa Fira nel 1997 a Grenoble contro la Francia. Da giocatore aveva indossato le maglie di L'Aquila, Amatori Calvisano, Milan (con cui aveva vinto 4 scudetti), degli Harlequins londinesi e della Rugby Roma come allenatore-giocatore, venendo selezionato anche per i Barbarians. Aveva poi lavorato come tecnico negli staff delle nazionali di Scozia, Canada, Romania e Portogallo.

Roberto Parretta per gazzetta.it il 12 aprile 2021. Nella Walk of Fame lungo i viali che circondano e portano allo stadio Olimpico con cui nel maggio 2015 il Coni ha voluto omaggiare i 100 sportivi italiani più influenti della storia, c'è una sola mattonella dedicata al rugby: è quella di Marco Bollesan, autentica leggenda della palla ovale azzurra. La leggenda si è spenta nella notte, incredibilmente a poche ore di distanza dalla scomparsa di un altro gigante azzurro del rugby, Massimo Cuttitta. Bollesan avrebbe compiuto 80 anni in luglio. Bollesan non è stato solo un campione in campo da terza linea, ma, soprattutto, è stato un personaggio che ha saputo andare oltre i confini del suo sport e che ne ha influenzato in prima persona lo sviluppo. Aveva la faccia da cattivo, non c'è dubbio, che ha mantenuto negli anni, anche per farsi riconoscere da chi, troppo giovane, non lo aveva potuto veder giocare. Genovese (anche se nato a Chioggia per puro caso), ha ovviamente iniziato la sua carriera al Cus Genova, passando poi per Partenope Napoli e Brescia, vincendo uno scudetto con entrambe, per chiudere con l’Amatori Milano. In Nazionale è entrato nel 1963 e ha chiuso nel 1974, per 47 caps e 6 anni da capitano. Anche se lontane rispetto a quelle toccate dai giocatori di oggi, sono cifre che hanno un peso specifico enorme, perché le partite da giocare erano poche e perché l'Italia era fuori dal giro dei grandi. Da allenatore, o meglio selezionatore, ha guidato gli azzurri alla prima Coppa del Mondo del 1987, quindi al momento di fare l'esordio nel Sei Nazioni, l'allora presidente Giancarlo Dondi lo richiamò in squadra nel ruolo di team manager. Dalle botte con gli altri ragazzini del suo quartiere quando faceva il garzone in frutteria al rugby incrociato a 17 anni al Carlini il passo è stato breve: "Sapevo menare le mani. Al primo allenamento – raccontava - ne picchiai diversi, ma del gioco non avevo capito niente". Dall'esordio in poi ha vissuto tutta l'epopea di un rugby che oggi è leggenda e che rivive grazie ai ricordi e ai racconti di quei miti. Nel 1973 furono proprio Bollesan, Tullio Ferrari e il giornalista Pierluigi Fadda a fondare il club a inviti delle Zebre, che si proponeva di rappresentare tutta l'Italia e non un solo territorio come avevano fatto di Dogi in Veneto. Nulla a che fare però con le Zebre attuali, che, anzi, avevano fatto molto arrabbiare Bollesan, che, nel pieno del suo stile, si rifiutò di concedere il marchio. Dopo un altro scudetto vinto con il Rugby Brescia nel 1975, salutò la Nazionale con la partita contro la Cecoslovacchia a Reggio Calabria. Dopo avere indossato le maglie di CUS Milano e Amatori Milano, nel 1981 ha appeso gli scarpini al chiodo, passando però subito dall'altra parte come allenatore. Livorno, CUS Genova e Alghero le sue tappe. Il legame con la squadra sarde è poi proseguito negli anni sotto altre vesti. E a legarlo a Massimo Cuttitta c'è l'esperienza nella stagione 2001-2002 proprio ad Alghero con la storica promozione in A1. Un destino incredibilmente triste che li ha riuniti oggi, a poche ore di distanza l'uno dall'altro. Con Marco Pastonesi, storica firma della Gazzetta, nel suo "Le Guerre di Bollesan" si era raccontato così: " Il primo allenamento della mia vita picchiai e picchiai, randellate su randellate. Se mi avessero detto che c'era anche una palla, forse avrei combinato qualcosa di più". Una vera leggenda.

·        E’ morto il rugbista Massimo Cuttitta.

Rugby, è morto Massimo Cuttitta: 70 volte nazionale, stroncato dal Covid a 54 anni. Massimo Calandri su La Repubblica l'11 aprile 2021. Gloria del rugby azzurro, in carriera aveva partitecipato alle edizioni dei campionati mondiali nel 1991 e nel 1995. Placcarlo sul campo è sempre stato un problema per gli avversari, con tutti quei chili di muscoli e una forza impressionante. Massimo Cuttitta detto “Maus”, uno dei rugbisti italiani più noti e rappresentativi, per 70 volte pilone della Nazionale tra il 1990 e il 2000, tra i grandi protagonisti di quella squadra azzurra che conquistò sul campo il diritto a partecipare al torneo delle Sei Nazioni, diverse presenze nei Barbarians, poi allenatore a livello internazionale: è morto a 54 anni, stroncato dal Covid. Da alcune settimane lottava contro la malattia, negli ultimi giorni le sue condizioni si erano aggravate. Originario di Latina, gemello di Marcello, che giocava all’ala e con lui ha condiviso una lunga e fortunata carriera, Massimo Cuttitta era stato anche per anni allenatore della mischia della Scozia, contribuendo al rilancio della squadra britannica. Più recentemente era stato consulente tecnico di Romania, Canada e Portogallo. Aveva imparato a giocare a rugby in Sudafrica, dove i genitori si erano trasferiti per motivi di lavoro negli anni Sessanta: Pinetown, un sobborgo di Durban. La famiglia rientrò in Italia nel 1985, e i fratelli Cuttitta – ce n’era un terzo, il maggiore, Michele, che però ad un certo punto lasciò lo sport per dedicarsi agli studi di ingegneria – furono tesserati per l’Aquila. Il primo ad essere convocato in azzurro fu Marcello, poco dopo arrivo il tempo di “Maus”, pilone sinistro di grande energia e tecnica eccezionale: il primo a convocarlo fu il ct Bertrand Fourcade, esordì nel 1990 contro la Polonia. Nel frattempo si era già trasferito a Milano in una squadra dove rimase per 10 stagioni vincendo 4 scudetti e una Coppa Italia insieme a campioni come Dominguez, Campese, Vaccari, Properzi, Gomez. Due partecipazioni ai Mondiali (1991 e 1995) sempre col fratello, la storica vittoria di Grénoble nel 1997 – quando l’Italia batté la Francia che aveva appena vinto il Cinque Nazioni -, nel 1998 andò a giocare a Londra negli Harlequins, quindi nel Calvisano. Tra i momenti più belli della sua carriera, naturalmente il meritatissimo esordio nel Sei Nazioni con la vittoria al Flaminio contro la Scozia nel 2000: un reparto da ricordare, con Moscardi e De Carli. Due settimane dopo scese in campo anche a Cardiff, poi a causa di un infortunio cedette il posto al giovane Perugini. Dalla stagione successiva, fu allenatore e giocatore: Bologna, Roma, Alghero, Brescia (il ritiro da atleta nel 2006), Edimburgo, quindi la Scozia. Una energia impressionante, lo sguardo di un uomo tranquillo. “Quando c’è stato da lottare, non mi sono mai tirato indietro: ho sempre dato tutto, in campo e nella vita”, ripeteva. Era un uomo di prima linea: si è battuto fino all’ultimo con coraggio, come sempre.

Covid. Rugby: morto Massimo Cuttitta, 70 volte in Nazionale azzurra. "Maus" Aveva 54 anni, giocò 2 Mondiali e battè la Francia a Grenoble. Due giorni fa è morta la madre sempre per Coronavirus. di Tiziana Di Giovannandrea l'11 aprile 2021 su Rainews.it. Massimo Cuttitta è morto a causa del Covid-19, aveva 54 anni e 70 presenze in Nazionale. La Federazione Italiana Rugby (FIR) ha fatto sapere che, a causa di complicazioni legate al Corononavirus,  l'ex pilone sinistro azzurro è morto all'ospedale di Albano Laziale (Roma). Nella nota si evidenzia "lo sgomento" di tutta la Federazione e dell'intero movimento rugbistico nazionale per la morte di "Maus". Era nato a Latina ma si era trasferito, al seguito dei genitori Nunzia e Carlo, originari di Napoli, a Durban, in Sud Africa dove aveva cominciato a giocare a rugby al pari del gemello Marcello, ala e miglior marcatore nella storia azzurra e al fratello maggiore Michele, benché quest'ultimo solo a livello dilettantistico. Cuttitta è stato uno degli uomini-simbolo della Nazionale del Ct Georges Coste che, negli anni '90, ha portato l'Italia nel torneo che divenne il Sei Nazioni. In azzurro Massimo Cuttitta,  aveva messo insieme 70 presenze tra il 1990 e il 2000 prendendo parte ai Mondiali del 1991 e del 1995. Assieme al gemello Marcello giocò il match della storica vittoria dell'Italia sulla Francia nella finale della Coppa Fira nel 1997 a Grenoble contro la Francia. Da giocatore aveva indossato le maglie di L'Aquila, Amatori Calvisano, Milan (con cui aveva vinto 4 scudetti), degli Harlequins londinesi e della Rugby Roma come allenatore-giocatore, venendo selezionato anche per i Barbarians. Conclusa l'esperienza d'Oltremanica, aveva ricoperto il ruolo di giocatore-allenatore per numerosi club italiani - Bologna, Rugby Roma, Alghero e Leonessa - prima di approdare come tecnico degli avanti ad Edimburgo e, da lì, alla federazione scozzese. Più recentemente, aveva messo la propria esperienza di allenatore della mischia al servizio di Nazionali emergenti come Romania, Canada e Portogallo, svolgendo incarichi di consulente per i rispettivi staff tecnici. Aveva poi lavorato come tecnico negli staff delle nazionali di Scozia, Canada, Romania e Portogallo.  Venerdì 9 aprile, sempre all'Ospedale di Albano Laziale, era morta la madre Nunzia, anche lei colpita dal Covid-19. Una decina di giorni fa le condizioni di salute di Massimo Cuttitta e della madre si erano aggravate ed erano stati ricoverati in terapia intensiva ad Albano. Dopo la morte della madre, c'è stato un peggioramento delle condizioni dell'ex rugbista azzurro la cui imponenza fisica non facilitava la situazione. Nel tardo pomeriggio di oggi, la scomparsa che ha addolorato oltre al mondo del rugby italiano anche quello internazionale in cui Massimo Cuttitta era molto stimato. Il Presidente della FIR Marzio Innocenti ha dichiarato: "Non abbiamo avuto la possibilità di condividere la maglia azzurra, ma l’amore per i nostri colori aveva costituito tra noi un forte, naturale legame. Cuttitta non è stato solo un incredibile servitore del rugby italiano ed un eccellente interprete del ruolo di pilone sinistro, ma anche un apprezzato ambasciatore del nostro movimento all’estero". In memoria di Cuttitta il Presidente federale ha disposto che un minuto di silenzio venga osservato nel prossimo fine settimana prima del calcio d’inizio degli incontri del Campionato Italiano Peroni TOP 10.  

Rugby, Massimo Cuttitta morto di Covid a 54 anni insieme alla mamma: la fine straziante di una leggenda italiana. Libero Quotidiano il 12 aprile 2021. Rugby italiano in lutto: Massimo Cuttitta è morto a soli 54 anni di Covid. Insieme al fratello gemello Marcello è stato uno dei pilastri della Nazionale che stupì il mondo della palla ovale tra anni 80 e 90, conquistando lo storico posto nell'allora Cinque nazioni per meriti sportivi. Ricoverato nei giorni scorsi in ospedale ad Albano Laziale, l'ex pilone che in carriera ha difeso colori di club storici come L'Aquila, Milan e Harlequins, aveva contratto il virus insieme alla mamma Nunzia, deceduta a sua volta tre giorni fa. Adorato in Italia e stimatissimo all'estero (è stato anche allenatore  degli avanti della Scozia), Cuttitta è stato uno dei cardini della Nazionale con i tecnici francesi Bertrand Fourcade e George Coste e ha contribuito a lanciare in azzurro un altro mito dell'Italrugby, Andrea Lo Cicero, che oggi lo ricorda commosso: "Con lui avevamo sempre parlato e ogni chiacchierata era piena di consigli, non solo nella settimana del mio esordio  - spiega Il Barone alla Gazzetta dello Sport -. Lui mi vedeva come suo erede, aveva visto in me la testardaggine e la determinazione necessarie. È stata un'ottima guida, ai giovani raccontava che davanti avevano un percorso da affrontare con voglia di fare senza mai arrendersi. Una persona squisita, tanto duro in campo quanto amorevole fuori, nel pieno stile dei rugbisti di una volta. Uno che mai ti avrebbe dato una fregatura". Stesso cordoglio da un altro grande di quelle stagioni, Paolo Vaccari: "Alla Coppa del Mondo del 1995 scappavamo di nascosto dall'hotel per andare a comprare quella carne essiccata salatissima sudafricana, il biltong. Ne mangiava a chili... tutte proteine!".  "Ero rimasto stupito di come quel giocatore così irruento fosse diventato un allenatore/educatore così maturo e sereno. Era contento di quello che è stato il suo percorso, che lo ha reso un uomo completo, capace di affrontare qualsiasi cosa. E non aveva assolutamente il rammarico di non essere mai entrato nello staff della Nazionale, piuttosto era dispiaciuto per non avere potuto mettere in pratica un progetto che secondo lui avrebbe caratterizzato il futuro. Aveva ora deciso di fermarsi, non voleva più girare, voleva stare vicino alla mamma. Si era messo a restaurare auto antiche". 

·        E’ morto il rapper Earl Simmons.

Lutto nella musica. È morto DMX, la star del rap aveva 50 anni: era in coma per overdose. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Non ce l’ha fatta Earl Simmons, in arte DMX, rapper tra i più influenti della storia del genere musicale. È morto oggi, all’ospedale di White Plains, a New York. Aveva 50 anni. Era stato ricoverato il 3 aprile, a causa di un’overdose che gli aveva provocato un attacco di cuore. Da allora viveva in stato vegetativo. Lascia 15 figli. DMX era una un acronimo che stava per Dark Man X. Era cresciuto negli Yonkers, periferia di New York. Un’infanzia difficile, raccontata nella sua biografia: soffrì abusi e venne abbandonato dei genitori. Finì anche in galera per furti. Si salvò con la musica, prima da dj e poi da autore e cantante. “Ho imparato che dovevo affrontare le cose che mi ferivano – ha detto in un’intervista – Non avevo qualcuno con cui parlare. Nei quartieri nessuno vuole ascoltare. Parlare dei tuoi problemi è considerato un segno di debolezza. Invece è la cosa più coraggiosa che puoi fare”. Era cristiano praticante e leggeva la Bibbia tutti i giorni. I primi quattro figli li aveva avuti dalla prima moglie, gli altri da altre donne e rapporti extraconiugali. Il suo primo album nel 1998, It’s Dark and Hell is Hot, l’anno dopo … And Then There Was X, il suo album più venduto e certificato cinque volte multiplatino. Ha pubblicato in tutto otto album. Ha recitato in alcuni film e nel 2006 è stato protagonista della serie reality DMX: Soul of a Man. Già in passato l’artista aveva avuto problemi seri con la tossicodipendenza. La sua prima esperienza a 14: aveva fumato crack. Era stato in rehab per due volte. Nel 2019 aveva cancellato una serie di date del suo tour per entrare in clinica di riabilitazione; aveva appena scontato un anno di reclusione per frode ed evasione fiscale. “È con tristezza che annunciamo che il nostro amato DMX è scomparso all’età di 50 anni all’ospedale di White Plains”, si legge in una dichiarazione della famiglia.

·        E’ morta la stilista Fiorella Mancini.

Da ilgazzettino.it il 10 aprile 2021. Morta a 78 anni la stilista, designer e artista Fiorella Mancini, conosciutissima a Venezia e residente fra la città lagunare e Preganziol. Provocatrice, estrosa, Fiorella era sposata con l'architetto Plinio Danieli. Mancini aveva un atelier in campo Santo Stefano dal 1968, al suo interno si trovava di tutto, comprese le famose giacche indossate da Elton John.

Da metropolitano.it/ 22 Giugno 2014. Energie da vendere, disinvolta, stravagante, esplosiva. Fiorella Mancini continua ad ammaliare e scioccare con la sua personalità fuori dagli schemi inevitabilmente riflessa nelle sue creazioni. Pezzi imperdibili: perizomi paillettati con la scritta “Fuck your life”, giacche di velluto con stampa alla Fortuny “arricchite” da topi giganti. Capi stravaganti ai limiti del trash ma con un incredibile tocco di stile, indossati – solo per fare alcuni nomi – da Sting, Elton John, Philippe Starck. Ma che cosa significa per la gioviale ed eclettica signora essere eccentrica e provocatoria? «Mah. Non lo so. Non dico io di esserlo. Lo dicono gli altri». Risponde laconica, mentre è affaccendata – ma con filosofica leggerezza – ad occuparsi delle sue prossime creazioni tra tessuti, colori, ritagli di giornali ed i-pad sparsi qua e là. Nata a Ferrara, ma cresciuta a Venezia, Fiorella Mancini, artista, designer e performer è una pietra miliare della moda italiana. Amata dalle star, in bilico tra sacro e profano, circondata nel suo atelier da bambole assassine, madonne e statuari corpi maschili, è da oltre un trentennio una firma di successo, punto di riferimento per addetti ai lavori e non solo. Chi non conosce la sua boutique in campo Santo Stefano a Venezia? Un negozio- galleria che spicca per il gusto trasgressivo, l’atmosfera gotica, pop-surreale. Scritte al neon, installazioni pulsanti tra cui i suoi celebri dogi in legno dal corpo femminile, divenuti quasi il simbolo del suo atelier. «Nacquero in occasione della mostra “I dogi della moda” che organizzai a Palazzo Grassi nel 1984, quando ero presidente del Comitato Veneziamoda – spiega – venti stilisti, da Armani a Vivienne Westwood, si confrontarono anche con le note sculture di dogi realizzate per l’occasione dall’australiano Rod Dudley e rappresentanti la vanità. Il tutto fu poi immortalato dagli scatti fotografici di Franco Fontana». Ma i dogi, benché elementi caratterizzanti e distintivi della produzione Mancini, sono solo alcuni pezzi delle vetrine provocatorie della sua galleria dove trovano posto pure opere d’arte contemporanea, selezionati pezzi di design d’avanguardia e i suoi capi di abbigliamento unici ed inimitabili. Abiti i cui tessuti ricercati ed originalissimi vengono creati dalla designer nel suo “laboratorio”, un frammento di paradiso in quel di Preganziol nella Marca trevigiana. Lì, nel contesto della storica villa veneta Taverna, Fiorella trascorre alcune delle sue giornate insieme al marito, l’architetto Plinio Danieli. Un grande parco con alberi secolari, sontuoso ed accogliente avvolge una serra fiabesca in stile liberty dove la designer lavora. Ed è proprio in questo spazio surreale che ci accoglie, vestita casual, scarpe da ginnastica e immancabili occhiali da sole. Un veloce saluto e subito un ottimo bicchiere di prosecco per rendere effervescente l’atmosfera già di per sé suggestiva ed accattivante. Nella serra-laboratorio di Fiorella ci sono tessuti, luci, colori, pezzi di design, un turbinio di idee. Appeso al soffitto oscilla un gigantesco dragone cinese in seta, un pezzo originale risalente agli anni Sessanta/Settanta comprato dall’artista a Canton e poi giunto in nave in Italia. Insomma un pot-pourri che profuma di estro bizzarro, eccentrico, provocatorio in un contesto di ordine/disordine, di distonia armonica, dove tutto si combina in una sorta di sfuggente e casuale contenitore d’arte. «Qui preparo i tessuti – racconta – li coloro, li sfumo, li rendo iridescenti». Sono per lo più gli inconfondibili velluti che danno vita e forma ai suoi capi, artatamente “stinti” o stampati o ancora decorati con il suo inimitabile stile. E così in quest’angolo di pace e natura la vulcanica designer prepara le sue performance/creazioni per poi scioccare il jet-set internazionale. Un’oasi ispiratrice ed incantata che necessita però di un continuo scambio con la laguna. «Questo sarà pure un paradiso – commenta – ma vivo a Venezia, di cui non riesco a fare a meno. L’adoro». Nella sua galleria in centro storico, la stilista allestisce, s’incontra e si scontra con artisti, musicisti, galleristi, con, come la definisce, “gente alternativa”. Per poi rifugiarsi nella sua dimora, un gioiello architettonico, a due passi dall’atelier, ricavato in una chiesa sconsacrata. «Venezia è unica – conclude – anche se ormai è popolata quasi esclusivamente da turisti. Vado spesso a Mestre, al centro Candiani o a Forte Marghera, una città di certo più vitale, in divenire». La città lagunare, sebbene completamente trasformata dallo spopolamento dei residenti e dalle colate di lava turistica, è sempre oggetto del suo interesse e del suo estro creativo. Tant’è che tra i progetti della stilista c’è quello di aprire un locale dedicato al mondo gay proprio in centro storico. Con uno sguardo che comunque guarda al mondo: medita infatti di girargli attorno con un aereo in cui intende allestire una sfilata-performance. Come sempre Fiorella Mancini punta in alto.

·        È morto il campione di pallavolo Michele Pasinato.

È morto Michele Pasinato, recordman della pallavolo e campione della “squadra del secolo”. Campione del mondo con la Nazionale di Julio Velasco. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Aprile 2021. Lutto nel mondo dello sport e della pallavolo . È morto a 51 anni Michele Pasinato, campione veneto, opposto della nazionale azzurra più forte di sempre. Si è arreso a un male incurabile dopo mesi di lotta. Lascia due figli giovani, anche loro giovani pallavolisti. Pasinato è recordman di punti segnati nella regular season della massima serie del campionato italiano: 7.031 punti in 280 partite. Ha vestito le maglie di Petrarca, Gabeca Montichiari, Roma e Padova. Unanime il cordoglio del mondo dello sport. “Da parte del presidente Giuseppe Manfredi, dei vicepresidenti Adriano Bilato e Luciano Cecchi, del segretario generale Alberto Rabiti, del Consiglio Federale e dell’intera Federazione Italiana Pallavolo giungano alla famiglia di Michele sentite condoglianze – si legge nella nota della Federazione Italiana Pallavolo (Fipav) – Dopo cinque mesi di grande lotta Michele si è dovuto arrendere a un male incurabile”. Il ricordo che circola in queste ore tra colleghi e altre professionalità dell’ambiente descrive un uomo gentile e un atleta impeccabile. L’ex ct della Nazionale Mauro Berruto lo ha ricordato in un tweet: “Addio Michele. In silenzio, come sempre. Da campione, come sempre”. Solo l’oro olimpico mancò a quella nazionale guidata da Julio Velasco. Furono anni d’oro quelli. Pasinato ha collezionato 256 presenze in azzurro. Con la cosiddetta “squadra del secolo” ha partecipato alle Olimpiadi di Barcellona 1992, ai Mondiali 1998 (vincendo l’oro) e agli Europei 1993 e 1995, medaglia d’oro anche in questo caso. Cordoglio espresso anche da parte del presidente del Coni, Giovanni Malagò: “Lo sport italiano piange la scomparsa di Pasinato, straordinario interprete della generazione di ‘fenomeni’ del volley azzurro e intramontabile esempio dei valori che ci rappresentano. Ciao, Michele. Campione per sempre!”. Il ricordo più toccante, forse, da parte di altri due pilastri di quella Nazionale.  Andrea Sartoretti ha scritto: “Ci lascia un grande campione, esempio di tenacia e volontà. Ho avuto il piacere di giocare in nazionale insieme a lui ed apprezzare le sue qualità di giocatore e di uomo”. Andrea Giani, oggi dg e allenatore di Modena Volley: “Provo un enorme dolore, con Michele sono cresciuto, siamo partiti dalla Pre Juniores, sempre insieme, dal 1985. È veramente una notizia che mi stringe il cuore”.

Michele Pasinato morto a 52 anni: addio al campione dell’Italvolley. Jacopo Bongini su Notizie.it l'08/04/2021. È morto all'età di 52 anni il campione di pallavolo Michele Pasinato. Con la nazionale italiana aveva vinto un mondiale, due campionati europei. All’età di soli 52 anni è morto il campione di pallavolo Michele Pasinato, uno dei membri della cosiddetta “Generazione di fenomeni” che nel corso degli anni ’90 resero la nazionale italiana una delle più forti al mondo. L’annuncio della scomparsa di Pasinato, che da tempo lottava contro una grave malattia, è stato dato dalla Federvolley nella giornata dell’8 aprile. Nato a Cittadella nel 1969, Michele Pasinato iniziò la sua carriera nella società padovana della Petrarca Pallavolo, per poi giocare negli anni ’90 anche con la monzese Gabeca e con la Roma Volley. Con la nazionale italiana fece invece il suo esordio nel 1988 e raccolse in totale 256 presenze, conquistando con quest’ultima un mondiale nel 1998, due europei nel 1993 e nel 1995 e ben sei World League dal 1990 al 1997. Ad oggi Pasinato risulta essere ancora il detentore del record del maggior numero di punti (7.031 in 280 partite) segnati da un pallavolista nella storia del campionato italiano. Nel loro messaggio di condoglianze, la Federazione Italiana Pallavolo ha dichiarato: “Da parte del presidente Giuseppe Manfredi, dei vicepresidenti Adriano Bilato e Luciano Cecchi, del segretario generale Alberto Rabiti, del Consiglio Federale e dell’intera Federazione Italiana Pallavolo giungano alla famiglia di Michele sentite condoglianze“. Sono in molti in queste ore a ricordare Pasinato sui social, compresi i suoi compagni di squadra di quella Generazione di fenomeni che ha cambiato per sempre la storia di questo sport.

Jacopo Bongini. Nato a Milano, classe 1993, è laureato in "Nuove Tecnologie dell’Arte" all’Accademia di Belle Arti di Brera. Prima di collaborare con Notizie.it ha scritto per Il Giornale.

·        È morto il teologo Hans Küng.

È morto il teologo Hans Küng. La Repubblica il 6 aprile 2021. Lo studioso svizzero, 93 anni, ha spesso criticato la Chiesa e ha sempre promosso il dialogo tra le religioni. È morto il teologo svizzero Hans Küng. Noto per le sue posizioni teologiche e morali spesso critiche verso la dottrina della Chiesa cattolica - rifiutava il dogma dell'infallibilità papale -, Küng  è morto oggi all'età di 93 anni nella sua casa di Tubinga, in Germania, come annunciato dalla Fondazione Weltethos da lui fondata. Nato a Sursee, in Svizzera, nel 1928, Küng aveva scelto di dedicarsi presto allo studio della teologia e già all’età di 32 anni era diventato professore ordinario presso la Facoltà di Teologia cattolica dell’università di Tubinga in Germania. Il 1970 segnò nei rapporti con la Chiesa cattolica uno spartiacque: la pubblicazione del volume Infallibile? Una domanda, in cui  Küng contestava il dogma dell’infallibilità papale, lo pose in conflitto con la Congregazione per la dottrina della fede che nel 1979 gli revocò l’autorizzazione all’insegnamento della teologia dogmatica (continuò però a insegnare teologia ecumenica). In seguito fu critico verso il pontificato di Giovanni Paolo II, considerato distante dallo spirito riformistico del Concilio Vaticano II, e nel 2020 chiese  a Benedetto XVI un "mea culpa" per il modo in cui la Chiesa aveva gestito la piaga della pedofilia. Küng  aveva espresso le sue critiche a papa Giovanni Paolo II in libri e articoli, arrivando a definirlo come il "Papa più contraddittorio del XX secolo". Tra i bersagli di Küng il conservatorismo di Karol Wojtyla e la sua "politica interna", a suo modo di vedere conservatrice e anticonciliarista. Soprattutto non apprezzava le posizioni restauratrici del papa verso le "donne moderne" e le sue prese di posizione contro la pillola e i metodi contraccettivi. Küng si era più volte espresso inoltre a favore del matrimonio dei preti, sostenendo che nella Bibbia e nel cattolicesimo del primo Millennio non esistevano leggi che regolassero il celibato dei sacerdoti. Tra le battaglie di Küng, l’ammissione delle donne e dei laici a ogni ministero e alcune aperture nel campo della bioetica (si veda Della dignità del morire, Rizzoli, e poi La dignità della morte. Tesi sull’eutanasia, Datanews). Nel 1993 aveva creato la Fondazione Weltethos (Etica mondiale) per incentivare il dialogo interreligioso. Teologo e intellettuale, Küng si era anche interessato a studiare il rapporto tra religione e scienza. Tra i suoi libri L’inizio di tutte le cose (Rizzoli), sullo sviluppo della scienza moderna a partire da Copernico e Galileo  Galilei. Nel saggio Küng negava l’esistenza reale di Adamo ed Eva e dell’episodio del peccato originale, stimolando nuovamente un accesso dibattito. Coraggioso nel descrivere luci e ombre della Chiesa, aveva recentemente firmato un libro insieme a Paul Ricoeur per indagare in modo problematico il perché della violenza nelle religioni: Il lato oscuro della fede (Medusa). Sostenitore del pluralismo religioso, Küng è stato membro del Council for a Parliament of the World's Religions. Agli altri monoteismi aveva dedicato il volume Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Sulle sue posizioni era tornato nel libro Di fronte al Papa (Rizzoli), per raccontare la sua vita nella Chiesa da Pio XII a papa Francesco. Küng si era ritirato dalla vita pubblica nel 2013 per ragioni di salute.  

Lucetta Scaraffia per "la Stampa" il 7 aprile 2021. Una battaglia lunga una vita (Rizzoli) è il titolo italiano dell'autobiografia scritta in tre volumi da Hans Küng, morto ieri sera a Tubinga a 93 anni: una frase che condensa bene la vicenda di questo grande intellettuale del nostro tempo, che ha attraversato il mondo cattolico e quello laico influenzandoli entrambi con la sua acuta intelligenza e il coraggio nell' avanzare da solo in terreni impervi pur sapendo di suscitare conflitti e critiche anche violente. Giovane brillantissimo, nato a Sursee, in Svizzera, aveva studiato teologia alla Gregoriana di Roma prima di venire ordinato sacerdote nel 1954 a San Pietro, poi a Parigi, ed era stato nominato a soli 32 anni professore ordinario di teologia all' università di Tubinga. Partecipa come esperto al Vaticano II, uno dei più giovani insieme con un altro promettente coetaneo, Joseph Ratzinger, con il quale inizia un rapporto di amicizia e di confronto, anche burrascoso, che durerà tutta la vita. Grazie a lui, Ratzinger viene assunto come professore a Tubinga, ma poi il '68 li porterà su fronti contrapposti: da questo momento l' iniziale alleanza si tramuta in un confronto serrato e conflittuale, che vedrà un momento di pausa solo qualche mese dopo l' elezione al pontificato di Ratzinger, che invita il vecchio amico a raggiungerlo a Castel Gandolfo. Il comunicato ufficiale emesso parla di incontro amichevole, ma il contrasto tra i due si riapre immediatamente dopo. I punti salienti e controversi delle opere di Küng riguardano in primo luogo la negazione dell'infallibilità papale, per cui nel 1975 viene richiamato dalla Congregazione per la dottrina della fede, che gli toglie l' autorizzazione di insegnamento nelle università cattoliche. Ma la sua cattedra rimane, se pure separata dalla facoltà cattolica, e Küng resta sempre sacerdote. Negli anni successivi la sua voce contro il pontificato di Giovanni Paolo II si fa sempre più critica, sia nel denunciare la repressione nel dissenso intellettuale interno, sia nel criticarne la scarsa disponibilità al dialogo ecumenico e interreligioso, al quale Küng dedica tutte le sue forze creando a Tubinga un istituto apposito. La tensione sale soprattutto nel 2000, in occasione del documento dottrinale Dominus Iesus, scritto da Ratzinger come prefetto dell' antico Sant' Uffizio per ribadire che non c' è salvezza al di fuori delle religioni cristiane. Küng sottolinea invece - come Rahner, Congar, Daniélou - che ci sono semi di verità, e dunque di cristianesimo, anche in altre religioni, che hanno per questo una funzione salvifica. Anzi, per il teologo svizzero anche le religioni non cristiane sono vie di salvezza - «la parola del Padre è la verità che illumina anche le altre fedi» - se pure il cristianesimo rimane una via straordinaria, perché «la fede cristiana rappresenta un universalismo radicale, fondato, concretizzato e centrato in Cristo». Affermazioni che per Ratzinger non sono sufficienti a contrastare il pericolo dilagante di relativismo. La sua apertura alle altre religioni lo porta a sperare che sia possibile costruire un'«etica mondiale» la quale comprenda valori comuni con il fine di arrivare a costruire un codice di comportamento universale condiviso. Küng è stato infatti il principale estensore del documento Per un' etica mondiale: una dichiarazione iniziale sottoscritta nel 1993 a Chicago durante una delle riunioni del Council for a Parlament of the World' s Religions, che riuniva quasi tutte le fedi del mondo sotto l' egida dell' Onu. Oltre allo studio delle religioni abramitiche, Küng si è anche interessato ai rapporti tra scienza e fede con un libro, L' inizio di tutte le cose. Scienza e religione a confronto (Rizzoli), che ha avuto molto successo. È stato un efficace scrittore, capace di divulgare questioni complesse e di renderle comprensibili, e questo ne ha favorito la fortuna. La sua polemica si è esercitata soprattutto contro Giovanni Paolo II, al quale ha rimproverato una «visione medievale della Chiesa» e la selezione di una gerarchia di poco valore, ma obbediente. Oggi, dopo l' emergere sulla scena storica del fondamentalismo islamico, il suo progetto di unione delle religioni sembra naufragato, mentre altre sue proposte si sono affermate tacitamente anche all' interno del mondo cattolico, dove non si parla più della necessità di convertire.

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 7 aprile 2021. Hans Kung, il grande teologo svizzero più letto al mondo assieme a Joseph Ratzinger, di cui è stato considerato eterno antagonista, è morto a Tubinga, in Germania, all' età di 93 anni. È stato indubbiamente uno dei più coraggiosi e tenaci interpreti del Vaticano II in chiave innovativa, nonostante questo gli sia costato la cattedra e parecchi guai con la Dottrina della Fede che aprì nei suoi confronti diverse procedure disciplinari benché non sia mai arrivato alla scomunica pur continuando a predicare una Chiesa più democratica, dai tratti quasi protestanti. Uno dei punti sui quali si è concentrata la sua ricerca scientifica è stata l'infallibilità pontificia. Nel 1970 l'editrice svizzera Benzinger Verlag mise sul mercato un libro esplosivo: in copertina si notava un grande punto interrogativo rosso su sfondo nero e a caratteri cubitali la parola Infallibile. La tesi era semplice, la questione dell'infallibilità andava risolta perché non trovava basi nella Bibbia e nella Tradizione. Inoltre, secondo la sua visione, diverse decisioni papali nella storia della Chiesa erano solo il frutto di cantonate micidiali. Tra gli esempi includeva l'enciclica Humanae vitae di Paolo VI con la sua proibizione della pillola contraccettiva. Kung insisteva sul fatto che solo la Chiesa nel suo insieme cammina su un binario di verità, ma che le singole decisioni dei pontefici finiscono per trasformarsi in grossolani errori. Gli attacchi sul piano accademico che sferrò Kung alla Chiesa a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno prodotto terremoti e non hanno rivali. È in questo contesto che si è andata ad intersecare la controversia con Ratzinger che però non consisteva tanto in uno scontro banale tra teologia progressista o conservatrice. Si concentrava, invece, sulla questione dell' immagine di Cristo. La domanda era cruciale: chi è davvero Gesù? Su questo interrogativo i due immensi teologi sono andati avanti decenni a duellare. Secondo il biografo di Ratzinger, Peter Sewald, l' eventuale immagine sbagliata di Cristo che aveva Kung avrebbe indotto in errore e portato alla dissoluzione dei fondamenti tradizionali della fede, mentre l' immagine giusta non avrebbe smontato il fondatore del cristianesimo avvalendosi del metodo storico critico. Naturalmente la battaglia fu fatta a colpi di teologia, con l' eleganza dei grandi pensatori. Kung non risparmiava frecciate, era contro il celibato e una Chiesa statica, cristallizzata su dogmi di fede. Ipotizzava persino il sacerdozio femminile. Ratzinger, dal canto suo, sapeva che si trattava di due fronti che avrebbero potuto scavare fossati e creare divisioni nel corpo ecclesiale. Alla fine il Vaticano revocò la licenza di insegnamento a Kung che fondò un suo istituto di ricerca: Weltethos. C' era chi lo aveva schedato come eretico ma in realtà tra Kung e il Vaticano continuò un rapporto dialettico su diversi temi. Contrariamente ad altri teologi ribelli come Drewermann, Boff, Ranke-Heinemann, Kung rimase quello che era, un prete cattolico, un professore senza licenza di insegnamento e un teologo sostanzialmente leale. Questo spiega perchè Ratzinger, dopo l' elezione a Papa, nel 2005, lo volle ricevere nella sua residenza estiva a Castel Gandolfo. Fu un incontro tra due leoni, suggellato da un abbraccio fraterno e quattro ore fitte di colloquio che non sono mai state riassunte nei dettagli. Si sa che i due parlarono del dialogo interreligioso e del rapporto tra fede e scienza. E' però difficile immaginare che non siano scesi sui terreni scoscesi del passato. In ogni caso quella udienza estiva fu interpretata dal mondo come l' archiviazione di un capitolo, una sorta di riabilitazione, lo sguardo comune su una Chiesa da amare più che da demolire. Il vero passaggio di avvicinamento al papato Kung, per sua stessa ammissione, lo ha fatto con Papa Francesco. Anche con lui ha avuto uno scambio, stavolta epistolare. Una lettera «manoscritta e fraterna». Kung sui teologi scherzava: «Quando un grande teologo perde i denti, allora è maturo per il cardinalato».

Aveva 93 anni. Hans Küng, l’eretico ribelle che ha liberato la Fede. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista l'8 Aprile 2021. «Küng ha esasperato alcuni suoi interventi, ma l’intento profondo era costruttivo». E c’è da credergli, se lo dice monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Campobasso, teologo molto noto. Del teologo svizzero, morto due giorni fa a 93 anni (1928-2021), rimosso dall’insegnamento nel lontano 1979 per le sue tesi critiche verso l’infallibilità papale, mons. Forte racconta un particolare. «Ricordo una targhetta che aveva posto dietro alla scrivania a Tubinga. Vi era scritto in tedesco: “Lei vorrebbe essere Papa? Risposta di Küng: No perché altrimenti non sarei più infallibile”. Questo fa capire anche che la sua contestazione era soprattutto verso un modo di interpretare staticamente l’infallibilità del Papa». Infatti Küng proponeva di sostituire “infallibilità” con “indefettibilità”, cioè l’idea che definisce la Chiesa un’istituzione destinata a durare, sempre identica a se stessa nelle sue caratteristiche specifiche (ad es. la gerarchia) pur attraverso uno sviluppo storico. Un altro teologo, mons. Giuseppe Lorizio, pur apprezzando il “pungolo” rappresentato da molte posizioni di Hans Küng, nota che «se il suo pensiero ci ha aiutato a non considerare l’infallibilità come applicabile a qualsiasi pronunciamento del Papa e a individuare le stringenti condizioni che rendono una posizione infallibile, ossia al riparo dall’errore, fermo restando che anche i dogmi, come del resto le Scritture, vanno interpretati, la verve demolitrice ha di fatto rischiato di gettar via il bambino con l’ acqua sporca». In ogni caso la revoca del mandato di teologo cattolico e l’insegnamento della teologia dogmatica, ha rappresentato un vero punto di svolta, come dice lo stesso Küng nella parte finale della autobiografia Una battaglia lunga una vita (Rizzoli, 2015). Da quell’estromissione venne l’incarico a proseguire i corsi universitari da parte del Senato accademico di Tubinga, virando decisamente verso l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, portandolo a istituire la fondazione sull’etica globale (Weltethos – 1993), sempre all’interno dell’Università di Tubinga, il cui ruolo positivo e propulsivo venne riconosciuto da papa Benedetto XVI, nel comunicato che accompagnò l’incontro con l’antico collega nel settembre del 2005. Il percorso teoretico di Küng si è compiuto nel passaggio dalla teologia all’antropologia e all’etica, nel tentativo di impostare i principi morali per un’umanità che possa andare avanti con sapienza nel mondo, fra i quali la custodia dell’ambiente e dell’autenticamente umano, in dialogo con le scienze empiriche, in una critica radicale allo scientismo dominante e al totalitarismo mascherato da scienza. Infine, nota ancora Lorizio, era importante nella ricerca di Küng «il dialogo fra le religioni e in particolare fra i monoteismi, con un’attenzione all’Islam, carica di ottimismo circa la possibilità per questa fede di modernizzarsi e quindi purificarsi e così allontanare le incombenti tentazioni fondamentaliste e violente. La riflessione è diventata appello agli intellettuali di fede islamica, perché facciano propria la sfida dell’interpretazione nel rapporto con il libro e con la tradizione, che sono chiamati a rappresentare in modo critico e non fideistico». Si tratta di un pensiero e di un percorso assai complesso. Lo stesso Küng nella citata autobiografia, lo ha sintetizzato così: «Per me la vox temporis è stata la vox Dei, ossi la voce del tempo è stata la voce di Dio. Dalla storia, dagli eventi e dalle loro sfide è nato così, senza costrizioni né premeditazioni, un ordine sistematico delle mie opere scientifiche. Negli anni Cinquanta, quelle sull’esistenza cristiana. Negli anni Sessanta, quelle sulla Chiesa, sul Concilio, sulla riunificazione, sull’infallibilità. Negli anni Settanta, quelle sulle questioni fondamentali del cristianesimo: l’essere cristiani, l’esistenza di Dio, la vita eterna. Negli anni Ottanta, quelle sul dialogo tra le religioni mondiali e la letteratura mondiale. Negli anni Novanta, quelle sul Progetto per un’etica mondiale, sulla politica e sull’economia mondiali. Negli anni Duemila, sintesi (Credo, Ciò che credo) e volumi storico-sistematici sul cristianesimo, sull’ebraismo e sull’islamismo, nonché due volumi di memorie autobiografiche». Non era certamente una personalità facile, come sa chi lo ha conosciuto di persona e come si legge senza infingimenti nella sua autobiografia: sapeva di padroneggiare la teologia e le scienze umane con grande capacità; era refrattario verso le critiche ingiuste e soprattutto ingiustificate, quando si fa apposta a travisare il pensiero per screditare (tipico in molti ambienti cattolici); poi dalla origine svizzera e dalla sua famiglia aveva ereditato il senso del valore forte della libertà di pensiero e di espressione. Era inaccettabile venire imbrigliato da un dogmatismo cattolico di altri tempi, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, al quale aveva partecipato da perito teologo. L’esercizio critico della ragione lo ha esercitato anche sui temi controversi della libertà di scelta, del fine-vita, della morale in campo matrimoniale. Ma sempre in dialogo con il Magistero. Dialogo critico ma dialogo, tanto che dall’ambito del cattolicesimo non è mai uscito. Una sorta di testamento morale si trova in alcuni passaggi finali della sua autobiografia quando elencava le “parole per un cambiamento”. Eccole: «Parola d’ordine 1: non tacere! Ognuno nella Chiesa, ministro o no, uomo o donna, ha il diritto e spesso il dovere di dire cosa pensa della Chiesa e della sua direzione, e cosa considera necessario fare, dunque apportare proposte per il miglioramento. (…) Parola d’ordine 2: Agire in prima persona! Non solo lamentarsi e inveire contro Roma e i vescovi, ma diventare attivi in prima persona. Abbiamo fiducia nel potere dell’azione! (…) Parola d’ordine 3: Camminare insieme! L’individuo deve, ove possibile, procedere col sostegno degli altri: degli amici, del Consiglio parrocchiale, dei sacerdoti o pastorale e delle associazioni cattoliche laiche o anche di liberi raggruppamenti di laici, dei movimenti riformisti, dei gruppi sacerdotali e di solidarietà. Abbiate fiducia nel potere della comunità! (…) Parola d’ordine 4: Perseguire soluzioni provvisorie! Le discussioni da sole non sono di aiuto. Spesso occorre mostrare di far sul serio. Una pressione sulle autorità ecclesiastiche nello spirito della fraternità cristiana può essere legittima là dove i titolari di un ministero non sono all’altezza del loro compito. Chi non vuole ascoltare deve sentire. Abbiate fiducia nel potere della resistenza! La lingua nazionale nell’intera liturgia cattolica, il cambiamento delle norme relative ai matrimoni misti, l’affermazione della tolleranza, della democrazia, dei diritti umani e tante altre cose sono state raggiunte nella storia della Chiesa soltanto in virtù di una costante e leale pressione dal basso. (…) Parola d’ordine 5: Non abbandonare! Nel rinnovamento della Chiesa la tentazione più grave o, spesso, anche un comodo alibi è rappresentato dall’idea che tutto sia privo di senso, che non si debba insistere, ma sia meglio andarsene: emigrazione all’esterno o all’interno. Ma proprio nell’attuale fase di restaurazione e stagnazione intraecclesiastica è necessario perseverare tranquillamente in una fede fiduciosa e trattenere a lungo il respiro. (…) Auguro a tutti voi di cuore: non lasciatevi scoraggiare dalle delusioni. Continuate a combattere accanitamente, coraggiosamente e con perseveranza in una fede fiduciosa e mantenete di fronte a ogni indolenza, stoltezza e rassegnazione la speranza in una Chiesa che di nuovo vive e agisce di più sul Vangelo di Gesù Cristo. E in ogni ira, alterco e protesta non dimenticate l’amore!». Pensatore complesso e articolato e per questo spicca l’insulsaggine dei commenti negativi scatenatisi in due giorni su “twitter” da parte di coloro che ne ricordano “l’eresia”, solo perché estromesso dall’insegnamento della teologia. Poi della sua evoluzione intellettuale, tacciono, probabilmente perché non hanno mai letto niente di Küng. Eppure potrebbero perché i suoi 31 libri sono disponibili in molte lingue, ed aveva una straordinaria capacità divulgativa, rendendo accessibili le tematiche più complesse. Ma i “leoni da tastiera” che si presentano cattolici iper-ortodossi non vanno al di là del massimalismo, definendolo un “miserabile teologo anticattolico”. Oppure come quel profilo (forse finto) che sempre su “twitter” ad un commento positivo che ricorda la fecondità delle tesi del teologo svizzero per la Chiesa cattolica, per le Chiese, per la società e per il mondo della cultura, risponde: «Le chiese? No, c’è solo un’unica chiesa». Cancellando così con un colpo di penna duemila anni di complessa storia religiosa europea ed universale. Proprio “tweet” così insulsi servono a ribadire le parole d’ordine di Küng a cui aggiungerne una sesta: non smettere di diffondere la cultura, anche la cultura teologica di alto livello. Ce ne è più che mai bisogno, come dimostra lo scambio di biglietti tra Küng e papa Francesco, di cui riconosceva l’innovativo ruolo nella Chiesa di oggi.

Hans Küng 19 marzo 1928 – 6 aprile 2021, teologo controverso ma sempre teologo. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Osannato da molti, combattuto da altri, è scomparso oggi, all’età di 93 anni, Hans Kung, svizzero di nascita e residente a Tubinga, in Germania, la città nella cui università ha insegnato per decenni e dove aveva stabilito anche la sua fondazione, Weltethos (Etica Mondiale), che ha dato l’annuncio della scomparsa.  Il suo cavallo di battaglia è stata la critica al dogma dell’infallibilità papale, su cui nel 1975 venne richiamato dalla Congregazione per la dottrina della fede, che poi, in seguito all’inasprirsi dei toni della contestazione, il 18 dicembre 1979 gli revocò la "missio canonica" (l’autorizzazione all’insegnamento della teologia cattolica). Küng continuò comunque ad essere sacerdote e conservò la cattedra presso il suo Istituto a Tubinga, che fu però separato dalla facoltà cattolica. Le critiche di Kung si sono rivolte dapprima contro il pontificato di Giovanni Paolo II, in cui peraltro il card. Ratzinger era il custode dell’ortodossia come prefetto dell’ex Sant’Uffizio. Innumerevoli i motivi di contrasto, in particolare sulla “restaurazione dello status quo ante Concilium, a impedire le riforme, al rifiuto del dialogo intra-ecclesiastico e al dominio assoluto di Roma”: “Giovanni Paolo II predica i diritti degli uomini all’esterno ma li ha negati all’interno, cioè ai vescovi, ai teologi e soprattutto alle donne”, diceva. Negli anni di Benedetto XVI (che pure lo ricevette a Castel Gandolfo il 24 settembre 2005), le posizioni di Kung lo hanno portato spesso al centro di querelle internazionali che lo opponevano al Papa tedesco. Distanze teologiche e dottrinali a parte, Kung non ha risparmiato al pontificato di Benedetto XVI anche accuse aspre e severe: più volte ha indicato Ratzinger come responsabile dei silenzi della Chiesa sulla piaga della pedofilia; quindi ha attaccato l’ex compagno di studi per la sua gestione del Vaticano, simile a una corte medievale, e bocciato il provvedimento con cui Benedetto XVI consentiva il rientro degli anglicani nella Chiesa cattolica, definendolo una “tragedia”. Nel 2013, Kung ha dichiarato di sentirsi molto più in sintonia con papa Francesco: con l’elezione di Bergoglio “è rinata la mia speranza nella Chiesa”, spiegava in un libro di memorie. Nel volume, Kung scriveva di non aspettarsi che “si realizzasse il sogno di un nuovo risveglio della Chiesa, come fu sotto Giovanni XXIII” e rivelava anche l’invio di una sua lettera personale a Francesco con l’invito ad avere “coraggio” nell’intraprendere le riforme e a non lasciarsi abbattere dalle “forze contrarie”. Missiva alla quale era seguita una risposta altrettanto personale di Francesco. Negli ultimi tempi, Kung aveva fatto parlare di sé per la sua apertura nei confronti del suicidio assistito. E sulla sua morte, oggi dal Vaticano è venuto il commento della Pontificia Accademia per la Vita, che ha twittato: “Scompare davvero una grande figura nella teologia dell’ultimo secolo, le cui idee e analisi devono fare sempre riflettere la Chiesa, le Chiese, la società, la cultura”. (Agenzia ANSA).

Dal libro: Una battaglia lunga una vita, Rizzoli: «Per me la vox temporis è stata la vox Dei, ossi la voce del tempo è stata la voce di Dio. Dalla storia, dagli eventi e dalle loro sfide è nato così, senza costrizioni né premeditazioni, un ordine sistematico delle mie opere scientifiche. Negli anni Cinquanta, quelle sull’esistenza cristiana. Negli anni Sessanta, quelle sulla Chiesa, sul Concilio, sulla riunificazione, sull’infallibilità. Negli anni Settanta, quelle sulle questioni fondamentali del cristianesimo: l’essere cristiani, l’esistenza di Dio, la vita eterna. Negli anni Ottanta, quelle sul dialogo tra le religioni mondiali e la letteratura mondiale. Negli anni Novanta, quelle sul Progetto per un’etica mondiale, sulla politica e sull’economia mondiali. Negli anni Duemila, sintesi (Credo, Ciò che credo) e volumi storico-sistematici sul cristianesimo, sull’ebraismo e sull’islamismo, nonché due volumi di memorie autobiografiche».

Parole per un cambiamento:

«Parola d’ordine 1: non tacere! Ognuno nella Chiesa, ministro o no, uomo o donna, ha il diritto e spesso il dovere di dire cosa pensa della Chiesa e della sua direzione, e cosa considera necessario fare, dunque apportare proposte per il miglioramento. (…)

Parola d’ordine 2: Agire in prima persona! Non solo lamentarsi e inveire contro Roma e i vescovi, ma diventare attivi in prima persona. Abbiamo fiducia nel potere dell’azione! (…)

Parola d’ordine 3: Camminare insieme! L’individuo deve, ove possibile, procedere col sostegno degli altri: degli amici, del Consiglio parrocchiale, dei sacerdoti o pastorale e delle associazioni cattoliche laiche o anche di liberi raggruppamenti di laici, dei movimenti riformisti, dei gruppi sacerdotali e di solidarietà. Abbiate fiducia nel potere della comunità! (…)

Parola d’ordine 4: Perseguire soluzioni provvisorie! Le discussioni da sole non sono di aiuto. Spesso occorre mostrare di far sul serio. Una pressione sulle autorità ecclesiastiche nello spirito della fraternità cristiana può essere legittima là dove i titolari di un ministero non sono all’altezza del loro compito. Chi non vuole ascoltare deve sentire. Abbiate fiducia nel potere della resistenza!  La lingua nazionale nell’intera liturgia cattolica, il cambiamento delle norme relative ai matrimoni misti, l’affermazione della tolleranza, della democrazia, dei diritti umani e tante altre cose sono state raggiunte nella storia della Chiesa soltanto in virtù di una costante e leale pressione dal basso. (…)

Parola d’ordine 5: Non abbandonare! Nel rinnovamento della Chiesa la tentazione più grave o, spesso, anche un comodo alibi è rappresentato dall’idea che tutto sia privo di senso, che non si debba insistere, ma sia meglio andarsene: emigrazione all’esterno o all’interno. Ma proprio nell’attuale fase di restaurazione e stagnazione intraecclesiastica è necessario perseverare tranquillamente in una fede fiduciosa e trattenere a lungo il respiro. (…)

Auguro a tutti voi di cuore: non lasciatevi scoraggiare dalle delusioni. Continuate a combattere accanitamente, coraggiosamente e con perseveranza in una fede fiduciosa e mantenete di fronte ad ogni indolenza, stoltezza e rassegnazione la speranza in una Chiesa che di nuovo vive e agisce di più sul Vangelo di Gesù Cristo. E in ogni ira, alterco e protesta non dimenticate l’amore!»

·        E’ morto il Nobel economista Robert Mundell.

(ANSA il 5 aprile 2021) Il premio Nobel per l'Economia Robert Mundell, 88 anni, è morto "nella sua amata Italia". Così lo ricorda e insieme ne rende nota la scomparsa Brian Domitrovic su Forbes. "Ho passato tutto il fine settimana a pensare a Bob Mundell" scrive Domitrovic. Mundell era "un'impossibile amalgama di genio teorico, lucidità algebrica e soprattutto geometrica, sensibilità culturale e influenza pratica incommensurabile" e lo definisce lo Zeus dell'economia. Nel 1999 il riconoscimento per ''le sue analisi della politica monetaria e fiscale nell'ambito di diversi regimi di tasso di cambio e la sua analisi delle zone ottimali di cambio''. Aveva scelto l'Italia alla fine degli anni 70, la Toscana e in particolare le colline senesi come suo rifugio. Canadese dunque ma ''quasi italiano''. Il suo pensiero ha dato un contributo fondamentale alla nascita dell'Euro, ma la sua tesi pratica era che le condizioni ottimali per una fusione delle valute in Europa non esistevano. In quelle discussioni dunque veniva annoverato tra gli 'euroscettici'. Docente di economia alla Columbia University di New York, Mundell ha iniziato i suoi studi al Massachusetts Institute of Tecnology (MIT), dove ha conseguito il dottorato di ricerca nel 1956, per poi passare alla London School of Economics. Oltre alla carriera accademica, nel 1961 Mundell e' entrato nello staff del Fondo Monetario Internazionale. Nella sua carriera, il nuovo premio Nobel ha lavorato anche per le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, la Commissione Europea, la Federal Reserve, il dipartimento al Tesoro Usa, il governo canadese e molti altri Stati europei e sudamericani. Autore di numerosi testi sulle teorie economiche internazionali, Mundell ha preparato uno dei primi studi per la moneta unica europea ed e' considerato il padre della teoria delle aree monetarie ottimali. Mundell è morto nella sua casa a Santa Colomba, nel comune di Monteriggioni, dove aveva scelto di vivere da molti anni. Da quanto appreso la guardia medica è intervenuta nella tarda mattinata di ieri constatando il decesso dell'economista.

Addio al premio Nobel. Chi era Robert Mundell, l’economista e “architetto dell’Euro” morto a 88 anni. Redazione su Il Riformista il 5 Aprile 2021. Si è spento all’età di 88 anni in Italia, all’ospedale Santa Maria alle Scotte di Siena, l’economista canadese Robert Alexander Mundell, Premio Nobel per l’economia e definito “l’architetto dell’Euro” perché tra gli ispiratori teorici dell’Unione monetaria europea. Mundell da oltre 30 anni viveva assieme alla moglie Valerie Natsios tra New York e Santa Colomba, una frazione del comune di Monteriggioni, in provincia di Siena, dove aveva comprato una villa. L’economista è scomparso, riferisce l’AdnKronos, dopo una lunga malattia nella mattina di Pasqua. Mundell insegnò a lungo all’Università di Chicago e alla Columbia, dove divenne noto per la teoria delle aree ottimali elaborata nel 1961, che gli valse il premio Nobel nel 1999 “per la sua analisi della politica fiscale e monetaria in presenza di diversi regimi di cambio e per la sua analisi delle aree valutarie ottimali”. La sua fama è testimoniata anche dalle oltre cento pubblicazioni scientifiche, ma è legata in particolare ai suoi studi sulla politica economica in un contesto di economia aperta. Mundell nel 1970 è stato consulente del Comitato monetario della Commissione europea monetaria e tra il 1972 e il 1973 ha fatto parte del Gruppo dei Nove per l’Unione economica e monetaria in Europa. Nel 2006 ha anche ricevuto la laurea honoris causa in Economia e Politica dei Mercati dall’Università di Bologna, a testimonianza del legame con il nostro Paese.

Addio al Nobel Robert Mundell, "architetto" dell'Euro. L'economista canadese, considerato tra gli ispiratori dell'Unione monetaria, è morto a 88 anni nella sua villa vicino a Siena. La Repubblica il 5 aprile 2021. E' morto a 88 anni nella sua villa di Santa Colomba a Monteriggioni (Siena) l'economista canadese Robert Alexander Mundell, Premio Nobel 1999, considerato tra gli ispiratori teorici dell'Unione monetaria europea e uno degli architetti dell'Euro. Professore emerito dell'Università di Chicago e della Columbia University di New York ha dato avvio, nel 1961, alla teoria sulle aree valutarie ottimali (Avo), dimostrando come, in presenza di prezzi rigidi, la mobilità del lavoro possa essere considerata un sostituto della flessibilità del tasso di cambio. "Per la sua analisi delle politiche monetarie e fiscali sotto diversi regimi del tasso di cambio e per la sua analisi delle aree valutarie ottimali", come recita la motivazione, gli è stato conferito nel 1999 il Premio Nobel per l'economia. Nel 1970 Mundell era stato consulente del Comitato monetario della Commissione europea monetaria e tra il 1972 e il 1973 ha fatto parte del Gruppo dei Nove per l'Unione economica e monetaria in Europa. Pioniere del principio delle combinazioni delle politiche fiscali e monetarie e della teoria dei rapporti fra inflazione, tassi di interesse e crescita, ha introdotto un approccio monetario allo studio della bilancia dei pagamenti. Cofondatore della Supply-Side Economics, ha contribuito a un miglioramento del sistema monetario internazionale. Nato a Kingston, nell'Ontario, il 24 ottobre 1932, dopo la laurea in economia all'Università di Washinghton, Mundell ha ottenuto il Phd al Massachusetts Institute of Tecnology di Boston e si è ulteriormente specializzato alla London School of Economics.

Professore alla Stanford University (1958-59), alla Johns Hopkins University, alla McGill University, presso il Brookings Institute e l'Università di Chicago (1965-71), ha insegnato dal 1971 alla Waterloo University e dal 1974 alla Columbia University di New York. Membro dell'Accademia di scienze politiche, dell'American Economic Association, dell'Econometric Society e della Canadian Economic Association, Mundel ha preso parte a numerose commissioni governative degli Usa in America latina e Africa. E' stato consigliere di istituzioni internazionali quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Commissione Europea.

La sua fama, irrobustita da oltre cento pubblicazioni scientifiche, è legata in particolar modo all'analisi della politica economica in un contesto di economia aperta. E' in questo campo che l'economista canadese coopera alla definizione del modello Mundell-Fleming, formalizzato nel 1961. Sotto l'ipotesi di perfetta mobilità dei capitali, il modello ideato con J. A. Fleming dimostra il diverso grado di efficacia della politica monetaria e fiscale nei vari regimi di cambio. Riflettendo sui vincoli imposti dall'esterno, inizia a teorizzare l'idea delle aree monetarie ottimali, ovvero delle aree in cui convergono paesi diversi rinunciando alla loro sovranità monetaria. Palese dunque il suo legame con l'Unione monetaria europea, alla cui nascita partecipò nel 1973 come estensore del rapporto sulle prospettive di unione economica e monetaria.

Tra le numerose pubblicazioni di Mundell si ricordano: "The International Monetary System: Conflict and Reform" (1965); "Man and Economics and International Economics" (1968); "Monetary Theory: Interest, Inflation and Growth in the World Economy" (1971); e coeditore di "A Monetary Agenda for the World Economy" (1983); "Global Disequilibrium" (1990); "Debts, Deficits and Economic Performance" (1991); "Building the New Europe" (1992); "Inflation and Growth in China" (1996); "The European Monetary System 50 Years after the Bretton Woods: A Comparison between Two Systems" (1997); "The Euro as a Stabilizer in the International Monet Ary System" (2000).

Nel 2006 Mundell ha ricevuto la laurea honoris causa in Economia e Politica dei Mercati dall'Università di Bologna. Mundell è stato sposato con Barbara Sheff dal 1957 al 1972. La coppia ha avuto 3 figli (Paul, Bill e Robyn). Diversi anni dopo il suo primo matrimonio, ha incontrato Valerie Natsios, una poetessa di origine italiana, più giovane di lui di due decenni, da cui ha avuto il figlio Nicholas nel 1997, nato proprio nel senese. Negli ultimi trent'anni la coppia ha vissuto tra l'appartamento di New York e la villa rinascimentale vicino a Siena.

·        È morto Roland Thoeni, ex campione di sci.

È morto Roland Thoeni, ex campione di sci e cugino della leggenda Gustav. Redazione su Il Riformista il 4 Aprile 2021. È morto a 71 anni Roland Thoeni, ex campione di sci, cugino della leggenda dello sci alpino Gustav Thoeni. È stato componente della Valanga Azzurra. È morto per un’emorragia cerebrale, all’ospedale di Bolzano. Giorni fa era stato operato all’anca. Era ricoverato da venerdì scorso. Roland Thoeni era nato a Trafoi. Il primo successo di rilievo il 7 febbraio 1971 nello slalom speciale di Murren, in Svizzera, al settimo posto. Il suo anno migliore è stato il 1972. Vinse la medaglia di bronzo nello slalom speciale ai XI Giochi olimpici invernali di Sapporo. Su quel podio salì anche il cugino Gustav, argento, dietro lo spagnolo Francisco Fernandez Ochoa, oro. Si classificò 27esimo nello slalom gigante. Un mese dopo si classificò ottavo nella discesa libera della Val Gardena, terzo nello slalom Gigante, due volte primo in quello speciale, a Madonna di Campiglio e a Pra Loup e nella Coppa del mondo nel giro di quattro giorni. L’ultima apparizione in una gara internazionale fu la discesa libera dei XII Giochi olimpici invernali di Innsbruck del 1976, chiusa al 14esimo posto.

·        E’ morto Gabriele Nobile, giornalista sportivo.

Morto Gabriele Nobile, giornalista sportivo tifoso della Roma. Marco Alborghetti su Notizie.it il 4 aprile 2021. All'età di 48 anni è morto Gabriele Nobile, giornalista sportivo della Roma, da tempo affetto da un male incurabile. Il tweet di cordoglio della Roma. Lutto nel mondo del giornalismo sportivo: a Roma è morto Gabriele Nobile, giornalista tifoso della Roma. Aveva 48 anni e da tempo lottava contro un male incurabile. Su Twitter anche la Roma lo ricorda con affetto. Grande lutto nel mondo del giornalismo romano: è morto all’età di 48 anni Gabriele Nobile, giornalista tifoso della Roma ed editore del sito web “InsideRoma”. Per anni aveva seguito la sua squadra del cuore unendo la ua passione con il lavoro. Purtroppo però un male incurabile contro cui lottava da tempo lo ha portato via ai suoi affetti e ai suoi colleghi. Nelle settimane passate, le sue condizioni erano peggiorate, tanto che l’ex capitano Francesco Totti aveva deciso di fargli recapitare un videomessaggio in cui lo spronava a non mollare, augurandogli una pronta guarigione. Gabriele Nobile nel 2017 è stato anche autore del libro “Ambiente Romano”, in cui ha voluto ripercorrer al storia dei miti senza tempo giallorosso, come lo stesso Totti e Batistuta, prima dell’arrivo dei social network. Tanti i messaggi di cordoglio da parte di amici, conoscenti e colleghi, anche di altre fedi calcistiche e sportive, perché la professionalità di Gabriele era riconosciuta da tutti. Sul proprio canale Twitter ufficiale anche la stessa A.S Roma ha dato l’annuncio della triste scomparsa del giornalista giallorosso “Ciao Gabriele, ci mancherai“.

·        E’ morto Luca Villoresi, giornalista.

Massimo Lugli per la Repubblica - Roma il 4 aprile 2021. L'impermeabile spiegazzato, il basco che soltanto lui sapeva portare con disinvoltura, il mezzo sigaro sempre spento tra le dita e quello sguardo un po' ironico, un po' smagato, da vecchio cronista che ne ha viste di tutti i colori. Luca Villoresi era un personaggio unico, un collega da cui non si smetteva mai di imparare, una bellissima persona e a tutti noi di Repubblica sembra incredibile che se ne sia andato a neanche 71 anni. Alto, solido come un faggio, con quelle spalle leggermente curve e quell'andatura dinoccolata, Luca sembra semplicemente indistruttibile. Raccontare una vita in cinquanta righe è un'impresa che richiederebbe altre penne più acuminate della mia. C'è il curriculum professionale, ci sono gli scoop, l'arresto nel 1982, quando finì in manette per non aver rivelato chi gli aveva raccontato le torture ai brigatisti arrestati. Ci sono i riconoscimenti professionali, il bel libro che ha scritto per Donzelli ma tutto questo non basta. Luca Villoresi era molto di più. Conoscerlo, quando fui assunto a Repubblica da Paese Sera, fu un'esperienza incredibile. Mi aspettavo uno di quei " seniores" vagamente pieni di sé, educatamente autocompiaciuti, che accolgono i novellini con distratta benevolenza e mi trovai di fronte un ragazzone di 35 anni con l'espressione da monello e una curiosità inestinguibile per tutto quello che lo circondava, la vera qualità di ogni giornalista che si rispetti. Entrammo subito in confidenza, due cagnacci spelacchiati che si fiutano e si riconoscono. Caffè, sigarette, chiacchiere. Parlargli dei suoi colpi da prima pagina, di quando scoprì la prigione di Moro in via Montalcini, del suo scoop sul rapimento Dozier era difficilissimo. Se non glissava, minimizzava. Cosa rarissima per chi fa questo mestiere egotico, Luca era modesto come un monaco zen. Abitavamo vicini, io venivo al giornale con lo scooter, lui coi mezzi pubblici mettendoci tre volte di più. Se gli offrivo un passaggio nicchiava. Amava camminare, mischiarsi alla gente, sentire gli umori di quel grande teatro popolare che sono bus e metropolitane. Avevamo una passione in comune: Roma. La conosceva come pochi, la descriveva con arguzia e profondità, la raccontava come un narratore e, al tempo stesso, un cronista puntuale e preciso. Le sue inchieste, a mio parere, sono il meglio che è stato scritto su questa città così bella, contraddittoria, luminosa e sordida. Il suo secondo amore era la natura, la campagna, il giardino. Come un contadino d'altri tempi aveva il vezzo di portare sempre un coltellino in tasca e, dopo il pensionamento, si era dedicato completamente a quello che chiamava " il mio vero lavoro". Uscito dal giornale, non aveva più voluto scrivere. Secondo me aveva semplicemente cambiato vita ed era passato ad altro. Come ha fatto ieri mattina accasciandosi in un supermercato. Spero che la sua nuova vita sia fatta di luce, sia un bosco lussureggiante, un caleidoscopio di colori, un oceano di pace e di amore. No, errata corrige, non lo spero: ci credo fermamente.

·        È morto il giornalista Rocco Di Blasi.

Aveva 73 anni. È morto Rocco Di Blasi, intellettuale e giornalista vero: uno dei più bravi della sua generazione. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Aprile 2021. E poi c’era lui, Rocco Di Blasi. Un tipo fantastico. Già, molti di voi, magari, non lo hanno mai conosciuto. Non hanno mai conosciuto, voglio dire, la sua firma. Purtroppo il giornalismo è così. Se uno ci mette l’anima, e il pensiero, e l’onestà, e il talento, e l’indipendenza, e se è bravo davvero, è facile che non diventi famosissimo. Il giornalismo è un mestiere per gente semplice e aggressiva. Scarpe grosse. Il cervello fino non serve. Rocco invece aveva il cervello finissimo. Non era affatto semplice, anzi era complicatissimo, ed era mite. Voleva ragionare. Trovava la notizia, perché il nostro mestiere è quello, e lui preferiva trovarla in proprio piuttosto che farsela passare con la velina. E poi leggeva, studiava, produceva pensiero. Alla fine scriveva: benissimo. Era molto apprezzato, allora. Ma erano altri tempi. All’Unità Rocco era un numero uno. Negli anni Ottanta e Novanta, e anche prima. Perché allora, per fare i giornali, c’era bisogno di idee, di guizzi, di cambi di direzione, di provocazioni intellettuali. E di sapere. La riunione di redazione era fondamentale. E in riunione Rocco era indispensabile, era un motore. Ai tempi – dico – di Alfredo Reichlin, di Macaluso, di Chiaromonte, di D’Alema. Non riuscivi neppure a impostarlo il giornale se prima non discutevi e ti spaccavi le corna. Rocco veniva da Napoli, e prima ancora da Salerno. A Napoli c’era una redazione locale dell’Unità, che ogni giorno produceva quattro pagine di cronaca. Quando lo ho conosciuto, lui era il capo di Napoli, e aveva messo su un gruppo di ragazzi molto svegli. Qualche nome? Antonio Polito, Marco De Marco, Franco di Mare, Gigi Vicinanza, Federico Geremicca, Maddalena Tulanti, Marcella Ciarnelli, Vito Faenza. Erano una squadra formidabile che poi si trasferì quasi tutta a Roma e diventò l’ossatura del giornale nazionale, insieme a noi della cronaca romana. Di tutti questi giovani Rocco era certamente il migliore. Si dice sempre così? Beh, stavolta è vero. Il più colto, la penna più scorrevole, l’analista più profondo. Gli piaceva la politica, gli piaceva molto. Però sapeva distinguere tra giornale e politica. E fu proprio lui tra i leader della battaglia che combattemmo insieme, in quegli anni, e cioè la lotta per l’indipendenza del giornalismo. Noi dicevamo: l’Autonomia. Lavoravamo in un giornale di partito, anzi del più grande, strutturato, potente e monolitico partito d’Europa. Il vecchio Pci. Però noi pretendevamo autonomia, e ci battevamo con tutta l’anima, anche contro Botteghe Oscure, per conquistarla. Dicevamo: siamo giornalisti e comunisti, non giornalisti comunisti. Rocco era lì. È lì che è cresciuto. È stato per molti anni tra i quattro o cinque che facevano l’Unità, dalla mattina presto (beh, non tanto presto…) quando si pensava il numero del giorno dopo, fino alle quattro di mattina a chiuderla in tipografia, col piombo, il fumo, e col “roscio”, il tipografo più bravo, che quasi sempre correggeva tutti i nostri errori. La vincemmo la nostra battaglia per l’autonomia? No, la perdemmo. Fummo sconfitti e dispersi. Rocco andò a dirigere Salvagente, altra idea geniale, uno dei primi settimanali per i consumatori. Lo aveva progettato Carlo Ricchini, uno dei Grandi Vecchi dell’Unità. La critica del capitalismo che non partiva più dal produttore ma dal prodotto. Dopo la grande sconfitta ci siamo persi di vista. Solo qualche telefonata. Ma voi non sapete quante volte, al momento di mie scelte professionali importanti, mi è venuta voglia di telefonargli per farmi dire una cosa da lui. Solo che avrei dovuto restare tre ore al telefono. Rocco era un chiacchierone, anche un utopista, mancava, forse, di concretezza. E così non gli telefonavo. E ora che ho saputo che è morto, ed è morto perché si era rotto una gamba, cioè sempre per quel suo difetto maledetto che era la distrazione esistenziale, mi chiedo perché Rocco non ha avuto un clamoroso successo nel suo mestiere, visto che era sicuramente uno dei più bravi della sua generazione. Una risposta ce l’avrei: lui era un intellettuale e un giornalista vero. L’Italia non è un paese per giornalisti veri.

·        E’ morto il cantante Patrick Juvet.

Morto Patrick Juvet, la disco music nata in Svizzera. La Repubblica il 2 aprile 2021. Aveva 70 anni e arrivò al successo internazionale con "I love America" e "Lady Night". Il corpo senza vita del cantante ritrovato in un appartamento a Barcellona. Il suo agente: "Ci sarà un'autopsia".  Modello, poi autore pop, infine uno dei nomi della disco music europea e internazionale grazie a una manciata di singoli di successo tra i quali Lady Night e I love America. E’ morto il cantante svizzero Patrick Juvet, lo ha confermato all’agenzia France Press il suo agente Yann Ydoux. Il corpo senza vita dell’artista, 70 anni, è stato ritrovato in un appartamento di Barcellona. Le cause della morte non sono ancora state chiarite. "Ci sarà un’autopsia, lo avevo sentito al telefono tre giorni fa e l’avevo sentito in forma come sempre”, ha dichiarato l’agente. Trasferitosi a Parigi quando aveva diciotto anni, all’inizio della sua carriera tentò successo nella musica pop, Juvet incontrò i successo nei tardi anni Settanta, tornato in Francia dopo una parentesi da modello in Germania, grazie alla disco music. Fondamentale per lui fu l’incontro con il produttore francese Eddie Barclay che lo portò alla collaborazione con il compositore Jean-Michel Jarre. Nel 1977 realizzarono insieme l’album, Paris by Night che conteneva il suo primo grande successoOù sont les femmes?. Decisivo per lui fu però l’incontro, l’anno successivo, con i produttori disco Jacques Morali e Henri Belolo, che avevano prodotto i Village People e la Ritchie Family, e che lo portarono al successo internazionale con Got a Feeling e I Love America. Con il declino della disco music negli anni Ottanta anche la stella di Juvet si offuscò e l’artista tornò in Svizzera dove soffrì un lungo periodo di depressione. Nel 2005 è uscita la sua autobiografia intitolata Les bleus au cœur: Souvenirs (Le ferite sul mio cuore: memorie), nella quale parlava della sua carriera e rivelava la sua bisessualità.

 Da ilmessaggero.it il 2 aprile 2021. E' stato trovato morto nella sua casa di Barcellona Patrick Juvet, uno dei re della disco music degli anni '70. L’artista, ex modello diventato famoso in Europa per brani come Où sont les femmes? e I love America, aveva settanta anni ma era in buono stato di salute tant'è che è stata richiesta l'autopsia per accertare le cause del decesso. Tantissimi i commenti di colleghi e amici, prima tra tutti Amanda Lear icona della musica dance. 

Amanda Lear: «Non era felice».  «Una notizia molto triste -  Secondo Amanda - era frustrato: non era felice. Nella sua carriera non gli è stato chiesto nient'altro che di cantare 'Où sont les femmes?' e 'I love Americà anche se aveva inciso molte altre canzoni. Si era ritirato in Spagna perché la Francia gli dava un pò di malinconia. Viveva a Barcellona. Ci siamo visti l'ultima volta lì. Non beveva più».

La carriera. La carriera di Juvet aveva avuto alti e bassi. Dopo gli studi di pianoforte e gli esordi da modello, il grande successo di 'Où sont les femmes?', contenuto in un album del 1977, fu attaccato dai movimenti femministi perché il testo venne ritenuto sessista. Poi nel 1978 arrivò la consacrazione con 'I Love Americà. Ma gli anni '90 furono invece una traversata del deserto per Juvet, che sprofondò in varie dipendenze come lui stesso aveva raccontato ai media. Dopo il 2000 era tornato sulla scena con un tour 'all star'. Nel 2005 aveva pubblicato un'autobiografia, 'Les bleus au cœur', nella quale rivelava ufficialmente la propria bisessualità. «Era una cosa di cui si parlava già negli anni '70 - ricorda Amanda Lear - per via del suo giocare con un look effeminato, con i capelli lunghi e molto trucco come Bowie». Negli ultimi anni gli impegni si erano diradati. Anche se il suo agente sostiene che stesse lavorando ad un nuovo disco da cantautore.

·        E’ morto l’autore tv Enrico Vaime.

Tv in lutto: morto uno dei padri del piccolo schermo. L’annuncio di Fabio Fazio: “Una perdita gigantesca”. Caffemagazine.it il 29/3/2021. È morto oggi al Policlinico Gemelli di Roma all’età di 85 anni uno dei più grandi autori radiofonici e televisivi. A dare la notizia, attraverso un tweet, è il collega Fabio Di Iorio. Nato a Perugia il 19 gennaio 1936, laureato in Giurisprudenza a Napoli, in Rai era entrato nel 1960 dopo un concorso. Per la televisione è stato un autore prolifico, contribuendo a redigere programmi rimasti poi nella storia del piccolo schermo italiano, come Canzonissima, Fantastico, Tante Scuse, Quelli della domenica. Ma la sua penna ha scritto anche commedie musicali come "Anche i bancari hanno un’anima", mentre la sua voce per anni ha accompagnato i radioascoltatori conducendo il programma ”Black out’. Tra gli ultimi libri pubblicati "L’Italia che vorremmo". “Enrico Vaime era la persona più bella, colta e intelligente del mondo. Non c’è più e siamo tutti tanto più poveri. Un abbraccio infinito a Monica e a tutta la famiglia”, le parole affidate ai social dal collega Fabio Di Iorio. “Enrico Vaime è stato uno dei più grandi autori di varietà, dal gusto straordinario. Abbiamo trascorso insieme giornate, anni in cui ci siamo voluti tantissimo bene. Per me è complicato dire quello che vorrei dire. È una gigantesca perdita, personalmente, per la sua famiglia, per i suoi amici, per lo spettacolo”, ha detto Fabio Fazio in diretta durante il programma Che tempo che fa. “Ci lascia una lezione di gusto, di eleganza assoluta, da lui si imparava quello che si può o che non si può dire, aveva sempre una battuta illuminante. L’anima di questa trasmissione era Enrico Vaime, uno dei più grandi autori del varietà. Per me è molto complicato. È una gigantesca perdita, ho trascorso anni con Enrico. È molto complicato per me dire quello che vorrei, è una perdita gigantesca per lo spettacolo”, aggiunge commosso.  In studio anche Enrico Brignano, che ha citato l’esperienza della commedia musicale Evviva!, scritta da Vaime e Iaia Fiastri: “Lo ricordo con affetto – ha detto l’attore – e ringrazio Dio di avermi dato l’opportunità di averlo conosciuto”. Il ricordo anche di Maurizio Costanzo: “Addio amico, ironico e straordinario. È morto uno dei miei più cari amici, abbiamo lavorato insieme vent’anni”, sospira Maurizio Costanzo ricordando Vaime. “Stava male da un po’, almeno da un paio di anni: sono sempre rimasto in contatto con la famiglia, con la moglie, l’ho sentito l’ultima volta quindici giorni fa”.

E' morto Enrico Vaime, penna e anima del varietà. Ansa il 29/3/2021. Con Enrico Vaime se ne va uno dei grandi padri dell'intrattenimento e del varietà in Italia. Si è spento domenica al Policlinico Gemelli di Roma. Considerato uno dei più brillanti autori radiofonici e televisivi, aveva 85 anni. Con Italo Terzoli, con il quale ha costituito la ditta artistica Terzoli & Vaime, è stato uno dei più prolifici autori di teatro e di varietà radiofonico e televisivo fra gli anni Sessanta e Settanta. La sua produzione è sconfinata e include decine di titoli di grande successo e popolarità. Considerato un maestro dalle successive generazioni di autori, Vaime si è sempre distinto per l'intelligente ironia e il garbato umorismo. Nato a Perugia il 19 gennaio 1936, entrò in Rai nel 1960 vincendo un concorso. Ha firmato per la tv circa 200 programmi, fra cui i varietà Quelli della domenica (1968), Canzonissima '68 e '69, Fantastico '88 e, con Maurizio Costanzo, Memorie dal bianco e nero (Rai Uno); le fiction Un figlio a metà, Italian Restaurant, Mio figlio ha 70 anni. Con Costanzo anche la sua ultima esperienza in tv, S'è fatta notte, dal 2012 al 2016. Portano la firma di Vaime anche numerosi musical teatrali, soprattutto per la coppia Garinei e Giovannini. Fra le sue commedie musicali: Felicibumta, Anche i bancari hanno un'anima, La vita comincia ogni mattina e tante altre. Con Enrico Montesano fece Bravo, Beati voi e Malgrado tutto beati voi. Tra le tante esperienze, anche trasmissioni televisive su Telemontecarlo, nel 1992, affiancando Luciano Rispoli come coautore dei testi per il varietà La più bella sei tu, e, negli anni 2000, alcune trasmissioni su La7 come il nostalgico programma Anni Luce che, attraverso spezzoni di film del passato e interviste ai protagonisti, analizzava l'evoluzione della società italiana dal secondo dopoguerra ad oggi. Sempre sulla stessa emittente era stato protagonista di Omnibus e, successivamente, ospite fisso del programma Coffee Break, allora condotto da Tiziana Panella. In radio ha collaborato a centinaia di programmi e per decenni ha condotto Black Out, su Radio2 il sabato e la domenica mattina. Ha pubblicato tanti libri, fra cui Amare significa, Tutti possono arricchire tranne i poveri, Le braghe del padrone, Perdere la testa, Non contate su di me, Black Out, Quando la rucola non c'era, I cretini non sono quelli di una volta e Anche a costo di mentire, Gente per bene - Quasi un'autobiografia. Stava male da un po' , almeno due anni, secondo Maurizio Costanzo, suo grande amico che all'ANSA lo ha ricordato con commozione: "Eravamo un bel gruppo, io, Enrico, Marcello Marchesi, Italo Terzoli. Erano gli anni dei grandi varietà, dei sabati sera di Rai1. Enrico era straordinario, la sua cifra era l'elegante ironia. Era la persona più ironica che abbia conosciuto, indovinava la battuta disarmante anche davanti ad un fatto clamoroso. Marcello Marchesi diceva che quando Enrico si passava un dito nel collo della camicia, stava per tirare fuori una battuta... Che dire? Mi sento più solo, mi pare una trincea... Mercoledì inizierò la nuova puntata del Costanzo show dedicandola a lui". Commosso anche Fabio Fazio che in diretta a Che Tempo che fa ha parlato di una "gigantesca perdita, personalmente, per la sua famiglia, per i suoi amici, per lo spettacolo", aggiungendo: "Ci lascia una lezione di gusto, di eleganza assoluta, da lui si imparava quello che si può o che non si può dire, aveva sempre una battuta illuminante". E ancora il direttore de La7 Andrea Salerno che affida a twitter la sua tristezza: "La tv è a lutto, se ne è andato uno di quelli che ci ha insegnato come si fa" e il direttore di RaiNews24 Andrea Vianello, che sempre su twitter scrive: "Enrico Vaime, vedi alla voce genio. Mi mancherai Maestro" . Tra i primi a dare la notizia Fabio Di Iorio, responsabile dell'intrattenimento di Rai2 : "Enrico Vaime era la persona più bella, colta e intelligente del mondo. Non c'è più e siamo tutti tanto più poveri. Un abbraccio infinito a Monica e a tutta la famiglia". 

Da leggo.it il 29 marzo 2021. È morto al Policlinico Gemelli di Roma all'età di 85 anni Enrico Vaime, considerato uno dei più grandi autori radiofonici e televisivi. A dare la notizia, attraverso un tweet, è il collega Fabio Di Iorio: «Enrico Vaime era la persona più bella, colta e intelligente del mondo. Non c’è più e siamo tutti tanto più poveri. Un abbraccio infinito a Monica e a tutta la famiglia», le sue parole affidate ai social. «La radio, pensai, e lo penso ancora, è un medium collettivo che ha bisogno della partecipazione collaborativa del fruitore per ottenere un risultato ottimale. La radio si fa insieme, noi e voi. Noi dalla sala F di via Asiago, voi da dove vi trovate. Solo riuscendo a stare insieme, a collegarci, riusciamo a ottenere risultati ottimali. E perciò, grazie amici: contiamo su di voi». Così, due anni fa, Vaime raccontava gli inizi della sua carriera a RadioRai. Commosso il saluto di Fabio Fazio in diretta: «Enrico Vaime è stato uno dei più grandi autori di varietà, dal gusto straordinario. Abbiamo trascorso insieme giornate, anni in cui ci siamo voluti tantissimo bene. Per me è complicato dire quello che vorrei dire. Ô una gigantesca perdita, personalmente, per la sua famiglia, per i suoi amici, per lo spettacolo».  «Ci lascia - ha continuanto in diretta - una lezione di gusto, di eleganza assoluta, da lui si imparava quello che si può o che non si può dire, aveva sempre una battuta illuminante», ha aggiunto Fazio. In studio anche Enrico Brignano, che ha citato l'esperienza della commedia musicale Evviva!, scritta da Vaime e Iaia Fiastri: «Lo ricordo con affetto - ha detto l'attore - e ringrazio Dio di avermi dato l'opportunità di averlo conosciuto». Con Italo Terzoli con il quale ha costituito la ditta artistica Terzoli & Vaime - è stato uno dei più prolifici autori di teatro, di varietà radiofonico e televisivo fra gli anni sessanta e settanta. Vaime collaborò alla stesura di numerosi programmi di successo quali Quelli della domenica; Canzonissima; Tante scuse e Risatissima. Ha scritto anche alcune fiction (Un figlio a metà, Italian Restaurant, Mio figlio ha 70 anni e numerosi musical teatrali, soprattutto per la coppia Garinei e Giovannini (Felicibumta, Anche i bancari hanno un'anima, La vita comincia ogni mattina, Pardon Monsieur Molière, Una zingara m'ha detto, Gli attori lo fanno sempre, C'era una volta... Scugnizzi). Con Enrico Montesano fece Bravo, Beati voi e Malgrado tutto beati voi. Nel 1972 ha curato con Umberto Simonetta i testi della miniserie televisiva Il giro del mondo in 80 giorni, con i pupazzi animati di Giorgio Ferrari e la regia di Peppo Sacchi. Nel 1985 dirige la rassegna "Addio Cabaret" al Teatro Flaiano di Roma. Conduttore dal 1979 del programma radiofonico Black Out, ha pubblicato numerosi libri (che gli hanno fruttato anche parecchi premi letterari) tra cui Amare significa, Tutti possono arricchire tranne i poveri, Le braghe del padrone, Perdere la testa, Non contate su di me, Era ormai domani, quasi. Negli anni 2000 ha condotto su La7 il nostalgico programma Anni Luce, che, attraverso spezzoni di film del passato e interviste ai protagonisti, analizza l'evoluzione della società italiana dal secondo dopoguerra ad oggi; sempre sulla stessa emittente, il sabato e la domenica era il conduttore del dibattito di Omnibus Weekend, il magazine di Omnibus, dove invece Vaime, dal lunedì al venerdì, conduceva una rubrica di costume. Nato a Perugia il 19 gennaio 1936, Vaime, dal 1960 alla Rai dove era entrato come vincitore di concorso, ha firmato per la tv circa 200 programmi, fra cui i varietà Quelli della domenica (1968), Canzonissima '68 e '69, Fantastico '88 e, con Maurizio Costanzo, Memorie dal bianco e nero (Rai Uno); le fiction Un figlio a metà, Italian Restaurant, Mio figlio ha 70 anni. Con Costanzo la sua ultima esperienza in tv, S'è fatta notte, dal 2012 al 2016. Fra le sue commedie musicali: Felicibumta, Anche i bancari hanno un'anima,La vita comincia ogni mattina e tante altre. In radio ha collaborato a centinaia di programmi e per decenni ha condotto Black Out, su Radio2 il sabato e la domenica mattina. Ha pubblicato numerosi libri, fra cui Amare significa, Tutti possono arricchire tranne i poveri, Le braghe del padrone, Perdere la testa, Non contate su di me, Black Out, Quando la rucola non c'era, I cretini non sono quelli di una volta e Anche a costo di mentire, Gente per bene - Quasi un'autobiografia.

Aldo Grasso per corriere.it il 29 marzo 2021. Enrico Vaime, uno dei più importanti autori televisivi e radiofonici italiani, è morto domenica 28 marzo al Policlinico Gemelli di Roma. Aveva 85 anni. «Sono entrato in Rai tanti anni fa, con un concorso pubblico. Entrarono con me Liliana Cavani, Giuliana Berlinguer, Francesca Sanvitale, Carlo Fuscagni, Giovanni Mariotti, Leardo Castellani. A quel punto hanno capito che era rischioso e non ne hanno fatti più». È morto oggi, domenica 28 marzo, al Policlinico Gemelli di Roma, all’età di 85 anni, Enrico Vaime, considerato uno dei più grandi autori radiofonici e televisivi. A dare la notizia, attraverso un tweet, è stato il collega Fabio Di Iorio: «Enrico Vaime era la persona più bella, colta e intelligente del mondo. Non c’è più e siamo tutti tanto più poveri». Vaime era uno sceneggiatore, scrittore e presentatore. Ha collaborato alla stesura di numerosi programmi di successo quali «Quelli della Domenica», «Canzonissima», «Tante scuse» e «Risatissima». In coppia con Italo Terzoli è stato l’autore di tutti i successi di Gino Bramieri, dal radiofonico «Batto quattro» al varietà «G.B: Show». Ha scritto fiction e numerosi musical teatrali, soprattutto per la coppia Garinei e Giovannini. Conduttore dal 1980 del programma radiofonico «Black Out», che ha condotto con Fabio Fazio, Simona Marchini e Pierfrancesco Poggi, ha anche pubblicato molti libri. In una intervista del 2012 ha dichiarato: «Ho avuto dei maestri straordinari, che non avevano nessuna intenzione di fare i maestri, ma lo sono stati, da Marchesi a Flaiano, da Zavattini a Bianciardi: uomini coi quali ho lavorato e a cui ho dato la mia stima e la mia attenzione fino alla fine. Ho raccontato mille volte di loro: girano più o meno sempre gli stessi aneddoti. Certo oggi è tutto un po’ infiacchito, si è tutto un po’ sbrindellato, questo sì. Rimpiango i grandi polemisti, i grandi satirici, gli scrittori, cioè gente che sapeva guardare le cose cogliendone il lato grottesco e rivoltando un po’ tutta la zuppa per arrivare ad una conclusione tutto considerato positiva». Parlava dei maestri ma parlava anche di sé, della sua scrittura. Il successo che gli ha dato la grande notorietà come autore è stato «Canzonissima 68» con un formidabile trio: Mina, Walter Chiari e Paolo Panelli. «Eppure — ricordava Vaime — la trasmissione partì tra mille difficoltà. Erano scappati tutti gli autori, letteralmente squagliati. E noi fummo chiamati a metter su quel baraccone di cui la Rai sembrava non potere fare a meno. Ma non ci siamo mai montati la testa. Certo prima accettavamo tutto, poi siamo diventati selettivi. Ma appena mettevamo su un po’ di boria ci pensava il destino a riportarci a terra». Non si contano i programmi che ha firmato fino a pochi anni fa: ha scritto i testi per la trasmissione «La giostra», presentata da Enrica Bonaccorti, per «...E compagnia bella» (che ha anche condotto con Mara Venier) e per «Ieri oggi e... domani?». Nel 1996 ha firmato la commedia teatrale «L’uomo che inventò la televisione» interpretata da Pippo Baudo. C’era una frase che amava ripetere e che oggi, tristemente, possiamo leggere come la sua epigrafe: «Coraggio, il meglio è passato! Questa è una frase da spendere con facilità anche eccessiva. È un classico, flaianeo come matrice, ed è anche vero. Il meglio è passato: forse; noi, però, speriamo sempre di no. Ora ho lo sguardo rivolto ai prossimi passi che faranno i miei figli».

Aveva 85 anni. Addio a Enrico Vaime, maestro della tv e del varietà: “Ciao genio”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Marzo 2021. È morto ieri, a 85 anni, Enrico Vaime, uno dei padri dell’intrattenimento e del varietà italiano. Era ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma. Cordoglio unanime nel mondo dello spettacolo e in quello della cultura. Vaime era conosciuto per la sua ironia e il suo umorismo. Ha scritto centinaia di titoli per la televisione e la radio. “Sono entrato in Rai tanti anni fa, con un concorso pubblico. Entrarono con me Liliana Cavani, Giuliana Berlinguer, Francesca Sanvitale, Carlo Fuscagni, Giovanni Mariotti, Leardo Castellani. A quel punto hanno capito che era rischioso e non ne hanno fatti più”, ricordava al Corriere della Sera. Era entrato in Rai nel 1960 vincendo un concorso. Era nato a Perugia il 19 gennaio 1936. Il successo con Canzonissma 68 con Mina, Walter Chiari e Paolo Panelli. Circa 200 i programmi firmati per la tv. È stato sceneggiatore, scrittore e presentatore. È stato tra gli autori di numerosi titoli di successo come Quelli della Domenica, Tante scuse e Risatissima. È stato autore di tutti i successi di Gino Bramieri con Italo Terzoli, con il quale ha costituito la ditta artistica Terzoli & Vaime, tra le più attive e prolifiche degli anni Sessanta e Settanta. Ha scritto fiction e musical teatrali. Tra i suoi maestri riconosceva Marchesi, Flaiano, Zavattini e Bianciardi. Oltre che per la Rai ha lavorato per Telemontecarlo, per La7, protagonista di Ominbus e Coffee Break condotto da Tiziana Panella. Per la Radio ha collaborato a centinaia di programmi, per decenni ha condotto Black Out su Radio2, il sabato e la domenica mattina, che ha condotto con Fabio Fazio, Simona Marchini e Pierfrancesco Poggi. Ha scritto decine di libri. Tra i primi a dare la notizia Fabio Di Iorio, responsabile dell’intrattenimento di Rai2: “Enrico Vaime era la persona più bella, colta e intelligente del mondo. Non c’è più e siamo tutti tanto più poveri. Un abbraccio infinito a Monica e a tutta la famiglia”. Maurizio Costanzo ha raccontato all’Ansa che erano almeno due anni che Vaime non stava bene. “Eravamo un bel gruppo, io, Enrico, Marcello Marchesi, Italo Terzoli – ha ricordato Maurizio Costanzo – Erano gli anni dei grandi varietà, dei sabati sera di Rai1. Enrico era straordinario, la sua cifra era l’elegante ironia. Era la persona più ironica che abbia conosciuto, indovinava la battuta disarmante anche davanti ad un fatto clamoroso. Marcello Marchesi diceva che quando Enrico si passava un dito nel collo della camicia, stava per tirare fuori una battuta … Che dire? Mi sento più solo, mi pare una trincea … Mercoledì inizierò la nuova puntata del Costanzo show dedicandola a lui”. Il ricordo anche di Fabio Fazio, in diretta a Che Tempo che fa – una “gigantesca perdita, personalmente, per la sua famiglia, per i suoi amici, per lo spettacolo” ha detto, “ci lascia una lezione di gusto, di eleganza assoluta, da lui si imparava quello che si può o che non si può dire, aveva sempre una battuta illuminante” – il direttore di La7 Andrea Salerno – “La tv è a lutto, se ne è andato uno di quelli che ci ha insegnato come si fa” – e quello di RaiNews24 Andrea Vianello – “Enrico Vaime, vedi alla voce genio. Mi mancherai Maestro”.

Emanuela Minucci per "la Stampa" il 30 marzo 2021. Ieri sera, per un minuto, Maurizio Costanzo ha di nuovo fatto notte con il suo amico Enrico Vaime. Per sessanta secondi sono tornati a ridere insieme con Fiorello in un irresistibile spezzone della prima puntata del talk show intitolato appunto S' è fatta notte andato in onda il 26 maggio 2012 inaugurando così un ciclo molto fortunato che dura ancora oggi. «E adesso possiamo dire che si è fatta notte davvero» commenta amaro Costanzo che dedicherà all' amico di mille avventure e mille battute anche il Maurizio Costanzo Show che andrà in onda domani. Anche ieri, nonostante fosse molto amareggiato, ha continuato come tutti i giorni a lavorare ai suoi programmi. Ma lo ha ripetuto a tutti: «Ora sono un po' più solo». Dell' amico ama ricordare le capacità professionali e l' energia che sapeva trasmettergli, ma non riesce a scegliere un aforisma - Vaime ne coniava in continuazione - con cui ricordarlo: «Non è facile riassumere Enrico in poche parole».

Alla fine, per lei che è uomo allergico alla retorica e amante della sintesi, che cosa è stato per lei Enrico Vaime?

«Un grandissimo amico, innanzitutto, e un altrettanto grandissimo compagno di lavoro».

Qual era la sua qualità più spiccata?

«L' intelligenza, ma principalmente un' elegante ironia».

Ci fa un esempio di questa ironia?

«Beh, posso dirle che lui era la persona più capace di un' ironia elegante che conoscessi, e poi non ho mai riso tanto come quando facemmo al Sistina Parlami di me insieme con Christian De Sica: dietro le quinte a sentire Enrico si rideva più che durante lo spettacolo, che pure era molto bello».

Con lei costruì S' è fatta notte. Che ricordo ha di quell' esperienza?

«Lo iniziammo insieme nel 2012 e si è rivelato un programma che poi, con alterne vicende, e questo dice molto, continua ancora oggi su Raiuno».

Che cosa avevate in comune, o più in generale, che cosa aveva di speciale la vostra generazione?

«Credo proprio l' ironia, il guardare il mondo sempre attraverso un occhio divertito. Evidentemente fin quando è possibile».

Lei ha detto che facevate parte di un bel gruppo, con Marchesi e Terzoli. Le viene in mente qualche aneddoto che renda l' idea del clima che c' era fra voi, e di quanto foste legati?

«No, ma il clima era quello di persone a cui piaceva avere idee insieme, discuterne e parlarne. A mia memoria, fra noi quattro non c' è stato mai uno screzio, un bisticcio, una ripicca».

Ieri, appena ha appreso la notizia, ha anche detto che le pare di essere in trincea, lo dice perché ha perso altri amici di recente?

«Per fortuna di recente no, non ho perso altri amici oltre a lui, ma quelli che sono venuti a mancare e che hanno rappresentato anni belli della mia attività professionale, mi pesano più di altri».

È vero che dedicherà una delle prossime puntate del Maurizio Costanzo Show a lui?

«Certo, così come ho voluto rievocare stasera (ieri per chi legge, ndr) la sua figura riproponendo un minuto della prima puntata di S' è fatta notte, il programma che abbiamo lanciato insieme e dove c' era anche Fiorello».

Vede qualcun altro oggi che abbia le qualità per diventare il nuovo Vaime?

«Non voglio essere ingeneroso, ma mi viene da dire nessuno».

Biografia di Enrico Vaime. Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti.

Perugia 19 gennaio 1936. Autore radiotelevisivo e teatrale. Per la televisione ha firmato circa 200 programmi tra cui Quelli della domenica con Paolo Villaggio, Cochi e Renato; Canzonissima del ’68 con Mina, Walter Chiari e Paolo Panelli; quella del ’69 con Raimondo Vianello, Johnny Dorelli e le gemelle Kessler; Fantastico ’88, Tante scuse, Risatissima. Per oltre 25 anni conduttore alla radio di Black Out, fra le commedie musicali ha scritto per Garinei e Giovannini (in coppia con Italo Terzoli) Felici-bum-tà, Anche i bancari hanno un’anima, Una zingara mi ha detto, La vita comincia ogni mattina, Pardon Monsieur Molière, commedie tutte interpretate da Gino Bramieri. Per Enrico Montesano (sempre in collaborazione con Terzoli) Bravo, Beati voi, Malgrado tutto beati voi. In coppia con Claudio Mattone ha scritto il musical C’era una volta... scugnizzi. Su Raiuno ha condotto con Maurizio Costanzo Memorie dal bianco e nero (2010), Di che talento sei? (2011) e S’è fatta notte (2012); su La7, ospite fisso fino al 2013 di Coffee Break.

Famiglia borghese. Papà direttore di banca. Laurea in Giurisprudenza a Napoli «con lentezza arboriana. Ogni tanto facevo un esame. Un giorno dissi a mio padre: “Quanto mi dai se faccio cinque esami?”. Lui disse: “300 mila lire”. Io feci tre esami veri e due falsi. Presi i soldi e andai con i miei amici al circolo polare artico in 600. In Norvegia. Un problema di patonza».

«Sono entrato in Rai con un concorso pubblico. Entrarono con me Liliana Cavani, Giuliana Berlinguer, Francesca Sanvitale, Carlo Fuscagni, Giovanni Mariotti, Leardo Castellani. A quel punto hanno capito che era rischioso e non ne hanno fatti più» (da un’intervista di Claudio Sabelli Fioretti).

Fu amico dello scrittore Luciano Bianciardi (1922-1971): «Facevamo grandi passeggiate a piedi a Milano. Lui in ciabatte e cappotto. Una volta in piazza Gramsci vedemmo un morto. Era un morto scenografico, con le braccia in posizione drammatica, da cinema. Bianciardi gli andò vicino, alzò la testa e disse a un signore che passava: “Forse respira ancora”. E quello: “Frega un casso a me”. E Bianciardi rivolto a me: “Hai capito che aria tira a Milano?”». Altro amico lo scrittore Ennio Flaiano (1910-1972): «Una volta, Ferragosto ’64, dovevamo lavorare e ci mettemmo nel suo giardinetto con la macchina da scrivere. Come due imbecilli. Ad un certo punto una ventina di ragazzini si appoggiarono alla rete di recinzione. Bruttini, macilenti, senza scarpe. Ci guardavano e ci giudicavano. Pensavano: ma questi due disgraziati che stanno a fare? Chi sono? Sentivamo i loro cervelli che lavoravano alla ricerca di una risposta. Poi partì un urlo: “Ah froci!!!”. Flaiano stette un attimo zitto e poi commentò: “Mi aspettavo di peggio”».

«Comunista? Dipende. Se me lo chiede Berlusconi rispondo di sì. Se me lo chiede Bertinotti rispondo: “Debbo pensarci”».

Nel 2007 ha pubblicato l’autobiografia Quando la rucola non c’era (Aliberti); nel 2012 Gente perbene. Quasi un’autobiografia (Rizzoli 2012). 

·        E’ morto lo sceneggiatore Larry McMurtry, rip.

Larry McMurtry rip. Marco Giusti per Dagospia il 27 marzo 2021. “La mia macchina da scrivere è la Hermes 3000, sicuramente uno dei più nobili strumenti del genio europeo”, diceva Larry McMurtry, scrittore di capolavori non solo western come “Lonesome Dove”, “Streets of Laredo”, sceneggiatore premio Oscar di “Brokeback County”, ma anche di grandissimi film come “The Last Picture Show”, “Voglia di tenerezza”, che si è spento a 84 anni nella sua città Archer City, in Texas a 84 anni. E seguitava. “Signori e signore, ci potrete mai credere che per 30 anni la Hermes 3000 mi ha tenuto lontano dal secco abbraccio del computer?”. Crederci o meno, scritti con il computer o con la sua mitica Hermes 3000, non muovendosi però per 70 anni dalla sua città, Archer City, e dal Texas, Larry McMurtry, ha segnato molto più di quanto si creda il cinema americano, pur scrivendo pochi film da sceneggiatore e pochi, ma fondamentali romanzi che hanno dato origine a serie e a film. Non solo era uno dei più grandi narratori mai esistiti, leggete le più di 800 pagine di “Lonesome Dove” e le 400 di “Streets of Laredo” e un grande costruttori di personaggi, sia maschili che femminili, le sue donne forti hanno formato tutto il western femminista moderno, ma nei suoi romanzi è stato anche il primo a inserire un effetto nostalgia del cinema di John Ford, di Howard Hawks, di Anthony Mann già negli anni ’60. E lo ha fatto a un livello altissimo, come dimostra “The Last Picture Show”, il film che lanciò nei primi anni ’70 Peter Bogdanovich, interamente girato in bianco e nero proprio a Archer City, coi personaggi che vanno al cinema, il vero Royal Theater, a vedere “il fiume rosso” di Howard Hawks, tratto da un romanzo di Larry McMurtry, ma anche sceneggiato da lui. E’ proprio questo struggimento per un Eden perduto della nostra giovinezza di spettatori a farci ricostruire un west, più europeo e sofisticato di quanto si creda, dove si possono muovere personaggi moderni, come i due cowboy amanti di “Brokeback Mountain”, film che ha solo sceneggiato, perché tratto da un racconto di Anne Proulx, e che gli ha fatto vincere l’Oscar. Nato a Wichita Falls, Texas, nel 1936, figlio di un ranchero, scopre da subito di non essere adatto a fare il cowboy. Era adatto a leggere, studiare, scrivere. Aveva una biblioteca personale di 30 mila volumi. E ha costruito una serie di librerie celebri per diffondere la buona letteratura in tutta l’America. Da un suo racconto giovanile, Martin Ritt costruisce un gran bel film con Paul Newman che faà storia, “Hud il selvaggio”, già nel 1963. Se era un western moderno e già un po’ nostalgico quello, figurarsi cosa sarà il Texas messo in scena da Peter Bogdanovich per “The Last Picture Show” dieci anni dopo. Fu Sal Mineo, il celebre Plato amico di James Dean in “Gioventù bruciata”, a segnalare il romanzo a Bogdanovich. Peccato che Sal fosse troppo vecchio per fare uno dei giovani protagonisti del film, che furono Jeff Bridges e Timothy Bottoms, e non così vecchio e così cowboy da rilanciare il personaggio che rilanciò Ben Johnson, tanto che vinse pure l’Oscar da non protagonista. E fu Orson Welles a spingerlo a girare in bianco e nero, quando non era proprio di moda. Bogdanovich si innamorò del romanzo, della città descritta da McMurtry, e dei suoi personaggi. Tanto che anni dopo ne fece anche il sequel, “Texasville”, tratto dal sequel scritto da McMurtry, ma non sceneggiato però da lui. Ormai in sintonia, fu Bogdanovich a commissionargli una grande sceneggiatura epica alla John Ford per un western che avrebbe voluto girare dopo il successo di “The Last Picture Show”. Successo, non scordiamo, che portò Bogdanovich fino a Roma, dove cercò di sceneggiare un film con Sergio Leone su indicazione dei suoi maestri, Ford e Welles. Ma la cosa non funzionò. Non si presero proprio. E Leone rimandò presto il giovane genio a Hollywood. Intanto però Larry McMurtry stava scrivendo, esagerando sulla quantità di pagine e sulla epicità, quello che non sarebbe mai diventato il grande film alla Ford di Bogdanovich, ma di certo sarebbe stato il romanzo e la saga della sua vita, cioè “Lonesome Dove”, ripubblicato recentemente anche in Italia da Einaudi, come il sequel “Steets of Laredo”. Di entrambi i romanzi ne fecero delle serie negli anni ’90. Non eccezionali, è vero. Ma sia in “Lonesome Dove” diretta nel 1989 da Simon Wincer con Robert Duvall e Tommy Lee Jones, che in “Streets of Laredo”, diretta nel 1995 da Joseph Sargent come James Garner, Sam Shepard, Sissy Spacek, ci sono buoni attori. Vennero fatti altri film dai romanzi di Larry McMurtry, come l’ottimo “Lovin’ Molly”, diretto da Sidney Lumet nel 1974 con Anthony Perkins, Beau Bridges, Blyhe Danner e una commedia di grandissimo successo come “Voglia di tenerezza”/”Terms of Endearment”, scritto e diretto da James L. Brooks con Shirley MacLaine, Jack Nicholson e Debra Winger. Non ho mai visto invece il curioso “Falling From Grace”, scritto per il cantante John Mellencamp che esordiva sia come attore che come regista né i film per la tv degli anni ’90, “Montana” di William Graham con Gena Rowlands e “Memphis” con Cybill Shepherd, sceneggiato da lui. Nel 2005 ebbe un nuovo momento di gloria quando Ang Lee lo convinse a scrivere un film difficile come “Brokeback Mountain”, che vinse il leone d’Oro a Venezia e ben tre Oscar, regia, musica e sceneggiatura. Dai suoi romanzi vennero fatte molte serie, dei quali fu anche produttore esecutivo, oltre a ben due diverse edizioni di “Lonesome Dove”, poi “Buffalo Girls” con Anjelica Huston e Melanie Griffith, “Dead Man’s Walk”, “La guerra di Johnson County”, “Comanche Moon”. Ma ancora aspetto un grande film o una grande serie dedicate a “Lonesome Dove” e “Streets of Laredo”. 

·        E’ morto il regista Bertrand Tavernier.

Marco Giusti per Dagospia il 25 marzo 2021. Non sempre un grande critico è anche un grande regista. Anzi. Ma Bertrand Tavernier, che si è spento a 80 anni, al termine di una lunga e gloriosa carriera, non solo ha cercato di essere sia un buon critico che un buon regista, ma è riuscito a dedicare ai film che ha diretto, un elenco che va da “L’orologiaio di Saint-Paul” con Philippe Noiret, la sua opera prima, a “Coup de torchon”, da “Round Midnight” con Dexter Gordon dedicato alla Parigi del jazz degli anni’50 a “Un dimanche à la campagne”, da “La morte in diretta” con Harvey Keitel e Romy Schneider al più recente “La princesse de Montpensier” con Melanie Thierry, la stessa attenzione da critico cinefilo che aveva dedicato ai film dei suoi maestri. Che aveva spesso intervistato e conosciuto personalmente. E i suoi maestri erano grandi nomi del cinema del ’900 adorati dalle riviste di cinema francesi della Nouvelle Vague, come John Ford, Joseph Losey, Raoul Walsh, John Huston, King Vidor, Michael Powell, senza scordare i maestri del cinema di genere, André De Toth o Riccardo Freda. Di Freda fu anche sceneggiatore per “Moresque, obiettivo allucinante” e produttore per un film che dovrà poi girare lui stesso, “Eloise, la figlia di D’Artagnant” con Sophie Marceau nel 1994. Come se girare un cinema o studiarlo, per un regista come lui che veniva dalla critica, non fosse poi una cosa così diversa. L’accusa che gli fece una certa critica più giovane era quella di un po’ di pedanteria, di compitini ben fatti ma spesso non così emozionanti. Eppure “Il giudice e l’assassino”, tratto da Georges Simenon e “Coup de torchon”, tratto da un romanzo di Jim Thompson, come quasi tutti i noir o i gialli girati da lui con Philippe Noiret sono spesso molto riusciti anche se un filo antiquati anche rispetto ai tempi. Permisero però al cinema francese di seguitare con una tradizione di buon cinema di genere per un ventennio quando quel tipo di film già stava scomparendo. Nato nel 1941 a Lione, figlio di un letterato, il padre fondò la rivista “Confluences” pubblicando in piena guerra opere di Aragon, Eluard, Michaux, arriva a Parigi nel 1947, studia al liceo Henri IV e inizia da subito a occuparsi di cinema frequentando la Cinematheque. Fonda addirittura un cineclub, il Nickelodéon, che avrà come numi tutelari Delmer Daves e King Vidor. Scrive su varie riviste, intervista i grandi registi americani che arrivano in Francia, e inizia a collaborare per le riviste rivali “Positif” e “Cahiérs du cinèma”. Contemporaneamente, però, è assistente di Jean-Pierre Melville per “Leon Morin, prete”, e diventa addetto stampa del produttore Georges de Beaureagard, che produceva i primi film di Godard e Truffaut, tra il 1961 e il 1964. Questo lo porta, al tempo delle coproduzioni, a firmare come aiuto regista o sceneggiatore film che, magari, non aveva neanche visto, penso a “Maciste gladiatore di Sparta” di Mario Caiano, dove dubito proprio che avesse lavorato come aiuto regista. Dopo aver diretto due episodi per commedie francesi di medio livello, “Una matta voglia di donna” (dove esordiscono anche Claude Berri e Charles Bitsch) e “L’amore e la chanche”, fa il suo vero esordio da regista nel 1974 con “L’orologiaio di Saint-Paul” con Philippe Noiret a 32 anni ottenendo l’Orso a Berlino che gli apre un grande futuro da cineasta per il quale lascerà per sempre la critica. Ottiene grandi successi con “Che la festa cominci” con Philippe Noiret, Jean Rochefort e Jean-Pierre Marielle, “Il giudice e l’assassino”, “La morte in diretta”, “La vie et rien d’autre” con Noiret e Sabine Azema, “Capitan Conan” con Philippe Torreton, “Une semaine de vacances”, “Un dimanche à la campagne” con Sabine Azema, “Daddy Nostalgie”, “L’esca” con Marie Gillain. Prova anche il noir americano nel 2009 con “In the Electric Mist – L’occhio del ciclone”, curioso giallo politico ambientato nella New Orleans povera dopo Katrina con Tommy Lee Jones e John Goodman protagonisti. Un film di non grande successo, ma molto interessante. Vince due Cèsar per la regia, con “Capitan Conan” e “Un dimanche à la campagne”, un Leone d’Oro alla Carriera nella Venezia di Barbera, la Miglior Regia a Cannes per “Un dimanche à la campagne”. Ma soprattutto, al di là del successo dei suoi film, Tavernier ha attraversato il mondo del cinema con molta eleganza, dando il giusto risalto ai grandi registi della sua giovinezza, lavorando perché venissero giustamente valutati. E ha dedicato alla musica due grandi film, il già citato “Round Midnight” e il bellissimo documentario sul blues “Mississippi Blues”.

Morto Tavernier, una vita per il cinema. Diresse film di ogni genere. Ma niente Nouvelle Vague...Cinzia Romani - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. Il regista, sceneggiatore e produttore francese Bertrand Tavernier è morto all'età di 79 anni. Nel 2015 ottenne a Venezia il Leone d'Oro alla carriera. Da un genere all'altro, senza un attimo di respiro. Perché del cinema amava tutto, Bertrand Tavernier, il regista, sceneggiatore e produttore di Lione morto ieri all'età di 79 anni a Sainte-Maxime, nella regione del Var. Passionale e diretto, era una grande firma del cinema francese, oltre che intellettuale militante capace di denunciare le torture della guerra d'Algeria, o di difendere i diritti dei sans-papiers, senza rinunciare a combattere il Front National. Ad annunciare la scomparsa di tale autore impegnato che dal padre René, scrittore e critico letterario, aveva ereditato la vena combattiva - come atto di resistenza, René Tavernier fondò la rivista Confluences in piena occupazione nazista, pubblicando Paul Éluard e Louis Aragon - sono stati la moglie Sarah e i figli Nils e Tiffany, insieme all'Institut Lumière di Lione, di cui Tavernier era presidente. Eppure, con quel padre gaullista e ingombrante, l'autore di sinistra che scriveva per i Cahiers du Cinéma aveva rotto ben presto. «Mio padre ha dilapidato il suo talento. Per distinguermi da lui, ho fatto parecchie cose: lavoro in continuazione, non mi piacciono le cene in città», confidava a Libération nel 1999 colui che, nel 1984, vinse il Premio per la miglior regia al festival di Cannes con Una domenica in campagna. Proprio per sottolineare la sua differenza dal padre, avrebbe scelto di buttarsi nel cinema «un modo incosciente per separarmi da lui». Colpo di spugna, dunque, con la Settima Arte, per citare uno dei suoi film noir più noti, insieme a Che la festa cominci... (1975), firmato da un engagé cronico, nel 2015 Leone d'oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. Il largo pubblico, magari, lo ricorderà per Quai d'Orsay, il suo ultimo film, del 2013, tratto dall'omonimo fumetto di Abel Lanzac e Christophe Blain, dove si narra la vita da ministro degli esteri di Dominique de Villepin, tra il 2002 e il 2004, sotto la presidenza di Chirac. Ma anche per le frequenti visite in Italia. «Amo l'Italia e gli italiani. Sono stato amico di Francesco Rosi, del quale ho curato l'ufficio stampa per Uomini contro. Conosco Dino Risi, amo molto Mario Monicelli», diceva. La frequentazione col Bel Paese comprende le due volte in cui il regista è stato in concorso a Venezia: nel 1986 con A mezzanotte circa, successo internazionale, e nel 1992 con il poliziesco Legge 627. Nato il 25 aprile 1941 a Lione, Tavernier aveva scoperto il cinema durante un soggiorno in sanatorio, per curare la tubercolosi. Nel 1974, dirigendo il suo attore-feticcio Philippe Noiret (Il giudice e l'assassino del '76, Colpo di spugna dell'81) s'era fatto conoscere esordendo con L'orologiaio di Saint-Paul. Personalità eminente del cinema francese, eclettico e internazionalmente famoso, prediligeva temi sociali. Cinèfilo accanito (da giovane organizzò il cineclub Nickelodéon, prima di diventare assistente di Jean-Pierre Melville), Tavernier ha dedicato gli ultimi anni al restauro dei vecchi film. Dai polizieschi al western, dalla fantascienza alla commedia musicale, amava tutto, l'erede del cinema classico francese alla Renoir, Duvivier, Autant-Lara, il quale non si è mai sentito parte della Nouvelle Vague (Truffaut, Godard, Rivette, Rohmer, killer del cinema di papà), preferendo introiettare i generi nel loro complesso.

La scomparsa del regista. “La morte in diretta”, Bertrand Tavernier aveva ragione. Angela Azzaro su Il Riformista il 26 Marzo 2021. Nato a Lione, il 25 aprile del 1941, Bertrand era figlio del poeta René Tavernier. E la letteratura, la poesia, l’arte, la musica hanno costruito il suo tocco, il suo stile, classico quanto può esserlo un raffinato regista che si muove con il gusto e l’amore per le altre arti. Ecco cosa era Tavernier che ieri è morto all’età di 79 anni. Un classico. Ma fuori tempo. E per scelta. Nel 1974 il suo vero esordio con L’orologiaio di Saint Paul un film tratto dal romanzo di Georges Simenon. È il 1974 e da più di un decennio in Francia la nouvelle vague impazza, stravolge le regole si accanisce, giustamente, contro “il cinema di papà”; cioè contro il linguaggio più tradizionale che aveva preceduto il gruppo di registi che si riuniva intorno alla rivista Cahiers du cinéma. Per fare qualche esempio, Quattrocento colpi di Francois Truffaut è del 1959, Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard è del 1960. Avevano messo il turbo al cinema, avevano polverizzato le buone maniere, le immagini leccate, guardavano al cinema americano di Alfred Hitchcock considerato da tutti loro un maestro. Tavernier sta in mezzo: non rinnega il cinema del passato, a cui invece fa riferimento, collabora anche con la nouvelle vague, ma lui resta un “impressionista” come la pittura che precede le avanguardie e che lui omaggia nel film Una domenica in campagna. Certo, rivedendo la sua filmografia sono tanti i titoli che rischiano di passare inosservati, proprio perché tradizionali, ben fatti, ben recitati, ben sceneggiati ma niente che resti indelebile. Eppure un paio di suoi film meritano di stare nel firmamento del cinema mondiale. Sicuramente, lo merita, Round Midnight (1986), forse il miglior film sulla storia della fase più travolgente del jazz, quella del be-bop. La storia racconta la vita di uno dei grandi miti, Dexter Gordon, ma attraverso la sua biografia si narra quel filo rosso che univa negli anni Quaranta New Orleans, New York e Parigi. Parliamo di artisti come Lionel Hampton, Tadd Dameron, Charles Mingus, Louis Armstrong, Dizzy Gillespie. Tavernier riesce a restituire l’humus di quella musica, la poesia dei suoi personaggi, la vita e la morte che vibravano dietro i loro strumenti a fiato. Parigi fa da sfondo alla malinconia di tanti musicisti senza patria che nella capitale francese però avevano trovato il modo di affermare il loro talento, ma non di mettere a tacere lo spirito maledetto che si cela anche, soprattutto, nelle pieghe del jazz. (Ps: A questo proposito per chi ha amato il film o lo amerà, leggete anche il libro Ecco i blues, biografia romanzata e pazzesca del musicista Milton “Mezz” Mezzrow, uno dei pochi bianchi del be-bop, ma talmente nero dentro che tutti lo scambiavano per un afroamericano. Anche lui arriva a Parigi. Anche lui descrive le atmosfere magiche di Round Midnight). Un altro film che mettiamo sul piedistallo è La morte in diretta, il film del 1980 con Romy Schneider, Harvey Keitel, Max von Sydow. È un film “riformista”, per come questo giornale interpreta il riformismo dal punto di vista dell’informazione. E cioè un film contro l’ossessione per le dirette che non dicono nulla, che mettono in scena l’orrore senza spiegarlo, che ci portano a spiare gli altri dal buco della serratura (con telecamere, intercettazioni, trojan e quant’altro) per poi sputtanarli nel grande palcoscenico di tutto fa spettacolo. Qui siamo ancora agli albori di questo meccanismo mefistofelico. Romy Schneider interpreta una scrittrice di best seller che scopre di avere pochi mesi di vita. Una tv le offre dei soldi per registrare la sua morte in diretta. Inizialmente rifiuta poi accetta per soldi, ma non riesce a rispettare i patti e fugge. Ma nel mondo del Grande fratello non si può fuggire. Siamo controllati, spiati, sotto assedio. Dopo 40 anni le peggiori paure si sono avverate, la morte in diretta è diventata routine, levando anche alla morte quell’elemento di unicità che dovrebbe renderla sacra. Oggi è tutto in diretta, morte e vita. Tutto spiato attraverso occhi invisibili. Sì, Tavernier, aveva ragione. Ma mentre prima destava scandalo, adesso ci siamo assuefatti. Ma non tutti, non del tutto. Non per sempre. Almeno si spera.

·        E' morto l'attore George Segal.

E' morto l'attore George Segal, dalla nomination all'Oscar alle serie tv. Viveva  in California e aveva 87 anni: era noto anche per i suoi ruoli in televisione, principalmente nelle sitcom. Dal 2013 ricopriva il ruolo di "Pops Solomon" nella serie "The Goldbergs". La Repubblica il 24 marzo 2021. L'attore statunitense George Segal, nominato all'Oscar come miglior attore non protagonista nel 1967 per la sua interpretazione in "Chi ha paura di Virginia Woolf", è morto ieri sera in California all'età di 87 anni, ha riferito la rivista di Hollywood Deadline. George Segal è morto "per complicazioni di un'operazione di bypass cardiaco", ha detto sua moglie Sonia alla rivista in una dichiarazione. Nato il 17 febbraio 1934 in una piccola città dello Stato di New York, ha fatto il suo debutto cinematografico nei primi anni '60 ed e' apparso in un piccolo ruolo in "The Longest Day", un'epopea del 1962 sull'invasione della Normandia. Tuttavia, i suoi principali successi arrivarono qualche anno dopo con "Chi ha paura di Virginia Woolf", accanto a giganti del cinema come Elizabeth Taylor e Richard Burton. Ha anche interpretato il ruolo principale sotto la direzione di registi leggendari come Stanley Kramer nel 1965 in "La nef des fous", o Sidney Lumet nel 1968 in "Bye Bye Braverman". Ha recitato in più di cinquanta film fino al 2010, e ha ricevuto -oltre alla sua nomination all'Oscar- il Golden Globe come miglior attore in una commedia nel 1974 per "Un'amante in braccio, una donna sulla schiena". George Segal era anche conosciuto per i suoi ruoli televisivi, soprattutto nelle sitcom. Dal 2013, ha quindi tenuto il ruolo di "Pops Solomon" nella serie "The Goldbergs".

È morto George Segal, dalla nomination all'Oscar per "Chi ha paura di Virginia Woolf?" alla tv. La Repubblica il 24 marzo 2021. Aveva 87 anni: era molto noto anche per i ruoli in televisione, principalmente nelle sitcom. Dal 2013 era Pops Solomon nella serie 'The Goldbergs'. Sfiorò la statuetta come Miglior attore non protagonista. L'attore statunitense George Segal, nominato all'Oscar come Miglior attore non protagonista nel 1967 per la sua interpretazione in Chi ha paura di Virginia Woolf, è morto ieri sera a Santa Rosa, in California, all'età di 87 anni. Lo ha riferito la rivista di Hollywood Deadline. Segal è deceduto "per complicazioni di un'operazione di bypass cardiaco", ha dichiarato la moglie Sonia Schultz Greenbaum, con la quale era sposato da 25 anni.

Gli esordi. Nato il 17 febbraio 1934 in una piccola città dello Stato di New York, Great Neck, da Fannie e George Segal Sr., figli di ebrei russi immigrati fra la fine del 1800 e inizi del 1900, prima di debuttare al cinema nei primi anni Sessanta Segal viene iscritto prima alla George School di Newton, in Pennsylvania, e a metà degli anni Cinquanta sceglie la Columbia University, dove si diploma come attore e musicista. Tra le due carriere, Segal è subito attratto da quella cinematografica: spuntato un contratto con la Columbia Pictures, il debutto arriva nel 1961 nel film Giorni senza fine di Phil Karlson. La sua carriera sembra già ben avviata, ma quelli che seguiranno saranno solo dei piccoli ruoli, anche se in grandi produzioni, come Il giorno più lungo (1962), diretto da registi vari, e La nave dei folli (1965) di Stanley Kramer, oltre a una parte minore in The Longest Day, un'epopea del 1962 sull'invasione della Normandia.

La corsa verso L'Oscar. L'esordio da protagonista avviene in Qualcuno da odiare, lungometraggio del 1965 di Bryan Forbes, ma è l'anno successivo che fa il vero, grande passo verso il successo: passato alla Warner Bros., nel 1966 è chiamato a partecipare alla grande produzione per Chi ha paura di Virginia Woolf? (Who's Afraid of Virginia Woolf?), esordio da Mike Nichols tratto dall'omonima opera teatrale di Edward Albee. Segal, che interpreta il ruolo secondario di Nick, si trova a recitare in un cast di altissimo livello: Elizabeth Taylor, Richard Burton e Sandy Dennis: per questa sua prova, verrà candidato all'Oscar come Miglior attore non protagonista, mancandolo per un soffio. In seguito reciterà in numerosi, svariati film tra i quali si possono ricordare Né onore né gloria (1966) di Mark Robson, Quiller Memorandum (1966) di Michael Anderson, Non si maltrattano così le signore (1968) di Jack Smight e Il ponte di Remagen (1969) di John Guillermin. Ha anche interpretato ruoli da protagonista, sotto la direzione di registi leggendari come Sidney Lumet, nel 1968, in Bye Bye Braverman.

Gli anni Settanta. George Segal diventa uno dei principali nomi nella mente dei registi: la sua versatilità, gli permette di interpretare molti ruoli diversi, passando da produzioni 'impegnate' a blockbuster a titoli di intrattenimento premiati sia dalla critica che dal pubblico. Passa così dalle commedie romantiche come Il gufo e la gattina (1970) di Herbert Ross, dove recita insieme a Barbra Streisand, a Un tocco di classe (1973) di Melvin Frank, con Glenda Jackson. Per questo lavoro, Segal verrà premiato con un Golden Globe. Il Golden Globe tornerà tra le sue mani grazie alla commedia nel 1974 per Un'amante in braccio, una donna sulla schiena, per la quale viene premiato come miglior attore. La sua poliedricità lo farà recitare anche in commedie dark come California Poker di Robert Altman (1974), che racconta le vicende di un giornalista con la passione del gioco d'azzardo perseguitato dai creditori, e Senza un filo di classe (1970) di Carl Reiner e ancora ruoli in film d'azione come La pietra che scotta (1972) di Peter Yates, dove duetta con Robert Redford. Nel corso della sua lunga carriera, prenderà parte a oltre 50 film.

Dopo il cinema, la tv. In anni più recenti Segal sperimenta anche il lavoro per il piccolo schermo, a tal punto che questo diventerà il suo principale set espressivo. Sono soprattutto le sitcom a richiederlo: con Just Shoot Me!, che lo tengono impegnato per ben sette stagioni tra il 1997 e il 2003, viene candidato due volte ai Golden Globe. Lavorerà anche a Law & Order - Unità vittime speciali e a The Goldbergs, dove recita la parte del nonno George Solomon. Il suo motto era implicitamente legato al suo essere un istrione del cinema: "Non rifiuto mai una brutta sceneggiatura e non abbandono mai un cattivo film perché sono sempre fiducioso che le cose possano cambiare". L'omaggio della Rai. Rai Movie renderà omaggio all'attore scomparso con Un tocco di classe. Il film verrà riproposto oggi pomeriggio alle 15.50.

Marco Giusti per Dagospia il 24 marzo 2021. Il pubblico di oggi non ha assolutamente idea del ruolo che ha avuto George Segal, che se ne è andato a 87 anni in California per un problema legato al by-pass, nel cinema degli anni ’60 e ’70. Malgrado non fosse bello come Robert Redford o Paul Newman o non fosse moderno come Jack Nicholson o Elliot Gould, da grande attore di teatro e improvvisatore poteva recitare con attrici di qualsiasi grandezza e non così facili da gestire, pensiamo a Barbra Streisand in “Il gufo e la gattina” nella versione di Herbert Ross, a Goldie Hawn in “La volpe e la duchessa” di Melvin Frank, a Eva Marie Saint in “Loving” di Irvin Kershner o a Susan Anspach in “Una pazza storia d’amore” di Paul Mazursky, a Jane Fonda in “Non rubare… se non è strettamente necessario” di Ted Kotcheff. Senza scordare i suoi incredibili duetti con la mamma ebrea cattivissima di Ruth Gordon in “Where’s Poppa” di Carl Reiner, o con Glenda Jackson in “Un tocco di classe” di Melvin Frank, che per quel film vinse l’Oscar. Un po’ per il fisico, un po’ per la formazione teatrale non era in grado di eccellere nei generi più avventurosi e spettacolari, western o spy, anche se lo abbiamo visto in “Invito a una sparatoria” di Michael Wilson e, soprattutto, in “Quiller Memorandum” di Michael Anderson, era cioè destinato alla commedia urbana, ebreo-newyorkese, preferibilmente di coppia. Non solo con attrici, anche con attori. Con Elliot Gould fece una coppia meravigliosa in “California Poker” di Robert Altman, quando già non era più considerato di moda alla fine degli anni ’70. Ma sapeva tenere testa a qualsiasi attore, anche quelli più impostati e teatrali come Rod Steiger serial killer di vecchiette in “Non si maltrattano così le signore” di Jack Smight o Jason Robards come Al Capone in “La notte di San Valentino” di Roger Corman o Alec Guinness in “Quiller Memorandum” o Orson Welles cacciatore di tesori in Africa in “La stella del sud” di Sidney Hayers. Mi diceva Ursula Andress di quanto fosse paziente e civile su quel set George Segal e delle notti che hanno passato con Orson Welles sotto le stelle delle notti che raccontava storie su storie con la sua voce meravigliosa. Del resto nella sua lunga carriera, prima cinematografica, poi soprattutto televisiva ha davvero lavorato con tutti i più grandi registi, Stanley Kramer, Sidney Lumet, Mike Nichols, Carl Reiner, Herbert Ross, Robert Altman, ma anche registi innovativi come Ivan Passer, in “Il mio uomo è una canaglia” fa un tossico in cerca di eroina degno di Al Pacino e Dustin Hoffman, e si scontra con un giovane pusher interpretato da Robert De Niro. Malgrado la nomination all’Oscar per “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Nichols, dove recitava con mostro come Richard Burton e Liz Taylor, non vinse quell’anno, l’Oscar andò a Walter Matthau per “Non per soldi, ma per denaro”, né vinse nessun altro grande premio gli anni dopo. Un po’ snobbato dal mondo del cinema, che lo considerava forse non così antico né così moderno già alla fine degli anni ’60. E negli anni ’70 non seppe forse capitalizzare il successo delle sue commedie newyorkesi e diventare una superstar. Anche perché, si dice, rifiutà il ruolo da protagonista in “10” di Blake Edwards che fece diventare Dudley Moore una superstar al posto suo. Nato a Great Neck, New York, nel 1934, quarto figlio su quattro di una coppia di ebrei-russi non religiosi, George Segal si innamora da subito del lavoro dell’attore vedendo Alan Ladd in “This Gun Is for Hire”. “Era solo un tizio con addosso trench e una pistola in mano, ma Veronica Lake era pazza di lui. Qualcosa mi disse che quello era un lavoro e io lo volevo fare”. Fa il militare, torna e si laurea alla Columbia University. Invece di iscriversi all’Actor’s mette in piedi una compagnia di teatro d'improvvisazione. E nel 1956 è già in scena a Broadway in un “Don Giovanni” con Peter Falk protagonista, poi con Jason Robards in “The Iceman Cometh”, poi attore per Mike Nichols in “The Knack”. Il cinema si accorge di lui. Un piccolo ruolo in “The Young Doctors” di Phil Karlson nel 1961, poi in “Il giorno più lungo” assieme a tutte le grandi star del momento. Nel 1963 si trasferisce da New York a Los Angeles. Lo vediamo in “Invito a una sparatoria” di Michael Wilson in un ruolo da protagonista un po’ zotico rispetto al pistolero dandy creolo di Yul Brynner, poi in “La nave dei folli” di Stanley Kramer, dove recita con un debordante e meraviglioso Lee Marvin. Ma il primo ruolo dove lo notiamo tutti è in “King Rat”/“Qualcuno da odiare”, diretto dall’inglese Bryan Forbes nel 1964, partendo da un testo di James Clavell, un film di guerra, tutto ambientato in un campo di prigionia giapponese, dove divide la scena con una giovane star inglese del momento come Tom Courtenay. Ma il suo personaggio di ebreo-americano che se la cava anche nelle situazioni più difficili ci rimane dentro. Lo ritroviamo in un altro film di guerra, “Né onore né gloria” di Mark Robson, con i francesi in Indocina, dove divide la scena con i parecchio invadenti Anthony Quinn e Alain Delon, che prende il posto di Marcello Mastroianni, poco adatto a fare il militare. Nel film è sposato con la nostra bellissima Claudia Cardinale. Un film che non vediamo da allora, come “King Rat”. Mike Nichols lo lancia definitivamente con “Chi ha paura di Virginia Woolf?” a metà degli anni ’60, un film che rivoluziona un po’ il modello di teatro filmato del tempo e porta avanti anche dei temi e dei linguaggi più crudi. Candidato all’Oscar, George Segal è richiestissimo. Lo vediamo un “Il massacro del giorno di San Valentino” di Roger Corman con la Fox, in “Bye Bye Braverman” di Sidney Lumet, mai arrivato da noi, nel fondamentale thriller “Non si maltrattano così le signore” di Jack Smight, dove si divide tra Lee Remick e il cattivo di Rod Steiger. Poi arriva in Italia per recitare nella buffa commedia di Franco Brusati “Tenderly”, a fianco di una Virna Lisi, bellissima, ma non così giusta per la parte di ragazza svampita che non sa come dire no ai maschi. In una scena recita anche con Mario Brega! Poi va in Africa con Orson Welles e Ursula Andress nell’avventuroso “La stella del sud”. I ruoli migliorano decisamente nei primi anni ’70, che lo vedono protagonista assoluto nel ruolo dell’ebreo newyorkese alla prese con mamme eccessive, come in “Senza un filo di classe” di Carl Reiner con Ruth Gordon, o con donne eccessive, come in “Il gufo e la gattina” di Herbert Ross. Ottimo anche in ruoli più drammatici come in “Il mio uomo è una canaglia” di Ivan Passer o  in “La pietra che scotta” di Peter Yates, dove recita a fianco di Robert Redford, on “The Terminal Man” di Mike Hodges da Michael Crichton. Non seppe sfruttare a pieno il successo di “California poker” di Robert Altman e furono un flop sia lo spy “Roulotte russa”, opera prima del montatore di Altman e Sam Peckinpah, un drogatissimo Lou Lombardo che non riuscì a terminare le riprese, sia lo stravagante “L’uccello tutto nero” di David Giler, con Stephane Audran e Lionel Stander, dove si tentava di fare dell’ironia sui noir di Dashiell Hammett. Mentre non si dimostrò adatto a fare il protagonista di film fracassoni come “Rollercoaster”. I suoi ultimi film di successo furono il giallo-comedy “Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi del mondo” di Ted Kotcheff con Jacqueline Bisset, Robert Morley e il nostro Gigi Proietti e “L’ultima coppia sposata” di Gilbert Cates con Natalie Wood. Negli anni ’80 il cinema non gli offrì più gli stessi ruoli che aveva avuto nei due decenni precedenti e George Segal finì in tv in ruoli da padre e non più da protagonista. Lo recuperò il mondo delle serie con successi come “Murphy’s Law”, “Just Shoot Me!” e, soprattutto, “The Goldbergs”, dove ha recitato come Albert Pops Solomon per otto anni con grande successo. Ma non era certo più il George Segal degli anni ’60. Si sposò tre volte, con la montatrice Narian Sobel (1956-83), la manager musicale Linda Rogop (1983-96) e Sonia Schultz Greenbaum, la moglie attuale.

·        E’ morto Moraldo Rossi, amico di Fellini.

Marco Giusti per Dagospia il 22 marzo 2021. Ecco. Se ne va anche Moraldo Rossi, il Moraldo di “Moraldo in città”, il progetto che precede e si trasforma ne “La dolce vita”, l’ultimo amico di Fellini rimasto in vita del gruppo storico dei Vitelloni, non a caso chiamato “il sesto vitellone”. Forse quello che conosceva meglio certi suoi lati privati. E molto abbiamo approfittato un po’ tutti dei suoi ricordi, sempre precisi. Nei film di Fellini, cioè da “Lo sceicco bianco” a “La dolce vita”, cioè per tutti gli anni ’50, fu segretario di edizione, sceneggiatore, regista della seconda unità, all’occasione anche attore, anche se dovette rinunciare ai ruoli costruiti proprio per lui, il Matto de “La strada” e il Moraldo poi ripreso da Franco Interlenghi ne “I vitelloni”. O fai l’aiuto regista o fai l’attore, gli dissero. E scelse. Per sé, dopo la separazione con Fellini, si lasciò poco. Scrisse qualche sceneggiatura, “Giovane canaglia” di Giuseppe Vari, il montatore de “Il bidone”, “Giacobbe e Esaù” di Mario Landi, “Una sporca faccenda”, diresse un paio di film, un episodio del film “Cronache del 22” con Walter Santesso, “La coda del diavolo”, qualche seconda unità, su “Brevi amori a Palma di Majorca”di Giorgio Bianchi, perfino “Vacanze di natale” nel 1983. E girò una marea di caroselli e di pubblicità, grazie soprattutto a Luciano Emmer che molto lo aiutò negli anni’60, da vedovo di Fellini. Girò “Posso con Zoppas”, “Dai dai che ce la fai” per il formaggino ramek della Kraft, un po’ di caroselli Agip con Raffaella Carrà, perfino Aiax lancere bianco! Nato a Venezia nel 1926, fratello dell’attrice Cesarina Rossi in arte Cosetta Greco, arriva presto a Roma proprio per proteggere la virtù della sorellina, partita per la capitale per fare un film, che non farà, dopo aver vinto il concorso di Miss Scalera a Venezia nel 1948. Mentre la sorella a Roma viene notata dal regista, sposatissimo, Pietro Germi, che le cambierà il nome, ne farà la sua amante, le comprerà perfino una casa e le aprirà, ovviamente, le porte del cinema, il fratello, che vivacchia tra Canova, via del Babuino e Menghi, la trattoria per artisti squattrinati, viene raccomandato dallo stesso Germi al suo sceneggiatore che sta iniziando un film da regista, “Lo sceicco bianco”. E lì scatta la passione. “Federico Fellini si innamorò perdutissimamente di Moraldo, almeno quanto Pietro era cotto di me”, scrive Cosetta Greco nel libro di memorie di Moraldo, “Fellini e Rossi” a cura di Tatti Sanguineti, “Moraldo a Mestre aveva lasciato un harem. Non era per nulla un amore di natura omosessuale quello di Federico per Moraldo, anche se molti lo bisbigliavano, ma era un rapporto molto carnale, quasi fisico. Vivevano in simbiosi, dragavano in coppia, non andavano mai a dormire”. Nello stesso libro di Tatti, Moraldo spiegava le lezioni che gli dette Fellini in quei dieci folli anni di amicizia. La prima, in una Roma piena di giovani promesse squattrinate come loro, fu “sopravvivere senza soldi”. La seconda era legata allo sport. “Lo sport preferito dei mesi tiepidi era acchiappare al volo i più bei culi di Roma. Avevamo un gioco audace e una tecnica superba, sia in singolo che in coppia”. Moraldo racconta così la caccia al culo di una ancora sconosciuta Sophia Loren in via dei Serpenti. “La proprietaria di quel paio di chiappe trionfali era troppo per la mia taglia e le mie forze, Altissima, chiusa in un vestitino leggero con natiche e spalle prorompenti, passo da bersagliere su gambe da trampoliere. Allora si decide lui, e io dietro: "Stiamo cercando delle belle ragazze per un film… e vorremmo il suo telefono". Non ho penna, non ho carta; la penna ce la offre lei, il telefono lo segno sul retro della mia patente; mi rimarrà scritto per una ventina d’anni: Sophia Lazzaro, attrice di fumetti”. Moraldo, nel suo libro, racconta di un Fellini che si presenta con la frase “io sono due occhi aperti sul mondo”, che si vanta della sua “disponibilità”, del poter “svoltare a destra piuttosto che a sinistra, per le strade della città piuttosto che per via Cassia, ‘la più bella strada del mondo’, di giorno e di notte”. Un Fellini ben lontano dal regista despota che conosceremo dopo. “Era voluttuosamente aperto a tutto: i due occhi aperti erano anche due orecchie sensibilissime aperte agli umori dei componenti della troupe e ai suggerimenti delle maestranze. Specialmente quando venivano espressi sotto forma di folgoranti battute romanesche”. Un Fellini che alla domanda-tormentone del tempo “Che cos’è il neorealismo” risponde pronto: “Uno stato d’animo”. Su “Lo sceicco bianco” Moraldo è segretario di edizione. Ma è da subito qualcosa di più. Oltre tutto si muove in una Roma cinematografara fatta di personaggi incredibili. Un Alberto Sordi che “bruciava le pause. Scalava di marcia. Piazzava controtempo parolette non previste”. Un Leopoldo Trieste, detto Poldino, Leopa, Poldissimo, arrapatissimo, “A Leopoldo, interessavano le femmine”, che si iscrive al Centro Sperimentale solo per continuare a vedere Adriana Benetti di Comacchio che ha pedinato tutto un giorno fino a casa. Uno che ci provava sempre.  Diventa presto così uno tre moschettieri delle scorribande di Moraldo e Federico. Senza scordare Roberto Rossellini, il maestro. E’ a lui che Fellini mostra, prima di tutti, il suo film. E Rossellini, glielo massacra. E qualcosa si rompe per sempre fra di loro. ”Sai Moraldo, Rossellini è un genio. Ma solo sulle cose sue”. Moraldo ci ha riportato, ancora vivissime, le testimonianze sul primo Fellini, “costantemente con le saccocce vuote”. Così scroccano le diecimila lire da Cosetta Greco che stava facendo i soldi come star dei film di Germi, “La città si difende” e “Il brigante di Tacca del Lupo”. “Cosettina… scusa sai”, fa Fellini, “è che siamo passati di qua e abbiamo pensato a te… poteva far una capatina a casa che c’è Giulietta… ma visto che siamo qui… con Moraldino… buttaci una diecimila… che poi passo nel pomeriggio a restituirtela”. I tre vanno anche al cinema, anche se Federico non voleva far la fila, odiava vedere i film per intero. Ma “Rashomon gli rimase appicciato per sempre”. Mentre “Il cavaliere della valle solitaria”, costretto a vedere per intero perché accompagnava Giulietta, lo trova “un fumettone infinito”. Fuge da “Il grido” di Michelangelo Antonioni dopo dieci minuti urlando “Ma che cazzata che ha scritto Ennio Flaiano!”. Il libro di Moraldo e di Tatti è una specie di anfora magica piena di qualsiasi storia del tempo legata a Fellini e in pratica a tutto il cinema italiano del tempo. Dal ritratto dello scenografo Piero Gherardi, “il solo con Otello Martelli che potesse avere il sopravvento dialettico almeno momentaneo con Federico” alla vendetta che compiono ai provini contro lo scopatore numero uno di Cinecittà, Maurizia Arena. Rifiutato perché ha pancia “Non vedi che ci hai le ciambelle?”. Per non parlare dei rapporti coi circensi del tempo quando si iniziò a costruire “La strada”. Gli Zamperla, gli Uckmar, il mitico Saltanò, “ex domatore dal fisico di orso col faccione segnato da cicatrici” che dette il nome e il fisico al personaggio dello Zampanò di Anthony Quinn, mischione di Zamperla+Saltanò. Forse è questa l’opera maggiore che ci abbia davvero lasciato Moraldo, che anche in questi ultimi anni si è sentito abbandonato dall’amico del cuore. Del resto sua sorella Cosetta glielo aveva detto quando venne abbandonato: “Tu Moraldo, sei un ignorantone. Sei il solo di tutti quelli del giro di Fellini ad essere più ignorante di lui. Ma guarda che Federico la sera ha smesso di andar per mignotte e ha cominciato a leggere”. L’ultima volta che lo vide fu da Canova nel 1993, poco prima dell’operazione in Svizzera che lo massacrò. Gli chiese: “Dimmi la verità, Moraldo! Quella fotografia… era un fotomontaggio?”. La fotografia in questione venne scattata da Paolo Nuzzi, un aiuto regista, in una pausa de “Le notti di Cabiria” e mostrava Moraldo nudo, “in una posa di virilità trionfante” con una bella ragazza. “Ero un katzone, un Katzanova”, si vanta Moraldo raccontando la storia. “Federico era più un katzino”. E gli risponde, “Ma certo che era un fotomontaggio, Federico, uno stupido, volgare fotomontaggio…”. Giusto finale per la loro storia d’amore. E qualcosa dei suoi racconti sentirete stasera su Hollywood Party nella trasmissione di Radio Rai Due che Steve Della Casa dedicherà a lui. Arriverderci Moraldo e grazie di tutto quello che ci hai raccontato.

·        E’ morto il musicista Pasquale Terracciano.

Muore di Covid Pasquale Terracciano: Napoli piange un’icona. Giampiero Casoni su Notizie.it il 21/03/2021. Muore di covid il musicista ed autore Pasquale Terracciano. Napoli piange attraverso i ricordi del sindaco di Pomigliano e di Luigi De Magistris. Muore di covid a 65 anni Pasquale Terracciano e Napoli piange un’icona della musica popolare e dell’antagonismo. Musicista di pregio, negli anni ‘70 Terracciano aveva fondato assieme ad altri E’ Zezi. Si trattava di un gruppo operaio che ebbe il suo nucleo a Pomigliano d’Arco. Terracciano è l’ultimo di una lunga serie di artisti che hanno pagato il pedaggio definitivo al covid. Proprio i suoi compagni di viaggio lo hanno voluto ricordare con un messaggio. “E’ Zezi Gruppo Operaio sono vicini alla famiglia, alla moglie Lina e a Carmine e a Salvatore per la perdita di Pasquale. Lui che lascia tutti coloro che gli hanno voluto bene nella tristezza e nell’incredibilità. Tutti e non solo Pomigliano perdono un grande interprete di un sentimento popolare che ha condiviso con tanti e per tutta la sua vita. Questo regalando gioia e allegria in un antagonismo sociale sempre troppo difficile con la musica e il teatro popolare degli ultimi di questa terra… Grazie "Pissè", rimani nei nostri cuori”. Il sindaco di Pomigliano d’Arco Gianluca Del Mastro, ha voluto commemorare il suo concittadino: “Con profonda tristezza annuncio la scomparsa del caro Pasquale Terracciano. Pasquale è stato una delle anime della nostra Città: legatissimo alle tradizioni popolari ne ha perpetuato la memoria e ne ha diffuso la conoscenza, insieme alla sua famiglia, nei Zezi e in Napoli extracomunitaria. Alla sua famiglia le più sentite condoglianze di tutta l’Amministrazione e il mio personale e affettuoso abbraccio”. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris non ha voluto far mancare la sua voce: “Pasquale l’ho conosciuto, pazzariello, istrionico, ribelle, popolano. Con lui ci siamo scambiati abbracci e pacche sulla spalla con la gioia della musica popolare negli occhi. Da sempre sono legato al gruppo dei Zezi”.

·        E’ morta la pilota Sabine Schmitz.

Morta Sabine Schmitz, addio alla pilota tedesca regina del Nurburgring. Jacopo Bongini su Notizie.it il 17/03/2021. È morta all'età di 51 anni la pilota automobilistica Sabine Schmitz, considerata la regina del Nurburgring. Dal 2017 combatteva contro il cancro. Lutto nel mondo dell’automobilismo con la morte a soli 51 anni della pilota tedesca Sabine Schmitz, prima donna a vincere la 24 ore del Nurburgring e da allora nota alle cronache come la regina di quel circuito. Schmitz era però famosa anche per essere stata tra i conduttori del programma televisivo della BBC Top Gear, dove dopo una prima apparizione nel 2004 è diventata uno dei presentatori principali a seguito dell’addio di Jeremy Clarkson alla trasmissione nel 2015. A piangere tra i primi la celebre pilota è stato lo stesso circuito dell’Nurburgring, che sulla sua pagine ufficiale ha pubblicato il seguente post di cordoglio: “Il Nurburgring ha perso il suo pilota femminile più famoso. Sabine Schmitz è morta troppo presto dopo una lunga malattia. Ci mancherà lei e la sua natura allegra. Riposa in pace Sabine!”. Tra i suoi successi ricordiamo il primo posto alla 24 ore del Nurburgring nel 1997 e nel 1998, oltre a un terzo posto nel 2008, a un nono nel 2011 e a un sesto nel 2012. Sabine Schmitz stava lottando con un tumore dal 2017, ma nonostante la chemioterapia e gli interventi subiti il suo corpo purtroppo non ce l’ha fatta. Lei stessa qualche anno fa ebbe a dire: “Devo tirare fuori tutte le mie forze e fermarmi per avere la forza necessaria ad affrontare le prossime terapie. Nella speranza che qualcosa funzioni”.

Jacopo Bongini. Nato a Milano, classe 1993, è laureato in "Nuove Tecnologie dell’Arte" all’Accademia di Belle Arti di Brera. Prima di collaborare con Notizie.it.

·        E’ morta Elsa Peretti, designer.

Virginia Ricci per iodonna.it. Immaginate una bambina appassionata di cimiteri e ossari che, dopo aver visitato questi luoghi, soleva tornare a casa con la propria tata e… qualche ossicino ben nascosto in tasca: puntualmente rispedita a rendere il maltolto da una madre poco compiacente. Cos’avrebbe potuto fare da grande? C’è chi penserebbe l’artista oppure il medico. Lei, Elsa Peretti, designer che avrebbe segnato la storia del gioiello contemporaneo, scelse la prima strada. Per la cronaca non studiò mai medicina, anche se fra le sue più celebri collezioni spicca ancora Bone, fortunatissima serie di bracciali modellati intorno all’osso del polso, perché come spiegò: «Ciò che viene proibito, è impossibile da dimenticare».

L’argento diventò lussuoso. Nata a Firenze il 1° maggio del 1940, il nome di Elsa Peretti s’intreccia alla storia di Tiffany & Co: marchio che nel 1974 puntò sulla trentenne designer e i suoi gioielli in argento, materiale che con lei entrò nel mondo del lusso. Le sue prime tre collezioni vennero esaurite in un solo giorno. «Stiamo cercando qualcuno che possa conquistare le giovani donne ma anche le più adulte, disegnando gioielli da portare con i jeans ma anche con un abito da sera» spiegò Henry Platt, al tempo amministratore delegato della maison. E così a Elsa è stato appena riconosciuto il Premio Internazionale “Leonardo da Vinci” alla Carriera nel corso della XII° Biennale di Firenze, che ospiterà anche la mostra The Modern Vision of Elsa Peretti, esponendo alcuni fra i suoi più iconici modelli (alcuni presenti nella nostra gallery). Elsa, dopo un’adolescenza nell’upper class romana – il padre Nando Peretti fondò l’Anonima Petroli Italiana – a ventun anni scelse di abbandonare quella vita privilegiata. Scappò in Svizzera (dove per mantenersi insegnò italiano e persino sci a Gstaad) e poi a Milano, dedicandosi all’interior design. Forte di una figura slanciata e statuaria, diventare modella sembrò quasi inevitabile, scelta che provocò una forte distacco con la sua famiglia. Fatto sta che a Barcellona, Elsa arrivò a posare come suora persino per Salvador Dalì: «Mi presentai quando seppi dalla mia agenzia che gli serviva una modella. Nel tempo libero prendevo il sole, ma lui mi redarguì: “Le suore non si abbronzano”».

Il 1968 a Manhattan. Non poteva esserci anno migliore del 1968 per arrivare a Manhattan, dove tutto stava per accadere. Conquistò il cuore di stilisti celebri e l’amicizia di Roy Halston, fra i più acclamati designer americani degli anni Settanta; soprannominato spesso l’Yves Saint Laurent degli States, fu lui ad arruolarla per disegnare la sua linea di gioielli, attività già intrapreso da Elsa con lo stilista Giorgio di Sant’Angelo. Se per Halston disegnò persino la bottiglia del suo profumo (a lungo il più venduto in America, secondo solo a Chanel N. 5), in quegli anni ideò anche il primo ciondolo a forma di minuscola bottiglia che in Tiffany, con la linea Bottle, avrebbe fatto faville. «La prima cosa che feci a New York, nel 1969, fu realizzare una piccola bottiglia d’argento… che mi rese famosa. Amavo l’idea di girare per le strade con un fiore in un vaso al collo». Di lei in quegli anni si è detto molto: le nottate allo Studio 54 (sui suoi litigi con Halston pare abbia scritto persino Andy Warhol nei suoi diari), la mondanità con il più sfrenato jet-set, o la consacrazione nell’Olimpo della fotografia che avvenne quando Helmut Newton la immortalò, su una terrazza, travestita da coniglietta di Playboy… uno scatto passato alla storia. Con il suo braccialetto Bone furono ritratte in tante, da Liza Minelli (che pur essendosi avvicinata all’argento con diffidenza, ammise poi di aver indossato a lungo solo monili della Peretti) a Sofia Loren; nel 1971 con le sue creazioni vinse il prestigioso Coty Award, l’Oscar del fashion system.

Una collana Tiffany’s a 160 euro. «Amo ciò che puoi indossare ma anche mettere sul tavolo come un oggetto d’arte». La democratizzazione avvenuta dal 1974 nello storico marchio fece il giro del mondo: ancora oggi, una collana Open Heart in argento è in vendita sul sito Tiffany a 160 euro. Elsa spiegava che i suoi modelli erano ispirati dal senso comune, eliminando ogni eccesso per riprodurre “i contorni morbidi che gli oggetti indossati ogni giorno conquistano nel tempo”. Nel frattempo New York stava perdendo fascino ai suoi occhi, portandola a volgere lo sguardo altrove; per anni Elsa si impegnò a restaurare l’amato borgo spagnolo di Sant Martì Vell, dove tutt’ora la sua casa ospita una parte della sua collezione d’arte: «A New York tutto era già stato fatto… lavorare fra pietre e tetti mi allontanò dalla mia immagine di Jewelry designer». Lunghe relazioni, nessun matrimonio, una creatività inarrestabile: sul suo banco di lavoro, l’impegno portato a modellare nella cera i suoi gioielli diede vita a molte forme ritenute un classico. Collane forgiate come serpenti intorno al collo («L’idea venne dal ricordo della coda di un serpente a sonagli che, a Losanna, mi fu regalata da un ragazzo texano»), i celeberrimi cuori forati da portare come ciondolo ma anche Diamonds by the Yard, dove lunghe catene d’oro esibivano singoli diamanti con essenziali montature a castone: «I diamanti montati in questo modo hanno una luce diversa. Sembrano gocce di luce, come un ruscello».

25 anni. In occasione del suo 25° anniversario con Tiffany, nel 1990, la maison creato la “Elsa Peretti Professorship in Jewelry Design” al Fashion Institute of Technology di New York: la prima cattedra sovvenzionata nella storia dell’Istituto. Ma per Elsa la vita non fu solo gioiello: grazie anche all’enorme eredità ricevuta alla scomparsa del padre, nel 2000 istituisce la Nando and Elsa Peretti Foundation, volta a tutelare e promuovere i diritti umani e civili e che, negli anni, ha supportato più di mille progetti in 81 paesi, per un valore di 50 milioni di euro. Si direbbe che una vita come questa possa equivalere ad altre cento. Ma al riguardo Elsa si è già dichiarata: «Quello di vivere, come diceva Pavese, è davvero un mestiere. Però lo puoi imparare. Spero di esserci riuscita».

·        E’ morto il giornalista Mario Sarzanini.

C. Man. per “il Messaggero” il 19 marzo 2021. È morto ieri in una clinica di Roma, dove era ricoverato da qualche settimana, Mario Sarzanini, il decano dei giornalisti della cronaca giudiziaria capitolina. Nato a Genova il 29 aprile del 1934, Sarzanini ha lavorato per 40 anni all'Ansa. Ha seguito le maggiori vicende di cronaca del nostro paese, quelle che hanno fatto la storia. Ed è stato un maestro per chiunque volesse diventare un cronista giudiziario. Era il primo ad arrivare nella sala stampa del Palazzo di giustizia della Capitale ed era l'ultimo ad andarsene. Impossibile ricordare tutte le indagini che lo hanno visto in prima linea: il massacro del Circeo, l'assassinio di Pier Paolo Pasolini, il terrorismo, il delitto di Mino Pecorelli, la strage di Ustica, l'attentato al Papa, il sequestro di Mirella Gregori e di Emanuela Orlandi. E poi i grandi gialli: dal Canaro ai delitti di via Poma e dell'Olgiata, dall'agguato a Ilaria Alpi all'omicidio di Marta Russo. Un elenco che potrebbe continuare all'infinito. Era di poche parole, Mario, e a chi non lo conosceva bene poteva sembrava anche un po' burbero. Ma dopo una iniziale diffidenza diventava sempre molto disponibile, non aveva problemi a presentare le sue fonti (e che fonti) a quei cronisti che riuscivano a conquistare la sua fiducia. Guai, però, a tentare di bucarlo, a cercare di dare una notizia che non aveva. La risposta sarebbe stata implacabile. E così è stato fino a quando ha compiuto 80 anni. È rimasto sempre un cronista di razza, in cerca dello scoop migliore, animato da una passione che ha trasmesso alla figlia Fiorenza, vice direttore del Corriere della Sera, al figlio Enrico, cronista sportivo, e a Roberta (ufficio stampa per conto di società e liberi professionisti). Aveva una collezione unica, Mario, la chiamava Le perle: articoli e titoli spesso surreali usciti sui giornali italiani. Li raccoglieva come le figurine e poi ci si rideva su durante quei pochi momenti di relax vissuti nella sala stampa del più grande Tribunale d'Europa. Per decenni è stato il punto di riferimento per colleghi, magistrati, avvocati e cancellieri. Li riceveva nello stanzone in fondo al corridoio del piano terra delle aule di giustizia che considerava come la sua redazione. È stato lui a rappresentare la categoria, nel 1970, quando questo piccolo locale venne inaugurato per ospitare i cronisti dopo i crolli del Palazzaccio di piazza Cavour.

GLI INSEGNAMENTI. Chi aveva il privilegio di poterlo affiancare imparava in breve tempo i segreti di questo lavoro e i trucchi per sopravvivere in un ambiente difficile come quello del palazzo di giustizia. Erano le notizie a scandire la sua giornata. «A casa mi annoio - ripeteva ai colleghi -, non so che fare». Ha lasciato la sua postazione nel 2017, poco tempo dopo la morte di un collega dell'Ansa, Francesco Tamburro, che Mario considerava una sorta di figlio professionale per averlo fatto crescere e maturare per oltre 25 anni nella cronaca giudiziaria. Un dolore che lo ha davvero piegato. Mario lascia una famiglia molto unita, guidata dalla moglie Luciana che lo ha assistito con amore e dedizione fino alla fine.

·        E’ morto James Levine, direttore d'orchestra.

 Da "repubblica.it" il 17 marzo 2021. James Levine, uno dei direttori d'orchestra più influenti e ammirati al mondo, è morto a Palm Springs, in California, all'età di 77 anni. La notizia del decesso è stata confermata stamattina dal suo medico, Len Horovitz, che lo ha riferito al New York Times. La causa della morte non è ancora stata comunicata. Per oltre 40 anni Levine è stato alla guida della Metropolitan Opera Orchestra di New York. Dopo essere stato sospeso dal suo incarico nel 2017, nel 2018 era stato licenziato dal teatro dopo un'inchiesta che aveva svelato decenni di molestie sessuali su ragazzi. In particolare, tre uomini, hanno raccontato di aver subito le pressanti avance del direttore d'orchestra quando erano teenager. I fatti risalgono a decenni fa, a partire dagli anni Sessanta, mentre le accuse che hanno portato alla sospensione e poi al licenziamento di Levine si fondano su un rapporto della polizia dell'Illinois risalente al 2016. La presunta vittima ha spiegato di aver subito abusi quando aveva 15 anni e Levine 41. James Lawrence Levine era nato a Cincinnati il 23 giugno 1943 ed era considerato universalmente uno dei più talentuosi direttori d'orchestra, specialmente per il suo lavoro come direttore dell'orchestra della Metropolitan Opera di New York e come direttore della Boston Symphony Orchestra.

·        Addio a Ombretta Fumagalli Carulli.

Addio a Ombretta Fumagalli Carulli. Prima donna nel Csm, aveva 77 anni. Affari Italiani.it il 17/3/2021. È morta ieri a Milano Ombretta Fumagalli Carulli, aveva compiuto 77 anni da pochi giorni. Era malata da tempo. Sguardo intenso, - si legge sul Corriere della Sera - raramente senza un foulard al collo, Fumagalli Carulli entrò per la prima volta in Parlamento nel 1987, come deputata eletta nelle file della Dc. E in quegli stessi anni, dai banchi del consiglio comunale di Milano, contendeva l’amministrazione e la politica cittadina alle «giunte rosse» dell’asse Psi-Pci. E quando, nel 1993, con l’elezione diretta del sindaco arrivò la sfida Dalla Chiesa- Formentini, lei si schierò con «il male minore», cioè la Lega. E pur non essendo né anticonformista né femminista, nel giro di pochi anni, nel 1981, Ombretta Fumagalli Carulli tornerà a essere «la prima donna» anche nel Consiglio superiore della magistratura. Naturalmente in quota democristiana, - prosegue il Corriere - area andreottiana ma non solo. «Sono molto dispiaciuto per la scomparsa di Ombretta Fumagalli Carulli con cui ho condiviso un lungo cammino nella politica democraticocristiana», è il commento di Pier Ferdinando Casini, che tiene a ricordarla come «giurista di grande qualità, espressione profonda del cattolicesimo liberale» e come «esponente di primo piano nei governi, che ha svolto i suoi incarichi con intelligenza e senso dello Stato».

Morta Ombretta Fumagalli Carulli: aveva 77 anni, era malata da tempo. Casini: "Intelligenza e senso dello Stato". Andrea Montanari su La Repubblica il 16 marzo 2021. Divenne una figura di rilievo nazionale quando, impegnata con il neonato Ccd, fu fra le donne di spicco della seconda Repubblica. E' stata la prima donna docente di diritto canonico. Era malata da tempo, Ombretta Carulli Fumagalli morta ieri a 77 anni da poco compiuti. È stata indubbiamente una delle protagoniste di uno dei momenti più difficili della politica italiana. Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Da cattolica, ha sempre difeso il ruolo dell'università Cattolica come unico istituto universitario di questi tipo legato alla segreteria di Stato vaticana. Una posizione che la mise in contrapposizione con quella di Lorenzo Ornaghi quando i due si sfidarono per la guida dell'Università fondata da Padre Gemelli. Prima donna in Italia ad essere nominata titolare di una cattedra universitaria in Diritto Canonico e a far parte del Consiglio superiore della magistratura, Carulli da da subito ha bruciato le tappe della sua carriera. Prima all'università e poi in Parlamento. Laureata in Giurisprudenza all'università Cattolica nel 1966, nove anni dopo era già docente di Diritto Canonico, prima a Ferrara e poi alla Cattolica, dove ha insegnato anche diritto Ecclesiastico. Nel 1981, entra nel Csm come componente eletta tra i parlamentari. La sua carriera politica è iniziata nel 1987 nelle fila della Democrazia Cristiana. Fa parte della corrente di Giulio Andreotti e negli anni seguenti sono in molti nell'ambiente politico cattolico a contrapporre la figura di Carulli Fumagalli a quella di Rosy Bindi. Anche in occasione della sfida per la conquista di Palazzo Marino tra Nando Dalla Chiesa per il centrosinistra e il leghista Marco Formentini per il centrodestra. In quella occasione, Bindi disse senza problemi che avrebbe votato Dalla Chiesa e si spinse addirittura ad immaginare un accordo anti Lega con l'allora Pds. Carulli, invece, disse che avrebbe votato Formentini e che "la Lega era il male minore". Anche se dopo qualche anno passerà con il centrosinistra. Nel governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi diventa sottosegretaria alle Poste e Telecomunicazioni. Nel 1994, dopo la scissione del partito Popolare, aderisce al Centro Cristiano Democratico di Pier Ferdinando Casini e viene rieletta nelle liste di Forza Italia e nel primo governo Berlusconi viene nominata sottosegretaria alla Protezione civile. Due anni dopo passa al Senato, lascia Berlusconi e aderisce a Rinnovamento Italiano di Lamberto Dini. Nel 1999, infatti, entra a far parte del governo guidato da Massimo D'Alema come sottosegretaria al ministero dell'Interno con delega alla libertà religiosa e al personale prefettizio. Nel governo Amato, nato due anni dopo, trasloca al ministero della Sanità e sempre come sottosegretaria si occupa dei problemi dell'alimentazione e di veterinaria. Nel 2001, Carulli lascia la politica e torna alla sua vecchia passione. L'università. Nella sua vita professionale ha scritto oltre cento pubblicazioni di carattere accademico, religioso e sociale. Nel 2003 l'allora pontefice Giovanni Paolo II° la nominò presso la Pontificia accademia delle scienze sociali. Nel 2012 ha aderito alla riattivata Dc di Giovanni Angelo Fontana.

L'ex sottosegretaria aveva 77 anni. É morta Ombretta Fumagalli Carulli, ex sottosegretaria e prima donna eletta al Csm dal Parlamento. Vito Califano su Il Riformista il 16 Marzo 2021. Morta a 77 anni, a Milano, Ombretta Funagalli Carulli, prima donna docente di diritto canonico, più volte sottosegretario e prima donna eletta dal Parlamento come componente del Consiglio Superiore della Magistratura. A farlo sapere, con un post su Twitter, il presidente nazionale dell’Udc Antonio De Poli: “Una donna che ha saputo impegnarsi con determinazione ed energia, sia nelle istituzioni che nella cultura, Ricordiamo la sua profonda umanità, la grande sensibilità e il suo grande spessore”. Fumagalli Carulli aveva compiuto da pochi giorni 77 anni. Esponente politico della Democrazia Cristiana e poi del Centro Cristiano Democratico, era malata da tempo. Fu eletta per la prima volta alla Camera dei Deputati con lo Scudocrociato nel 1987. Fumagalli Carulli è stata sottosegretaria dei governi Ciampi, alle Poste, e Berlusconi, alla Protezione Civile, e successivamente è entrata nella lista con Dini, D’Alema e Amato. Fu giurista cattolica impegnata in politica e di rilievo a livello nazionale. Alla fine della carriera politico-parlamentare tornò a insegnare Diritto Ecclesiastico e Diritto Canonico alla Cattolica di Milano. Nel 2003 fu nominata da Giovanni Paolo II Accademico Pontificio presso la Pontificia accademia delle scienze sociali. “Sono molto dispiaciuto per la scomparsa di Ombretta Fumagalli Carulli con cui ho condiviso un lungo cammino nella politica democratico-cristiana. Giurista di grande qualità, espressione profonda del cattolicesimo liberale, Ombretta è stata anche esponente di primo piano nei governi, svolgendo i suoi incarichi con intelligenza e senso dello Stato. Alla famiglia vorrei indirizzare i sensi del mio più profondo cordoglio”, il cordoglio espresso da Pierferdinando Casini. “Ho appreso con grande dispiacere la notizia della scomparsa dell’onorevole Ombretta Fumagalli Carulli. Anche a nome del Servizio Nazionale esprimo profondo cordoglio ricordando il suo impegno a servizio dello Stato ed in particolare il suo ruolo di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, prima donna a cui venne affidata la delega alla Protezione Civile”, la comunicazione del Capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio. ”Addolora la scomparsa di Ombretta Carulli Fumagalli per molto tempo figura carismatica della politica democratico-cristiana a livello nazionale e milanese – la nota di Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio – Ricordiamo il suo impegno in un periodo, quello degli anni Ottanta e Novanta, contraddistinto da cambiamenti straordinari che hanno segnato profondamente la nostra società. Con lei Milano perde una donna di valore che, dopo la carriera politica, aveva saputo farsi apprezzare anche in campo universitario cattolico con un importante riconoscimento di Giovanni Paolo II”.

·        E’ morto Bruno Tinti.

Torino, il Covid uccide l'ex procuratore aggiunto Bruno Tinti. Sarah Martinenghi su La Repubblica il 16 marzo 2021. Aveva 78 anni, fu autore del libro di successo "Toghe rotte". L’ex magistrato Bruno Tinti si è spento ieri mattina, dopo un rapido peggioramento dovuto al Covid. Aveva 78 anni, ed era andato in pensione anticipata nel 2008, lasciando il ruolo di procuratore aggiunto dell’economia con amarezza (fu il pm di Telekom Serbia), dato che non si riconosceva più in un lavoro profondamente cambiato rispetto a quando aveva iniziato. Faceva l’avvocato, ma anche lo scrittore ( il suo "Toghe rotte" fu un best seller), e nel 2009 era diventato azionista del Fatto Quotidiano, di cui era collaboratore. Tutti lo ricordano con l’immancabile papillon. Aveva deciso di non esercitare la professione davanti ai suoi ex colleghi, e per questo si era iscritto all’albo degli avvocati di Roma.

Tinti, una carriera tra la toga e l'editoria. Indagò su Telekom Serbia e fondò "Il Fatto". L'autore di "Toghe rotte" ha firmato pochi giorni fa un appello su Palamara. Stefano Zurlo - Gio, 18/03/2021 - su Il Giornale. L'ultimo prova di anticonformismo l'ha data pochi giorni fa: la sua firma, pesante, compare fra le 129 di magistrati che chiedono in una lettera aperta al capo dello Stato di non far cadere il sipario sul caso Palamara. Ma vogliono risposte vere, non preconfezionate, e riforme radicali per cambiare un sistema che non funziona. Bruno Tinti se ne va a 78 anni, portato via dal Covid, dopo una vita e una carriera nel segno dell'indipendenza. Da qualche anno era lontano dai riflettori, ma nel 2007 aveva conosciuto la notorietà scrivendo un libro a suo modo profetico: Toghe rotte. Un viaggio senza sconti dentro una giustizia che non funziona, affogata dalle troppe leggi, dalle contorsioni di un legislatore che dal 90 in poi aveva trasformato il codice in un guazzabuglio. Ma frenata anche dallo strapotere delle correnti e dai meccanismi corporativi. Non aveva peli sulla lingua, Tinti, prima procuratore capo a Ivrea e poi procuratore aggiunto a Torino con inusuale e profonda padronanza dell'ingarbugliatissimo sistema tributario. E riteneva che la classe dirigente si fosse assicurata consapevolmente l'impunità trasformando il sistema penale in un rompicapo. In questo le sue critiche feroci e a tratti quasi apocalittiche assomigliavano a quelle di colleghi celebri come Piercamillo Davigo. Ma il fustigatore Tinti, per lunghi anni libero battitore dalle colonne del Fatto Quotidiano di cui fu anche azionista, non si fermava alla denuncia della controparte'. «Per 240 pagine - minimizzava l'autore - Toghe rotte parla dei guai della legge, nelle ultime dieci racconta la casta della magistratura». Le correnti, le degenerazioni, il carrierismo. Insomma, il sistema Palamara prima di Palamara, quando l'Associazione nazionale magistrati era un monolite, cementato dal verbo dell'antiberlusconismo. Anche per questo, nel 2008 Tinti aveva lasciato la professione passando, poco più che simbolicamente, nei ranghi dell'avvocatura. «Era un giudice non allineato, eterodosso - spiega Giuliano Castiglia, gip a Palermo e membro del comitato direttivo centrale dell'Anm, anche lui fra i 129 ribelli' - lontanissimo dagli intrighi che fulminava con i suoi corsivi. E voleva rompere certi rituali e logiche di appartenenza. Si vantava di essere il primo ad aver proposto il sorteggio per la candidatura al Csm, così da spezzare il monopolio delle correnti». Ma non perdonava nemmeno le acrobazie e i ghirigori di normative contorte e farraginose. «Per cambiare - ripeteva - basterebbe andare alla stazione di Lugano dove si parla italiano e comprare un codice di procedura penale. Poi - aggiungeva - si dovrebbe scrivere una legge di due articoli. Il primo: questo è il nuovo codice della repubblica italiana. Il secondo: è vietata ogni modifica del testo di cui all'articolo 1». Il suo immancabile papillon aveva visto giusto. E forse la sua unica colpa è quella di aver precorso i tempi con troppo anticipo.

Tinti, il magistrato delle “toghe rotte” è morto di Covid a 78 anni. Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa il 17 Marzo 2021. Il Covid ha tolto il respiro anche a Bruno Tinti. Magistrato, scrittore e pubblicista è morto martedì 16 marzo all’ospedale San Luigi. In attesa di trasferimento alle Molinette per un intervento chirurgico, si era contagiato un paio di settimane fa. A dispetto della pandemia e dei 78 anni, Tinti guardava al futuro con il piglio di un ragazzo. La collezione di auto d’epoca di cui andava fiero, i raduni in giro per l’Italia, i viaggi da programmare. E Anna, la nuova compagna che lo aveva convinto a prendere lezioni di golf e con cui si era trasferito a San Mauro. Arrivato nel 1967 dopo aver vinto il concorso in magistratura, era l’unico romano che non avrebbe mai lasciato Torino. Dopo qualche anno come giudice in dibattimento, era andato al mitico ufficio istruzione guidato da Mario Carassi e poi in procura, con Bruno Caccia che considerava «modello di magistrato per ogni epoca». Risale a quegli anni l’amicizia con Marcello Maddalena, Gian Carlo Caselli, Maurizio Laudi, Alberto Bernardi. Protagonisti, oltre che di una stagione epica della magistratura, di memorabili doppi a tennis alla Pellerina, a cui talvolta partecipava lo stesso Caccia. La coppia Tinti-Maddalena era sovente perdente e a nulla servivano le lezioni private. A Caselli che rivendicava il suo implacabile gioco di rete, Tinti, a distanza di decenni, replicava dubitando della genuinità delle chiamate «Fuori!», che Caselli lesto faceva seguire da un colpo di piede sulla terra rossa, che rendeva impossibile verificare il segno della pallina. Pur essendo coetanei, e a modo suo, Maddalena gli voleva bene come un fratello maggiore. Tinti ricambiava ammirandone l’intelligenza anche quando, in disaccordo, era costretto a soccombere. Litigavano come adolescenti, poi si riappacificavano a pranzo. Sarà proprio Maddalena a pronunciare l’orazione funebre nei funerali, venerdì 19 marzo alle 10 nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Torino. Tinti stimava anche gli avvocati, in particolare Minni, Badellino e Zaccone. Non amava i processi per reati di sangue. Tra i massimi esperti di reati tributari e finanziari, negli Anni 80 era diventato un pm da prima pagina con il blitz anti evasori e l’inchiesta sul contrabbando di burro. Capo del pool reati economici, poi procuratore di Ivrea, infine di nuovo a Torino da procuratore aggiunto. Sue, tra le altre, le indagini su Telekom Serbia e sulle plusvalenze fittizie nel calciomercato. Tra i primi a capire l’importanza dell’informatica giudiziaria e il cambiamento del ruolo del pm con il nuovo codice, era ossessionato dall’organizzazione degli uffici giudiziari. Da giovane era stato in Magistratura Democratica, poi aveva sostenuto Maddalena quando si era candidato al Csm con Magistratura Indipendente. Ma delle correnti (e dei «correntocrati») era arcinemico. Polemizzava ovunque, battagliava nelle mailing list. Dal 2008, dismessa la toga, una seconda vita da «pensionato cantastorie»: dopo il libro “Toghe rotte”, best seller da 100mila copie, cominciò a scrivere commenti su “La Stampa”, poi fondò “Il Fatto”. La scrittura era agile, popolarizzava le questioni giudiziarie. Funzionava in tv, con l’inconfondibile papillon. Non gli è mancato l'affetto della moglie Maura, ex magistrato come lui, e della figlia Daisy, che gli sono sempre state accanto anche nel corso di quest’ultima battaglia. Qualche settimana fa, prima del ricovero, era ancora in pista. Aveva ricominciato a far sentire la sua voce nelle mailing list. Il Covid gliel’ha tolta dopo l’ultima carezza di Anna, alla quale ha fatto in tempo a dire «Non piangere».

·        E’ morto Marco Bogarelli.

Addio a Bogarelli, ha ricoperto d'oro il calcio. Manager d'alto profilo che aveva "inventato" il format delle tv a pagamento. Franco Ordine - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Ha inventato il format moderno del calcio italiano nelle tv a pagamento e ha fatto scoprire nuovi orizzonti e contratti sempre più ricchi al campionato di serie A. Riconoscenti, poche ore dopo la scomparsa di Marco Bogarelli, ricoverato da giorni al San Raffaele per Covid e vinto nella notte da una polmonite batterica, i presidenti dei 20 club l'hanno ricordato «come manager di assoluto spessore», prima di dar vita all'ennesima divisiva assemblea sui diritti televisivi del prossimo triennio, ai quali lo stesso Marco aveva lavorato come al solito, dietro le quinte, con idee innovative e suggerimenti, tracciando la strada verso nuove tecnologie. Il futuro era sempre stato il suo orizzonte. Bocconiano di formazione, esponente di spicco di Media Partners la società con la quale cominciò l'attività promuovendo prima il basket americano e poi lo sci presso il pubblico del piccolo schermo, divenne il punto di riferimento di società e broadcuster in materia di diritti tv. Furono gli anni d'oro per il calcio italiano con Marco presidente di Infront Italy fino al 2015 quando cedette il comando ai nuovi azionisti, i cinesi di Wanda Sports. Nella stagione successiva si trasformò nell'advisor della Lega calcio lavorando sodo per proporre la candidatura di Mediapro, società spagnola uscita di scena per mancanza di garanzie, con l'intento -anche qui anticipando i tempi del calcio italiano poco incline ai cambiamenti- di costituire il canale della Lega per produrre le partite da mettere sul mercato televisivo. Un titolo a tutta pagina de La Gazzetta dello Sport («io porto i soldi, chi porta il pallone?») ne tracciò il ruolo in modo didascalico: per questo Marco Bogarelli, orgoglioso, lo esibiva custodito in un quadro dietro la scrivania del suo ufficio. L'ultimo contratto da lui curato, sottoscritto in epoca pre-pandemia, con Sky e Dazn, è stato di poco meno di un miliardo, una cifra oggi irraggiungibile dopo i danni procurati al calcio e alle tv a pagamento dall'epidemia. Coinvolto in una indagine della procura di Milano, ne uscì immacolato: il tribunale del riesame stabilì l'assenza di illecito e persino l'indagine parallela sulla Lega calcio finì con l'archiviazione poiché venne riconosciuto il carattere privato dell'associazione.

·        E’ morto l’attore Yaphet Kotto.

Marco Giusti per Dagospia il 16 marzo 2021. Se ne va pure una roccia come Yaphet Kotto, 81 anni, l’ultimo dei grandi cattivi della saga di James Bond rimasti, fu il Dottor Kavananga e il suo alter ego Mr. Big in “Vivi e lascia morire”, 1973, ma fu anche uno strepitoso Idi Amin in “I leoni della guerra”, 1976, Parker nel primo e fondamentale “Alien” di Ridley Scott. Ma non fu solo un cattivo, si sprecano i suoi ruoli da poliziotto e da capo della polizia. Enorme, alto 1,91, nato a Harlem, New York, nel 1939, da parte di padre aveva una discendenza diretta con Re Alexander Bell, che comandò la regione Douala in Camerun alla fine dell’800 prima del colonialismo. Il padre, Njoki Manga Bell era arrivato a Harlem nel 1920 e aveva cambiato il nome diventando Abraham Kotto, ebreo e camerunense. Alla fine degli anni ’50 Yaphet Kotto già pensa di diventare attore e lo troviamo a teatro come alternativa a James Earl Jones nella celebre commedia “The Great White Hope”. Al cinema, dopo i corsi all’Actor’s, arriva a metà degli anni ’60. Il suo esordio è in “Nothing But a Man” di Michael Roemer, uscito nel 1964, dedicato ai diritti della minoranza nera, che vede protagonisti Ivan Dixon, Abbey Hoffman, Julius Harris. Dopo aver interpretato anche un africano in un Tarzan televisivo con Ron Ely, lo troviamo in due film maggiori nel 1968, “Poker di sangue” di Henry Hathaway con Dean Martin e Robert Mitchum, e “Il caso Thomas Crown” di Norman Jewison con Steve McQueen. Si impone da subito, sia per la incredibile presenza fisica, sia per la voce che per la grande comunicativa. Lo ritroviamo diretto da William Wyler nell’ottimo “Il silenzio si paga con la vita” assieme a Lee J. Cobb, Lola Falana, Roscoe Lee Brown. Per la prima volta nella storia del cinema americano si vede sullo schermo un nero, proprio il Sonny Boy Mosby di Yaphet Kotto, uccidere un bianco e farla franca. Fu una rivoluzione. Nel 1972 dirige il suo unico film da regista e produttore, “The Limit”, dove interpreta un poliziotto in motocicletta. E’ ancora un poliziotto, il tenente Pope, nel notevole “Rubare alla mafia è un suicidio” di Barry Shear, dove se la vede con un gruppo di gangster neri che hanno rubato 300 mila dollari alla mafia italo-americana. Con lui recitano Anthony Quinn e Anthony Franciosa. “Non riesco a smettere di ridere quando penso a Anthony Quinn”, diceva Kotto. “Non mi lasciava dire niente. Quando gli dicevo di quanto fosse dura da bambino ad Harlem, mi ha raccontato di come è stato impiccato per il collo in Russia e lasciato per morto. Quando gli ho detto che mi sarebbe piaciuto vincere un Oscar. "Non preoccuparti, ti presterò il mio". "Non sai quanto sia difficile diventare neri in America". "Ascolta Yaphet, finché non sei messicano, non sai cosa significa essere nulla!" Quando stavamo girando la scena sulla 110 esima ad Harlem ... gli ho detto: "Finalmente sono con la mia gente". "La tua gente? La mia bisnonna era una schiava in Alabama!" E’ grazie a questo ruolo, comunque, che viene scelto come il cattivo Dottor Kananga, una sorta di Papà Doc, e il suo alter ego Mr. Big, nel primo Bond con Roger Moore, “Vivi e lascia morire”, 1974. In piena blaxploitation, il film avrebbe dovuto avere oltre a un cattivo nero, anche una Bond girl nera, ma i produttori non se la sentono e chiamano un’attrice bianca. "C'erano così tanti problemi con quella sceneggiatura”, dichiarò Yaphet Kotto. “Ho dovuto scavare in profondità nella mia anima e nel mio cervello e trovare un livello di realtà che avrebbe compensato il mare di schifezze stereotipate che Tom Mankiewicz aveva scritto che non aveva nulla a che fare con l'esperienza o la cultura dei neri”. Alla fine, però notava che “l'intera esperienza non è stata gratificante come avrei voluto che fosse". Gira grandi film di blaxploitation come “E’ tempo di uccidere detective Treck” di Jonathan Kaplan con Isaac Hayes in un ruolo che era stato pensato per Robert Mitchum. Kotto accetta il suo ruolo solo perché aveva bisogno di soldi per il divorzio. O “Friday Foster”/“Assassinio all’aeroporto” di Arthur Marx con Pam Grier, Godfrey Cambridge, Eartha Kitt. Ricordo come molto bello anche il più complesso “Rapporto al capo della polizia” di Milton Katselas con Michael Moriarty e Susan Blakely. Non era del tutto riuscito, invece, “Drum – L’ultimo Mandingo” di Steve Carver, sequel del primo “Mandingo”. Nel televisivo “I leoni della guerra” di Irvin Kershner, interpretato da Peter Finch e Charles Bronson, uno dei film dedicati al celebre raid israeliano all’aeroporto di Entebbe, è un più che credibile Idi Amin, il sanguinario dittatore ugandese. Sono film maggiori sotto ogni punto di vista anche “Tuta blu” di Paul Schrader dove recita con Richard Pryor, dedicato alla corruzione nei sindacati americani, “Alien” di Ridley Scott e “Brubaker” di Stuart Rosenberg con Robert Redford. Parlando di “Alien” ha detto: “Tutte le scene erano impegnative, in particolare quando sai che devi recitare dentro set enormi. Gli effetti speciali determinano dove puoi camminare. Poi ti chiedi come puoi sopravvivere in una lotta contro un mostro. Sarai ricordato? Ridley Scott è stato fantastico. Ci ha dato uno schema di novanta pagine che spiegava in dettaglio ciascuno dei nostri personaggi e poi è scomparso dietro la telecamera. È così che dirige; gestisce la sua macchina fotografica. La sceneggiatura di Alien era bloccata. Era uno dei migliori copioni che abbia mai letto, quindi non c'è stato molto da migliorare”. Nel 1980 diventa il primo nero a interpretare in un film Otello, il Moro di Venezia, in “Othello” diretto da una misteriosa Liz White. Lo troviamo ancora detective in “Condannato a morte per mancanza di indizi” di Peter Hyams con Michael Douglas e in “Midnight Run” di Martin Brest con Robert De Niro e Charles Grodin. Fa tanta tv, tante serie, sia negli anni ’80 che negli anni ’90. Lo troviamo come Al Giorello in “Homicide: Life on the Street”, una serie che dal 1993 arriva fino al 1999 e dove contribuirà anche alla sceneggiatura delle puntate. Ma in generale il suo periodo d’oro rimane quello degli anni ’70 e  del trionfo della blaxploitation.

·        E’ morto Marvin Hagler.

Marvin Hagler morto a 66 anni, addio a leggenda della boxe. Adnkronos il 14/3/2021. L'annuncio della moglie Kay G. in un post su Facebook. "The Marvelous" fu campione indiscusso dei pesi medi tra il 1980 e il 1987. E' morto a 66 anni Marvin Hagler, leggenda statunitense della boxe. La notizia della sua improvvisa scomparsa è stata data dalla moglie Kay G. Hagler in un post su Facebook. "Mi dispiace di dover fare un annuncio molto triste. Oggi purtroppo il mio amato marito Marvelous Marvin è morto inaspettatamente nella sua casa nel New Hampshire. La nostra famiglia chiede di rispettare la nostra privacy in questo momento difficile", ha scritto Kay G. Hagler in un post affidato al Fan Club dell'ex pugile. La causa ufficiale della morte non è ancora stata confermata. Hagler è stato campione indiscusso dei pesi medi tra il 1980 e il 1987 e nel 1993 è stato inserito nella International Boxing Hall of Fame. Nella sua lunga carriera ha disputato 67 incontri ufficiali con 62 vittorie per k.o., 2 pareggi e 3 sole sconfitte. Perse la corona dei pesi medi nell'aprile del 1987 in un incontro epico e molto discusso con Sugar Ray Leonard che fu poi inserito nella lista dei 100 più grandi combattimenti di tutti i tempi con titolo in palio.

Dal profilo Facebook di Carlo Verdone il 16 marzo 2021. Quando ho letto ieri della scomparsa di questo immenso campione mi sono intristito. Era buono, sempre di buon umore, sorridente. Marvin Hagler resterà uno dei più straordinari pugili della storia. Il più grande peso medio. Ho avuto modo di conoscerlo a Milano all' hotel Principe di Savoia. Fu lui a darmi una forte pacca sulla spalla, mentre ero nella hall, perché la sera prima aveva visto in tv " Il Bambino e il poliziotto". E chiese se la moglie poteva scattarci una foto. Gli risposi:" Ma dovrei esser io a chiedere una foto a te! No tu a me". Sono orgoglioso di averlo conosciuto e di averlo abbracciato. E resterà sempre nei miei più emozionanti ricordi. Lui, insieme a sei, sette nomi era la grande boxe. Buona serata. Carlo Verdone

Da video.gazzetta.it il 14 marzo 2021. La sfida più affascinante del mondo, l'aveva definita Rino Tommasi. In quel 1986 Marvin "Marvelous" Hagler vinse a Las Vegas un match brutale: quello per il titolo dei pesi medi contro l'ugandese John Mugabi.

Mario Giambuzzi per sport.sky.it il 14 marzo 2021. Un altro gigante ci ha lasciato. Marvin Hagler, "the Marvelous", il Meraviglioso. Il suo soprannome dice tutto, è stato una meraviglia del ring, uno dei più grandi pesi medi della storia della boxe. L’aria di Brockton, Massachusetts, dopo Rocky Marciano ha temprato anche questo mancino fenomenale. Hagler era un campionissimo, potente, tecnico, intelligente, coraggioso, fisico eccezionale e mascella di granito, un montante indimenticabile. Guidato dagli italianissimi fratelli Petronelli, sul quadrato ha regalato pagine davvero indimenticabili. Le sue sfide con Minter, Antuofermo, Duran, Hearns, Leonard sono leggendarie. La sesta ripresa del match con l’ugandese John Mugabi, detto "la Bestia", è una delle più violente ed entusiasmanti della storia del pugilato. Marvin ha detenuto il titolo mondiale dei pesi medi, una delle categorie più prestigiose, dal 1980 al 1987, affrontando tutti i migliori avversari, accettando qualsiasi battaglia. Con la moglie italoamericana Kay ha vissuto a lungo in Italia, anche a Milano, zona Porta Romana. Tra i tanti ricordi, lo rivedo ancora a bordoring al Forum di Assago, era il 20 giugno del 1996: Marvin urlava a Giovanni Parisi di tenere su le mani contro il messicano "Bolillo" Gonzalez, in un Mondiale cominciato male dal nostro campione. Hagler apprezzava Parisi e si sgolava per aiutarlo. Ciao Marvin, è una domenica davvero triste per gli amanti della nobile arte.

Paolo Beltramin per corriere.it il 14 marzo 2021. Diceva spesso che se non ci fosse stato il pugilato, uno come lui da ragazzo sarebbe finito in galera. Invece è salito presto sul ring, e ha cambiato la storia di questo sport. La leggenda del pugilato Marvin Hagler, campione mondiale indiscusso dei pesi medi dal 1980 al 1987, è morto all’età di 66 anni. In un breve post sulla pagina Facebook del pugile, la moglie Kay non ha precisato le cause del decesso, ma ha raccontato che suo marito ha trascorso i suoi ultimi giorni nella casa di famiglia nel New Hampshire. «Mi dispiace fare un annuncio molto triste. La nostra famiglia chiede di rispettare la privacy in questo momento difficile», conclude la vedova. Dopo il ritiro dalla boxe, Hagler si era trasferito in Italia, tra Rozzano e Milano, e aveva intrapreso la carriera di attore. Alla fine degli anni Ottanta era stato tra i protagonisti dei film di genere “Indio” e “Indio 2”, diretti da Antonio Margheriti, prodotti sulla scia del successo della serie di “Rambo”. Nel 1997 aveva interpretato l’action movie “Potenza virtuale”, a fianco di Terrence Hill. Ma è alla sua potenza di pugile che Marvin Hagler deve la sua fama nel mondo. Tanto bravo da decidere di cambiare nome: Marvelous. «Meraviglioso» lo era davvero, almeno con i guantoni. Fra lui e Tommy Hearns, detto il Cobra, pugile altrettanto magnifico, si celebrò uno dei migliori match mai visti sul quadrato, se non il più bello sicuramente il più vibrante. Celebrare è il verbo giusto: Hagler e Hearns erano, in quel momento, i santoni di uno sport che sapeva ancora offrire emozioni, storie e ganci da antologia. Las Vegas, 15 aprile 1985, campionato mondiale dei pesi medi unificati: vince Hagler per k.o. tecnico al terzo round. Nove minuti di brividi e fuoco, Hearns domato con un terrificante sinistro alla tempia dopo aver cullato (secondo round) l’ idea di vittoria, il pubblico del Caesar’ s Palace impazzito, perfino una mega rissa finale sugli spalti tra le due tifoserie a stento sedata dalla polizia. «Decisi di ritirarmi ad appena 33 anni e fu una buona scelta. Ma i campioni di oggi, mi dispiace per loro, li spaccherei tutti a metà», raccontò in un’intervista a Claudio Colombo sul Corriere della Sera. Preciso e diretto come quando spazzava i ring del mondo, portando in giro i marchi caratteristici della sua pelata e della sua feroce determinazione, Marvin Hagler «oggi è Mister Simpatia», scriveva Colombo. Vita da pendolare tra Milano, Londra, New York e New Hampshire i punti cardinali delle peregrinazioni dell’ «ultimo, grande mohicano della boxe». Marvin, ma sono così scarsi, i pesi medi di oggi? «La stoffa è diversa. Ai miei tempi c’ era più fame, più tecnica, più voglia di emergere. Nella boxe di oggi contano soprattutto i soldi». Non ha mai pensato di tornare sul ring? «Smettere è stato difficilissimo. Ma avevo vinto tantissimo e non avevo più nulla da dimostrare. Ero stato il campione e i numeri uno li avevo affrontati tutti: che cos’altro potevo chiedere di più?». Beh, buone borse. «Due anni dopo il ritiro mi offrirono 20 milioni di dollari per la rivincita contro Sugar Ray. Ma che senso aveva?». Ha preferito, invece, fare l’ attore. «Sì, è la mia seconda vita. Un paio di film, la serie di “Indio” per esempio, sono andati molto bene. Comunque fare l’ attore è più difficile che salire sul ring». E se non sei George Clooney guadagni molto meno che con i pugni. «I soldi non sono tutto nella vita. Aiutano, ma non sono tutto. La cosa di cui vado fiero è che sono uscito dal grande gioco della boxe con il cervello a posto e il fisico intatto. E questo perché ho deciso io quando era il momento di dire basta. Se non hai la salute, a che cosa serve il denaro?». Ha mai avuto paura? «L’ ho avuta sempre. Paura di sbagliare, paura fisica, paura pura. La paura, nella boxe, è fondamentale: ti aiuta a non dare niente per scontato». Perché scelse di fare la boxe? «Per tre motivi. Uno, realizzare il sogno di diventare campione del mondo. Due, dare sicurezza economica alla mia famiglia. Tre, andar via dalla strada. In America, se rimani in strada, puoi finire in brutte compagnie». Obiettivi centrati. Marvin Hagler era nato a Newark, la città dei Sopranos e di Pastorale americana, nel 1954. Alto solo un metro e 75 , ha combattuto sempre da peso medio (poco più di 72 chili). Professionista dal 1973, è salito sul ring 67 volte collezionando 62 vittorie (52 prima del limite), tre sconfitte e due pareggi. È stato campione del mondo dei pesi medi, titolo che ha difeso per dodici volte, dal 1980 al 1987, anno in cui si è ritirato. Ogni tanto, nelle tv degli Stati Uniti, fanno ancora rivedere la sua vittoria contro il Cobra.

E' morto Marvin Hagler, la boxe perde una leggenda. Luigi Panella su La Repubblica il 14 marzo 2021. Aveva 66 anni, è stato uno dei più grandi pesi medi di tutti i tempi. Famose le sue battaglie, tra gli altri, con Vito Antuofermo, Thomas Hearns, Sugar Ray Leonard. La boxe perde una delle sue leggende. All'età di 66 anni è morto Marvin Hagler, improvvisamente, mentre si trovava nel New Hampshire. Lo ha annunciato la moglie, Kay Guarrera. Raramente un alias ha descritto alla perfezione un pugile come quello dato ad Hagler: il 'Meraviglioso'. Meravigliosa era la sua tecnica, meravigliosa era la sua forza di carattere sul ring, la capacità di tenere duro per arrivare ai vertici anche nei momenti di difficoltà. Mancino, potente e tecnicamente raffinato, determinato come pochi. La boxe ce l'aveva nel destino, probabilmente da quando, all'età di 13 anni, si trasferì con la famiglia a Brockton, città che era stata il quartier generale di un altro mito della boxe come Rocky Marciano, ed entrò nella palestra dei fratelli Petronelli. Passato professionista nel 1973, dovette aspettare ben 6 anni e ben 49 incontri per battersi per il titolo mondiale. Una attesa incredibile, soprattutto se paragonata a quella di qualche pugile attuale che, anche per il proliferare delle sigle, ha la grande chance dopo pochi match. Quella chance Hagler la ottenne per il 30 novembre 1979, una data che lo scolpì nella memoria degli appassionati italiani. Contro Vito Antuofermo, il Paisà di Palo del Colle emigrato negli Stati Uniti, fu una battaglia selvaggia. Per molti addetti ai lavori, dopo 15 riprese senza soste, Hagler l'aveva spuntata, ma un finale commovente di Antuofermo, ridotto ad una maschera di sangue (gli furono applicati settanta punti di sutura al volto) convinse i giudici a dare il match pari, lasciando il titolo nelle mani dell'italiano che ne era detentore. Ma l'appuntamento fu solo rinviato. Hagler quella corona se la prese di forza nel 1980 alla Wembley Arena di Londra, quando distrusse un inglese dagli occhi di ghiaccio, Alan Minter, che due anni prima con i suoi colpi aveva causato la morte del pugile di Tarquinia Angelo Jacopucci. In una notte intrisa di razzismo, molti aderenti al National Front, vedendo il loro pugile distrutto in tre round, scatenarono l'inferno lanciando sul ring una pioggia di bottiglie di birra ancora piene e qualcunque altra cose capitasse loro tra le mani. Ma ormai il titolo era di Hagler. Ci mise tanto a prenderselo, ma quando ci riuscì se lo tenne a lungo e  senza mai tirarsi indietro di fronte a nessuno. Sette anni di regno e undici difese. Affrontò tutti i migliori, da Roberto Duran a Thomas Hearns (distrutto in tre round in uno dei match più belli di sempre) a John Mugabi, l'ugandese con il quale diede vita ad una sesta ripresa di elettrica violenza. Fino all'ultimo match, contro Ray Sugar Leonard. Quando i giudici diederò il verdetto a Leonard, si sentì defraudato e disse basta. E non tornò indietro, non sentì come tantissimi altri grandi, il richiamo della foresta. Restò nella boxe, ma solo in veste di commentatore. Amava l'Italia il Meraviglioso. Si era trasferito a Milano, aveva anche tentato la carriera cinematografica (il ruolo più conosciuto in un film di medio successo dal titolo Indio), la moglie era napoletana e lui si era persino appassionato al calcio: simpatizzava per la Sampdoria. E l'Italia amava lui. Come quando nell'ottobre del 1982 difese il titolo contro Fulgencio Obelmeijas al Teatro Ariston di Sanremo, un prodigio organizzativo di Rodolfo Sabbatini, il promoter romano che aveva stretto una collaborazione con uno dei grandi della boxe americana, Bob Arum. Il match iniziò alle 4 del mattino per permetterne la trasmissione in prima serata negli Stati Uniti, ma questo non scoraggiò nè il pubblico televisivo, nè tanto meno la folla che gremì il tempio della canzone italiana. Hagler, mancino ma straordinariamente completo, quel match lo vinse alla quinta ripresa con un gancio destro.

Riccardo Signori per "il Giornale" il 15 marzo 2021. Un giorno Joe Frazier gli disse: «Hai tre cose che non vanno: sei nero, mancino e troppo bravo». Frazier si sbagliava. Un campione non ha colore. Marvin Hagler era ambidestro. E non era solo troppo bravo, è stato Grande. E come tutti i Grandi se n' è andato con un colpo da ko. Improvviso. Scrive Thomas Hearns, l' avversario di una fra le più belle, ed elettrizzanti, battaglie: «Colpa di complicazioni dovute al vaccino antiCovid. Un oltraggio pensarlo per la morte di uno come Hagler». Ipotesi che la famiglia non ha confermato. Kay Guarino, la moglie di origini napoletane, e un nipote, hanno evitato di specificare. Forse con ragione. Quando muore uno che, al passaporto, risulta The Marvelous cosa altro conta? Inserire il nick name nel certificato di identità non è stato il vezzo da primadonna, ma la plateale rivincita di un ragazzo arrivato dai sobborghi più crudeli delle strade d' America e diventato campione del mondo. Gli diede l' idea un dirigente della Tv Abc. Hagler insisteva per essere introdotto come Marvelous Marvin, nel mondiale con Caveman Lee che durò 67 secondi (marzo 1982). E l' altro gli rispose: «Se lo vuoi, cambiati il nome». Fatto. Poi il ring lo ha ridefinito Angry man: uomo arrabbiato. Ma lo fu per tutti gli avversari. Erano nemici e lo rimanevano. Lo spiegava con un sorriso, che svelava nell' Angry un effetto scenico: «Che amicizia ci può essere con chi cerca di romperti la testa?». Con Vito Antuofermo fece eccezione: aveva rispetto, nonostante una battaglia che Vito pareggiò con la faccia spaccata e Marvin, invece, aveva vinto: tranne per i giudici. Nel secondo match Hagler vinse, ma la frequenza continuò. C' era feeling con l' Italia. Hagler imparò il meglio della boxe dai fratelli Pat e Goody Petronelli, originari di Foggia che lo allevarono a Brockton. Il primo mondiale con un italiano: appunto Antuofermo. A Sanremo, sul palco dell' Ariston, concesse la rivincita ad Obelmejias. Poi il rapporto con Kay. Il tifo per la Sampdoria. La vita si divideva tra Milano, Boston, New Hampshire dove è morto. Era nato a Newark ma a 13 anni fuggì a Brockton con la madre, quando la città fu messa a ferro e fuoco. Il padre era già sparito. Gli servirono 6 anni da professionista e 49 incontri prima di giocarsi un mondiale. Ha conosciuto l' arte della pazienza: non aveva santi con sé, solo diavoli contro. E questa morte, avrebbe compiuto 67 anni il 23 maggio, si è adeguata alla rapidità dei suoi ko. I match furono 62: 52 vinti per ko. Solo tre sconfitte. L' ultima, quella con Ray Sugar Leonard, rimase un enigma. Come il verdetto che divise pubblico e giornalisti. Hagler lasciò a tanti il dubbio di non aver voluto esagerare contro un uomo senza match da tre anni e operato agli occhi. Qualcuno gli diceva: «Non fargli male». Eppure il cappellino indossato portava la scritta War II. Battezzò War, la prima guerra, la sfida con Tommy Hearns. Il cobra di Detroit durò appena tre round, ma fu storia della boxe per bellezza e violenza. Hagler aveva imparato contro Roberto Duran che non poteva attendere: Mano de Pedra durò 15 round. Duran era un prediletto ma quando disse «Marvin è alto quanto me. Voglio battermi», segnò il destino. Anche Hearns lo sfidò a parole. Per Hagler era doping, sentiva rinascere il distruttore dentro di sè. Leonard, più furbo, lo carezzò. E Hagler fu irretito. «A Las Vegas vinse la politica prima dei pugni», raccontò. Leonard era un predestinato. Valeva di più commercialmente. Quando furono ingaggiati per un giro-spot nelle città Usa, Leonard incassò 40mila dollari, Hagler 1500 benchè fosse il campione e il mondiale gli valse 12 milioni più bonus, a Ray 11 più bonus. La storia della boxe ha consegnato il Meraviglioso fra i primi 5-6 pesi medi di sempre. Ma lui si sentiva sottostimato. Per questo tifava Sampdoria. «Perché è underdog come sono stato io». Eppure il modo di muoversi sul ring sembrava poesia alternata a qualche estemporaneità. Sempre avanti, Hagler aveva dentro il ritmo. Le mani si muovevano come togliesse ragnatele, entrava nella guardia da destra e da sinistra. Meravigliosa la battaglia con John Mugabi, detto la bestia: uno dei medi più esaltanti. Dopo Hagler cominciò a sfiorire. Il Meraviglioso ha lasciato il segno a tanti: quasi i colpi durassero negli anni. In Europa ha trovato la via all' immortalità. A Londra conquistò sbrigativamente il mondiale contro Alan Minter (27 settembre 1980): tre round feroci dove il sangue sulla faccia dell' inglese, occhi di ghiaccio ma ferita facile, segnò il destino. Hagler non fece in tempo a cingere la cintura. Scappò dal ring sul quale piovevano bottiglie vuote e piene di birra lanciate da bande di teppisti. Si disse: «Qui non torno più». Invece ha lavorato a lungo con la Bbc. Rimase campione fino al 6 aprile 1987: all' alba dei 33 anni. Rimase campione per sé, quando non accettò più offerte per tornare: nemmeno 20 milioni di dollari promessi per una rivincita con Leonard. Si diede al cinema, ma non era George Clooney. Gli toccò la serie di Indio. Se n'è andato con un grande orgoglio. «Essere uscito dalla boxe con cervello a posto e fisico intatto». A 60 anni aveva ancora un fisicaccio. Fuori dal ring era una persona simpatica, con un sorriso Marvelous. Aveva ragione lui: ci stava bene sul passaporto.

·        E’ morto il fotografo Giovanni Gastel.

Morto di Covid il fotografo Giovanni Gastel: aveva 65 anni, i suoi scatti tra arte, moda e personaggi. di Simone Mosca La Repubblica il 13 marzo 2021. Era ricoverato da alcuni giorni nell'ospedale alla Fiera di Milano. Nipote di Luchino Visconti, era tra i più apprezzati fotografi internazionali. Quando dopo aver preso controvoglia la maturità allo Zaccaria — perché fosse stato per lui avrebbe fatto l’artistico — spiegò a casa che aveva intenzione di diventare fotografo, il padre gli regalò un pettine e uno specchio. «Ti serviranno per fare le fototessere» disse intendendo così che si sarebbe dovuto mantenere da solo. Giovanni Gastel, che decine d’anni dopo avrebbe immortalato Barack Obama che ride ad occhi chiusi rivolto al cielo, o Monica Bellucci che seduce persino l’ombra del proprio collo, lo prese in parola diventando uno degli obbiettivi italiani più famosi del pianeta. Fino a ieri, quando all’ospedale in Fiera dopo pochi giorni di inutile ricovero, il Covid si è portato via anche lui, alle 17. Avrebbe compiuto 66 anni il prossimo 27 dicembre Gastel, nato a Milano nel 1955, ultimo dei sette figli di Giuseppe Gastel e Ida “Nane” Visconti. Rampollo cioè della più alta borghesia e della massima nobiltà lombarda, erede insieme degli Erba e degli antichi signori di Milano. Come ricordò nell’autobiografia Un eterno istante. La mia vita (Mondadori) che si regalò nel 2015 alla vigilia dei 60 anni, aveva piena coscienza dei propri privilegi. Per esempio vide il 12 dicembre del ‘69 deflagrare il Banco dell’Agricoltura in piazza Fontana mentre passava per caso scarrozzato in centro dall’autista. Ma affrancandosi presto dagli agi per andar dietro alla passione, di lui davvero si diceva nobile per definirne il gusto, l’animo, l’aspetto, i modi e persino lo stile artistico, senza mai pensare al cognome. Il cui peso passava anche per lo zio, Luchino Visconti, che ammirò e frequentò da ragazzino studiandolo nella villa di famiglia a Cernobbio mentre magari montava Ludwig. «Gentiluomo rude, deciso, un rivoluzionario comunista che non ha nulla a che vedere col santino omosessuale che gli è stato cucito addosso. Maestro di eleganza, che non è manierismo effeminato, ma un modo di essere, un’educazione di cavalleria forgiata nel medioevo che è una chiave del mio lavoro». Gastel affrontò senza raccomandazioni una gavetta durissima di cui andava orgoglioso, finché negli anni ‘80 iniziò a collaborare con le più prestigiose riviste di moda cui diede la scalata firmando campagne tra gli altri per Versace, Missoni, Trussardi, Krizia, Ferragamo, Dior. Negli anni ‘90 trovò il tempo per una via più artistica conquistandosi nel ‘97 in Triennale una personale curata da Germano Celant. Fu solo la prima di tante. Col tempo scoprì infine la passione per i ritratti, come volendo ridere dell’anatema paterno che lo condannava alle fototessere. E nella galleria di volti collezionati si riconoscono i Vasco Rossi, ma si trovano anche visi ignoti che, sull’onda dell’entusiasmo spontaneo con cui si offriva a tutti, aveva deciso di nobilitare. «Si presentava come fotografo, fiero di non dover specificare nulla. Se non un mestiere» ricorda Pio Tarantini. Un collega entrato nell’Associazione fotografi professionisti quando Gastel ne era presidente. «E grazie a Gastel, che si entusiasmò e trovò gli sponsor, direttore della rivista trimestrale Fc. Fotografia è cultura. Era un maestro dell’estetica nel suo senso più alto». Gastel lascia due figli, per lui il cordoglio della cultura e dello spettacolo. Piero Pelù, Andrée Ruth Shammah, l’assessore Del Corno. «Abbiamo avuto la fortuna di poter raccontare quarant’anni della sua carriera nella mostra che abbiamo realizzato nel 2016 a Palazzo della Ragione, un progetto che ha consentito a tutti di ammirare il talento straordinario applicato alla moda, al design, all’arte, al costume». Affranto il ministro Franceschini: «Il Covid ci ha strappato anche Giovanni Gastel. La fotografia italiana perde un grande protagonista amato e stimato in tutto il mondo». E amatissimo a Milano.

Gianluca Bauzano per Corriere.it il 13 marzo 2021. Il Covid ha rapito un altro nome illustre del mondo della cultura e della moda. Il fotografo Giovanni Gastel si è spento oggi pomeriggio 13 marzo 2021. Era stato ricoverato a Milano a causa dell’aggravarsi dello stato di salute dopo essere stato colpito dal Covid. Avrebbe compiuto 66 anni il prossimo 27 dicembre. I suoi scatti hanno cambiato la percezione dell’immagine della moda. Univa uno sguardo inatteso del soggetto che ritraeva, uno stile patinato ma originale e al garbo innato un profondo senso dell’ironia. Un uomo d’altri tempi, come si usa dire, anche perché era nipote diretto di Luchino Visconti, dal quale aveva assorbito, benché ancora bambino un senso estetico profondo, unito alla percezione profonda della realtà. 

Sara Ricotta Voza per “la Stampa” del 15 settembre 2015. Bravo Giovanni, bel libro! Ah, tra l’altro... chi te lo ha scritto?». Giovanni Gastel non si offende con gli amici che hanno letto le bozze della sua autobiografia e pensano ci sia dietro un ghost writer. Invece l’ha scritta tutta lui in un mese a Filicudi, del resto prima di diventare un fotografo famoso pensava che avrebbe fatto il poeta. Il libro esce oggi per Electa, la collana si chiama «Madeleines» e non c’è nulla di più proustiano dei ricordi di questa famigliona milanese per metà aristocratica e per metà altoborghese, che univa i fasti antichi dei Visconti di Modrone a quelli moderni dell’industria farmaceutica Carlo Erba a quelli artistici di un certo zio Luchino Visconti. Giovanni Gastel è infatti figlio di Nane Visconti di Modrone, sorella del regista e nipote dell’industriale. Lui racconta come da quell’ambiente gattopardiano e affascinante sia riuscito a trovare la sua strada e la sua arte. Un’arte nuova per la sua famiglia, specie per il padre, che all’inizio non sembra apprezzare l’idea di un figlio fotografo e come incoraggiamento gli regala un pettine e uno specchio. «Perché sei destinato a fare fototessere tutta la vita. E sai, il cliente potrà sistemarsi un po’ prima dello scatto». Gusto della battuta, ironia e causticità sono un tratto fisso nei ricordi di Gastel, che abbiamo incontrato nel suo studio milanese su più piani da cui salgono, scendono e salutano due dei sei fratelli (uno fa camicie fantasia da veri dandy) e due nipoti fotografi affermati. E in questo viavai allegro e elegante gli chiediamo i retroscena di quel che ha scritto nel libro.

Perché, a quasi 60 anni, raccontarsi in maniera tanto aperta, che è un po’ come denudarsi sulla pubblica piazza? Si parla anche di una grazia ricevuta...

«Non ho il minimo senso del pudore, e poi se devi scrivere la tua vita non puoi dire che sei alto bello e biondo... Quanto alla grazia, io sono un miracolato di padre Pio, -spiega senza snobismi -, mamma e gran parte della mia famiglia avevano fatto una novena per me, che ero in un letto d’ospedale con il fegato spappolato in seguito a una caduta. Una notte ho sognato quel frate dirmi che mi avrebbe guarito. E il giorno dopo i medici non trovano solo un pancreas risanato, ma in perfetto stato, come mai stato danneggiato. Da lì la sensazione di vivere una “vita donata”, e il dono va onorato con la massima adesione al tempo concesso».

Quindi è religioso?

«Frequento la chiesa e vado a messa, ma non ho quella bella fede incrollabile che vorrei; sono altalenante. L’intellighenzia, fra cui ho tanti amici, considera una ingenuità l’essere religiosi, dimenticando montagne di pensiero cristiano cattolico...».

I primi still life per Christie’s fotografando quadri nelle case dei ricchissimi con i camerieri a controllare che non rubi i posacenere, poi le bizze dell’ambiente della moda; il suo libro è pieno di piccole umiliazioni subite ma lei ha sempre la battuta pronta. Mai avuto crolli di autostima?

«Nonno Giuseppe ci diceva “voi dovete vivere in modo che il mondo vi perdoni di essere nati ricchi”, e l’educazione aristocratica all’antica fa sì che tu non possa mai dire “lei non sa chi sono io”. Così ho fatto per anni servizi ai matrimoni, duplicati e fototessere accettando quel che la vita dà e costruendo sui valori. Lo humour mi ha aiutato, la mamma diceva che se uno ce l’ha è più difficile che sia proprio un cretino».

Arrivano gli Anni Ottanta e nasce la moda italiana, la sua prima copertina è un incontro choc con l’assistente di Ferré...

«”La Gastel?” urlava come un pazzo, “Chi czz è questa Gastel? … Mi avevate detto che la cover l’avrebbe scattata Oliviero (Toscani, ndr) non ‘sta Gastel!”».

Inutile dire che poi sarà un idillio e «la Gastel» scatterà per tutti - Missoni, Krizia, Trussardi, Versace - e poi lascerà Milano per Parigi e fotograferà Dior. Anche il papà è finalmente soddisfatto?

«Dopo aver visto la mia prima mostra personale, camminando nella notte verso casa in via Visconti di Modrone papà mi dice “bravo”. Prima la fotografia era considerata un mestieraccio, la moda invece ha fatto di noi degli artisti. E io l’ho fatta molto “da lombardo”, con impegno. Questo è piaciuto a papà».

Scrive che lo sdoganamento della fotografia di moda si deve a Oliviero Toscani. E poi parla con ammirazione dei fotografi colti, come Basilico, poi divenuti colleghi. Pesava questa distinzione?

«Eravamo considerati drogati non in grado di articolare una frase, invece qualche libro lo avevamo letto pure noi. Oliviero lo ha fatto capire con violenza comunicativa e intelligenza».

Lei parla, con franchezza, di attacchi di panico, depressioni, pillole e trousse di psicofarmaci...

«Io sono anche le pastiglie che prendo e in fondo discendo pur sempre da Carlo Erba. - sorride. Poi si fa serio -. Non voglio certo invitare a impasticcarsi, ma quando stavo male non riuscivo a fare niente. C’è un dolore che ci può santificare, e un altro che non crea niente di buono, quindi se la medicina è in grado di togliermi dal pozzo nero, che lo faccia subito».

Still life, moda, ritratti. Che cosa le è piaciuto - e piace - di più?

«Il mio stile lo porto ovunque. Su una top model, un personaggio o un bottone. Sono un fotografo e lì mi gioco la vita».

LA MODA ITALIANA PIANGE LA SCOMPARSA DEL FOTOGRAFO GIOVANNI GASTEL. UNA PERSONA PER BENE. Il Corriere del Giorno il 14 Marzo 2021. 65 anni, nipote di Luchino Visconti si è spento a Milano nel pomeriggio di sabato 13 marzo. Con le sue immagini ha cambiato il mondo della moda. E’ morto ieri a Milano per Covid il fotografo Giovanni Gastel, 65 anni. Figlio di Giuseppe Gastel e Ida Visconti di Modrone, nipote di Luchino Visconti, ed aveva iniziato la sua carriera di fotografo a Milano verso la fine degli anni Settanta, per poi avvicinarsi al mondo della moda, dove era diventato ben presto uno dei fotografi italiani più ricercati ed apprezzati sopratutto per la sua semplicità, umanità e signorilità. Rampollo della più alta borghesia e della massima nobiltà lombarda, erede insieme degli Erba e degli antichi signori di Milano. Come ricordò nell’autobiografia “Un eterno istante. La mia vita” (Mondadori) che si regalò nel 2015 alla vigilia dei 60 anni, aveva piena coscienza dei propri privilegi. Giovanissimo iniziò ad apprendere l’arte della fotografia che poi lo renderà famoso nel mondo. Negli anni Settanta, tra il 1975 e il 1976 lavorò per la prestigiosa casa d’aste britannica Christie’s. Il suo lancio avvenne nel 1981 quando incontrò Carla Ghislieri che divenne la sua agente. Da quel momento iniziarono le sue collaborazioni con Vogue Italia e dopo quindi l’incontro con Flavio Lucchini direttore della casa editrice milanese Edimoda, e con Gisella Borioli direttore dei magazine Mondo Uomo e Donna, incontri grazie ai quali la sua carriera decollò immediatamente. Negli anni Ottanta e Novanta Gastel ha fotografato le campagne pubblicitarie per le più prestigiose case di moda italiane, fra le quali Versace, Missoni, Tod’s, Trussardi, Krizia e Ferragamo. Sempre negli anni Novanta ha lavorato anche all’estero, a Parigi, nel Regno Unito e in Spagna. Nel 1997 la Triennale di Milano gli ha dedicato una mostra personale curata dal critico d’arte Germano Celan che proiettò Gastel ai vertici dell’élite fotografica mondiale e il suo nome apparve su riviste specializzate insieme a quelli di altri grandi della fotografia Italiana come Oliviero Toscani, Giampaolo Barbieri, Ferdinando Scianna e di maestri internazionali come Helmut Newton, Richard Avedon, Annie Leibovitz, Mario Testino e Jürgen Teller. Oltre alla fotografia di moda Gastel si è dedicato al ritratto. Alcuni dei suoi ritratti più famosi includono Barack Obama, Ettore Sottsass e Roberto Bolle. Una raccolta di 200 ritratti da lui scattati è andata in mostra nel 2020 al Museo Maxxi di Roma, protagonisti personaggi del mondo della cultura, del design, dell’arte, della moda, della musica, dello spettacolo e della politica che lo stesso Gastel aveva incontrato e fotografato durante i suoi 40 anni di carriera. Era stato ricoverato nei giorni scorsi a Milano all’Ospedale Fiera di Milano a causa dell’aggravarsi dello stato di salute dopo essere stato colpito dal Covid, essendo affetto da enfisema polmonare. Avrebbe compiuto 66 anni il prossimo 27 dicembre. Dopo l’annuncio della morte di Gastel, vi è stato un fiume di commenti e di ricordi sui social da parte di stilisti, imprenditori e media della moda. Lascia due figli, per lui il cordoglio della cultura e dello spettacolo. Affranto il ministro Franceschini: “Il Covid ci ha strappato anche Giovanni Gastel. La fotografia italiana perde un grande protagonista amato e stimato in tutto il mondo”. Sono molte le persone e gli amici che lo ricordano con affetto. Piero Piazzi presidente della Women Models che scrive su Twitter: “Ho sperato come tanti per giorni che non potesse succedere, ho pregato come tanti qualsiasi Dio perché tu non te andassi mentre guardavo le nostre foto, i nostri messaggi ,pensando al tuo interesse dolce e fraterno durante i miei momenti difficili o al nostro cazzeggiare come ragazzini . Che se ne vada un genio della fotografia è per me poco importante, che manchi una persona immensa come sei tu e solo tu mi devasta il cuore e di più . Perché tu sei una persona immensa Gio’, sei un uomo unico, adorabile, affettuoso, gentile e premuroso, onnipresente in tutto e per tutto. Pochi giorni fa ridavamo dei nostri comuni acciacchi come sempre, dei nostri momenti bui, del tuo nipotino Sebastiano ed ora…non ci sei più. E ora come faremo senza di te? Io non ci credo ancora e non posso augurarti buon viaggio Gio’ perché non riesco ancora a farlo, perché per me e per tanti tu sei e sarai sempre qui con noi e davvero il mondo non sarà più lo stesso senza di te. Non è così che deve andare…“. Donatella Versace con i figli Allegra e Daniel con una nota ufficiale lo ha così ricordato: “Giovanni era un uomo che sapeva cogliere la bellezza in ogni cosa su cui posasse lo sguardo. Insieme abbiamo condiviso momenti che non dimenticheremo mai. Vogliamo ricordarlo dietro la sua amata macchina fotografica, intento a creare uno dei suoi famosi ritratti, la sua umanità e l’immensa gentilezza del suo animo“. Antonella Boralevi lo ricorda così: “Generoso. Straordinariamente generoso. Capace di mettere il bisogno di un amico prima di tutto. Serio. Straordinariamente serio. Pur in pandemia, hai scelto di tenere tutti i dipendenti e i collaboratori del tuo studio. Per pagare i loro stipendi, hai scelto di sacrificare te stesso. Sincero. Straordinariamente sincero. Tanto quanto l’abitudine di quasi tutti è la recita, tu hai sempre praticato la verità. Coraggioso. Straordinariamente coraggioso”. Giovanni Gastel, come ricorda il nostro direttore Antonello de Gennaro, che lo conosceva bene, “non è stato è stato un grande autore di immagini che hanno segnato il mondo della moda, ma sopratutto è stato una persona per bene, sensibile, educata. E nessuno di noi potrà dimenticare il suo sorriso”.

Andrea Scarpa per imilanesi.nanopress.it il 14 marzo 2021. Addetti ai lavori, editori e critici non hanno dubbi: dopo 40 anni di scatti in giro per il mondo, Giovanni Gastel è indiscutibilmente il più grande fotografo italiano di moda. La prima foto l’ha fatta a 17 anni, la prima copertina a 26: una carriera brillante, la sua, che dalla casa d’arte Christie’s lo ha portato a Vogue Italia, e all’incontro con Flavio Lucchini e Gisella Bormioli di Mondo Uomo e Donna, e poi a Parigi e a Elle fino alla definitiva consacrazione internazionale. Milanese, ultimo di sette figli (Giuseppe Gastel il padre, Ida Visconti di Modrone la madre), Giovanni Gastel ha compiuto 60 anni lo scorso 27 dicembre. È nipote del grande regista cinematografico Luchino Visconti. Il 15 settembre 2015 ha pubblicato per Mondadori Electa l’autobiografia Un eterno istante – La mia vita.

60 ANNI? UN ERRORE. «La mia età è solo un errore di calcolo, qualcuno deve essersi sbagliato. Nel senso che so benissimo di essere un sessantenne, però non è che questo mi ha cambiato tanto se penso a quando ne avevo 30. Mia madre, per esempio, mi ha detto una cosa molto carina: “Vedi, so di avere 90 anni, ma se tu mi svegliassi nel cuore della notte per chiedermi quanti anni ho, io d’istinto ti direi 35”. Che è meraviglioso…».

SAGGIO A CHI? «Non sento la vecchiaia come saggezza, temo che non faccia parte del mio corredo genetico…».

LA CAZZATA PIÙ GRANDE. «Sono cose indicibili davanti alla mia famiglia… Scherzo. Ne faccio di tutti i colori. Mi tuffo da 15 metri di altezza, vado sotto’acqua a 25 metri, perdo punti della patente…».

GLI INIZI SENZA MADE IN ITALY. «Il bilancio di questi 60 anni è addirittura impensabile quando ne avevo 19. Io ho iniziato in epoca antecedente alla moda, al Made in Italy, le prospettive erano terribili».

L’AUSTERITY. «La benzina era razionata tre giornata settimana, c’era l’austerity, l’inflazione era fra il 18 e il 20 per cento. I morti si contavano al giorno, la situazione era molto più drammatica di oggi. Tutti mi dicevano è un mestiere finito, lascia stare la fotografia. Però io a casa mi dicevo: “Vabbè, ma io voglio fare il fotografo…”, e l’ho fatto lo stesso. Con i tempi giusti: la vita mi ha lasciato 5-6 anni per imparare, visto che sono un autodidatta puro».

FOTO DI MERDA. «Ho tenuto anche le foto di merda che facevo, le faccio vedere ai giovani. È importante perché magari uno vede quelle che faccio oggi e può pensare che sono “nato imparato”, come dicono a Napoli. Non è vero. Ho fatto brutte foto per tanti anni, poi si impara, si migliora. E così anch’io ho iniziato a fare belle foto. È una notizia tranquillizzante per tutti».

IL PRIMO STUDIO (CON I FUNGHI). «Il primo studio (fu) una cantina infame dove crescevano i funghi, ma in un palazzo prestigioso del centro di Milano, vicino a piazza San Babila, perfetta per rappresentare me e il mio socio Bardo Fabiani, tutti e due figli di papà a cui per colpa della passione per la fotografia avevano completamente tagliato i fondi. A zero. A 17 anni, mio padre mi ha detto: “Non vai avanti con gli studi? Da me non vedrai più una lira”».

IL MISTERO DELLA POSTA. «Dopo sei mesi in studio, non avevo mai ricevuto posta e la cosa mi sembrava strana. Io e Bardo eravamo diventati molto amici del portiere Dante, che aveva l’altra metà della cantina per tenerci i salami. A un certo punto sono salito e gli ho detto: “Dante, qui c’è qualcosa che non va. come è possibile che in sei mesi neanche una cartolina ho ricevuto?”. E lui: “Signor Gaspare, mi creda, non è arrivato niente”. Come mi ha chiamato? “Signor Gaspare, Giovanni Gaspare”. Nooo… Mi chiamo Gastel, Giovanni Gastel! E lui: “Allora ho ricevuto un sacco di posta, l’ho rifiutata tutta! Ecco chi era questo Gastel…”. Adesso, finalmente, il mio cognome lo sbagliano un po’ meno».

GASTEL, GENERALE GASTEL…«Quello che mi piaceva di più era Generale Custer… quella un po’ mi piaceva».

RADICI OLANDESI. «L’origine (del nome) è olandese, l’ho scoperto da poco. Siamo italiani da 15 generazioni, ma veniamo dal Bramante, in Olanda, dove c’è un piccolo paese che si chiama Gastel».

IL SEGRETO DEL SUCCESSO. «Jacques Brel il cantante cantava: “C’è voluto tanto coraggio per diventare vecchi senza diventare adulti”. Credo che il segreto per chi fa delle operazioni creative sia quello. Ho sempre detto: quello che ho fatto non esiste più, quello che farò è del tutto aleatorio che io lo faccia, quindi mi resta oggi. Tutti i giorni ho una sola opportunità, qualunque essa sia, quindi a quel punto non cambia tanto se è una top model, un bottone o un sasso. Devo fare la più bella foto che posso fare e mi gioco tutto in quel giorno lì».

MOMENTI NO. «Nel ’93 era uno dei momenti più splendidi della mia carriera: facevo Dior e Nina Ricci a Parigi, a Milano Trussardi e Missoni. Di colpo, nell’arco di tre mesi, ho perso tutti i clienti. Da Donna è andato via l’art director Flavio Lucchini e siamo andati tutti via, Dior mi ha carinamente congedato, Trussardi non ha avuto più bisogno delle mie foto, Missoni e Krizia anche… una cosa terribile! Giravo per lo studio come una tigre in gabbia. Che cosa è successo? Non è possibile!, mi chiedevo. Ma la vita è così. Poi ho analizzato il mio lavoro, ho capito che forse era un po’ invecchiato, forse andava aggiornato e infatti, dopo un po’, tutto è tornato ad andare splendidamente bene».

ATTACCHI DI PANICO. «Io stavo malissimo, ma tutti mi dicevano che stavo benissimo, che non avevo assolutamente niente. Poi mia moglie Anna ha sentito, in un programma Tv un medico che parlava di questo malattia, mi sono precipitato da lui, ma il dottor Cassano non poteva, così sono andato da una sua assistente che in cinque giorni di terapia mi ha tirato fuori. Era una banale sindrome che si chiama attacchi di panico. (Ne ho sofferto) Dalla metà degli anni ’80 alla metà degli anni ’90, sono stati dieci anni molto dolorosi e faticosi. Possono essere di due tipi: quelli che ti portano a pensare che puoi morire, e quelli l’altro che ti portano a pensare che puoi impazzire. Io ero della seconda categoria. Stavo da cane, avevo batticuore, tremori, sudore freddo… Sarebbe una malattia invalidante, ma non ho mai mollato, ho sempre continuato lavorare e a volare: all’epoca facevo una vita frenetica che mi portava sempre in giro per il mondo».

L’OSSESSIONE. «È la creatività. Io non so se è arte o no quello che faccio, so solo che se non fotografo sto male. Se lo faccio sto bene».

IL RINGRAZIAMENTO PIÙ GRANDE. «Il più grande lo devo sicuramente a chi ha deciso che le mie foto erano belle e quindi due persone: Flavio Lucchini, straordinario art director che ha fatto tutta la Condé Nast, poi Donna, Moda… e sua moglie Gisella Borioli, direttrice di Donna. E anche ad Alberto Nodolini di Vogue Italia. Loro hanno deciso che quello che facevo era bello e da quel momento è diventato bello. Come hanno fatto? Pubblicando 30-40 pagine di mie foto ogni numero».

CAPIRE LA MODA. «Io sono nato nella moda a 17 anni, quindi parlo la loro lingua. Se uno viene da fuori non li capisce. Racconto un episodio divertente. Fine anni ’80, riunione da Krizia. Io facevo già la campagna senza agenzia per il lancio di uno dei suoi profumi. Con noi anche il più grande pubblicitario italiano, Emanuele Pirella, un gigante, uomo intelligentissimo. Parliamo un’ora, Krizia ci spiega tutto. e poi andiamo via».

SCUSA GIOVANNI, MA CHE HA DETTO? «Camminando per uscire Emanuele, che è un amico, mi mormora: “Giovanni, ma tu hai capito che cosa ha detto?”. Sì, certo. Lui: “Io niente, neanche una parola. Fai tu, poi mi mandi la foto”. Nulla è cambiato. La moda è ancora così».

LA MODA E IL SENSO DEL RIDICOLO. «Forse sfiora i più saggi, che sono una minoranza… però c’è anche molta ironia e autoironia».

FOLLIE DA RACCONTARE. «Una che rende l’idea me l’ha raccontata sempre Emanuele PIrella. Che viene convocato a Parigi da Karl Lagerfeld con il suo socio Gottsche. In pratica,la più grande coppia creativa operante in italia. I due portano proposte a Parigi e vengono condotti fino alla porta di Lagerfeld. Loro, due colossi della comunicazione italiana e mondiale, cercano di entrare, ma quello che li accompagna li ferma e dice: “Non potete assolutamente entrare”. E loro: “Come non potete entrare?”. No no, il signor Lagerfeld oggi non riceve nessuno. “Allora cosa succede?”. No no il signor Lagerfeld non vuol vedere nessuno. “Ah! E terribile, noi allora ripartiamo per Milano”. No no, non ripartite. Dovete fare la riunione. “Come? in che senso?”. La riunione si è svolta davanti alla porta chiusa. Chi siete? “Siamo Pirella e Gottsche da Milano”. Cosa volete? “Siamo qui per il suo profumo”. Va bene. Avete dei disegni? “Sì, certo”. Passateli sotto la porta… Cose sublimi, sublimi!».

LA CRISI E LA MODA. «La moda italiana va benissimo nel mondo, non va bene nel mercato interno. La vendita di prodotti italiani italiani va molto male. La ricaduta sull’editoria è terribile perché i giornali di moda senza pubblicità non ce la fanno stare in piedi con le vendite. Il calo negli ultimi due anni è stato, secondo la Camera Nazionale dell’Alta Moda, tra il 50 e il 60 per cento, cosa che ha messo in ginocchio l’editoria. Ma non la moda italiana. Milano secondo me sta riprendendosi, lamentarsi serve a poco».

SU LA TESTA. «Io sono molto contento dell’Expo, che ha ridato una certa sensazione di “Sù la testa” a noi milanesi. Erano riusciti un po’ ad abbatterci, a dire in fondo anche voi che siete sempre stati il cuore pulsante… anche voi siete delle merde».

L’ARMA IN IN PIU' DI MILANO. «Una serietà imprenditoriale applicata anche in settori creativi, che è abbastanza raro. Questa è una capacità che hanno tutti i lombardi, non solo i milanesi. Questa cosa qui ha fatto buona parte della fortuna della moda italiana e si può insegnare ai giovani, senza limitare la loro creatività. Il messaggi è: la creatività senza un impianto rigoroso, di sostegno anche economico e buona amministrazione, è un talento sprecato».

LA FORTUNA PIÙ GRANDE. «Sono un terribile privilegiato dalla vita, lo ammetto. Una delle grandissime fortune è che il Made in Italy, il sistema del pret a porter che ha rivoluzionato la storia della moda, è nato qui. Fosse nato a Tokyo forse sarei andato a Tokyo, ma non posso giurarlo. Tutto quello che concerneva il mio lavoro in realtà si concretizzava sotto casa mia…».

IL LUOGO DEL CUORE. «Io ho un amore furibondo, fin da ragazzino, anche perché insonne, per piazza Mercanti, ultima piazza pura medievale di Milano. Io sono molto legato anche a quella Milano lì, quindi le prime luci dell’alba a piazza Mercanti le consiglio a tutti».

RICORDI DI ZIO LUCHINO. «Zio Luchino ha visto le mie foto, è morto quando io avevo già 21 anni, quasi 22. Ho fatto in tempo a stare a lungo con lui, ho fatto dei mesi addirittura vederlo girare. Poi quando si è ammalato è stato mesi a villa Erba da mamma, a Cernobbio. Mamma mi ha anche costretto a portargli le mie prime fotografie. È stato molto emozionante. La cosa bella è che non mi ha trattato come il ragazzino di 16 anni che fa due foto, come temevo, ma da professionista. Mi ha parlato da uomo a uomo».

I CONSIGLI DI UN MAESTRO. «Mi ha detto: “Guarda le luci sono interessanti, le inquadrature anche, ma stai attento a questo e quello. Se posso darti un consiglio lavora sulle cromie, le proporzioni sono buone…”. Insomma, già quello era una specie di medaglia».

GIARDINETTI. «Smettere di fotografare mi sembra impossibile, ho scelto questo mestiere anche perché in qualche modo lo puoi fare sempre, finche Dio ti assiste. Certo, se poi la testa se ne va…».

A 60 ANNI NIENTE È MEGLIO DI…? «Non so se si può dire… la gnocca!».

Pier Luigi Vercesi per il “Corriere della Sera” - intervista del 13 maggio 2018.

La definizione più ricorrente di Giovanni Gastel è: fotografo dell' eleganza. Lei come si percepisce?

«Un malinconico che ride sempre».

Spiazzati. Spieghi perché, l' avrà pur indagato.

«Sono frutto di un incrocio bizzarro: papà piccolissima borghesia; mamma altissima aristocrazia. Due modi opposti di intendere la vita. Non ho goduto della sicurezza di una tranquilla cuccia piccolo borghese; non ho potuto essere un decadente aristocratico. Mia padre diceva: voglio un titolo di studio! Mia madre, mai andata a scuola perché gli istitutori venivano a casa: vuoi andare a scuola? Rispondevo: no. E allora lascia perdere. Mamma era sorella di Luchino Visconti, figlia di Carla Erba (erede della casa farmaceutica, ndr ). I parenti materni vivevano in dimore epiche, come Villa Erba a Cernobbio e il castello di Grazzano Visconti; mia nonna paterna, rimasta vedova, gestiva una piccola clinica a Saronno dove si curava la sciatica: sembrava la casa degli Addams».

Com' è possibile che i Visconti di Modrone abbiano dato la loro figlia in moglie a un Gastel qualunque?

«I miei genitori si conobbero a Cernobbio.

Papà vinse i littoriali di canottaggio. Mamma e sua sorella Uberta videro 'sto fusto e lo andarono a conoscere alla premiazione a villa d' Este. Si incontrarono di nascosto e si innamorarono. Ovvio che quel matrimonio non si doveva fare. I Visconti immaginavano il solito brubru a caccia di dote. I Gastel fecero una testa così a mio padre: sei matto, sposi la contessa e poi come la mantieni! Mamma e papà andarono da zio Luchino. Dissero di amarsi e di essere disperati all' idea di separarsi. Luchino, benché bizzarro, era moralista: per un anno non vi vedrete e non vi parlerete, se il sentimento resisterà me ne occuperò io. Dodici mesi dopo, i due erano ancora lì come in un romanzo d' appendice. Nel frattempo i nonni materni si erano separati e Luchino ottenne il consenso. Anche i Gastel gettarono la spugna. Nel 1939 i due fidanzatini si sposarono scodellando sette figli. Io sono l' ultimo».

Bella fiaba. Vissero tutti felici e contenti?

«Si amarono, ma mamma s' immaginava protetta da quel marcantonio d' atleta che invece si dimostrò predisposto a continui esaurimenti. La forza ha dovuto trovarsela da sola. Immagino l' angoscia che provarono mentre io stavo morendo».

In che senso?

«Mi diedero per morto. A tre anni m' infilai con la biciclettina in un tombino e il manubrio mi spappolò il pancreas sulla spina dorsale. Mi alimentarono artificialmente. Un calvario di tre mesi, finché i medici prepararono i miei genitori al distacco: vomitavo una bava gialla, non sarei arrivato alla fine della settimana. Un paio di giorni dopo, invece, aprii gli occhi e raccontai di un signore con la barba bianca. Sorrideva, diceva che sarei guarito. Nel pomeriggio notarono miglioramenti: il pancreas si stava riformando. La voce circolò e una processione di "fedeli" venne a mostrarmi delle immaginette. Dissi: è lui, quando vidi Padre Pio».

Avrà una fede incrollabile?

«Mi piacerebbe. Il mio rapporto con il divino è contraddittorio. Da allora penso che la vita mi è stata regalata e può durare poco. Così mi sono dato da fare prestissimo. A 12 anni recitavo in teatro. Chiesi il permesso a mamma. Disse: sì, anche se devi restare fuori fino a tardi la sera, papà dica quello che vuole. A 15 pubblicavo un libro di poesie. A 16 fotografavo. A 17 vendevo fotografie. Pensavo di morire a vent' anni. Reagii applicando il metodo di casa Visconti: fai tutto al massimo delle tue possibilità. Come Luchino, metto la cosa a cui sto lavorando al centro dell' universo attingendo a tutto quello che ho dentro. Non distinguo più la mia vita dalla mia opera, anche se devo fotografare un calzino. Sono quello che faccio e faccio quello che sono».

Luchino era molto presente nella sua vita?

«Con papà sono andato per due mesi ad Algeri, sul set de Lo straniero . Stavo con Marcello Mastroianni, Anna Karina... L' educazione di casa Visconti era di tipo militare e Luchino dirigeva come un generale: silenzio assoluto, tutti dovevano eseguire gli ordini, non era un Fellini che improvvisava. Ma nel privato era tenerissimo, avvolgente».

Le contraddizioni dell' aristocratico comunista?

«Lo provocavo: zio, vivi come un principe rinascimentale però sei comunista. Rispondeva: il comunismo prevede che tutti debbano essere ricchi come me, non io povero come loro. Vi aveva aderito idealmente in carcere. Venne arrestato dalla banda Koch come antifascista e finì a Villa Triste, torturato per venti giorni. Gli strappavano le unghie, gli spaccavano le ossa della faccia con il calcio della pistola. In galera si avvicinò ai comunisti. Dopo la guerra, nonostante i Visconti fossero legatissimi ai Savoia, sostenne la Repubblica. Quando venne ai ferri corti con il produttore Goffredo Lombardo che voleva tagliasse 40 minuti del Gattopardo , in particolare la scena del ballo, Luchino chiese consiglio a Togliatti. Visto il film, il segretario del Pci disse: nel ballo c' è tutto il film, non si può tagliare. Aveva ragione. La Titanus fallì e il ballo entrò nella storia del cinema. Zio, dicevo, non hai mai vinto un Oscar. E lui: ma ho vinto tanti festival di Mosca. Le sue simpatie non lo rendevano gradito agli americani. Per andare negli Stati Uniti aspettò due anni il visto».

Si dice che Luchino facesse fallire tutti i suoi produttori: per nulla attento alle spese.

«Un giorno mio padre disse che doveva parlarmi. Immaginai volesse accennare a qualcosa sul sesso. Invece cominciò così: devo comunicarti una cosa importante per vivere in mezzo ai Visconti ci vuole una grande pazienza. Punto. Papà era squadrato, gestiva i conti di quei matti. Giuseppe occupatene tu, gli dicevano con un po' di fastidio per l' aritmetica. Luchino spendeva come un ossesso, i soldi non rappresentavano nulla. Mia madre non aveva nemmeno il senso delle proporzioni. Vede una casa e dice: che bella, possiamo comprarla per Luchino (uno dei fratelli, ndr ) che si sposa. Mio padre: mi sono informato, non possiamo, costa un miliardo. E lei: anche quella di Guido è costata 100 milioni. Giovanni - disse mamma quando cominciai a fare il fotografo - lavorando, esattamente, cosa intendi dimostrare? Mi piace e devo guadagnare dei soldi. Oh, ma quelli poi arrivano».

Lei è nato nel '55, ha vissuto in pieno gli Anni di Piombo. Com' era quella Milano?

«Uscito di casa ho subito un trauma. Mi avevano allevato due signori che parlavano di onore, patria, bandiera, Italia. Quando hanno aperto il cancello e mi hanno spinto fuori ho scoperto che il mondo vero era un' altra cosa. Gliel' ho rinfacciato. Ma sai, dissero, noi non usciamo mai... Sono stato vittima di un tentato rapimento. Avevamo venduto la Carlo Erba e i nostri nomi erano sui giornali insieme a cifre rilevanti. A 19 anni, una sera, dopo aver accompagnato a casa la mia fidanzata, percorrevo via dei Giardini (a Milano, ndr ). Vidi un' auto ferma con i fanali accesi. Immaginai due intenti a sbaciucchiarsi e passai sull' altro marciapiede. L'auto sgommò per tagliarmi la strada. Eravamo all' altezza dei Giardini Perego e mi buttai in mezzo alle piante dove l' auto non riuscì a chiudermi. Per fortuna sopraggiunse una vettura e loro dovettero inchiodare. Ne approfittai per raggiungere via Fatebenefratelli, dove c'è la questura. Da lì ero praticamente a casa. Mi puntarono i fari, poi decisero di non rischiare. Andai da mamma e raccontai tutto. Disse: guardie del corpo non te ne prendo, una pistola non serve, all' estero non ti mando perché noi nei momenti difficili stiamo nel nostro Paese Se ti rapiscono cercherò di tirarti fuori. Insomma: non far la piaga e arrangiati».

E lei come ha reagito?

«Semplicemente non capivo come andava il mondo. Non ce l' avevo con il mondo. Era un mio limite. Non mi restava che scendere in una cantina e reinventarmi un piccolo universo di cui avrei capito le regole perché le dettavo io. Così ho adottato la parola eleganza e al mondo della moda l' idea è piaciuta. Spiegavo che il mio non era un concetto estetico, ma etico. Davanti a una platea di milanesoni mi chiesero: cosa intende quando dice che l' eleganza è un valore morale e non estetico? Un gentiluomo, per esempio, non può non pagare le tasse. Silenzio in sala. Sono grato alla moda perché ha finanziato il mio universo, ma se mi chiede se ne faccio parte rispondo "no". È come il Monopoli: viene stritolato chi si convince che il gioco è la vita; quando ti chiudono la scatola sei morto. Se credi a chi ti dice che sei un genio sei fregato, perché il genio del mercoledì è un cretino il venerdì».

Quindi la sua vita reale di cos' è fatta?

«Poche cose: affetti profondi, alcune letture, poesia. Conosco a memoria migliaia di versi, come mia mamma».

Me ne reciti senza pensarci.

«Alla tenda s' accosta/ il piccolo nemico/ Dimitrios e mi sorprende,/ d' uccello tenue strido/ sul vetro del meriggio./ Non torce la bocca pura/ la grazia che chiede pane... Vittorio Sereni».

Sua madre cosa avrebbe recitato?

«da Superga nel festante coro de le grandi Alpi la regal Torino, Giosuè Carducci». La sua vita in una poesia?

«Approdato come un naufrago in una terra sconosciuta, ho misurato il territorio e appreso la lingua dei nativi. Sono invecchiato raccontando del mio mondo lontano, ma ancora la notte nel buio sogno navi amiche che mi riportino a casa».

Il Piccolo Principe!

«Mi avevano preparato per un altro mondo, non ce l' ho con nessuno: è solo nostalgia».

Sofisticato, spavaldo, dandy Ritratto di Giovanni Gastel. Colto, talentuoso, nipote di Luchino Visconti, iniziò con la moda. Finì con fare arte. Vittorio Sgarbi - Dom, 14/03/2021 - su Il Giornale. A parlarmi, nella notte scorsa, delle gravissime condizioni di Giovanni Gastel è stato il comune amico Lamberto Fabbri di Faenza, annunciandomi che gli avrebbero staccato l'ossigeno e che per salvarlo sarebbe occorso chiedere al cielo un miracolo. Mi diceva che lo legavano a Giovanni tante cose, tante idealità comuni, analoghi riti familiari. Poi, ieri, alle 12,50, mia sorella, molto malinconica, mi ha comunicato i necrologi del triste giorno: Raoul Casadei, Jean Claude Fasquelle, Giovanni Gastel. Così ho pensato di scrivere di un amico perduto, in una situazione, singolare, di sospensione. La notizia della morte di Giovanni non è stata confermata per alcune ore (alle 17,25 dall'Ansa era ancora dato in gravissime condizioni), e io ho tardato a scriverne perché aspettavo la smentita di una voce e l'affermazione del miracolo. Non c'è stato, nonostante, nella sua tenerezza, Lamberto mi ricordasse un leggendario miracolo di Padre Pio che avrebbe salvato la vita a Giovanni cinquenne. E invece è partito, più giovane di me, convincendomi che questo maledetto male è qualcosa di insidioso e misterioso, e non si può liquidarlo pensando di sfuggirgli per resistenza o per spavalderia. Non basta. Bello e spavaldo era Giovanni, pronto a sfidare la vita, nello spirito di un dandy. Io l'ho conosciuto ragazzo, nel 1981, agli inizi della sua attività di fotografo di moda. Univa intelligenza e dolcezza, e una parte di sé l'ha rivelata qualche anno fa nella sua autobiografia Un eterno istante, (titolo da fotografo, pensando all'«attimo decisivo» di Henri Cartier-Bresson), orgoglioso nipote di Luchino Visconti. Aveva piena consapevolezza prima dei doveri che dei privilegi di un aristocratico: «Nonno Giuseppe ci diceva voi dovete vivere in modo che il mondo vi perdoni di essere nati ricchi, e l'educazione aristocratica all'antica fa sì che tu non possa mai dire lei non sa chi sono io. Così ho fatto per anni servizi ai matrimoni, duplicati e fototessere accettando quel che la vita dà e costruendo sui valori. Lo humour mi ha aiutato: la mamma diceva che se uno ce l'ha è più difficile che sia proprio un cretino». Il racconto degli anni della sua formazione è rivelatore. «Appartengo a una generazione dove non si poteva non leggere. A sedici anni, mia madre mi regalò una cassa con tutti i romanzi di Flaubert. Ero perplesso e neanche troppo contento. A lei non interessava tanto che andassi bene a scuola, quel che era importante era respirare cultura in casa. Un atteggiamento tipico di casa Visconti, mio padre Giuseppe era invece un solido industriale con principi borghesi molto fermi. Quando chiesi di frequentare il liceo artistico alzò le spalle e fece un commento sprezzante. Allora non si discuteva. Dovetti intraprendere il classico con risultati deludenti. Feci il giro delle sette chiese per poi finire al Dante Alighieri. Ricordo il preside: Noi non facciamo favoritismi: abbiamo bocciato anche suo Zio Luchino. A quel punto son sbottato: Complimenti! Avete avuto occhio...». L'intelligenza, l'arguzia, il divertimento rendevano Giovanni tra gli amati fratelli di Anna, il più romantico, il più poeta e, per me che li frequentavo, il più affine. Di anno in anno il suo nome e il suo credito sono cresciuti. E così, da amico diventato Assessore alla Cultura a Milano, volli la sua mostra, decisa in un'ora, a Palazzo Reale. Fu il momento della sua consacrazione. La sua qualità era far sentire uniche le donne bellissime, giudicate senz'anima, del mondo della moda. Una delle predilette, fra le ultime, Melania Dalla Costa, rivela questo stato di incantamento trasmesso da Giovanni: «Giovanni Gastel dice sempre di avermi scelta perché ho dei tratti che gli ricordano quelli di Claudia Cardinale e di quelle attrici lì. A volte io mi sento come se non appartenessi a questa epoca, preferisco non uscire la sera e magari ascoltare musica classica o studiare. È un po' la mia dimensione, estraniata dalla nostra società». Una condizione reale? Uno stato di ipnosi? Resta che Giovanni, circondato da invidiabili bellezze, le ha denudate, lasciandole vestite; ha fotografato, con una concentrazione assoluta, prima la loro anima che il loro corpo, ha inseguito essenze segrete, inquietudini, turbamenti. «Tu guardi il mio silenzio e mi ferisci» scrive Gastel, e incrocia lo sguardo con Monica Bellucci, Naomi Campbell, Linda Evangelista, vicine e distanti, sottratte alla quotidianità dal bianco e nero che le proietta in un tempo indefinito, ben oltre la moda, ben oltre l'identità. Le modelle sono divine. Ed egli osserva: «non credo che l'esistenza sia una prerogativa importante del divino, è una necessità». Valerio Terzetti ha accolto questa interiorizzazione di valori che, nella moda, sembrerebbero fermarsi alla superficie: «Il termine eleganza per Gastel sconfina dai canoni estetici a quelli etici; è attitudine e cifra stilistica, ma soprattutto codice di ordine morale, rigore e disciplina creativa». Occorreva conoscerlo per capirlo, e la sua bella figura astata, con le giacche attillate, il volto magro e allungato, con la barba e il pizzo di un giovane moschettiere, mago della notte con i tratti che ricordano l'ultimo romantico, Arturo Benedetti Michelangeli. Elegante. Gentile. Lui ne era perfettamente consapevole, intendendolo come un istinto, non come una scelta: «Non ce l'avevo con il mondo. Era un mio limite. Non mi restava che scendere in una cantina e reinventarmi un piccolo universo di cui avrei capito le regole perché le dettavo io. Così ho adottato la parola eleganza e al mondo della moda l'idea è piaciuta. Spiegavo che il mio non era un concetto estetico, ma etico. Davanti a una platea di milanesoni mi chiesero: cosa intende quando dice che l'eleganza è un valore morale e non estetico? Un gentiluomo, per esempio, non può non pagare le tasse. Silenzio in sala. Sono grato alla moda perché ha finanziato il mio universo, ma se mi chiede se ne faccio parte rispondo no. È come il Monopoli: viene stritolato chi si convince che il gioco è la vita; quando ti chiudono la scatola sei morto. Se credi a chi ti dice che sei un genio sei fregato, perché il genio del mercoledì è un cretino il venerdì». Penso a suo nipote, Guido Taroni, quasi mio figlio, anche lui fotografo, sofisticato, pieno di grazia, penso a quanto soffre oggi, avendo perduto il suo riferimento, la sua guida, testimone di un gusto che era l'essenza della sua famiglia, fino a diventare il suo spirito: «Sono un po' ossessionato dalla gentilezza. Se mai avrò dei figli mi piacerebbe trasmettere loro la stessa educazione che ho ricevuto io; sento che in me ha prodotto effetti tangibili». Giovanni vive in lui.

·        È morto Raul Casadei.

(ANSA il 13 marzo 2021) - E' morto, all'ospedale di Cesena, Raoul Casadei, musicista noto per essere il "re del liscio". Casadei aveva 83 anni ed era ricoverato dal 2 marzo all'ospedale Bufalini di Cesena. Le sue condizioni si sono progressivamente aggravate ed è morto in mattinata.

Raoul Casadei morto di Covid a 84 anni. Uno sconvolgente caso di contagio di massa nella famiglia del re del liscio romagnolo. Libero Quotidiano il 13 marzo 2021. Il Covid ha ucciso anche Raoul Casadei. Dopo le prime voci, arrivano conferme: il re del liscio romagnolo è morto a 84 anni, dopo essere stato ricoverato dallo scorso 3 marzo all'ospedale Bufalini di Cesena. Il coronavirus aveva contagiato tutta la famiglia del musicista, che vive nel ‘recinto’ di Villamarina, un insieme di case nella piccola località a due passi da Cesenatico, sulla Riviera romagnola. Di tutto il nucleo familiare, composto da quindici persone, solo il figlio Mirko, che da papà Raoul ha ricevuto le redini dell'orchestra di liscio più famosa d'Italia, è stato risparmiato dal virus. Al momento del ricovero, le condizioni di Casadei non sembravano preoccupanti. "Sta benino", aveva confermato la figlia, sottolineando come la decisione di trasferire il celebre padre in ospedale fosse dettata più dalla precauzione che dalla reale preoccupazione, a fronte di un dato sul saturimetro non ottimale. Ma come spesso accade con questo maledetto virus, soprattutto con le persone più anziane e fragili, la situazione sanitaria è peggiorata improvvisamente e il tracollo è stato repentino. A nulla è valsa la respirazione assistita con il casco, modalità che serve a scongiurare il ricovero in terapia intensiva. Gli auguri di pronta guarigione a Casadei erano arrivati da tutto il mondo della musiva italiana (un suo storico collaboratore, il clarinettista e compositore Moreno il Biondo Conficconi, è stato protagonista una settimana fa sul palco del Festival di Sanremo con gli Extraliscio, dopo essere risultato positivo al Covid a sua volta alla vigilia della kermesse all'Ariston). Poi la peggiore delle notizie.

Live Non è la D'Urso, Raoul Casadei e la verità sul contagio. Il figlio Mirko: "Così è morto di Covid in ospedale". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. I Casadei abitano tutti insieme, in una grande villa. E’ lì che è avvenuto il contagio, fatale per Raoul. “L’unico a non essere contagiato sono stato io”, dice Mirko (figlio di Raoul Casadei) a Live Non è la D'Urso. Il re del liscio è morto di Covid, aveva 83 anni. Aspettava il vaccino. “Sembrava che le cose stessero migliorando. Poi si è aggravato. Febbre alta e tosse. Il 118 l’ha portato in ospedale, è salito in ambulanza con le proprie gambe. In ospedale era sorridente ed allegro. Poi sono peggiorate le cose”, racconta Mirko che porta avanti la band fondata da suo padre. Non era stato ancora chiamato per il vaccino. A Live parla anche Matteo Bassetti: “La prima ondata è arrivata alle nostre spalle, la seconda pure. Ma la terza andava evitata con una campagna vaccinale che oggi, meno male, sta ripartendo”. Poi il figlio di Casadei dice: “Mio padre non è morto. La sua musica lo rende immortale. Oggi faccio un appello al senso civico di tutti: vaccinatevi”. Un appello che Bassetti, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, coglie con particolare attenzione. “La politica dovrebbe rendere obbligatori i vaccini per chi lavora negli ospedali. Non capisco perché non l’abbia fatto prima. Meglio tardi che mai”, dice il prof. Bassetti che su questo tema si scontra con Laura Boldrini.

 “RAOUL CASADEI È STATO UCCISO PERCHE' NON L'HANNO VACCINATO”. Giuliano Zulin per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2021. «Il piano precisa le categorie in ordine di tempo: da febbraio vaccino agli ultra 80enni, poi toccherà ai professori. Siamo il primo Paese in Europa per numero di vaccinati» Domenico Arcuri, ex commissario straordinario per l' emergenza Covid, 3 gennaio 2021 ...E DI REZZA: «Entro gennaio o inizio febbraio comincerà la fase di vaccinazione dei cittadini con più di 80 anni Per ora le tabelle di marcia vaccinali sono rispettate e addirittura anticipate» Gianni Rezza, direttore della Prevenzione ministero della Salute, 15 gennaio 2021.  C' è poco da discutere.

La morte di Raoul Casadei era evitabile. Il re del liscio era stato ricoverato il 2 marzo all' ospedale di Cesena. Ha combattuto, ma alla fine ha vinto il Covid. Il tutto perché non ha beneficiato del vaccino, che secondo i piani gli 80enni avrebbero dovuto già ricevere. Brutto da dire, ma se fosse stato in Gran Bretagna sarebbe ancora vivo l' artista nato a Gatteo Mare il giorno di Ferragosto del 1937. È stato ucciso. Non c' è un solo colpevole, perché i colpevoli sono tanti. Ma forse il killer è la cosiddetta burocrazia, la quale ci ha portato a ritardi insopportabili nella consegna dei vaccini alla Ue e quindi all' Italia. Per non parlare della lentezza nell' esaminare i vaccini da parte dell' Ema, ovvero l' autorità sanitaria continentale. E che dire dello scarso personale disponibile a inoculare una dose? Raoul Casadei portò al successo internazionale "Romagna mia", vendendo 4 milioni di dischi Ieri l' Istituto nazionale di sanità ha fatto sapere che una persona su tre nella fascia 80-89 anni ha già ricevuto almeno una dose di vaccino. «Analizzando i dati per fascia di età - si legge nel consueto report settimanale - il gruppo che in proporzione ha ricevuto il numero maggiore di dosi è la fascia dei 90 anni (il 40% circa ne ha ricevuta almeno una), seguito dalla quella 80-89 anni (il 32% almeno una)». Peraltro, sottolinea il rapporto, analizzando il numero di casi di infezione da Covid nella popolazione suddivisa per fascia di ultraottantenni, è attesa una diminuzione di casi e di gravità delle infezioni nelle prossime settimane in risposta all' aumento della copertura vaccinale. Bene, però siamo fermi a un solo vaccinato su tre sopra gli 80 anni. Le promesse erano altre.

Tre gennaio 2021. «Vaccino da febbraio agli ultra 80enni, poi i prof», affermava l' allora super commissario, Domenico Arcuri: «Il piano precisa le categorie in ordine di tempo: prima medici, infermieri e personale operante nei presidi ospedalieri e ospiti di Rsa (un milione e 800mila persone). Si prosegue già dal prossimo mese di febbraio con le persone che hanno più di 80 anni, poi con operatori servizi pubblici essenziali, personale docente e non docente perché le scuole possano funzionare in sicurezza, forze dell' ordine, fragili e detenuti».

Il concetto è ribadito il 7 gennaio. «Da febbraio inizieremo a vaccinare le persone con più di 80 anni», confermava Arcuri, rivendicando che rispetto alla popolazione «siamo il primo Paese in Europa per numero di vaccinati». Non era l' unico l' ex super commissario a promettere vaccini agli over 80. A metà gennaio il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, sosteneva che «entro fine mese o inizio febbraio comincerà la fase di vaccinazione degli over-80. Per ora le tabelle di marcia vaccinali sono rispettate e addirittura anticipate». Poi abbiamo letto tutti dei ritardi sulle consegne da parte di Pfizer e di Moderna, ovvero gli antidoti giudicati idonei per i più anziani. Così la regione Emilia Romagna a metà dello scorso mese aveva comunicato che solamente «da lunedì 1 marzo le persone nate dal 1937 al 1941» potevano prenotarsi per il vaccino.

Ecco, Casadei era del 1937. Peccato che martedì 2 sia stato ricoverato per il Covid. Per cui tanto valeva prenotarsi... Se fosse stato un suddito della Regina d' Inghilterra invece, per quel 2 marzo avrebbe già ottenuto una dose, buona come il pane per evitare complicazioni. Il crollo di terapie intensive e di morti nel Regno Unito, campione di somministrazioni, sono sotto gli occhi di tutti. Il problema è che come Casadei ce ne sono migliaia, ultraottantenni che muoiono per non aver ricevuto, appunto, almeno una dose di vaccino. Ricordiamolo: l' età media dei morti è di 81 anni in Italia. Quanti defunti dobbiamo ancora piangere?

Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2021. La dinastia del liscio ha perso il suo re. È morto ieri, colpito dal Covid, Raoul Casadei. Aveva 83 anni. Il musicista - per anni volto e guida dell' orchestra-spettacolo fondata da suo zio, Secondo Casadei - prima ancora che cantante e chitarrista, aveva il marketing nel sangue. Sfruttò il suo cognome facendolo diventare un marchio e partendo dai successi di Secondo creò un suo repertorio originale di hit come Simpatia , Musica Solare , Simpatici italiani. Il «re del liscio», di fatto, traghettò uno stile dal mondo della musica a quello del costume. Per il suo liscio - destinato a uscire dal ghetto regionale romagnolo - reclutò ottimi musicisti e cantanti di talento, tra cui Luana Babini e Mara Venezia. Conscio della vocazione manieristica del liscio, Raoul cercò di contaminarlo per renderlo più vario, creando collaborazioni con altri artisti, come i Pitura Freska e Elio e le Storie tese. L'estate era il suo momento e ogni anno, per celebrarla, lanciava uno slogan. Questa nuova forma di liscio - portata avanti poi anche con l'aiuto dei suoi figli, Carolina (amministratrice) e Mirko (cantante) -, non piacque però a Riccarda Casadei, discendente diretta di Secondo. Pur abitando a pochi passi l'uno dall' altro, in quel di Gatteo a Mare, i rapporti erano sempre stati freddi. La ragione? La scelta del musicista di proporre ai suoi concerti brani di sua composizione, che però riecheggiavano le armonie di Secondo. Di fatto, Raoul divenne presto un brand di grande popolarità, specie negli anni 70 e 80. La formula di «Orchestra spettacolo Casadei» si rivelò vincente. Molto amico di Vittorio Salvetti, fu spesso protagonista del Festivalbar. Presto si iniziò a parlare del «clan Casadei», una vera e propria impresa a conduzione familiare che proponeva con la musica i valori della Romagna. Nel 2000 Mirko Casadei, che oggi ha 48 anni, è entrato nell' orchestra da cui suo padre Raoul si era ritirato qualche anno prima, almeno per quanto riguardava il capitolo delle performance dal vivo. L'uscita dalla band del «re del liscio», infatti, fu graduale ma l'impegno nella gestione dell'orchestra e nel comporre brani di successo non era mai venuto meno, anche se sul palco era stato «sostituito» da Moreno Conficconi. Questa nuova formazione vide l'Orchestra protagonista anche al carnevale di Rio De Janeiro. Nel passaggio alla terza generazione dell' orchestra Casadei, a non cambiare era stata l'atmosfera che si respirava in quella famiglia: serenità, solidarietà, tavole imbandite, musica e sangiovese. «Papà era un ottimista - lo ricorda ora Mirko -. Chi lo incontrava era sempre colpito dalla sua faccia sorridente. Lui credeva nella famiglia, nell' amicizia. Con le sue canzoni trasmetteva buon umore». Oggi però, a piangerlo sono in moltissimi: dai politici ( in primis il presidente dell' Emilia-Romagna, Bonaccini) a Claudio Cecchetto («Perdiamo un re»). «Le sue erano canzoni semplici, popolari, che continueranno a tenerlo vivo - prosegue il figlio -. Una musica che coinvolge anche i bambini. Dalla Romagna alla Sicilia, la sua "musica solare" è l' eredità preziosa che ci lascia. Sono sicuro che ora lui ci direbbe di far festa. Niente funerali. E allora viva Raoul, sempre. Sarai immortale».

Matteo Cruccu per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2021. Lassù nel suo borgo, dove si è ritirato ormai da vent' anni, «dall' altra parte» della barricata regionale, ovvero Pavana, sull'Appennino modenese, saluta con profondo dispiacere un suo (quasi) coetaneo che se ne va: «Aveva tre anni più di me, Raoul. E mi fa male ancora di più sapere che sia morto di Covid: io mi sono appena fatto il vaccino, lo Pfizer. Non dovrebbe succedere, dovrebbero vaccinarsi tutti...», sussurra, non trattenendo un certo affanno, Francesco Guccini, 80 anni. Già, l'emiliano Guccini, a occhio, sembrerebbe distantissimo dal romagnolo Casadei, il cantautore consacrato all' impegno e il direttore d'orchestra sempre pronto a divertirsi. Il primo non ha mai conosciuto il secondo di persona, ma l' ha sempre osservato con interesse: «No, non ci siamo mai incrociati nelle nostre carriere - dice il Maestrone - però Casadei era un bel personaggio, uno che si appassionava a quel che faceva, era decisamente bravo». Guccini, del resto, ha sempre provato un po' di invidia per questi romagnoli: «Simpatici, estrosi, ben più "sbordelloni" di noi emiliani, piuttosto lunari». E non tutti sanno che, anche un modenese di montagna come lui, in gioventù, al cosiddetto «liscio» si è dedicato assai. Il cantautore la prende alla lontana: «Casadei l' ha sicuramente consacrato a genere autonomo, però "il liscio" in fin dei conti, nelle nostre lande, in Emilia come in Romagna, è sempre esistito. Dai tempi delle bande austriache dell' 800 che qui declinammo coi soli strumenti che avevamo a disposizione, il clarinetto e la fisarmonica». Ed ecco i ricordi, prima di diventare il profeta dell' Avvelenata e della Locomotiva , anche Guccini suonava in un' orchestra, negli anni Sessanta, con nomi bizzarri come i Marinos e i Gatti: «Cantavo e strimpellavo la chitarra: tra un Nico Fidenco e un Peppino di Capri, arrivava il fatidico momento degli "obbligatori": valzer , mazurka, tango, polka. Non si poteva scappare». Come per l' orchestra Casadei, era la sfida italiana agli americani e ai loro «balli staccati», il boogie woogie su tutti. Che alla fine si rivelò vincente. «Raoul e, prima ancora, suo zio Secondo hanno saputo intercettare l' ansia di spensieratezza che c' era nell' Italia del Dopoguerra, una voglia di ballare che "faceva luce"». Ed è proprio lo zio Secondo ad aver dipinto l' inno dell'«altra parte», quella Romagna mia che, a differenza di quanto narra la leggenda, Guccini non ha mai suonato in concerto: «Ma ne ho sempre compreso la forza, i riferimenti sicuri, la famiglia della "mamma" e il territorio del "casolare"». Anche se per il Maestrone il folk romagnolo non è esattamente il «liscio», appunto di derivazione straniera: «Il folk è piuttosto "il canto a batocco", la "stornella", dove uno risponde all' altro, quella di Casadei era autentica musica popolare» . Dei Casadei Guccini ammirava anche «l' instancabile impegno»: «Erano capaci di suonare tutte le sere negli anni d' oro, io non ci sarei mai riuscito». Uno stakanovismo che in Romagna si fondava su un humus favorevole alla diffusione del «verbo del liscio», legato anche all'associazionismo romagnolo, al Pci, apparentemente distante dalla visione di Raoul e famiglia: «Senza l' appoggio dei circoli Arci e delle Feste dell' Unità, difficilmente avrebbero preso il volo». Ma, finite le Feste (e le ideologie), sul territorio la leggenda sopravviverà anche alla morte del suo più celebre cantore? «Certo, il legame è inscindibile - conclude Guccini -, qualunque romagnolo al suo funerale vorrà sempre Romagna mia...».

Raoul Casadei morto per Covid, la foto-ricordo di Matteo Salvini: "Grande tristezza, chi era davvero". Libero Quotidiano il 13 marzo 2021. Il coronavirus si è portato via Raoul Casadei, morto a 83 all’ospedale Bufalini di Cesena, dove era stato ricoverato lo scorso 2 marzo dopo essere stato risultato positivo. A fine febbraio tutta la sua famiglia si era contagiata, tanto che gli altri tredici componenti sono ancora in quarantena. Casadei era nato a Gatteo il 15 agosto 1937 ed era considerato il re del liscio: rimarranno indelebili alcuni suoi grandi successi come “Romagna mia” e “Ciao Mare”. Ovviamente anche dal mondo della politica sono arrivate le condoglianze, a partire da Matteo Salvini, che ha pubblicato sui social una foto che lo ritrae sorridente in compagnia di Casadei: “Grande tristezza per la sua scomparsa - ha scritto il segretario della Lega - romagnolo geniale, simbolo di belle tradizioni, di un’Italia pulita. Con la sua arte e la sua musica ha donato allegria a intere generazioni. Una preghiera e un abbraccio ai suoi cari, lo ricorderemo sempre con affetto”. Anche Stefano Bonaccini in qualità di governatore dell’Emilia Romagna ha voluto mandare un suo messaggio alla famiglia di Casadei: “È veramente con grande tristezza che apprendo della scomparsa di Raoul. Con lui se ne va uno straordinario personaggio, un compositore che con grande professionalità ha portato in Italia e nel mondo un messaggio musicale profondamente radicato nella tradizione, legato all’allegria e alla voglia di vivere fino a diventare uno dei simboli, un ambasciatore della sua e nostra terra”. 

Raoul Casadei, perché se ne è andato un pezzo di storia e cultura: la bandiera del popolo romagnolo. Raffaello Tonon su Libero Quotidiano il 14 marzo 2021. Permette un ballo? Questo era l'approccio che esisteva anni fa,il modo di iniziare a conoscere, emozionarsi e magari amare. Si ballava nelle balere, nelle piazze, in casa alle feste. Tempi che furono. Sì, purtroppo. Oggi ballano le dita non le gambe, si scrive, si chatta in una comunità reale, ma virtuale, niente mani sorrisi o ceffoni per una stretta ose in pista. Bisogna adeguarsi al progresso, capisco ma non accetto. Ecco perché considero Casadei un pezzo importante della nostra storia e della nostra cultura. Proprio nella terra di Romagna sono arrivate frotte di turisti dal nord Europa negli anni del boom perché c'era an questa realtà, che rallegrava i loro freddi inverni con il ricordo e la voglia di ritornare baciati dal sole e dall'allergia.Raoul lo ricordiamo con il microfono, il sorriso e la pipa. Oggi va ricordato come colui il quale continuando a credere nella cultura popolare ha contribuito alla cultura genuina del nostro paese. Il dialetto, le storie e i costumi di ogni regione cuciti insieme sono la nostra bandiera. La piazza in periodo di pandemia è sconsigliata e addirittura vietata e lui se ne va, come per protesta, ne era il re dell'animazione. La sua musica accompagnava risate, conoscenze, amicizie, amori e scappatelle. È morto un'esempio che ci deve fare riflettere sulla bellezza della nostra lingua, dei nostri dialetti e su ciò che in fondo seppur diviso da chilometri tra una regione e l'altra ha fatto grande il nostro popolo: essere lavoratori e al momento giusto scanzonati, goderecci e fantasiosi. Con Casadei non se ne va nulla se non il suo corpo, rimarrà sempre la nostra identità , da conservare. Rimane lo spirito Italiano. 

Contagiati anche i familiari. Addio a Raoul Casadei, il re del liscio stroncato dal covid: era in ospedale da 10 giorni. Redazione su Il Riformista il 13 Marzo 2021. Raoul Casadei è morto a 83 anni. Il re del liscio non ce l’ha fatta a vincere la sua battaglia contro il coronavirus e si è spento questa mattina, sabato 12 marzo, all’ospedale Bufalini di Cesena dove era ricoverato dallo scorso 2 marzo in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Oltre al musicista sono stati contagiati anche altri suoi familiari. “L’abbiamo preso tutti eccetto mio fratello Mirko”, aveva detto la figlia Mirna Casadei a Detto Fatto su RaDue. “Nonostante abbiamo sempre usato le precauzioni e le distanze, il virus ha fatto il giro – ha aggiunto – Gli adulti sono stati tutti sintomatici: febbre, dolori alle ossa e ai muscoli, e un inizio di polmonite, mentre i bambini, pur essendo positivi, fortunatamente non hanno sviluppato sintomi”. “Raoul ha iniziato ad accusare i primi sintomi una settimana prima del ricovero. Come noi ha avuto un po’ di febbre, dolori e male alla testa. Ma martedì pomeriggio, 2 marzo, quando sono venuti i medici per la solita visita gli hanno trovato la saturazione dell’ossigeno un po’ bassa e un inizio di polmonite”, ha spiegato Mirna Casadei. “Vista l’età, 83 anni compiuti in agosto, nonostante sia in ottima forma fisica, hanno preferito portarlo in reparto per tenerlo monitorato. Sull’ambulanza, comunque, è salito da solo, con le sue gambe”, ha detto.

LA STORIA – Casadei è stato maestro elementare per 17 anni e si appassiona alla musica a 16 anni, quando suo zio Secondo gli regala una chitarra. Alla fine degli anni ’50, inizia a partecipare agli spettacoli dell’Orchestra Casadei. Suo zio decide di rinominare la sua formazione Orchestra Secondo e Raoul Casadei. Ed è anche grazie a lui che in Italia comincia a diffondersi il liscio, fino ad arrivare al boom degli ‘Anni 70. Tra le canzoni più note, "Simpatia", "La mazurka di periferia", "Romagna e Sangiovese", "Romagna Capitale", "Tavola grande". L’Orchestra Casadei partecipa al Festivalbar (1973), esordisce a di Sanremo (1974) e a Un disco per l’Estate (1975). Nel 1980, Casadei si ritira dal palcoscenico e continua a gestire l’orchestra da dietro le quinte. L’anno successivo inaugura la motonave Ciao Mare "La Nave del Sole", una balera galleggiante a bordo della quale si ballava il liscio. Dopo 40 anni, nel 2001, lascia la direzione dell’orchestra al figlio Mirko. Nel 2013, insieme con Paolo Gambi, ha scritto il libro "Bastava un grillo per farci sognare", edizioni Piemme.

È morto Raul Casadei: il re del Liscio stroncato dal Covid. Con lui se ne va un mondo di musica e folklore. Bianca Conte sabato 13 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. È morto Raul Casadei: il re del Liscio stroncato dal Covid. Con lui se ne va un mondo di musica e di canzoni. Un mondo profondamente radicato nella tradizione popolare e folkloristica emiliana che il grande artista, straordinario personaggio simbolo di un universo regionale inimitabile, ha omaggiato con testi e musiche esportate ovunque nel mondo. E che hanno ballare intere generazioni. Un mondo popoloso e ricco di suggestioni, che oggi accoglie sgomento la notizia della morte del suo Re. Raul Casadei non ce l’ha fatta a vincere la sua battaglia contro il Covid. Dal 2 marzo scorso era ricoverato all’ospedale Bufalini di Cesena dopo aver contratto il coronavirus. Oltre a lui, si legge sul sito della Stampa, erano stati contagiati anche gli altri famigliari della celebre “dinastia” romagnola. Una notizia, quella del re del Liscio che se ne va stroncato dal Covid, che lascia atterriti gli italiani tutti. emiliani e non, appassionati o meno a quell’universo artistico fatto di canzoni e melodie amate da intere generazioni e che hanno esportato l’Emilia e il suo folklore ovunque nel mondo. L’artista si è spento all’età di 83 anni. Raoul Casadei era nato a Gatteo (Forlì-Cesena) il 15 agosto 1937. Era fine febbraio quando la notizia appare improvvisamente su giornali e tv: il virus ha colpito tutti i 14 componenti della famiglia della dinastia romagnola dei Casadei. Tutti sono rimasti nelle loro case di Cesenatico. Tranne Raoul, che i medici hanno ricoverato per una polmonite da Covid. Fino ad oggi, il giorno dell’addio a un maestro di sempre. A un grande italiano che ha dovuto arrendersi al maledetto Coronavirus. Una vita spesa per il Liscio e in onore della sua Romagna. Che oggi porta a dire al sindaco di Rimini e presidente di Destinazione Romagna, Andrea Gnassi che «ci sono e ci saranno tanti modi per ricordare la figura di Raoul Casadei. Ma a me piace pensare a quello che ci ha dato con la sua musica in una vita piena di cose: gioia e allegria». Perché il Liscio, scrive ancora Gnassi, «era ed è parte di quello che siamo, a Rimini e in Romagna. Ma Raoul Casadei già negli anni Settanta, con la sua contaminazione pop, lo ha fatto diventare patrimonio popolare di tutto il Paese. Da genere local a passione mainstream, con hit che scalano le classifiche dei dischi italiani più venduti». E il compianto per la scomparsa di Raul Casadei si estende dal mondo della musica a quello della politica. Unanime il cordoglio per l’addio al re del Liscio che ha fatto dire al presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini: «Con lui se ne va uno straordinario personaggio. Un compositore che con grande professionalità ha portato in Italia e nel mondo un messaggio musicale profondamente radicato nella tradizione. Legato all’allegria e alla voglia di vivere. Fino a diventare uno dei simboli, un ambasciatore della sua e nostra terra». Pensieri e sgomento condivisi anche da Matteo Salvini che, su Twitter ha espresso «grande tristezza per la scomparsa di Raoul #Casadei, romagnolo geniale. Simbolo di belle tradizioni. Di un’Italia pulita. Con la sua arte e la sua musica ha donato allegria a intere generazioni. Una preghiera e un abbraccio ai suoi cari, lo ricorderemo sempre con affetto». 

È morto Raoul Casadei, il Coronavirus Covid 19 uccide il “Re” del liscio. Il Quotidiano del Sud il 13 marzo 2021. Il re delle balere non c’è più. Raoul Casadaei, l’uomo simbolo delle notti romagnole, la pop star del liscio, il maestro elementare che ha lasciato gessetti e abecedari per la fisarmonica è morto stroncato dal Covid. Ricoverato all’inizio di marzo all’ospedale Bufalini di Cesena, dopo che il coronavirus si è insinuato nel “Recinto”, l’agglomerato di case della famiglia Casadei a Villamarina di Cesenatico, le condizioni del musicista si sono aggravate, fino a stamattina quando Raoul, 84 anni ad agosto, ha perso la sua battaglia. Con lui va via un’era, con lui scompare l’uomo che ha sdoganato il liscio: da genere musicale relegato alle sale da ballo di provincia a canzone popolare. La musica, Casadei, nato a Gatteo il giorno di ferragosto, ce l’aveva nel sangue: roba di famiglia si direbbe. Un marchio arcifamoso anche oltre i confini romagnoli. Il capostipite della dinastia fu lo zio Secondo, direttore di un’orchestra di liscio. Dapprima gli regala una chitarra, poi gli dona un sogno: quello di diventare musicista. E così bravo che lo zio modifica il nome della sua formazione ribattezzandola Orchestra Secondo e Raoul Casadei. Arrivano gli anni ’70, i più bui della Repubblica. Capisce che l’Italia ha bisogno di spensieratezza, di ritrovarsi nei sabati sera d’inverno a ballare nelle balere di provincia o in estate nelle piste dei lidi. Coniuga la tradizione con la modernità. Sempre fedele alla scuola della canzone italiana, fa di questa danza folk la base per i suoi successi, che sconfinano la Riviera, conquistando la Penisola e non solo. Dal 1973 è prolifico: pubblica brani come “Ciao mare”, “Simpatia”, “La mazurka di periferia”, ma soprattutto porta al successo la canzone simbolo della Casadei family, “Romagna mia”, scritta nel 1954 dallo zio Secondo; così orecchiabile che da inno della Riviera diviene quasi un inno tutto italiano, e il cui testo è conosciuto da Bolzano a Siracusa. Di recente alcuni parlamentari hanno presentato una proposta di legge per riconoscere la canzone “espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della nostra Repubblica”. Un successo crescente che lo porteranno a calcare palcoscenici pop come il “Festivalbar, “Un disco per l’estate”, il “Festival di Sanremo”. Presenza quasi fissa in molte trasmissioni tv e non si è fatto mancare neppure una partecipazione ad un reality, l’Isola dei famosi. Nel 2010 il re del liscio passa lo “scettro” al figlio Mirko, decide di stare un po’ più nell’ombra, di acconsentire al cambio generazionale della sua orchestra. Ma rimane comunque un simbolo di un’era, mito delle balere, con quelle sue canzoni che schiacciano l’occhio al valzer, tanto che qualcuno ha osato definirlo lo Strauss della Romagna. Con Casadei va quindi via un pezzo d’Italia, l’ennesimo annientato dal virus. Numerosi gli attestati di stima e i messaggi di cordoglio giunti subito dopo l’annuncio della sua scomparsa. Per il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini “con lui se ne va uno straordinario personaggio, un compositore che con grande professionalità ha portato in Italia e nel mondo un messaggio musicale profondamente radicato nella tradizione”. Gli fa eco Matteo Salvini: “Con la sua arte e la sua musica ha donato allegria a intere generazioni”. “Il Covid, maledetto – twitta affranto Enrico Letta – si è portato via un grande romagnolo e un grande italiano”. Messaggio di cordoglio pure dal Ministro della Cultura Dario Franceschini: “La musica italiana perde uno straordinario interprete e un autore che ha saputo coniugare tradizione e innovazione in un percorso di grande qualità artistica”. In collaborazione con Italpress

Lorenza Cerbini per corriere.it del 15 agosto 2017. «A meno che non sia morto senza accorgermene, sono pienamente vivo». Raoul Casadei compie 80 anni il 15 agosto e li festeggia a Santarcangelo di Romagna (Rimini) sul palco insieme al Canzoniere Grecanico Salentino (gruppo di musica popolare salentina, ndr). Una serata di musica in cui «Il Liscio incontra la Taranta Salentina». Romagna e Puglia insieme, due terre, due amori che passo dopo passo hanno marcato la vita di quest’uomo diventato il «Re del liscio». Con lui gli italiani si sono divertiti, conosciuti, fidanzati, sposati per generazioni. Oggi vive a Gatteo a Mare in quello che lui chiama il «Recinto Casadei». Ci sono cani, galline e un orto che lo tiene impegnato. C’è la Pina e ricordi diventati leggenda.

Cosa è esattamente il «Recinto Casadei»: una comune, una casa padronale?

«È la cosa più bella della mia vita. Sono diventato famoso anche per aver cantato la famiglia. Qui viviamo in tanti. Ci sono le mie figlie Carolina e Mirna con i fidanzati. C’è mio figlio Mirko che ha 44 anni ed è già nonno. Ci sono Sabrina, Kim e Asia diventata mamma di Noa quattro anni fa. Non sono un patriarca, però. Qui ognuno fa quello che vuole. E ci rispettiamo. Mangiamo spesso insieme. Coltivo l’orto per tutti. Faccio il vino biologico e vado a prendere il pesce dalle barche».

È vero che ha molte galline?

«Ne ho 13 o 14 e non le ammazzo mai. Fanno 10 o 12 uova al giorno, sia in estate sia in inverno, anche perché le inganno. Quando arriva il freddo, in ottobre, le chiudo in uno stanzone illuminato e riscaldato con fieno, così loro credono che sia sempre estate e non smettono mai di fare uova. Mia moglie Pina le usa per fare i babà, lei che è napoletana. E se ne ho troppe le regalo ai vicini».

E i cani?

«Ne abbiamo quattro. Con Folk e Springhel vado a caccia in Puglia: a Varano e Lesina, nel Gargano, ma anche a Roseto Valfortone dove ho incontrato mia moglie».

Si ricorda quel giorno?

«Era il primo giorno di scuola. Allora facevo il maestro. Pina veniva da Napoli ed era accompagnata dal padre. Eravamo tutti in un alberghetto, con un ristorantino. Avevo con me il cane che si è avvicinato al loro tavolo e sono corso a chiedere scusa. Le ho rubato il primo bacio mentre eravamo per terra, cercando di raccogliere le perline di una collana che si era rotta mentre cercavo di avvicinarla. Abbiamo avuto tre figli: Carolina, la mia manager; Mirna che lavora nell’immobiliare e Mirko che conduce l’Orchestra Casadei che il prossimo anno festeggerà i 90 anni di attività».

Ha un indirizzo email? Ascolta musica su Spotify?

«Ascolto musica tutto il giorno, ma sulle radio. Ho un telefono antico che vale cinque euro. La tecnologia è un miracolo, ma non mi faccio coinvolgere. Leggo ancora l’enciclopedia Treccani».

Che genere ascolta?

«Amo Bob Marley e Mango per le sue atmosfere. Conosce il brano “Oro”? Ecco, mi fa sempre rabbrividire. Poi, canto le mie canzoni, “Romagna capitale” che è un acquerello sulla Romagna di oggi. Nonostante gli 80 anni, vivo l’attualità. Ai miei amici coetanei voglio molto bene, ma non mi trovo più, li sento un po’ passati, parlano di politica di una volta, di quando facevano il militare».

Il liscio può avere un revival?

«Fa parte dell’Italia. Con mio zio Secondo era solo ballo. Con me è diventato canzone: “Ciao mare”, “Simpatia”, “La Mazurka di periferia” e altri mille brani fin troppo raffinati… Negli anni Settanta, facevo oltre 300 serate all’anno. È stato un momento fortunato. All’epoca in Italia esistevano undici orchestre di liscio. Io avevo qui la mia America e non sono mai stato Oltreoceano perché ho paura dell’aereo».

Chi è il suo erede ufficiale?

«Ho ereditato l’Orchestra da mio zio Secondo e l’ho lasciata a mio figlio Mirko. Gli altri sono imitazioni».

È un uomo pieno di vizi, beve e fuma la pipa...

«Ma questi sono vizi belli! Fumo il sigaro toscano, bevo una grappina e il Sangiovese da 14 gradi di mia produzione. Faccio un’ora di ginnastica tutte le mattine mentre ascolto “Prima Pagina”, il programma delle 7.15 su Radio 3. Quindi, faccio un’ora di nuoto. Seguo un po’ di politica… Non capisco però, ogni volta che abbiamo un leader lo distruggiamo… Comunque, vado anche nell’orto, due ore al mattino e due alla sera. Adesso sono pieno di melanzane e cetrioli. Finita la festa di compleanno, inizieremo a preparare le verdure per l’inverno: le cime di rapa importate dalla Puglia, la cicoria, i cavoli romani e i broccoli».

Il segreto per arrivare felice a 80 anni?

«L’ottimismo. Ho avuto molti traumi, con gente che mi ha ricattato, ma non ho mai odiato nessuno».

È vero che negli anni Settanta, dal palco cercava di far accoppiare la gente?

«Era il famoso “ballo sociale”. Ho creato il protagonismo del pubblico e non vado d’accordo con le scuole di ballo di oggi che fanno gruppo. Due anni fa ho incontrato un uomo che mi ha detto: “Mi sono sposato per merito suo. In piazza a Foggia c’era la festa del patrono. Poi, nell’euforia lei ha detto: Adesso prendete la donna che vi è accanto. E così ho fatto. Ci siamo sposati e ho chiamato mio figlio Raoul”».

Utilizzerebbe le app di incontri di oggi per trovare una donna?

«No, assolutamente. Sono un uomo dal vivo, reale, con sentimento, come la mia musica. Non sono un organizzatore di cose, ma di manifestazioni».

E quali ricorda con piacere?

«Ho inventato la parola “liscio” nel 1972, alle Rotonde di Garlasco, a Pavia. Un posto all’avanguardia, con quattro piscine. Ci veniva anche la Milano bene. Le coppie si baciavano... Andava tutto bene e mi è venuto spontaneo dire: “Vai col liscio”. Tra il pubblico c’erano anche Rosanna Mani e Gigi Vesigna, inventore di Sorrisi e Canzoni. La settimana dopo mi hanno dedicato la copertina. E ho avuto un bell’incontro con Elio e le Storie tese. A Sanremo abbiamo presentato “La terra dei cachi”. Lui sul palco e io in prima fila con i giornalisti che mi seguivano. Elio è un grande musicista».

Cosa è l’amore per lei?

«La cosa più importante della vita. Deve riempire l’anima».

E il sesso?

«Importantissimo. Non parlo di sesso meccanico, ma di quello passionale. È unione dei sentimenti, una parte fondamentale della vita».

Nel 2013 ha festeggiato le nozze d’oro con Pina…

«Ci siamo trovati bene: lei napoletana, io romagnolo, più caldo di lei tutta casa e chiesa, ma poi quando è venuta con me ha smesso. Oggi sta facendo la salsa di pomodoro, ne ha un quintale e mezzo».

I valori che trasmette ai suoi nipoti?

«L’amore per la musica, la casa, la famiglia. Ma anche saper comunicare con gli altri e agire nel rispetto, senza danneggiare. Kim ha 20 anni, è bello bravo e suona piano e chitarra. Sogniamo di averlo sul palco, ma lui non ne vuole sapere e il prossimo anno vuole andare in Inghilterra con l’Erasmus».

Oltre a «Romagna Mia» quale il brano a cui è più legato?

«“Romagna capitale”: Romagna ballerina/Romagna che si sveglia col sorriso ogni mattina…»

In un Paese che è cambiato, cosa le manca della Romagna di ieri?

«Nulla, niente. Vivo di attualità. I bagnini sono sempre accoglienti, fanno il loro lavoro con passione. I turisti apprezzano. Mi dispiace che la Taranta salentina ci abbia battuto. Bravi i pugliesi. Si sono organizzati, hanno investito, ci han creduto. Il liscio, come la taranta, è un’identità. Con la globalizzazione dobbiamo avere qualcosa con cui identificarci oltre alla piadina».

Tiene ancora qualche concerto?

«Raramente. Stasera andrò però sul palco a salutare la gente e semmai dedicherò loro “Romagna Capitale”. Sono stato sul palco quindici giorni fa a Bellaria, per“La Notte del liscio”. C’erano Morgan e Bennato. Sono salito con loro a fare un po’ di spettacolino…»

Significa che Morgan e Bennato hanno suonato e cantato il liscio?

«Certamente. Morgan è un matto duro e ha fatto una cosa incredibile. Ha preso un brano di Gino Paoli, “Sapore di sale”, e “Ciao Mare” e li ha uniti insieme facendo dei giochettini. La gente si è divertita moltissimo. Bennato, ha cantato “Tu sei la mia simpatia”, una mia canzone».

Le sue paure?

«Non ho paura della morte. Due giorni prima della Notte del liscio, mi è capitato un arresto cardiaco mentre facevo un controllo in ospedale. Sono morto per 30 secondi. Adesso sono rinato, sono un uomo coraggioso e ho fatto mio uno slogan di Marcello Marchesi: quando la morte arriva, voglio che mi trovi vivo».

 

·        E’ morto il regista Marco Sciaccaluga.

Marco Giusti per Dagospia il 12 marzo 2021. A poco più di vent’anni Marco Sciaccaluga, prematuramente scomparso a Genova, la sua città, a 67 anni, entrò come regista al Teatro Stabile di Genova. Un fatto clamoroso che gli aprì, è vero, una fortunata e lunga carriera, che lo porterà negli anni a dirigere campioni come Lina Volonghi, Eros Pagni, Glauco Mauri, Camillo Milli, Tullio Solenghi, Mariangela Melato, ma gli impedì forse una visione meno accademica del teatro in un periodo di grandi e strepitose aperture. Ne parlo perché, oltre che un vecchio amico, abbiamo fatto assieme il Liceo Andrea D’Oria a Genova, e queste cose non si cancellano, abbiamo diviso per un certo periodo la passione per il teatro. Nata proprio sui banchi del liceo. Abbiamo fatto assieme un “Gargantua e Pantagruel” costruito proprio tra i banchi di scuola, per l’occasione avevamo con noi Nicoletta Billi, diventata poi celebre ufficio stampa, forse qualche altra cosa, ricordo le prove di un Beckett dove io e lui eravamo i protagonisti assieme a due compagni di classe. E siamo poi andati assieme a iscriverci ai corsi che organizzava il Teatro Stabile di Genova per gli studenti. Io scappai dopo il primo giorno, troppo disciplina. Marco rimase. Orfano di madre giovanissimo, viveva con la nonna negli anni del liceo. Il padre, medico di grande cultura e umanità, era gravemente malato di sclerosi multipla, e spesso insieme a altri amici facevamo delle notti all’ospedale perché non si fidava troppo degli infermieri. Credo che abbia vissuto una giovinezza infernale, insomma, salvata solo dalla passione per il teatro, nata anche perché il padre era stato uno dei soci fondatori assieme a Ivo Chiesa se non ricordo male. Il teatro comunque, anzi il Teatro Stabile di Genova, fu la sua vera famiglia. Fu assistente di Luigi Squarzina, credo anche di Luca Ronconi quando venne a Genova per “Al pappagallo verde” e “La contessina Mizzi”, doppio spettacolo strepitoso tratto da Arthur Schnitzler, con traduzione di Claudio Magris e costumi di Karl Lagerfeld. E soprattutto de “Il genovese liberale” diretto da Marco Parodi, sorta di risposta ligure all’”Orlando furioso” di Ronconi, recitato per le strade e i vicoli di Genova, che venne anche montato come fosse un film dallo stesso Parodi. Ricordo che esordì da regista insieme a Gianni Fenzi in “Il perdono reale” di John Arden. Avrà avuto 22-23 anni. Poi fu il regista italiano di “Equus” di Peter Schaffer, che sollevò un certo scandalo per i nudi maschili. Ricordo anche come opera maggiore, nel 1980, cioè neanche trentenne, “La bocca del lupo”, adattamento teatrale di Arnaldo Bagnasco di un romanzo verista di Remigio Zena, tutto parlato in genovese. Ma anche, all’interno di una celebrazione del teatro di Kleist allestito da Franco Quadri, una versione di “La brocca rotta” con Lina Volonghi, Eros Pagni e Ferruccio De Ceresa. Negli anni, Marco ha diretto davvero di tutto, sia con la Stabile di Genova sia con altri teatri. Fra i tanti illustri attori che ha diretto credo che avesse un rapporto un po’ speciale con Eros Pagni, un attore non facile da dirigere, ma che conosceva alla perfezione, anche perché entrambi erano nati allo Stabile di Genova. Insieme riuscirono a reinventarsi un testo di Eduardo De Filippo come “Il sindaco del Rione Sanità”. Nel 2000 diventa co-direttore dello Stabile che prende il nome di Teatro Nazionale di Genova, nel 2006 è premiato con il Premio Olimpico per il Teatro per la regia di “Morte di un commesso viaggiatore”. Glielo consegnò un suo vecchio amico e collega, Tullio Solenghi. La sua ultima messa in scena è stata un “Rosencranz e Guilderstern sono morti”. Ha praticamente vissuto a teatro tutta la sua vita. Probabilmente come voleva. 

·        E’ morta va l’attrice Isela Vega.

Isela Vega rip. Marco Giusti per Dagospia l'11 marzo 2021. Bellissima, trasgressiva, spregiudicata, musa di Sam Peckinpah e Alejandro Jodorowsky, se ne va Isela Vega, 81 anni, icona sexy del cinema messicano e del cinema di frontiera americano, dopo una carriera che l’ha vista protagonista di qualcosa come 140 film, dai piccoli western e horror anni’60 fino alle grandi serie attuali di Netflix. Ma è stata anche la prima attrice messicana a mostrarsi nuda su una copertina di “Playboy”, luglio 1974, e a provocare ogni genere di scandalo, dagli spettacoli erotici-artistici a teatro con Alejandro Jodorowsky, nei primi anni ’70, alle sue scatenate storie d’amore con i maggiori registi e i maggiori attori del tempo. Il suo ultimo amante, il cantate star messicano Juan Gabriel, è scomparso nel nulla e solo lei, forse, sapeva la verità. Grazie all’eccentrico ruolo di Elita accanto a Warren Oates in “Voglio la testa di Garcia”, cult di Sam Peckinpah che lo girò nel 1974 in un fiume di cocaina, tutto il mondo si accorse di lei. Dava al film una forza incredibile, recitando, cantando e spogliandosi. Ma non solo offrì agli spettatori un nudo spettacolare che le grandi produzioni americane non avrebbero accettato, scrisse col suo carattere selvaggio l’unico personaggio di donna forte e protagonista che Peckinpah abbia mai avuto nel suo cinema totalmente maschile. “Sam si angustiava per migliorare la sua arte”, ha detto a difesa di Peckinpah che sul set fu impossibile, “motivo per cui non aveva pazienza per le persone stupide, non gli piaceva dover ripetere gli ordini che dava. Per avvicinarti al suo genio, ciò di cui avevi bisogno era una certa sensibilità. Sam Peckinpah era un regista straordinario, sapeva tutto quello che c'è da sapere sul fare film. Poteva ridere o piangere se necessario, un vero uomo i cui personaggi rappresentano veramente il suo spirito. Non mi sono mai sentito così bene per un regista, nemmeno con Alejandro Jodorowsky”. E quanto alla sua celebre scena di nudo nel film, dove viene violentata da Kris Kristofferson, lo sceneggiatore del film, Gordon T. Dawson ha raccontato: “Isela Vega doveva essere in topless durante questa scena e prima delle riprese ha riunito il cast e la troupe, si è tolta la maglietta e ha mostrato i suoi seni a tutti. "Eccoli", disse, "guardateli bene a lungo, fissate quanto volete, ma non voglio preoccuparmi di sentirvi addosso tutti i vostri sguardi quando dovrò fare il mio lavoro. Quella donna aveva le palle di un leone". Dino De Laurentiis la chiamò per il ruolo di Marianna, la prostituta bianca di “Drum – L’ultimo Mandingo” di Steve Carver, dove torna a recitare in coppia con Warren Oates. “Ho bellissimi ricordi di Warren Oates”, ha detto, “ potrei descriverlo in una sola parola: compassione. Era una persona molto impegnata con l'arte e con i suoi simili. Warren Oates amava tutto, accarezzava tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Ha trasformato ogni situazione in una situazione ideale, era perfetto”. Poco prima era apparsa anche in uno scombinato e sfortunato western iniziato da Samuel Fuller e terminato da Barry Shear, “La rossa ombra di Riata”, con Richard Harris e Rod Taylor. Fuller lo aveva ideato e in parte girato con Julet Berto, Mick Jagger e Richard Harris.  La produzione lo fermò, non gradendo la Berto, cambiò regista e gran parte del cast. Ma Isela Vega ha lavorato contemporaneamente con tutti i grandi registi messicani del 900, Arturo Ripstein per “La viuda negra”, Paul Leduc, Roberto Gavaldón, Luis Estrada, e Jaime Humberto Hermosillo, mentre Alejandro Jodorowsky la lanciò a teatro nel 1970 al Teatro de la Danza nel suo spettacolo eccessivo “Zaratustra”. In totale ha vinto 4 premi Ariel, gli Oscar messicani, come miglior attrice. “Sono una donna forte”, ha detto di sé, ”quindi il successo non mi ha mai ostacolato. In questo paese odiano chi ha successo, non c'è niente che i messicani amino di più che avere pietà di te, e questo non mi piace. Se non stai andando bene, allora tutti si preoccupano per te, ma se stai andando alla grande non gli piace”. Nata nel 1939 a Hermosillo Sonora, viene incoronato Principessa al carnevale di Hermosillo nel 1957 e debutta presto come modella e attrice. Il suo primo film è “Verano violento” di Alfonso Corona Blake col vecchio Pedro Armendáriz, ma la troviamo presto nei film americani girati in messico, come “48 ore per non morire”/”Rage” di Gilberto Gazcón con Glenn Ford e Stella Stevens o come una serie di piccoli horror di coproduzione, come “Settore Torture” di Jack Hill con Boris Karloff, “Pacto diabolico” e “La senora Muerte” di Jamie Salvador com John Carradine. Diventa protagonista del western comico “Por mis pistolas” a fianco del celebre Cantinflas. Più tardi si impone come sex symbol del cinema messicano in una serie di commedie come “Don Juan 67” di Carlo Velo con Mauricio Garcés, “La cama” di Emilio Gómez Muriel, “El matrimonio es como el demonio” di René Cardona Jr., 1969.Nei primi anni ’70 esplode come protagonista nel cinema messicana, più o meno di genere, come il western all’italiana “Dente per dente” di Alberto Marescal con Cameron Mitchell, Helena Rojo e Jorge Luke, “La bastarda” con Jorge Rivero, “Oro Rojo” di Alberto Vazquez Figueroa con Hugo Stiglitz. Nel 1986 scrive, dirige, produce e interpreta “Las amantes del señor de la noche”, dove la troviamo assieme a Irma Serrano e a Emilio Fernández, celebre star messicana che compare anche nei film di Peckinpah. Ritorna al cinema con grande successo nel 1999 con “La ley de Herodes” di Luis Estrada, dove interpreta la tenutaria di un bordello in una cittadina messicana, vincendo un nuovo premio Ariel da non protagonista che la riposizione per tutti gli anni successivi. La ritroveremo infatti in “Puños rosas” di  Beto Gómez,, “El cobrador” di Paul Leduc, “Conozca la cabeza” di Juan Pérez, Dora e la città d’oro di James Bobin, fino a “Cindy la Regia” di Catalina Aguilar Mastretta e Santiago Limón, il suo ultimo film. “Nessuno può rimpiangere quello che ha vissuto”, ha detto l’attrice prima di morire di canco a Città del messico, “sarebbe come rimpiangere di vivere. Rifarei tutto di nuovo, sono stato molto felice e sono innamorato della vita, proprio come lo era Warren Oates”. Lascia due figli, Shaula, avuta da Alberto Vazquez, e  Arturo, avuto dall’attore Jorke Luke.

·        E’ morto Lodewijk Frederik Ottens, delle musicassette.

Cecilia Mussi per "corriere.it" il 10 marzo 2021. Lodewijk Frederik Ottens, ingegnere olandese inventore delle musicassette, è morto sabato scorso nella sua casa di Duizel a 94 anni. Dopo la laurea aveva iniziato a lavorare in Philips, dove nel 1960 era diventato capo del settore sviluppo dei prodotti. Qui arrivò l'idea prima di un registratore portatile , poi, nel 1963, quella dell'audiocassetta che avrebbe rivoluzionato il mondo della musica a livello mondiale.

Dagli anni Sessanta ne sono state vendute 100miliardi. Il dispositivo inventato da Ottens era stato concepito per stare nella tasca di una giacca e poter essere trasportato fuori casa. Nel 1963 il prototipo della musicassetta viene presentato alla fiera della radio di Berlino e l'anno successivo il nome «musicassetta» è stato brevettato. Il lancio a livello internazionale arriva con l'accordo con la casa discografica Sony, che fa diventare l'idea dell'ingegnere il modello standard della riproduzione musicale. Dagli anni Sessanta si stima che siano state vendute circa 100 miliardi di musicassette.

A fine anni Settanta partecipa allo sviluppo del compact disc. La carriera di Ottens non si ferma alla scoperta della musicassetta. Circa 10 anni dopo, come direttore tecnico della Philips, prende parte anche allo sviluppo del compact disc, quel CD che dal 1979 entrerà nelle case degli appassionati di musica di tutto il mondo. Sia musicassette che CD ora fanno parte di un'epoca passata, ma il loro mercato non è completamente azzerato: solo nel 2020 nel Regno Unito, per esempio, sono state vendute circa 175 mila cassette, più del doppio rispetto all'anno precedente. Negli ultimi anni della sua carriera Ottens è stato responsabile di un progetto per migliorare la logistica industriale delle divisioni consumer di Philips.

I consigli ai colleghi: lavorare insieme e assumere più donne. Ottens è andato in pensione nel giugno 1986: prima di lasciare l'azienda ha consegnato ai colleghi un libro di circa 300 pagine in cui aveva raccolto le proprie esperienze nel campo dello sviluppo del prodotto, nella produzione e nella logistica. L'ingegnere ha lasciato anche dei consigli generali ai colleghi e ai vertici dell'azienda: abbreviare i tempi di consegna, semplificare dove possibile, lavorare in gruppo, non valutare le prestazioni di lavoro unicamente in termini di denaro e assumere più donne.

·        E’ morto Carlo Tognoli, l’ ex sindaco di Milano e ministro.

Morto ex sindaco di Milano e ministro Carlo Tognoli. (ANSA il 5 marzo 2021) L'ex sindaco di Milano e due volte ministro Carlo Tognoli è morto questa mattina nel capoluogo lombardo. Lo annuncia Bobo Craxi: "Carlo Tognoli, un pezzo della storia milanese, della Storia Socialista e anche della nostra vita che se ne va. Un grande dolore", ha scritto su Twitter. Tognoli aveva 82 anni e a novembre era stato colpito dal covid, mentre si trovava ricoverato all'ospedale Gaetano Pini per la frattura del femore. Da sempre iscritto al Psi, Tognoli è stato sindaco di Milano per 10 anni, dal 1976 al 1986, per poi diventare prima europarlamentare e poi deputato. E' stato poi ministro per i Problemi delle Aree Urbane del Turismo e dello Spettacolo fino al 1992, per poi lasciare ogni carica politica.

BIOGRAFIA DI CARLO TOGNOLI. Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell'arti.

Milano 16 giugno 1938. Dirigente di Mediobanca. Politico. Ex sindaco di Milano (1976-1986, il più giovane nella storia della città). Ministro per le Aree urbane nei governi Goria (1987-1988) e De Mita (1988-1989), per il Turismo nell’Andreotti VI (1989-1991) e nell’Andreotti VII (1991-1992).

Iscritto al Psi nel 1958, eletto sindaco di Milano «quando Bettino Craxi non era ancora segretario», precisa. Si definisce socialista liberale. Carriera stroncata da Tangentopoli (tangenti Atm, processo finito con l’assoluzione). Dal 2005 presidente della Fondazione Policlinico di Milano.

Perito chimico, frequentò la Bocconi da lavoratore senza mai laurearsi per l’incombente impegno nelle file del Psi. Dal 1958 al 1962 fu dirigente del movimento giovanile, dal 1960 al 1970 consigliere comunale a Cormano, dal 1969 al 1970 segretario cittadino del Psi. Assessore dal 1970 al 1976, deputato europeo dall’84 all’87.

Dal 2005 al 2009, su richiesta dell’allora presidente di Regione Lombardia Roberto Formigoni, è stato eletto a presidente della Fondazione Ospedale Maggiore di Milano.

«Craxi, come molti di noi che hanno cominciato a fare politica con lui, adesso non starebbe né in una coalizione né nell’altra» (da un’intervista di Gian Guido Vecchi).

Il ricordo dell'ex sindaco di Milano. Carlo Tognoli rese grande Milano ed è stato ripagato col fango. Bobo Craxi su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Con Carlo Tognoli scompare un esemplare personalità della generazione dei politici nati dopo la seconda guerra mondiale: un ragazzo che aveva dovuto costruire la sua formazione pressoché in solitudine, era rimasto orfano in tenera età, ed aveva aderito giovanissimo al partito socialista che a Milano rappresentava la più longeva e feconda tradizione politica e amministrativa.
Fu in quella temperie che incontrò l’area politica che nel Psi era restata fedele alle radici storiche più antiche, che era rappresentata dagli eredi riformisti della tradizione turatiana: gli autonomisti che avevano in Mazzali, mitico segretario della federazione a metà-tempo con la sua attività di pubblicitario, e in Antonio Natali i leader storici. In quel gruppo si fece presto strada quello che divenne in seguito il pupillo di Pietro Nenni ovvero mio padre Bettino Craxi. Craxi aveva il fiuto politico e soprattutto l’anima del talent-scout, non gli fu difficile attrarre attorno a sé dei giovani brillanti che costituirono in seguito l’ossatura di una vera e propria squadra politica che restò unita politicamente ed umanamente sino a che è stato possibile. Giorgio Gangi, Paolo Pillitteri, Giovanni Manzi, Ugo Finetti, ai quali si unì il brillante Claudio Martelli che conquistò l’ammirazione e la considerazione di mio padre. Carlo Tognoli era lì, e iniziò nel suo ruolo di ufficio stampa alla federazione mostrando le sue metodiche politiche ed organizzative che trasferì in seguito nella sua carriera amministrativa che iniziò nella provincia di Milano, a Cormano, dove fu inviato a farsi le ossa; prima come consigliere comunale poi come assessore. Ritornò nel Capoluogo dove ricoprì la carica di Assessore ai Servizi sociali, al patrimonio ed infine ai lavori pubblici. Un cursus honorum tutto politico e partitico che gli conferì, sebbene giovanissimo, il titolo per poter succedere ad un Sindaco di Milano, anch’egli socialista, particolarmente apprezzato in città: Aldo Aniasi. Quella che apparve un’imposizione ed una prepotenza di Bettino Craxi (Giorgio Bocca perfidamente liquidò la sua nomina con un odioso elzeviro sull’Espresso: “A Milano ci mettono il povero orfanello…”) si rivelò un grande investimento politico ed un grande ringiovanimento della classe dirigente dell’epoca. Un trentottenne per la prima volta ascese al più alto scranno di Palazzo Marino (era il 1975) dove rimase per undici anni, forse gli anni più importanti e decisivi della rinascita della Città. Carlo aveva scuola e tempra, conosceva a menadito non soltanto i codici ed i regolamenti amministrativi ma conosceva a fondo la Città, la sua crescita smisurata negli anni del boom che portarono in fretta le contraddizioni della diseguaglianza sociale; l’immigrazione interna degli anni sessanta che aveva così ben descritto nel docu-film, lo chiameremmo ora, che aveva dato alla luce assieme al suo sodale-rivale di tutta la vita: Paolo Pillitteri. Tognoli non si perse mai d’animo e cercò di offrire speranza ad una città ripiegata su se stessa negli anni della contestazione che sfociarono successivamente nel terrorismo, fu lui ad accorrere al capezzale di Walter Tobagi suo grande amico trucidato da un gruppo di fanatici criminali politici. Assieme alla città che richiedeva solidarietà e assistenza egli seppe accompagnare il rilancio delle attività del terziario avanzato per le quali l’amministrazione preparò il terreno ideale affinché la Città gradualmente da industriale si trasformasse in una grande metropoli dove prevalessero i servizi per la produzione, un grande piano per i trasporti, un immenso investimento sul giacimento culturale di Milano, una riscoperta dei tanti tesori nascosti. Da un lato Carlo aveva conservato la sua devozione per Turati e per i grandi sindaci milanesi, come Caldara, Filippetti e Greppi, dall’altro il suo cuore batteva per Maria Teresa d’Austria di cui ogni milanese conservava una gratitudine storica per aver saputo dotare la Città di una sua fisionomia “regale” ma attenta alle evoluzioni sociali della grande città che domina la pianura padana. Gli anni ottanta sono quindi un fiorire di iniziative che portano l’impulso di un Sindaco che poco a poco incontra il favore generalizzato della sua Città, è un uomo della amministrazione pubblica prima ancora che un uomo di partito; tuttavia la sua guida si trova a coincidere con la stagione più felice dei socialisti italiani che occupano le istituzioni più prestigiose del paese: la Presidenza della Repubblica e la Presidenza del Consiglio. È a Milano che nel 1986 viene firmato l’atto unico che sancisce il Consiglio Europeo, ed è Tognoli a fare il padrone di casa al Castello Sforzesco, Milano sta riconquistando il blasone internazionale che merita ed ha un primo amministratore di tutto rispetto. Sapeva unire la sua capacità organizzativa all’intuito per la valorizzazione delle cose forse considerate superflue ma che soddisfavano e rendevano il cittadino certo e sicuro di avere una guida salda alle redini della città. Fu innovatore perché per la prima volta nella storia si sottoponeva ai microfoni aperti in una televisione privata ogni lunedì. I milanesi avevano preso in simpatia Tognoli perché il suo garbo, la sua bonomìa, il suo acume non destavano alcuna reazione di repulsione. Era rispettato da amici e da avversari, era persino benvoluto dalla stampa di tendenza comunista radicale che non risparmiava critiche al PSI ed alla sua guida, e che volentieri sottraeva Tognoli dal mazzo delle persone cui rivolgere atti di ostilità. Nel partito era benvoluto ma anche temuto; Il Psi a Milano era rimasto di tendenza autonomista e certamente legato alla sua guida nazionale, ma in città era identificato innanzitutto con lui. Il cambio di alleanze imposta per un breve periodo dalla necessità di trasferire anche a Milano l’alleanza di centro-sinistra non lo trovò pienamente soddisfatto, in parte s’incrinò anche la sua volontà di restare troppo a lungo sulla poltrona di Sindaco dopo tre mandati. Fu eletto al Parlamento e ricoprì la prestigiosa carica di ministro in due occasioni. Nell’interregno fra queste due esperienze Craxi lo volle a Via del Corso, cioè nella sede centrale del Psi, fu vice-segretario, ma in realtà la sua vera vocazione restava quella del grande amministratore che seppe trasferire all’interno dei due governi di pentapartito: gli ultimi. Il 1° Maggio del 1992, dopo la sua rielezione in Parlamento, ricevendo il primo avviso di garanzia assieme a Paolo Pillitteri, simbolicamente la sua carriera politica finì. Aveva solo 54 anni. Furono quelli che seguirono gli anni peggiori che segnarono lui come un’intera generazione di socialisti. L’uomo più amato a Milano, nella incredulità generale, era rimasto invischiato nel gorgo di Tangentopoli, improvvisamente nella polvere lui assieme alla squadra dei socialisti con la quale aveva costruito non soltanto una alternativa politica ed una prospettiva in città e nell’intero paese, ma aveva costituito un nucleo comunitario che poteva considerarsi una vera e propria famiglia allargata. La passione per gli studi storici sulla città e sul socialismo milanese costituirono per lui un’alternativa di vita, il suo prestigio lo riportò a ricoprire ruoli onorari in fondazioni prestigiose, tuttavia l’orologio della sua vita che era la politica si era rotto per sempre. Non volle mai stare in prima fila nei nostri tentativi di ricostruzione, ci ha sempre guardato con affetto e ammirazione, riteneva che il suo tempo fosse finito. Ed è quella tristezza in fondo al cuore che ha segnato quella generazione. Quando a Londra, in un meeting di progressisti europei, incontrai l’ex sindaco socialista di Barcellona, Maragall, mi disse che all’esperienza dei socialisti milanesi si era ispirato per il rilancio di Barcellona, si raccomandò che gli salutassi “Carlo”. Era apprezzato anche al di là delle mura spagnole che cingono la città. Ho visto per l’ultima volta nella mia vita Carlo Tognoli ad Hammamet, giusto un anno fa al fianco della sua amata Dorina. Erano per me figure famigliari, ero devoto a Carlo come lui lo fu lungamente verso mio Padre Bettino. Lo tormentava una malattia, ed il Covid ha finito per indebolirlo portandolo via. Io sono convinto che egli verrà ricordato come merita : un grande sindaco, un grande socialista, Un uomo profondamente buono.

Piero Colaprico per la Repubblica il 6 marzo 2021. Era un politico innamorato perso di Milano. Della sua, della nostra, di tutte le Milano possibili e anche, se così si può dire, delle visioni della Milano che verrà. Se ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, scrive che «La notizia della scomparsa di Carlo Tognoli mi rattrista profondamente » e se anche Silvio Berlusconi dice che «se ne va un sindaco stimato nel mondo e amato dai milanesi, dotato di una grande passione per la sua città», significa anche che Carletto, anzi "il Carletto", o anche "il Tognolino", ha lasciato il segno. Di lui si diceva che «è uno che c' è sempre». Socialista che s' ispirava a Filippo Turati e primo cittadino per dieci anni, dal 1976 al 1986, forse ha calpestato ogni metro quadro della metropoli più internazionale d' Italia. Lo si trovava non solo nelle occasioni della Milano che, attraversando i fiumi di sangue degli Anni di piombo, aveva guidato sino all' approdo luccicante della cosiddetta "Milano da bere", della Borsa che tirava e del made in Italy della moda. "Tognolino" spuntava nelle serate all' osteria della Briosca, dove ancora si esibivano i cantanti della ligera, la vecchia mala. Poteva a pranzo sedersi a tavola con qualche industriale o banchiere, o con i grandi palazzinari, ma a cena alzare il bicchiere di barbera con gli operai della periferia più lontana. Aveva un credo: poter medicare ogni ferita con la cultura e con il «ritrovarsi». Concerti a prezzi popolari, investimenti nei teatri, il sodalizio con Giorgio Strehler e con il Piccolo, la Scala che apre a studenti e lavoratori e non più e non solo alla borghesia dei danèe. Aveva visto lontano anche sui temi dello smog: si deve a lui e all' assessore al Traffico Attilio Schemmari se Milano, sulla spinta dei movimenti verdi e dei comitati dei cittadini, nel 1985 bloccò al traffico delle auto private il centro, dal Duomo all' intera Cerchia dei Navigli. Non alto, spesso in elegante gessato, occhi simpatici e sgranati dietro gli occhiali, era nato in viale Romagna, papà morto in guerra in Russia. Finché ha potuto, gli spuntava un mezzo toscano in bocca. E non gli dispiaceva andare in Galleria - quando in piazza Duomo c' era al 19 l' ufficio dell' immanente segretario politico del Psi Bettino Craxi - e partecipare al rito del drink: un Americano, o uno Sbagliato, una piccola pausa, ampiamente meritata, dopo giornate da stacanovista. Dentro Palazzo Marino, Tognoli diventò un po' "robotico", come scrisse Giorgio Bocca, nel senso che aveva tutto sotto controllo ed elargiva cifre, dati, analisi su qualunque argomento che avvalorasse l'efficienza meneghina. Aveva studiato da perito, lavorato in aziende chimiche e a vent' anni s' era iscritto al Psi di Pietro Nenni. Nell' anno della «madre di tutte le stragi», quella di piazza Fontana - 1969 - era lui il segretario cittadino del Psi e Aldo Aniasi, l' ex partigiano Iso, il sindaco. Poi, sette anni dopo, dopo essersi fatto le ossa come assessore, entrò lui nell' ufficio del primo piano, affacciato su piazza San Fedele, il sancta sactorum, sostituendo Aniasi. Ci arrivò a soli 38 anni, un enfant prodige per i nostrani standard gerontocratici. Numero uno di una giunta rossa, sostenuta dal Pci, il più giovane sindaco di Milano sembrava destinato a una lunga carriera. Eurodeputato e ministro, non apparteneva però al gruppo dei craxiani ortodossi. Nella vera stanza dei bottoni non riuscì a entrare. Il Primo Maggio del 1992 lui e il suo successore, Paolo Pillitteri, organizzarono una conferenza stampa per respingere le accuse di mazzette che aveva portato in carcere - era l' inizio di Tangentopoli - alcuni portaborse del Psi. Là finì la stagione di "Tognolino" che, poco dopo, ricevette da Enrico Cuccia, il super banchiere della Grandi Famiglie italiane, un incarico in Mediobanca. Ieri s' è spento a 82 anni, a casa sua, con la consapevolezza di aver vissuto sino in fondo l' amore per Milano, ricambiato da chi, ancora nei mesi scorsi, incontrandolo gli diceva «Ciao sindaco». Ogni tanto arrivava ai vecchi amici, e anche ai giornalisti, la sua telefonata, con un' idea, un educato rimbrotto, un complimento. Erano stati una brutta caduta, e il femore rotto, e poi il Covid contratto in ospedale a togliergli di mano il telefonino e la voglia di intervenire. Sua moglie Dorina l' ha portato a casa, una settimana fa, dall' inutile riabilitazione. Lascia due figli, Filippo e Anna, chiamati così in onore dei socialisti Turati e Kuliscioff, che avevano casa, oltre un secolo fa, proprio in quella Galleria dove «Carletto» amava fermarsi a guardare la prospettiva di piazza del Duomo. Come dice il suo ultimo successore, Beppe Sala, «Milano piange un uomo politico concreto e aperto alle riforme, un milanese vero». E si sa che, come cantava Lucio Dalla, Milano quando piange, piange davvero.

Lettera di Stefania Craxi a Dagospia il 6 marzo 2021. Caro Dago, ho letto grazie a “Dagospia” la ricostruzione che “La Repubblica”, a firma del bravo Piero Colaprico, fa della parabola umane e politica di Carlo Tognoli. Nel tentativo di riscrivere la storia, dividendo i socialisti buoni da quelli cattivi, si scrive di lui che non faceva parte della cerchia dei craxiani ortodossi. Tognoli è stata una delle persone più vicine a Craxi, un “giovane” che con lui condivise i momenti più difficili dell’autonomismo milanese, quando ciò significava essere minoranza nel partito prima ancora che nella sinistra. Fu proprio grazie alla volontà di Bettino – allora assai discussa - che lo volle fortemente come successore di Aldo Aniasi, che Carlo divenne uno dei più grandi sindaci di Milano. Proseguirà poi la sua carriera politica ed istituzionale a Roma, dove, sempre su indicazione del leader socialista, ricoprì incarichi di governo. Carlo, inoltre, faceva parte della cerchia ristretta di compagni che mai mancavano ai “pranzi del lunedì”, quando quel gruppo di giovani, con il tempo divenuti protagonisti del “nuovo corso” socialista, disegnavano la Milano riformista del futuro e gettavano le basi per una sinistra moderna, riformista e liberale. Tognoli, non di rado, era anche presente in quelle serate, dopo un comizio in Piazza Duomo o una riunione in federazione, amici, famigliari e compagni si ritrovavano davanti ad una “casseaula” ed un bicchiere di vino a cantare le canzoni della “mala” e quelle nel “bel dialet”. Certo, il PSI, a differenza di altri partiti, non era una caserma e Carlo era una intelligenza viva e vivace che da riformista coltivava l’eresia del dubbio e la critica. Ma mai abiurò alla sua storia e, soprattutto, mai prese le distanze da Craxi, di cui fu sempre amico e compagno leale e sincero, ragion per la quale ebbe a pagare tra i primi il fio della gogna mediatica e giudiziaria. Non so pertanto cosa Repubblica intenda o voglia intere per “craxiano” o per cerchia ristretta. Ma sarebbe interessante saperlo, poiché se non lo era Tognoli non saprei dire chi lo fosse! So per certo che Carlo era, prima ancora che un fidato compagno di partito, uno di famiglia e tale è stato anche in tutti questi anni dopo la morte di mio padre. Conservo ancora il biglietto che mi inviò alla nascita del mio primogenito, nel quale ricordava che quanto nacqui io, era in Consiglio comunale al fianco, guarda un po’, di un certo Craxi.

·        E' morto Bunny Wailer, leggenda del reggae.

Da "Ansa" il 4 marzo 2021. E' morto Bunny Wailer, leggenda giamaicana del reggae e membro fondatore dei Wailers. Il nome di Wailer, all'anagrafe Neville Livingston, è indissolubilmente legato a quello di Bob Marley, che conobbe da bambino e con il quale fondò i Waliers, trio composto anche da Peter Tosh. Banny Wailer era nato a Kingston ed aveva 73 anni. Si è spento - come si legge sul Jamaica Observer che cita il suo manager Maxine Stowe - al Medical Associates Hospital di Kingston, ospedale nel quale era stato ricoverato nel luglio scorso dopo un ictus che lo aveva colpito nel luglio 2020. Con Wailer, che, oltre a cantare, accompagnava il trio con il suo bongo, scompaiono tutti i membri del mitico gruppo reggae: Marley morì di cancro l'11 maggio 1981, mentre Tosh fu ucciso nella sua casa di St Andrew l'11 settembre 1987. Incise otto album con i Wailers, dal 1965 al 1973, prima di avviare la sua carriera solista. Gli album in solitaria includono Blackheart Man, pubblicato nel 1976, e Rock 'n' Groove, uscito cinque anni dopo. Tra le sue canzoni di successo Cool Runnings, Ballroom Floor, Crucial e Bald Head Jesus.

·        È morto il dj Claudio Coccoluto.

La moglie di Claudio Coccoluto: "Grazie di aver percepito sua grandezza. Al dj giusta dignità". La Repubblica il 5 marzo 2021.  Paola Graziani, moglie del dj morto martedì scorso, ha scritto una lettera aperta per ringraziare le dimostrazioni di affetto e stima nei confronti del marito. "In questo momento delicato come un velo di cristallo, uno dei doveri da assolvere è fare un ringraziamento ufficiale a tutti coloro che hanno speso parole per Claudio. Comunicarlo tramite social non mi sembrava sufficiente, perché l’affetto che ho sentito e l’affetto che abbiamo ricevuto è riuscito a confortare me e tutta la mia famiglia". Con queste parole Paola Graziani, moglie di Claudio Cocculuto, il grande dj scomparso martedì scorso, ha voluto ringraziare "gli addetti ai lavori, i colleghi, i fruitori della della sua musica, gli amici fraterni incontrati lungo i percorsi regionali della nostra Italia e quelli oltre confine". La signora Graziani Coccoluto fa anche una riflessione sulla figura del dee-jay. "Prima di ogni altra cosa mi ha colpito il riconoscimento di personalità politiche e del giornalismo di settore e non che hanno potuto percepire la sua grandezza e talento e divulgare con le loro parole e commenti lo spessore artistico di un uomo che ha dedicato più di 40 anni della sua vita alla musica. Con queste attestazioni - conclude -, che sicuramente avrebbero reso felice Claudio, la figura del dj assumerà di certo una dignità differente, cosa che a lui era davvero a cuore, tanto da aver dedicato gli ultimi mesi di pandemia a lottare per i diritti della sua categoria".

È morto il dj Claudio Coccoluto, un grande del mix. La Repubblica il 2 marzo 2021. L'artista internazionale si è spento alle 4.30 di stamattina nella sua casa di Cassino accanto alla moglie e ai figli. Linus: "Un fuoriclasse". È morto Claudio Coccoluto, 59 anni, uno dei più importanti dj d’Europa, conosciuto a livello mondiale. Protagonista in consolle da oltre quarant’anni. L’artista, originario di Gaeta, in provincia di Latina, si è spento alle 4.30 di stamattina nella sua casa di Cassino, accanto alla moglie Paola e ai figli Gianmaria e Gaia. Da un anno combatteva contro una grave malattia. Proprio nella giornata di ieri il Comune di Cassino aveva annunciato la realizzazione di un murale dedicato all'artista scomparso. L’artista, originario di Gaeta, in provincia di Latina, aveva iniziato a fare il dj a 13 anni, per hobby, nel negozio di elettrodomestici del padre. Alla fine degli anni settanta ha cominciato a far conoscere la sua voce attraverso Radio Andromeda, la prima emittente privata a Gaeta. Dal 1985 questa diventa la sua professione. Le sue prime esperienze nei locali sono state al Seven Up di Gianola, una frazione di Formia e all'Histeria di Roma, chiamato da Marco Trani, altra figura molto importante nel mondo dei dj scomparso prematuramente a 53 anni e apprezzato per il suo virtuosismo ai piatti, a sostituire Corrado Rizza. Coccoluto ha partecipato spesso a eventi di livello europeo. È stato il primo dj del Vecchio continente a suonare al Sound Factory Bar di New York. Ha lavorato anche per Radio Deejay con il suo programma C.O.C.C.O. nel quale proponeva dj set e in diretta mixava e interagiva con gli ascoltatori. Dal 1990 Coccoluto è anche produttore di materiale proprio; l'ultima pubblicazione è stata a giugno 2008 con l'album Imusicselection5 - Vynil Heart, raccolta di 14 tracce realizzata in un'unica sequenza di vinili ed effetti mixati a mano libera come in un club. Tra le sue produzioni, Do It Whitout Thinkin, Afromarslight, Mind Melody 3.0. Durante il lockdown, quando il mondo dei club si è fermato, è stato tra i più attivi nel sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sulle difficoltà del settore. Tra i primi a volergli rendere omaggio il socio Giancarlo Battafarano, in arte Giancarlino (insieme avevano fondato il Goa, 25 anni di storia a Roma, unico club in Italia a finire nelle classifiche dei migliori al mondo): "Se ne va il maestro più grande e l’amico di sempre. Ha dato cultura alla musica nei club come dj e artista fuori dal coro. Sempre pronto a metterci la faccia con i media sia per gli aspetti gioiosi sia per i problemi del nostro settore. Con lui se ne va una parte di me".

"Questa mattina è arrivata la notizia che non vorresti mai sentire", ha detto Linus in apertura della puntata odierna di Deejay Chiama Italia. "Stamattina avevo pensato che avrei voluto iniziare come un sit-com, parlando degli applausi finti a Sanremo. Ma è arrivata la scomparsa di Claudio Coccoluto, uno dei più apprezzati e storici dj italiani. Si sapeva che stava male da tempo, che negli ultimi giorni si era aggravato. Ma poi quando arriva la notizia ti ferisce. Claudio è stato in qualunque campo, in qualunque mestiere, un fuoriclasse. I fuoriclasse sono quelli che lasciano il segno. Ho sempre scherzato sul suo cognome: un cognome così bizzarro e curioso è diventato, grazie alla sua bravura, un marchio di fabbrica. A me piaceva, mi piaceva il suo suono, la sua personalità, faceva un mestiere che possiamo definire 'futile', ma era bello parlare con lui. Era un fuoriclasse", ha concluso.

Dalla regia del programma Alex Farolfi ha sottolineato: "Era un dj di ricerca e un grande sperimentatore: più di così nella musica non si può avere". E Nicola Savino ha aggiunto: "Si ostinava sul vinile, quando c'è stato l'assalto delle chiavette era duro tenere duro, ma lui lo faceva".

"Con Claudio Coccoluto scompare un protagonista della scena creativa italiana e internazionale che con le sue note e la sua musica all'avanguardia ha fatto ballare intere generazioni di ragazzi e ragazze - ha detto il ministro della Cultura, Dario Franceschini - Un artista che amava la contaminazione delle arti. Mancherà a tutti noi".

"Claudio è stato un amico fraterno. Insieme abbiamo fatto cose bellissime in Fiat in uno dei momenti più duri della mia vita professionale. Porterò con me per sempre quei ricordi. Un grossissimo abbraccio a lui e alla sua famiglia": così, in un tweet, l'imprenditore Lapo Elkann ricorda l'amico dj.

"Il maestro. Un uomo che ha regalato la classe che mancava al mestiere del produttore e del dj. Un uomo che ha fatto la storia della musica elettronica", sono le parole di Andrea Delogu.

"Ciao Claudio, chiacchierare con te di musica è stato illuminante...sei stato fonte di ispirazione per me e per molti altri dj", scrive Gabry Ponte.

"Ti voglio ricordare così.. Cocco amico mio, ci rivedremo in qualche club lassù, intanto testami i suoni e impianto come sai fare solo tu. Eri un signore della musica. Rip", scrive dj Ringo.

'Ci farai ballare da lassu'. E noi balleremo per te", è il post di Alessia Marcuzzi.

"Ciao Claudio. Sono incredula e dispiaciuta. Mi ricorderai sempre la tua musica e i tuoi colori, il divertimento di un'epoca che siamo fortunati ad avere vissuto", twitta Simona Ventura.

Enrico Sisti per "la Repubblica - Edizione Roma" il 3 marzo 2021. Con "Cocco" Roma prendeva il ritmo della notte. Claudio Coccoluto veniva da Gaeta, aveva un cuore continuamente pulsante scandito e vivo al calar delle ombre, nel "beat" delle discoteche dove i battiti si contavano al minuto e da questi battiti dipendeva la profondità della danza, la condivisione di uno spazio spesso esiguo per questo, a volte, ancor più ambito. Si fumava all' epoca. Ma nessuno perdeva mai il respiro. Coccoluto era un signore che per lavoro si trasformava in un fagocitatore d' anime e di corpi. Era il dj moderno che parlava senza dire una parola o profferiva il necessario dietro la sua console. Se ne poteva andare soltanto in un momento così, con il concetto stesso di discoteca messo in discussione, messo da una parte o completamente cancellato. Aveva 59 anni. Aveva cominciato con garbo dai microfoni di Radio Andromeda, una delle emittenti del Golfo: parlava, parlava, ascoltava, ascoltava. Poi cominciò a stendere il canovaccio della " cocodance", una " house" rivisitata e imperiosa insieme, sempre pronta a mettersi in discussione, a rinnovarsi, spostandosi dai modelli di Chicago e Detroit. C'era di tutto, nella Roma notturna di Coccoluto: si sentiva l' aspro e coinvolgente gusto dell' acid, si toccava l' underground. La sua miscela, travolgente ed esplosiva, lo portava a contatto con i vip (Totti, di cui fu dj nel festa dei 40 anni svoltasi al Castello della Crescenza ai Due Ponti, e Fiorello inclusi), gli apriva le porte degli Mtv Awards e persino della giuria del Festival di Sanremo, dove nel 2003 Pippo Baudo lo volle a tutti i costi, esaltando la sua modernità e la sua ecletticità (chi se lo sarebbe aspettato da Pippo Baudo?). «Il maestro più grande e l' amico di sempre» : così lo ricorda Giancarlino, con il quale Coccoluto fondò una leggenda come il Goa, dove fece ballare un' intera città, innovando la tradizione negli anni Ottanta e affermandosi, senza quasi rivali nel suo genere, negli anni Novanta. Sbarcò a Roma nel 1983, partendo da un altro storico locale, l' Hysteria. Quando mixò per i 40 anni di Totti disse: «La mia fede romanista prevale su tutto, questo set rimarrà unico». La Roma, come tanti altri, lo ha salutato sui social: «Ci mancherai». Coccoluto faceva scattare la danza prima ancora che si accendessero i diffusori, prima ancora del calar del sole. Era sinonimo di avventura, di slancio spontaneo verso gli altri (altra cosa dimenticata?), era strusciarsi, sudare, fermarsi e ripartire col cuore in gola ( o erano i battiti della musica?). Lo abbiamo visto evolvere sino a diventare un affermato e ricercato ospite televisivo, ruolo nel quale sapeva rappresentare un' umanità semplice, nonostante la fama, rimanendo se stesso. A Ibiza era il signore degli anelli. Quando raccontava di sé a Radio Deejay o nella sua rubrica sull' Espresso, questo figlio di Erasmo, ex partigiano, riempiva la scaletta di pensieri, osservazioni e pezzi di musica, pescando dalla sua sterminata collezione di vinili (70 mila pezzi) e dal proprio patrimonio umano, che risaliva la corrente della storia del nostro paese. La sua esperienza nel campo della modulazione e del missaggio dei suoni lo portò ai confini della musica pop, luogo in cui s' incontrò con Jovanotti e i Subsonica. Non era un artista puro, era tanti artisti mescolati, mixati. Era la somma delle sue infinite esperienza dietro i "piatti", somma che riassumeva il senso stesso della magica " musica d' uso", lui, che aveva un " vinyl heart". Sul far della notte, riprendiamoci " Belo Horizonti": grazie a Piero Piccioni ( i film di Sordi regista) e a " Cocco" ci sarà sempre un Brasile dentro di noi. Claudio, hai dato una pista a tutti.

Addio Claudio Coccoluto: «Diamo dignità culturale al mestiere di deejay». di Emanuele Coen su L'Espresso il 5 giugno 2020.  

I locali chiusi per il Covid, la necessità di ripensare l’intera professione, la politica che ignora il settore dei live. Ricondividiamo l’intervista che l’artista ci ha rilasciato l’estate scorsa.

«Da metà febbraio non metto un disco in pubblico, è il periodo di astinenza più lungo della mia vita». Cresciuto nelle discoteche, Claudio Coccoluto sta da quarant'anni dietro le consolle di mezzo mondo. Tra i deejay italiani più affermati, socio del Goa, storico club romano, ha trascorso in casa il tempo del lockdown insieme al figlio Gianmaria, anche lui disc jockey, alla figlia Gaia, appassionata della trap di Los Angeles, e alla moglie Paola, che invece preferisce le melodie di Burt Bacharach. Ora che le notti italiane sono diventate silenziose, e non si sa fino a quando, Coccoluto fa scorrere i pensieri. 

Come ha vissuto i mesi della quarantena?

«Tutto sommato bene, non mi era mai capitato di trascorrere un intero weekend in famiglia. Non tutti i mali vengono per nuocere, per troppi anni siamo andati di corsa, con il lockdown io e tanti altri che fanno il mio mestiere siamo stati costretti a una riflessione: cosa significa fare il deejay in un’epoca in cui la parola aggregazione di colpo è diventata nefasta?».

L'industria dell'intrattenimento è ferma, decine di migliaia di addetti sono senza lavoro. Anche il decreto Rilancio del governo ha dimenticato i deejay e i lavoratori del vostro settore.

«Mi ha colpito il discorso alla Camera del ministro della Cultura Franceschini, che ha parlato di tutti, compresi i giostrai con tutto il rispetto, ma non ha mai pronunciato le parole dj, discoteca, musica elettronica. Niente di niente. Si tratta di un problema culturale, non riusciamo a far breccia nelle istituzioni. Se siamo ignorati, però, la colpa è anche nostra: per troppi anni siamo andati tutti di corsa. Adesso la sfida è dare dignità culturale al nostro mestiere come a Berlino, dove i deejay con il Covid sono stati aiutati alla stregua dei musicisti. O negli Stati Uniti, dove la fondazione Frankie Knuckles svolge un importante ruolo culturale, oppure Detroit, dichiarata dalla municipalità capitale mondiale della techno, o Ibiza, diventata la capitale mondiale del "turismo totale" grazie al modello di business integrato “accoglienza-divertimento”».

All’inizio del lockdown ha dato vita a qualche dj set su Facebook e Instagram, poi ha smesso. Perché?

«Un po’ per pigrizia, un po' per non contribuire all’inflazione di contenuti casuali e non ponderati. Per questo motivo, con Luisa Berio abbiamo dato vita a Total Volume, un progetto di streaming che ha per scenario i grandi hotel di pregio italiani, che come i club sono chiusi e appesi alla loro sorte, spazi da riempire di musica, arte e performance. Il primo lo abbiamo organizzato al St.Regis, a Roma. All'inizio i dj set in streaming hanno funzionato, sull'onda emotiva, poi mi sono reso conto che erano un po' autocelebrativi: mentre in discoteca la serata perfetta è quella in cui “i dischi ti saltano in mano”, si crea un rapporto alchemico con il pubblico, non scegli razionalmente la musica ma stai partecipando a un rito collettivo. In streaming, invece, la proposta è unilaterale, anche i brani che passi sono diversi da quelli che passeresti dal vivo, cosa che fatta con criterio ha comunque il suo fascino. Comunque ho trovato di meglio da fare, negli ultimi anni avevo lasciato tante cose in predicato. Dischi mai ascoltati, libri da leggere, manuali di musica da ripassare. Ad esempio, ho consumato l’album “Black Focus” di Yussef Kamaal, che era ancora nel cellophane, e ho riletto per l’ennesima volta, ma finalmente con calma, il libro “Come funziona la musica” di David Byrne, già leader dei Talking Heads e mio personale mentore».

Eppure i social hanno consentito a molti deejay di restare in contatto con il loro pubblico, coinvolgendo anche chi non metteva piede da anni in discoteca. 

«Nessuno va snobbato o escluso, la tecnologia è una grande opportunità ma va cavalcata con la propria personalità e le proprie idee, senza aderire alla logica imposta dal mercato, senza lasciare il campo ai padroni del vapore. Bisogna creare o utilizzare piattaforme alternative a Spotify e YouTube, che non garantiscono la pagnotta neanche a chi ha milioni di fan. Piccole comunità virtuali che si regolano da sole, in maniera alternativa».  

Molti organizzatori di eventi live premono per riaprire i locali, i governatori di Veneto e Sicilia sono pronti a ripartire, Lazio e Puglia stanno valutando. Alcuni locali si sono trasformati in ristoranti con musica di sottofondo. Cosa ne pensa?

«Si potrà ripartire solo in sicurezza, ma ci dobbiamo ancora arrivare. Ma una cosa è sicura: nessuno deve essere lasciato indietro perché questo settore, se non lo gestiranno i professionisti, nel post-Covid finirà nelle mani della malavita. Gli imprenditori in difficoltà si rivolgeranno agli usurai, prolifererà la cultura dell’illegalità. Nell’ambiente si ha già notizia di party illegali, soprattutto in provincia di Milano».

Come vede il futuro?

«Davanti a noi c’è un mare incognito, ma non ho paura. Fare il dj significa sollecitare il ragazzo che è in te ad affrontare la nuova avventura, forse sarò un irresponsabile ma la vedo così».

Maria Egizia Fiaschetti per corriere.it il 2 marzo 2021. Dolore e sconcerto nel mondo della musica e del clubbing, tra i settori più colpiti dalla pandemia, per la scomparsa di Claudio Coccoluto, 59 anni, dj di statura internazionale protagonista dell’avanguardia in consolle da oltre quarant’anni. L’artista, originario di Gaeta, in provincia di Latina, dove aveva iniziato ad appassionarsi di giradischi nel negozio di elettrodomestici del padre sulle note di Maga Maghella di Raffaella Carrà (così ci aveva raccontato in una recente intervista con la pacatezza che era uno dei suoi tratti distintivi), si è spento martedì 2 marzo alle 4.30 nella sua casa di Cassino, accanto alla moglie Paola e ai figli Gianmaria e Gaia. Tra i primi a volergli rendere omaggio il socio Giancarlo Battafarano, in arte Giancarlino (insieme avevano fondato il Goa , 25 anni di storia nella Capitale, unico club in Italia a finire nelle classifiche dei migliori al mondo): «Se ne va il maestro più grande e l’amico di sempre. Ha dato cultura alla musica nei club come dj e artista fuori dal coro. Sempre pronto a metterci la faccia con i media sia per gli aspetti gioiosi sia per i problemi del nostro settore. Con lui se ne va una parte di me». Coccoluto, «Cocco» per gli amici e gli addetti ai lavori, esordisce nel ‘78 come speaker nell’emittente locale «Radio Andromeda», la sua prima interfaccia con il pubblico. Nel mondo del clubbing approda negli anni Ottanta, chiamato da Marco Trani, altra figura seminale nel mondo del djing scomparso prematuramente a 53 anni e apprezzato per il suo virtuosismo ai piatti, a sostituire Corrado Rizza. Protagonista e innovatore nel filone dell’elettronica underground, Coccoluto si contraddistingue per l’originalità stilistica , risultato di una ricerca costante e di una passione sconfinata. E pensare che, da adolescente, odiava la disco e la black music. A conquistarlo, l’ascolto di una cassetta di bani mixati da Daniele Baldelli e Mozart, resident alla Baia degli Angeli di Gabicce Mare, sulla Riviera Romagnola: «Fui catapultato — ricorderà più tardi — nell’idea che il dj avesse un’essenza creativa». L’apice della sua carriera, la serata che più lo inorgogliva, la performance alla Sound Factory di New York nel ‘91: «In pista c’erano tutti i più grandi, da Louie Vega a Tony Humphries». Durante il lockdown, quando il mondo dei club si è fermato, è stato tra i più attivi nel sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sulle difficoltà del settore che, oltre a rappresentare una fucina di sperimentazione oltre il semplice intrattenimento, dà lavoro a migliaia di persone: «Chi fa clubbing è un volano culturale per i movimenti giovanili, finora l’approccio delle istituzioni è stato riduttivo —si era sfogato nel maggio dello scorso anno in un’intervista al Corriere— : sia il governo, sia il Mibact ancora non definiscono un ruolo definitivo per questo comparto, nonostante muova un indotto enorme. La mancanza di interesse e di sussidi crea una condizione pericolosa, i professionisti dovrebbero arrivare vivi a un’ipotetica data di riapertura che nessuno ancora conosce, mentre devono pagare l’affitto, le bollette...». Parole che, adesso, risuonano ancora più forti. L’ultimo dj set in streaming che lo ha visto protagonista dal suo home studio, lo scorso 21 dicembre, sul canale Facebook di Technics.

Chiara Maffioletti per corriere.it il 2 marzo 2021. Per Claudio Cecchetto, Coccoluto — morto all’alba di martedì all’età di 59 anni —«è sempre stato di una categoria a parte. Quando si parta dei dj ti vengono in mente quelli che fanno casino, che vogliono diventare estremamente popolari e che magari mirano a fare tv. Lui no». Cecchetto, negli anni, ha provato diverse volte a convincerlo a passare dall’altra parte: «L’ho corteggiato a lungo — confessa —. Mi sarebbe piaciuto vederlo in radio e anche lui in qualche modo era tentato, ma alla fine ha sempre prevalso il suo timore di snaturarsi». Secondo il talent scout, non era strategia, ma natura: «Lui era allineato alla sua politica: era un disc jockey puro, da discoteca: quello era il suo ambiente, quello dove ha sempre date il massimo. Dietro le sue scelte c’era una filosofia precisa: era un intellettuale della consolle».

La sua filosofia. Il motivo è semplice per chi frequenta i club, meno per chi ne è estraneo: «Se tu andavi ai suoi spettacoli ascoltavi una musica non consueta, non di quelle che passano in radio. Sentivi musica da discoteca, fatta per scatenarsi, ballare. Lui è sempre stato fedele alla tradizione e questo lo ha reso diverso dagli altri. Non è facile mantenere questo nome, specie quando ti tentano con altre proposte. Ma lui ha sempre preferito non rischiare di adattarsi ad altri mezzi: la sua scelta era il club». Una decisione alla base che potrebbe sembrare difficile, ma che per Cecchetto era semplicemente «la più logica ai suoi occhi. Quando sei una star non c’è niente da fare: hai un talento e fai in modo di preservare quel tipo di talento e personalità. Non li snaturi». Lui, noto per la sua calma e pacatezza, «in consolle si scatenava: obiettivamente lì veniva fuori tutta la sua passione e la sua gioia di poter esprimere quello che pensava. Ti rendevi conto, insomma, della sua filosofia: non era un cambiadischi».

Un corteggiamento fallito. La loro non è stata un’amicizia quotidiana: «Ci siamo incontrati molto spesso per lavoro e ogni volta lo abbiamo fatto molto intensamente. C’era molta stima reciproca nonostante fossi io più pop lui più clubbing. Quando gli facevo il filo per farlo venire in radio andavo spesso ai suoi spettacoli e ogni volta che partiva qualcosa mi chiedevo: ma questo pezzo cosa è? Riusciva a trovare delle chicche che diventavano il successo di un club, era impossibile non ti coinvolgessero. Avessi avuto Shazam lo avrei tenuto attivo dall’inizio alla fine di un suo spettacolo». Alla fine, proprio per questo anche Cecchetto si è fatto una ragione del suo no alla radio: «Ho capito nel tempo che sicuramente in radio non si sarebbe potuto esprimere come in consolle. Non a caso era una persona straordinaria, c’era una ragione: era speciale anche nella vita».

Coccoluto, a Roma i funerali del dj: l'addio con la sua musica e palloncini bianchi. Da ilmessaggero.it il 3 marzo 2021. Roma saluta Claudio Coccoluto: questo pomeriggio si sono tenuti i funerali del famoso dj internazionale, morto all'età di 58 anni, dopo una lunga malattia. Rose rosse e bianche a coprire la bara, e una moltitudine di commenti sul libro delle firme all'ingresso della Chiesa. All'uscita del feretro dalla chiesa un lungo applauso ha salutato la bara e nel cielo si sono levati dei palloncini bianchi distribuiti. In sottofondo ad accompagnare l'uscita della bara, alcune note della sua musica, che lo ha reso noto in tutto il mondo. «Grazie di tutto Cocco, ovunque tu sia», si legge in un messaggio. I funerali si sono svolti a numero chiuso nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. La salma ha lasciato Cassino per raggiungere Roma nella tarda mattinata: nonostante un gran numero di presenze, sono state rispettate tutte le norme di contenimento anti Covid. Tantissimi sono stati gli amici e i conoscenti che hanno portato l'ultimo saluto al dj, davanti la chiesa. Tra loro anche la moglie Paola, i figli Gianmaria e Gaia e l'attore Beppe Fiorello. Presenti inoltre anche il giornalista Pierluigi Diaco e Giancarlo Battafarano, in arte Giancarlino, proprietario del locale Goa e amico del dj; Cosmo Mitrano sindaco di Gaeta, sua città natale, ed Enzo Salera, sindaco di Cassino, città in cui viveva il dj.

Roberto D’Agostino per Dagospia il 3 marzo 2021. Ho conosciuto Claudio nei primissimi anni ’90 in una disco di Caserta. All’epoca lavoravo all’”Espresso” che mi spedì a Napoli per scrivere un reportage sui giovani del Golfo. Questo che segue è un estratto dell’articolo. “….Ma la grande sorpresa finalmente arriva: si chiama Angels of Love posse. Un gruppo di cinquanta ragazzi, sede sociale i gradini di piazza del Gesù, che ha lanciato una nuova parola d'ordine: diversità, ghetto e strada va bene, ma bisogna pur vivere. E' nata così, sulla scia di esperienze che all'estero avevano già preso piede nel decennio precedente, una vera e propria industria alternativa, parallela a quella ufficiale nel mondo della musica, dell'arte visiva e della comunicazione. All'inizio gli avevano dato un anno di vita, lo avevano definito folklore giovanile. Ci avevano riso sopra. Oggi, a tre anni di distanza, le cassandre si sono arrese: il fenomeno degli Angels of Love è diventato di massa. Ed ecco, a dispetto di tutti i pregiudizi sull'atavica neghittosità napoletana, nascere un circuito autogestito con un tenacia da gnomi svizzeri. Schivi, pacifici e graziosi, hanno uno spiccatissimo senso del gruppo, cedono in pochi alle droghe, lavorano duro per stare insieme. Un centro di propulsione per la gioventù partenopea che ha all'attivo il fine settimana dell'Hipe Club, un capannone industriale esteso come un campo di calcio, che si trova a venti minuti di macchina da Napoli e a pochi passi da Caserta, località Casapulla. Saranno 15OO a danzare sul vulcano. "E' probabile che nessun'altra attività culturale come la musica abbia una tale importanza sul comportamento umano: la musica pervade, crea e, spesso, influenza tanta parte del comportamento giovanile": da questa citazione di A. P. Merriam ("Antropologia della musica") prendono le mosse gli Angels of Love. Comunque, nessuna interpretazione sociologica, di destra o di sinistra, può definirli. Né qualunquisti, né ribelli, né boy-scout, né leoncavallini, i loro sono valori e sentimenti del tutto nuovi. Dice Claudio  Coccoluto, disc-jockey vulcanico degli Angels of Love: "La discoteca può funzionare come elemento di canalizzazione - di investimento produttivo, si potrebbe dire - di energie che altrimenti esploderebbero disastrosamente. Insomma, si devono pur aggrappare a qualcuno. La discoteca è quindi la sede occasionale dove si manifesta una eccedenza di energie, di domande frustrate, di bisogni insoddisfatti". Tre anni fa intervistai Claudio più a lungo per il mio programma su Sky, il tema era “La notte”, e quel che segue è il testo integrale: Il dj è il guardiano della notte. Personalmente io ho vissuto la notte degli anni 80 in due fasi. Una da cliente, assiduo cliente che rubava le notti allo studio universitario, con degli esiti per la mia carriera disastrosi, e una da protagonista in console. Quindi l’osservazione è ancora più ampia perché l’ho fatta da “consumatore”, ho vissuto la notte nel pieno della suggestione della conquista della notte come fosse un territorio inesplorato a tratti inesplorabile comunque ti confrontavi con delle realtà, e delle persone che mutavano perché la loro natura diurna era certe volte totalmente differente dalla natura notturna. Quindi questo creava una iperrealtà. In questa fase è maturata la mia voglia di andare in console ed esprimere quello che era la mia passione per la musica in una forma di comunicazione differente, che era quella di far ascoltare della musica non omologata. Fino agli anni 80, la musica, soprattutto la musica da ballo, era un sottoprodotto commerciale dove la hit di Michael Jackson veniva remixata e resa ballabile, ma non aveva dignità di musica propria. La disco music cambia le carte in tavola e diventa musica di genere. Gli anni 80 sono la separazione che viene da il periodo più brutto che abbiamo vissuto in Italia, gli anni di piombo, e il famoso edonismo reganiano di cui Roberto sa qualcosa. Parte un entusiasmo sfrenato, tutti vedono rosa, tutti pensano che prima o poi diventeranno miliardari, questo fa sì che i tempi da vivere per se stessi, cioè i tempi notturni sono i più frequentati, o meglio quelli frequentati con maggiore spirito di avventura. Potrebbe essere l’avventura sessuale, l’avventura sociale, l’avventura imprenditoriale, e quindi credo che questa esplosione abbia generato questo fenomeno pazzesco iniziato sicuramente dalla Febbre del Sabato sera che è del ’77, dove il significato di essere degli animali notturni superava quasi l’identità diurna. Credo che la cosa più importante da rilevare nel passaggio anni 80 e 90 sia stata la funzione del disk jockey che passa da semplice professionista al lavoro poco indispensabile alla riuscita della serata, a maitre à penser o deus ex machina della situazione. Questo succede principalmente perché il ruolo della discoteca è cambiato. Il club degli anni 80 era soprattutto un posto dove apparire, dove andare a parcheggiare il macchinone, dove si vede la propria fidanzata, il proprio rolex, il proprio look… C’è una sorte di respingimento di questo stato delle cose e i ragazzi sentono che si devono riappropriare degli spazi del ballo resettando tutti i parametri. Questo porta all’estetica dei club a cambiare completamente, non sono più i club patinati quelli con le poltrone di velluto con le piste luminose a essere l’oggetto del desiderio, ma sono dei posti improbabili, parcheggi, depositi, carrozzerie qualsiasi posto che fosse rubato alla quotidianità e tolto dal suo contesto abituale poteva essere valido, l’importante che fosse libero da ogni condizionamento di tipo sociale. Infatti quello che io credo sia il tratto predominante di quegli anni è la liberazione da tutti gli schemi, schemi di tipo sociale di tipo sessista di tipo classista perché si ballava tutti inesorabilmente fianco a fianco in posti che appunto non avevano posizioni privilegiate e l’unico che spiccava era proprio il dj, che era proprio il maestro di cerimonia quindi in una sorta di liturgia della discoteca con il suo altare che era la console veniva eletto a punto di riferimento anche focale della festa. Questo ha creato un unicum secondo me straordinario energetico perché il protagonismo delle persone in pista alimentava le energie del dj …e lo posso testimoniare personalmente, cioè io traevo personalmente l’energia dalle persone che ballavano e tutte le persone che ballavano non erano una massa non erano un pubblico ma erano una moltitudine di persone che io osservavo singolarmente. Quindi c’era in ballo l’unicità di chi veniva a ballare ma anche il proprio protagonismo e tutto questo creava il party. Questo è durato una quindicina di anni finché non sono arrivati i soldi che hanno inquinato questo mondo che era nato spontaneamente e hanno cominciato a commercializzare gli eventi fino a farli diventare i grandi festival i grandi club di oggi. Praticamente siamo agli anni 90 partono i rave party e partono le situazioni cosiddette house e techno, secondo che il genere fosse più morbido o più elettronico, ma soprattutto cambia l’essenza di questi raduni che era quella appunto di annullarsi in una massa di persone che condividevano lo stesso evento la stessa musica la stessa passione. La cosa interessante da notare come abbiano conquistato la notte allargandosi sempre di più fino ad arrivare all’afterhour che era la festa che seguiva il party notturno e che serviva a sublimare la notte e che dopo un po’ di anni e quindi stiamo già parlando di metà anni 90 addirittura diventava più importante del party notturno con gente che si svegliava apposta per andare all’after hour alle 8 del mattino. Tutto questo inquadrato in una specie di desiderio di conquista della notte come se fosse appunto un territorio inesplorato da conquistare, che mano a mano che si capitalizzava si cercava di andare più avanti fino ad arrivare ai giorni .. al giorno d’oggi esistono party che partono la mattina , si chiamano morning glory, è una tendenza inglese dove si bevono solo succhi di frutta o centrifugati, quindi il contrario, la negazione di quella trasgressione, di quell’idea di perdizione che si era creata intorno al rave degli anni 90. La caratteristica principale del rave party è quella che l’ha fatto veramente esplodere nel modo in cui poi è diventato anche modello per l’industria, che all’inizio non lo capiva, non riusciva ad accalappiarlo, era proprio il fatto che si trattava di una avventura notturna, una sorta di safari in cui partendo sapevi forse a malapena dove sarebbe avvenuto e cosa ci sarebbe stato ma non ne avresti avuto alcuna idea finché non fossi arrivato là dentro. E il pubblico che faceva di questo la ragione stessa della partecipazione … che cosa succederà quando finirà a che ora torneremo mah … tutto questo accadeva perché il party era illegale, illegale nel senso che non aveva la possibilità di essere compresso in uno schema legale non si potevano chiedere autorizzazioni per un rave party, e quindi c’era una sorta di passaparola quando ancora non c’erano sms o orpelli vari e addirittura ricordo che a Londra nei primi anni 90 c’erano bigliettini nelle cabine telefoniche dove chiamare numeri dove chiedere indicazioni modello caccia del tesoro. Questa cosa si è sviluppata talmente tanto e ha preso così forte nell’immaginario collettivo che la gente ha svuotato totalmente i club, i giovani non frequentavano più le discoteche deputate perché le ritenevano altro, erano un altro tipo di divertimento che a loro non interessava per cui tutto quello che è successo negli anni 90 si è sviluppato sullo schema del rave. Nel corso degli anni 90 chiaramente l’industria doveva sopperire a questa mancanza di appeal che si era creata tra il mondo giovanile di appartenenza a rave e diciamo quello istituzionale dei canali ufficiali, anche perché la discografia e tutto quello che serviva allo sviluppo di questa scena era totalmente indipendente. Quindi piano piano con una sorta di penetrazione lenta basata su sponsorizzazioni e afflusso di possibilità commerciali hanno fatto proprie le motivazioni del rave party, non esattamente le stesse ma il meccanismo di richiamo è praticamente lo stesso, oggi abbiamo un Coachella e un Burning man che sono assolutamente …. dignitosi dal punto di vista artistico ma fondamentalmente affondano la loro tipologia di organizzazione su quel concetto. Ovviamente oggi non esiste più qualcosa di paragonabile al rave party perché è cambiato completamente il sistema e probabilmente è cambiata anche la fruizione notturna proprio perché il territorio è stato conquistato, ormai le bandierine sono dappertutto la gente si rivolge ad altro e l’altro è qualsiasi giorno della giornata che si può rubare alla quotidianità per cui ci sono party di giorno in spiaggia, ci son party di giorno in montagna, ci son party ovunque, l’importante è che non siano nei luoghi deputati e in cui il sistema e tra virgolette l’industria possa attanagliare quel divertimento. Io credo che dobbiamo dire grazie a tutto il movimento gay che ha, almeno per la mia carriera personale, per il ruolo che sono riuscito ad avere in questa storia bellissima di musica e di persone che si divertono, e vi spiego perché. Il movimento gay era il depositario del divertimento notturno per ovvi motivi di ‘’confinamento’’ da parte della società. Loro di notte si potevano finalmente liberare ed esprimere e questo li ha portati a fondare praticamente il clubbing, nella maniera in cui oggi lo conosciamo tutti. E soprattutto hanno portato quel concetto di essere diversi, ma soprattutto essere se stessi che era il motivo fondante del loro movimento ma che lo è diventato per tutti. Sull’ossatura del gay clubbing si è creato poi l’house clubbing che è quello che parte dagli anni 90 e che ha fatto diventare i posti di divertimento dei posti assolutamente liberi dal punto di vista dei preconcetti di tipo sessista soprattutto ma anche classista.  Si ballava a fianco ad un transessuale a fianco a un gay, a fianco di un ricco, a fianco di un povero, senza nessun bisogno di porre degli argini. Tutto questo finché non sono nati i privé. E quella è un’altra storia. Con l’Aids muore tutto. Senza i gay è la fine di un certo tipo di locali. Penso allo Studio 54. Tutta quella spregiudicatezza, tutta quella gioia di vivere tutto quel essere pienamente se stessi durante la notte aveva sconfinato nella promiscuità più assoluta e aveva fatto succedere quello che tutti noi sappiamo, la piaga della peste dell’Aids. Ovviamente questo non ha interrotto la vita notturna , però secondo me ha dato nella sua compressione morale, ha dato il là agli anni 90, perché quello che veniva era liberarsi di tutti quei preconcetti e di tutti quei comportamenti che avevano portato tra virgolette a quell’epilogo,  in una forma molto più democratica e popolare che è quella del rave party. Diciamo che all’inizio degli anni 90 nel panorama del delle città iconiche della musica giovanile che erano come di consuetudine New York e Londra, spuntano due nomi nuovi e tutte e due nel Mediterraneo, una è Mikonos in Grecia, l’altra è Ibiza in Spagna. Devo dire che tutte e due appartengono a due nazioni che hanno avuto DNA molto prossimo storicamente a una dittatura politica, quindi probabilmente questo fattore ha creato una compressione esplosiva di voglia di vivere in maniera totale l’estate. Credo che questo sia stato il valore aggiunto che ha fatto superare il modello adriatico che era stato considerato, parliamo di Rimini e Riccione, degli anni appunto 90 con decine e decine di locali uno dietro l’altro in 20 km di costa, abbia messo questa carica esplosiva di vitalità e di grande potere di divertimento che ha contagiato l’Europa. Quindi sono diventate le mete preferite, complice anche il costo dei viaggi che si è abbassato notevolmente con gli aerei low cost. E la discoteca di Riccione si ritrova un concorrente a mille km di distanza, cosa che non era mai avvenuta prima e soprattutto in un isola dove la permissività soprattutto delle istituzioni è molto più blanda, è molto più permissiva, queste premesse per una vacanza da leoni sono chiaramente le premesse ideali. Fatto sta che negli ultimi 30 anni Ibiza è diventato il luogo assolutamente deputato per la vacanza trasgressiva, poi il valore da dare a questa parola è chiaramente soggettivo. Chiaramente questa influenza così forte e potente sulla scena del divertimento notturno ha fatto scuola quindi tutti quegli imprenditori, tutto il mondo si è rivolto a Ibiza come modello dimenticandosi che però uscendo da un locale di Ibiza hai la spiaggia dietro l’angolo. Però il discorso vero è che la confluenza di mezza Europa hanno fatto si che il pubblico che si crea in un locale di Ibiza è irreplicabile in altri locali e città del mondo fatta eccezione forse per l’Asia. Allora si cercano vie terze anche abbastanza cheap che potrebbe essere l’orribile parola “apericena” che è il frutto più evidente della crisi non solo economica ma anche sociale che ti porta a fruire in un arco temporale piccolissimo che va dalle 19 alle 22 di cibo di bere di compagnia e anche di musica magari con un dj che suona delle cose discutibili. Adesso il problema che ha una professionalità come la mia che deve far emozionare divertire le persone che ha in pista è attrarle più di quanto li attrae lo schermo del proprio smartphone. Questo è un problema serio perché sempre di più guardando una pista tu vedi delle lucine che sono appunto gli schermi accesi attivi dei tuoi astanti. Questa  non è una cosa bella per me che faccio il dj ma non è bella neanche per la società nel momento in cui i rapporti personali vengono fatti, messi in seconda battuta rispetto al fatto di avere delle persone intorno con cui scambiare il linguaggio del corpo ma anche il linguaggio quello vero e proprio. Purtroppo di questo io avevo avuto una percezione lontana nel tempo circa una decina di anni fa mi trovavo in una situazione incredibile a Manila nelle Filippine a suonare in un posto dove la platea era totalmente attratta, rapita dal cellulare, praticamente ballavano come automi guardando lo smartphone lanciandosi messaggi a due metri di distanza. Questa cosa mi fece pensare allora e mi fece capire che era una semplice premonizione fisica di quello che sta succedendo anche da noi. Probabilmente lì ha attecchito prima per ragioni sociali e da noi attecchirà dopo, ma la tendenza è quella. Tu vai in un posto dove si balla per ballare e dove invece il pubblico sta fermo a fare riprese o farsi i selfie per testimoniare il fatto di essere là qualche domanda tocca farsela. La cosa bizzarra è che il protagonismo delle persone ha creato questo movimento perché ogni singolo ballerino creava quell’unicum generale che era la pista da ballo del party. Questo protagonismo è stato sostituito in forma digitale dai selfie da geolocalizzarsi. Perché quello che ho visto cambiare negli anni era persone e ragazzi che andavano tutte le settimane a comprare vestiti usati per cambiarli e modificarli e creare le loro mise per il sabato sera. Quindi c’era un processo creativo che innestava la voglia di confrontarsi su altri temi che non fossero la musica, lo scambio sociale il punto di aggregazione che deve fare da volano a idee e scambio di idee. Adesso abbiamo lo scambio di sms di like di selfie la verità è questa. Io ti dico una cosa soggettiva, io non credo che ci sia un modo per cui la droga cambia la notte, c’è un modo per cui le persone che vogliono cambiarsi accedono a quello che è stato definito un super divertimento. Come nel sesso ho bisogno del viagra, come nello sport ho bisogno del doping, io credo che questo sia lo schema sociale. E poi c’è stata tantissima propaganda, involontaria, da parte dei media che parlando di notti da sballo e super divertimento, di trasgressione come se fosse acqua fresca, hanno messo sul vassoio una modalità di fruizione della notte che ha fatto dei danni incalcolabili. Poi il rapporto che c’è tra droga e musica, ampiamente discusso da sociologi e filosofi e tutto il resto lo sappiamo che è quasi ineluttabile.

Morto a 58 anni il dj Claudio Coccoluto. Il genio della consolle, famoso a livello internazionale, si è spento alle prime ore dell'alba nella sua casa di Cassino al termine di una lunga malattia. Novella Toloni - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale. È morto a soli 58 anni Claudio Coccoluto. Il dj, considerato uno dei giganti della consolle e apprezzato a livello internazionale, si è spento alle prime ore dell'alba nella sua casa di Cassino. Coccoluto, che era malato da tempo, aveva avuto un tracollo nell'ultimo anno fino al decesso avvenuto nelle scorse ore. Il mondo del clubbing piange la morte di Claudio Coccoluto, dj di fama internazionale, protagonista della scena musicale da oltre quarant'anni. Una vita trascorsa dietro la consolle tra dischi, remix e passione sfrenata per la musica. Nel maggio del 2020 Claudio Coccoluto aveva rilasciato una delle sue ultime interviste a Vasto Web. Parlando dei suoi esordi il dj, originario di Gaeta, aveva confessato: "Credo di essere nato con la passione per la musica. Giocavo al telegiornale con il registratore e il microfono ed ero attratto dai 45 giri, ho sempre giocato con i giradischi". Poi l'esordio come speaker radiofonico a soli 13 anni a Radio Luna, una piccola emittente locale, nella quale conduce la sua prima trasmissione. Claudio Coccoluto approda nel mondo del clubbing a metà degli anni Ottanta, quando non è ancora maggiorenne, chiamato da Marco Trani a sostituire Corrado Rizza. Un esordio che lo farà diventare uno dei giganti della consolle, capace di imporre il suo genere musicale, una variante della musica elettronica che lui definiva "underground". Primo dj europeo a suonare al Sound Factory Bar di New York, agli inizi degli anni '90 Claudio Coccoluto diventa produttore della sua musica. "Do it Whitout Thinkin", "Afromarslight" e "Mind Melody 3.0" sono alcune delle sue produzioni più famose che lo portano, nel 2008, a pubblicare l'album "Imusicselection5", una raccola di 14 tracce realizzata in un'unica sequenza di vinili mixata come in una club session. La sua storia e la sua carriera sono racchiusi, nero su bianco, nella sua prima e unica biografia "Io, DJ", pubblicata per Einaudi nel 2007. Il dj si era allontanato dalla scena musicale dopo il lockdown e in seguito alla malattia. Sui social, però, condivideva con i suoi seguaci foto e parole della sua quotidianità. L'ultimo post, una frase di Nietzsche, risale agli inizi di febbraio poi il silenzio. La morte di Claudio Coccoluto - che si è spento attorniato dalla sua famiglia, la moglie Paola e i figli Gianmaria e Gaia - ha scosso il mondo della musica e toccato nel profondo colleghi e fan del dj. Il primo a dare l'ultimo saluto sui social network a Coccoluto è stato il suo amico e socio Giancarlo Battafarano, in arte Giancarlino: "Se ne va il maestro più grande e l’amico di sempre. Ha dato cultura alla musica nei club come dj e artista fuori dal coro. Sempre pronto a metterci la faccia con i media sia per gli aspetti gioiosi sia per i problemi del nostro settore. Con lui se ne va una parte di me". Insieme a Claudio Coccoluto Battafarano aveva fondato il Goa, unico club in Italia a finire nelle classifiche dei migliori al mondo da oltre 25 anni.

L'ultima notte di "Cocco" che al giradischi suonava come un artista. Il re dei dj è morto a 58 anni. Antidivo e attento ai giovani, aveva reso celebre il "suo" Goa. Francesco De Remigis - Mer, 03/03/2021 - su Il Giornale.  Se n'è andato nella notte, alle 4,30 circa, l'orario in cui di solito lasciava la consolle. Quella del club Goa di Roma o di altri in giro per il mondo. Maestro per tanti disc jockey, «Cocco», 59 anni da compiere, è stato soprattutto un uomo attento alla sicurezza, in discoteca. Divertimento, certo. Svago e musica che, da produttore, ha contribuito a cambiare, rinnovando negli anni i colori della house e abbassando i bpm. Meno velocità e più cura dei suoni. Ma soprattutto: premura per i giovani. Claudio Coccoluto è stato uno dei dj ad aver contribuito anche a riscrivere i giudizi sul popolo della notte, sussurrando all'orecchio dell'allora ministro dell'Interno Enzo Bianco; suggerendo (e in certi casi ottenendo) che nei club si distribuissero preservativi gratis, quando l'Hiv mieteva ancora molte vittime. Era il marzo 2000 quando, con Pierluigi Diaco, invitò Bianco al Goa. Il ministro nella tana del lupo, dopo che alla Camera aveva annunciato la chiusura delle discoteche: anticipata alle tre di notte. Si confrontarono, ne venne fuori una campagna di prevenzione per le stragi del sabato sera tra «buonsenso» e «dolcezza». Funzionò. Fors'anche perché la fama di artigiano del mixer non gli ha mai dato l'aspetto snob di colleghi pure meno illustri di lui. Se riteneva di doversi schierare, c'era sempre: con i Radicali italiani, di cui è stato compagno di battaglie fino a sostenere la Rosa nel pugno di Marco Pannella ed Emma Bonino con un mini tour. O contro i giornalisti, talvolta accusati d'essere obsoleti e in malafede: anche recentemente, per la debole copertura dell'emergenza che stava vivendo il «clubbing» causa Covid. Un anti-divo. Fino all'ultimo, ha lottato affinché il mondo della notte e della musica in generale fosse riconosciuto settore «essenziale», con l'hashtag #riaccendiamotutto. Col trolley pieno di vinili e «macchine» sempre al passo coi tempi. Dal negozio di elettrodomestici del padre sulle note di Raffaella Carrà alle apparizioni in tutto il globo, Coccoluto era diventato pure sinonimo di avanguardia, sperimentazione. Affascinato dai riflessi latini del funky e del jazzy ha creato (e imposto nel mondo) pezzi di Made in Italy. Eppure, in rete, discuteva senza distanziamento da star sui suoi amati sintetizzatori, su nuove possibilità, e non evitava i gruppi di appassionati, anche su Facebook: Synth Cafè tra i tanti. Dai social al passaparola, ieri i tributi si sono susseguiti, per uno dei Re del suono elettronico del Belpaese. «Cocco». Dj, musicista, bella persona. Tra i saluti on line, il dj Linus scrive: «In ogni mestiere ci sono quelli bravi, quelli molto bravi e i fuoriclasse. Claudio era di questi». Il direttore di La7 Andrea Salerno chiede che gli venga reso giusto omaggio al Festival di Sanremo (nel 2003 fu il primo deejay chiamato nella giuria di qualità, ruolo che ricoprirà altre volte). Era malato da più di un anno ma ha continuato a regalare dirette viniliche ai suoi fan in pandemia. Mai egoista, divulgatore per certi versi: nei suoi live erano quasi d'obbligo i cellulari al cielo con Shazam attivato per capire che traccia stesse «suonando». Sua o di qualcun altro, poco importa. Era parte di un viaggio musical-culturale che in decenni di attività lo ha portato a firmare progetti anche con altri artisti. Dal brano con i Subsonica, Il mio dj, alle collaborazioni con Jovanotti. Fino a proiettare il Goa tra le discoteche top del mondo e scrivere un libro, Io, Dj, pubblicato da Einaudi nel 2007. Al giradischi s'era appassionato nella sua Gaeta, da ragazzino: strumento mai mollato in un mondo sempre più digitale. L'ha usato come prolungamento delle mani, «come la chitarra elettrica per il rock - diceva - permette di esprimere carattere e la propria tipicità». E ha avuto ragione. Così ha fatto del mestiere del dj un'arte senza compromessi. Neppure quando esplose il suo singolo di maggior successo, quel Belo Horizonti che nel '97 gli consegnò un riscontro commerciale internazionale partendo da un classico di Airto Moreira, si piegò alle logiche più becere del mercato; dando magari alle stampe un follow up che sarebbe durato poche settimane. No, «Cocco» ha sempre guardato avanti. Alla ricerca di un suono personale, puntando al contempo a scovare nuovi talenti. Tra un programma radiofonico e un volo per Londra o New York.

Luca Beatrice per "il Giornale" il 3 marzo 2021. Solo chi era giovane negli anni '90 può capire appieno lo sconforto che lascia la morte prematura (e lo dico da coetaneo) di Claudio Coccoluto. Nell' ultimo decennio del secolo XX, infatti, abbiamo assistito agli ultimi sussulti del rock emessi dai Grunge di Seattle, con chitarre, giacche di lana a scacchi e jeans sdruciti. Il resto, tutto il resto, è stato elettronica in molte variabili, dalla scena cool di Bristol all' house di Detroit, dal chill-out e indietronica che prevedevano la possibilità di ascolto rilassato alla sperimentazione incrociata con l' avanguardia minimalista, ovvero l' elettronica autoriale di tipi come Aphex Twin. Ogni genere musicale, per legittimarsi, ha bisogno di acquistare valore intellettuale, però la dance music degli anni '90 è stata soprattutto una endless night di bit, acidi, Mdma, luci e stravolgimenti che hanno cambiato il rapporto tra suono e pubblico. Ogni concezione di spazio e tempo tradizionale giunta fin lì è entrata in crisi, a cominciare dal ruolo del musicista, senza più un volto, nascosto dietro le macchine, abbarbicato tra consolle e laptop, non più una rockstar da adorare ed emulare ma lo sciamano che azionava il rito collettivo dove la gente diventa protagonista, un tappeto di mani, teste, corpi mossi senza rincorrere uno stile preciso (come accadeva ne La febbre del sabato sera e per tutti gli anni '80) ma uniti al dj in una sola e indivisibile performance. Lo testimoniano ad esempio le fotografie di Andreas Gursky e Massimo Vitali, fermi-immagine sulla generazione del ballo/sballo, la prima completamente postideologica, che dopo quelle notti ha perduto il collante che la teneva insieme. Accanto alle discoteche classiche, a Ibiza e sulla Riviera romagnola, con la Dj Culture sono subentrati altri luoghi, nelle periferie cittadine, le zone di archeologia industriale, ma anche in aperta campagna o spiagge fuori stagione per immensi e infiniti rave, spesso ai bordi della clandestinità, ove si conveniva attraverso il lascia passare (in pochi avevamo il cellulare e comunque non c' erano gli smartphone). Oltre alla fine delle ideologie, noi allora trentenni ci trovammo da un momento all' altro nel mondo globale e proprio questo tipo di musica (che alcuni rifiutarono perché non suonata) eliminò qualsiasi barriera linguistica e culturale. Mentre la rockstar parlava solo inglese, il dj poteva essere di ogni dove, anche italiano, ce ne erano tanti bravi e Claudio Coccoluto era il più bravo di tutti. Ora che le postazioni sono state spente, ora che i Daft Punk hanno detto basta, che divertirsi è un delitto ci lascia Cocco ed è come dire definitivamente addio alle notti più assurde della nostra giovinezza. Forse pochi sanno che Claudio amava l' arte: compose il sound per un video di Mario Consiglio, pop-artist di Perugia per una mostra ormai quasi vent' anni fa. E aveva una segreteria telefonica molto divertente, con lui che canticchiava un attacco di Mina, «io non ti conosco, io non so chi sei», e così non gli lasciavi il messaggio.

Il lutto nella musica. È morto Claudio Coccoluto, il gigante della consolle se ne va a 59 anni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Claudio Coccoluto è morto nel silenzio della notte nella sua casa di Cassino. Aveva 59 anni. Dj di fama internazionale, per oltre 40 anni aveva fatto musica all’avanguardia. La sua musica ha riscaldato le discoteche di tutto il mondo. Soffriva di una malattia da un anno. La sua è stata una lotta strenua ma alla fine non ce l’ha fatta. Si è spento all’alba del 2 marzo 2021. Lascia la moglie Paola e i figli Gianmaria e Gaia. “E coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica”. Così il suo ultimo post su Facebook citando Nietzsche. Sembra quasi un saluto ai suoi fan. La notizia è stata divulgata dal Corriere della Sera. Tra i primi a volergli rendere omaggio il socio Giancarlo Battafarano, in arte Giancarlino (insieme avevano fondato il Goa ,25 anni di storia nella Capitale, unico club in Italia a finire nelle classifiche dei migliori al mondo): “Se ne va il maestro più grande e l’amico di sempre. Ha dato cultura alla musica nei club come dj e artista fuori dal coro. Sempre pronto a metterci la faccia con i media sia per gli aspetti gioiosi sia per i problemi del nostro settore. Con lui se ne va una parte di me”. Nato a Gaeta il 17 agosto 1962, aveva iniziato a fare il DJ a soli 13 anni, nel negozio di elettrodomestici del padre a Lungomare Caboto nella sua città natale, ascoltando Raffaella Carrà. Nel 1978 aveva iniziato a lavorare presso la radio locale Radio Andromeda, per diventare deejay a tempo pieno a metà anni 80. Gli inizi furono al Seven Up di Gianola (frazione di Formia) e all’Histeria di Roma. Poi, Coccoluto fu il primo dj europeo a suonare al Sound Factory Bar di New York. Attivo su Radio Deejay con il programma C.O.C.C.O., dal 1990 Coccoluto produceva materiale suo: l’ultima pubblicazione a giugno 2008 (imusicselection5 – Vynil Heart). Durante il lockdown è stato molto attivo per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica sulle difficoltà del settore.

Simone Canettieri per “il Foglio” il 4 marzo 2021. Entra solo chi è in lista. Come nei club di mezzo mondo in cui ha suonato. Solo che qui siamo nella chiesa degli Artisti. E tutti vorrebbero essere su quel foglio, appena la Maserati bianca fende piazza del Popolo. La bara di Claudio Coccoluto varca l’ingresso. Il dj, 59 anni, è vestito con scarpe da ginnastica bianche, completo blu e sotto una maglietta bianca con la scritta “Silenzio”. La sicurezza si irrigidisce. Chi sì e chi no, al di là della lista, lo stabilisce Giancarlo Battafarano, Giancarlino, che con lui fondò 25 anni fa il Goa, oasi underground della Capitale. Le corone di fiori raccontano notti e legami (occasionali ed eterni). C’è quella “degli amici di Radio Deejay”, ma anche di Goody music, la palestra dell’elettronica. E poi le rose fatte arrivare “dal fratello Lapo” e il gonfalone di Gaeta, lembo di terra vista mare, da dove “Mister Co.Co.” iniziò a correre dietro alla musica. Aveva tredici anni. “Era il negozio di elettrodomestici del padre”, ricostruisce, informatissimo, don Walter Insero, già cappellano Rai. “Claudio era un artista: fondeva la musica elettronica con suoni antichi, un talento. E dietro la musica c’è l’intuito di Dio”. In chiesa si sta due per banco. In prima fila: la moglie di Coccoluto, Paola, e i figli Gaia e Gianmarco. “Quando la discoteca chiudeva e la festa finiva, papà si fermava per le foto, le critiche, gli abbracci, gli sfoghi degli ubriachi fino alla fine: senza sottrarsi, semplice e generoso”, ricorda Gianmarco, ora sulle orme del padre. Silenzio. Parte l’organo. E si pensa un po’ tutti: sarà un tributo? No. Piangono i dj che cavalcarono gli anni ’90, gli imprenditori, i buttafuori, un pezzetto di Parioli. In disparte Beppe Fiorello. Seduto Pierluigi Diaco. Ecco Dago, Roberto D’Agostino: “Lo conobbi nel ’90 a Caserta in un capannone: stavo lì per l’Espresso, era quanto di più lontano dall’etichetta del dj scemo”. Fuori si stringono ragazzi, si vedono reduci (con ferite) di notti andate. Tatuaggi. Belle signore. Mascherine di Radio Stardust. Funerale romano, discorsi americani (“Ao, a New York i locali so’ aperti con la mascherina, ma dice che c’è un impiccio tra Cuomo e De Blasio”). Almeno due generazioni, da mesi senza mecche dove andare, vista la serrata delle discoteche. Esce la bara. Palloncini bianchi in aria, una cassa pompa la musica di Coccoluto. C’è chi accenna un passo, una mossa.

Estratto dell'intervista a Claudio Coccoluto da "Dago in the sky" il 2 marzo 2021. Personalmente io ho vissuto la notte degli anni 80 in due fasi. Una da cliente, assiduo cliente che rubava le notti allo studio universitario, con degli esiti per la mia carriera disastrosi, e una da protagonista in console. […] Ho vissuto la notte […] come fosse un territorio inesplorato a tratti inesplorabile comunque ti confrontavi con delle realtà, e delle persone che mutavano perché la loro natura diurna era certe volte totalmente differente dalla natura notturna. Quindi questo creava […] una iper realtà. […] In questa fase è maturata la mia voglia di andare in console ed esprimere quello che era la mia passione per la musica in una forma di comunicazione differente, che era quella di far ascoltare della musica non omologata che fino agli anni 80, la musica, soprattutto la musica da ballo, era un sottoprodotto commerciale dove la hit di Michael Jackson veniva remixata e resa ballabile, non aveva dignità di musica propria. La disco music cambia le carte in tavola […] dopo arriveranno l’house l’elettronica ma siamo già negli anni 90. Torniamo agli anni 80, che segnano la separazione con gli anni di piombo, e il famoso edonismo reganiano di cui Roberto sa qualcosa. Parte un entusiasmo sfrenato, tutti vedono rosa, tutti pensano che prima o poi diventeranno miliardari, questo fa sì che la notte venga vissuta con maggiore spirito di avventura […] sessuale, sociale, imprenditoriale, e quindi credo che questa esplosione abbia generato questo fenomeno pazzesco. L'inizio è stato dato sicuramente da "La febbre del sabato sera" che è del 78 dove la vita notturni superava l’identità diurna. […] La cosa più interessante negli anni 80 e 90 credo sia stata la funzione del disk jockey che […] diventa maitre a penser o deus ex machina della situazione. Questo succede perché il ruolo della discoteca è cambiato: mentre il club degli anni 80 era soprattutto un posto dove apparire, dove andare a parcheggiare il macchinone, dove mostrare il rolex o il proprio look, negli anni 90 i ragazzi sentono di doversi riappropriare degli spazi del ballo resettando tutti i parametri. Questo porta l’estetica dei club a cambiare completamente, non sono più patinati, con le poltrone di velluto, le piste luminose. I luoghi in cui si balla diventano quelli più improbabili: parcheggi, depositi, carrozzerie. Qualsiasi posto che fosse rubato alla quotidianità e tolto dal suo contesto abituale poteva essere valido, l’importante era che fosse libero da ogni condizionamento sociale. Infatti il tratto predominante di quegli anni è stato la rottura degli schemi. Si ballava tutti fianco a fianco, senza differenze di classe, in posti dove l’unico a "spiccare" era il dj, che era diventato un "maestro di cerimonia" nella liturgia della discoteca. Il suo altare, che era la console, veniva eletto a punto di riferimento, anche focale, della festa. Questo ha creato un unicum straordinario: il protagonismo delle persone in pista alimentava le energie del dj in console. Questo è durato una quindicina di anni finché non sono arrivati i soldi, che hanno inquinato questo mondo spontaneo e hanno cominciato a commercializzare gli eventi. Trasformandoli nei grandi festival di oggi. Negli anni 90 partono i rave party e le feste house-techno. Cambia l’essenza di questi raduni che era quella di annullarsi in una massa di persone che condividevano la stessa musica. La cosa interessante da notare è come siano state conquistate le ore della notte, allargandosi sempre di più fino ad arrivare all’afterhour che era la festa che seguiva il party notturno e che serviva a sublimare la notte. A metà degli anni 90, l'after addirittura diventava più importante del party notturno, con gente che si svegliava apposta per andare all'evento delle 8 del mattino. Tutto questo va inquadrato nel desiderio di conquista della notte come se fosse appunto un territorio inesplorato. Oggi esistono party che iniziano la mattina, si chiamano "Morning glory". È una tendenza inglese: si bevono solo succhi di frutta o centrifugati. È la negazione di quella trasgressione, di quell’idea di perdizione che si era creata intorno al rave degli anni 90. La caratteristica principale del rave party era il suo essere un'avventura notturna, una sorta di safari in cui non sapevi cosa sarebbe successo. Né quando sarebbe finito. Tutto questo accadeva perché il party non aveva la possibilità di essere compresso in uno schema legale: non si potevano chiedere autorizzazioni per un rave party. C’era una sorta di passaparola, quando ancora non c’erano gli sms. A Londra nei primi anni 90 c’erano bigliettini nelle cabine telefoniche che indicavano numeri da chiamare per chiedere indicazioni per raggiungere il rave, modello caccia del tesoro. Questa cosa si è sviluppata talmente tanto che la gente ha svuotato i club: i giovani non frequentavano più le discoteche. Nel corso degli anni 90 chiaramente l’industria doveva sopperire a questa mancanza di appeal che si era creata tra il mondo giovanile dei rave e quello "istituzionale". Quindi, piano piano, con una sorta di penetrazione lenta basata su sponsorizzazioni e possibilità commerciali, il mondo della discografia e della musica ha fatto il meccanismo di richiamo dei rave e oggi abbiamo Coachella, Burning man. Ma è cambiata la fruizione notturna proprio perché quel "territorio" è stato conquistato. Dobbiamo dire grazie al movimento gay che era il depositario del divertimento notturno, zona in cui era stato confinato dal resto della società. Di notte i gay potevano finalmente esprimersi e questo li ha portati a fondare il clubbing, così come lo conosciamo oggi. E soprattutto hanno sdoganato l'idea dell'essere "diversi", cercando di essere loro stessi.  Sull’ossatura del gay clubbing si è creato poi l’house clubbing che parte negli anni 90. Luoghi liberi dal punto di vista dei preconcetti: gli etero ballavano con i transessuali e gay, i ricchi con i poveri, senza nessun bisogno di porre dei confini. Tutto questo è durato finché non sono nati i privè. E quella è un’altra storia. L'arrivo dell'Aids su larga scala, mette fine agli anni '80 e a un certo tipo di locali. Penso allo "Studio 54", per capirci. Finisce quella spregiudicatezza, quella gioia di vivere, tutto quel essere pienamente se stessi durante la notte che aveva sconfinato nella promiscuità più assoluta. Ovviamente questo non ha interrotto la vita notturna che è cambiata in una forma molto più democratica e popolare come quella del rave party. All’inizio degli anni 90 le città iconiche della musica giovanile erano New York e Londra. Ma poi spuntano due nomi nuovi, e tutte e due nel mediterraneo: una è Mikonos in Grecia, l’altra è Ibiza in Spagna. Entrambe appartengono a due nazioni che hanno avuto nel passato recente una dittatura politica. Fatto che ha probabilmente creato una compressione che poi è esplosa in voglia di vivere che è stato il valore aggiunto che ha fatto superare il "modello adriatico" fondato sui locali di Rimini e Riccione. Mykonos e Ibiza sono diventate le mete più gettonate, complice anche il costo dei viaggi che si è abbassato notevolmente. La discoteca di Riccione si ritrova improvvisamente due concorrenti a basso costo, che offrivano meno divieti, più libertà. E negli ultimi 30 anni Ibiza è diventato il paradiso della trasgressione. Il modello ha fatto scuola e tutto il mondo ha provato a copiare Ibiza, dimenticando che un locale che ha l'uscita sulla spiaggia non è identico a un altro che è in una grande città. Quindi quel che si crea in un locale di Ibiza non è replicabile altrove fatta eccezione forse per l’Asia. A Shanghai, Hong Kong e Singapore succedono cose interessanti. In Europa c'è un ripensamento dell’industria e del divertimento notturno che ora vede Ibiza come modello da abbattere. Visto che non si può essere competitivi con un’isola che ha quelle caratteristiche, si cercano altre strade, anche abbastanza cheap. Mi riferisco a iniziative come “l'apericena”, frutto più evidente della crisi non solo economica ma anche sociale. In un arco temporale ristretto, dalle 19 alle 22, si deve ingurgitare tutto: cibo, cocktail, chiacchiere e magari anche la musica discutibile di un dj. Chi fa il mio lavoro deve far emozionare le persone che ha in pista e attrarle più di quanto faccia uno smatphone. Questo è un problema serio: quando guardi una pista, vedi le lucine degli schermi accesi. Di questa situazione avevo avuto una percezione lontana una decina di anni fa. Ero a Manila, nelle Filippine, a suonare in un posto dove la platea era totalmente rapita dal cellulare. Ballavano tutti come automi guardando lo smatphone e lanciandosi messaggi a due metri di distanza. Probabilmente lì ha attecchito prima per ragioni sociali ma la tendenza è quella. Basta pensare che in moltissime manifestazioni dove il ballo dovrebbe essere protagonista, il pubblico sta fermo a fare riprese o farsi i selfie. Il protagonismo nella pista da ballo è stato sostituito dai selfie. Prima i ragazzi andavano tutte le settimane a comprare vestiti, nuovi o usati, per creare le loro mise per il sabato sera. Volevano essere notati ma c’era un processo creativo alla base che innescava poi un confronto personale e sociale. Adesso abbiamo lo scambio di sms, di like, di selfie. Il wifi è diventato fondamentale per la fruizione del locale: se non c’è, i clienti vanno altrove. Il futuro della notte? E' il suo superamento. La conquista della notte l'ha resa un ghetto. L’abbiamo omologata e costretta ad essere conforme agli standard dettati da Ibiza, dai Festival, dall’industria. Cosa sarà la notte di domani? Come sarà il divertimento? Il club di domani sarà il luogo che sfuggirà a ogni regola. La droga non ha cambiato la notte. Sono le persone che vogliono "cambiarsi" la notte e usano droga. Nell’era in cui le prestazioni dovevano essere top, si pensava che anche il divertimento avesse bisogno di qualcosa per andare oltre. E' come il viagra per il sesso o il doping nello sport. E poi c’è stata tantissima propaganda involontaria da parte dei media che parlando di "notti da sballo", come se fosse acqua fresca, hanno proposto una modalità di fruizione che ha fatto danni incalcolabili. La verità è che ogni situazione è personale. La notte, come situazione generalizzata, non esiste: esistono le singole esperienze. Le notti delle persone.

Inediti, vinili e cimeli: a casa di Coccoluto, il dj artista della musica dance. Murales, un disco e l’archivio con la monumentale collezione di 33 giri. Legati in un omaggio intitolato “Progetto infinito”. Fan e famiglia celebrano così il musicista che ha cambiato la club culture. Francesca De Sanctis su L'Espresso il 12 aprile 2021. In quella grande casa tutto parla di lui: la collezione infinita di dischi in vinile scelti e acquistati con cura, uno per uno, nel corso degli anni; i file audio, centinaia, caricati e sparsi almeno in una decina di computer, e poi il mixer, i giradischi, le fotografie di una vita trascorsa alla perenne ricerca della musica giusta consumando puntine in ogni angolo del mondo, nei club, nei rave, nelle gallerie d’arte, nelle piazze e sui palcoscenici, ma sempre stando tra la gente e dalla parte della gente, nonostante il successo, le serate al Sound Factory Bar di New York e i brani ai vertici delle classifiche come Belo Horizonti. Nella casa di Cassino in cui viveva Claudio Coccoluto - dj amatissimo, ma anche remixer, produttore, imprenditore, docente, comunicatore, scomparso a 58 anni dopo una lunga malattia il 2 marzo scorso - aveva racchiuso tutto il suo mondo. Lì dentro, fra mura che trasudano ancora una passione sconfinata per la musica, non c’e solo la sua famiglia - la moglie Paola e i figli Gianmaria e Gaia – ma anche il suo lavoro, il suo studio di registrazione, dove si era rintanato soprattutto nell’ultimo anno, da quando era scoppiata la pandemia, che non aveva frenato la sua voglia di rimanere in contatto con i fan. E così via libera ai dj set sui canali social, ai live e alle chiacchierate, alle dirette in cui poteva mixare aprendo il suo spazio privato al pubblico. «Ha iniziato a mettere vinili e a usare i giradischi nel negozio di elettrodomestici di mio nonno Erasmo, a Gaeta. Il suo primo studio di registrazione, a Cervaro, me lo ricordo come un luogo magico, un rudere. Si chiavava House without windows, un buco senza finestre. Eppure per me, che ero un bambino, era così affascinante», racconta il figlio Gianmaria, 27 anni, neolaureato in Sound design allo Ied di Roma, e anche lui dj. Claudio Coccoluto aveva iniziato a lavorare come dj negli anni Settanta in uno dei tanti network privati, Radio Luna, poi diventata famosa per il programma di Cicciolina, come racconta lui stesso in un libro di qualche anno fa in cui ripercorre la sua carriera (“Io,dj”, scritto con Pierfrancesco Pacoda e pubblicato da Einaudi). «Prima che cominciassi io non era un mestiere, non aveva una dignità», scriveva parlando del dj, che per lui ha il compito di «deviare il corso del fiume della musica», perché «gli altri non si giocano la carriera con la sperimentazione». E per tutta la vita non ha fatto altro che dimostrare al mondo, attraverso le sue performance prima nelle discoteche del litorale pontino, poi nei locali romani e perfino nelle capitali europee fino ad arrivare negli Stati Uniti, che la musica è arte, anche quella che nasce da una selezione di brani, dai loop, dalla creatività di una persona che riesce a regalarti la serata perfetta dallo stile unico e inconfondibile, come il suo. Racconta Gianmaria: «Mio padre ha sempre ascoltato tutti i generi, aveva una visione totale della musica che mi ha trasmesso e di cui lo ringrazierò sempre. La sua collezione di vinili, a cui si è aggiunta dal 2007 anche la mia, conta oggi almeno 120mila pezzi dislocati in vari punti della casa. Da piccolo non mi rendevo conto di cosa facesse esattamente. Sapevo che il suo lavoro aveva a che fare con la musica e che il weekend era fuori città. Ma ero abbastanza disinteressato al suo mondo, me ne andavo in giro con i miei amici a bordo di uno skateboard. Finché un giorno qualcosa è cambiato. Non so esattamente cosa, ma ho avvertito il fascino della musica e per 10-15 anni l’ho seguito ovunque. Quante serate, albe, viaggi in macchina parlando di tutto abbiamo condiviso... Un’estate, mentre stavamo andando a Cavo Paradiso, a Mykonos, perse la sua borsa di dischi, che per lui era fondamentale. Stava lì tutto il lavoro, in quella borsa. Non sapeva come rimediare, ma alla fine, sfruttando la tecnologia digitale, riuscì a fare la sua serata. Che ansia però. Avevamo passato tutta la notte a scaricare audio sul pc. Ho dovuto assisterlo come secondo dj, ero una specie di operatore che selezionava i brani per lui, abituato invece a sceglierli in base al ricordo che aveva dei centrini dei dischi. Alla fine della serata papà è la proprietaria del locale mi diedero la loro benedizione concedendomi di esibirmi nell’ultima ora. È stato un grande privilegio averlo avuto come padre e aver condiviso con lui tanti momenti in cui poter vedere all’op era il suo immenso talento». Mentre racconta mettendo in fila i ricordi Gianmaria apre file, scorre fotografie, rilegge testi. Poi annuncia: «Ora partirà il Progetto Infinito, un nuovo capitolo della vita di Claudio Coccoluto, che infinitamente si propaga nel tempo, voluto da tutti noi di famiglia per mantenere in vita il suo ricordo e mettere in luce cose che non sono state ancora raccontate di lui. Questo non significa semplicemente pubblicare album postumi, ma mettere a disposizione del pubblico i tanti brani musicali, i video, i testi scritti, le fotografie, i progetti a cui aveva lavorato ma che ha dovuto mettere da parte per altri impegni. È tutto qui, si tratta solo di riunire il materiale e creare un unico archivio. Progetto Infinito è già pronto e il nome lo hanno scelto i suoi fan». Appena hanno saputo della scomparsa di Cocco – dal nome del programma che aveva su Radio Deejay, C.o.c.c.o. - hanno iniziato a invadere i canali social di messaggi per lui, definendo spesso «infinita» la sua musica, le sue emozioni, la sua presenza. Messaggi di affetto che si sono aggiunti a tanti altri arrivati da vip, che la moglie Paola ha voluto ringraziare con una lettera pubblica. E ai quali si aggiungeranno tanti altri omaggi ancora e ricordi, come i tre murales che verranno realizzati a Cassino, Gaeta e Roma. Spiega Gianmaria: « La prima novità di Progetto Infinito è la ripubblicazione del suo brano più famoso, Belo Horizonti, realizzato con Savino Martinez sotto il nome di The Heartists. Uscirà a metà aprile per la stessa etichetta fondata da papà nel 1997, The Dub, che continueremo a mantenere viva come tutta la sua etica. Subito dopo verrà pubblicato un meraviglioso album trip hop con 8-10 tracce inedite a cui papà ha lavorato negli ultimi due anni. E attraverso le tante cassette conservate verrà ricostruita la storia dell’house music come fenomeno. I video, le foto, le registrazioni saranno una bella sorpresa. Papà ha conservato, per esempio, la videoregistrazione della serata per i suoi quarant’anni, che festeggiò, tra gli altri, con Lorenzo Jovanotti al Goa di via Libetta, a Roma, a lungo la sua “casa artistica”, di cui era socio con Giancarlino, suo grande amico. Il Goa per lui era un luogo di totale libertà musicale, che ha amato fino alla fine. E anche con Jovanotti erano amici da tempo, da quando Lorenzo faceva il dj. Poi nel corso degli anni anni hanno collaborato spesso, anche dal punto di vista discografico, come per il brano C.o.c.c.o Raggio. Quindi da un lato renderemo pubblico il materiale d’archivio, dall’altro gli inediti, prolungando la sua vita all’infinito. Papà è sempre stato molto curioso, attivo, interessato anche ai temi politici, disposto sempre a dialogare con i suoi fan così come con docenti o intellettuali». Ha portato avanti tante battaglie nel corso della sua vita, anche politiche. Nel 2006 appoggiò la lista della Rosa nel Pugno, per esempio, e sposò tante cause dei Radicali, dal referendum sull’eutanasia alla marcia per l’Orgoglio laico. Ma forse, ciò che più gli stava a cuore era rivendicare piena dignità alla club culture. Che non considerava solo un intrattenimento, ma un luogo in cui esercitare un’arte. Era un fuoriclasse Claudio, senza dubbio. Eppure aveva sempre un occhio di riguardo verso tutti. Nell’ultimo anno, da quando era scoppiata l’emergenza sanitaria, era intervenuto più volte per sottolineare lo stato di abbandono in cui lo Stato aveva lasciato i lavoratori del settore musicale. Una denuncia che aveva dichiarato anche in un’intervista di Emanuele Coen sulle colonne di questo giornale (per il quale curò, anni fa, una rubrica dedicata alla vita notturna in Italia). E di recente aveva fondato il Club Festival Commission per affiancare le istituzioni nel rispetto della categoria dei lavoratori ormai fermi e senza sostegni economici. «Un giorno, due settimane dopo l’operazione al femore, in pieno lockdown, l’ho accompagnato in Parlamento. Voleva incontrare il ministro Franceschini per esporgli gli effetti devastanti di questa pandemia sul mondo del clubbing. Zoppicava, ma quando il deputato Alessio Villarosa gli chiese cosa era successo, lui rispose che era caduto. È stato un leone anche nel combattere la malattia. Questo anno di immobilità purtroppo ha determinato un crollo economico per molte famiglie. Per noi è stato un duro colpo e nel frattempo lui non c’è più...», rievoca Gianmaria.

Quando gli chiediamo qual è stato il suo più grande insegnamento lui risponde: «L’umiltà». Chi lo ha conosciuto, come me, lo sa bene. Il successo non gli ha mai dato alla testa. Claudio era sempre a disposizione di chi lo interpellava, con un’attenzione particolare verso i giovani. Il suo grande talento era anche questo, essere libero e aperto in tutto, nelle scelte di lavoro come nel dialogo con gli altri. «Alla fine di ogni serata non andava mai via se non aveva salutato tutti, fino all’ultima persona», ricorda il figlio: «Era speciale, aveva una grande forza e un grande carisma. Ora continuerà a vivere con il Progetto Infinito». Generoso, colto, raffinato, appassionato, la musica occupava le sue giornate: «La mia voglia è quella di giocare, come ho sempre fatto, con note e suoni, come un bambino gioca, montandoli e smontandoli, con i mattoncini di plastica colorati» scriveva. E ancora: «Non uscirò mai dalla mia ossessione per il suono. E nel frattempo si apriranno altri orizzonti inediti, da esplorare. È una prospettiva infinita». Ecco che ritorna questo termine, infinito. Insomma, hai trovato anche stavolta il modo per farti voler bene e per continuare a miscelare emozioni con il tuo stile unico. Grazie, Claudio.

·        Si è ucciso Antonio Catricalà.

(ANSA il 24 febbraio 2021) L'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed ex Garante dell'Antitrust, Antonio Catricalà, è stato trovato morto nella sua abitazione a Roma, nel quartiere Parioli. Catricalà, secondo quanto si apprende da fonti investigative, si sarebbe suicidato sparandosi un colpo di pistola. Sul posto è presente la Polizia e la Scientifica. La Procura di Roma ha avviato un fascicolo di indagine in relazione al suicidio dell'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed ex Garante dell'Antitrust, Antonio Catricalà che si è tolto la vita questa mattina nella sua abitazione. Il pm di turno Giovanni Battisti Bertolini si è recato in via Antonio Bertoloni nel quartiere Parioli.

(ANSA il 24 febbraio 2021) Antonio Catricalà, nato a Catanzaro il 7 febbraio del 1952, è stato avvocato, magistrato, dirigente della pubblica amministrazione. Quindi politico. Tutti ruoli che ha mantenuto fino alla fine e che hanno caratterizzato la sua attività tanto da farlo definire, quasi trasversalmente, un civil servant "poliedrico" e sempre in servizio in ruoli di interesse pubblico. Ha iniziato i primi passi della sua attività, dopo la laurea in giurisprudenza, come avvocato cassazionista, è stato magistrato del Consiglio di Stato , presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato. E Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo di Mario Monti, nel 2011,per poi ricoprire il ruolo di Viceministro al Ministero dello Sviluppo Economico con Enrico Letta. L'intercambiabilità tra ruoli politici e ruoli tecnico-manageriali è stata una sua costante. Il 30 giugno 2015 viene nominato presidente dell'OAM (Organismo per la gestione degli Elenchi degli Agenti in attività finanziaria e dei Mediatori creditizi). Il 20 aprile 2017 diventa presidente di Aeroporti di Roma, ruolo che ricopriva tutt'ora e nei giorni scorsi era stato nominato presidente dell'IGI (l'Istituto grandi infrastrutture). Allievo di uno dei massimi esperti di diritto privato, il professor Rescigno, Catricalà ha anche avuto una parentesi come professore all'Università degli studi di Roma Tor Vergata. È stato presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato dal 9 marzo 2005 al 16 novembre 2011. Il 16 novembre 2011 il salto nella stanza dei bottoni del governo con la nomina a Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il 2 maggio 2013 viene nominato Viceministro al Ministero dello Sviluppo Economico con il Ministro Flavio Zanonato nel Governo Letta con delega alle comunicazioni. Un civil servant apprezzato in modo particolare nel centrodestra. Tanto da essere candidato nel 2014 alla carica di giudice della Corte costituzionale in sostituzione del giudice Luigi Mazzella. Catricalà fu sostenuto direttamente da Silvio Berlusconi e Gianni Letta, superando la candidatura di un azzurro doc, quella dell'ex Presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera e della Commissione d'inchiesta sul G8 di Genova Donato Bruno. E le voci di un suo nuovo ruolo nel governo erano cominciate a circolare proprio pochi giorni fa, facendolo entrare nella rosa dei possibili sottosegretari a Palazzo Chigi, quando Sergio Mattarella conferì l'incarico a Mario Draghi di formare il nuovo Esecutivo.

Morto suicida l’ex sottosegretario Catricalà. Il Dubbio il 24 Feb 2021. Secondo quanto si apprende da fonti investigative, si sarebbe suicidato con un colpo di pistola. L’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed ex presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Antonio Catricalà, è stato trovato morto nel suo appartamento ai Parioli a Roma. Secondo quanto si apprende da fonti investigative, si sarebbe suicidato con un colpo di pistola. La Scientifica della Polizia sta provvedendo ai rilievi del caso.

Il 18 febbraio scorso, l’Assemblea generale dell’Istituto Grandi Infrastrutture (Igi) lo aveva eletto presidente, succedendo a Luigi Giampaolino che era in carica dal 2019. L’Istituto Grandi Infrastrutture, è un centro-studi, fondato nel 1986, è stato costituito con lo scopo di approfondire i temi degli appalti pubblici. Catricalà, nato a Catanzaro il 7 febbraio 1952, era stato presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato dal 2005 al 2011. Successivamente dal 2011 al 2013 era stato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel Governo guidato da Mario Monti e dal 2013 al 2014 è stato viceministro per lo Sviluppo economico durante il Governo Letta. Avvocato cassazionista, è stato magistrato del Consiglio di Stato della Repubblica italiana. Dal 2019 è presidente della società Aeroporti di Roma.

ANTONIO CATRICALÀ. Da cinquantamila.it.

Catanzaro 7 febbraio 1952. Giurista. Viceministro di Flavio Zanonato al Ministero dello Sviluppo economico del Governo Letta, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nei governo Monti e Berlusconi (2001). Presidente dell’Antitrust dal 2005 al 16 novembre 2011.

«“Sono figlio di un repubblicano e sono stato, in passato, di area laico socialista”, ha confessato un giorno al Corriere. (…) Calabrese di Catanzaro, è calabrese al punto da partecipare con orgoglio alla “Festa dei calabresi nel mondo” fianco a fianco con il calciatore del Milan Rino Gattuso» (Sergio Rizzo). Antonella Baccaro: «È il più meridionale del governo» [Antonella Baccaro, Cds 17/11].

Laureato con lode in Legge a Roma, è nominato, dopo un concorso, assegnista universitario presso la prima cattedra di Diritto privato (Università La Sapienza di Roma – Facoltà giuridica). A 24 anni vince il concorso in magistratura e supera l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense. Vince i concorsi per procuratore dello Stato e, a 27 anni, per avvocato dello Stato.

A 30 ha rappresentato il governo nel processo Moro; poi è diventato consigliere di Stato (1982). Presidente e componente di collegi amministrativi, ha collaborato con l’Ufficio legislativo della presidenza del Consiglio dei ministri ed è stato capo di gabinetto in diversi ministeri: nel 1994 alla Funzione pubblica con Giuliano Urbani (Berlusconi I) e poi con Franco Frattini (Dini); nel 1996 alle Comunicazioni con Antonio Maccanico (Prodi I); nel 1999 ancora alla Funzione pubblica con il ministro Angelo Piazza (D’Alema).

È stato anche segretario generale dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Ha attraversato negli ultimi anni da viceministro o sottosegretario alla Presidenza del Consiglio governi di tutti gli schieramenti, Berlusconi, Monti e adesso Letta: «Tecnicamente bravissimo, simpatico nei rapporti personali, in possesso di una rete di relazioni fittissima, Catricalà è riuscito in questi anni a risultare sempre affidabile per Silvio Berlusconi senza mai perdere la simpatia del centro-sinistra. Così nel 2001 B. lo vuole a palazzo Chigi come segretario generale della Presidenza del Consiglio.

L’EX GARANTE ANTITRUST ANTONIO CATRICALA’ SI E’ SPARATO E SUICIDATO. Il Corriere del Giorno il 24 Febbraio 2021. Antonio Catricalà si è sparato nella sua abitazione in via Antonio Bertoloni, nel quartiere Parioli a Roma. dove è stato trovato morto sul balcone del suo appartamento. L’ex Garante dell’ Autorità Antitrust Antonio Catricalà ,  già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ed attuale socio dello studio legale Lipani Catricalà & Partners, è stato trovato morto questa mattina nella sua abitazione a Roma, nel quartiere Parioli in via Antonio Bertoloni. Secondo quanto si apprende da fonti investigative Catricalà si sarebbe suicidato tra le 9.30 e le 10 di questa mattina sparandosi un colpo di pistola alla testa con una Smith & Wesson calibro 38 sul proprio balcone al terzo piano mentre la moglie era in casa. A dare l’allarme alcuni vicini che hanno udito un colpo di pistola e hanno immediatamente chiamato il 112.

Sul posto sono subito intervenuti gli agenti delle volanti della Polizia di Stato che hanno isolato lo stabile, impedendo a chiunque di entrare se estraneo al palazzo, e presenti gli investigatori della Scientifica che stanno provvedendo ai rilievi del caso in attesa dell’intervento del medico legale per cercare l’arma che probabilmente è rimasta sotto il corpo. Catricalà sposato e con due figlie aveva compiuto 69 anni lo scorso 7 febbraio. Laureatosi in giurisprudenza a 22 anni, avvocato cassazionista, è stato magistrato del Consiglio di Stato della Repubblica italiana. E’ stato consigliere e presidente di sezione del Consiglio di Stato. Già docente di Diritto privato all’Università di Roma Tor Vergata, ha insegnato Diritto dei consumatori all’Università LUISS Guido Carli a Roma.  Viceministro dello Sviluppo Economico durante il governo Letta. in passato aveva ricoperto per sei anni, dal 2005 al 2011 l’incarico di presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Nel suo vasto curriculum professionale annoverava anche una duplice esperienza dal 2011 al 2013 come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nell’esecutivo guidato dal prof. Mario Monti . Dal 2017 era anche presidente di Adr, la società che gestisce l’aeroporto di Fiumicino. Il 18 febbraio scorso Catricalà era stato nominato presidente dell’ IGI, Istituto Grandi Infrastrutture, un centro-studi, fondato nel 1986 dai grandi costruttori di opere pubbliche, con lo scopo di approfondire i temi degli appalti pubblici, anche in vista degli appuntamenti europei degli anni Novanta.  Nel 2014 fu candidato dal centrodestra alla Corte costituzionale, in sostituzione del giudice Luigi Mazzella , venendo sostenuto da Berlusconi, e Letta, ma alla fine ritirò la sua candidatura in seguito ai malumori interni alla coalizione.  Dopo la rinuncia alla corsa, si dimise da Presidente di Sezione del Consiglio di Stato della Repubblica Italiana per intraprendere la carriera di avvocato. Dopo avere fondato la Law Academy diviene partner dello Studio Lipani Catricalà &Partners e nel 2015 era stato nominato presidente dell’Oam – Organismo per la gestione degli Elenchi degli Agenti in attività finanziaria e dei Mediatori creditizi. Nel 2003 è stato nominato Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. La moglie di Catricalà ha riferito alla Polizia che da qualche settimana suo marito  era preoccupato per via di un problema cardiaco per il quale era sotto osservazione medica. Uno stato d’ansia che potrebbe essere alla base del gesto del marito. Numerosi i messaggi di cordoglio da parte dei rappresentanti delle istituzioni e del mondo politico. La presidente del Senato Elisabetta Casellati, informando l’aula della morte dell’ex sottosegretario, esprimendo “il cordoglio personale e dell’Assemblea” alla famiglia, ha fatto rispettare nell’aula di Palazzo Madama un minuto di silenzio. “Grande amico, grande servitore dello Stato, Antonio Catricalà lascia un incolmabile vuoto in tutti quelli che lo hanno conosciuto e hanno avuto l’onore e il privilegio di lavorare con lui. È un dolore fortissimo”, ha detto il ministro per la funzione Pubblica Renato Brunetta. “Con sconcerto e profondo dolore apprendo della morte di Antonio Catricalà, una notizia raggelante che lascia senza parole. Conoscevo Antonio da molti anni, ho sempre apprezzato le sue doti straordinarie, la sua intelligenza, il suo equilibrio, la sua sensibilità. Era una persona davvero eccezionale. Ai suoi familiari va la mia più sentita vicinanza”. Così in una nota Deborah Bergamini, deputata di Forza Italia. “La notizia della morte di Antonio Catricalà, che giunge improvvisa e inaspettata, porta con sè grande dolore per la scomparsa di una personalità capace, moderata e affabile. Lascia un vuoto pesante. Antonio Catricalà è stato ai vertici delle istituzioni italiane garantendo sempre professionalità e competenza, rappresentando nel migliore dei modi la società italiana. Dispiace apprendere delle dinamiche della sua scomparsa, alla sua famiglia le mie più sentite condoglianze”. Così Francesco Battistoni, senatore di Forza Italia e vicepresidente della commissione Agricoltura del Senato.

Suicidio Catricalà, la moglie: «Era in ansia per la salute». Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 24/2/2021. Catricalà suicida, la moglie: «Era in ansia per la salute». Dall’Antitrust agli aeroporti. Nella Capitale l’ex Garante alla concorrenza, Antonio Catricalà, si è sparato mercoledì mattina sul terrazzo di casa. La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio. La scomparsa di Antonio Catricalà, un lungo curriculum da «civil servant», che ieri mattina si è tolto la vita in casa propria, ha colto di sorpresa il mondo delle istituzioni di cui faceva parte, e non solo. La moglie ha riferito alla polizia che da qualche settimana era preoccupato per via di un problema cardiaco per il quale era sotto osservazione medica. Uno stato d’ansia che potrebbe essere alla base del gesto del marito. L’avvocato e magistrato, 69 anni, è stato trovato senza vita poco dopo le nove di ieri mattina, proprio dalla moglie, sul terrazzo di casa, al primo piano di un palazzo di via Antonio Bertoloni, ai Parioli: Diana Agosti ha raccontato di aver udito un colpo e di essere uscita. Per Catricalà non c’era più nulla da fare, nonostante l’intervento di un medico del 118.

L’inchiesta: un fascicolo contro ignoti, «un atto dovuto». Sul posto gli agenti della Squadra mobile diretti da Luigi Silipo che hanno recuperato, con la Scientifica, la pistola, un revolver Smith&Wesson calibro 38, regolarmente detenuta. La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio, un «atto dovuto» in attesa dei risultati dell’autopsia, che consente anche di indagare a tutto campo. La polizia, con la quale ieri hanno collaborato anche i Vigili del fuoco durante il sopralluogo nel palazzo, avrebbe acquisito alcuni documenti nello studio dell’avvocato per capire le ragioni del tragico gesto, visto che non avrebbe lasciato messaggi o biglietti d’addio. Sei anni fa, sempre a febbraio, la polizia sventò un furto nella sua abitazione, da dove fuggirono tre uomini incappucciati.

Chi era Antonio Catricalà. Catricalà era nato 69 anni fa a Catanzaro. Allievo di Pietro Rescigno, a ventidue anni si era laureato con lode in giurisprudenza a Roma ed era stato nominato assegnista universitario all’Università La Sapienza, facoltà di Giurisprudenza. Per due anni aveva studiato economia, sociologia, storia e scienza dell’amministrazione con Federico Caffè. Abilitatosi alla professione forense, a ventiquattro anni inizia la carriera in magistratura che lo porterà a superare i concorsi pubblici per procuratore dello Stato, avvocato dello Stato (a 27 anni) e infine consigliere di Stato. Un ragazzo cresciuto in fretta, che del fanciullo ha sempre conservato una passione per i soldatini, di cui aveva raccolto oltre 350 pezzi.

Gli incarichi pubblici. La svolta pubblica della sua carriera arriva nel 2005 quando viene nominato dal governo Berlusconi presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, incarico che ricoprirà fino al novembre 2011, quando diventa sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri del governo Monti, che lo vuole accanto nell’intraprendere una breve stagione di liberalizzazioni. Al governo resterà anche col premier Enrico Letta che gli conferirà, nel maggio 2013, il ruolo di viceministro allo Sviluppo Economico. Un anno dopo viene candidato dal centrodestra alla carica di giudice della Corte costituzionale. Ma nella gara qualcosa s’inceppa: mezza Forza Italia alla prima votazione non vota per lui e Catricalà sarà costretto a ritirare la propria candidatura. Forse questo è il punto di rottura più doloroso per questo uomo di Stato, che infatti, pochi mesi dopo, dà le dimissioni da presidente di Sezione del Consiglio di Stato per riprendere la carriera di avvocato, fondando la sua Law Academy. Nel 2017 diventa presidente di Adr Aeroporti di Roma e, pochi giorni fa, era stato nominato alla guida dell’Istituto Grandi Infrastrutture. «Per il domani, continuo a immaginarmi dietro alla scrivania a studiare strategie, possibilmente vincenti, per i miei clienti» aveva detto in una delle più recenti interviste. Lascia la moglie e due figlie.

Antonio Catricalà "in stato depressivo". Il mistero del suicidio in casa: "La pistola e il bossolo, come lo spiegano?" Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. Sulla scomparsa di Antonio Catricalà si sta indagando. Le operazioni di polizia e vigili del fuoco hanno l'obiettivo di recuperare il bossolo del proiettile che lo ha ucciso. Pare sia finito su un altro terrazzo dello stesso edificio in un appartamento vuoto, scrive il Corriere della Sera. “Gli investigatori sono usciti dal palazzo di via Bertoloni portando diverse buste contenenti sembra documenti acquisiti nel corso del sopralluogo nell’appartamento e anche la pistola usata da Catricalà per togliersi la vita, una Smith&Wesson calibro 38”, si legge sul Corriere. Del caso e delle indagini se ne sta occupando giornalisticamente anche Umberto Rapetto che rivela che l’arma in questione è un “revolver” o pistola a tamburo che – a differenza delle automatiche – non espelle alcun bossolo. Rapetto infatti rivela che poi il Corriere della Sera si è corretto e nell'edizione on line ha aggiunto “modello automatico” in chiusura della frase “incriminata”. La Smith & Wesson produce e commercializza una pistola automatica che contiene un “38” e si tratta della “M&P Bodyguard 380”, ma è una “calibro 9 corto”. A scoprire il corpo è stata la moglie Diana Agosti.  Dai primi accertamenti investigativi Catricalà si sarebbe tolto la vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia. La moglie agli inquirenti avrebbe parlato di un profondo stato depressivo di cui soffriva Catricalà. "Poco prima delle 13.30 in via Antonio Bertoloni è giunta un autoscala dei vigili del fuoco con un funzionario di turno: il loro compito, secondo le prime informazioni, è quello di recuperare il bossolo del proiettile che ha ucciso Catricala’, finito su un altro terrazzo dello stesso edificio in un appartamento vuoto", scrive il Corriere. Ed è questo il passaggio sottolineato da Rapetto che poi è stato corretto in un nuovo lancio on line sul sito del quotidiano di Via Solferino.

IL “CORRIERE” E IL GIALLO DEL PROIETTILE DI CATRICALÀ.  Umberto RAPETTO - infosec.news il 24 febbraio 2021. La drammatica scomparsa di Antonio Catricalà ha scosso chiunque lo conoscesse, lo stimasse, gli volesse bene. Mentre ci si danna a cercare di capire l’incomprensibile perché, il Corriere della Sera lancia involontariamente un masso (e non semplicemente un sasso) nello stagno. L’articolo del quotidiano di via Solferino (vedi sotto) fa cenno alle operazioni di polizia e vigili del fuoco che hanno l’obiettivo “di recuperare il bossolo del proiettile che ha ucciso Catricalà, finito su un altro terrazzo dello stesso edificio in un appartamento vuoto”. Poche righe dopo si legge che “Gli investigatori sono usciti dal palazzo di via Bertoloni portando diverse buste contenenti sembra documenti acquisiti nel corso del sopralluogo nell’appartamento e anche la pistola usata da Catricalà per togliersi la vita, una Smith&Wesson calibro 38”. L’arma in questione è un “revolver” o pistola a tamburo che – a differenza delle “automatiche” – non espelle alcun bossolo. In tempi di fake news, quale delle due notizie non è vera? A seguito della nostra puntuale osservazione, alle 16,15 il Corriere della Sera aggiunge “modello automatico” in chiusura della frase “incriminata”. Rimane il problema del “calibro 38”. La Smith & Wesson produce e commercializza una pistola automatica che contiene un “38” e si tratta della “M&P Bodyguard 380”, ma è una “calibro 9 corto”. Vabbè, come nell’involucro dei “boeri” sul banco del bar, “non hai vinto, ritenta”…

Rinaldo Frignani per Corriere.it il 24 febbraio 2021. A scoprire il corpo è stata la moglie Diana Agosti. Era riverso sul pavimento del terrazzo della sua abitazione nel quartiere Parioli di Roma, al primo piano. Non si vedeva la pistola, che era finita sotto il corpo, come accertato dai poliziotti intervenuti con la Squadra mobile e il pm di turno. Antonio Catricalà, 69 anni, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e presidente dell’Antitrust, avvocato e magistrato, è stato trovato morto mercoledì mattina alle 9.10 dalla moglie che sotto choc ha chiamato il 118. I soccorritori dell’automedica hanno rilevato una ferita d’arma da fuoco, confermata dagli investigatori della polizia impegnati con la Scientifica nei rilievi sul posto, mentre il palazzo è presidiato dagli agenti delle volanti e del commissariato Villa Glori. Dai primi accertamenti investigativi Catricalà si sarebbe tolto la vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia. L’arma, regolarmente detenuta, è stata recuperata proprio sul terrazzo. Si cercano in casa eventuali messaggi di addio nei quali l’avvocato potrebbe aver spiegato i motivi del tragico gesto. La moglie agli inquirenti avrebbe parlato di un profondo stato depressivo di cui soffriva Catricalà. Poco prima delle 13.30 in via Antonio Bertoloni è giunta un autoscala dei vigili del fuoco con un funzionario di turno: il loro compito, secondo le prime informazioni, è quello di recuperare il bossolo del proiettile che ha ucciso Catricala’, finito su un altro terrazzo dello stesso edificio in un appartamento vuoto. Il bossolo sarà sottoposto a successivi accertamenti d a parte della Scientifica che sta svolgendo ulteriori indagini con la Squadra sopralluoghi, un’unità specializzata anche nella ricostruzione di scenari particolarmente complessi. Gli investigatori sono usciti dal palazzo di via Bertoloni portando diverse buste contenenti sembra documenti acquisiti nel corso del sopralluogo nell’appartamento e anche la pistola usata da Catricala’ per togliersi la vita, una Smith&Wesson calibro 38, modello automatico.

Da huffingtonpost.it il 26 febbraio 2021. (…) La polizia avrebbe acquisito alcuni documenti nello studio dell’avvocato per capire le ragioni del tragico gesto, visto che non avrebbe lasciato messaggi o biglietti d’addio. Sei anni fa, sempre a febbraio, la polizia sventò un furto nella sua abitazione, da dove fuggirono tre uomini incappucciati. 

Aldo Torchiaro per ilriformista.it il 26 febbraio 2021. Parioli, Roma. Esterno giorno (il balcone di casa): con un colpo di pistola alla tempia Antonio Catricalà, 69 anni, mette fine alla sua vita. Avvocato diventato grand commis d’État, membro del Consiglio di Stato, sottosegretario ai rapporti con il Parlamento (governo Monti), ministro dello Sviluppo Economico nel governo Letta, a lungo Garante Antistrust e attuale presidente di Aeroporti di Roma. Cattolico praticante, professionalmente attivo, assiduo al circolo del Tiro al piattello che ai Parioli rimane il club dell’upper class, Catricalà sarebbe caduto vittima della depressione. Delinea subito quel perimetro la persona a lui più vicina, la moglie Diana Agosti che dirige alla Presidenza del Consiglio il dipartimento delle Politiche Europee. Il Presidente di Aeroporti di Roma aveva ricevuto l’ultimo incarico la settimana scorsa. Il Consiglio direttivo dell’Istituto grandi infrastrutture, infatti, pochi giorni fa aveva nominato presidente l’ex magistrato ed esponente del governo Letta. Nella carica di presidente Igi era succeduto a Luigi Gianpaolino, alto magistrato di lungo corso, morto il 2 novembre 2020 per un malore improvviso. Dall’Igi ci rispondono sotto choc. «Abbiamo appreso increduli la notizia, aveva appena inaugurato una stagione intensa e ricca di prospettive». E non tanto per dire. Al telefono il segretario generale del centro ci rivela di aver intrapreso con il presidente Catricalà un fitto rapporto, anche se l’incarico di Presidente lo aveva accettato solo il 18 febbraio scorso. «Si era messo subito al lavoro, due riunioni in presenza nei primi cinque giorni di attività, con una serie di incontri che teneva a fare, di iniziative cui stava iniziando a lavorare». Approfondiamo la natura dell’incarico: qualcuno parla di nomina pubblica, ma è sbagliato. Il centro studi Igi, ci viene detto, è una associazione privata e ha per finalità quella di approfondire i temi degli appalti pubblici nei loro aspetti normativi, anche in vista degli investimenti europei in predicato di arrivare. È il Segretario generale Igi, Federico Titomanlio, ad aprirci la schermata del suo cellulare: «Questo gruppo Whatsapp è stato creato quattro giorni fa da lui. E’ stato il neo presidente Catricalà a dirmi “Bisogna fluidificare la comunicazione interna, apriamo una chat tra tutti i membri del direttivo così ci aggiorniamo in tempo reale, tutti allineati”. Era così che lo abbiamo conosciuto solo la settimana scorsa: pieno di energia, vitale, veloce. E determinato a produrre risultati». Non solo buone intenzioni. «Questa nella chat è una comunicazione di ieri (martedì, nrd). Qui stavamo fissando la riunione di giovedì 25, pomeriggio. Ecco il suo intervento, qui ci chiede di posticipare di un’ora la nostra call perché l’ora prima avrebbe avuto un’altra persona da incontrare». Stiamo parlando di recentissimi aggiustamenti nell’agenda di oggi, giovedì 25, richiesti da Catricalà appena poche ore prima dell’estremo gesto. Domando se avessero l’impressione di avere a che fare con una persona fortemente depressa. «Ma che dice? Era più vitale di tutti. Guardi qui i suoi frequenti interventi, il suo impulso all’agenda. Era super attivo, positivo, determinato». Niente lasciava presagire il gesto? «Proprio no. Ed è per questo che siamo increduli. Una persona che nella giornata di martedì sistema per bene gli appuntamenti del giovedì, non si spara in testa il mercoledì mattina». Mentre si susseguono le attestazioni di stima della politica e i più autorevoli messaggi di cordoglio delle istituzioni vanno alla famiglia, gli amici personali di Catricalà, nella high society del Tiro al piattello dei Parioli sono letteralmente scioccati. L’avvocato Massimiliano Sammarco non trova le parole. «Non è possibile», ripete. «È incappato in qualcosa di brutto», ipotizza. L’economista Fabio Verna è attonito. «Mai avrei potuto immaginare da una persona così attiva e impegnata che potesse essere caduto in una depressione così grave». Si parla di un tumore all’ultimo stadio, il colpo finale che avrebbe spezzato quel filo invisibile che separa la vita a colori dalla depressione più nera. L’avvocato d’affari Paolo Zagami – anch’egli socio del Tiro a volo, calabrese come Catricalà – lo frequentava assiduamente ed insieme stavano lavorando a più di un progetto, da sviluppare nelle prossime settimane. «Iniziative, presentazioni di libri, tra Roma e la Calabria. Sono devastato, era una delle persone su cui si sapeva di poter fare affidamento per determinazione, organizzazione, costanza». Il professor Gianluca Maria Esposito, che insegna diritto amministrativo a La Sapienza, aveva con Catricalà una consuetudine ventennale rinnovata in questi ultimi giorni. «Non sapevo affatto che fosse malato e questo mi ha colpito, perché ci vedevamo spesso, anche a tavola e in contesti familiari», ricorda. «Era un uomo di Stato, sempre umile e con la testa sulle spalle. Sono atterrito due volte: per la sua morte e per aver appreso le circostanze di questa morte». Circostanze inspiegabili, ripete per tre volte il giurista. «Non è spiegabile. Due volte ci siamo parlati nell’ultima settimana. Rileggo i suoi ultimi due messaggi sul cellulare, sempre pronto a rispondermi… Alla vigilia della formazione del governo Draghi qualcuno fece girare il suo nome. Lo chiamai per sentire se fosse vero. “Farei il consigliere solo a titolo gratuito”, aveva risposto. Non aveva ambizioni di governo ma era di quegli statisti sui quali sai di poter sempre contare, soprattutto nei momenti difficili», aggiunge il professor Esposito. «Depresso? Non lo avrei mai detto. Con me era sereno, lucidissimo. E innamorato della sua famiglia, era non solo padre ma nonno e parlava con grande gioia del suo nipotino». Il futuro, insomma. Interrotto all’improvviso da un unico colpo di pistola alla testa.

Antonio Catricalà, l'ipotesi sul suicidio: "Depresso perché malato", l'indiscrezione sul gesto estremo. Giordano Tedoldi su Libero Quotidiano il 25 febbraio 2021. Ho abitato alcuni anni in via Antonio Bertoloni, nella parte bella del quartiere romano dei Parioli (a differenza di quel che si crede, ha angoli più squallidi della peggiore periferia), un'infilata di palazzine eleganti, villini, ambasciate, cliniche di lusso protetti da folte siepi, e costeggiati però sui marciapiedi dall'inevitabile bombardamento di cacche di cani che i pariolini, o i loro domestici filippini, sono particolarmente distratti a raccogliere. È sul balcone di un appartamento della bella, placida via Bertoloni che alle 9 e 10 di ieri mattina è stato trovato, dalla moglie, il corpo senza vita del grand commis (usiamo l'espressione senza alcuna ironia, nel senso letterale) Antonio Catricalà, 69 anni, laureato a ventidue anni in giurisprudenza, magistrato a ventiquattro, un curriculum ininterrotto di incarichi prestigiosi, ex garante dell'Antitrust, ex sottosegretario o viceministro in tre governi (Berlusconi, Monti, Letta) e che, solo il 18 febbraio, aveva ricevuto l'ultima nomina, presidente dell'Istituto Grandi Infrastrutture (IGI). Insomma un uomo di successo, stimato, il cui nome circolava sempre tra i candidati a posizioni apicali (anche recentemente con la formazione del governo Draghi), e perciò la domanda è inevitabile: perché ieri mattina, si è alzato, è uscito sul balcone della sua casa al primo piano ai Parioli, la parte bella dei Parioli, e si è sparato un colpo alla testa? Il suicidio ha tante forme, alcune sono quasi rituali, e richiamano, grosso modo, specifici problemi. Non che si possa generalizzare, ma spararsi alla testa è qualcosa di diverso dall'appendere una corda a una trave del soffitto e lasciarsi spenzolare. Quest' ultima è più una cosa da scrittori falliti, da artisti depressi. Spararsi al cuore è proprio di certe personalità fragili, dipendenti, spesso molto giovani. Il colpo alla testa manda un segnale diverso. Ma c'è chi si spinge più in là. Dagospia avanza un'ipotesi, tanto più enigmatica perché non vengono forniti altri dettagli: Catricalà aveva un cancro. Sul Corriere della Sera, invece, si legge che la moglie avrebbe parlato agli inquirenti di un «grave stato depressivo». Due ipotesi, quella del male grave e della depressione, che non si escludono a vicenda. C'è un'indagine in corso, c'è la certezza che Catricalà si sia sparato alla tempia con una Smith&Wesson calibro 38 regolarmente detenuta. Ci saranno, d'altro canto, anche i soliti complottisti che immagineranno che l'uomo non si è suicidato, ma è stato fatto fuori da chissà quali oscuri poteri. Cose che sappiamo. Ma lasciamo da parte le fantasie cospiratorie e cerchiamo di capirci qualcosa sulla base delle voci e degli indizi più plausibili, se non altro perché, ancora adesso mentre scrivo, non sono stati smentiti: una diagnosi di cancro, la grave depressione. Sappiamo tutti, per esperienza indiretta o, disgraziatamente, a volte, diretta, che mostro spaventoso sia il tumore. Colpisce tutti, falliti e potenti, persone dallo stile di vita disordinato e eccessivo come quelle dalla condotta sana e ascetica. Quando si riceve una diagnosi di cancro, inutile essere ipocriti, suona per tutti come una condanna a morte. Da quel momento, ogni giorno di vita è un giorno guadagnato, strappato alla morte con le unghie e con i denti. Ma perché lottare, se a volte, in casi particolarmente maligni, la fine è certa? Perché fare la chemioterapia, sottoporsi a cure dagli effetti collaterali pesantissimi, vivere l'angoscia delle analisi periodiche per vedere se il bastardo si è ritirato o è avanzato disseminandosi nel proprio corpo e aggredendo altri organi, perché patire le sofferenze proprie e dei propri cari, se poi si sa che, settimana più, settimana meno, il maledetto vincerà comunque? C'è un detto di Seneca che dice: il Fato conduce i volenti, i nolenti li trascina. È questo scontro con il destino, incarnato da un male incurabile, che ha sconvolto la mente di Catricalà e l'ha portato a spararsi alla tempia? Invece di essere trascinato alla morte, sapendo bene che il suo giorno era segnato, ha voluto anticiparla, sul terrazzo del suo appartamento dei Parioli. Affacciato sulle palazzine dalle facciate ornate, i villini, le ambasciate, le cacche dei cani, la quiete mattutina di un quartiere che, nella sua sonnolenta un po' polverosa nobiltà, non avrà battuto ciglio per lo sparo. Come faccio a dirlo? L'ho detto, ci ho abitato, lì la morte avviene sempre con discrezione, anche perché non si distingue granché dalla vita. 

Vittorio Feltri sul suicidio di Antonio Catricalà: "Per farla finita non voglio spararmi in testa. Il governo si dia una mossa". Libero Quotidiano il 25 febbraio 2021. Il direttore di Libero Vittorio Feltri parla del suicidio dell’ex garante dell’Antitrust e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà: “Quest’uomo si è sparato un colpo in testa e la notizia ha sconvolto sia chi gli era vicino che l’opinione pubblica. Spesso il suicida viene criticato perché il nostro Paese, di formazione cattolica, rifiuta la soppressione della propria vita. Bisogna però ammettere che in certi casi vanno comprese le ragioni che inducono una persona a togliersi la vita. E il caso di Catricalà nono è nuovo: gli era stato diagnosticato un tumore irreversibile, che avrebbe avuto un decorso tragico e quindi, davanti all’ipotesi di un periodo di sofferenza prima della morte, ha deciso di farla finita in anticipo. Per questo non me la sento di condannarlo. Anzi, sono piuttosto amareggiato perché i nostri governi non riescono ad affrontare il tema del suicidio assistito. Mentre io credo che, poiché ciascuno di noi è padrone della propria vita, nella nostra legislazione andrebbe introdotta una normativa riguardante l’eutanasia. La cosa più strana è che molti cattolici fanno una guerra spietata a chi propone l’eutanasia: io vorrei dire ai cattolici che nessuno li obbliga a utilizzare questa libertà e non capisco perché debbano impedire a me di usarla. La libertà o è bilaterale o non è libertà. Non critichiamo chi è a favore del suicidio assistito, approviamo una norma che sia rigida ma che non costringa spararsi un colpo in testa in caso di necessità”.  

La morte di Catricalà, una lontana vigilia di Natale a Palazzo Chigi con quel servitore gentiluomo dello Stato. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 25 febbraio 2021. Ricordo una vigilia di Natale di molti anni fa a Palazzo Chigi. Passai a salutare Antonio Catricalà, all’epoca segretario generale, e ricordo che scendemmo insieme in ascensore. Era molto tardi e lui era l’ultimo degli inquilini illustri a lasciare il Palazzo. Ricordo la smorfia sorridente di questo servitore gentiluomo dello Stato che lo ha accompagnato in tutti i nostri incontri. Ricordo la gioia al matrimonio della figlia. Ricordo un uomo di Stato che lo ha servito con onore riconosciuto da tutti in tutte le molteplici responsabilità ricoperte. Ricordo un uomo del Sud che amava la sua terra. Ricordo una persona garbata sempre disponibile. Se ne è andato nel peggiore dei modi uno dei migliori esponenti di quella classe amministrativa della Repubblica di cui proprio ora il Paese ha capito di avere bisogno per superare la sua prova più difficile. Un epilogo.

Catricalà al governo con Berlusconi, Monti e Letta. Presidente Antitrust nel segno del dialogo. Aldo Fontanarosa su La Repubblica il 24/2/2021. Alla guida dell'autorità che vigila sulla concorrenza, ha cercato il confronto con le imprese più che la stangata da titolo di telegiornale. Laurea in Giurisprudenza a 22 anni, ha vinto il concorso in magistratura a 24. Studente dalle doti non comuni, capo di gabinetto di ministri influenti, segretario generale alla Presidenza del Consiglio con Berlusconi, sottosegretario alla Presidenza con Mario Monti, vice ministro allo Sviluppo con Enrico Letta, garante della concorrenza, avvocato cassazionista di grido. Antonio Catricalà - che muore oggi a Roma - ha vissuto una vita intensa al crocevia tra lo studio del diritto, il supporto ad esecutivi di diverso segno politico, l'impegno nelle istituzioni. Presiede l'Autorità Antitrust tra il 2005 e il 2011 e, naturalmente, decide sanzioni importanti contro le aziende che hanno violato la concorrenza e i diritti dei consumatori, su cui deve vigilare. Catricalà, però, dà grande impulso alla pratica degli "impegni". Le imprese bersaglio di contestazione eviteranno la multa o la vedranno ridotta in cambio di impegni vincolanti in grado di sanare la violazione. Per questo la sua presidenza dell'Antitrust viene ricordata per la tendenza al dialogo più che per ammende esemplari da titolo nei telegiornali. Quando arriva al timone dell'Antitrust, Catricalà è reduce dall'esperienza come segretario generale di Palazzo Chigi nel secondo governo Berlusconi. Naturale che la sua nomina alla presidenza di un'autorità di garanzia, dagli enormi poteri anche nel campo della televisione, gli procuri attacchi e critiche. Del Biscione, più avanti, sarà anche legale. Le doti di Catricalà, però, non sono apprezzate solo dal fondatore di Mediaset. Enrico Letta lo vuole vice ministro allo Sviluppo Economico - con delega alle comunicazioni - nel suo esecutivo (resterà nell'incarico per 9 mesi). Mario Monti, che guida un governo di emergenza nazionale, lo chiama come sottosegretario alla Presidenza. Più volte, Catricalà lavora nel ruolo - poco visibile, ma strategico - di capo di gabinetto dei ministri della Repubblica. Lo fa con Antonio Maccanico ad esempio, ministro delle Poste e delle tlc del primo governo Prodi. Lo fa anche con Giuliano Urbani, ministro della Funzione pubblica nel primo esecutivo di Berlusconi. Come avvocato, difende lo Stato in Cassazione e in importanti udienze di Corte d’Assise (come al processo Moro). Presidente di Aeroporti di Roma, oggi lavorava nello studio legale che portava il suo nome e quello del collega Lipani, specializzato anche nel diritto della concorrenza, regolamentare e dell'informatica. Un minuto di silenzio al Senato per Catricalà Nato a Catanzaro nel 1952, sposato, due figlie, Catricalà è uno studente eccellente. Laurea con lode alla Sapienza di Roma a 22 anni (in Giurisprudenza, ovvio); vincitore del concorso in magistratura a 24 anni e del concorso come Avvocato dello Stato a 27; come Mario Draghi incrocia il professor Federico Caffé all'Istituto Luigi Sturzo, dove studia economia e scienza della amministrazione. Sua sorella, Annamaria, ha lavorato a RaiTre dove ha curato - anche nel ruolo organizzativo di capo struttura - trasmissioni come Ballarò e Report. Numerosi i messaggi di cordoglio da enti e istituzioni: tra i primi giunti in mattinata, quelli di Aeroporti di Roma, di Enac e del presidente di Assaeroporti Fabrizio Palenzona in rappresentanza degli scali italiani.

(ANSA il 27 febbraio 2021) È piena, pur nel rispetto del distanziamento per le misure anti-Covid, la chiesa di San Bellarmino, nel quartiere romano dei Parioli, per i funerali in forma privata di Antonio Catricalà, scomparso mercoledì. All'ingresso il libro delle firme e una foto sorridente dell'ex sottosegretario ed ex presidente dell'Antitrust. Nell'omelia del parroco, Antonio Magnotta, parole di stima: "Affidiamo un uomo grande alle mani sicure di Dio. Non solo un uomo delle istituzioni ma che ha dato forma alle istituzioni. Antonio Catricalà ha dimostrato risorse creative, alta competenza giuridica e tecnica, è stato capace di dare fiducia e sapersela conquistare". Tra i presenti, Gianni Letta, il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, l'ex ministro Claudio De Vincenti e il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi, per portare un saluto alla moglie, Diana e alle figlie Michela e Giulia. Al termine della celebrazione, nella chiesa di San Bellarmino, una delle figlie ha letto una poesia dedicata al padre, per rivolgergli un ultimo abbraccio ideale. Tanti anche i ricordi di amici e colleghi. "È lunga la lista di coloro che l'hanno incontrato e conosciuto, come era lunga ieri la fila ieri a piazza Verdi. Tutti desiderosi di testimoniare stima e amicizia verso quest'uomo grande. Era grande la sua cultura, saggezza ed equilibrio. Il suo senso dello Stato", ha detto Gianni Letta aggiungendo poi: "Era uno Stradivari nell'orchestra dello Stato". E rivolgendosi alla moglie e alla figlie, "dovete essere orgogliose del nostro grande Antonio". Per Filippo Patroni Griffi "sapeva cogliere l'essenza delle questioni e cercare una soluzione che potesse raccogliere tutti i punti di vista e poi risolvere i problemi. Voglio ricordarlo per la sua ironia e la sua autoironia, per il suo lavoro serio e responsabile". L'ex ministro Paola Severino ha ricordato che negli ultimi tempi "si era dedicato all'insegnamento, per lasciare il segno nei giovani".

Addio a Catricalà, i funerali privati ai Parioli. Ci sono anche Letta, Severino e Ricciardi. La Repubblica il 27 febbraio 2021. Tra i presenti, Gianni Letta, Filippo Patroni Griffi, l'ex ministro Claudio De Vincenti e il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi e l'ex Guardasigilli Paola Severino. È piena, pur nel rispetto del distanziamento per le misure anti-Covid, la chiesa di San Bellarmino, nel quartiere romano dei Parioli, per i funerali in forma privata di Antonio Catricalà, scomparso mercoledì. All'ingresso il libro delle firme e una foto sorridente dell'ex sottosegretario ed ex presidente dell'Antitrust. Nell'omelia del parroco, Antonio Magnotta, parole di stima: "Affidiamo un uomo grande alle mani sicure di Dio. Non solo un uomo delle istituzioni ma che ha dato forma alle istituzioni. Antonio Catricalà ha dimostrato risorse creative, alta competenza giuridica e tecnica, è stato capace di dare fiducia e sapersela conquistare". Tra i presenti, Gianni Letta, il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, l'ex ministro Claudio De Vincenti e il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi, per portare un saluto alla moglie, Diana e alle figlie Michela e Giulia.  Al termine della celebrazione, una delle figlie ha letto una poesia dedicata al padre, per rivolgergli un ultimo abbraccio ideale. Tanti anche i ricordi di amici e colleghi. "È lunga la lista di coloro che l'hanno incontrato e conosciuto, come era lunga ieri la fila ieri a piazza Verdi. Tutti desiderosi di testimoniare stima e amicizia verso quest'uomo grande. Era grande la sua cultura, saggezza ed equilibrio. Il suo senso dello Stato", ha detto Letta aggiungendo poi: "Era uno Stradivari nell'orchestra dello Stato". E rivolgendosi alla moglie e alla figlie, "dovete essere orgogliose del nostro grande Antonio". Per Filippo Patroni Griffi "sapeva cogliere l'essenza delle questioni e cercare una soluzione che potesse raccogliere tutti i punti di vista e poi risolvere i problemi. Voglio ricordarlo per la sua ironia e la sua autoironia, per il suo lavoro serio e responsabile". L'ex ministro Paola Severino ha ricordato che negli ultimi tempi "si era dedicato all'insegnamento, per lasciare il segno nei giovani"

Sergio Rizzo per "la Repubblica" il 27 febbraio 2021. Giovedì 18 febbraio, una settimana fa. Antonio Catricalà ha appena compiuto 69 anni e approda all' ennesima carica di una carriera infinita. Presidente dell' Istituto grandi infrastrutture: anche se ora un po' liso, è pur sempre il salotto buono dei big delle costruzioni. Il che può rendere ancora più incomprensibile il suo gesto. Ieri mattina si è suicidato con un colpo di pistola e non si sa perché. La moglie, Diana Agosti, a capo del dipartimento delle politiche europee a Palazzo Chigi, ha riferito a chi indaga che il marito avrebbe dovuto subire a giorni una delicata operazione al cuore, e questo lo preoccupava molto. La maggior parte degli italiani non sa nemmeno chi fosse Catricalà. Eppure poche storie come la sua riescono a chiarire le dinamiche del potere in questo Paese. Lui è di Catanzaro e studia legge, a Roma. Perché la laurea in giurisprudenza ti apre un sacco di porte, a cominciare da quelle dei concorsi pubblici. Per non parlare del mestiere di avvocato, che quando Antonio si laurea, a 22 anni nel 1974, promette ancora bene. Meglio a Roma che a Catanzaro, garantito. Ai ragazzi della Luiss racconta che a suo papà, avvocato, capitava anche di venire pagato in natura. Una volta il cliente si presentò con un pollo. Roba d' altri tempi. Certo di un' altra Italia. Così a trent' anni il giovane Catricalà sceglie di fare il magistrato amministrativo, sulla scia che già stanno solcando i principi dei gabinetti ministeriali. E che porta dritta nella stanza dei bottoni. La prima volta che ci entra è nel 1998 con Angelo Piazza, giudice del Tar e ministro della Funzione pubblica nel primo governo D' Alema. Piazza è della filiera socialista, ma della parte che guarda più verso il centrosinistra. Pure di Catricalà si dice che appartenga alla stessa parrocchia, ma versante berlusconiano. Per i maligni la prova arriva un paio d' anni più tardi, quando Catricalà piomba sulla poltrona di segretario generale della presidenza del Consiglio con Silvio Berlusconi. E non fa rimpiangere chi l' ha scelto, al punto da meritarsi il salto di categoria. A marzo 2005 il centrodestra lo piazza alla guida dell' Antitrust. Spalancando la via delle autorità indipendenti ai consiglieri di stato, cioè agli esponenti di quella magistratura che giudica i ricorsi contro le stesse Authority. La cosa, oggettivamente discutibile, non turba però nessuno nel Palazzo. Infatti, due mesi dopo il presidente del Tar del Lazio, Calabrò, arriva al vertice dell' Agcom. E lo stesso Catricalà potrebbe addirittura trasferirsi all' autorità per l' Energia mentre è ancora all' Antitrust se solo accettasse. Ma quel mandato non c' è comunque verso di farglielo completare, perché a novembre 2011 è sottosegretario a palazzo Chigi con Mario Monti, sulla poltrona che a lungo è stata di Gianni Letta. «Mi applaudivano di più quando venivo qui come presidente dell' Antitrust », scherza con Giovanni Floris a Ballarò . Anche se c' è poco da scherzare. Il momento è difficilissimo, e tenere la barra del governo dritta è un' impresa. A Lucia Annunziata confessa che sta facendo «un mestiere strano, che non s' impara subito e quando si inizia a capire come si deve fare è già tempo di andare a casa ». Ma a casa, nel vero senso della parola, non ci va. Resta al governo con Enrico Letta, come viceministro dello Sviluppo, delega per le Comunicazioni. Dove incrocia di nuovo Tim, che ha già multato quando era all' Antitrust, stavolta alle prese con lo scorporo della rete telefonica. E qui, davvero, ancor prima di cominciare è già ora di andare a casa. Letta deve lasciare il campanello a Matteo Renzi e per Catricalà l' avventura nel governo è finita. Tornerebbe subito al consiglio di stato se Forza Italia non lo candidasse alla Corte costituzionale. Sarebbe il coronamento di una carriera strepitosa, ma neppure il sostegno di Berlusconi può evitare che le faide interne lo brucino. Difficile dire se quella sia la causa. Fatto sta che passano pochi giorni e Catricalà lascia la magistratura. Caso più unico che raro di un consigliere di Stato che si stacca la spina prima della pensione. Apre uno studio da avvocato: i clienti non gli mancano. E che clienti. C' è, per esempio, la Morgan Stanley chiamata in causa dalla Corte dei Conti per un affaruccio di qualche miliardo di derivati sui titoli pubblici italiani che il governo italiano sull' orlo della crisi finanziaria ha dovuto pagare alla banca d' affari per una rescissione unilaterale del contratto. Sgarbo avvenuto proprio mentre Catricalà era a Palazzo Chigi, dall' altra parte della barricata. Ma fioccano anche le occasioni. Il patron della Lazio Lotito lo candida alla presidenza della Lega di serie A. I francesi lo vorrebbero presidente di Tim (chi si rivede!). Intanto la corte dei Benetton ha fatto breccia e l' ex capo dell' Antitrust è presidente degli Aeroporti di Roma. Senza contare lo strapuntino nel consiglio di amministrazione di Caltagirone editore, che pubblica il Messaggero . C' è stato pure chi nelle scorse settimane ha fatto il suo nome per il governo Draghi Con quello che si è visto sarebbe stato uno scandalo?

Carlo Tecce per il “Fatto Quotidiano” - 29 ottobre 2014. Più o meno un mese fa, Antonio Catricalà era il candidato di Forza Italia per la Consulta. Oggi il calabrese di Catanzaro, che ha ricoperto cariche un po’ ovunque, è un ex giudice del Consiglio di Stato. Ha lasciato la magistratura, dov’era rientrato dopo aver scalato e riscalato il potere: sottosegretario a Palazzo Chigi con Mario Monti; viceministro allo Sviluppo economico con Enrico Letta; segretario generale sempre a Palazzo Chigi con Silvio Berlusconi; capo di gabinetto nei governi di Massimo D’Alema e Giuliano Amato; presidente dell’Autorità Antitrust.

Quanti anni, Catricalà?

«Ne ho 62, la metà li ho trascorsi da servitore di questa nazione. Il periodo più difficile fu durante il processo Moro, ero avvocato dello Stato, parte civile. Il più bello fu il primo all’Antitrust».

E perché adesso si è dimesso?

«Mi faccio una seconda vita, mi associo allo studio legale Lipani&Partners in piazza Cavour, zona Cassazione. Sarò il maestro di una scuola di avvocati».

E non rimpiange l’ultimo tassello, la nomina alla Consulta?

«Io non ci pensavo mica, non per il presente. Sono giovane».

E cosa pensava?

«Ritenevo di poter chiudere il mio lavoro come presidente del Consiglio di Stato. Non capiterà più, ormai».

Neppure la Consulta è capitata, eppure Forza Italia l’aveva proposta.

«I vertici di Forza Italia mi dissero che c’era un accordo su di me, però mancava il consenso. Ho scoperto che in molti non mi volevano, ripetevano: questo Catricalà non è dei nostri. Almeno è stato chiarito che sono un tecnico, non un politico».

E perché si è ritirato, perché non ha insistito? Poteva prendere esempio da Luciano Violante.

«Io ho preferito evitare lo stillicidio. Troppo fumo nero sporca le camicie bianche. La coppia era male assortita, calata dall’alto e non condivisa dal basso. Per raggiungere un traguardo in questo Parlamento, occorre coinvolgere i Cinque Stelle e la Lega Nord. Non bastano i democratici e i forzisti».

Per Matteo Renzi andava bene Catricalà, ma lo stesso Matteo Renzi non sopporta i burocrati come Catricalà.

«In parte, Renzi ha ragione. Ci sono prassi, vincoli e normette che possono essere superate. Ma è sbagliato far credere ai cittadini che la burocrazia sia da rottamare, ci sono molte eccellenze. Quando imputano alla Ragioneria di Stato di ostacolare il governo commettono un grave errore: la Ragioneria dipende dal Tesoro e risponde al ministro».

Come rimediare?

«Non è facile. Quando Monti era presidente del Consiglio e anche reggente del Tesoro, per testimonianza diretta, posso rivelarvi che il rapporto era perfetto, funzionale. Al Tesoro fanno riferimento al ministro, non al premier: non lo fanno per cattiveria, ma perché i meccanismi sono questi».

Come spiega la diaspora o la scomparsa dei ministri del governo di Monti?

«Non mi ha stupito. Era il nostro destino, la missione era limitata. Ci hanno chiamato per scelte non certo popolari: tassare le case o rinviare le pensioni. La politica non se la sentiva, né quella di maggioranza né quella di opposizione».

Come giudica il Corrado Passera politico?

«Può avere un futuro. È stato un banchiere, questo non lo aiuta. Per il momento, non vedo le masse che gli girano intorno, piuttosto una parte elitaria. Gli auguro buona fortuna».

Ora non ha imposizioni di mandato, lo ammetta: Catricalà è un fidato di Silvio Berlusconi.

«No, ci mancherebbe. Io sono un tecnico, sennò i senatori di Forza Italia mi avrebbero votato per la Consulta, o no?»

Non la indicò Berlusconi nell’esecutivo di Enrico Letta come viceministro con delega alle Telecomunicazioni?

«No, perché il mio compito era concentrato sugli operatori telefonici, non c’era nulla da fare su Mediaset. Io dovevo mettere al sicuro la rete di Telecom, la banda larga. Avevo un accordo con il presidente Franco Bernabè, già si parlava di nuove società, di numeri, di soldi. Poi Bernabè è uscito da Telecom e il progetto è saltato».

La stagione dei Gianni Letta e dei Catricalà è finita?

«Non credo ci sia stata una nostra stagione, e dunque quello che non è iniziato vi assicuro che non può finire. Siamo servitori dello Stato, e lo restiamo per sempre».

Non negherà pure la sua amicizia con Letta?

«Questo mai».

Mario Ajello per “Il Messaggero” il 12 novembre 2021. Ricordare con tocco lieve e divertito Antonio Catricalà è l'omaggio più naturale che si potesse fare a un civil servant mai barboso o supponente, a un uomo ironico e autoironico, a un italiano sdrammatizzante e magari ce ne fossero tanti altri come lui. Ma Catricalà non c'è più, è morto nel febbraio scorso a 69 anni e per gli amici però Antonio - raffinato giurista che ha percorso nei suoi vari ruoli tutto il filo delle istituzioni fino a Palazzo Chigi come sottosegretario, per non dire della presidenza dell'Antitrust - è come se fosse ancora sul palcoscenico dell'Eliseo e degli altri teatri in cui ha messo in scena da attore, nella serie Processi alla Storia, la sua spettacolare dottrina da esperto di leggi e di garanzie. Ecco, lo si è voluto ricordare non per i saggi giuridici, nei quali era impeccabile, ma per le sue prove artistiche da avvocato difensore di Helmut Kohl, di Fidel Castro o di Caterina de' Medici. Vederlo on stage era uno spasso e ieri sera un po' - nell'Eliseo riaperto per l'occasione con il padrone di casa Luca Barbareschi contento e commosso - si è potuto riassaporare il divertimento attraverso le clip dei suoi spettacoli. Occhio a Catricalà che in uno di quei processi difendeva Helmut Kohl. Pier Ferdinando Casini interpretava l'imputato. E si divertiva a dire così Catricalà a proposito dell'interpretazione casiniana del grande cancelliere: «Il Kohl che è con me sul palco è sicuramente più bello di quello che sta in Germania». Battuta risuonata anche ieri sera all'Eliseo tra i presenti - dall'avvocato Paola Severino a Casini, da Giancarlo Leone a Simonetta Giordani e a Innocenzo Cipolletta, dai magistrati Augusta Iannini e Antonia Giammaria a tutti gli altri - e il mattatore Gianni Letta a un certo punto se ne esce così sorridendo: «Pier in questi processi ha interpretato prima Kohl e poi Obama come teste a difesa di Castro. Non è che si stava allenando a fare il presidente?». Chiara allusione alla prossima elezione del Capo dello Stato. Ma qui si scherza, naturalmente. Anche se in questa sala tutti avrebbero sognato di vedere, come segretario generale del Colle, proprio Catricalà (che lo avrebbero fatto benissimo). E di lui resta il ricordo di esemplare grand commis, di una figura di cui l'Italia ha sempre avuto bisogno e infatti ci si è avvalsi di Catricalà sia nella Prima sia nella Seconda Repubblica, in quanto uomo indipendente e garante di tutti. «Antonio era un giurista nato - racconta dal palco Letta che era suo grande amico e da Catricalà veniva chiamato «il semidio» - e diceva sempre: sono cresciuto a pane e giurisprudenza. Suo padre Celestino infatti era avvocato, aveva lo studio in casa, a Catanzaro, e i primi rudimenti il figlio lì prese guardando e ascoltando il genitore». Racconta ancora Letta: «Lui per tutta la vita si è dedicato al diritto da magistrato ordinario, da avvocato dello Stato (ha fatto anche il processo Moro), da consigliere di Stato. Arrivò primo nei tre concorsi e dall'inizio, fino alle alte cariche ricoperte poi nei ministeri e nei vertici della cosa pubblica, il senso dello Stato è stata la sua cifra». La moglie Diana non ha potuto essere all'Eliseo ma si è video-collegata. L'amico Pippo Marra ha mandato un messaggio di saluto. E in apertura Elisa Greco ha raccontato come ingaggiò Catricalà attore: «Gli dissi, lo sai che un certo Kohl cerca un avvocato difensore? Lo vuoi fare tu? Ma certo, rispose Antonio. E venne fuori un grande spettacolo». Ecco in video anche Fidel Castro (interpretato da Giovanni Minoli) e in quel processo Catricalà non riuscì a far assolvere il dittatore cubano. Chiosa Casini: «Beh, è stato certamente più facile per Antonio difendere il cancelliere che il lider maximo». «Insieme a lui difendemmo anche Mao - racconta ora Cipolletta - e riuscimmo a farlo assolvere». E ancora: la clip del processo a Caterina de' Medici, con Paola Severino presidente della Corte, Leone testimone a difesa e Catricalà brillante difensore e vincitore del processo. Ci sarebbe stato bene, nel finale della serata, un allegretto suonato al violino. Non c'è stato. Anche se Catricalà - come dice Letta - era «lo stradivari nell'Orchestra dello Stato».

·        E’ morto Lawrence Ferlinghetti, poeta della Beat Generation.

Luca Valtorta per repubblica.it il 23 febbraio 2021. Si è spenta anche una delle ultime voci della Beat Generation: Lawrence Ferlinghetti, 101 anni, poeta ma anche editore e creatore della libreria City Lights di San Francisco, ancora oggi uno dei punti di riferimento più importanti delle controculture. Ferlinghetti è morto lunedì mattina per una malattia ai polmoni come dichiarato da suo figlio Lorenzo. Ferlinghetti aveva aperto la libreria nel 1953 quando Jack Kerouac, Allen Ginsberg e gli altri primi beatnik iniziavano a far sentire le loro voci. Immediatamente divenne un luogo di incontro in cui si poteva respirare un'atmosfera completamente diversa rispetto a tutte le altre librerie: in un tempo in cui veniva guardato male chi sfogliava i libri se non li comperava, City Lights permetteva a chiunque di guardare i libri, di sostare, parlare, scambiarsi opinioni, assistere a performance e a reading improvvisati al momento. Da subito City Lights iniziò a caratterizzarsi per essere la prima libreria a vendere quasi esclusivamente edizioni economiche e a specializzarsi in materie come la poesia, la politica e, soprattutto a vendere riviste autoprodotte di ogni tipo che andavano nascendo proprio in quel periodo. Ma il momento in cui City Lights fu al centro del massimo scalpore fu nel 1956 quando pubblicò Urlo (Howl) di Allen Ginsberg in seguito al quale Ferlinghetti venne addirittura arrestato con l'accusa di aver diffuso materiale osceno. Questo evento ebbe non solo una enorme rilevanza mediatica ma costituì un evento di portata storica perché si tratta del primo caso in cui viene fatto appello al famoso "Primo emendamento" riguardante la libertà di parola e di stampa per quanto concerne la pubblicazione di materiale considerato "controverso" ma di importante rilevanza letteraria e sociale. Questo evento portò grande attenzione all'opera di Ginsberg e all'intera Beat Generation, un gruppo di giovani che portava avanti attraverso la vita e la letteratura una ribellione contro una società fortemente conservatrice. I beatnik infatti vivevano in prima persona ciò che raccontavano e sperimentavano nuove forme di aggregazione, diverse da quelle dei loro genitori in primis la libertà sessuale. La loro critica era rivolta anche al capitalismo di cui osteggiavano la tendenza al consumismo spinto a cui contrapponevano non tanto una prospettiva marxista (anche se Ginsberg in Sulla strada di Kerouac viene chiamato con lo peseudonimo di "Carlo Marx") quanto un misticismo orientale spesso venato di cultura zen, tanto che in diversi casi autori  come Ginsberg e Kerouac realizzano poesie in forma di haiku giapponesi ma, ovviamente, in lingua americana. Lawrence Ferlinghetti però non è solo un editore, è anche a sua volta uno scrittore e un poeta che ha pubblicato decine di libri tra cui uno delle raccolte di poesia più vendute della storia americana: A Coney Island of the Mind. Uscito nel 1958, è una dura critica della società americana e una delle sue caratteristiche è che viene pensato per essere accompagnato dal jazz, la musica amata dai protagonisti della Beat Generation.

È morto Lawrence Ferlinghetti, addio al poeta della Beat Generation. Luca Valtorta su La Repubblica il 23 febbraio 2021. Il poeta e scrittore aveva 101 anni. Fondò City Lights, punto di riferimento per la controcultura e nuovo, rivoluzionario modello di libreria dove gli artisti potevano recitare le loro opere. Si è spenta anche una delle ultime voci della Beat Generation: Lawrence Ferlinghetti, 101 anni, poeta ma anche editore e creatore della libreria City Lights di San Francisco, ancora oggi uno dei punti di riferimento più importanti delle controculture. Ferlinghetti è morto lunedì mattina per una malattia ai polmoni, come dichiarato da suo figlio Lorenzo. "'Non posso morire finché c'è Trump' mi diceva", ha raccontato a Giada Diano, per vent'anni sua stretta collaboratrice tornata in Italia un anno fa, poco prima dell'emergenza sanitaria, anche se si sentivano sempre al telefono: l'ultima volta quindici giorni fa. "L'unico mezzo era il telefono, perché nell'ultimo anno e mezzo Lawrence era diventato quasi cieco", spiega la collaboratrice, 40 anni, che ora si trova a Firenze e ha tradotto, curato e realizzato molti progetti con il poeta. "Si è spento a casa, alle 21.45 della notte del 22 febbraio, in America. Hanno aspettato un pochino a dare la notizia. Non stava male ma soffriva di enfisema polmonare e questo ha creato dei problemi alla fine". Uno dei ricordi più belli di Diano: "È un pomeriggio di sole a Big Sur dove Kerouac scrisse l'omonimo libro. Lawrence ha tirato fuori un gong gigantesco e ha preso una birra Corona, che era quella che amava, e si è messo a suonare come un pazzo. È stato un momento di felicità perfetta, divertirsi con le cose banali, con poco, come faceva lui. Quello che non trapelava di Lawrence era il senso dell'ironia incredibile. Quando è venuto in Calabria siamo andati a Scilla e sono cominciate a suonare le campane della chiesa e lui si è messo a urlare 'datemi il chewing gum che me lo devo mettere nelle orecchie per proteggermi dalle sirene'", dice. "Per me è stato un po' un nonno, un fidanzato. Una forma di amore che non proverò mai per nessun altro", aggiunge. "L'ultimo progetto che avevamo era mettere insieme tutte le opere pittoriche che mi ha lasciato per costituire una sorta di galleria d'arte contemporanea con una permanente dedicata a lui e con spazi per altri artisti emergenti. Non lo so dove si creerà un'opportunità. Una parte è stata in mostra al Mann di Napoli. Scritti inediti non ce ne sono". Ferlinghetti aveva aperto la libreria City Lights nel 1953 quando Jack Kerouac, Allen Ginsberg e gli altri primi beatnik iniziavano a far sentire la propria voce. Immediatamente divenne un luogo di incontro in cui si poteva respirare un'atmosfera completamente diversa rispetto a tutte le altre librerie: in un tempo in cui veniva guardato male chi sfogliava i libri se non li comperava, City Lights permetteva a chiunque non solo di leggere i volumi presenti sugli scaffali ma anche di sostare, parlare, scambiare opinioni, assistere a performance e a reading improvvisati al momento. Da subito City Lights iniziò a caratterizzarsi per essere la prima libreria a vendere quasi esclusivamente edizioni economiche e a specializzarsi in materie come la poesia, la politica e, soprattutto a vendere riviste autoprodotte di ogni tipo che andavano nascendo proprio in quel periodo. Fu anche la prima libreria a dedicare una sezione alle pubblicazioni gay e lesbiche. Ma il momento in cui City Lights finì al centro dello scalpore fu nel 1956, quando pubblicò Urlo (Howl) di Allen Ginsberg in seguito al quale Ferlinghetti venne addirittura arrestato con l'accusa di aver diffuso materiale osceno. Questo avvenimento ebbe non solo una enorme rilevanza mediatica ma costituì un evento di portata storica perché si tratta del primo caso in cui viene fatto appello al famoso 'Primo emendamento' riguardante la libertà di parola e di stampa per quanto concerne la pubblicazione di materiale considerato controverso ma di importante rilevanza letteraria e sociale. L'arresto di Ferlinghetti in seguito alle accuse di oscenità mise al centro dell'attenzione non solo l'opera di Ginsberg ma anche l'intera Beat Generation, un gruppo di giovani che portava avanti attraverso la vita e la letteratura una ribellione contro una società fortemente conservatrice. I beatnik infatti vivevano in prima persona ciò che raccontavano e sperimentavano nuove forme di aggregazione, diverse da quelle dei loro genitori, in primis la libertà sessuale. La loro critica era rivolta anche al capitalismo di cui osteggiavano la tendenza al consumismo spinto a cui contrapponevano non tanto una prospettiva marxista (anche se Ginsberg in Sulla strada di Kerouac viene chiamato con lo pseudonimo di 'Carlo Marx') quanto un misticismo orientale spesso venato di cultura zen, tanto che in diversi casi autori come Ginsberg e Kerouac realizzano poesie in forma di haiku giapponesi ma, ovviamente, in lingua americana. Lawrence Ferlinghetti però non è solo un editore, è anche a sua volta uno scrittore e un poeta che ha pubblicato decine di libri tra cui una delle raccolte di poesia più vendute nella storia degli Stati Uniti: A Coney Island of the Mind. Uscito nel 1958 e composto di 48 poesie, ha venduto più di un milione di copie ed è una durissima critica della società del tempo. Una delle sue caratteristiche è anche il fatto che è stato pensato per essere accompagnato dal jazz, la musica amata dai protagonisti della Beat Generation. Non solo. Anche la stessa modalità di scrittura è riformulata sullo stile musicale, quello Scrivere Jazz appunto, a cui Kerouac avrebbe dedicato un suo piccolo ma prezioso ed esemplificativo trattato. Non sono solo poesie dunque quelle di Coney Island of the Mind, un'opera che avrebbe influenzato generazioni a venire, non solo di scrittori e poeti ma anche di musicisti, come ad esempio Lou Reed. Quelle di Ferlinghetti, sono vere e proprie visioni che aprono porte su una diversa percezione del mondo: "L’occhio del poeta vedendo oscenamente/ vede la superficie del mondo tondo/ con i suoi tetti sbronzi/ i lignei oiseaux sui fili del bucato/ i maschi e le femmine d’argilla/ con le gambe da schianto e i seni a bocciolo/ su brandine a rotelle/ e i suoi alberi pieni di misteri/ i suoi parchi di domenica e le statue silenziose/ e la sua America/ con le sue città fantasma e le Ellis Island vuote/ e il suo paesaggio surrealista fatto di/ praterie smemorate/ ricche periferie-supermercato/ cimiteri riscaldati/ feste comandate in cinerama/ e cattedrali che protestano/ un mondo a prova di bacio fatto di plastica ciambelle del cesso tampax e taxi". (dall'edizione di minimum fax, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan). La cultura usciva dalle Università, dalle Accademie, dai sacri luoghi del sapere per arrivare, parafrasando ancora una volta Kerouac, Sulla strada. E quel viaggio, iniziato tanto tempo fa, oggi continua verso un luogo ancora più misterioso.

Addio Ferlinghetti, poeta della Beat Generation. Vide Nagasaki e diventò pacifista radicale. Il Dubbio il 23 Feb 2021. Lawrence Ferlinghetti è morto a 101 anni nella sua casa di San Francisco. Fondò City Lights, faro dell’editoria indipendente e punto di riferimento della controcultura americana. Addio al poeta, scrittore ed editore Lawrence Ferlinghetti, mito della cultura e della controcultura americana, tra i padri della Beat Generation, attivista del movimento pacifista, figura fondamentale nel panorama letterario d’oltreoceano degli anni Cinquanta e Sessanta, fondatore di un faro dell’editoria indipendente come City Lights con cui sconvolse l’America non solo letteraria, pubblicando libri come “Urlo” di Allen Ginsberg, per cui fu processato con l’accusa di aver diffuso oscenità. Si è spento all’età di 101 anni ieri (lunedì 22 febbraio) nella sua casa di San Francisco.  Nato il 24 marzo 1919 a Yonkers, nello Stato di New York, da padre italiano (Carlo Ferlinghetti era originario di Chiari, in provincia di Brescia e morì sei mesi prima della nascita del figlio) e madre franco-portoghese, Lawrence Ferlinghetti trascorse l’infanzia in Francia, a Strasburgo, affidato a una zia dopo il ricovero della madre in manicomio; e si trasferì negli Usa quando la zia fu assunta come governante a New York. Dopo aver intrapreso studi da giornalista (completati alla Columbia University di New York nell’immediato dopoguerra), Ferlinghetti venne arruolato nella Marina statunitense durante la seconda guerra mondiale prendendo parte alla sbarco in Normandia.Quando vide Nagasaki a pochi giorni dallo sgancio della bomba atomica, decise di diventare un “pacifista radicale” e di concentrare i suoi studi a Parigi, ottenendo un dottorato alla Sorbona. Qui nel 1953 fondò City Lights, la prima libreria al mondo a vendere esclusivamente tascabili, che ben presto diventò anche casa editrice, pubblicando fra l’altro nel 1956 uno dei libri di poesie più venduti al mondo, il dirompente Howl and other poems (Urlo e altri poemi) di Allen Ginsberg, manifesto poetico della Beat Generation (con l’incipit divenuto celeberrimo: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia,/ affamate isteriche nude/, trascinarsi nei quartieri negri all’alba in cerca di un sollievo astioso”). Ferlinghetti finì in prigione per aver pubblicato il volume dopo una condanna per oscenità. L’amicizia e il rapporto intellettuale con Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac, William Burroughs, Diane DiPrima e Peter Orlowsky lo fece sin dall’inizio diventare membro della cosiddetta Beat Generation, di cui è sempre stato l’editore di riferimento. A lui si deve anche il merito di aver pubblicato Charles Bukowski, di cui raccolse in volume gli articoli pubblicati nella sua rubrica settimanale “Diario di un vecchio sporcaccione”. Anche se fu essenzialmente un poeta, Ferlinghetti ha scritto due romanzi, «Lei» e «L’amore ai tempi della rabbia», e due raccolte di testi teatrali, «Routines» e «Unfair Arguments with the Existence». Quasi tutte le sue raccolte di versi sono pubblicate in Italia da Minimum Fax: «Strade sterrate per posti sperduti», «Il senso segreto delle cose», «A Coney Island of the Mind» e il volume «Poesie vecchie e nuove» (che unisce due precedenti raccolte di poesie pensate dall’autore appositamente per Minimum Fax: «Scene italiane» e «Non come Dante»). Negli ultimi vent’anni Ferlinghetti si è dedicato soprattutto alla pittura, esponendo anche in Italia. La mostra antologica «60 anni di pittura» con i suoi dipinti si è tenuta a Roma e Reggio Calabria nel 2010. La sua ultima mostra è stata «A Life: Lawrence Ferlinghetti Beat Generation, ribellione, poesia», allestita al Museo di Santa Giulia a Brescia dal 7 ottobre 2017 al 14 gennaio 2018, che ha messo in luce l’importanza della figura di Lawrence Ferlinghetti nel panorama letterario degli anni Cinquanta e Sessanta. Come agitatore culturale e intellettuale, Ferlinghetti ha preso parte alle battaglie politiche del proprio tempo, osservando con sguardo poetico e libertario la rivoluzione a Cuba e in Nicaragua, oppure la sua degenerazione nella Russia sovietica. Uno dei suoi libri più recenti in italiano è «Scrivendo sulla strada. Diari di viaggio e di letteratura» (Il Saggiatore, 2018), che raccoglie i diari scritti durante più di cinquant’anni di corse su navi, aerei, treni a vapore, furgoncini Volkswagen. Pagine che compongono un’unica opera-mondo, in cui si incontrano personaggi come Fidel Castro, scrittori e poeti come Ezra Pound, William Burroughs e lo stesso Allen Ginsberg; un interminato viaggio omerico dalla Parigi della nostalgia all’Italia delle radici, da una Russia kafkiana, osservata a bordo dell’Orient Express, a un Messico notturno, ubriaco ed esuberante, dai motel dell’America on the road fino a Marrakech, all’Australia, alla Spagna franchista.

Ferlinghetti vs l’America. Quando l’aula accolse l’assoluzione con un grido. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 25 Feb 2021. Il poeta della Beat Generation finì alla sbarra. L’accusa? Vendere un libro di Allen Ginsberg con riferimenti espliciti all’uso di droghe e al sesso libero, etero e omosessuale. «La sentenza del giudice Clayton Horn è stata accolta con applausi e acclamazioni da un pubblico gremito che ha offerto la più fantastica collezione di barbe, camicie a collo alto e acconciature italiane mai vista nei sudici recinti delle sale di giustizia americane». Così scriveva il San Francisco Chronicle all’indomani dell’assoluzione dell’editore Lawrence Ferlinghetti, accusato di oscenità dallo Stato della California. Era il 3 ottobre del 1957 e il processo al profeta della beat generation fu un circo: aveva tenuto banco per mesi sui media d’oltreoceano, mobilitando la pittoresca comunità di hippies, frichettoni e intellettuali che gravitava attorno alla libreria di Ferlinghetti. Lo avevano arrestato il 21 maggio assieme al socio e libraio di origine giapponese Shigeyoshi Murao. Due giovanissimi agenti di polizia, Russell Woods e Thomas Pagee, entrano nella City Lights Bookshop, al 261 di Columbus Avenue, comprano al prezzo di 75 centesimi un libro di poesie di 57 pagine intitolato Howl and Other Poems. Lo aveva scritto il visionario Allen Ginsberg e conteneva riferimenti espliciti all’uso di droghe e al sesso libero, etero e omosessuale. I poliziotti gli mostrano il mandato d’arresto e gli intimano di seguirli in commissariato; non sapevano che quel pezzo di carta compilato dalla zelante procura di San Francisco avrebbe lanciato sulla scena culturale americana il movimento beat. Assistito dall’Unione per le libertà civili (Aclu), Ferlinghetti deve rispondere alle accuse mosse dal viceprocuratore Ralph McIntosh, un uomo d’altri tempi, arcigno e affusolato, devoto alla Bibbia e alle manette. Vagli a spiegare che l’Urlo di Ginzberg è un libro di poesie, che la letteratura non può tollerare la museruola della cesura, che il Primo emendamento della Costituzione protegge la libertà di pensiero e di espressione. Gli interrogatori di McIntosh sono incalzanti, come un buldozer chiede a Ferlinghetti e Murao il significato di ogni singola frase del libro, una, dieci, venti volte, domande ossessive che a tratti sconfinano nel tragicomico: «Dovete dirmi che cosa significa “hipster dalla testa d’angelo che brucia per l’antica connessione celeste con la dinamo stellata nel meccanismo della notte”, dovete dirmelo!!». Nonostante il fervore, McIntosh non riesce a dimostrare la “pericolosità” dell’opera, sostiene che quelle parole se trasmesse alla radio o in tv travierebbero milioni di giovani americani, ignora i meriti letterari dell’Urlo perché semplicemente, e in perfetta buona fede non è in grado di riconoscerli. C’erano poi i precedenti; all’inizio del secolo le corti statunitensi impiegavano ancora i criteri della morale vittoriana importata dall’Inghilterra che fece bandire dalle dogane Mademoiselle de Maupin di Théophile Gautier, Casanova’s Homecoming di Arthur Schnitzler e soprattutto l’Ulisse il capolavoro di James Joyce. Quest’ultimocaso segnò una svolta: il giudice newyorkese John M. Woolsey non solo non ravvisò nulla di osceno nel romanzo dello scrittore irlandese, ma ne lodò «il valore estetico e la coerenza letteraria essenziale». Tutto ruotava attorno al significato di «oscenità», categoria non protetta dal Primo emendamento, ma anche molto vaga, che una sentenza della Corte suprema riservava di stabilire ai singoli tribunali, caso per caso. Gli avvocati difensori e in particolare il celebre J. W. Ehrlich, sostennero che l’oscenità non è una qualità intrinseca dell’opera ma che esiste solo nella mente di chi legge, che Ginzberg aveva raccontato la sua vita e le sue esperienze senza l’intenzione di corrompere i lettori. «Honny soit qui mal y pense ( sia svergognato colui che pensa male», esclamò in francese Ehrlich, citando il famoso rimprovero ai suoi cortigiani del re d’Inghilterra Edoardo III. Il giudice Horn, che teneva regolarmente dei corsi in una chiesa battista nel quartiere in cui viveva, era anch’egli un fervente religioso, ma anche una persona giusta e intelligente che ha affrontato il processo virgin mind, senza pregiudizi. Proprio come il suo collega John M. Woolsey valutò il contesto in cui l’Urlo era stato concepito. In primo luogo non si è precipitato nel giudicare, non ha subito la pressione mediatica da nessuna delle parti in causa, si è preso il suo tempo per valutare. Ha trascorso intere settimane nel fare ricerche su casi simili e ha preso in grande considerazione le tesi dell’accusa e le repliche della difesa. Infine ha osservato che se le parole accusate di oscenità fossero state sostituite, l’opera avrebbe perso il suo significato letterario. Concludendo che la censura del libro, «distruggerebbe le nostre libertà di libertà di parola e di stampa». Non sappiamo se la descrizione del San Francisco Chronicle e della stravagante fauna che seguì il processo a Lawrence Ferlinghetti fosse esagerata. Di sicuro però quando venne letta la sentenza di assoluzione l’aula di tribunale esplose in un urlo di liberazione.

Il poeta ed editore aveva 101 anni. È morto Lawrence Ferlinghetti, padre e leggenda della Beat Generation. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. È morto a 101 anni a San Francisco Lawrence Ferlinghetti, padre e leggenda della Beat Generation, il filone letterario di giovani americani entusiasti e malinconici come Jack Kerouac o Allen Ginsberg che si sviluppò negli anni ’50. Ferlinghetti ha giocato un ruolo da protagonista nell’editoria americana da autore, di prosa e poesia, e da editore. La sua City Lights Booksellers & Publishers, fondata nel 1953, al confine di North Beach sulla Columbus Avenue è diventata un luogo iconico. Era nato a New York da padre bresciano e madre ebrea sefardita. La svolta nel 1956 quando diede alle stampe l’Urlo, Howl, di Allen Ginsberg. Un’opera considerata scandalosa e oscena, che fu oggetto di un processo, e che comunque restò come uno dei momenti più rappresentativi della poesia del Ventesimo secolo. In nome del Primo Emendamento che garantisce la libertà d’espressione Ferlinghetti fu scarcerato. La sua prima opera, pubblicata nel 1956, fu Pictures of the gone world. Da subito utilizzò il cognome del padre, dopo aver scoperto che non si chiamava Ferling ma Ferlinghetti. Le sue raccolte di poesie più famose sono state A Coney Island of the mind, Her, The secret meaning of things. Sempre impegnato nei temi sociali, Ferlinghetti è stato molto amato da tutte le giovani generazioni di lettori e scrittori che ha attraversato nei suoi 101 anni. Aveva partecipato alla Seconda Guerra Mondiale, arruolandosi nella Marina.

Addio al poeta. Ritratto di Lawrence Ferlinghetti, il poeta della Beat Generation morto a 101 anni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Adesso che è morto centinaia di curiosi e di ragazzi troppo giovani per averlo davvero amato si affollano davanti alla sua libreria City Lights Booksellers & Publishers e al Cafè Vesuvio della strada accanto, a San Francisco dove ha vissuto e improvvisamente è morto – tutti pensavamo fosse immortale – Lawrence Ferlinghetti, classe 1919, un’età sconsiderata e realistica come la sua arte. Ad ammazzarlo è stato il Covid a quanto sembra, perché il figlio Lorenzo ha parlato di una polmonite interstiziale che gli ha tolto il respiro e l’ossigeno della poesia. Quando noi che avevamo vent’anni di meno decidemmo di essere ribelli, non avevamo modelli. Gli esistenzialisti parigini alla Juliette Greco e Jean Paul Sartre potevano attecchire soltanto fra i tavoli di Deux Magot e Saint-Germain, e comunque erano in fondo dei ribelli molto disciplinati, nel caso di Sartre anche comunisti osservanti. Allora, fine anni Cinquanta, si cominciò a parlare di questa strana gente: i “beat”, spesso confusi e assimilati con i beatnik, comunque precursori della Hippy generation che avrebbe infilato i fiori nei cannoni che allora sparavano non a salve nel Vietnam. “Beat” sta per picchiato, oggetto estraneo ed erano veramente attraenti questi americani fuori controllo che proliferavano in un Paese compatto e vittorioso, in piena guerra fredda, nel boom economico e delle nascite a milioni dei baby-boomer. Questi curiosi e travolgenti selvaggi della poesia e della musica e dell’anticonformismo, a cominciare da Ferlinghetti, con Jack Kerouac, Lucien Carr, Allen Ginsberg, William S. Borroughs, Gregory Corso, Charles Bukowski e Norman Mailer, erano sovversione pura: sesso, droga, rivolta anarchica. Kerouac aveva trovato questa parola “beat” unificante perché alludeva alla depressione, all’abbattimento, al mal di vivere. Ferlinghetti era l’editore e il giornalaio di tutto il gruppo, ma anche il poeta che recitava versi vissuti con malizioso dolore più che con rabbia. Erano – tutti questi ribelli di parole e musica – l’antisistema quando essere contro il sistema ti portava in galera o comunque davanti alla corte e alla gogna. Lawrence era nato nello Stato di New York a Bronxville. Era il poeta universale e più noto, la voce americana della poesia, più di un milione di copie per venti poesie e la cosa più stupefacente di lui era questa: non sapeva di essere di origini italiane, e quando lo scoprì fu sopraffatto da questa novità che gli sembrò imperdibile e meravigliosa. Ne sono prova il suo Cafè Vesuvio, accanto alla sua libreria e l’altro Caffè Trieste. Il suo capolavoro è sicuramente la raccolta di poesie A Coney Island of the Mind, una tenera catena di provocazioni nostalgiche ed erotiche, modulate sulla jazz session, parole come musica e musica come parole, da vivere e non da recitare, suonare senza spartito e senza obblighi. Quando si andò ad arruolare per partecipare allo sbarco in Normandia del giugno 1944 (è stato dunque l’ultimo soldato ancora vivente di quell’impresa) non aveva la minima idea di avere un cognome italiano e che suo padre fosse di Brescia. Ma quando dovette procurarsi il certificato di nascita scoprì di chiamarsi Ferlinghetti e non Ferlings. Lo raccontava spesso: «A quell’epoca gli italiani erano considerati il livello più basso della società americana e desideravano soltanto nascondere le loro origini. Mio padre e mia madre hanno sempre parlato inglese e avevano storpiato il nome perché così facevano tutti gli italiani nello spasmodico sforzo di essere assimilati come americani e irriconoscibili». Ritornato dalla guerra volle sapere di più, scoprendo ciò che era già accaduto a tutti gli italiani della sua generazione: quando gli italiani arrivavano in America rinunciavano alla loro lingua, al loro nome e infatti lui non aveva mai sentito parlare italiano in casa. Poi si innamorò dell’Italia e viaggiò in lungo e in largo da Brescia, dove era nato suo padre, fino alla Calabria dando spettacolo delle sue poesie e recitando le sue idee che, in un tempo lontano, erano sovversive. Tuttavia, riuscì anche a essere fermato dalla polizia in Italia e poi ha raccontato di avere un po’ esagerato perché il suo agente così gli aveva chiesto di fare. Era il mastro di bottega anzi il padrone della bottega della “beat generation” e la bottega era la ventosa San Francisco, con la piccola libreria “City Lights”, una serra per tutte le atti, riviste sessuali e filosofia orientale, zen e omosessualità, pacifismo e poesia, pittura di qualità e musica, jazz soprattutto perché la sua poesia era strutturata sulla jazz session, una poesia che va suonata e non recitata, e non messa su carta. E poi l’editore di minutissimi libretti, riviste da quattro soldi di grafica geniale, parole di cui era il libraio, il poeta, l’autore, il pittore, il custode del rifugio in cui ospitava tutti i grandiosi matti della sua banda da Kerouac a Ginzburg creando quella prima forma di ribellione al sistema che era più anarchica che socialista ma comunque aveva tutte le caratteristiche della rivolta e della ribellione sessuale. In una delle poesie della raccolta Coney Island of the Mind sostiene che c’è un oggetto che ci collega e tormenta, uomini e donne di ogni età. Le mutande: le signore anglosassoni devono avere dei grandi sensi di colpa se stanno sempre lì a lavare e rilavare quella macchiolina sulle loro mutande e tutti abbiamo questo problema delle loro mutande, le stesse mutande che ci dobbiamo aggiustare di giorno e di notte ma silenziosamente e senza farci vedere dagli altri. Fu il primo a pubblicare riviste in cui si parlava apertamente di omosessualità maschile e femminile in un periodo in cui era assolutamente proibito e affrontò da editore il processo per l’Urlo- Howl – di Allen Ginsberg, letto nella Six Gallery e pubblicato da Ferlinghetti nell’anno successivo, accusato di oscenità. Era ancora l’epoca in cui l’oscenità poteva essere ammanettata e portata in tribunale e lui la sosteneva bravamente per spirito libertario ma anche per una permanente influenza del pensiero giapponese dopo essere stato a Nagasaki, dove era stata fatta esplodere la seconda bomba atomica americana. Le sue collaboratrici e fan erano spesso anche la sua affezionate amanti e amiche e compagne di vita e di viaggio anche se ebbe una moglie che amò anzi per sempre. Ferlinghetti è stato ormai monumentalizzato perché nessuno ricorda più quale guerra e contro chi lui avesse combattuto con la sua banda di amici dolci e incanagliti della bit generation. Ieri nel primo pomeriggio avevano cominciato ad accumularsi fiori e lattine di birra davanti alla sua libreria per commemorarlo. La Jack Kerouac Alley è una piccola strada che separa la libreria, ormai una attrazione turistica della città, con il suo Vesuvio Cafè. In quegli spazi che lui ha creato e custodito c’è ancora molto vino e una macchina da scrivere sistemata sul marciapiede dove si radunano da ieri piccole folle per onorare Ferlinghetti, di generazioni fra loro lontanissime. Un giovane poeta di nome Scott Lord ha scritto: «Essere poeta a 16 anni significa avere 16 anni. Essere poeta a 40 vuol dire essere un poeta. Ma essere poeta a 101 anni vuol dire essere Lawrence Ferlinghetti». Fino a che la polmonite che lo ha portato via non si è fatta feroce. Ha seguitato a firmare copie e rispondere alle e-mail finché le energie glielo hanno consentito. La zona di San Francisco dove viveva, la più bohémien della città è tradizionalmente il quartiere degli italoamericani dove tutti lo ricordano come un bon-vivant ma incline alla zuffa e poi alla malinconia, felice di sedersi anche al Caffè Trieste che aveva contribuito a fondare nel 1956. Rappresentava un’America che oggi non ha più senso perché gli Stati Uniti di oggi sono percorsi da falde di violenza sotterranea crescenti e sempre più divisive, mentre l’America nella quale Ferlinghetti era emerso come poeta contestatore che oggi fatica a riconoscere come super eroe della poesia usata sia come la dinamite degli anarchici che come i fiori degli amanti.

·        E’ morto il sociologo Franco Cassano.

Bari, addio a Franco Cassano, sociologo del Pensiero meridiano. Il cordoglio di Decaro ed Emiliano. Professore dell'Università di Bari e tra i promotori della Primavera pugliese dei partiti progressisti si è spento stamattina. Michele De Feudis La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Febbraio 2021. Addio a Franco Cassano, sociologo del Pensiero Meridiano e tra i promotori della Primavera pugliese dei partiti progressisti. L’accademico è morto stamattina, e la notizia è stata comunicata dalla amata moglie Luciana.  Era stato fra i più giovani animatori della corrente di pensiero politico definita “école barisienne” con tra gli altri Beppe Vacca e Biagio De Giovanni, che negli anni Settanta rivoluzionò il dibattito nell’area del Pci. Era nato il 3 dicembre 1943 ad Ancona ed era da tempo malato. Professore ordinario di Sociologia all'Università degli Studi di Bari Aldo Moro, ed era stato editorialista de l’Unità e l’Avvenire. Tra le sue opere più note "Il pensiero meridiano" e "L'umiltà del male”, entrambi scritti per la Laterza, “Modernizzare stanca” (per il Mulino). Nel 2003 era stato il punto di riferimento dell’associazione “Città Plurale”, laboratorio di civismo dal quale a Bari erano nate le proposte politiche che accompagnarono il successo di Michele Emiliano come sindaco alle comunali del 2004 e di Nichi Vendola come governatore nel 2005 (e pochi mesi prima nelle primarie contro Francesco Boccia). E’ stato parlamentare per cinque anni (dal 2013 al 2018), eletto deputato nelle liste del Pd: alla Camera si dedicò alla politica internazionale, come componente della Commissione Esteri. Il suo ultimo messaggio politico è stato un documento di sostegno alla candidatura di Michele Emiliano nelle regionali di settembre.

«Il pensiero meridiano», 25 anni di moltitudine.

IL CORDOGLIO DI EMILIANO - “Dall’età di venti anni sino ad oggi Franco Cassano ha attraversato la mia vita privata, istituzionale e politica con severa discrezione e affetto. Lo incontravo nel portone del condominio dove entrambi abitavamo scambiando sorrisi dolcissimi ed emozioni man mano che la mia vita di adolescente progrediva verso l’età adulta. Dalle note a margine dell’esame di sociologia giuridica, agli anni in cui mi incoraggiava con immensa solidarietà quando mi vedeva entrare ed uscire di casa circondato dalla scorta che piantonava me e le nostre case. Non sono mai del tutto entrato in confidenza con lui per il rispetto che nutrivo verso uno dei pochi Maestri della mia vita. Persino quando si è battuto nella Convenzione del Centrosinistra della città di Bari assieme a Cinzia Capano e ad altri per farmi candidare a sindaco di Bari, non ho mai avuto il coraggio di parlargli, piuttosto attendevo di sapere da lui, come sempre, se avesse rimproveri o suggerimenti da darmi. Non ho sempre soddisfatto tutte le sue aspettative, ma sono consapevole che senza il loro durissimo lavoro per far emergere la sinistra e la città dalla sudditanza politica e psicologica verso la destra padrona di Bari, il mio percorso politico non si sarebbe mai realizzato. La nostra comune anima popolare, dovuta alle frequentazioni negate ad altri con l’anima dei quartieri di periferia, ci  consentiva di scambiare punti di vista diversi e di accettare reciprocamente le contraddizioni in cui, per sperimentare e innovare, rischiavamo di cadere. Sono stato segretario e presidente del PD che lo candidò al Parlamento e non sono mancati contrasti e incomprensioni. Ma la consapevolezza di lui, e per conseguenza di me stesso, non ci abbandonava mai, anche quando la vita politica ci allontanava. Piango la scomparsa di un amico al quale non ho mai avuto la forza di confidare, per pudore, quanto sia stato importante. Mi illudo oggi con rimpianto che egli ne fosse comunque consapevole. Un grande intellettuale del Sud che a differenza di altri, ha tracciato una via che la politica ha realizzato, sia pure lasciandolo perennemente inquieto. Io e Nichi Vendola sappiamo quanto gli dobbiamo e quanto di lui abbiamo disatteso, nella convinzione di essere stati sempre fedeli alla nostra terra al di là dell’ossequio e della convenienza. È stato un uomo che ha saputo leggere nel profondo la società e descriverne le opportunità. Le nostre vite sono cambiate rispondendo al suo appello, continuo, incessante, a realizzare una visione di bellezza, di amore verso il prossimo, di giustizia, di modernità senza dimenticare la Storia e la sua proiezione nella nostra anima. Non a caso la sua e la mia isola preferita è Itaca, dove in nome dell’eroe più spregiudicato e moderno, abbiamo coltivato la pretesa di conservare attraverso il mare gli odori e le favole del Mediterraneo”. Sono le parole di cordoglio del Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano per la scomparsa di Franco Cassano.

DECARO: IL SUD GLI DEVE MOLTISSIMO - «Franco Cassano ci ha insegnato a credere in quello che siamo e, soprattutto, in quello che possiamo diventare. Dire che ci mancherà è troppo poco. Oggi siamo tutti orfani. Addio Franco». Lo scrive su facebook il sindaco di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro, in occasione della morte del sociologo barese ed ex parlamentare del Pd.

«Un intellettuale e un maestro - scrive Decaro - , un uomo dall’intelligenza originale e sorprendente, che come nessun altro ha saputo rivoluzionare i paradigmi del racconto del Sud e dell’essere meridionali. Un uomo a cui questa terra deve moltissimo. Un uomo di sinistra. Un uomo sempre di parte. Un uomo mai fazioso. Un uomo che riusciva a coniugare un pensiero solidissimo e profondo, con una straordinaria leggerezza». 

CAPONE: CON LUI SUD PROTAGONISTA - «Oggi perdiamo uno dei più grandi intellettuali degli ultimi 30 anni che il nostro Paese abbia conosciuto, Franco Cassano. È stato un fine pensatore, capace di rimettere al centro del dibattito il nostro sud, rifuggendo da letture classiche e stantie». E’ il ricordo della presidente del Consiglio regionale pugliese, Loredana Capone. «Un intellettuale dinamico e moderno - scrive su Facebook - al punto da innovare anche il concetto stesso di «intellettuale": ha messo a servizio del nostro territorio e del nostro Paese, un pensiero nuovo che andava di pari passo con la pratica, l’azione, l’impegno quotidiano. Lo ha fatto nelle aule universitarie, nelle strade delle nostre città e nelle istituzioni. Il suo «pensiero meridiano» ha avuto la forza di far tornare il sud non più oggetto delle riflessioni e dei progetti altrui, ma soggetto protagonista del proprio destino, capace di cambiare i paradigmi e di rimettere al centro la qualità della vita di tutte e di tutti. Franco è stato un vero nuovo faro per tutti noi che crediamo in un’Italia che può vivere una nuova fase di rilancio a partire dal suo sud». 

Addio Franco Cassano, il sociologo capace di raccontare l’uomo del domani. Franco Arminio su L'Espresso il 24 febbraio 2021. «In un’epoca dominata dagli intellettuali adusi alla tecnica e alla scienza, lui era legato a un vecchio arnese sempre utilissimo: il pensiero». Franco Cassano è morto dopo una lunga malattia, attraversata senza mai perdere attenzione alle vicende degli altri. Negli ultimi anni il suo lavoro era stato poco frequentato. Lui aveva la colpa agli occhi degli accademici della muffa di aver scritto un libro sociologico che era al tempo stesso popolare e raffinato. Il suo "Pensiero meridiano" non nasceva da una trovata, era il frutto dell’incrocio tra lo studioso e il percettivo. Studiare il mondo senza guardarlo serve ancora meno che guardarlo senza studiarlo. Lui era riuscito a fare tutte e due le cose. Chi si appresta a ragionare su come spendere i soldi per il Sud nei prossimi anni farebbe bene a darsi una lettura dei libri di Cassano. Non ci troverà progetti, ma visioni, cioè quello che veramente serve. In un’epoca dominata dagli intellettuali adusi alla tecnica e alla scienza, Cassano era legato a un vecchio arnese sempre utilissimo: il pensiero, a cominciare dal pensiero di Camus e di Leopardi, due figure a lui tanto care. Franco Cassano era molto generoso. Oltre alla bellissima prefazione a un mio libro del 2010, un libro che si chiama Oratorio Bizantino e che fu pubblicato da Ediesse, la casa editrice della Cgil, una volta venne ad Aliano al festival La luna e i calanchi. In quel periodo era deputato del Pd. Mi colpì e quasi mi imbarazzò il suo intervento in cui in sostanza esprimeva più fiducia nel mio lavoro di quanto ne avesse lui nel lavoro parlamentare suo e dei suoi colleghi. L'ultima volta che l’ho chiamato mi ha parlato delle difficoltà quotidiane che arrivano dall’avere un tumore al cervello, ma la telefonata è stata assai lunga perché gli premeva sapere cosa stavo scrivendo, come andava la casa della paesologia, come era il libro sul terremoto che avevo iniziato a scrivere e che ora vedrà la luce senza che lui potrà leggerlo. Io posso solo sperare che in tanti adesso provino a leggerlo o rileggerlo: l'editoria negli ultimi anni poco si è occupata di valorizzare il suo lavoro, ma i suoi libri non sono affatto scaduti. Cassano non racconta il Sud che abbiamo alle spalle, ma il Sud che abbiamo davanti, non ci parla dell’uomo della tecnica che forse è un ferrovecchio, ma dell’uomo dei miti meridiani, che forse è l’uomo dell’avvenire.

È morto Franco Cassano, sociologo del “Pensiero Meridiano” e della “Primavera Pugliese”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. È morto a 78 anni Franco Cassano. Il sociologo del Pensiero Meridiano, uno degli esponenti della cosiddetta “e’cole barisienne”, animatore del circolo della Città Plurale e della “Primavera Pugliese”. Era malato da tempo. Era stato anche parlamentare. “Poi un giorno abbiamo cominciato a guardare il Sud in modo diverso, e ci siamo ritrovati con più passato e molto più futuro di quanto credevamo possibile”, ha scritto sui social lo scrittore, Premio Strega, direttore del Salone del Libro di Torino Nicola Lagioia ricordando Cassano e il suo Pensiero Meridiano. Era nato il 3 dicembre 1943 ad Ancona. Era professore ordinario di Sociologia e Sociologia dei Processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Assidua negli anni la sua collaborazione da editorialista con L’Unità e con Avvenire. Proprio Il pensiero meridiano, insieme con L’umiltà del male e Modernizzare stanca – i primi due per Laterza, l’ultimo per il Mulino – i suoi testi più importanti. Aveva fondato nel 2003, con altri intellettuali baresi, l’associazione Città Plurale, laboratorio di civismo che fu tra i pilastri di quella che fu definita “primavera pugliese”. Da quell’esperienza trassero inerzia le esperienze amministrative di Michele Emiliano al comune di Bari, attualmente alla Regione, e di Nichi Vendola, ex governatore pugliese. Cassano fu eletto deputato con il Partito Democratico nella circoscrizione Puglia nel 2013 e ricoprì il ruolo di componente della Commissione Esteri. Tra i primi a esprimere il proprio cordoglio per la scomparsa dell’intellettuale il sindaco di Bari e presidente Anci Antonio Decaro. “Franco Cassano ci ha insegnato a credere in quello che siamo e, soprattutto, in quello che possiamo diventare. Dire che ci mancherà è troppo poco. Oggi siamo tutti orfani. Addio Franco – ha scritto su Facebook Decaro – Un intellettuale e un maestro, un uomo dall’intelligenza originale e sorprendente, che come nessun altro ha saputo rivoluzionare i paradigmi del racconto del Sud e dell’essere meridionali. Un uomo a cui questa terra deve moltissimo. Un uomo di sinistra. Un uomo sempre di parte. Un uomo mai fazioso. Un uomo che riusciva a coniugare un pensiero solidissimo e profondo, con una straordinaria leggerezza”. Dolore espresso anche dal segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti: “Con la scomparsa di Franco Cassano l’Italia perde uno dei suoi più grandi intellettuali. Dagli anni Settanta a oggi, con il suo sguardo acuto e profondo di chi vede lontano, ha aperto strade nuove al pensiero della sinistra e all’impegno civico e meridionalista per intere generazioni. Perdiamo un punto di riferimento, anche per il Pd, un maestro di avanguardie, ci mancherà moltissimo”. Un post di cordoglio anche da parte dell’ex ministro per il Sud Giuseppe Provenzano: “È morto Franco Cassano. Per molti, è stato un maestro. Per me, un riferimento costante, in un dialogo sui molti modi di vedere il Sud, sui venti della storia, sull’umiltà del male. Non la pensavamo sempre allo stesso modo, sapeva essere acutissimo e dolcissimo nel confronto. Avremo modo di ricordarlo a dovere, glielo dobbiamo in tanti. Ma io ora ripenso all’ultima volta che andai a trovarlo a Bari, un anno fa o poco più. Una visita privata, a casa sua. Stava già male, dopo quell’intervento. ‘Ascolta gli altri, Peppe, ma segui il tuo demone’, furono per me le sue ultime parole. Franco Cassano era un grand’uomo, era così”.

L'addio al sociologo. L’insegnamento che lascia al Mezzogiorno Franco Cassano. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. I meridionali hanno due tragedie, una grave, una gravissima: una parte è convinta di appartenere a un modello culturale, sociale ed economico irrimediabilmente inferiore al complesso sociale settentrionale; una parte ritiene di essere fatalmente al di sopra di ogni altro contesto umano. La salvezza del Sud passa dall’incontro-scontro delle due prospettive. Dal loro annientamento, imprescindibile per una condizione di “normalità”. Il declino del Meridione, per Franco Cassano, è nato dall’intersezione del Sud con la modernità. Un appuntamento a cui la gente del Mediterraneo è arrivata senza una guida tanto autorevole da mettere sul tavolo le ragioni del Sud. E le ragioni erano tante, di pregio pure: avrebbero fatto la fortuna dell’Occidente che ha continuato a percorrere in solitaria una strada che avrebbe dovuto appartenere a tutti. Franco Cassano ha speso la sua vita per le ragioni del Sud e ora che, a 77 anni, la sua esistenza è finita, proseguono a vivere le sue ragioni, il suo pensiero meridiano non termina con la sua morte. Noto e amato per la sua prosa, più di un saggista, più di un sociologo, era un poeta. La sua era la poetica del disamore, perché è sulla mancanza d’afflato con ciò che la propria cultura ha prodotto che si afferma il declino di una civiltà. La civiltà mediterranea è stata atterrata con la spada, ma avrebbe potuto salvarsi, rialzarsi, invece il colpo di grazia è arrivato attraverso il disamore di un mondo per il proprio mondo. Il Sud è morto perché ha smesso di amare sé stesso, trasformando ogni sua virgola in mostro ortografico, ogni sua statua in icona muta, e utilizzando a mo’ di discarica un paesaggio sorto olimpico. Franco Cassano, nato ad Ancona nel dicembre del 1943, è stato uno scrittore, un saggista, professore di sociologia all’università Aldo Moro di Bari, deputato del Pd, ma figlio già nobile del Pci e fra i creatori della Primavera Barese da cui vengono fuori i Vendola e gli Emiliano e altri ancora, alcuni figli e altri figliastri. Aveva scelto il Sud e i poveri, un po’ per sentita appartenenza, soprattutto per elezione. La sua produzione culturale è vasta, ma il suo condensato biblico è contenuto ne Il pensiero meridiano del 1996. Ha teorizzato la necessità di un Sud totalmente autonomo, non per motivi storici, propagandistici o revanscisti, ma in base a ragioni culturali: solo un Sud totalmente autonomo dal punto di vista culturale può marciare nel futuro, essere utile al riavvicinamento fra i popoli, alla loro pacificazione. Il Sud di un treno lento, che cammina a vapore, e giro dopo giro costringe la modernità a un passo più umano, che unifichi il Nord oltre il Settentrione e il Sud oltre il Meridione, oltrepassando il mare. Il suo limite è stato forse quello di essere stato un pensiero troppo grande, che di sicuro era arrivato con un ritardo secolare del pensiero meridionale, affidato per troppo tempo alle menti asfittiche di un’intellettualità sudicia servile, di risulta. Eppure, anche se Franco Cassano è morto, le sue indicazioni restano fra le più suggestive tra i meridionalismi variegati, minati dalla nostalgia, dal piagnisteo, dal rancore, dalla subalternità. Un Sud culturalmente autonomo, una vasta area culturale mediterranea con un pensiero forte è ancora, e sempre più, indispensabile alla nascita di un nuovo umanesimo che superi le derive dei modelli totalizzanti del 900, sfociati nel più disumano fra i totalitarismi: il capitalismo.

IL RICORDO. Addio Franco Cassano, un orizzonte oltre le ferite della modernità. Fra il Sud e il mondo, un pensatore unico. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Febbraio 2021. «Ci sono giorni in cui ti senti in esilio, in cui nulla o nessuno riesce a farti tornare in patria... Ci sono giorni di sole asciutto e di terrazzi nitidi, in cui l’orizzonte tra mare e cielo è netto come in un disegno... Ci sono i giorni più duri, bui anche a mezzogiorno, degli strappi improvvisi, quelli dei congedi definitivi, delle cose che non puoi cambiare». Ci sono giorni in cui nel cielo di Bari c’è giusto quel sole, promessa di primavera nonostante il lungo gelo della pandemia, eppure bisogna scrivere della morte di Franco Cassano, malato da tempo, 77 anni, autore dell’almanacco dei giorni antologizzato in Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo (il Mulino 2001). È uno dei tanti libri del sociologo e filosofo barese (era nato ad Ancona il 3 dicembre 1943), apparsi prima e dopo Il pensiero meridiano, il classico contemporaneo di cui abbiamo ricordato i venticinque anni dall’uscita il 2 febbraio scorso su queste colonne (Laterza 1996). Ci sono giorni in cui poco dopo l’alba i messaggi si moltiplicano nelle chat: «Franco non c’è più» o «Il professore ci ha lasciato». Allievi dell’università, amici, compagni dai tempi della militanza nel Pci nella sezione «7 Novembre» di Madonnella, ma anche cineasti, scrittori, musicisti, cittadini hanno voluto rendere un tributo a Cassano (tra i primi su Facebook il regista di La nave dolce, Daniele Vicari). Il pensiero meridiano è stato e resta un testo cruciale che ha rinverdito in maniera originalissima il discorso sul nostro Sud, inquadrandolo nel contesto mediterraneo, ripreso poi con coerenza in un volume curato da Cassano con il giurista Danilo Zolo e concepito guarda caso durante una comune vacanza a Itaca, L’alternativa mediterranea (Feltrinelli 2007). Esponente fra i più giovani della école barisienne dei comunisti critici Beppe Vacca, Biagio De Giovanni, Franco De Felice, Vito Amoruso e molti altri, Cassano esordisce nel 1971 con Autocritica della sociologia contemporanea per i tipi di De Donato, casa editrice assai rilevante in quelle stagioni, cui poi affiderà l’essenziale Il teorema democristiano (1979). Dopo altri saggi e «dopo l’autunno» della sinistra, con Approssimazione e Partita doppia (il Mulino 1989 e 1993) relativizza il marxismo negli «esercizi dell’esperienza dell’altro», scandagliando le modalità con cui i sessi, le culture, gli animali guardano il mondo. Nel dialogo a distanza con pensatori radicali quali Popper e Feyerabend, Lévinas e Bauman, Derrida e Foucault, via via la riflessione di Cassano mette al centro la dimensione del tragico e la necessità di oltrepassarne i dilemmi. La sua ossessione è la «partita doppia», appunto, colta da Montaigne quando negli Essais alla fine del 1500 scrive che «il vantaggio dell’uno è il danno dell’altro», o da Fellini nel capolavoro 8½: «Come si fa a essere felici senza far piangere nessuno?». E Franco amava molto il cinema, al pari del calcio di cui sapeva a memoria formazioni lontane nel tempo. È stato un pensatore-passeur o un pensatore-nuotatore, di terra e di mare per dirla con il filosofo Carl Schmitt. Cassano intravede nel Mediterraneo l’energia per diluire una modernità inconsapevole, perché troppo presa dalla corsa allo sviluppo, e per mitigare le tensioni della globalizzazione a cominciare dall’emigrazione (il trauma si manifesta a Bari l’8 agosto 1991 con i diciottomila della Vlora, «la nave dolce»). Il pensiero meridiano postula la necessità di «pensare la frontiera» rivisitando le metafore letterarie di Camus e Savinio, di Pasolini e Angelopoulos, mentre rifiuta l’idea di un Sud «paradiso abitato da diavoli», vetusta eppure ancora oggi dominante. Quel saggio nonché una collana della Libreria Laterza inaugurata nel 1997 da Mal di Levante dello stesso Cassano innescano una feconda dialettica tra il filosofare e le esperienze di volontari, medici, artisti, teatranti, scrittori, economisti, giornalisti (ricordiamo il compianto Alessandro Leogrande), e anche sacerdoti per il rilievo accordato dall’autore al silenzio, alla preghiera, agli echi biblici del deserto. Per un anno, il 2000, Cassano tenne una rubrica in prima pagina sul quotidiano cattolico «Avvenire»: sono alcuni degli articoli di Modernizzare stanca (altri uscirono per L'Unità), fra i quali colpisce oggi il monito a non medicalizzare i momenti della nascita e della morte. La politica gli è debitrice. La «primavera pugliese» di Michele Emiliano, Nichi Vendola, Guglielmo Minervini viene propiziata dall’associazione «Città Plurale» di cui Cassano è tra i fondatori e primo presidente. Una militanza di sinistra non ortodossa, la sua, libera e generosa come poche, che avrebbe caratterizzato anche l’esperienza parlamentare come deputato del Pd dal 2013 al 2018. Intanto Cassano dà alle stampe un altro testo prezioso, L’umiltà del male (Laterza 2011), di cui letteralmente s’innamora Giuliano Ferrara e ne fa una bandiera sul «Foglio» all’epoca ultraberlusconiano, recensendolo col titolo «Un gran libro, di sinistra». Per Cassano la divisione netta, di solito ritenuta insanabile, tra le élite e il popolo è una declinazione della rinuncia all’egemonia culturale da parte della sinistra italiana, un segno del suo tracollo. In altre parole, sostiene l’autore, lasciare al male l’esclusiva della familiarità con le umane debolezze equivale a obbligarsi alla sconfitta del bene comune. Lungo questo crinale etico, Cassano prende le mosse dalla «Leggenda del Grande Inquisitore» contenuta in I fratelli Karamazov di Dostoevskij: «Ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso». Una riflessione in parte ripresa in Senza il vento della storia (Laterza 2014), libro sbrigativamente liquidato come «renziano» o colpevolmente equivocato. Scriveva: «È necessario che la sinistra smetta di sentirsi ospite innocente in un universo cattivo e abbandoni ogni nostalgia». Ma non è cosa... Cassano soffrì degli attacchi a quel saggio, taluni neppure a viso aperto. Già, la nostalgia. Non scompare un cantore dell’arcadia meridionale, bensì un autore raffinatissimo e sempre rigoroso lungo le ferite più aperte che mai della modernità, uno studioso impegnato a elaborare prospettive e a disegnare un orizzonte oltre il rimpianto «tribale» di Pier Paolo Pasolini e il riscatto contadino di Carlo Levi, entrambi molto amati dal Nostro. Il suo impegno teorico e politico, in favore dei più deboli, è l’esatto contrario del provincialismo cui qualcuno ha cercato di ridurlo approfittando della vulgata dell’«elogio della lentezza». Conobbi Cassano da matricola universitaria più di quarant’anni fa nelle stanzette all’ultimo piano di piazza Cesare Battisti (la Sociologia in soffitta) insieme a un gruppetto di giovani studiosi in cui c’erano Eligio Resta, Peppino Cotturri, Franco Chiarello, Isidoro Mortellaro, Daniele Petrosino... Da allora ogni idea e attività culturale si è avvalsa del confronto con lui, amico e maestro delle domande radicali di cui rimpiango certe belle mattinate a passeggio sulle possibili risposte. Addio Franco, quanto ci mancherai.

·        E’ morta la giornalista Fiammetta La Guidara.

Nuovo lutto nel motorsport italiano: deceduta Fiammetta La Guidara.  Ilaria Minucci su Notizie.it il 23/02/2021. Il motorsport italiano vive un nuovo lutto in seguito alla prematura scomparsa della giornalista Fiammetta La Guidara, improvvisamente deceduta. Un nuovo lutto affligge il mondo del motorsport italiano: dopo la scomparsa a causa di complicanze indotte dal coronavirus di Fausto Gresini, è deceduta anche la giornalista sportiva Fiammetta La Guidara. La giornalista Fiammetta La Guidara si è improvvisamente spenta nella notte tra lunedì 22 e martedì 23 febbraio. Al momento, non è ancora stato reso pubblico cosa abbia provocato la prematura scomparsa della donna, che avrebbe compiuto i 51 anni d’età il prossimo 25 settembre. Fiammetta La Guidara era figlia di Franco La Guidara, scrittore e giornalista che ha firmato svariati saggi, romanzi e reportage. Proprio dal padre, Fiammetta La Guidara aveva ereditato la propensione alla scrittura e al giornalismo, fondendo una simile vocazione con la passione per i motori. A partire dall’adolescenza, infatti, aveva iniziato a seguire le gare del motomondiale in televisione e, a 16 anni, aveva preso il patentino per la moto. Non ancora ventenne, invece, aveva avviato alcune collaborazioni giornalistiche con la rivista mensile afferente alla Federazione Motociclistica Motitalia, con il settimanale Motorsprint, con L’Intrepido Sport e con La Gazzetta dello Sport. Oltre ad essere stata una collaboratrice storica di riviste specializzate come Moto Sprint e InMoto, Fiammetta La Guidara ha avuto svariate esperienze in televisione in qualità di telecronista ma anche ricoprendo il ruolo di addetta stampa per la Federazione Motociclistica Italiana. In particolare, l’esordio televisivo della professionista è avvenuto nel corso del 2003, sul canale Sky Nuvolari TV, quando viene scelta come telecronista per Nuvolari in occasione del Campionato Mondiale Supermoto. In questo modo, Fiammetta La Guidara diventa la prima voce femminile italiana incaricata di commentare un campionato motociclistico. Altre esperienze significative della sua carriera riguardano la sua partecipazione ai Rally dei Faraoni in Egitto e la realizzazione della serie di documentari dedicati alle Case motociclistiche battezzata «Segreti di Fabbrica», commissionata sempre da Nuvolari. Tra i suoi ultimi impieghi, infine, è possibile citare il ruolo da telecronista ricoperto durante il Campionato italiano CSAI Karting e il Campionato Italiano di Velocità di Motociclismo nelle classi Supersport 600 e 125 e Superbike.

Fiammetta La Guidara morta per «complicazioni durante la gravidanza». Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 24/2/2021. Il peggioramento improvviso e la corsa alla rianimazione dell’ospedale di Circolo. «Da qui saranno le mie prossime telecronache. Un saluto da Fiammetta La Guidara». È la foto di una donna fra le nuvole che raggiunge il cielo sul profilo Facebook della cronista sportiva scomparsa a cinquant’anni, a Varese, nel cuore della notte di martedì: le prime informazioni parlano di una complicazione legata ad una gravidanza, poi il rapido peggioramento delle condizioni di salute e la corsa alla rianimazione dell’ospedale di Circolo. Così se n’è andata Fiammetta La Guidara, volto noto del giornalismo sportivo legato al mondo dei motori. La notizia è rimbalzata ieri mattina, e poi nel corso della giornata le prime frammentarie informazioni sono divenute conferme fra le centinaia di messaggi di cordoglio arrivati alla famiglia e al marito, Tarcisio Bernasconi, direttore sportivo della squadra corse «Cupra Racing»: i due si erano conosciuti proprio sulle piste. Poi il matrimonio a Varese, alle Ville Ponti il 29 maggio 2019, una cerimonia che ha lasciato il segno nelle cronache mondane della città. Romana di nascita, Fiammetta La Guidara si era trasferita da alcuni anni con il compagno in un paese fra i laghi del Varesotto da dove continuava a portare avanti la sua professione di giornalista sportiva. I colleghi la ricordano come una donna attaccata alla professione, e sul lavoro instancabile: l’ultima intervista lunedì al pilota Jordi Gené di Cupra (marchio della casa madre Seat). Gli appassionati del mondo dei motori ricordano la cronista anche per essere stata la prima voce femminile in Italia di un campionato motociclistico che fece il suo esordio nel bouquet di Sky Nuvolari, e per aver letto i suoi pezzi su numerose testate di settore come Motosprint, Autosprint e Inmoto. Dal 2012 collaborava con «Aci Sport» e fino all’anno scorso era l’addetta stampa del campionato Tcr. «Avevamo fatto una riunione online una settimana fa, l’avevamo vista in video conferenza e stava molto bene, non manifestava nessun problema. Anzi, ci aveva avvisati che la gravidanza sarebbe terminata in giugno ed era estremamente felice. Nulla lasciava intendere, neppure lontanamente, l’imminenza di una tragedia così grande», racconta emozionato il collega Gaudenzio Tavoni, addetto stampa del campionato italiano Gran Turismo. Fiammetta aveva manifestato l’intenzione di proseguire in questi mesi nel lavoro in vista della ripartenza delle gare e le era stato affidato il compito di seguire i campionati delle categorie Formula 4 e Prototipi.

Andrea Camurani e Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2021. «Da qui saranno le mie prossime telecronache. Un saluto da Fiammetta La Guidara». Una frase sotto al disegno di una donna che fra le nuvole raggiunge il cielo. Campeggia sul profilo Facebook di Fiammetta, cronista sportiva scomparsa a cinquant' anni, a Varese, nel cuore della notte tra lunedì e martedì. Il ricordo bello e toccante è stato postato da Tarcisio Bernasconi, il marito di questa giornalista apprezzata da tutti gli appassionati di Motomondiale e Formula 1. Fiamma - come la chiamavano i colleghi di Motosprint e Autosprint , le storiche testate del gruppo Conti Editore per cui lavorava da sempre - si è spenta in ospedale dove era andata per una visita di controllo programmata. Era infatti incinta al quarto mese, «una gravidanza - racconta chi la conosceva - voluta e ponderata, nonostante le immaginabili difficoltà dovute all' età, e che aveva reso ancora più radioso il suo sorriso». Il primo ricovero per l' accertamento è stato al Polo materno infantile «Filippo Del Ponte», centro di riferimento regionale delle aree ostetrico-neonatali. Ma qui, nella tarda serata di lunedì e del tutto a sorpresa, sono sopraggiunte delle complicazioni e per questo è stato deciso il trasferimento immediato alla vicina Rianimazione dell' ospedale «Circolo».

All' alba di martedì il suo cuore ha cessato di battere assieme a quello del feto. La salma è stata messa a disposizione dell' autorità giudiziaria e dalla Procura informano che «sono in corso accertamenti». È sconvolto il direttore di Motosprint Federico Porrozzi che sul sito della rivista ha descritto «Fiamma come una delle poche, nel mondo del giornalismo 4.0, a saper fare tutto. Scriveva, faceva le telecronache in diretta, girava e montava video, scattava foto». Poi le interviste, sempre con lo «stesso entusiasmo, a grandi campioni e centauri sconosciuti». Direttore e cronista si erano «scritti anche lunedì pomeriggio - ricorda Porrozzi - e in seguito alle mie inutili rimostranze sul fatto che avrebbe dovuto riposarsi, mi aveva detto: "Fede, mi conosci, non so stare con le mani in mano. E senza scrivere di moto mi annoio"». Martedì mattina «quando mi sono svegliato e ho saputo dapprima della scomparsa di Fausto Gresini, avevo già in mente a chi far fare il pezzo». Ma poi la telefonata che «mi ha sconvolto». Fiamma si era sposata il 29 maggio 2019 a Varese e si era stabilita nella vicina Mornago, lasciando Roma. Con Tarcisio era stato un colpo di fulmine, sul paddock. Lei reporter, lui direttore sportivo della squadra corse auto «Cupra Racing». Al matrimonio c' era anche Roberto Ronchi, 71 anni, inesauribile caporedattore presso Conti Editore, che chiamò, «trent' anni fa, Fiamma a scrivere per noi; avevo capito che era davvero brava. Sono stato anche suo tutor all' esame da professionista. Un ricordo di lei? I 6.700 chilometri fatti in moto dall' Italia alla Russia con sua mamma Maria Grazia dietro al sellino per raggiungere una gara Superbike». Oppure quella volta che a un «Giro d' Italia promozionale a staffetta lei, terza staffettista, cadde dalla moto e si ruppe una gamba. Ma in ospedale si portò il computer attrezzandosi subito per scrivere. Era un vulcano inesauribile». Sotto choc anche il sindaco di Mornago Davide Tamborini: «L' avevo incontrata qualche giorno fa. L' avevo ringraziata per la raccolta fondi e giochi che aveva organizzato, durante il primo lockdown, per i bimbi. Sì, mi aveva espressamente detto di voler pensare prima ai bimbi...».

·        E’ morto il regista Giancarlo Santi.

Marco Giusti per Dagospia il 22 febbraio 2021. "Dietro una barba ci può essere un genio come un grande stronzo" disse uno sbarbato Sergio Leone al barbutissimo Giancarlo Santi, suo primo aiutoregista. "Allora tu, è meglio che non te la fai crescere la barba", gli rispose Santi, che Leone chiamava Foschia, perché come si muoveva si portava dietro come una nuvola. Ma dopo questa battuta, anche Leone si fece crescere un gran barbone alla Santi. Il mondo del West perde un altro dei suoi protagonisti. Se ne va nella sua città, Giancarlo Santi, a 81 anni, romano di San Lorenzo, regista de "Il grande duello" con Lee Van Cleef e del buffo "Quando c'era lui... caro lei" con Paolo Villaggio e Hugo Pratt, nonché memoria storica del cinema di Marco Ferreri prima e di Sergio Leone poi, gli fece da aiuto su "Il buono, il brutto, il cattivo" e "C'era una volta il west", avrebbe dovuto esordire da regista con "Giù la testa", ma gli americani vollero Leone. Fu testimone della celebre scena della distruzione del ponte di "Il buono, il brutto, il cattivo", quando un ufficiale spagnolo lo fece esplodere prima dell'inizio delle riprese, ma anche di un terribile incidente di set. Quando cioè Al Mullock, uno dei tre killer che affrontano Charles Bronson all'inizio di "C'era una volta il west", si tolse la vita a metà delle riprese, e Giancarlo prese il suo posto. Leone si fidava ciecamente di lui. Romano, testimone del bombardamento di San Lorenzo, militante comunista, inizia a lavorare su "Le avventure di Ercole" di Pietro Francisco e diventa braccio destro di un regista bizzarro e geniale come Marco Ferreri, del quale conosceva davvero tutti i segreti. Ma fu anche aiuto di Michelangelo Antonioni, di Luigi Comencini, di un Glauber Rocha fuori di testa in Africa alle prese con "Der diablo has seven cabezas" prodotto da Ettore Rosboch. Non c'era impresa che non fosse possibile per Giancarlo o set che non fosse gestibile dopo il lavoro che aveva svolto per Ferreri e Leone. Quando il contratto di Lee Van Cleef stava finendo con la Sancro Film, i produttori gli chiedono di girare rapidamente un western con lui e Santi, assieme allo sceneggiatore Ernesto Gastaldi, lo cucina rapidamente. Nasce così "Il grande duello", adorato da Tarantino e dai tanti fan del genere, con Lee Van Cleef e il giovane Peter O'Brien, che era in realtà il giornalista Alberto Dentice, e un grandioso commento musicale di Luis Bacalov che finirà tanti anni dopo in "Kill Bill". Giancarlo diceva: "Non è un film fatto male. È un film fatto imitando Sergio Leone. Invece di fare il film d'arte, alla Glauber Rocha, alla Pasolini, si è detto: Famo 'sto western". Dentice avrebbe dovuto essere il protagonista di "Tecnicamente dolce" un film di Michelangelo Antonioni, con Santi aiuto, che non si farà mai. Ma nel "Grande duello" ci sono anche Klaus Grundberg, protagonista del film di culto di Barbet Schroeder "More", Meme' Perlini, la futura scrittrice Ippolita Avalli, che allora faceva la spogliarellista al Volturno. Come sa del film, Leone si incazza. "Mi hanno detto che hai fatto un western... e come mai nun m'hai chiamato?" Poi glielo fa vedere e fanno pace. Pochi anni dopo mette in piedi una sorta di film parodia con Paolo Villaggio e Hugo Pratt, "Quando c'era lui... caro lei", scritto da Oreste Del Buono e ispirato al personaggio del camerata Catenacci di Giorgio Bracardj, che farà causa a tutti. Simpaticissimo, un vulcano di idee, Santi per anni mette in piedi progetti che non riusciranno a concretizzarsi  Un film su Celestino V, un nuovo western, "Non sparate al pappagallo", più recente. Rispetto all'uso che faceva Tarantino del suo come di altri western ha sempre detto che non erano omaggi, ma veri e propri furti. Così se ne va via anche Foschia.

·        E’ morto Fausto Gresini.

Covid, Fausto Gresini "morto a 60 anni". Fuga di notizie e smentita, motomondiale in ansia dopo due mesi di calvario. Libero Quotidiano il 22 febbraio 2021. Non è morto, Fausto Gresini, ma è ancora in gravissime condizioni. Nella tarda serata di lunedì si sparge voce che il 60enne ex campione in classe 125 e poi stimatissimo manager del circus, ricoverato da dicembre presso il reparto di terapia intensiva dell’ospedale Maggiore Carlo Alberto Pizzardi di Bologna, non ce l'abbia fatta. Notizia poi smentita dai familiari. Resta la preoccupazione di tutto il motomondiale per le condizioni dell'emiliano romagnolo, in lotta da due mesi contro il coronavirus, tra continui e drammatici alti e bassi. Nato a Imola, in carriera ha vinto il titolo mondiale nella 125 nel 1985 e nel 1987. Il suo esordio nel motomondiale arriva nel GP delle Nazioni del 1982, che non conclude a causa di un ritiro. Nel 1983 corre l’intero campionato con la MBA nella classe 125, ma a fine stagione la scuderia decide di cederlo alla Garelli, con quale Gresini vince il suo primo Gran Premio, in Svezia, giungendo terzo nella classifica generale. Nella sua carriera ha sempre corso nella 125 e si è aggiudicato il suo primo titolo mondiale nel 1985: tre vittorie (in Austria, Belgio e San Marino), cinque pole position e 109 punti conquistati. Due anni dopo si ripete, questa volta vincendo 10 delle 11 gare in calendario (tutte tranne quella in Portogallo, in cui viene fermato da una foratura mentre è largamente in testa). Nel 1988 la separazione con Garelli e nel 1989 sale in sella sulla Aprilia ma non brilla. Quindi il passaggio alla Honda per poi ritirarsi nel 1995. Da lì l’idea di formare, nel 1997, un proprio team, il Gresini Racing che è tuttora impegnato nel motomondiale e con il quale ha vinto tre titoli iridati nelle categorie minori. Da manager, ha dovuto affrontare i drammi di due suoi piloti morti in pista, il giapponese Daijiro Kato e il romagnolo Marco Simoncelli. Il 27 dicembre 2020, però, inizia la sua lotta al Covid. Le sue condizioni viaggiano per diversi giorni tra alti e bassi, con una polmonite interstiziale dovuta all’infezione difficile da curare. Venerdì e sabato scorso, dopo un miglioramento che lasciava sembra poter presagire una sua ripresa, le condizioni sono improvvisamente peggiorate. 

Covid, il figlio di Fausto Gresini smentisce la morte. La Repubblica il 22 febbraio 2021. Il pilota imolese due volte campione del mondo, 60 anni, ricoverato da due mesi. In serata era stato dato dai media l'annuncio del decesso: "Sta molto male, non è ancora la sua ora". Le agenzie hanno annunciato la morte di Fausto Gresini, ex campione mondiale delle moto, alle 22.55 di lunedì. La notizia si è diffusa fulminea, rimbalzata da siti e tv, confermata da ulteriori lanci di agenzia. Finché il figlio del 60enne manager imolese, colpito dal Covid e ricoverato da due mesi all'Ospedale Maggiore, non ha smentito con un post alle 23.21, indignato e adirato con la stampa. "Il mio grande babbo sta molto male ma non è ancora la sua ora". "Nonostante le notizie in circolazione, attualmente Fausto èancora con noi, seppure in condizioni critiche": la nota diffusa via Twitter dal team "Gresini Racing". La notizia si era diffusa in serata, quando i medici hanno comunicato ai famigliari le condizioni ormai disperate di Gresini, ulteriormente aggravatesi. Da lì l'aggiornamento è arrivato agli amici e colleghi di Gresini e si è sparsa. A quanto ha appreso Repubblica da fonti ospedaliere, in quei momenti di caos dopo l'annuncio, purtroppo l'ex campione versava in uno stato che non lasciava grande spazio alla speranza, pur clinicamente vivo.

Da centauro a manager: il Sic correva per lui. Due volte campione del mondo da pilota a metà degli anni Ottanta, con la 125, 60 anni compiuti il 23 gennaio, da ricoverato, dopo essersi ritirato ha avuto una carriera da manager top delle due ruote, fondando il team che porta il suo nome e di cui era team principal: ha trionfato in Moto3, 250, Moto2 e MotoE ed è ora presente in MotoGp con l'Aprilia. Correva per lui, con la Honda, Marco Simoncelli, quando morì nel 2011 a Sepang. Con il pilota di Coriano e con la sua famiglia Gresini ha sempre avuto un rapporto speciale.

Campione delle 125 nell'85 e nell'87. Nato a Imola, città di motori, Gresini esordì nel motomondiale partecipando al Gp delle Nazioni del 1982, che non concluse a causa di un ritiro. Ha sempre gareggiato solo nella 125, vincendo il suo primo titolo mondiale nel 1985. L'anno seguente si aggiudicò quattro Gp (in Spagna, Europa, Svezia e Germania), ma fu superato, un suo grande rimpianto insieme a quello di non aver mai corso in 250, di sole 12 lunghezze da Luca Cadalora, che si laureò campione del mondo. La rivincita nel 1987, quando si aggiudicò 10 delle 11 gare in calendario. Divorziò alla fine del 1988 dalla Garelli e passò all'Aprilia, poi alla Honda. Gli infortuni non lo risparmiarono, ma arrivò altre due volte secondo in generale, nel 1991 dietro al compagno di squadra Capirossi e nel 1992. Annunciò il suo ritirò prima della stagione del 1995. Nel 1997 nacque il team a suo nome, con sede a Faenza. Tra i piloti della sua scuderia, negli anni, Alex Barros, Tony Elias, Loris Capirossi, Marco Melandri, Sete Gibernau, Alex De Angelis, Jorge Martin, Matteo Ferrari. Vittorie, ma anche lutti: Daijiro Kato, morto a Suzuka nel 2003, poi Simoncelli. Del Sic, in una recente intervista, Gresini ha parlato come di "un vero guerriero, gli piaceva lottare, gli piaceva il corpo a corpo, non si tirava mai indietro. Godeva di queste cose, anche se prendeva la sportellata, non si arrabbiava, rideva. Diceva: 'Oh, l'ho presa, domani gliela do indietro'".

"Sono sempre all'attacco". Di se stesso, invece, dice sempre di sentirsi un "diversamente giovane, sempre all'attacco, sempre in prima linea, sempre con nuovi progetti. Sempre con qualche sogno nel cassetto. Dico sempre che quando in quel cassetto non ci sarà più nulla, dovrò cambiare mestiere". Il Covid lo ha colpito a dicembre e dopo alcuni giorni in ospedale di Imola, le sue condizioni hanno richiesto il ricovero al Maggiore di Bologna, in terapia intensiva. Costanti gli aggiornamenti del team sui social, con festa di compleanno organizzata online, presentazione del team con la mente rivolta a lui e il figlio Lorenzo a fare da tramite con gli amici e i fan.

Da fanpage.it il 23 febbraio 2021. Questa volta purtroppo è ufficiale. Fausto Gresini è morto. L'ex campione e dirigente del team che porta il suo nome in MotoGP si è spento nel reparto di terapia intensiva di Bologna, dopo una lunga battaglia. Il Covid ha causato gravi danni, con le funzioni d'organo compromesse per la grande gloria. Solo poche ore fa la famiglia e la sua scuderia avevano smentito l'indiscrezione confermata da tutte le agenzie di stampa sul decesso di Gresini, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti i suoi fan. Ora, però è davvero finita con il mondo dello sport che piange una vera e proprio colonna dei motori. La notizia della morte di Gresini è stata data dal suo team la Gresini Racing con un tweet: La notizia che non avremmo mai voluto dare, e che purtroppo siamo costretti a condividere con tutti voi. Dopo quasi due mesi di lotta contro il Covid, Fausto Gresini è tristemente scomparso, pochi giorni dopo aver compiuto 60 anni.

Da ansa.it il 23 febbraio 2021. Fausto Gresini è in condizioni gravissime, lotta contro il covid all'ospedale Maggiore di Bologna dove è ricoverato dalla fine dello scorso dicembre. Nella tarda serata si sono accavallate voci di una sua morte, rilanciate da molti media e amplificate dalle tv. Ma a precisare la portata della situazione è arrivato un tweet del team che Gresini presiede e di cui è anche team manager: "Nonostante le notizie in circolazione, attualmente Fausto è ancora fra noi, seppure in condizioni critiche". Duro il commento del figlio Lorenzo su Facebook: "Voglio ringraziare la stampa che ha avuto così tanto tatto nel comunicare e divulgare una notizia non verificata, siete proprio avvoltoi! Il mio grande babbo sta molto male, ma il suo giorno non sarà oggi!". L'accavallarsi di indiscrezioni e notizie aveva subito destato preoccupazione e dolore in molti ambienti dello sport mondiale, tanto che quando il Team Gresini ha pubblicato il tweet con le condizioni reali dell'ex pilota, tra i primi a rilanciarlo c'è stato l'account ufficiale della Motogp. Gresini, 60 anni, ha vinto tra l'altro due titoli mondiali nella classe 125 e ora è a capo della scuderia di MotoGp che porta il suo nome. Le condizioni dell'ex pilota si erano aggravate negli ultimi giorni per le complicanze legate al covid.

Fausto Gresini morto per il Covid: aveva 60 anni. Paolo Lorenzi su Il Corriere della Sera il 22/2/2021. Fausto Gresini non ce l’ha fatta: è morto per le conseguenze del Covid. Dopo la lunga convalescenza, segnata da un illusorio miglioramento e poi da un rapido peggiorare delle sue condizioni, il due volte campione mondiale della 125 nel 1985 e nel 1987 si è spento nella tarda serata del 22 febbraio all’ospedale Maggiore di Bologna all’età di 60 anni, compiuti lo scorso 23 gennaio.

Un punto di riferimento. Per tutti era Fausto. Semplicemente Fausto. Nel paddock, che ha percorso per 36 anni prima come pilota e poi come affermato manager, era un riferimento unico. Fausto conosceva tutti i piloti: alcuni li aveva affrontati in pista, altri li aveva invece lanciati, accuditi, portati al successo. Fausto conosceva tutti i segreti del Circus iridato. Conosceva tutti i giornalisti per i quali era una miniera d’informazioni. Perché nulla gli sfuggiva, perché spesso era lui stesso il baricentro dei discorsi. Fausto faceva notizia e in ogni caso sapeva ciò che serviva sapere prima degli altri.

Due titoli da pilota. Forse fu più famoso nella seconda parte della sua carriera, ma è un’asserzione opinabile. Come pilota vinse due titoli in 125 (1985 e 1987) negli anni in cui l’Italia regnava nelle piccole cilindrate e aveva appena ritrovato un ruolo da protagonista in 500 con Lucchinelli e Uncini. Affrontò il re indiscusso della categoria, il 13 volte iridato Angel Nieto, ma i suoi avversari principali furono i connazionali: Pier Paolo Bianchi, Ezio Gianola, Luca Cadalora e infine Loris Capirossi, che fu il punto di svolta. Il loro incontro segnò la carriera di entrambi.

La svolta con Capirossi. Approdato alla Honda a fine carriera, Gresini aiutò il debuttante Loris a imporsi sulla scena. Da buon compagno di squadra e ormai fuori dai giochi iridati, gli coprì le spalle nella gara che diede all’esordiente Loris il primo titolo mondiale nel ‘90. In Australia fece il diavolo a quattro e prese persino a pugni il casco di Spaan pur di aiutare Capirossi. Anni dopo, smessa la tuta, Fausto seguirà Loris nell’avventura in 500. Nel 1995 divenne il suo osservatore speciale, oggi si direbbe il «mental coach» (figura rilanciata da Cadalora con Rossi). Il seme di una carriera da manager fu lanciato in quell’esperienza e messa a fuoco nel 1996: un mini team nel garage di casa e gli amici del bar per far correre un ragazzino nel Trofeo Honda. «A un certo punto della mia carriera dovetti scegliere se diventare un vecchio pilota o un giovane manager». Nel 1997, sfruttando il vuoto lasciato da Pileri, debuttava il team Gresini con Alex Barros, una Honda 500 e il sostegno della filiale brasiliana della casa giapponese.

La passione e l’ambizione. Fausto imparava in fretta, da autodidatta ma con tanta passione, e ben presto divenne un riferimento per la Honda che nel 1999 lo coinvolse nello sviluppo della nuova NSR 250, affidandogli anche un nuovo pilota: Loris Capirossi. Nel 2000 arrivò in squadra il fenomeno Daijiro Kato, un ragazzino un po’ timido, sradicato dal Giappone e trapiantato in Romagna. «Non sapevo chi fosse ma avevo trasferito la mia ambizione di pilota a quella di manager», raccontò a Carlo Canzano della Gazzetta dello Sport. L’anno dopo Kato era campione del mondo della 250, lanciato verso un radioso futuro in MotoGp dove vinse subito nel 2002, chiudendo al terzo posto.

Kato e Simoncelli. Kato è stato il primo dei due momenti più bui della carriera di Gresini. L’incidente mortale a Suzuka nel 2003 gli ha lasciato una cicatrice profonda e dolorosa quasi quanto quella che nel 2011 gli lascerà la scomparsa di Marco Simoncelli. Daijiro e Marco, bruciati entrambi nel fiore degli anni e Gp. Fausto ha nascosto il dolore nei recessi del suo animo e ha trovato la forza di continuare grazie alla struttura che nel frattempo aveva fatto crescere fino a farla diventare uno dei team privati più vincenti e affidabili. Dalla Moto 3 alla Moto2, fino alla MotoGp e alla nuova formula E. Sempre un passo avanti a tutti.

Morto Fausto Gresini, da due mesi lottava con il Covid. La Repubblica il 23 febbraio 2021. L'ex pilota, campione del mondo con la 125 nel 1985 e 1987 e proprietario di un team che porta il suo nome, era ricoverato all'ospedale Maggiore di Bologna. Fausto Gresini non ce l'ha fatta. L'ex pilota e manager della scuderia di moto che porta il suo nome si è spento questa mattina dopo una battaglia di due mesi con il Covid. Gresini, che il 23 gennaio scorso aveva compiuto 60 anni, era ricoverato all'ospedale Maggiore di Bologna. La notizia della morte è stata diffusa dal suo team su Twitter: "La notizia che non avremmo mai voluto darvi e che siamo costretti a scrivere. Dopo due mesi di lotta al covid, Fausto Gresini ci lascia con 60 anni appena compiuti, Ciao Fausto". Le condizioni di Gresini hanno viaggiato per diversi giorni tra alti e bassi, con una polmonite interstiziale dovuta all'infezione difficile da curare. Venerdì e sabato scorso, dopo un miglioramento che lasciava sembra poter presagire una sua ripresa, le condizioni sono improvvisamente peggiorate, costringendo i medici a nuova sedazione e terapie per combattere la grave infiammazione polmonare. Ma alla fine non ce l'ha fatta. "Il nostro campione ci ha lasciati per sempre oggi alle 10.02 - ha scritto sui social Lorenzo, il figlio di Gresini -, ha lottato fino alla fine, è nato per vincere e stava vincendo di nuovo, stava migliorando, quando una emorragia cerebrale ce lo ha strappato via. Ciao Ba'! Così ti chiamavo e ti chiamerò per sempre, lasci un vuoto incolmabile e vivrai per sempre dentro tutte le persone che ti vogliono bene. Noi ti amiamo immensamente, ti portiamo e ti porteremo nel cuore tutti i giorni".

Due mondiali da pilota, sei da manager. Due volte campione del mondo con la 125cc nel 1985 e 1987 (21 gp vinti), il pilota di Imola era proprietario di un proprio team che nel motomondiale è da anni protagonista di tutte le categorie, dalla MotoGP fino alla versione elettrica. Da manager ha festeggiato 6 titoli iridati: con Daniel Pedrosa e Daijiro Kato in 250, Toni Elias in Moto2, Jorge Martin in Moto3 e Matteo Ferrari nella Elettrica. Per tre volte il 2° posto in MotoGP: la storia dei motori.

Le reazioni. "Ciao Fausto" scrive su Instagram Loris Capirossi, grande amico di Gresini con cui aveva fatto coppia in 125 nella prima metà degli anni '90. "Sono profondamente addolorato per la perdita di Fausto. Era un ottimo amico e mi piaceva molto" le parole di Carmelo Ezpeleta, Ceo di Dorna Sports, la società che organizza il motomondiale. "Ho seguito da vicino le notizie sulle sue condizioni e ho avuto la fortuna di poter parlare con lui anche mentre era in ospedale. Mi dispiace molto subire una perdita come questa nel paddock e voglio inviare le mie più sentite condoglianze alla sua famiglia, agli amici e ai membri del suo team". Affida a Twitter il suo pensiero l'ex campione del mondo Casey Stoner: "Sono addolorato per la notizia di Fausto Gresini. La comunità della MotoGP ha perso un grande uomo, tutti i nostri pensieri sono per la famiglia, gli amici e i colleghi. Che possa riposare in pace". Giacomo Agostini, leggenda del motomondiale: "Ho seguito le sue vicende da quando è entrato in ospedale, ho sentito tre sere fa il suo manager che mi aveva detto che era abbastanza grave. A 60 anni morire così, non ce lo aspettavamo. Quando persone come lui ci lasciano ti mancano particolarmente".

Iannone piange Fausto Gresini: “Ti porterò sempre nel cuore”. Alice su Notizie.it il 23 febbraio 2021. Fausto Iannone ha scritto un post di cordoglio per la scomparsa di Fausto Gresini, stroncato dal Covid a 60 anni. La scomparsa di Fausto Gresini (stroncato dal Covid a soli 60 anni) ha lasciato un vuoto enorme nel motomondiale e Andrea Iannone ha scritto un post via social per esprimere il suo cordoglio per l’ex pilota e dirigente sportivo. La morte di Fausto Gresini ha commosso e addolorato l’intero mondo sportivo. Il dirigente sportivo, ex pilota e due volte campione del mondo, è scomparso a 60 anni dopo 2 mesi di ricovero per Covid-19. Andrea Iannone ha scritto un post via social per ricordarlo: “Abbiamo sognato e lavorato, insieme. Non potevo ricevere notizia peggiore: ti porterò sempre nel cuore, Fausto”. Proprio Fausto Gresini avrebbe manifestato la sua vicinanza a Iannone dopo la sua squalifica per doping, avvenuta alcuni mesi fa. La notizia della scomparsa di Fausto Gresini è stata data dal suo team con un comunicato ufficiale: “La notizia che non avremmo mai voluto darvi e che siamo costretti a scrivere. Dopo due mesi di lotta al covid, Fausto Gresini ci lascia con 60 anni appena compiuti, Ciao Fausto”. Il dirigente sportivo era sposato e padre di 4 figli. In queste ore in tanti lo stanno omaggiando e ricordando via social, e molte delle persone a lui vicine sono ancora incredule per la sua tragica e prematura scomparsa, avvenuta a due mesi dal suo contagio da Coronavirus.

"Sono un uomo felice, voglio bene a tutti e questo affetto mi viene restituito": così Fausto Gresini si raccontava in un'intervista mai uscita. Massimo Calandri su La Repubblica il 23 febbraio 2021. L'ex campione del mondo morto dopo due mesi di lotta con il Covid aveva parlato pochi mesi fa della sua vita, la sua infanzia a Imola, i successi, i suoi primi guadagni e l'avventura a capo del team che lui stesso aveva fondato. "Perché io non ne ho mai abbastanza, della vita!". Parole di Fausto Gresini in una intervista di quest'inverno, mai pubblicata. Poco prima che gli venisse quella strana tosse, e poi la febbre, il ricovero all'ospedale di Imola alla vigilia di Natale, poi il trasferimento a Bologna. "Tutto gira intorno alla mia  passione. Per le moto, le gare. Per l'amicizia. Ce l'ho avuta sempre, fin da bambino. La cosa incredibile è che questa passione continuo ad averla. Anzi, di più". Pilota, manager: un campione. "In sella alla moto credo di aver fatto delle cose belle. O no?", se la rideva. Due titoli mondiali in 125 cc. "E poi è arrivato un momento fondamentale, delicatissimo: ho dovuto scegliere se diventare un vecchio pilota, o un giovane manager. Ancora una volta è stata la passione, a decidere". Un giovane manager. "Intorno al '97, eravamo 5 o 6 persone: con Fabrizio Cecchini, che mi ha seguito per tutta la carriera. Chi l'avrebbe detto, che alla fine avrei messo su un'azienda da 20 milioni di fatturato, con 70 dipendenti e 11 piloti?". Il segreto - spiegava - è stato nel dare tutto sé stesso: senza paura, con la generosità che nel paddock gli hanno sempre riconosciuto. "Reinvestire i miei guadagni nel mio mondo: le moto. È stata la cosa giusta e un grande valore aggiunto, quando sono arrivati i risultati". Ma non solo. "Ho sempre voluto pensare un po' in grande: MotoGP, Moto2 e Moto3, la MotoE. Per essere appetibile, perché la gente ti cerchi, devi farti trovare dovunque: pronto. E riuscire a continuare a fare le gare, restare in pista, coinvolgere nel tuo progetto tanti amici, rendere anche loro felici, creare delle sinergie: è una soddisfazione incredibile, cosa si può volere di più?". Geniale, instancabile. "Se non ho un problema, me lo vado comunque a cercare: mi ci butto dentro. Non mi sono mai tirato indietro, io". Una storia personale bellissima: "Quattro figli, due maschi e due femmine: e dalla stessa moglie, attenzione. Roba da premio Nobel", scherzava. "Quanti viaggi, avventure, persone incontrate: ho sempre voluto bene a tutti, e credo che questo affetto la gente me lo restituisca tutti i giorni, ogni momento. Sono un uomo contento". La modestia, la semplicità dei migliori. "Mia madre lavorava in una segheria, mio padre guidava le ruspe. A 13 o 14 anni ho capito che dovevo imparare un mestiere, sono andato in officina. Meccanico. Però appena c'era un attimo libero, correvo ai bordi del circuito di Imola: guardavo gli altri correre, e sognavo". Cosa? "Di poter esserci un giorno anche io, e arrivare ultimo. Sì, ultimo al traguardo: ma in pista, come un pilota vero". Ha cominciato a correre da ragazzino. "Quanti sacrifici. I miei coetanei andavano la sera a divertirsi, io invece restavo in officina a preparare la moto. Le prime gare, però non avevo una lira in tasca. Così, il sabato pomeriggio, io e quello che mi dava il lavoro ci scambiavamo i ruoli: era lui, a fare il meccanico. Si chiamava Obici Remo". Quando gli chiedevi quali fossero i successi più importanti della carriera, lasciava da parte i due mondiali vinti in sella. E ricordava quelli da imprenditore. "Un titolo se lo ricordano pochi: Dani Pedrosa con la 250. Poi con Daijiro Kato. Il primo mondiale di Moto3 con Jorge Martin, il primo di MotoE con ferrari. E con Toni Elies, in Moto2, nel 2010. Siamo sempre stati bravi, con le novità. Poi 3 volte secondi e 14 corse in MotoGp, per 18 anni con Honda e il grande cambio con Aprilia". È stata una vita piena di successi. "Per mia madre è stata una soddisfazione: mi ha sempre adorato. Io ho due sorelle, sono l'unico maschio: il suo cocco". Fausto Gresini, 60 anni, di Imola. "La mia città: è qui che sono nato ed è qui che morirò, è l'unica certezza che ho. Il mio paradiso". 

L'ultimo saluto a Gresini. La moglie: "Noi restiamo in pista". Massimo Calandri su La Repubblica il 27 febbraio 2021. All'autodromo di Imola i funerali del grande pilota e manager italiano, morto martedì mattina all'ospedale Maggiore di Bologna dopo 2 mesi di lotta contro il Covid. Capirossi: "Ti voglio bene e mi mancherai moltissimo". La Garelli 125 cc col numero 2 e le scritte del Team Italia. La tuta, il casco. Fiori bianchi e azzurri. Una gigantografia di quel successo storico sulla pista di Misano, era il settembre del 1985: Fausto che solleva il pugno sinistro celebrando il primo dei suoi due mondiali. Una foto di Papa Francesco, poi una più grande con Fausto che brinda - sorridente - nella sua hospitality, un'altra ancora con in braccio una delle figlie. E in mezzo, il feretro. Fausto Gresini. Autodromo di Imola, la sua casa e il suo paradiso. Qui si sono tenuti stamani i funerali del grande pilota e manager italiano, morto martedì mattina all'ospedale Maggiore di Bologna dopo 2 mesi di lotta contro il Covid. C'erano la moglie Nadia, i 4 figli (Agnese, Alice, Lorenzo, Luca) e pochi amici, perché questi sono tempi impossibili e poi Imola è zona arancione rafforzata. Però la cerimonia è stata trasmessa in diretta streaming sulla pagina facebook del team Gresini Racing, e - come in un virtuale libro delle firme - sono arrivati migliaia di messaggi di cordoglio, e cuori, e lacrime. Fausto Gresini, il più amato del paddock. La voce rotta dai singhiozzi, Loris Capirossi ha voluto ricordarlo così: "Mi sembra impossibile e mi distrugge, non poterti più abbracciare e scherzare con te. Eri l'amico che c'era sempre: vulcanico, instancabile. E con un sorriso per tutti. Ti voglio bene e mi mancherai moltissimo". E' stata letta una lettera della moglie Nadia: "Ciao amore, hai vissuto gli ultimi 2 mesi in un inferno: ma tu non hai mai mollato, hai lottato con tutte le tue forze perché sei sempre stato un guerriero. Hai dato tanto a questo mondo, e soprattutto hai insegnato molto a me e ai nostri figli: ripartiremo dai tuoi progetti. Restiamo in pista, e dimostreremo chi è la Gresini Racing". All'inizio della cerimonia è stata trasmessa una breve intervista fatta a Gresini l'estate scorsa: con la semplicità di sempre raccontava di essersi "accontentato" in carriera dei 2 titoli mondiali vinti (1985 e 1987), dei 21 gp (11 consecutivi), prima di diventare un imprenditore del motociclismo e trionfare ancora tanto. "Che soddisfazione, il primo successo con Loris!". Ha confessato la passione che lo ha sempre accompagnato - "Ed è diventata arte", ha detto il sacerdote durante l'omelìa -, e quella sua voglia di vivere ogni istante. "Sei stato un papà immenso, un uomo vero - con le palle - che aveva una soluzione per ogni problema", hanno pianto i suoi ragazzi. Poi, qualcuno ha fatto scorrere sullo schermo le foto di tutta una vita: da pilota in pista, in casa coi suoi piccoli in braccio, abbracciando la mamma, cuocendo le bistecche su di una griglia e pescando sul fiume, ad una festa di compleanno dei bambini, un bacio alla moglie, quel giorno in vacanza al mare. Sorrisi, sempre. Ed è stato impossibile non commuoversi ancora.

Gresini, ad Imola un minuto di silenzio seguito dal rumore delle moto. Riccardo Castrichini su Notizie.it il 27/02/2021. Un minuto di silenzio e poi il suono delle moto: Imola omaggerà così Fausto Gresini. Nella giornata di domenica 27 febbraio si svolgeranno i funerali di Fausto Gresini, ex pilota motociclistico a capo della Gresini Racing scomparso il 23 febbraio dopo due mesi di estenuante lotta contro il coronavirus. La notizia della sua morte ha fortemente colpito il mondo del motociclismo che ha reagito organizzando tante iniziative in accordo con il team corse di Gresini e la sua famiglia. Ecco dunque che il funerale, privato per via delle restrizioni covid, verrà trasmesso in diretta streaming e per aiutare l’Ospedale di Bologna è stata organizzata una raccolta fondi. Le iniziative non si fermano qui e l’ultima in tal senso è quella del comune di Imola, città natale di Fausto Gresini, che ha indetto un minuto di silenzio per la giornata di domani, alle 10, in concomitanza dell’inizio del funerale. Ai sessanta secondi privi di rumore faranno poi seguito i motori di tutte le moto del team che andranno in filodiffusione in tutta la città. La decisione della città di Imola è stata presa dal Comune guidato dal sindaco Marco Panieri che ha diffuso un comunicare l’iniziativa sulla proprio pagina Facebook. “Domani 27 febbraio, alle ore 10, un minuto di silenzio – si legge nel comunicato social – sarà il nostro modo per rendere omaggio, ciascuno nel luogo in cui si trova, evitando assembramenti, ad un grande campione ed un grande uomo, che ha portato il nome di Imola nel mondo, rimanendo sempre profondamente legato alla sua città”. “Vogliamo così testimoniare tutto il nostro affetto e la nostra gratitudine nei riguardi di Fausto“, conclude il Comune di Imola che informa anche del fatto che il suono delle moto verrà trasmesso nella filodiffusione del centro storico della città.

Riccardo Castrichini. Nato a Latina nel 1991, è laureato in Economia e Marketing. Dopo un Master al Sole24Ore ha collaborato con TGcom24, IlGiornaleOff e Radio Rock.

Tutto iniziò con un pollo nella A112. Il ricordo: noi del Motomondo e Fausto. Dalla 125 e l'arrosto nel baule ai trionfi mondiali. Stefano Saragoni - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. Un anno fa Fausto Gresini presentava le squadre nella sua Imola, in autodromo. Il Covid era alle porte ma ancora non sapevamo che avrebbe sconvolto le nostre vite, ancora eravamo liberi di muoverci e ritrovarci. La sera prima di quella presentazione la passammo al ristorante a perderci in chiacchiere, a guardarci indietro, a quando era un giovanissimo campione del mondo e io uno di quelli che ne raccontava le vittorie. Le prime erano arrivate in campo nazionale, più grandi di lui, che si presentava in circuito con la A112, una MBA 125 sul carrello e il pollo arrosto comprato in rosticceria che restava caldo nel baule. Se la sistemava da solo, quella moto: aveva lasciato presto gli studi per lavorare come meccanico in una piccola officina. Gli piaceva la tecnica, come a molti piloti della sua età: passavano ore a parlare di cilindri, rapporti del cambio, carburazione. Tu quella curva in che marcia la fai? E in fondo al rettilineo dove freni? C'era cameratismo, anche amicizia. Presto arrivarono i successi mondiali e l'ingresso nel Team Italia, squadra voluta dalla Federazione Italiana per valorizzare i nostri giovani. In sella alla Garelli si laureò campione del mondo nel 1985 e poi di nuovo nel 1987, anno in cui soltanto il problema tecnico che lo costrinse al ritiro nell'ultima gara gli impedì di fare l'en plein: undici vittorie su undici GP. A quelle stagioni trionfali ne sono seguite altre ad alto livello con la Honda del Team Pileri, in squadra con Capirossi, che aiutò con grande generosità a vincere il primo titolo nel 1990 per poi tentare di soffiarglielo l'anno seguente, finendo alle sue spalle. C'era già Nadia, nella sua vita, la bella ragazza dai capelli ricci moglie e madre dei suoi figli. Anni dopo di Capirossi sarebbe stato il team manager, facendogli posto nella sua squadra quando l'Aprilia lo scaricò a fine 1998. Insieme contesero a Valentino Rossi il titolo della 250 che sarebbe arrivato un paio di anni dopo con Daijiro Kato, giapponesino affidatogli dalla Honda cui fu fatale un guasto tecnico alla prima gara in MotoGP. Era il 2003 e Fausto visse per la prima volta il dramma che un amaro destino gli avrebbe fatto rivivere nel 2011 a Sepang, quando a perdere la vita fu Marco Simoncelli. Due piloti destinati a un grande futuro, due ragazzi speciali di cui si sentiva un po' fratello maggiore e forse un po' padre, se n'erano andati inseguendo il loro sogno di campioni. Momenti terribili, ma l'amore per la moto, per le corse, ha spinto Fausto ad andare avanti, a tenere in campo quella squadra costruita nel tempo. Tutto era cominciato nel 1997, anno in cui tornò al Mondiale non più da pilota ma da manager, con la Honda 500 bicilindrica e il brasiliano Alex Barros, il primo mattoncino di una carriera luminosa che ha visto il Team Gresini arrivare a giocarsi il titolo con squadre ufficiali, quelle diretta emanazione delle Case Costruttrici, la Honda, la Yamaha, la Ducati. Non è un caso che per tre anni consecutivi, dal 2003 al 2005, un suo pilota (prima Sete Gibernau e poi Marco Melandri) sia stato vicecampione del mondo. E insieme con Simoncelli avrebbe potuto forse arrivare ancora più su, se Marco fosse rimasto su questa terra. Fausto aveva idee chiare e un grande amore per quello che faceva. In circuito era sempre di corsa, entrava e usciva dai box di corsa, appariva in hospitality di corsa, stringeva mani, dispensava sorrisi, beveva caffè, tutto di corsa ma senza far mancare un saluto, una battuta. Alle volte riusciva a fermarsi per mangiare qualcosa seduto a tavola e allora ironizzava sui chili di troppo che aveva messo su e sul suo impegno a ributtarli giù. Aveva tutto sotto controllo e al tempo stesso sapeva di avere messo insieme le persone giuste, così come sapeva cosa spettava unicamente a lui: la scelta e la gestione dei piloti. Qui metteva in campo la sua intuizione, il saper vedere il talento e saperlo valorizzare. «Il team manager - diceva - entra in gioco quando ci sono dei problemi, e l'essere stato pilota aiuta, perché capisco perfettamente le situazioni. L'averle già vissute sulla mia pelle mi aiuta a trovare le soluzioni. Bisogna essere un po' psicologi, saper toccare le corde giuste». Passo dopo passo Gresini è arrivato a schierarsi in ogni categoria, non solo nella MotoGP dei grandi nomi, ma anche nelle classi in cui crescono i giovani campioni e perfino nella MotoE, la GP elettrica. Per affrontare questa sfida a tutto campo schierava una squadra di 70 persone, bilici, furgoni e furgoncini, una flotta abituata ad attraversare l'Europa per allestire ad ogni gran premio box personalizzati e hospitality capaci di sfamare centinaia di invitati, prima che la pandemia chiudesse al pubblico le porte dei circuiti. Quando torneremo a varcarne i cancelli, ci peserà non poterlo riabbracciare.

"Ecco quello che ho fatto per salvare 73 famiglie". Il manager: "2020 di terrore. Gresini Racing è una famiglia, ho rischiato per non lasciare gente a casa". Maria Guidotti - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. Era il 18 dicembre quando abbiamo intervistato Fausto. Solo lui, impegnato in ogni classe mondiale, MotoE compresa, avrebbe potuto raccontarci il 2021. L'intervista doveva uscire a fine anno. Ma il 26 la notiza del ricovero. E l'abbiamo fermata. Letta oggi, racconta tutto l'amore per la sua gente e la sua voglia di futuro. Ciao Fausto! Il terrore. La scorsa primavera Fausto Gresini, 2 mondiali vinti da pilota, 7 da team manager, a capo di una struttura impegnata in tutte le classi del Motomondiale, ha temuto il peggio. La cancellazione del Campionato MotoGP a causa della pandemia avrebbe rappresentato per l'imolese «la fine di un'era, scomparire». Grazie all'ottimo lavoro di Dorna, Irta, i team e le Case, la MotoGP interrotta a marzo e ripresa a fine luglio ha regalato in un condensato di 4 mesi un campionato entusiasmante.

Qual è il bilancio di questo 2020?

«È stato un anno molto complicato. Le restrizioni imposte dal Covid ci hanno costretto a fare i conti con una coperta già corta. Ezpeleta, però, ha fatto un ottimo lavoro mettendo insieme un business plan e un calendario che ha permesso di salvare la stagione in sicurezza e credibilità».

C'è stato un momento di paura?

«Più che paura, il terrore. Durante i mesi del primo lockdown ho temuto il peggio: bloccare il circus avrebbe significato scomparire. Da imprenditore sentivo la responsabilità dei miei dipendenti: 73 famiglie in totale. Abbiamo rivisto i contratti con gli sponsor e preso dei rischi per supportare chi lavora da anni con noi perché la Gresini Racing è prima di tutto una famiglia».

Nei momenti bui è prevalso l'ex pilota?

«Mantengo la grinta e la determinazione di quando correvo, ma coi budget devi mettere da parte il cuore e ragionare da imprenditore».

Come hanno risposto i partner?

«C'è stato un ridimensionamento, ma alla fine siamo soddisfatti. Sono contento anche guardando al 2021. La cosa importante è andare avanti».

E da poco anche l'annuncio del rinnovo dell'accordo con Dorna come Indipendent team in MotoGP fino al 2026.

«Il rinnovo era strategico e apre scenari ancora da scrivere che ci entusiasmano. Il prossimo anno sarà il 7° e l'ultimo con Aprilia in MotoGP. Anni difficili in cui sono mancati i risultati. Mi piacerebbe concludere con almeno un podio, prima di tornare a gestire in prima persona la squadra MotoGP. Mi manca non avere la parola sulla scelta dei piloti, sulle decisioni tecniche».

Novità?

«Tante, soprattutto in Moto2 dove schieriamo Di Giannantonio e Bulega. Abbiamo attinto a professionalità da altri team per riportare a casa il titolo vinto con Toni Elias nel 2010».

E in Moto3?

«Ho voluto dare fiducia ai ragazzi che hanno vinto il titolo con Jorge Martin nel 2018».

E poi la MotoE.

«Abbiamo vinto il titolo con Matteo Ferrari nel 2019 e ci riproviamo nel 2021. Io sono della vecchia scuola che ama il rombo del motore, ma sono anche a favore dell'innovazione.

Unico team indipendente, insieme a Petronas, presente in tutte le categorie, ha già deciso con quali moto correrà nel 2022?

«È una scelta strategica che stiamo valutando. Una cosa è certa: vogliamo tornare vincenti. Siamo stati 3 volte vicecampioni del Mondo in MotoGP con Gibernau e Melandri. Puntiamo in alto e adesso siamo più forti di prima con la lezione appresa da questo complicato 2020 di paura e incertezze».

·        E’ morto l’attore Sandro Dori.

Marco Giusti per Dagospia il 17 febbraio 2021. Era stato il perfido dottor Zucconi nella saga sordiana de "Il medico della mutua", ma anche uno degli ultimi campioni rimasti del "Brancaleone alle crociate" a fianco di Gassman rimasti in attività. Perdiamo anche il geniale caratterista Sandro Dori, 82 anni, nato come Alfredo Schiappadori, a Ostiglia, Mantova, nel 1938, morto due giorni fa a Civitavecchia. Grosso, con una facciona tonda, simpatica e rubizza, i capelli rasati a zero, immediatamente riconoscibile, era stato un caratterista attivissimo negli anni d'oro della nostra commedia a fianco di tutti i nostri più celebri attori, da Nino Manfredi a Ugo Tognazzi a Alberto Sordi. Ma, a differenza di molti altri scelti solo per il fisico e senza una vera preparazione attoriale, Dori aveva studiato recitazione e aveva a lungo lavorato per le nostre più importanti compagnie teatrali negli anni 60, in quella di Sergio Tofano, ad esempio, al Piccolo di Milano, alla Stabile di Genova, con Franco Parenti, Franca Valeri, Gianrico Tedeschi. È stato il migliore dei Sancio Panza possibile a fianco di un clamoroso Gigi Proietti nel "Don Chisciotte" televisivo diretto da Carlo Quartucci con le scenografie di Giulio Paolini. E ha per anni alternato il cinema al teatro, al doppiaggio, alla tanta televisione, "Il mulino del Po", "I miserabili", "Scaramouche", "Jekyll". Lo troviamo agli inizi degli anni 60 nell'episodio diretto da Nino Manfredi di "L'amore difficile", nel televisivo "La trincea" di Vittorio Cottafavi e nel picaresco "Il magnifico avventuriero" di Riccardo Freda. Poteva fare il contadino, il borghese, il prete, con la stessa precisione e credibilità. Diventava un cattivo o un contadino sciocco solo con poche mosse della bocca. Funziona benissimo in film anche molto diversi, da "Io la conoscevo bene" di Antonio Pietrangeli a "Le piacevoli notti" di Armando Crispino, da "I soldi" di Gianni Puccini al folle "Se tutte le donne del mondo" di Henry Levin, dove ha un ruolo di cattivo biondissimo. E' perfino un Nerone gay nel delirante "Le folli notti di Poppea" di Guido Malatesta, forse il suo ruolo maggiore. Lo troviamo nei film di Dario Argento, "4 mosche di velluto grigio" e negli spaghetti western, "E per tetto un cielo di stelle". È una presenza fissa nei decameroni, "Boccaccio", "La bella Antonia, prima monica poi demonia". Lavora nelle produzioni americane come "La virtù sdraiata" di Sidney Lumet, ma anche in film recenti come "Nine" di Rob Marshall o "The American" di Anton Corbijn con George Clooney. Tra i suoi film maggiori ricordiamo anche "Il deserto dei tartari" di Valerio Zurlini e "Alfredo, Alfredo" di Pietro Germi. Negli anni'80, con la fine del cinema di genere, fa poco cinema e molto doppiaggio e radio, ma torna attivissimo nel cinema del 2000.

·        E’ morto il paroliere Luigi Albertelli.

Morto Luigi Albertelli: suoi i testi delle canzoni dei cartoni più amate, da Ufo Robot a Capitan Harlock. Alessandro Chetta su Il Corriere della Sera il 20/2/2021. «Si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole/tra le stelle sprinta e va». Le strofe che hanno cambiato le regole del gioco nella tv per ragazzi. Luigi Albertelli scrisse Goldrake Ufo Robot e il sodale Vince Tempera la musicò: era il 1978, un successo eterno, intatto. Oggi, venerdì 19 febbraio, Albertelli ci ha lasciato. Classe 1934, il paroliere si è spento a 86 anni nella sua Tortona, provincia di Alessandria. Autore dei testi di sigle mai banali, rimaste nell’immaginario collettivo - Capitan Harlock, Daitarn III, Ufo robot su tutte e poi Huck e Jim, Capitan Futuro, Gatchman, Monkey, Astrorobot -; era il Mogol della tv per ragazzi ma nasce artisticamente autore di brani pop. Tutte hit da classifica (Piccola e fragile, Zingara, Non voglio mica la luna). E tra un pezzo per Iva Zanicchi e la sigla dell’anime Remi infila anche un evergreen come Furia cavallo del west o lo stracult di Pappalardo Ricominciamo. Al Corriere Torino che lo ha intervistato nel 2019 in occasione dei 40 anni di Capitan Harlock svelò l’arma segreta del successo: «La voglia di divertirsi che genera lo slancio purificatore della creatività. È così m’inventai quel “mangia libri di cibernetica, insalata di matematica e a giocar su Marte va” di Goldrake, della cui storia sapevamo pochissimo. Era un momento magico per la canzone italiana». Sulla pagina Fb Goldrake Generation scorre il commiato di migliaia di ragazzi diventati adulti: «Grazie di tutto Maestro, ci hai regalato l’infanzia più bella».

·        E’ morto Mauro Bellugi.

Mauro Bellugi per "sportmediaset.mediaset.it" il 20 febbraio 2021. Il mondo del calcio piange Mauro Bellugi. L'ex calciatore di Inter, Bologna, Napoli e Pistoiese aveva 71 anni, compiuti il 7 febbraio. Recentemente aveva subito l'amputazione di entrambe le gambe come conseguenza del Covid-19 e la sua storia aveva commosso tutti per la forza d'animo con cui aveva affrontato il dramma dopo i primi momenti di sconforto. "Il covid ha aggravato una mia malattia del sangue preesistente. Io non ho voglia di morire".

Morto Bellugi, campione di umanità tradito dal Covid: il combattente dell’Inter non ce l’ha fatta. Guido De Carolis su Il Corriere della Sera il 21/2/2021. Nelle sue 227 partite in serie A, Bellugi non segnò mai, resta in carriera solo quel gol contro i tedeschi in Coppa dei Campioni, nel primo match dopo quello famoso della lattina. Un gran tiro di destro da fuori con cui fulminò il portiere Kleff. Il calcio è sport spesso falso e cinico, sotto la patina c’è poca sostanza. Ma «per un combattente, un compagno di squadra fedele, un avversario stimato», come ha scritto l’Inter nel suo necrologio, si era subito mosso l’ex presidente nerazzurro Massimo Moratti. Avrebbe pagato lui le protesi e la riabilitazione a Budrio, in provincia di Bologna. «Ma non si è più mosso dal Niguarda, dopo l’operazione post Covid. Negli ultimi giorni aveva avuto un piccolo intervento, un’infezione è degenerata e se l’è portato via. Avevamo fatto altri programmi», racconta la moglie Lory. Con Giada, figlia di Mauro, aveva già dovuto sopportare lo strazio della doppia amputazione alle gambe, Bellugi l’aveva vissuta con spirito, portandosi dietro il piccolo notes su cui annotava barzellette. Gli piaceva raccontarle, sfilava il taccuino e spargeva buon umore. Già a vent’anni era una colonna dell’Inter, nel 1971 vinse lo scudetto battendo in volata proprio il Milan. Erano gli anni del presidente Fraizzoli, post Angelo Moratti. Al toscano Bellugi, non invadente ma elegante, la famiglia Moratti era legata. Il gran fisico, i piedi buoni, l’ottimo senso dell’anticipo e la vocazione al tackle pulito, ne fanno un giocatore fortissimo. Veste la maglia dell’Italia a 22 anni e, dopo aver vissuto da spettatore il Mondiale del 1974 in Germania, diventa il «Leone di Varsavia» nel 1975, dopo una prestazione monstre contro la Polonia. Lì ha già lasciato l’Inter da un anno, il tecnico lo alternava con altri, lui non gradiva. La moglie ancor meno: «Se nessuno vuole Mauro, lo compro io e lo faccio giocare in giardino». Nell’estate del 1974 lo prende il Bologna, di cui diventerà anche capitano. L’infortunio al ginocchio sembra chiudergli la carriera. A Lione il professor Trillat lo opera e lo rimette in piedi. Nel Mondiale d’Argentina del 1978, Bellugi sorregge la difesa azzurra, l’Italia di Bearzot chiude al 4° posto. Il menisco malandato si fa sentire. Il Bologna lo cede al Napoli, l’ultima squadra della carriera è la Pistoiese. Poi tanta tv da opinionista, cordiale, pungente, ironico. Ha vissuto con piacere, se n’è andato senza rancore. Alla vigilia del derby, con l’Inter nel cuore e in testa.

Mauro Bellugi, addio all'ex campione di Inter e Nazionale. Covid maledetto, le gambe amputate e l'ultimo calvario. Libero Quotidiano il 20 febbraio 2021. Il calcio piange Mauro Bellugi: non ce l'ha fatta, l'ex difensore di Inter, Bologna e Nazionale italiana degli anni 70. Affetto da tempo da una grave forma di anemia e contagiato dal Covid, lo scorso novembre è finito in ospedale in condizioni gravissime, che hanno reso necessaria l'amputazione di entrambe le gambe. Bellugi, ripresosi, dall'operazione, aveva subito dimostrato una forza d'animo straordinaria, riuscendo anche a scherzare sul proprio dramma: "Il coronavirus si è preso le mie gambe - aveva dichiarato dal letto d'ospedale, in collegamento tv con Barbara D'Urso -, anche quella del gol al Borussia (una celebre gara di coppa contro i nerazzurri, ndr) ma non mollo, mi farò le protesi come Pistorius". Le conseguenze del coronavirus hanno però minato la sua salute già precaria, e le condizioni sono poi drammaticamente peggiorate. Bellugi se ne va a 71 anni. "Voglio ringraziare tutta Italia per il pazzesco affetto che ho ricevuto e poi volevo ringraziare la curva Nord dell’Inter che mi ha dedicato uno striscione fuori dall’ospedale", aveva commentato in tv Mauro, che dopo aver abbandonato il calcio era diventato un apprezzatissimo commentatore della "sua" Inter su tante emittenti lombarde e non solo, campione di stile e simpatia. Dalla D'Urso, davanti alla moglie e alla figlia in lacrime (condivise da molti telespettatori), era sceso nei dettagli del suo calvario: "Non mi è stata fatta l’anestesia totale perché avevo il Covid. Mi hanno riempito di morfina e vedevo elefanti e bisonti che correvano in camera mia, qui sei da solo e non c’è nessuno ed è stato molto brutto". "In quei momenti ho pensato che non ero più un ragazzino, ma poi ho detto: perché non andare avanti? Ne vengo fuori, verrò di nuovo qui la prima volta che avrò le protesi - era stata la sua commovente promessa -. Ma senza mia moglie e mia figlia, forse non avrei firmato per l'intervento".

Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2021. «Sono al Niguarda, chiuso nella mia camera, con il cielo in una stanza. La bufera è passata, i giorni allucinanti della diagnosi e delle operazioni di amputazione sono alle spalle». Mauro Bellugi, iconico difensore dell' Inter degli anni Settanta, trascorre le giornate fra le medicazioni e le rare visite consentite della moglie Lory. L' ondata di affetto e commozione che ha accompagnato la notizia del peggior effetto collaterale che il Covid potesse infliggere a un giocatore, lo ha colpito. «In questo anno maledetto se ne sono già andati Corso, Maradona, Paolo Rossi. Non volevo essere io l' ultimo famoso della serie». Non ha perso il senso della battuta, lui toscano un po' guascone, abituato a sguazzare nei salotti tv del post-partita, nonostante la sorte lo abbia preso di mira. «Vede, io soffro da sempre di una forma di anemia mediterranea, come mia mamma e pure mia figlia. Di per sé non mi aveva causato grossi disturbi in precedenza ma poi con il coronavirus son diventati compagni di merende. Si sono detti "spacchiamo il mondo" e hanno spaccato me». Il giorno da segnare sul calendario è il 4 novembre. «Soffriva di male alle gambe, dolore non infrequente a causa della sua attività sportiva» racconta la moglie Loredana. «Negli ultimi giorni però le fitte erano aumentate e lui che pur ha una capacità di sopportazione notevole si lamentava molto. Lo portai al Monzino». Il racconto prosegue nelle parole dell' ex interista. «Scoprii gli arti, le gambe erano nere fino all' inguine». Per giunta, il tampone fatto in ospedale era positivo. «Un medico mi chiamò quella sera per informarmi che era stata compromessa la circolazione periferica delle gambe» aggiunge Lory Bellugi. «Si erano verificate piccole ischemie ai vasi capillari. Rimasi muta. Lui mi gelò: "Non c' è molto da fare"». Una frase che suona già come una sentenza. Mauro vorrebbe prendere tempo, buttare la palla in tribuna come faceva in campo. «Mi dissero "Vuoi vivere o vuoi morire?", perché se non fossero intervenuti subito la cancrena sarebbe salita ancora. Dovetti decidere subito, non le dico la mia faccia quando il chirurgo Piero Rimoldi mi disse che avrebbe dovuto amputare anche la gamba con cui avevo segnato al Borussia Mönchengladbach». Dalla diagnosi alla sala operatoria il passo è breve. «Ho assistito da sveglio a quando mi hanno tagliato a fette i polpacci» rivela con il tono di chi ha visto cose che noi umani. Poi però non ha perso il consueto spirito. «Dopo il primo intervento alla gamba destra ho ricevuto una chiamata da un numero che non conoscevo. Rispondo ed era lui. Si era fatto prestare il telefono dal vicino di letto» svela Lory, quasi benedicendo il modo scanzonato di affrontare la vita del marito. Eppure i momenti di scoramento non sono mancati. «Ero ricoverato nel reparto Covid perché nel frattempo ero affetto anche da una polmonite. Avevo fatto amicizia con un ragazzo di 25 anni, Edoardo. Videochiamava i genitori per tirarli su di morale. Un giorno mi ha salutato mentre lo portavano via, è mancato - confessa fra le lacrime Bellugi -. Morivano come mosche». Per fortuna attorno a lui si è stretta la grande famiglia nerazzurra. «Massimo Moratti è il numero uno, era più disperato di me. La Bedy, sempre a casa mia, la numero due. E poi Beppe Marotta: mi ha detto che un posto per me in società ci sarà sempre. "Tu sei stato la storia"». E ora Bellugi guarda al futuro. «Andrò a Budrio per sostenere la riabilitazione, mi sono già informato sulle protesi. Del resto, non pretendo molto per la vita che mi resta: poter andare al bar a giocare a scopa con gli amici e al ristorante con la Lory. Con le rovesciate ho chiuso».

Giulia Zonca per "La Stampa" il 21 febbraio 2021. Mauro Bellugi se ne va con una finta. Dopo averci detto che niente lo avrebbe fermato muore devastato dal Covid, ma non ci ha affatto preso in giro: nulla gli ha impedito di godersi ogni giorno della sua vita, nulla. Ha «fatto lo splendido», espressione che adorava, per l'intera esistenza e la fine straziante, la malattia che lo ha portato via un pezzo alla volta, non è riuscita a cambiarlo. Bellugi era proprio stopper nell'anima, un ruolo da nobiltà decaduta che ora quasi suona come un insulto, ma ha fatto la storia del calcio e lui lo ha portato benissimo in tutte le squadre dove ha giocato, soprattutto nell'Inter con cui ha vinto uno scudetto nel 1971 e poi al Bologna dove è andato in cerca di riscatto dopo essere stato bollato come «viveur». Allora rifiutava l'etichetta, ma dopo il ritiro l'ha rilanciata, in effetti era quello che sa stare bene ed è proprio l'eredità che lascia: mai sprecare i giorni in lamenti, mai abbandonarsi alla noia. Ci fa sapere anche che il Covid è subdolo, che si prende pure quelli che non vogliono arrendersi. Già, non è un'esclusiva di questo particolare coronavirus e si farebbe un grandissimo torto a Bellugi con la retorica della battaglia persa. La malattia non si può vincere, si può solo guarire, verbo che sposta di molto il centro dell'azione. Nelle vittorie ci si impone, nelle guarigioni ci si affida. Bellugi perdeva forza a ogni ora, era stanco, solo che si è tenuto stretto la persona che era fino all'ultimo. E la vena di leggerezza non è neppure diventata acida. Non ha potuto sbattere fuori il male però di sicuro ha tenuto alla larga il sarcasmo. Quindi la travolgente nostalgia che scatena la sua storia non lascia solo amarezza. Anzi continuerà a parlarci di lui, del calciatore per cui il sorriso contava quanto il pallone. In campo era una garanzia, una rogna per ogni avversario, uno che non ha mai tirato indietro la gamba e l'espressione non è una gaffe, ma un omaggio all'autoironia di un grande ex calciatore ed eterno battutista. Le gambe gli sono state amputate entrambe a novembre, sembrava l'unica via per la salvezza e lui, da bravo stopperone che conosce il mestiere, l'ha presa bloccando l'angoscia: «Mi levate anche la destra? Ci ho segnato il gol al Borussia Moenchengladbach». Sapeva bene quanto sarebbe stata difficile la riabilitazione a 71 anni, non negava la realtà solo che voleva gestirla a modo suo. Ha preso l'esempio di Zanardi e valeva doppio, perché Zanardi senza gambe non ha smesso di andare veloce e pure perché lo sapeva in un letto d'ospedale a resistere. Come lui. Vagheggiava di sfidare Pistorius con le protesi. Pistorius è in galera e lui non credeva affatto di rimettersi a correre, non cercava coerenza, solo coraggio. Proprio come la notte in cui ha realizzato il famoso gol in Coppa dei Campioni, l'unico della carriera. Una serata a gomiti alti e ad alto livello di pericolo: siamo al 20 ottobre del 1971 e non è la partita gioiello di Bellugi, è l'antefatto che lui non gioca nemmeno. La sua Inter, in Germania, perde 7-2: smette di impegnarsi quando una lattina colpisce in testa Boninsegna. Sono tutti convinti di vincere a tavolino, la pratica però diventa una disputa legale che dà ragione ai nerazzurri solo in tribunale e crea una situazione rovente. Qui entra in scena Bellugi, proprio il tipo che può scegliere una sfida elettrica per un gol che non ha mai visto prima e non ripeterà più. È sempre stato quello che sdrammatizza, gli riusciva anche da ospite fisso nella più vivace stagione delle tv private che solo per lui non è finita mai. Merito della sua verve educata. Si porterà dietro in eterno la rete contro il Moenchengladbach insieme con il memorabile successo dell'Italia a Wembley, nella fortezza inglese profanata da una rete di Capello e grazie a una gigantesca prova della difesa. Lì in mezzo c'era Bellugi. Quando ha capito che il Covid lo stava fiaccando avrà cercato l'ebrezza di certi risultati per sentirsi capace di qualsiasi cosa. Di sicuro ha cercato sempre la voce della moglie Loredana, Lory, con cui ha «fatto lo splendido» per tanti anni. Ai tempi nerazzurri dissero che fu ceduto per una battuta della moglie: lui finisce in panchina e lei dice «me lo compro io e lo faccio giocare in giardino». Lei se lo poteva permettere e lui non aveva intenzione di sentirsi in colpa per le sue priorità. Al primo posto la bella vita e non ha mai voluto dire essere superficiale, piuttosto essere attento a moltiplicare la felicità, a inseguirla e stanarla persino quando il mondo sta per finire.

Bellugi, il toscano che esplose nell’Inter e nel Bologna. Orlando Sacchelli su larno.ilgiornale.it il 22 febbraio 2021. Gli hanno dedicato un minuto di silenzio all’inizio di tutte le partite dell’ultima giornata di Serie A. In più Inter e Bologna, due delle squadre in cui aveva militato, hanno giocato con il lutto al braccio. Mauro Bellugi si è spento a 71 anni in un ospedale di Milano. Era nato a Buonconvento (Siena) il 7 febbraio 1950, figlio dell’orefice del paese. Fu proprio nella squadretta locale, con i bianconeri del Buonconvento, che dimostrò di saperci fare con il pallone. Difensore forte e fisicamente ben messo, era difficile superarlo. Ma nel suo primo tentativo di fare sul serio, col pallone tra i piedi, subì la prima doccia fredda: durante un provino a Sinalunga fu scartato dopo appena dieci minuti d’orologio. L’allenatore Lidio Scarpelli lo paragonò a “un pezzo di legno”. Eppure Bellugi, nonostante quella bocciatura clamorosa, riuscì a conquistarsi uno spazio nel grande calcio, finendo alle giovanili dell’Inter. A venti lo sbarco in prima squadra, con la vittoria dello scudetto nel 1970-71 e il cielo toccato con un dito. Incredibile ma vero, Bellugi nella sua lunga carriera riuscì a segnare soltanto un gol: lo fece in Coppa dei Campioni, contro i tedeschi del Borussia Mönchengladbach, vinta 4-2 dall’Inter. Tirò un missile da fuori area che andò a segno. In campionato, su 227 partite disputate, neanche una rete. Ceduto al Bologna, giocò con più continuità, e finì nel giro della Nazionale, contendendo il posto a Francesco Morini. Convocato ai Mondiali del 1974, non giocò mai. Da metà anni Settanta divenne lo stopper inamovibile degli azzurri. Nel del 1978, in Argentina, giocò sempre tranne due gare. Complessivamente con la Nazionale disputò 32 partite tra il 1972 e il 1980. Trasferitosi al Napoli di Vinicio, giocò all’ombra del Vesuvio per una stagione, chiudendo poi la carriera con la Pistoiese (1980-81). L’anno dopo fu vice allenatore dei toscani. Fuori dal campo rimase sempre legato al mondo del calcio, come commentatore attento e pungente. Fece l’opinionista per diverse tv private, facendosi apprezzare per la professionalità, l’arguzia, la simpatia e quel suo lato toscano del carattere di non volersi mai prendere troppo sul serio.

Aveva sofferto molto Bellugi nell’ultimo anno di vita. A causa di alcune complicanze di recente aveva dovuto subire l’amputazione di entrambe le gambe. Anche di fronte a quel dramma era riuscito a scherzarci su (“non mi taglierete mica anche quella con cui ha fatto l’unico gol della mia carriera?”). Continuava a lottare e voleva andare avanti, pensava già alle protesi da farsi mettere, per tornare a camminare. Era stato e continuava ad essere un leone, sia pure ferito. Il Covid purtroppo l’ha portato via troppo presto. Grande Mauro, ci manchi moltissimo.

Boninsegna: "Martedì l'avevo sentito rassegnato". "Divertente, mai arrabbiato, difficile farlo stare zitto. Un amico. Era lui a dare forza agli altri". Riccardo Signori - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale.  Due da grande Inter. Ma quella grande per definizione la vissero da ragazzini. Poi ci fu quella Inter. Dove non se la passarono male, problemi di spogliatoio a parte. Mauro Bellugi ieri se n'è andato. Bobo Boninsegna, 77 anni, sei in più dell'amico, è rimasto qui a ricordarlo. «Vincere è volgare, se non sai anche perdere», sembra una battuta di Bellugi. Ma in realtà è il titolo di un libro che ha firmato. Quella battuta, però, non gli piaceva più di tanto.

Boninsegna, che tipo era Bellugi?

«Un amicone, divertente, mai arrabbiato. Difficile farlo star zitto. L'ultima parola era la sua. Abbiamo fatto tante vacanze insieme: ricordo in Brasile con le famiglie».

Così fuori campo. In campo?

«Ogni tanto gli tiravo le orecchie. Aveva gran piedi, piedi da attaccante. E, a volte, esagerava. Si permetteva di fare un pallonetto in area: cose da tremare».

Nessuno si infuriava?

«Gli dicevo sempre: se scivoli, e chissà che rischi, comincia a correre. E lui sorrideva: tanto non mi prendi».

Che Inter era?

«Dopo il ciclo della grande Inter, cominciava una nuova era».

Bellugi, come lei partito dalle giovanili, era stopper di valore. Un jolly della difesa, dopo il duo Guarneri-Picchi...

«Un difensore anomalo, sovrastava per qualità tecnica e si fidava così tanto delle doti che, talvolta, si dimenticava di marcare. Era bravo di testa, nell'anticipo. Giocava al centro o sulla destra. Forse troppo buono: ogni tanto qualche legnata...».

Disputò solo un mondiale in nazionale: Argentina '78.

«Fu il suo unico vero mondiale. Eravamo insieme in quello della Germania nel 1974: mai impiegati. Per come sono andate le cose, era meglio se avesse giocato».

Andò via da Milano, si racconta, per dissidi con Mazzola.

«Una storia di tutti. Chi non aveva un rapporto difficile con Mazzola? Compreso il sottoscritto».

Con lei cosa successe?

«Ero tornato all'Inter con Fraizzoli perché, via dal Cagliari, mi piaceva l'idea di riprovare. Vidi Sandro che voleva fare il regista, ma non era il suo ruolo. Gli dicevo: nel mondo ce ne sono più bravi di te. Tu sei da pallone d'oro in altro ruolo, così puoi essere più utile alla squadra: a lui piaceva dribblare. Non apprezzò l'idea. Giocò grandi Europei con Valcareggi: non come regista. Voleva la regia. Ricorderete la storia della staffetta in Messico: assurda».

Bellugi emigrò a Bologna.

«Fu un errore. Una volta sua moglie mi disse: se non trova squadra, lo faccio giocare in giardino».

Nell'ultimo anno il destino gli aveva voltato le spalle.

«Lui aveva gran forza di carattere. Dava forza agli altri. Sapeva che avrebbero dovuto operarlo nuovamente per un'infezione. L'ho sentito martedì, ma qualcosa era cambiato: era meno baldanzoso, un po' rassegnato. Se n'è andato un amico. Peggio di così, cosa dire?».

Liberoquotidiano.it il 22 dicembre 2020. A 70 anni Mauro Bellugi ha dovuto affrontare una doppia amputazione. L’ex calciatore dell’Inter è stato costretto a un intervento per l’amputazione di tutte e due le gambe dopo aver contratto il coronavirus: lo ha raccontato lui stesso in una videochiamata con il giornalista Luca Serafini sul sito altropensiero.net. Un vero e proprio dramma quello di Bellugi, che a inizio novembre era stato ricoverato in ospedale dopo la positività al tampone. Purtroppo nelle ultime settimane la sua situazione si è aggravata a tal punto da rendere necessaria l’operazione agli arti inferiori. “Il Covid mi ha tolto anche la gamba con cui feci gol al Borussia Monchengladbach”, ha raccontato l’ex difensore che tra gli anni ’60 e ’70 ha vestito le maglie di Inter, Bologna, Napoli e Pistoiese. 

Il dramma di Bellugi: ischemie dopo il Covid, amputate le gambe. «Cerco già le protesi di Pistorius». Carlo Baroni su Il Corriere della Sera il 23/12/2020. Quella volta che tirò giù San Siro. E quell’altra che imbavagliò Rombo di Tuono. Sempre lui, solo lui. Mauro Bellugi, professione stopper. Ma non come quelli di una volta. Uno con i piedi che il pallone «restava incollato». Ora le conseguenze del Covid lo hanno lasciato privo delle gambe. Sono due mesi che Bellugi è in ospedale, al Niguarda di Milano. Senza piangersi addosso. Con la forza e il sorriso di quando giocava un derby. Il compagno di squadra che tutti vorrebbero avere. Una simpatia tracimata anche negli studi televisivi, a fine carriera. L’opinionista che faceva salire lo share. Urticante con stile. Proprio come quando giocava. La moglie Lory racconta che il suo Mauro resta ottimista. «La strada è lunga ma piano piano ne verrà fuori. Il virus gli ha procurato delle ischemie. L’unica soluzione era amputare le gambe». Soffriva da qualche tempo. Ai funerali di Mario Corso si era presentato con le stampelle. Quando giocava gli infortuni lo avevano tartassato. Mai piegato, però.

Il futuro. Adesso, tanto per dire chi è, guarda già avanti. Pochi giorni dopo l’intervento cercava delle protesi su Internet. «Prenderò quelle di Pistorius» garantiva. E scherzava: «Mi hanno tolto anche la gamba con cui ho segnato al Borussia». Un gol solo in una carriera da cento battaglie, ma indimenticabile. Una rete di quelle che restano nelle teche e nei ricordi. Da fuori area come Pelè e Maradona. Un tiro nell’angolo alto dove nessun portiere può arrivare. Era il 3 novembre 1971. Una delle notti magiche di San Siro. Per cancellare l’onta di un 7-1 cassata dagli archivi ma rimasto dentro la pelle di ogni interista. Mauro veniva dal vivaio. Quello buono dell’Inter. La generazione dei Bordon e degli Oriali. Toscano di Buonconvento, classe 1950 all’anagrafe, classe ottima in campo, classe infinita negli spogliatoi. «Come si faceva a non andare d’accordo con lui?» ricorda Carletto Muraro, il Jair bianco. «L’ho conosciuto quando Mauro stava finendo con l’Inter e io cominciavo. In panchina Helenio Herrera, il ritorno del Mago. La prima volta insieme a San Siro. Contro il Cagliari. E Mauro a mettere la museruola a Gigi Riva. Come giocatore non gli mancava niente. Gran difensore. E sempre pronto alla pacca sulla spalla al compagno che sbagliava».

La carriera. Inter ma anche Bologna e Napoli. E infine Pistoiese. E la nazionale. Ai Mondiali argentini del 1978, una squadra forse più bella di quella iridata di quattro anni dopo. Metà bianconera e metà granata. Più che l’Italia era Torojuve. Con un’eccezione: Mauro Bellugi. «Dicevano, lo so, che Bellugi ha una gamba più corta, che era una pazzia farmi giocare in nazionale, che Bearzot si era... innamorato di me. Ho letto, ho ascoltato, ho taciuto. Io preferisco rispondere sul campo. Il calcio è il mio mestiere: non l’ho mai tradito, non lo tradirò mai. Bellugi è un uomo». Del resto l’aveva dimostrato a Wembley nel 1973, la prima vittoria degli azzurri nello stadio-tempio degli inglesi. L’assedio dei leoni bianchi. Incessante. Spaventoso. Bellugi con le basette lunghe che si usavano nei fantastici anni Settanta a rispondere colpo su colpo. Che gli italiani non si facevano spaventare dall’orda britannica. Un giocatore di classe quando agli stopper era richiesto solo di spazzare l’area e non azzardarsi a tenere la palla più di qualche secondo. Corretto ma se c’era da picchiare non si tirava indietro. Con il tedesco Klaus Fischer, per esempio, ancora ai Mondiali del ‘78: «Credeva di intimidirmi entrando a catapulta, scalciando, colpendomi come e non appena poteva. Lo hai visto come è finita: in una entrata volante, ho allargato il gomito, c’è finito contro con il viso, è piombato il medico a cucirgli il labbro che penzolava sul mento, lì sul campo di gioco... io non cerco la rissa, ma se mi cercano mi trovano sempre». Mauro Bellugi che le partite non finiscono mai. Neanche questa che sta giocando.

Monica Colombo per corriere.it il 23 dicembre 2020. «È stato un anno allucinante, mi auguro che finisca presto e con il 2020 termini tutto il dolore che ha portato. Parlo per la mia famiglia ma anche per le tante persone che hanno subito drammi peggiori». Lory Bellugi è una donna tosta, più incline a reagire che a piangersi addosso dopo la diagnosi impietosa che ha colpito il marito. E, come Mauro faceva in campo sugli avversari, va in tackle sul Covid.

Quando è iniziata la via crucis che ha condotto all’amputazione delle gambe di suo marito?

«Era il 4 novembre, da giorni mio marito soffriva di male alle gambe. Non ci eravamo preoccupati più di tanto perché in conseguenza della sua attività sportiva non era infrequente. Negli ultimi giorni però i dolori erano aumentati e lui che pur ha una capacità di sopportazione notevole si lamentava molto. La domenica precedente si era sottoposto al tampone che era negativo. A quel punto lo portai al Monzino dove un cardiologo lo fece passare senza transitare dal pronto soccorso. Gli fece il tampone, stavolta l’esito era positivo».

L’ansia aveva preso il sopravvento?

«Accadde quella sera. Un medico mi chiamò per informarmi che era stata compromessa la circolazione periferica delle gambe. Si erano verificate piccole ischemie ai vasi capillari. Rimasi muta. Lui mi gelò: "non c’è molto da fare"».

E lei?

«Non capivo. Mi spiegò che l’unica soluzione era l’amputazione delle gambe. Mi crollò il mondo addosso, non volevo credere che non esistesse una soluzione alternativa. Aggiunse che diversamente le gambe sarebbero andate in cancrena. Da lì fu il delirio».

Dove è stato operato?

«Fu spostato al Niguarda dove tentarono di riaprire le vene, ma invano. Aveva entrambe le gambe nere».

Come ha reagito Mauro?

«Consideri che io non potevo andare a trovarlo. Dopo il primo intervento alla gamba destra, peraltro senza anestesia totale ed epidurale, ricevetti una chiamata da un numero che non conoscevo. Rispondo ed era lui! Si era fatto prestare il telefono dal vicino di letto. Le racconto questo per sottolineare il suo spirito».

E ora riesce a comunicare con suo marito?

«Ci salutiamo nelle video-chiamate. Solo di recente sono riuscita a fargli visita 3-4 volte, toccata e fuga, completamente bardata. Del resto in questa lunga degenza ha preso anche la polmonite».

Che percorso lo aspetta adesso?

«Dovrà affrontare la riabilitazione, probabilmente in una clinica a Budrio».

L’Inter vi è stata vicina?

«Si sono comportati come una famiglia. Da Massimo Moratti a Beppe Marotta. Si sono dimostrate persone speciali».

Si è già informato sul web sulle caratteristiche delle protesi.

«Ah certo, lui ha grande voglia di rimettersi in pista. È già proiettato in avanti. Pensa già alla macchina da guidare con i sensori, come se dovesse uscire dall’ospedale domani. È troppo forte, per fortuna ha questo carattere».

Cosa vi siete detti quando il medico ha comunicato che non c’era altra via che l’amputazione?

«Non ne abbiamo mai parlato. Sapevamo che sarebbe dovuto accadere: avevamo il timore che affrontando l’argomento sarebbe subentrata la depressione. Mauro un giorno mi ha chiesto se quel che restava dei suoi arti mi faceva impressione. Gli ho risposto di no. Meglio sdrammatizzare piuttosto di enfatizzare. È la nostra forza».

Salvatore Riggio per “il Messaggero” il 23 dicembre 2020. Mauro Bellugi è sempre stato un combattente. A 20 anni ha vinto lo scudetto con l' Inter (1970-71), oggi si trova a duellare contro le avversità della vita. Intorno alla seconda metà di novembre all' ex difensore nerazzurro (ha giocato anche con Bologna, Napoli e Pistoiese, ritirandosi nel 1981 con 335 presenze sulle spalle) sono state amputate le gambe, dopo che qualche settimana prima era stato ricoverato a causa del Covid-19. Durante la degenza in ospedale, le sue condizioni di salute sono peggiorate per altre patologie e questo ha spinto i medici a operarlo di urgenza. Cresciuto nelle giovanili dell' Inter, è rimasto in prima squadra dal 1969 al 1974 segnando il suo unico gol. Di destro, negli ottavi di Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach il 3 novembre 1971, nella partita vinta dall' Inter per 4-2, giocata due settimane dopo la famosa gara della lattina in Germania e annullata per la Coca-Cola lanciata dalle tribune sulla testa di Boninsegna. Nel 1974 si è trasferito al Bologna: in Emilia è rimasto fino al 1979 diventando un punto di riferimento per la difesa rossoblù, nonostante il grave infortunio rimediato nel 1976-77 (solo due gare quell' anno). Bellugi è passato al Napoli nel 1979-80 e nella Pistoiese nel 1980-81, chiudendo la carriera in Toscana per i troppi dolori alla gambe. Con la Nazionale tra il 1972 e il 1980 ha collezionato 32 presenze, disputando i Mondiali del 1974 in Germania Ovest (azzurri eliminati al primo turno) e quelli del 1978 in Argentina (quarto posto). Dopo il ritiro, Bellugi è stato spesso ospite dei programmi calcistici dell' emittente televisiva 7 Gold. Interventi precisi, schietti. Appena ha raccontato tutto in una videochiamata con Luca Serafini, trascritta sul sito altropeniero.net, sono stati tantissimi i messaggi sui social (l' hashtag #bellugi è finito nelle tendenze Twitter). «Non sto proprio bene, diciamo. È stata una cosa micidiale», ha spiegato. Alternando momenti di sconforto a commenti ironici, scherzosi.

Come è nel suo carattere. Cosa è successo?

«Questo Covid insieme a un' anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena. O eliminavo loro o eliminavo me. Però, ho moglie e una figlia. E allora ho eliminato loro. Sinceramente se fossi stato da solo, ci avrei pensato un po'».

Perché dice così?

«Il dolore è immenso, solo chi ha provato questa cosa può dirlo, commentarlo. È un dolore continuo, sempre. Sei sempre sotto morfina, è davvero durissima. Ci sono momenti nei quali non ce la fai».

Ma adesso come sta?

«Le ferite ora vanno bene. Sto aspettando la riabilitazione. Sto facendo un po' di ginnastica con un fisioterapista. Vado avanti. Non posso fare altro. I momenti di sconforto ci sono, anche di pianto. Mi dispiace per la gamba destra. Ci tenevo più della sinistra».

È quella del gol in Coppa Campioni.

«Sì, ho segnato la mia unica rete, nel 1971 contro il Borussia Moenchengladbach».

Adesso?

«Prenderò delle protesi, voglio battere il record di Pistorius. Certo, ci vuole coraggio ad andare avanti. Però, con le protesi con quei pochi passi potrò fare qualcosa, andare al ristorante, passeggiare. Mica devo fare altre rovesciate».

Non è stato facile in queste settimane.

«Ho dovuto smettere a calcio per problemi alle gambe, giocandomi il Mondiale di Spagna 1982. Adesso è accaduta questa cosa. Nella vita sono cose che possono capitare».

Bellugi, amputate entrambe le gambe. Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter, ha subito l'amputazione di entrambi gli arti inferiori. Il 70enne era ricoverato dal 4 novembre in ospedale dopo aver contratto il coronavirus. Marco Gentile, Martedì 22/12/2020 su Il Giornale. Il mondo del calcio è sotto choc, un'altra volta: Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter e della nazionale italiana negli anni 60-70 ha subito l'amputazione di entrambi gli arti inferiori. Il 70enne di Buonconvento era stato ricoverato lo scorso 4 novembre dopo aver contratto il coronavirus e ne è uscito, purtroppo, senza le gambe. Non è chiaro se sia stato il covid-19 a creare delle complicanze agli arti inferiori di Bellugi che erano già afflitti da problemi ed altre patologie. Le sue condizioni si sono aggravate tanto da costringere i medici ad un'operazione d'urgenza con la scelta drastica di dover amputare entrambi gli arti inferiori. La moglie ha però spiegato come il marito non si sia buttato giù trovando subito di vedere il lato positivo di questa triste vicenda.

Uomo d'acciaio. Bellugi, come detto, nonostante questo grande dramma subito ha anche trovato il modo di ironizzare nel corso di una videochiamata con l'amico e giornalista Luca Serafini (tratto da altropensiero.net): "Prenderò quelle di Pistorius, così nei corridoi degli studi televisivi ti sorpasserò" e ancora: "Mi ha tolto anche la gamba con cui feci gol al Borussia Mönchengladbach". L'ex giocatore di Bologna, Napoli e Pistoiese iniziò presto a 19 anni ma fu anche costretto ad appendere gli scarpini al chiodo per i troppi problemi alle gambe e si ritirò così a soli 31 anni.

I numeri della carriera. Bellugi ha giocato 12 anni in Serie A: cinque stagioni all'Inter con 140 presenze complessive e un gol al suo attivo, quello in Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach, cinque annate al Bologna con 108 gettoni totali senza reti, più un anno al Napoli e uno alla Pistoiese. Anche con la maglia della nazionale italiana Bellugi ha messo insieme 32 partite senza mai segnare.

A livello di titoli di squadra l'ex difensore toscano ha messo in bacheca un solo scudetto con la maglia dell'Inter: quello del 1970-71 con in panchina Giovanni Invernizzi che prese il posto dopo sole sei giornate di Heriberto Herrera. Una volta appesi gli scarpini al chiodo Bellugi ha intrapreso brevemente la carriera da allenatore alla Pistoiese, per solo un anno come vice, ed è poi diventato opinionista televisivo nelle varie televisioni private lombarde.

Quel terribile dramma di Bellugi "Così il Covid mi ha tolto le gambe". L'ex difensore nerazzurro è stato operato d'urgenza dopo il ricovero ad inizio novembre perchè positivo al Covid-19. Antonio Prisco, Mercoledì 23/12/2020 su Il Giornale. ''Questo Covid insieme a un'anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena, o eliminavo loro o eliminavo me...'' Mauro Bellugi, ex difensore dell'Inter e oggi noto opinionista televisivo, racconta così il suo dramma. In campo è sempre stato sempre un combattente ed oggi si trova a duellare contro le avversità della vita. Cresciuto nelle giovanili dell'Inter con cui conquistò uno scudetto nell'annata 1970-71, Mauro Bellugi è stato un vero stopper, uno dei marcatori più arcigni del panorama calcistico italiano. Resta storico il suo unico gol in carrera segnato di destro, negli ottavi di Coppa dei Campioni contro il Borussia Moenchengladbach il 3 novembre 1971, nella partita vinta dall'Inter per 4-2, giocata due settimane dopo la famosa gara della lattina in Germania e annullata per la Coca-Cola lanciata dalle tribune sulla testa di Boninsegna. Intorno alla seconda metà di novembre all'ex difensore nerazzurro, oggi presenza fissa come opinionista sul canale 7Gold, sono state amputate le gambe, dopo che qualche settimana prima era stato ricoverato a causa del Covid-19. Durante la degenza in ospedale, le sue condizioni di salute sono peggiorate per altre patologie e questo ha spinto i medici a operarlo di urgenza. Ha raccontato tutto in una videochiamata con il giornalista Luca Serafini, poi trascritta sul sito altropeniero.net, e subito dopo sono stati tantissimi i messaggi arrivati sui social (l'hashtag #bellugi è finito nelle tendenze Twitter). ''Non sto proprio bene, diciamo. È stata una cosa micidiale. Questo Covid insieme a un'anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena. O eliminavo loro o eliminavo me. Però, ho moglie e una figlia. E allora ho eliminato loro. Sinceramente se fossi stato da solo, ci avrei pensato un po'...'' ha spiegato l'ex calciatore alternando momenti ironici a quelli di sconforto. Continuando così il suo racconto: ''Il dolore è immenso, solo chi ha provato questa cosa può dirlo, commentarlo. È un dolore continuo, sempre. Sei sempre sotto morfina, è davvero durissima. Ci sono momenti nei quali non ce la fai. Le ferite ora vanno bene. Sto aspettando la riabilitazione. Sto facendo un po' di ginnastica con un fisioterapista. Vado avanti. Non posso fare altro. I momenti di sconforto ci sono, anche di pianto. Mi dispiace per la gamba destra. Ci tenevo più della sinistra''. La gamba destra quella del gol in Coppa Campioni, un ricordo ancora indelebile: ''Sì, ho segnato la mia unica rete, nel 1971 contro il Borussia Moenchengladbach''. Nonostante tutto non ha alcuna voglia di mollare: ''Prenderò delle protesi, voglio battere il record di Pistorius. Certo, ci vuole coraggio ad andare avanti. Però, con le protesi con quei pochi passi potrò fare qualcosa, andare al ristorante, passeggiare. Mica devo fare altre rovesciate. Ho dovuto smettere a calcio per problemi alle gambe, giocandomi il Mondiale di Spagna 1982. Adesso è accaduta questa cosa. Nella vita sono cose che possono capitare''. Di sicuro sarà ancora lì, pronto a difendere come sempre i colori nerazzurri.

Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 25 dicembre 2020. «Sono al Niguarda, chiuso nella mia camera, con il cielo in una stanza. La bufera è passata, i giorni allucinanti della diagnosi e delle operazioni di amputazione sono alle spalle». Mauro Bellugi, iconico difensore dell' Inter degli anni Settanta, trascorre le giornate fra le medicazioni e le rare visite consentite della moglie Lory. L' ondata di affetto e commozione che ha accompagnato la notizia del peggior effetto collaterale che il Covid potesse infliggere a un giocatore, lo ha colpito. «In questo anno maledetto se ne sono già andati Corso, Maradona, Paolo Rossi. Non volevo essere io l' ultimo famoso della serie». Non ha perso il senso della battuta, lui toscano un po' guascone, abituato a sguazzare nei salotti tv del post-partita, nonostante la sorte lo abbia preso di mira. «Vede, io soffro da sempre di una forma di anemia mediterranea, come mia mamma e pure mia figlia. Di per sé non mi aveva causato grossi disturbi in precedenza ma poi con il coronavirus son diventati compagni di merende. Si sono detti "spacchiamo il mondo" e hanno spaccato me». Il giorno da segnare sul calendario è il 4 novembre. «Soffriva di male alle gambe, dolore non infrequente a causa della sua attività sportiva» racconta la moglie Loredana. «Negli ultimi giorni però le fitte erano aumentate e lui che pur ha una capacità di sopportazione notevole si lamentava molto. Lo portai al Monzino». Il racconto prosegue nelle parole dell' ex interista. «Scoprii gli arti, le gambe erano nere fino all' inguine». Per giunta, il tampone fatto in ospedale era positivo. «Un medico mi chiamò quella sera per informarmi che era stata compromessa la circolazione periferica delle gambe» aggiunge Lory Bellugi. «Si erano verificate piccole ischemie ai vasi capillari. Rimasi muta. Lui mi gelò: "Non c' è molto da fare"». Una frase che suona già come una sentenza. Mauro vorrebbe prendere tempo, buttare la palla in tribuna come faceva in campo. «Mi dissero "Vuoi vivere o vuoi morire?", perché se non fossero intervenuti subito la cancrena sarebbe salita ancora. Dovetti decidere subito, non le dico la mia faccia quando il chirurgo Piero Rimoldi mi disse che avrebbe dovuto amputare anche la gamba con cui avevo segnato al Borussia Mönchengladbach». Dalla diagnosi alla sala operatoria il passo è breve. «Ho assistito da sveglio a quando mi hanno tagliato a fette i polpacci» rivela con il tono di chi ha visto cose che noi umani. Poi però non ha perso il consueto spirito. «Dopo il primo intervento alla gamba destra ho ricevuto una chiamata da un numero che non conoscevo. Rispondo ed era lui. Si era fatto prestare il telefono dal vicino di letto» svela Lory, quasi benedicendo il modo scanzonato di affrontare la vita del marito. Eppure i momenti di scoramento non sono mancati. «Ero ricoverato nel reparto Covid perché nel frattempo ero affetto anche da una polmonite. Avevo fatto amicizia con un ragazzo di 25 anni, Edoardo. Videochiamava i genitori per tirarli su di morale. Un giorno mi ha salutato mentre lo portavano via, è mancato - confessa fra le lacrime Bellugi -. Morivano come mosche». Per fortuna attorno a lui si è stretta la grande famiglia nerazzurra. «Massimo Moratti è il numero uno, era più disperato di me. La Bedy, sempre a casa mia, la numero due. E poi Beppe Marotta: mi ha detto che un posto per me in società ci sarà sempre. "Tu sei stato la storia"». E ora Bellugi guarda al futuro. «Andrò a Budrio per sostenere la riabilitazione, mi sono già informato sulle protesi. Del resto, non pretendo molto per la vita che mi resta: poter andare al bar a giocare a scopa con gli amici e al ristorante con la Lory. Con le rovesciate ho chiuso».

Francesco Persili per Dagospia il 26 dicembre 2020. “Mi hanno riempito di morfina, avevo già chiamato San Patrignano…”. Mauro Bellugi non perde il gusto della battuta e racconta a “Campioni del mondo” su "Radio 2" i giorni terribili del covid e l’operazione di amputazione alle gambe. L’ex calciatore di Inter, Bologna, Napoli, Pistoiese e della Nazionale si è informato sulle protesi per tornare a camminare. “La forza di reagire verrebbe a chiunque, soprattutto a chi ha fatto sport. Quando sei in svantaggio, non vuoi perdere”. La sua fonte di ispirazione resta Alex Zanardi. "Lui è un extraterrestre rispetto a me, un supereroe, rispetto a me è Batman”. Il leone di Wembley si commuove parlando di Paolo Rossi (“La sua scomparsa non mi è andata giù”) e di un ragazzo di 30 anni vicino di letto all’ospedale. “L’ho sentito parlare al telefono con i genitori e poi è morto. State attenti…”. ”I negazionisti? Ma come cazzo si fa? Se vedeste la situazione negli ospedali, mettereste almeno due mascherine. Io sono stato in casa da febbraio a ottobre. Sono uscito una sera e ho beccato il virus. Basta un attimo, poi è una tragedia. Heather Parisi ha detto che non si vaccinerà? Sbaglia, ma ognuno fa ciò che vuole…”. Ciccio Graziani rammenta “le meravigliose battaglie” contro l’ex difensore dell’Inter: “Giocarci contro era tosta, sentivi caldo addosso”. E Bellugi: “Graziani era un cliente scomodo. Mi faceva correre troppo. Una volta a Roma un tifoso mi ha urlato: “Sei una roccia”. E un altro ha aggiunto: ‘infatti non te movi mai”. Domenico Marocchino, invece, ricorda le mitologiche vacanze in Sardegna, a Stintino. “Era marcato molto stretto dalla moglie di allora…”. “Impossibile smarcarsi”, aggiunge Bellugi che racconta di quella serata in cui provò a salire sul palco per cantare “Roberta”. “Mi è arrivato un zoccolo in faccia da mia moglie…”. E pensare che Romeo Benetti provò a far saltare il matrimonio. “Mi ha rotto un piede prima delle nozze – ricorda Bellugi - Mi ha mandato con le stampelle e il gesso all’altare”. Una volta naufragato il  matrimonio mi disse: “Hai visto? Ti volevo salvare…”

·        E' morto lo scultore Arturo Di Modica.

E' morto Arturo Di Modica, lo scultore siciliano del Toro di Wall Street. Lucio Luca su La Repubblica il 19 febbraio 2021. L'ultima intervista a Repubblica qualche giorno fa: "Voglio regalare una grande opera a Vittoria, la mia città". Da anni combatteva contro un tumore. Arturo Di Modica, lo scultore di Vittoria - in provincia di Ragusa - famoso in tutto il mondo per il Toro di Wall Street, è morto questa notte nella sua abitazione. Aveva compiuto da poco 80 anni. Di Modica da molti anni combatteva contro un tumore ma nelle ultime settimane le sue condizioni erano peggiorate. Malgrado questo aveva continuato a lavorare al suo grande sogno: una coppia di cavalli in bronzo da 40 metri da piazzare sul fiume Ippari, proprio nella sua città. Era riuscito a portare a termine il "prototipo" da 8 metri, il male che lo tormentava da molti anni non gli ha dato scampo. Ma sicuramente l'opera che lo ha fatto entrare nella storia rimane proprio il "Charging bull", il toro che ringhia, divenuto uno dei monumenti più amati e visitati di New York. Probabilmente anche per la storia epica che accompagna la realizzazione e poi la stessa installazione - abusiva - del toro in bronzo davanti alla Borsa di Wall Street nella notte del 16 dicembre del 1989. Lui, Arturo, la raccontava così solo qualche giorno fa sulle pagine di Repubblica Palermo: «Era un periodo di crisi – racconta Di Modica – la Borsa di New York aveva perso in una notte più del venti per cento e tanta gente era piombata nella depressione più nera. Con qualche amico cominciai a chiedermi cosa potevo fare io per la “mia” città. Sì, certo, sono di Vittoria, ma se vivi più di 40 anni a New York non puoi non sentirla anche tua. E allora mi venne in mente di scolpire un toro, l’immagine della Borsa che cresce: doveva essere uno scherzo, una provocazione. E invece è diventata una cosa maledettamente seria. Mi hanno detto che, dopo la Statua della Libertà, il Charging Bull di Bowling Green, a due passi dal tempio della finanza mondiale, è il monumento più visitato a New York. Ha superato persino l’Empire State Building». Ma è il modo con il quale Arturo riuscì a piazzare l’enorme statua in bronzo da tre tonnellate e mezzo, ovviamente abusiva, costata all’artista 350 mila dollari, a trasformare la storia in leggenda: «Cinque minuti. L’operazione non doveva durare di più. Altrimenti avremmo rischiato grosso. Dopo un paio di sopralluoghi avevo scoperto che di notte la ronda della polizia passava davanti a Wall Street ogni 7-8 minuti. Dunque, per scaricare la “bestia” senza farci arrestare dovevamo impiegarci di meno. Altrimenti, addio blitz». Quella notte si mossero in quaranta, con un camion e una gru. Di Modica e la sua “banda” videro i due agenti che oltrepassavano la Stock Exchange, storica sede della Borsa più famosa del mondo. Si avvicinarono e restarono senza parole: «La sera prima era tutto libero e adesso, invece, avevano installato un enorme albero di Natale. Dove l’avrei piazzato il mio toro all’attacco?». Arturo non si perse d’animo. Posteggiò il tir, scaricò con gli amici l’opera sotto l’albero ed ebbe persino il tempo di stappare una bottiglia di champagne per brindare al blitz. Un’operazione da film che Arturo aveva preannunciato ad alcuni cronisti con una serie di volantini lasciati nella buca delle lettere dei principali quotidiani newyorchesi. Il direttore della Borsa non la prese affatto bene. Fece rimuovere la scultura in bronzo, ma Arturo pagò una multa da 500 dollari per riprendersela e la notte successiva la piazzò a Bowling Green, dove si trova ormai da 32 anni. Di Modica diventa una celebrità. La gente di New York si affeziona al toro, scende in strada contro le ordinanze di sgombero delle autorità, raccoglie le firme per “salvare” la scultura. Che, tra l’altro, si dice porti fortuna. Quella del “Charging Bull” fu l’azione più conosciuta dello scultore ragusano, ma già in precedenza Arturo si era fatto conoscere come provocatore dell’arte. Nel 1977, per esempio, decise di lasciare per strada tutte le sue sculture, 60 tonnellate di marmo: «Noleggiai tre camion e una gru. Quindi partii da Soho in direzione del Rockfeller Center». Le guardie non la presero bene, Di Modica finì dritto davanti alla polizia e qualche ora dopo venne addirittura convocato dal sindaco di New York Abraham D. Beame. Era notte fonda, e invece di infuriarsi il “major” disse al capo della polizia: «Voglio proprio vedere in faccia questo brass balls, palle di ottone, che mi ha fatto svegliare nel cuore della notte». Inutile dire che il giorno dopo New York era in prima pagina sui giornali di mezzo mondo a causa di quell’artista che aveva scaricato 60 tonnellate di sculture davanti al Rockfeller Center. Di Modica diventa uno degli scultori più apprezzati del momento. Nel maggio 2010 installa a Shanghai il Bund Bull, una scultura delle stesse dimensioni del Charging Bull ma che raffigura un toro più giovane. Un modo per celebrare il dinamismo dell’economia cinese. Poi, negli ultimi anni, torna definitivamente a Vittoria per quei "Cavalli dell’Ippari" che, forse, porteranno a termine i suoi "discepoli", gli allievi che per anni sono stati al suo fianco in laboratorio. Era una promessa che gli avevano fatto e che i tre candidati a sindaco alle prossime amministrative avevano sposato a pieno. L'ultima impresa di Arturo: mettere d'accordo la politica sul suo progetto. Che non ha fatto in tempo a vedere. La notizia della morte di Arturo Di Modica è stata diffusa da alcuni suoi concittadini. "E' un caro amico che se ne va - commenta il pedagogista Giuseppe Raffa - da oltre un anno era a Vittoria, non era più andato in America, un po' per le sue condizioni di salute, un po' per le restrizioni del covid. E la malattia che lo affaticava. Era sempre pieno di progetti e idee. Amava profondamente Vittoria, ci teneva ai ragazzi, mi spronava a fare iniziative per loro. Sì, aveva Vittoria nel cuore". Di progetti e di amicizia parla anche Bruno Giordano, magistrato di Cassazione. "Facevamo lunghe chiacchierata su moltissimi argomenti, progetti, sono veramente addolorato". Il suo pensiero lo affida anche ad un post su Facebook: "Non sarebbe giusto, non basterebbe, non sarebbe vero dire che Arturo è stato un grande artista, uno scultore. Egli è stato molto di più: estroso, coraggioso, ambizioso, generoso, provocatore - scrive Giordano - Ha visto il mondo come altri non l'hanno visto e ha dato al mondo molto di più di quello che ha avuto e visto. Un visionario della bellezza. Voleva donare a Vittoria la grandezza che merita. Un'opera incompleta, come capita ai grandi. Che la sua terra gli sia grata".

Carlo Ottaviano per "Il Messaggero" il 21 febbraio 2021. Nonostante una vita intera trascorsa lontano dalla Sicilia (prima a Firenze, studente all'Accademia di Belle Arti, e poi 45 anni a New York) non aveva mai perso il vezzo della pronuncia dolce del ch come d'uso a Ragusa, l'ultima provincia d'Italia, più a Sud di Tunisi. Così, a testimonianza del legame d'origine, al telefono declamava scherzando «a ciave appisa ou ciuovu» (la chiave appesa al chiodo). Lui, la chiave per conquistare la capitale del capitalismo, l'aveva trovata nella determinazione. «Nessuno diceva qui ti regala niente, ma ti permette tutto. Basta avere coraggio e credere in se stessi, senza aspettare che la fortuna ti caschi dal cielo».

IL COMPLIMENTO. Lo scultore Arturo Di Modica 80 anni appena computi - è morto nella tarda serata di venerdì nella sua Vittoria, dove era tornato definitivamente da un anno, ormai debilitato da un tumore. Il grande Henry Moore, col quale aveva condiviso per qualche mese un laboratorio, aveva detto che era pari a un «piccolo Michelangelo». Eppure il suo nome non era conosciutissimo, nonostante una sua scultura sia una icona di New York, accanto all'Empire State Building e alla Statua della Libertà. Si tratta dell'imponente (3,2 tonnellate di bronzo) Toro di Wall Street, il Charging Bull di Bowling Green. Affascinante la storia che più volte Di Modica ha raccontato (anche a chi scrive): «È stato il mio omaggio alla città che mi aveva accolto. Il mio inno all'ottimismo dopo il crollo del Dow Jones del 1987». Per questo nel 2017 aveva polemizzato pesantemente con Kristen Visbal, autrice della scultura (poi fatta togliere) Ragazza senza paura che puntava l'indice accusatore sul toro. «La mia statua spiegò Di Modica rappresenta la voglia di riscatto nei momenti di difficoltà, non la forza bruta». C'erano voluti due anni per realizzarla e «anche 350 mila dollari di tasca mia».

LA PREPARAZIONE. Da film i giorni prima dell'istallazione, perché clandestina. Di Modica dovette compiere diversi sopralluoghi per scegliere il momento giusto per evitare agenti e sicurezza. Il colpo lampo (appena 4 minuti per scaricare da un grosso camion il toro di dimensione reale e piazzarlo a due passi dall'ingresso dello Stock Exchange) fu portato a termine la notte tra il 14 e il 15 dicembre del 1989. «Ma quello non è stato il mio unico attacco», si vantava, tanto da aver ricevuto il significativo omaggio del più noto degli street artist, Basquiat, che aveva ralizzato un graffito dinanzi il portone di Di Modica. Qualche anno prima, vittima di un clamoroso blitz era stato il New York Times perché Hilton Kramer, il titolare della pagina di critica d'arte, aveva sdegnosamente rifiutato un invito dell'artista. Nottetempo anche in quel caso, lo scultore siciliano piazzò otto grandi sculture all'ingresso del Rockfeller Center, sede del giornale, proprio dove ogni anno viene piazzato il grande albero di Natale. Conquistò la prima pagina del giornale e vendette in tre giorni tutte le opere, a frontedi una multa di pochi dollari. Un occhio di favore, in effetti, gli fu dato dal sindaco di allora, Abraham Beame. «Ero arrivato raccontava lo scultore pochi mesi fa ad Artribune con tre camion e una gru. Nel giro di pochi minuti piombarono sette pattuglie e non so quanti poliziotti. Chiamarono il sindaco, che scese dal letto e disse: «Voglio proprio vedere in faccia questo brass balls (palle di ottone) che mi ha fatto svegliare nel cuore della notte». Col sindaco Di Modica si lamentò per il ruolo marginale dell'arte nella società americana. «Fate 20 dollari di multa a questo ragazzo e andatevene a dormire», sentenziò convinto Beame.

L'ATELIER. L'episodio è del '75, quando lo scultore era da poco arrivato a New York e si manteneva vendendo i suoi lavori ai ricchi clienti del ristorante Cipriani di Manhattan. Non aveva ancora neanche costruito la sua casa-atelier di Crosby Street a Soho. Un altro colpaccio. «Spesi 45 mila dollari per il terreno raccontava - e ne ho guadagnato, rivendendola, 4 milioni. L'ho costruita con le mie mani e col solo aiuto di due messicani». Il senso degli affari, del resto non gli è mai mancato: del Charging Bull di Wall Street ne aveva fatto altre cinque copie assolutamente identiche. «Le ho vendute tutte a un collezionista col vincolo di ripagarmi anche del primo toro e di donarlo alla città di New York». Gli altri pascolano adesso in una tenuta in Florida. Altri imponenti tori ma diversi sono in piazze di Amsterdam, Seoul e Shanghai. «Sono contrario ai musei, l'arte deve essere fruibile, restare all'aperto», ha sempre sostenuto Di Modica.

·        E’ morto Gianni Corsolini, uno dei padri fondatori del basket in Italia.

Il mondo del basket piange la scomparsa di Gianni Corsolini. Si è spento all'età di 87 anni Gianni Corsolini, uno dei padri fondatori del basket in Italia. Fu un grande innovatore per il mondo della pallacanestro. Marco Gentile Venerdì 19/02/2021 su Il Giornale. Il mondo del basket piange la morte di Gianni Corsolini, uno dei padri fondatori di questo sport in Italia. L'ex allenatore e dirigente bolognese si è spento all'età di 87 anni lasciando un vuoto enorme nelle vite di chi lo ha conosciuto ma soprattutto nel mondo della pallacanestro. Corsolini fu allenatore delle squadre giovanili della Virtus Bologna e dal 1958 in poi, trasferitosi a Cantù, fece le fortune della società canturina. Gianni lascia la moglie Mara e i figli Luca, Claudia e Chiara. Il basket a Bologna è sempre stato una delle componenti fondamentali della società ma tra la fine degli anni '40 e i primi anni '50 non aveva ancora l'etichetta di città dedicata al basket. A Bologna si parla ovunque di questo sport, si respira basket anche in via San Felice dove ha sede la cartoleria di Franco Bonetti e dove si crearono i presupposti per la creazione della Lega Basket di cui ne fu presidente per due anni. Corsolini è considerato uno dei padri fondatori della pallacanestro italiana e dopo aver allenato la Virtus e Cantù divenne dirigente a partire dal 1965 in poi, sempre a Cantù, prima di accasarsi per un breve periodo a Udine. L'ex dirigente della Lega Basket dal 1977 al 1979 aveva anche inventato la rubrica i "Giganti del basket". La grande capacità del compianto Corsolini era quella di restare sempre al passo con i tempi, con le nuove generazioi senza mai invecchiare e di guardare avanti sempre con grande positività e passione. Dirigente ma anche grande scopritore di talenti del calibro di Boris Stankovic (futuro presidente della Fiba) e capace di conquistare uno scudetto con la società brianzola nel 1968. Non solo allenatore e dirigente della Federazione dato che fu anche numero uno dell’Usapp, il sindacato degli allenatori di pallacanestro dal 1998 al 2005 e nel 2009 fece il suo meritato ingresso nell’Italia Hall of Fame. Cantù ha dedicato un bellissimo tweet a Corsolini ricordandolo con affetto per quanto fatto per la società e per il basket: “È con grande dolore che Pallacanestro Cantù apprende la triste notizia della scomparsa di Gianni Corsolini, autentica leggenda del club canturino e del basket italiano, di cui era diventato un simbolo già prima del suo ingresso, nel 2009, nell’Italia Basket Hall of Fame". Tra i tanti messaggi di cordoglio anche quello di Meo Sacchetti, ct della nazionale italiana di basket: "È mancato Gianni Corsolini. Uomo intelligentissimo, arguto, un gentleman d’altri tempi con una raffinata mente di basket e di vita. Ciao Gianni mi mancherai". Anche il presidente della Federbasket Gianni Petrucci ha voluto ricordare la memoria di Corsolini: "Senza Gianni i canestri si scoprono più soli".

·        E’ morto l'attore e doppiatore Claudio Sorrentino.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 17 febbraio 2021. E' morto, stroncato dal Covid, l'attore e doppiatore Claudio Sorrentino. A darne notizia, tra gli altri, il Museo del Cinema di Catania. Nato a Roma il 18 luglio del 1945, Sorrentino era noto soprattutto come doppiatore: fu la voce italiana di Mel Gibson e John Travolta, ma anche di Ron Howard, il Richie Cunningham di Happy Days, e, negli anni Settanta, di Topolino. Sorrentino aveva iniziato fin da bambino a dare la sua voce a personaggi partecipando nel 1956 al doppiaggio del film "L'ulitma carovana". Negli anni aveva poi associato la sua voce a personaggi che sono entrati nell'immaginario collettivo come Ron Howard ovvero il Richie Cunningham di "Happy Days". O ancora Bruce Willis in "Die Hard - Duri a morire", "Die Hard - Vivere o morire" e "Die Hard - Un buon giorno per morire", a Sylvester Stallone in "Cop Land", a Willem Dafoe in "L'ultima tentazione di Cristo", e anche a Ryan O'Neal in "Love Story". Tra gli altri attori, ha doppiato anche Jeff Bridges, Mickey Rourke, Geoffrey Rush, Gerard Depardieu, Daniel Day-Lewis e Russell Crowe. Con gli anni Sorrentino era diventato anche uno dei più stimati direttori di doppiaggio. È inoltre stato la voce ufficiale di Topolino negli anni settanta. Negli anni Ottanta è stato nella squadra dei conduttori del programma di Rai2 Tandem, anche con Fabrizio Frizzi. Tra il 1995 e il 2000 è stato autore e conduttore della trasmissione radiofonica "I suoni del cinema", legata al mondo del doppiaggio cinematografico e trasmessa da RDS prima e poi da Radio 101. Tanti i premi tra cinema, teatro e tv, ma grande anche il suo impegno sociale che lo ha visto tra i fondatori del Segretariato sociale della Rai. I funerali si svolgeranno, quando possibile, in forma strettamente privata. 

·        E’ morto l’attore Reginald Bernie Lewis.

Marco Giusti per Dagospia il 16 febbraio 2021. Stavolta gliel'ho tirata. Avevo appena segnalato nella mia rubrica che stanotte passava(Cine34 alle 3) "Maciste contro i mostri" di Guido Malatesta con Reg Lewis protagonista, nell'unico Maciste che abbia mai fatto, neanche pagato dalla produzione, che scopro che è morto proprio lui. Reginald Bernie Lewis, detto Reg Lewis, a 86 anni. L'unico Maciste biondo col ciuffo che la storia del genere ricordi. Peccato. Era nato a Nives, Ohio. A 17 anni era già battezzato come Junior Mr. Olympic per il suo fisico ultrapalestrato. Mae West lo trovo' proprio fuori da una palestra e lo scelse fra i suoi dotatissimi boys assieme a forzuti del calibro di Mickey Hargitay, Gordon Mitchell, Dan Vadis. Tutto quello che dovevano fare i suoi boys era accompagnare la diva in giro per spettacoli e night come accompagnatori e gonfiare i muscoli. Lei pallavolo il muscolo. Loro la adoravano. Ma negli anni rimasero tutti molto legati a Mae West, da Gordon Mitchell, sempre riconoscente, a Reg Lewis, che interpretò con lei il suo ultimo film, "Sextette". Negli anni'50 vinse tutti i grandi titoli del tempo. Reg fu Mr. Olympics nel 56, Mr. Universe nel 57, Mr. America nel 63 e Mr  America Over Forty nell'83. Nel 1962 viene chiamato a Roma per "Maciste contro mostri" di Guido Malatesta, che non era certo un capolavoro. Ma il suo ciuffo biondo lasciò il segno fra gli spettatori. Non fece altri peplum, probabilmente scottato dall'esperienza, ma fece altri film, come "The Brass Bottle" con Burl Ives e Barbara Eden nel 1964 e, soprattutto, la commedia girata a Los Angeles "Piano, piano non t'agitare" di Alexander Mackendrick con Tony Curtis, Claudia Cardinale e Sharon Tate. Il suo ruolo è sempre quello, il palestrato. Chiuse col cinema nel 1977 con "Sextette" commedia supercamp diretta da Ken Hughes con la sua adorata Mae West, Tony Curtis e vari maschi.

·        E’ morto Johnny Pacheco, il musicista.

 (ANSA-AFP il 16 febbraio 2021) Johnny Pacheco, il musicista di origine dominicana considerato uno dei padri della salsa, è morto all'età di 85 anni nel New Jersey. Lo ha fatto sapere la sua famiglia. Musicista, compositore e produttore, Pacheco ha fondato l'etichetta Fania Records e la storica band Fania All Stars, di cui hanno fatto parte icone della salsa come Celia Cruz, Hector Lavoe e Willie Colon. "Con grande dolore nell'anima e un vuoto nel cuore informo che il maestro Johnny Pacheco è morto questo pomeriggio in grande pace", ha detto la moglie, Cuqui Pacheco, in un comunicato pubblicato sulla pagina Facebook ufficiale del musicista. Pacheco era stato ricoverato d'urgenza pochi giorni fa per una polmonite. Nato Juan Azarias Pacheco a Santiago de los Caballeros, nel nord della Repubblica Dominicana, il 25 marzo 1935, emigrò a New York da bambino con la sua famiglia. Ha studiato alla Juilliard Arts School e ha iniziato la sua carriera musicale negli anni '50. È diventato famoso con la sua band Pacheco y Su Charanga. Ha fondato Fania Records nel 1964 con l'avvocato Gerald Masucci. Ha registrato o composto più di 100 canzoni durante la sua carriera, tra cui "El Faisan" e "Quitate tu". "DEP (Riposa in pace) mio caro amico e insegnante", ha twittato Colon dopo l'annuncio della morte di Pacheco, definendo "unico" il suo ex compagno di band.

Aveva 85 anni. È morto Johnny Pacheco, padre e icona della salsa. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Si è spento a 85 anni, Johnny Pacheco, idolo della salsa, icona mondiale della musica. Era stato ricoverato a New York per una polmonite, come ha raccontato sull’account Facebook dell’artista la moglie, Maria Elena “Cuqui” Pacheco. “Con grande dolore nell’anima e un vuoto nel cuore informo che il maestro Johnny Pacheco è morto questo pomeriggio in grande pace”, ha fatto sapere la donna. Il nome  di Pacheco è per sempre legato alla salsa – un genere che è una mescolanza di mambo cubano, guaracha, chachachà, ritmi portoricani e meringa dominicana – e alla Fania Records, che implementò e influenzò il genere portandolo a un altro livello di notorietà. Juan Azarias Pacheco era nato il 25 marzo del 1935 a Santiago de los Caballeros, nella Repubblica Dominicana, da una famiglia di musicisti. Era emigrato a New York con la famiglia negli anni ’40. Proprio lì cominciò e imparò a suonare da autodidatta la fisarmonica, il violino, il sassofono e il clarinetto. Ha studiato infine percussioni alla Juilliard. Con Palmieri al piano e Barry Rogers ha fondato i Chuchulecos Boys. Sarebbero tutti diventati famosi nella scena della salsa, come Al Santiago, Mike Collazo e Ray Santos. La notorietà con la band Pacheco y Su Charanga. La svolta nel 1963, quando con l’avvocato Jerry Masucci ha fondato la Fania Record, della quale sarebbe stato direttore musicale, compositore, arrangiatore e produttore, sovrintendendo al genere di musica dell’etichetta che divenne noto come salsa. Ha fondato anche al Fania All Stars nella quale hanno militato anche stelle come Celia cruz, Hector Lavoe e Willie Colon. Nella sua lunghissima carriera ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, come il Latin Recording Academy Music Excellence Award nel 2005 ed è stato nominato per diversi Grammy e Latin Grammy. Ha lasciato la moglie e quattro figli. E oltre 100 canzoni registrare durante la sua carriera, tra cui El faisan e Quitate tu.

·        Morto l'ex presidente dell'Argentina Carlos Menem.

Morto l'ex presidente dell'Argentina Carlos Menem. All'età di 90 anni è morto Carlos Memen, senatore peronista ed ex presidente dell'Argentina dal 1989 al 1999. Orlando Sacchelli, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale.  Si è spento a novanta anni l'ex presidente dell'Argentina Carlos Menem. È morto in una clinica di Buenos Aires, dove a dicembre era stato ricoverato per un'infezione. Nei mesi precedenti aveva subito era stato ricoverato più volte per una polmonite. Tre giorni di lutto nazionale sono stati proclamati nel paese sudamericano dal presidente Alberto Fernandez: "Con profonda tristezza ho appreso della morte di Carlos Saul Menem - ha detto il capo dello Stato -. Sempre eletto in democrazia, è stato governatore di La Rioja, presidente della nazione e senatore nazionale. Nella dittatura è stato perseguitato e imprigionato. Tutto il mio affetto va a Zulema, Zulemita e tutti coloro che lo piangono oggi". Nato nel 1930 ad Anillaco nella provincia de La Rioja, una delle più povere del Paese, da genitori di origini siriane, si convertì al cristianesimo in gioventù. Nel 1956 si iscrisse al movimento peronista, si laureò in giurisprudenza e diventò avvocato. Nel 1973 fu eletto governatore di La Rioja. Si impegnò assistendo i parenti dei desaparecidos della dittatura militare (1976-83). Proprio per questo motivo per cinque anni fu imprigionato. Caduta la giunta militare nel 1983 fu riconfermato governatore della provincia. Fu eletto alla Casa Rosada per due volte, nel 1989 e nel 1995. Conquistata la vittoria con un programma sostanzialmente populista, una volta al potere si spostò su posizioni ultra liberiste dando vita a un programma di privatizzazioni molto spinto, forti tagli alla spesa pubblica e, soprattutto, l'ancoraggio della moneta locale (il peso) al dollaro statunitense con parità 1 a 1. Si presentò per un terzo mandato (anche se la Costituzione poneva un limite a due) e risultò il più votato al primo turno, ma preferì fare un passo indietro lasciando la candidatura al ballottaggio al collega di partito Nestor Kirchner, che poi verrà eletto. Menem dovette affrontare alcuni problemi con la giustizia. Dapprima nel 1995, quando fu indagato per una presunta vendita illegale di armi all'estero: vicenda archiviata, poi riaperta nel 2003 dopo la sconfitta elettorale. Raggiunto da due mandati di cattura internazionali in Cile, tornò nel suo paese dopo aver ottenuto garanzie di non essere arrestato. Nel 2013 venne condannato a sette anni di carcere per aver favorito il contrabbando di armi verso Cile e Croazia durante la sua presidenza. Nel 2018 la Camera federale di appello penale emise una sentenza di assoluzione, nei suoi confronti, per mancato rispetto del principio del "tempo ragionevole". Nel frattempo Menem era stato eletto e riconfermato senatore per la provincia di La Rioja per il Fronte Giustizialista Riojano. Durante la sua presidenza, nel 1998, ci fu la riconciliazione con la Gran Bretagna (che pose fine al dissidio per la guerra delle Falkland/Malvinas, sancita ufficialmente dalla visita del principe Carlo. Concesse inoltre la grazia ai generali del regime. Il suo secondo mandato fu segnato da una profonda recessione, dall'aumento del debito estero e da vari scandali di corruzione, che indebolirono fortemente sia Menem che il Partito giustizialista.

Sara Gandolfi per corriere.it il 15 febbraio 2021. Eccentrico, imprevedibile, carismatico. Carlos Menem, ex presidente peronista dell’Argentina dal 1989 al 1999, è morto domenica a 90 anni. Era ricoverato all’ospedale Los Arcos di Buenos Aires dal 15 dicembre scorso per una grave infezione e da Natale era in coma. L’attuale presidente Alberto Fernández ha decretato tre giorni di lutto nazionale. Figlio di immigrati siriani, eletto il 14 maggio 1989, Menem fece dimenticare gli anni bui della dittatura militare, con il suo tragico bilancio di morte, la sconfitta delle Falkland e il disastro economico che ne seguì. Vinse la recessione, imbrigliò l’iperinflazione e venne rieletto nel 1995 con il 49,94 per cento delle preferenze diventando il leader che più a lungo ha governato l’Argentina. Amante della bella vita, delle donne giovani e delle auto veloci, Menem amava farsi fotografare con i Vip: giocò a calcio con Maradona, a tennis con la campionessa Gabriela Sabatina, posò impettito al fianco di Claudia Schiffer e dei Rolling Stones. Oltre che per le eccentricità, la sua presidenza resta nella storia del Paese per la svolta neo-liberista, con la privatizzazione delle imprese pubbliche che portò inizialmente stabilità economica ma al costo di una forte disoccupazione profonda spaccatura sociale. Menem restò in sella anche grazie ai suoi stretti legami con gli Stati Uniti di George Bush senior e poi di Bill Clinton. Verso la fine del secondo mandato, il tramonto del boom economico «menemista», macchiato da corruzione e scandali finanziari, fu foriero della recessione che terminò con la grave crisi del 2001. Ma a quel punto, Menem era già uscito dalla Casa Rosada. Pronto ad entrare nelle patrie galere. Accusato di svariati episodi di corruzione, l’ex presidente si trovò impantanato nello scandalo della vendita d’armi a Ecuador e Croazia, fino all’arresto nel 2001. Subito liberato, due anni dopo si presentò alle elezioni del 2003. Dopo il primo turno, tuttavia, si ritirò e lasciò campo libero a Néstor Kirchner, peronista come lui ma dell’ala più progressista. Nel 2013 fu infine condannato a sette anni di carcere per contrabbando d’armi ma grazie all’immunità parlamentare e all’età avanzata evitò la detenzione. Fino all’ultimo, Menem è rimasto nell’arena politica, senatore della provincia della Rioja. Molto turbolenta anche la sua vita sentimentale, degna di una «soap opera» sudamericana. Sposato con la conterranea Zulema Yoma, anche lei discendente da immigrati siriani, visse molte storie extraconiugali, fino al burrascoso divorzio - in cui si insinuò la drammatica morte del figlio, in un incidente con l’elicottero, che secondo la madre fu omicidio e le cui circostanze non sono mai state davvero chiarite. Nel 2001, nel pieno della crisi finanziaria con il crack del debito argentino, legami con gli Stati Uniti di George Bush senior e poi di Bill Clinton. Da notare che Menem, incarcerato per due anni nell’epoca delle giunte militari, ha poi concesso il perdono presidenziale a Galtieri e ai suoi compari militari nell’«interesse di una pacifica transizione verso la democrazia». Una scelta ancora oggi molto criticata in Argentina, quasi più delle sue politiche neo-liberiste che poi sfociarono nella grande crisi.

·        E’ morto Erriquez, il frontman della Bandabardò.

Addio a Erriquez, volto e anima della Bandabardò. Il Quotidiano del Sud il 14 febbraio 2021. È morto questa mattina, nella sua abitazione di Fiesole, Enrico Greppi, in arte Erriquez, volto e anima della Bandabardò. A confermarne la notizia il suo manager Francesco Barbaro, al suo fianco sin dagli esordi. L’artista combatteva con un brutto male da tempo, ma la sua riservatezza e la sua energia non avevano mai permesso di far trasparire nulla all’esterno. “Il più scatenato, roboante e colorato gruppo folk italiano in attività”, si legge aprendo il sito ufficiale della band, ed Erriquez rappresentava questo spirito. Con la Bandabardò aveva da poco festeggiato i 25 anni di carriera con un grande evento al Mandela Forum di Firenze, insieme a tanti artisti amici, e sin dalla sua nascita, nel 1993, il gruppo era sempre rimasto fedele a se stesso e ai suoi ideali, diventando un punto di riferimento della scena musicale degli anni ’90 e non solo, tanto che ancora oggi il coro ‘Se mi rilasso collasso’ continua a essere cantato da diverse generazioni. Molto riservato ma solare, Erriquez si è anche battuto da sempre nel sociale sposando le cause dei più deboli. “Salutiamo con gratitudine un guerriero generoso e un grande Poeta”, le parole commosse della sua famiglia.

Il cantante della Bandabardò scomparso a 60 anni. Addio Erriquez, Mangiafuoco del Primo maggio e bardo tutto ritmo e vitalità. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Erriquez dava di gas, sudava, si dondolava, un gigante piegato sul suo microfono, le mani che sfiammavano sulla chitarra, la voce anche meglio dal vivo. Era la rockstar di un’Italia decentrata che aveva girato in centinaia di concerti, a ogni latitudine, centinaia di città e centinaia di Paesi, e la star meno star di tutto lo spettacolo di arte varia della musica. Si è spento ieri, il cantante della Bandabardò, nella sua Fiesole, a 60 anni, per un tumore. “Ho goduto abbestia”, ha scritto nel suo ultimo messaggio. Un testo emozionante. Si è portato via certi anni e certi aneddoti di chi arrivava a Roma per il Primo Maggio, e di chi il Primo Maggio lo riverberava, in piccolo, tutto l’anno. Ha lasciato canzoni che erano politiche, certo, ma anche allegria e malinconia, in direzione ostinata e contraria, come gli anti-eroi che le popolavano. Si era inventato questa formula, Enrico Greppi in arte Erriquez. Una mescolanza di canzone italiana, folk, gli chansonnier francesi, una sfumatura di rock, la rumba e il walzer, certi pezzi come filastrocche o stornelli. Era cresciuto tra la Toscana, il Belgio, il Lussemburgo. Poliglotta per natura, aveva studiato il violino, suonato il basso, si era iscritto a Relazioni internazionali e quindi fatto e disfatto un paio di gruppi prima di incontrare, nel tour con Andrea Chimenti, Alessandro Finazzo detto Finaz. L’avance: “Convertiti all’acustico”, Finaz accordava e nasceva la Bandabardò: 28 anni di musica, 13 album, 10 in studio, 2 dal vivo. Dove il gruppo dava il meglio ed Enrico pure. Era il suo habitat, il live; il sudore che imperlava la fronte e tutta quella peluria, i capelli lunghi e il pizzetto lungo alla Capitano Nordico che i fan bramavano poco educatamente di toccare a fine spettacolo. Con quella faccia un po’ Ascanio Celestini e un po’ Mangiafuoco era impegnato da sempre, a sinistra, senza mezze misure, ed era burattinaio di quei riti dove si cantava e si pogava in egual foga. E capitava fisso uno avanti, nel pubblico, nella folla sotto il palco, con uno zainetto con almeno 20 bottiglie di vino e cerveza, cerveza para todos; e sapore antico di erba e di pelle e assembramenti dentro palazzetti o campi in terra battuta che ce li sogniamo la notte di questi tempi. Suona retorico dire che non è casuale se ne sia andato proprio mentre tutto questo è vietato, illegale, proibito. Era considerato con la sua band il nume tutelare del Primo Maggio, sempre a Piazza San Giovanni, puntuali, attenziò concentraziò e oggi non lavoro oggi non mi vesto resto nudo e manifesto. L’hanno visto cambiare quel palco, quelli della banda: dagli anni più o meno d’oro del combat-folk (e pure del berlusconismo) con i compagni Modena City Ramblers, e i meno noti Folkabbestia, fino alle promesse dei talent passando per i finti alternativi della musica indie o it-pop. Le mode passavano e loro restavano. L’anno scorso, quando il concertone è stato tutto virtualizzato e tele-trasmesso, per via del covid, la Bandabardò non c’era. E se dell’impegno, di Cohiba di Daniele Silvestri dedicata a Che Guevara adottata per molti anni, di Bella Ciao sempre presente e dei viaggi in Chiapas si è scritto, altrettanto si dovrebbe ricordare una penna ispirata, da bardo l’appunto, un po’ cantastorie e un po’ poeta. I suoi protagonisti erano irregolari, eccessivi, fricchettoni, innamorati timidi o troppo distratti, e donne attorniate o abbandonate, sognate e sognanti, sempre sensuali, Lola e Consuelo. E il sole e la luna mai soltanto sfondo: la Bandabardò è stata ecologista anni prima di Greta, prima che fosse anche alla moda. Le parole di Erriquez arrivavano a tutti, le canzoni fatte per sgolarsi e per sudare. Hanno segnato almeno un paio di generazioni, un arco più o meno largo della gioventù. Quando la Banda arrivava nei paesi era come se fosse arrivato il circo. E i signori della festa patronale a chiedere chi fossero questi fricchettoni, questi barboni, “guarda che capelli, e che barbe”, che suonavano forte, ma bene, che facevano alzare la polvere a mandrie di ragazzi. Un’Italia scapigliata e decentrata, periferica, che impazziva in notti di mezza o piena estate. Enrico Greppi ha lasciato dietro di sé squadre di calcetto improbabili e sgangherate chiamate Mojito Football Club e accordi da sprecare ai falò sulla spiagge. Erriquez era ritmo e vitalità. Ha definito la sua vita “tutta un’avventura”. Lo piangono colleghi e fans. Hanno scritto nei commenti al suo ultimo messaggio che era come un amico, uno zio, un fratellone. Un anti-divo. Forse anche il coraggio di rimanere fricchettoni; o meglio, di restare leggeri e seri come solo a vent’anni si può essere leggeri e seri. Un impegno in poesia, e vento in faccia, più o meno questo è stato: la libertà che ci vuole.

Morto Erriquez, il frontman della Bandabardò. Il cantante, 60 anni, si è spento al termine di una lunga malattia tenuta nascosta. Il cordoglio di amici e fan sui social network. Novella Toloni, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. "Se proprio non mi volete allora me ne vado via! Non vi chiedevo tanto, ne croci, ne altare. Ma nemmeno un mondo in cui non posso respirare". Con questa frase, tratta da uno dei più celebri brani della Bandabardò - "Lo sciopero del sole" - i fan del gruppo hanno detto addio a Erriquez, al secolo Enrico Greppi. Il frontman della band folk toscana è morto a soli 60 anni al termine di una lunga battaglia contro una malattia tenuta nascosta fino ad oggi. Il cantante e chitarrista, che lo scorso 1° settembre aveva compiuto 60 anni, si è spento nella sua casa di Fiesole accanto alle persone a lui più care. A dare conferma ufficiale della notizia, trapelata dalle prime ore del 14 febbraio, è stato il manager Francesco Barbaro, al fianco di Erriquez sin dai suoi esordi nel mondo della musica. "L'artista combatteva con un brutto male da tempo, ma la sua riservatezza e la sua energia non avevano mai permesso di far trasparire nulla all'esterno", si legge nell'addio ufficiale pubblicato dalla Bandabardò sulla pagina Facebook del gruppo. Grande appassionato di musica sin dalla gioventù, Enrico Greppi, alias Erriquez, esordisce nel mondo della musica negli anni '80 con il primo gruppo i Vidia. Nel 1993, però decide di unirsi ad Alessandro Finazzo, Alessandro Nutini e Orla Fallon per dar vita alla Bandabardò, gruppo tipicamente folk rock, che si impone sin da subito sulla scena musicale italiana. Dodici album, una raccolta e centinaia di concerti in giro per l'Italia e l'Europa segnano il trionfo della Bandabardò, che nel 2018 aveva festeggiato i 25 anni di carriera. Per celebrare il quarto di secolo la band toscana aveva organizzato un maxi concerto al Mandela Forum di Firenze insieme a tanti artisti amici. Nonostante la malattia improvvisa Erriquez non ha mai lasciato la leadership del gruppo e lo scorso novembre, insieme alla band, aveva rilasciato una lunga intervista a Controradio in occasione del "Rock Contest". Amici e fan si sono stretti attorno alla Bandabardò e alla famiglia di Greppi. Sulla pagina Facebook de gruppo l'ultimo saluto dei suoi compagni di avventura: "Molto riservato ma solare Erriquez si è battuto da sempre nel sociale, sposando le cause dei più deboli. Salutiamo con gratitudine un guerriero generoso e un grande Poeta". “Ogni storia ha una sua vita e ogni vita ha mille storie. La mia vita è stata musica che accade, incontri di popoli,...

·        E’ morto Marco Dimitri dei “Bambini di Satana”.

Da ilmessaggero.it il 13 dicembre 2021. È morto a Bologna Marco Dimitri, che fu capo della setta dei Bambini di Satana, alla fine degli anni Novanta al centro di una controversa inchiesta giudiziaria. Insieme a Gennaro Luongo e altri quattro satanisti venne accusato di vari fatti, tra cui la violenza sessuale su un bambino e l'aver stuprato una minorenne dopo averla narcotizzata. Accuse da cui sono stati assolti in tutti i gradi di giudizio. Dimitri passò 400 giorni in carcere tra il '96 e il '97 e in seguito ottenne 100mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. È deceduto nella notte, proprio oggi avrebbe compiuto 58 anni.

Valerio Varesi per “la Repubblica” il 14 febbraio 2021. Quella di Marco Dimitri, capo del gruppo dei "Bambini di satana" è una storia di coincidenze sfortunate. Ieri è morto a 58 anni e nella stessa data del '97 iniziò il processo con l'accusa di violenza sessuale su minori e di profanazione di tombe, che ha segnato la sua vita. Ma la coincidenza peggiore che per questo eccentrico personaggio divenuto celebre nel mondo dell'occulto e dell'esoterismo, è l'essersi trovato al centro di tre inchieste che a metà degli anni '90 lo condussero in carcere per 400 giorni. Inchieste che scambiarono una eccentrica brigata di giovani dediti alle droghe, al sesso e alle pratiche sataniche per una banda di stupratori praticanti di messe nere. Un clamoroso errore giudiziario che fruttò un risarcimento di 100 mila euro a Dimitri per la galera patita ingiustamente. La vicenda è molto contorta e ha risvolti talvolta grotteschi, talvolta drammatici. Tutto comincia nel '95 quando una ragazza di 15 anni denuncia di essere stata violentata durante un rito satanico. Parte un'inchiesta affidata all'allora pm bolognese Lucia Musti. Con Dimitri finiscono indagati anche il suo vice Gennaro Luongo, allora 24enne, Giorgio Bonora di 20 e le due "sacerdotesse" Cristina Bagnolini e Manuela Ferrari. Il "Gran sacerdote" nega le accuse, dice di essere stato incastrato, ma nel frattempo saltano fuori altre presunte violenze, questa volta su una ragazza di 14 anni e addirittura su un bimbo di 3. Gli inquirenti scandagliano la vita di Dimitri e dei suoi adepti. Ne esce un quadro da fumetto horror. La sua casa di via Riva Reno, in centro a Bologna, è un teatrino di luci azzurrate e rosse con alle pareti immagini sataniche, cerchi con inscritto il capro di Belzebù, teschi e il numero 666 che, per un'altra coincidenza, era la cifra finale del telefono del "Gran sacerdote". Dimitri si presentava con la chioma corvina a mo' di aureola sul volto pallidissimo e abiti rigorosamente neri, talvolta brandendo uno spadone che apponeva sul ventre delle ragazze e dei ragazzi come rito d'iniziazione. Rituali più folkloristici che di vero satanismo capaci però di abbagliare la procura bolognese fino a trascinarla in una scia di accertamenti e perquisizioni in mezza provincia. Oltre che nella casa sede della "Bds", sigla dell'associazione satanista, vengono passati al setaccio alcuni luoghi del parco di villa Ghigi, dove viene rinvenuto un "pentacolo", un'immagine che richiama il diavolo, del cimitero di Nugareto, sull'appennino nei pressi di Sasso Marconi, e in alcuni villoni nella valle del Reno. Sotto inchiesta finiscono anche i numeri di Kaffeina la fanzine del gruppo. Il risultato è però nullo. Nel frattempo, il 13 febbraio del '97 inizia il processo per un caso che ha ormai risonanza nazionale. Bologna è divisa tra i colpevolisti che stanno con la Procura e gli innocentisti, tra i quali una nutrita pattuglia di studenti di area Dams. L'epilogo giudiziario avviene solo nel 2004 dopo 7 anni, il carcere e un appello all'allora presidente della Repubblica Ciampi in cui Dimitri lamentò quella che definì "una caccia alle streghe". Assolto e risarcito così come il suo vice Luongo che ottenne 50 mila euro. Il "Gran sacerdote" venne tirato in ballo anche da Gaetano Tripodi arrestato a Roma per aver decapitato la moglie Patrizia ex appartenente al gruppo espulsa nel '93. «Se dovessi decapitare tutti quelli usciti dai "Bambini di Satana" - commentò Dimitri - non mi basterebbero i coltelli».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 14 febbraio 2021. Per i suoi adepti era La Grande Bestia 666. Su di lui e altri cinque membri dei Bambini di Satana, tra il 1989 e il 1999, si sono abbattute accuse pesantissime: pedofilia, violenza carnale, violazione di sepolcro, profanazione di cadavere, usura e sacrifici umani. Sono stati tutti assolti, in ogni grado di giudizio e con risarcimento per ingiusta detenzione. Bestia 666, ovvero Marco Dimitri, ha ottenuto 100 mila euro per 400 giorni passati in cella. Dimitri è morto la notte del 13 febbraio, nella sua casa in via Riva Reno, a Bologna. Ieri avrebbe compiuto 58 anni e proprio quel giorno, nel 1997, iniziò il processo ai Bambini di Satana, il primo in Italia contro un gruppo di satanisti. Per Bologna è trauma, la città si ritrova lacerata tra colpevolisti e innocentisti, sui muri compaiono le scritte 666. A coordinare le indagini è la pm Lucia Musti, che paragona i Bambini di Satana alla mafia e alla banda della Uno bianca che ha terrorizzato l' Emilia Romagna e ucciso 24 persone. E la figura divisiva è il capo, Dimitri: c' è chi vede in lui il demonio e chi la vittima di indagini spettacolarizzate. L' avvocato Carla Mei, nel procedimento, ha difeso Gennaro Luongo, il vice del gruppo, anche lui assolto nei tre gradi di giudizio e risarcito dallo Stato. E per spiegare quello che è successo parte dalla fine: «Abbiamo avuto dei giudici che hanno saputo giudicare, sono stati molto obiettivi e corretti». In mezzo, dice, ci sono stati degli errori che «forse si potevano evitare, delle richieste da parte della Procura che non erano fondate su elementi reali». Ma «per fortuna la giustizia esiste, anche se questo nulla toglie a ciò che hanno subito coloro che sono stati inquisiti in questo procedimento, non c' è moneta che li ripaghi. Purtroppo dalle streghe di Salem ai Bambini di Satana non è cambiato nulla». Il gruppo di Dimitri è stato accusato di violenza su un bambino di tre anni e su una ragazzina di 16, che ha raccontato di essere stata stordita con un caffè al narcotico. Di aver profanato tombe e celebrato rituali satanici utilizzando resti umani. Tutto inizia a Bologna il 24 gennaio 1996, quando i carabinieri arrestano Marco Dimitri (33 anni), Piergiorgio Bonora (21 anni) e Gennaro Luongo (28 anni), inchiodati dalla testimonianza dell' ex fidanzata di quest' ultimo che riferisce di essere stata stuprata durante una messa nera. Ma la sua ricostruzione è lacunosa e senza prove, della «micidiale pozione» che sarebbe stata costretta a bere non c' è traccia. Filtrano indiscrezioni su certi floppy disk trovati a casa di Dimitri, con i nomi di cinquanta dodicenni presunte vittime sacrificali, in realtà erano videogame Amiga. Agli atti c' è anche il disegno di un bambino che secondo l' accusa sarebbe stata la rappresentazione simbolica di un sacrificio umano cui il piccolo avrebbe assistito durante uno dei riti sessuali della setta, ma si scopre che è stato fatto da un' amica di famiglia. Non ci sono riscontri, tuttavia il capo cammina su un pericoloso crinale: nel processo respinge le accuse ma assicura che i Bambini di Satana avrebbero continuato a esistere, ammette la partecipazione al gruppo di minorenni ma ribadisce che i «riti sessuali» consistevano in rapporti tra «iniziati» maggiorenni e consenzienti. I minori di 18 anni potevano solo «frequentare la sede di via Riva Reno, comprare le felpe e gli altri gadget creati appositamente dalla Bambini di Satana Srl». Dimitri ha mosso i suoi primi passi nel mondo dell' invisibile frequentando in gioventù la Fratellanza Cosmica, alle origini del culto dei dischi volanti. Nel 1982 si dichiara satanista «di stile pagano», fonda i Bambini di Satana e organizza rituali tra Rimini e Riccione in vecchi casolari diroccati e boschi, poi crea un tempio a Bologna con tende nere, maschere diaboliche, teschi e statue del diavolo, atmosfera che Dimitri definisce «iconografica». Niente di più. «La colpa di tutta questa storia è dei cittadini, che hanno bisogno del mostro. Il mostro fa sempre comodo e in quel caso il mostro ero io», ha raccontato in una delle interviste rilasciate prima di defilarsi in una vita riservata.

Il "Bambino di Satana" è morto portando con sé i segreti di una vita nera. Stroncato da un malore. Assolto da accuse orribili, era stato risarcito con 100mila euro. Nino Materi, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Nella vita disgraziata di Marco Dimitri, morto ieri a Bologna a 58 anni, di cose «satanica» ce ne sono state molte. Compreso un processo dove questa sorta di «Charles Manson italiano» (ma solo nell'inquietudine di una certa estetica a base di capelli arruffati e occhi spiritati) venne accusato di ogni sorta di nefandezza - compreso lo stupro di un bambino di due anni durante un rito demoniaco - per poi essere assolto e, nel 2004, addirittura risarcito con 100 mila euro a causa dei 400 giorni di ingiusta detenzione tra il '96 e il '97. Un caso, quello dei presunti orrori della setta dei «Bambini di Satana», che sconvolse la coscienza del Paese per due volte e per ragioni opposte. Prima per la gravità dei crimini contestati all'allora 33enne Marco Dimitri, leader del gruppo degli adoratori del demonio; poi per la clamorosa assoluzione che dichiarò Dimitri e i suoi «diabolici bambini» sostanzialmente estranei agli obbrobri (violenze sessuali, profanazioni di tombe, oltraggio di cadaveri ecc.) oggetto delle accuse. Dopo essere «riabilitato» dalla giustizia italiana, Marco Dimitri si era ritirato nella sua casa in via Riva Reno dove ieri è stato ritrovato il suo corpo senza vita, stroncato da un malore. Un'esistenza segnata indelebilmente da una vicenda che all'epoca monopolizzò a lungo l'interesse dei media nazionali e stranieri. Una storiaccia da incubo che aveva in sé tutti gli elementi di maggiore «richiamo» della cronaca nera; le famose tre «s» di sesso, sangue e soldi, più una quarta «s» altrettanto inquietante: quella di Satana. I Bambini di Satana fondati da Dimitri spaccarono l'Italia tra colpevolisti (la maggioranza) e innocentisti, ma alla fine ebbero ragione questi ultimi. Che si spinsero addirittura a ipotizzare che il «gran capo degli adoratori di Belzebù» e i suoi quattro accoliti, fossero in realtà al centro di una «montatura giudiziaria e mediatica». I giornali andarono a nozze e la «brutta» faccia di Dimitri fu sbattuta in prima pagina sotto un'unica parola: «MOSTRO!» (a caratteri cubitali e col punto esclamativo). Nessun rilievo per la sua difesa: «La ragazza che mi accusano di aver violentato non l'ho mai vista. Mi hanno incastrato»; la risposta di un giornalista fu: «Di solito a essere incastrati sono gli innocenti. Tu invece sei colpevole». Giusto per far capire che aria tirasse attorno a Dimitri e soci. Contro la «setta» furono utilizzati strumenti investigativi di ogni tipo e le finanze dell'«infernale» associazione ideata da Dimitri fu passata al setaccio per smascherare il «tesoro» del movimento. Non fu trovato nulla di compromettente. Tante invece le leggende metropolitane attorno ai due luoghi misteriosi dove si sarebbero svolti i rituali: la casa di Dimitri in via Riva di Reno, dove ieri il 58enne è morto, e Villa Ghigi dove la cosa più sconcertante trovata dagli investigatori fu una tarantola viva chiusa in gabbia, decine di lettere di ammiratori di Dimitri e una stella a cinque punte in un cerchio: macabri cimeli mostrati pubblicamente con gran dispiego di telecamere. Un po' poco per «20 anni di carcere», come richiesto dal pm durante il processo. Arrivò invece l'assoluzione, con 100 mila euro di risarcimento. E tante scuse. Ormai, i suoi segreti neri, Dimitri se li è portati nella tomba.

·        E’ morto Maurizio Liverani.

Marco Giusti per Dagospia il 12 febbraio 2021. Esce di scena anche Maurizio Liverani, 92 anni, intellettuale dissidente, giornalista, storico e regista di due film che lasciarono il segno “Sai cosa faceva Stalin alle donne?” con Helmut Berger e Silvia Monti, e “Il solco di pesca”, 1976, dedicato al sedere di Gloria Guida. Si è sentito male mentre passeggiava a Senigallia, dove viveva da qualche anno. Personaggio totalmente contro corrente nell’Italia degli anni ’60, ha sempre saputo come farsi parecchi nemici. Nato a Rovereto nel 1928, nipote di Augusto Liverani, ministro delle comunicazioni della Repubblica di Salò, entra a sedici anni nel Partito Comunista Italiano e nella resistenza nel Corpo Volontari della Libertà. Finita la guerra, nel 1952, abitando al Lido di Venezia, è da subito spettatore accanito della Mostra del Cinema. Conosce registi e attori, come Jacques Tati, che divenne suo grande amico. Si trasferisce quindi a Roma, dove lo troviamo giornalista a “Paese Sera” e, amico di Palmiro Togliatti, diventa presto capo servizio delle pagine spettacoli e critico ufficiale del giornale. Ma su “Lo Specchio” pubblicarono una scheda redatta dalla Direzione Generale del partito dove era bollato già  come «tendenzialmente deviazionista». Non allineato, le cose peggiorarono con l'invasione sovietica in Ungheria nel 1956. E lo stesso Pajetta lo rimproverò per i titoli del giornale che non rispecchiavano la linea del partito: «Occupati di cinema… lascia stare l'Ungheria». Liverani si mosse con molta libertà in quel periodo, forte anche delle tante amicizie che aveva al tempo, da Luchino Visconti a Pier Paolo Pasolini. Nei primi anni ’60 assume come critico un giovane Dario Argento, lavora al Festival di Venezia, anche se in ombra. Nel 1966 lascia il partito e lascia “Paese Sera”. Se Argento diventa regista con “L'uccello dalle piume di cristallo”, Liverani punta a una specie di satira dei cineasti comunisti romani con “Sai cosa faceva Stalin alle donne?”, prodotto da Rizzoli, forte della protezione di Luchino Visconti, che gli offre un protagonista come Helmut Berger e Romolo Valli, che doppierà il non-attore coprotagonista, Benedetto Benedetti, giornalista dell’”Unità”, che si atteggia un po’ a Kim Arcalli un po’ a regista impegnato che sogna Stalin e il partito in mezzo a delle bellissime come Margaret Lee e Silvia Monti, che fa il suo ingresso poco più che ventenne nel mondo del cinema. Liverani gioca col fuoco, perché al mondo politico e cinematografico del tempo un film così darà soprattutto noia. Perfino Ennio Morricone, che gli scrive le musiche, tenta di togliere il nome dal film. Dirà, ma non per difendersi: «Nel film pensavo solo a divertire, il divertimento è il moralismo più totale e distruttivo, purché coinvolga anche il moralista. Se cioè l'autore è in guerra anche con se stesso». Presentato a Venezia nel 1969, è da subito attaccato. Pasolini glielo dice subito: «Te la faranno pagare». Infatti, il film è boicottato da subito, come ricordava lo stesso Liverani, «a Bologna era al secondo posto dei film di Natale del '69, quando i gestori del cinema furono costretti a smontarlo dalla municipalità rossa. Il caso fece così clamore che un'interpellanza dei liberali costrinse le sale a riproiettarlo. Ma a stagione ormai declinante». In realtà circolerà pochissimo. Nello stesso periodo dirige una rivista teatrale importante come “Il Dramma”. E si sposta sui giornali di destra come collaboratore. “Tempo illustrato”, “Il Giornale d’Italia”, “Il Borghese”, dove scrive articoli a firma Ivanovic Koba, nome di battaglia di Stalin durante la rivoluzione. Il suo secondo e ultimo film, “Il solco di pesca”, divertente satira della commedia sexy tutta centrata sul sedere di Gloria Guida, uscito nel 1976, non è affatto apprezzato dalla critica, che lo ha ormai bollato. Dirà della Guida: «il più bel fondoschiena del cinema italiano e la più brava delle nostre attrici sexy. Le commedie sexy di solito sono volgari, pornografiche, io volevo rivoltare il cinema sexy con la sofisticazione, con le schermaglie amorose tipo dei libertini. Gloria Guida era completamente disinibita, molto spiritosa, molto intelligente, ed è stato un peccato che abbia lasciato il cinema e che il cinema italiano l’abbia mal utilizzata. Gloria tendeva ad essere amata dai registi e un giorno si mise a piangere e disse: ‘Non mi sento amata!’. Al che ci fu un'esplosione da parte di tutta la troupe: ‘Ma noi ti amiamo!’». Continuerà a dirigere «Il Dramma» e continuerà a collaborare a vari giornali, «Il Tempo», «L'Avanti!». Seguita a scrivere saggi e articoli, “C’era una volta la Russia”, “Lassù sulle montagne con il principe di Galles ovvero come farsi tanti nemici”, nel 2014.  Figure tra le più anomale del cinema e della critica italiana, Liverani è riuscito fino agli ultimi anni a raccontarci un’Italia che non era quella descritta dai giornali ufficiali, e il suo impegno nel cinema italiano non è stato mai abbastanza capito, anche perché è stato facile, una volta diviso dal partito, farne una figura di “deviazionista”. Quando invece la sua posizione era molto più complessa e interessante.

·        E’ morto il critico musicale Paolo Isotta.

Paolo Isotta è morto a Napoli: critico musicale anticonformista, aveva 70 anni. Da ilmattino.it il 12 febbraio 2021. È morto questa mattina a Napoli Paolo Isotta, critico musicale, musicologo e scrittore italiano. Aveva 70 anni. Professore emerito del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, ha scritto saggi su tutti i più grandi autori della musica italiana, da Verdi a Paisiello, da Donizetti a Rossini.

Da “il Giornale” il 13 febbraio 2021. Per gentile concessione dell’editore Marsilio anticipiamo in questa pagina uno stralcio dell’ultimo lavoro del musicologo Paolo Isotta che sarà pubblicato il 4 marzo nella collana «Specchi»: San Totò (pagg. 320, euro 18). Il volume ricostruisce la carriera artistica e la vita di Antonio de Curtis (1898-1967). Quale filo unisce Totò ad Aristofane, Plauto e Orazio fino alle maschere della Commedia dell’Arte e alla Rivista del Novecento? Com’è nato l’uomo-marionetta (una delle tante facce di Totò)? Perché nelle sue mani persino la lingua latina diventava strumento eversivo? Da quali tare della cultura italiana deriva il disprezzo che gli intellettuali gli riserbarono dagli anni Quaranta alla morte? Un ritratto in cui rivivono il genio e le contraddizioni di un gigante.

Testo di Paolo Isotta: Io sono un uomo all' antica, e credo solo nei Santi: e nemmeno in tutti, se penso a Sant' Antonio abate, a San Giovanni Crisostomo, a San Cirillo, l' assassino di Ipazia, a San Roberto Bellarmino e tanti altri. Quando sento nominare la perìcope o la didaché, Agostino d' Ippona o Karl Barth, mi cade in testa un nero velo di depressione e fastidio. Per me Totò è un Santo: per l' altezza della sua arte, per la gioia da lui per decennî donata a milioni di persone: gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti. Per esser riuscito, con la risata che suscitava, a far per un attimo dimenticare a tutti, non solo ai reietti, le loro tragedie. E, incredibile, per esser l' idolo dei ragazzi di ogni ceto, da molte generazioni. Affatto disgiunti dalla realtà storica e sociale che aiutò a generarne l' arte, vedono i suoi films e pronunciano le sue battute, entrate misteriosamente nel loro gergo. Questo libro può apparir frutto di presunzione. Non sono un critico cinematografico né uno storico del cinema. In fondo, di films ne ho visti pochi, nella mia vita. Non sono un «cinefilo». Tuttavia credo di posseder ancora un po' di esercizio del pensiero e della memoria. Non pretendo di mettermi in lizza cogli illustri Scrittori che ringrazio e cito in bibliografia. Peraltro, facile est inventis addere. Ma, siccome Totò è un argomento universale, che travalica la stessa Napoli e la stessa Italia, ritengo che chiunque abbia diritto - esito a parte - di pensar su di lui. Il fatto d' esser io napoletano, e di esser restato uno dei pochi che nel sermo cotidianus in napoletano - quello vero - si esprima, mi fornisce qualche arma in più.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 18 marzo 2021. È tornato Paolino Isotta, il mio amico Isotta, ce l'ho sulla scrivania, bello corpulento come sempre, com' era in carne e com' è ancora in carta, me lo guardo e averlo qui mi rassicura e mi intimidisce: per giorni ho avuto pudore ad aprirne le pagine, e ne avevo ragioni, perché è un Paolino non musicologo e non polemico, è un Paolino dolce e filiale, figlio di Napoli amata come nessuno ama più la sua città, figlio di Totò. Il libro che mi ha restituito il mio amico è infatti San Totò ( Marsilio, 302 pagine, 19 euro). Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò (1898-1967). A destra, la copertina del libro di Isotta In gioventù mi ero dedicato al pianoforte classico e per questo a volte mi sono sentito titolato ad avvicinarmi alla sapienza di Isotta, venendo respinto non per sua volontà, ma perché le sue conoscenze erano così tentacolari e connettive che, più che maneggiare le sue evoluzioni intellettuali, sovente mi sono trovato a correre loro dietro. Questo libro, invece, mi è vicino perché a Paolino somiglia: è quello bagnato nel sugo partenopeo dell'aneddoto e della scaramanzia, nella parte sotto la cintura della religione, dove si venerano più volentieri i santi che Dio; questo sentimento passa attraverso il suo più nobile interprete, Antonio de Curtis. Totò ha rappresentato per Isotta il terzo volto delle sue passioni vernacolari che con la finezza dei poeti rigirava in aristocratiche: le prime due erano l'utero metropolitano di Napoli (che ha messo dappertutto nei suoi scritti) e San Gennaro, il quale tanto quanto Paolino stesso, è l'incarnazione catto-pagana di una città che per i suoi pensatori è puro spirito, lasciando il santo nella teca a sanguinare (ma poco e non sempre). Ho raccontato e ricordo di nuovo, perché è il profilo più acconcio che ne potrei fare, una scorribanda su uno scooter cui Isotta mi costrinse negli anni Ottanta, un giorno in cui ero stato mandato a Napoli per un articolo: Isotta venne a prendermi in stazione con la Vespa, mi obbligò a togliere l'orologio e partì come un matto. A un incrocio si mise a litigare con un altro scooterista insultandolo in un dialetto acrobatico e forbito, dandogli del voi, fino a che, del tutto spazientito, passò al tu e lo ricoprì di contumelie di argomento sessuale. Tanto quanto Isotta, che si trovò spesso a peregrinare nei sottoscala dei giornali nonostante o forse proprio a causa delle sue altezze letterarie e il suo divincolarsi dalle 'ndrine dei pensatori certificati, anche Totò fino alla morte fu oggetto di discriminazione da parte dell'intellighenzia che storceva il naso guardando le sue gag. Ma l'intellighenzia di solito non capisce niente delle cose non conformi alle convinzioni degli "intellighenti", e per non subire scivoloni di autostima le cestina. Questo libro, quindi, mentre parla di Totò, parla anche di Isotta, ma in fondo tutti i libri di Paolino hanno una vena nascosta di autobiografia. Il libro per i due terzi conclusivi è la compilazione critica di tutte le trame dei 97 film girati dal Sommo (Isotta dixit) dal 1937 al 1967, ma la prima parte è una sontuosa analisi dell'eredità che l'attore ha lasciato al mondo, compendiando in sé la tradizione occidentale della risata che ci è giunta da Artistofane e da Plauto sulle due sponde del Mediterraneo, passando per il dramma liturgico medievale di cui Totò e Peppino De Filippo sono stati selvaggi cantori gregoriani, maestri dell'improvvisazione, devoti e sulfurei dall'anima "mercuriale, fallica, acrobatica, ingovernabile". Sono le radici della comicità ritualizzata già nella preistoria analizzata da Lucrezio (lo scopo è l'irrisione che neutralizza il potere e anche la stessa realtà), sfiorata da Virgilio; e anche della facezia, e quindi a capofitto su Boccaccio e Molière. Totò, che porta in sé anche la tradizione teatrale dell'avanspettacolo vissuto prima del cinema, non ha i limiti del "personaggio": è universale, metafisico, è una "maschera". Isotta è tumultuoso anche quando, innalzando Peppino, la spalla perfetta, alle altezze che merita, ridimensiona il più celebrato fratello Eduardo: lo descrive come conservatore, «piccolo borghese cantore dei buoni sentimenti e della coesione sociale», mentre Totò è «antiborghese, anarchico e dadaista». Due Napoli che esistono e convivono contrapposte. Non è un caso che sia stato apprezzato e capito da Ennio Flaiano e da Mario Soldati, e non da Alberto Moravia e da Elsa Morante. La risata mossa da Totò, dice Isotta, è surreale, contesta «che la realtà sia percepibile, forse addirittura che la realtà esista», è una risata omerica e shakespeariana per grandezza, molieriana e pirandelliana quanto a sottigliezza. I napoletani che ancora oggi vanno in pellegrinaggio sulla tomba di Totò lo chiamano santo, e Fellini anche lo chiamava così, rimpiangendo di non aver mai girato, per sua colpa, un film con lui. Che altro fanno i santi, spiega Isotta, se non quello che ripeteva Totò, di essere lieto di aver fatto il comico perché la comicità aiuta la gente a prendere vita come viene e gliela rende più accettabile? L'attore deve essere «come il medico, deve andare dove lo chiamano, dove c'è bisogno di lui». Ma l'uomo de Curtis oltre il palcoscenico aveva una consapevolezza dolente della condizione umana, che nascondeva: «La vita non si sceglie, si accetta». «La felicità per me non esiste. Ci possono solo essere momenti in cui si dimenticano le cose brutte. La felicità è un fatto di dimenticanza». «Sopporto le disgrazie facendomi guidare dal raziocinio () arrabbiarsi non serve. Sarebbe come inveire perché piove o perché c'è il sole o perché si muore. La morte esiste come la pioggia e bisogna accettarla». Leggete dunque questo libro e convertitevi, soprattutto se non conoscevate Isotta e se non vi piaceva Totò. Rimedierete a queste due bestemmie "bianche" e vi farete due amici di Là, che è prudente: il primo per deliziosa conversazione e ottime letture, il secondo, soprattutto se vi toccherà l'inferno, per imparare subito ad allargare le braccia, fare spallucce e prenderla com' è.

Alberto Dandolo per Dagospia il 12 febbraio 2021 (23 ottobre 2014). Non ha bisogno di presentazioni. Avremmo dovuto incontraci fisicamente. Finiamo per sentirci al telefono. Parliamo nella nostra lingua: il napoletano. Gli inviamo via mail le domande di questa intervista. Molte di esse sono crude, sfacciatamente intime. Signori e signore ecco voi il Maestro Paolino Isotta. “Caro Dandolo dal nobilissimo cognome, Lei mi ha preparato un’intervista così lunga e così impegnativa quanto a domande che io non so se i lettori di Dagospia avranno mai la forza di scendersela. Mah! Comunque, come diceva Totò. La prima risposta che Le dò è che alle domande che Lei mi fa, anche alle più estreme sotto il profilo della confessione erotica, io rispondo nel mio libro "La virtù dell’elefante" che in meno di quindici giorni (miracolo di San Gennaro!) è arrivato alla terza edizione. Allora, vorrei meno domande sul sesso e più su Virgilio e Manzoni!’’

Ma io un’intervista sul sesso Le debbo fare!

“Allora: sia chiaro: è l’ultima che su questo tema concedo! Poi, nemmeno se ne dipendesse il premio Nobel, ne farò un’altra!»

1)  Professor Isotta, si è mai innamorato?

Certo, ho avuto grandi storie d’amore. Quando ero ragazzo tendevo a innamorarmi. Mi innamorai pazzamente del grande pianista Dino Ciani che morì giovanissimo: e lui fu con me di una infinita delicatezza, giacché gli piacevano tipi rudi che lo maltrattassero, non un ragazzino aspirante critico musicale; quando avevo ventun anni un uomo sposato della più alta borghesia napoletana, di una famiglia amica della mia da quattro generazioni, mi fece girare la testa e dal punto di vista erotico è stata l’esperienza (non mercenaria) più intensa che abbia avuta. Mi sono innamorato di una ragazza napoletana trentacinque anni fa, Raffaella, colla quale sono stato a lungo fidanzato, e ancora ci vogliamo un bene dell’anima. Il mio amore femminile più completo e oggi più vivo che mai è con Toinette Manzella, una napoletana che vive a Roma e che ho soprannominato Judith per il suo desiderio di troncare il capo ai miei nemici, o presunti tali.

2) Il piacere anale ha una sua musicalità?

Questa sì ch’è una domanda complessa! Allora, direi che l’immagine pittorica più esplicitamente richiamantesi all’eros omosessuale (se non si considera un eros omosessuale sadomasochista, e allora c’è Géricault colla ‘’Zattera della Medusa’’ e soprattutto – sempre che sia suo e non di scuola, ma è bellissimo lo stesso - con ‘’Diomede sbranato dai suoi cavalli’’) sia il meraviglioso Demone di Michail Alexandrovic Vrubel (1856-1910), che reca anche le stigmate della maledizione: la quale rende adorabile l’eros omosessuale. Poi ci sono le Sinfonie di Bruckner che danno l’immagine del coitus interruptus… Le “fioriture” della musica di Bellini sono invece un simbolo del piacere gratuito. Le Sinfonie di Skrjabin sono la musica più esplicitamente sensuale mai composta.

3)  L’analità: un mistero o un simbolo di suggestioni mercenarie?

E’ un mistero.

4) Tolto il dente, tolto il dolore. Con "Flebuccio" De Bortoli che rapporti avete, continueremo a leggerla sul ‘’Corriere della Sera”?

Le cose buone che ho ricevute da de Bortoli sopravanzano di tanto quelle cattive, che gli resterò sempre grato per la vita. Adesso egli sta vivendo malissimo il crepuscolo della sua direzione: accettando di restare direttore a scadenza ha fatto un grande errore che nuoce al giornale e a lui medesimo. A giugno, l’ultima volta che ci siamo parlati, io gli dissi: “Guarda che collo stato depressivo nel quale sei piombato tu offendi il Signore. Tu hai avuto tutto – meritamente: ma tutto - : e non puoi  cadere in depressione solo perché perdi la direzione del Corriere! Hai solo sessant’anni! Locupletato come sei, puoi dedicare una vita alla lettura e alla scrittura! Beato te!

5 ) Che peso ha la parola in quest'epoca di sussurri accennati o di urla feroci?

Questa è una domanda tremendamente complessa. Se tu mi chiedi che cos’è il Verbo, o Lògos, io ti rispondo di leggere l’incipit del Vangelo di Giovanni! Ma basta che ti ricordi Platone, il quale dice e dimostra (benché con la sua opera abbia fatto l’esatto opposto) che la parola scritta è povera e di minor ricchezza significativa rispetto alla vita della parola parlata. Sai, io di filosofia sono un ciuccio totale, però credo a chi dice che la filosofia, oggi, è ancora e solo un dialogo con Platone. I progressi delle neuro-scienze, ad esempio, non sono che la conferma del fondamento anche scientifico della dottrina di Platone.

6) Amore e piacere: che confine c'è?

Ahimé, temo che il confine ci sia! E credo che saremmo più sani se l’accettassimo! Chi ha la fortuna e il privilegio di veder coincidere le due cose dovrebbe rendersi conto d’essere un beneficato da Dio….

7) Qual è la più grande trasgressione possibile per un etero oggi? E per un omosessuale?

Io credo che la massima trasgressione possibile – ma per tutti – sia la castità. Intendo: scelta liberamente, non imposta dalle circostanze o dall’età.

8) Cosa sceglierebbe tra una sera a cena con Wagner e una notte di sesso sul proscenio del San Carlo??

A cena con Wagner, naturalmente!

9) Spuntano ovunque baby escort. Lei cosa pensa del sesso con i minorenni? 

Sappi che io ho avuto per tutta la vita l’immensa fortuna di non esser attratto da minorenni. E’ una sventura l’esserlo: e mi domando se, nel caso io lo fossi stato, avrei avuto forze sufficienti per resistervi. Dico a venti e trent’anni, quando di fronte alla propria eccitazione non si capisce più niente….

10)  E di chi sceglie una trans?

Mah!

11) Il Papa apre ai gay, i sindaci registrano le unioni contratte all'estero. Contro i "gays, bovaristi e stronzi” - come ama definirli - è rimasto solo lei. Perché?

Non sono rimasto solo io: sono il solo che lo dice. E comunque: sebbene il Sacrificio sia compiuto per voi e per molti (non per tutti come oggi si traduce durante la Messa!), Cristo s’è incarnato per tutti: propter nos homines et propter nostram salutem.

Alberto Anile per “il Venerdì di Repubblica” l'8 aprile 2021. Benedetto Totò. A oltre mezzo secolo dalla sua dipartita si continua a scriverne tanto, tantissimo, e pure da parte di ammiratori insospettabili. Appena ieri era entrato nell'agone totoista uno storico come Emilio Gentile (Caporali tanti, uomini pochissimi, per Laterza) e ora esce per Marsilio San Totò, volume postumo di Paolo Isotta, professore emerito del Conservatorio di Napoli, mirabile critico musicale al Corriere della Sera, penna finissima e puntuta. È un libro delle cui ultime fasi sono stato testimone. Conoscevo Isotta solo di firma; all'epoca in cui recensiva la lirica, declamavo i suoi pezzi a una ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie, che li adorava. Isotta era per noi il più grande critico di musica classica vivente, dotato di una scrittura dotta e seducente unita a un'indiscussa sapienza musicale. Molto tempo dopo, mi vidi citato in un suo pezzo su Totò; mentre all'estero mi conoscono per alcuni studi su Orson Welles, in Italia passo per essere un discreto esperto del Principe (dopo Goffredo Fofi, s'intende): mi sentii onorato e pensai che finisse li. In seguito Isotta tornò a citarmi, in modo ancora più lusinghiero, e allora gli feci pervenire i miei ringraziamenti; mi arrivò immediatamente una mail in cui mi faceva sapere della «letizia» di essere entrato in contatto con me, confidandomi «una follia grande come una casa da me appena commessa»: stizzito per la mancata pubblicazione degli atti di un convegno su Totò a cui aveva partecipato, aveva deciso di scriverci un intero libro, ma il gesto, a lui che non era critico cinematografico sembrava ora quasi un atto di hybris. Mi misi a disposizione per eventuali consigli o correzioni: rispose che il testo era sostanzialmente chiuso, e che voleva evitare nervosismi ai redattori, «che oggi si fanno chiamare editor(s)», e che alla minima modifica sulle bozze sono capaci di trasformarsi in «belve impazzite». Piuttosto, gli avrebbe fatto piacere incontrare me e mia moglie a colazione, in una delle trattorie romane che prediligeva. Isotta venne da Napoli, che aveva rischiato fino all'ultimo di essere in zona arancione; la pandemia, d'altra parte, lo spaventava poco («blandamente», mi scrisse). Ci vedemmo da Checco er carettiere, a Trastevere, con mascherine regolamentari che nella sala interna togliemmo subito perché eravamo gli unici clienti e avevamo un gran tavolo che dividevamo molto comodamente in tre. Conobbi così un personaggio singolarissimo, che nell'amato eloquio ottocentesco intercalava pezzi di napoletano antico e qualche sapidità popolare. Piccolo, rotondo, somigliava assai all'attore americano Wallace Shawn, e aveva un sorriso malizioso che compensava lo sguardo leggermente asimmetrico. Parlammo di cinema (soprattutto con me), di musica classica (soprattutto con mia moglie), di giornalismo (con entrambi). E ovviamente di Totò: si rammaricava di non averlo visto a teatro, fortuna che suo padre aveva avuto. Del libro ci fece vedere la copertina, un Totò elegantissimo in un'immagine rara donatagli da un amico scenografo, della quale andava fiero. Alla fine tirai fuori due volumi; il suo Verdi a Parigi, che mi feci autografare, e un mio libro totoesco fuori commercio che immaginavo non avesse. Ne fu stupito e grato: lo aveva cercato ovunque, mentre la pandemia gli impediva anche di recuperarlo in biblioteca. Nei giorni successivi mi mandò altre e-mail, ringraziandomi per avergli fa. da “guida” nel continente Totò. «Proprio per questo», mi scrisse, «non ho voluto far vederti il testo quando era ancora correggibile da parte tua, perché non si mormorasse di un'intesa che andava oltre l'amicizia entrando nella complicità ripagata con l'elogio». Un uomo tutto d'un pezzo, si diceva una volta. Ma quando, a fine anno, la bozza definitiva fu pronta, non resistette a offrirmelo in lettura e io non resistetti a farmelo mandare. Gli feci i miei complimenti, e gli segnalai un paio di imprecisioni. A quel punto non solo ci davamo del tu ma eravamo arrivati a chiamarci "compari”. Ci aspettava a Napoli, a un pranzo in casa, quando la pandemia si fosse calmata. Il 2 febbraio mi chiese l'indirizzo a cui spedire il libro cartaceo, e fu l'ultima volta che ci scrivemmo. Dieci giorni dopo fu trovato esanime dalla signora che veniva a rassettargli casa, quasi coetaneo in morte del suo idolo: Antonio de Curtis se n'è andato a 69 anni, Isotta a 70. Mi aveva scritto: «Ti prego di non esser troppo severo. Non è che l'opera di un dilettante!». Alla faccia del dilettante, direbbe il Principe. San Totò è accurato, divertente, e contribuisce a liberare il più grande attore comico del Novecento dalla montagna di pressappochismi in cui è stato tumulato. Isotta sa essere severo con i grandi (secondo lui Uccellacci e uccellini di Pasolini è il più brutto dei quasi cento film girati da Totò, e generoso con i deboli (trova un episodio minore come La macchina fotografica «delizioso, a tratti tenero», e ha ragione). La lingua è strepitosa, e lascia affiorare la sua dotta cattiveria, come nella digressione in cui tira le orecchie ai parvenus (o pezzenti sagliuti) che confondono il maggiordomo con il semplice cameriere («Ma i romanzi di Somerset Maugham o di Iris Murdoch non li ha letti nessuno?»). Alla questione cruciale sulle radici artistiche di Totò, Isotta risponde tornando indietro fino alle Atellane anziché agli scampoli futuristi che gli ho sempre preferito. Però nel suo libro scrive una frase fulminante che mette d'accordo tutti: «Ciascun genio si crea i propri precursori». Chapeau.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 14 febbraio 2021. Il meraviglioso Paolo Isotta, per me, era estinto anche da vivo, perlomeno negli ultimi vent' anni passati a cincischiare con la squallida finitezza corporea e da lui passati ad auto-recensire una vita conclusa, coi piedi ben piantati nel Novecento. Negli ultimi vent' anni non ho voluto più incontrarlo anche per questo, perché all' alba del nuovo Millennio avevo voluto immaginarlo nelle splendide vesti di gran cerimoniere di un'èra che salutava, lui, la maschera che accompagnava alcuni di noi lungo il loggione di un teatro di proporzioni monumentali e impossibili, con, sprofondata nel golfo mistico wagneriano, un' orchestra di migliaia di elementi che suonava una musica cupa e impressionante, velata dalla mestizia di un tempo che se andava. Isotta, nei tardi anni Novanta, mi ritenne un miraggio della gioventù hitleriana che frequentava quel mistero nascosto alla superficie che si chiama musica, e s'invaghi di me quando mi sentì disquisire su sette versioni del quarto movimento di una sinfonia di Ciaikovsky, si commosse quando citai a memoria passaggi del suo Le ali di Wieland del 1984 (scritto a 34anni, cattedratico da 10, quando probabilmente era già il più colto musicologo del mondo intero) e rimase di sale quando gli spiegai perché il giovane Baricco aveva copiato da lui, dopodiché era nelle cose: l'amore si trasmuta in rancore come capita ai dannati peggiori: i passionali intelligenti e accidiosi. Ci scambiammo missive e dischi, cercò di farmi cacciare da Il Foglio, fece pressioni perché non scrivessi più una parola su Riccardo Muti, andò nel panico quando invasi un «suo» ristorante a Napoli, per mesi tempestò l' ex direttore di questo giornale (un bresciano) perché personalmente io recensissi un suo libro (ma non cedetti) e intanto per rimase segretamente «il riferimento», benché ampolloso, ciceroniano, frocista, vendicativo e amante delle mafiette come il suo tammurro, Pietrangelo Buttafuoco. La sua biografia storico-giornalistica l' ha già scritta il suo vero amico Vittorio Feltri. Dico solo che mi mancherà l'uomo che avevo già deciso che perisse (per me) vent' anni fa, ultimo superstite di una civiltà che sapeva scrivere e studiare e concentrarsi e parlare e sintetizzare e pensare e ragionare, refrattario a un'umanità ridotta a pura relazione, a mera intuizione e sensazione fulminea, a immagine sintetica e contratta, un'umanità decerebrata e incapace di un certo tipo di trasmissione del pensiero: era finita la musica, era finito il Novecento, era finito lui. Quanto mi è mancato. Quanto mi mancherà.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 13 febbraio 2021. Paolino, sei un bambino di settant' anni, ingenuo come i pargoli evangelici. E te ne sei andato. Dovrei dire che eri, che lo fosti, che adesso la mia è una finzione patetica. Gli amici se ne vanno però poi tornano. Non so come eppure li ritrovo talvolta nella notte. Mi è capitato con Oriana Fallaci. Aspetto che mi accada con te. Nell' attesa mi tocca scrivere un articolo su chi sei, anzi, chi fosti, maledizione sei morto, perché eri un grande, e i lettori hanno diritto di sapere chi hanno perduto. La bisogna professionale impone dunque di piegare con cura il fazzoletto, metterlo in tasca, lascia dell' umido sulla coscia, bisognerà cambiarlo. Paolo Isotta, il più illustre musicologo e storico della musica degli ultimi cinquant' anni, è deceduto ieri mattina nella sua casa di Napoli, dov'era nato ed ha sempre vissuto (persino quando lavorava a Milano, poi correva alla finestra da dove scorgeva il mare e Capri). Non è stato solo un grande scrittore e critico delle opere e dei giorni di Verdi, Mozart, Beethoven, Rossini e dell' intero Olimpo dei compositori e dei loro esecutori. La sua cultura attingeva dovunque un uomo avesse seminato arte e bellezza. Qualsiasi libro da lui scritto riserva questa sorpresa. I lavori sui musicisti richiedono attenzione spasmodica, come una salita su ardue e tempestose cime, ma da lassù si ammirano paesaggi sconfinati, Isotta mostra oltre l'orizzonte delle note. In altri libri, i più recenti, offre divagazioni godibilissime mai però dispersive: conduce sempre al centro delle questioni per cui vale la pena vivere e morire, foss'anche l'arte di vestir bene, da un sarto partenopeo, ovvio, perché gli altri sono tutti inferiori. Non sono noto per l'insana virtù della modestia, di rado mi sento inferiore. Al suo paragone diciamo con benevolenza che mi sentivo inferiore sì, ma appena appena. Rispetto al resto del mondo non solo giornalistico ma culturale lo separava un abisso di sapienza, eleganza, genio. Il suo italiano non ha paragoni, nella forza e nella delicatezza, come Arturo Benedetti Michelangeli attingeva tutti i colori della tastiera, pure quelli che non ci sono. Qui tra i suoi libri consiglio, tra quelli per così dire meravigliosamente specialistici Il ventriloquo di Dio (1983), dedicato all' influenza della musica su Thomas Mann, e il recentissimo Verdi a Parigi, 28, e soprattutto 668 pagine, del resto - mi scuseranno i melomani - le opere del maestro di Busseto sono alquanto abbondanti. Confesso di essere innamorato dei suoi zibaldoni. Anzitutto La virtù dell' elefante: La musica, i libri, gli amici e San Gennaro (pagine 592, 13) che non è la sua autobiografia, bensì la biografia dell' universo passata da quel luogo imperdibile che è la sua memoria. Uso ancora il tempo presente. Bisogna scrivere "era". Era la sua memoria che diventa la nostra. Altro testo che paragono a una cornucopia traboccante gemme, rose, melograni, con intorno gatti ronfanti e tigri sbrananti, mentre il pettirosso familiarizza con la zanzara, è Il Canto degli animali. I nostri fratelli e i loro sentimenti in musica e in poesia (pagine 447, 22). Gli ultimi tre volumi sono pubblicati da Marsilio. Lì ha finalmente trovato accoglienza Isotta, dopo che era stato gentilmente accompagnato alla porta del Corriere della Sera da Ferruccio de Bortoli. Ben sei editori avevano respinto La virtù dell' elefante. Temevano di inimicarsi certi poteri forti che avevano preteso la sua testa quando aveva osato criticare duramente, diciamo usando il rasoio, alcune opere proposte alla Scala di Milano. Isotta era stato dichiarato "non gradito" dal sovrintendente della Scala Stéphan Lissner. De Bortoli aveva dichiarato inammissibile questa prepotenza illiberale. Poi però, qualche tempo dopo, nel preciso istante del pensionamento di Isotta, non lo aveva ammanettato alla scrivania (eufemismo), ed aveva sospinto verso la quiescenza il fuoriclasse napoletano nel pieno della sua potenza di scrittura. A sessantacinque anni in discarica. (Se pensiamo al casino fatto per difendere il posto di Enzo Biagi in Rai quando aveva 81 anni, del resto - e giustamente - mai messo a riposo dal Corriere vita natural durante, capiamo il torto subito da Paolo ma soprattutto dai lettori del quotidiano di via Solferino). Ho parlato di Corriere della Sera. Era arrivato da Il Giornale. Sono in grado di raccontarne tutte le peripezie, la meritata gloria e le indecenti persecuzioni dal momento in cui approdò a Milano. Lavoravo nel cosiddetto "Palazzo dei giornali", di proprietà Eni, dov' era situata la redazione de La Notte, avendo per direttore Nino Nutrizio. A un altro piano del condominio di piazza Cavour a Milano Indro Montanelli stava preparando l' uscita del suo quotidiano. Quando incontrai Isotta, era il 1974, questi era appena stato ingaggiato, giovanissimo (24 anni ma già cattedratico al Conservatorio). Mancavano due mesi all' esordio in edicola del Giornale nuovo (si chiamava così). Paolo era seduto a un tavolo del ristorante "Gatto nero", in via Senato. Con lui alcuni colleghi, tra cui Salvatore Scarpino, soprannominato l'Avvocato per la sua abilità oratoria esibita scherzosamente allorché si discettasse di questioni di diritto. Paolo era elegantissimo, indossava un abito impeccabile di taglio partenopeo, il più apprezzato dagli intenditori. Fraternizzammo subito. Mi stupirono il suo eloquio forbito nonché le idee che egli esternava, totalmente distoniche rispetto all' andazzo politico dell' epoca, ma sintoniche con quelle cavalcate da Indro, famoso bastian-contrario. La conversazione con lui era per me un elisir emozionante. Quando poi iniziai a leggerlo sul Giornale neonato, ebbi la conferma delle sue doti eccezionali. I suoi articoli erano semplicemente mirabili, in particolare nel campo musicale. Me ne accorsi perché fin da ragazzo mi dilettavo suonando il pianoforte, ed ero pure persuaso di non essere sprovveduto in materia; ma non appena divorato un paio di pezzi di Paolo, ebbi la sconfortante certezza di essere un semianalfabeta di ritorno, e di andata, delle sette note e della tastiera. Amen. Me ne feci una ragione, anche se seguitai a strimpellare, ma solo dopo il secondo whisky. Alcuni anni più tardi, Franco Di Bella, direttore del Corriere della Sera, lesto e birbante, assunse in via Solferino il critico del Giornale, ovvero Isotta, con tanto di contratto regolare e firmato. Figuriamoci cosa accadde. Montanelli si sentì tradito. Il Corriere lo chiuse nel Lazzaretto. Il Comitato di redazione (potente sindacato interno) si oppose all' ingresso del giovin talento. Motivo ufficiale: il Corriere aveva già un critico musicale, Duilio Courir (come se un giornalone del genere non potesse averne due). Motivo autentico: Paolo non era comunista e nemmeno di sinistra. La querelle durò anni e anni. Risultato: Isotta non era autorizzato a vergare neppure una breve. Veniva in redazione - saltuariamente - e si girava i pollici, poi se ne andava, inutilizzato. Una situazione manicomiale, che Di Bella non riuscì a sbloccare in quanto in balìa dei tribuni, in quel periodo padroni assoluti del vapore. Scoppiò lo scandalo della P2 e avvenne un cambio alla direzione: fuori Di Bella, dentro Alberto Cavallari. Ottimo giornalista, pessimo comandante, soprattutto ostaggio del sindacato rosso. Isotta rimase in panchina un altro triennio. Un fenomeno imbavagliato per ragioni politiche e sindacali. Lui e io ci consolavamo a vicenda. La nostra amicizia si consolidò. Qualche pranzo, qualche cena, parecchi sacramenti. Ne abbiamo viste di ogni colore. Condividevamo uno sgabuzzino, dove eravamo stati confinati. Finalmente Piero Ostellino fu chiamato al timone del Transatlantico cartaceo e la rotta mutò. Isotta attaccò a fare il suo mestiere con perizia e per fortuna non smise più di esercitarlo fino al sopra citato incidente. Amava e difendeva Riccardo Muti, non riteneva all' altezza Claudio Abbado e i suoi allievi, venendo perciò scomunicato e moralmente piazzato su un rogo dai vedovi e soprattutto dalle vedove di Abbado. La redazione di via Solferino, sempre fiorente di comunisti e similari, non mosse un dito per difendere un patrimonio del Corriere (e di Milano). Un gigante della penna fu così accompagnato all' uscita. Da tre anni collaborava a Libero, ma il suo genio aveva trovato nei libri il luogo di un esercizio fatato. Fino alla sua partenza per i Campi Elisi, su cui ha scritto pagine luminose e dolci, ma che mi rifiuto di cercare, non voglio rileggere per un po' le sue prose, i testi dove raccontava della nostra amicizia che si pensa immortale, però aspetto di parlargliene se si fa vedere una di queste notti. Ho detto però che dovevo far conoscere Isotta più da vicino ai lettori. Siamo negli anni '80. Il Corriere mi mandò a Napoli per un servizio. Isotta si offrì di venirmi a prendere in stazione con la sua Vespa. La prima cosa che mi disse fu: «Togliti 'o Roléx», pronunciato alla napoletana, con l' accento sulla "e". A metà strada ebbe un bisticcio con un altro scooterista per questioni di viabilità. Era una delizia ascoltare Paolo che insultava con un linguaggio forbito lo sconosciuto dandogli del voi. Solo che a un certo punto perse la pazienza e, passando al pronome di seconda persona singolare, sbottò: «Tu a me mi à fa' sulamente 'nu bucchino!». Molti anni dopo, leggendo sul Foglio uno spassoso dialogo di Isotta con Pietrangelo Buttafuoco, che gli chiedeva conferma della voce secondo cui egli fosse omosessuale, ho capito che quello era il suo linguaggio abituale quando non discettava di Wagner o di Verdi. «Io faccio tutte cose, comme si dice a Nnapule, so' attivo e passivo. Cco mascule e cco femmene. Ma nisciuno me può cchiammà gay. Io so' ricchione. 'O gay se vuo' 'nzurà. Napulitanamente parlando, sposarsi. Ma tu te rienti cunto? Oggi i spusalizzi 'n 'è vuò ffà cchiù nisciuno, e sulo 'e ricchiuni e 'e ricchiesse (le lesbiche, ndr) i vonno fa'. I gay ca sa vonno spusà sono bovaristi e stronzi! Vonno 'a consacrazione sociale e religiosa!». Se non avete capito, non fa niente. Immaginatevi la musica. Puro crescendo rossiniano.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 febbraio 2021. Caro Dago, Dio che botta in volto mi hai dato a scrivermi che era morto Paolo Isotta. Non che io fossi un suo assiduo, ciò che credo fosse molto difficile, da quanto Paolo era un rompicazzi anche per i suoi assidui. Solo che gli volevo bene, punto e basta. Qualche tempo fa per una mezza frase che avevo scritto e che lo riguardava, mi aveva scritto a rompermi le balle cinque o sei mail una dopo l’altra. Una tortura. Non che me fregasse poi tanto, gli volevo bene punto e basta. E come non volergliene da quanto era speciale, forse un unicum della specie umana. Lo avevo conosciuto al tempo - addirittura i primi Ottanta - in cui avevo conosciuto un drappello di intellettuali che venivano tutti dalla destra e taluni dalla destra marcata e di cui sono rimasto amico negli anni. Voglio dire Stenio Solinas, Umberto Croppi, Marco Tarchi, Giuseppe Del Ninno, Gennaro Malgieri, ovviamente Paolo, e ne sto dimenticando. Tutti loro sono adesso miei amici, e con ognuno di loro ho molte cose in comune più che non ne abbia con ciascuno di quelli che stavano a Lotta continua e ho beccato 26 processi per aver fatto il direttore responsabile del loro giornale, un giornale che nemmeno leggevo ma di cui sentivo il dovere generazionale di permettere che uscisse, perché era una della voci più autentiche della mia generazione. E si trattasse di rifarlo domani mattina, lo rifarei. Quanto ai ragazzi che venivano dalla destra, io ero stato in Italia il primo a parlare di loro come fossero esseri umani e non dei tipacci con tre narici o forse quattro. Ci incontrammo con ognuno di loro, parlammo dei film che amavamo (più o meno gli stessi), dei libri che leggevamo (più o meno gli stessi). Di quel drappello Paolo stava a sé, e non solo per il fatto che quanto a musica se ne intendeva più di ogni altro al mondo. Era un dandy napoletano che veniva da una famiglia agiata, era un omosessuale (di cui da zero a un miliardo a me importava zero), sapeva quasi tutto di tutto, forse di più. Era ostinato come un mulo in ogni cosa che sosteneva. A parte sé stesso, tutto il resto veniva dopo, infinitamente dopo. Gli volevo bene, vi ho detto. Una volta in una chiacchiera pubblica ci scontrammo nel senso che io, pur non essendo più “di sinistra”, continuavo a credere che nella storia di una società e di una civiltà esistesse una sorta di “progresso”, che molte cose della società e della civiltà vanno a migliorare. Paolo diceva che no, che non era così. Me lo ricordo come se fosse adesso quel nostro confronto in un’auletta romana, lui come sempre un dandy elegantissimo. Avevi ragione tu, caro Paolo. Ti voglio bene, ti abbraccio, ti piango. Avevi ragione tu, in fatto di fetenzie e crimini di ogni genere diffusi in una società e in una civiltà, questi germi non la finiscono di marciare alla grande. Alla grandissima. Addio, Paolo.

DAGOREPORT il 12 febbraio 2021. Come scrisse lui, vorrei ricordare Paolo Isotta per quello che era, nel bene e nel male, lontano dalle dicerie dei colleghi critici che – a volte per invidia – sino a ieri lo irridevano, ma lontano anche dalla retorica dell’Isotta intellettuale di destra, anticonformista, libero e libertario e per questo detestato dall’establishment sinistorso: come alcuni omosessuali vecchia maniera (ma lui, per se, voleva che si usasse il termine ricchione, non l’anglismo gay) era un San Sebastiano che voleva essere trafitto… e ne combinava di ogni per riuscire ad esserlo. Ovviamente, l’affermarsi del politically correct lo agevolò molto nel trovare come essere fuori dal mainstream: lo era ipso-facto. Nei primi anni di Napoli, dov’era nato il 18 ottobre 1950 figlio di un avvocato dell’alta borghesia e dove si era diplomato in pianoforte e laureato in Giurisprudenza, affonda “l’antefatto” che dà origine a ogni mitologia che si rispetti: nel 1971 Isotta inizia la carriera di insegnante al Conservatorio di Reggio Calabria, poi a Napoli. Ma forse a causa di “bollenti spiriti” qualcosa con gli allievi non va per il verso giusto; meglio cambiare aria (nel gennaio 2019 il Conservatorio di Musica "San Pietro a Majella" lo nominerà professore emerito) ed eccolo all’ “Espresso” con Paolo Mieli e tutti i compagni: Mieli, allora, scrive articoli sul maoismo e dintorni lui brevi pezzi di critica musicale. Il destrissimo Piero Buscaroli, allora direttore del “Roma”, lo fa passare al “Giornale” di Montanelli (1974) dove i due si ritrovano insieme sulle pagine culturali. Nel 1980 Franco Di Bella porta Isotta in un “Corriere della Sera” scosso dall’ondata terroristica, dall’omicidio di Walter Tobagi e, di lì a poco, dall’esplodere dello scandalo della Loggia P2, nel quale sono coinvolti i vertici del giornale. Succede un terremoto e i vertici devono dimettersi e vendere. Al “Corriere” arriva Alberto Cavallari e il sindacato rosso è in mano a Raffaele Fiengo: da poco arrivato, Isotta può già mettersi il cuore in pace perché non lo fanno scrivere. Il critico titolare è Duilio Courir, molto più in linea e abbadiano: Courir è un nome che Isotta non riuscirà mai a pronunciare in tutta la sua vita. Ma, a pensarci bene, non c’è niente di strano: il “Corriere” usava pure il Nobel Eugenio Montale come seconda firma sulla Scala! Quando nel 1986 Riccardo Muti diventerà direttore della Scala - visto un po’ dall’élite abbadiana e di sinistra milanese come l’emigrante che è arrivato con la valigia di cartone (Muti si legherà al dito quell’accoglienza) - Isotta intravvede il suo eroe: forse c’è anche dell’altro, ma consideriamole malignità. Da allora in poi il faziosissimo Isotta piega la sua brillante e verbosa penna (“giusta l’etimo”, “locupletati”…) a tessere lodi sperticate al solo maestro apulo-campano escludendo il resto del mondo. Salvo i suoi amici del festival di Martina Franca. Per vent’anni odia le signore della sinistra milanese (delle quali ne palesava l’ignoranza) che parlano di Abbado, per vent’anni non esistono i Festival di Salisburgo, i teatri europei, i nuovi registi berlinesi: il mutocentrismo diventa la misura di tutte le cose musicali del “Corriere”. La pax musicale gli consente la ripresa della costruzione della leggenda personale. Lo si vuole in amore con la celebre “contessina”, che lui lascia con un fax. Non dimentica l’avversione per i comunisti, e in teatro finisce con il tirare uno schiaffetto (poi ingigantito, ma qualche mano la metteva davvero) al critico dell’Unità Rubens Tedeschi. Alla “prima” di una donna direttrice d’orchestra alla Scala si alza in piedi e dice: “So io dove te la ficcherei quella bacchetta!”. Ma è anche molto simpatico: a un giovane cronista che deve fare un pezzo sulla scomparsa della Tebaldi si finge un’altra persona. Una delle sue rare trasferte avviene al Teatro di San Francisco insieme a un collega. Isotta nutre un profondo disprezzo per la cultura (per lui subcultura) americana: leggendaria (e da ripetere a memoria ogni mattina) la sua affermazione che direi biblica: “Ogni volta che vedo scritto un termine in inglese che ha un corrispettivo in italiano ci vedo dietro la mano del cretino”. A San Francisco si porta dietro delle polverine tipo anti topi o anti tarme perché teme la scarsa pulizia degli alberghi. Per settimane non si saprà che fine ha fatto. E’ in quegli anni che scrive i suoi pezzi più leggendari. Il primo è sui cessi della Scala. La tesi è che ci vorrebbero più bagni per le donne, ma questo perché loro ci passano troppo tempo: per dimostrare che le donne eccedono nello stare in bagno cita un manuale di urologia di inizio Novecento con dettagliati i tempi della minzione. Scolpito nella leggenda resta l’articolo uscito il giorno della morte di Pavarotti. Mentre tutto il mondo piange il più grande tenore di tutti i tempi, Isotta scrive di Pavarotti: “Analfabeta musicale, solo dirò che l’opera lirica non è il canto del muezzin”. Per Mieli, Isotta era forse come un “giullare” di corte o come l’erudito “stilita” che spara sentenze e, in fondo, lo faceva divertire; inoltre a Mieli della Scala non è fregato mai nulla. Non così per il milanese De Bortoli che frequentava tutti i poteri forti della città, gli stessi dai quali ora ha preso le distanze nel suo ultimo libro scoprendo che hanno fatto il male del Paese. De Bortoli, c’è da cederci, non sopportava in cuor suo Isotta e ogni volta che scriveva si apriva una estenuante lavoro di mediazione anche molto ridicolo: ore e ore di dibattito per sostituire la parola “membro” o cose di questo genere. I suoi pezzi avevano una arbasiniana capacità di giustapporre il colto estremo con il triviale. Nel 2005 Muti è costretto a lasciare la Scala nonostante Isotta lo difenda sino a condizionare anche le cronache del giornale. Arriva il sovrintendente Stéphane Lissner (ora lo è di Napoli!!!). Isotta è sempre più irrequieto in teatro e pretenzioso: dimora a Milano all’albergo Cavalieri (ma resta celebre l’attacco di un suo pezzo “Stavo in coppa alla terrazza  - ndr di Capri, probabilmente - quando il direttore…”) , biglietti, auto che lo va a prendere per portarlo alla Scala e lo aspetta. Nel 2013, al colmo di una serie di interventi pregiudiziali, pubblica un articolo fortemente critico verso Daniel Harding (da lui chiamato, in spregio al politically correct che vietava l’uso dell’articolo davanti al nome femminile “il Harding”), giovane direttore che Lissner aveva chiamato a salvare la Scala nel suo primo 7 dicembre attaccando, indirettamente Abbado. La sua verve travalicava la critica musicale verso il regolamento di conti. Lissner ne ha abbastanza e lo definisce “persona non grata”, che poi significa semplicemente che non è più invitato dalla Scala in teatro. Ne esce fuori, con il solito conformismo giornalistico, un attacco alla libertà di stampa (dai, Paolo, dal di là ci sta ridendo su). De Bortoli, che detesta lui e la vicenda, è pseudo doverosamente chiamato a difendere il diritto di critica. Per Isotta un trionfo: è il San Sebastiano della critica, “cacciato” da un sovrintendente abbadiano e difeso da un direttore che, da giovane, era della Fgci. Cosa si consumi a Roma tra Isotta e Muti sfugge dall’umana comprensione. Ma il crac è fragoroso. I due rompono il sodalizio e, da allora, Isotta ha quasi solo parole irridenti nei confronti per il maestro apulo-campano, per il Festival di Ravenna diretto dalla moglie del maestro, Cristina Mazzavillani, per l’insistenza nel fare la regista della figlia Chiara Muti, per il colore della tinta dei capelli della moglie e via dicendo…Come in un matrimonio di due che si sono molto amati, in Isotta c’è molto rancore; ma non sostituisce Muti con alcun nuovo direttore: resterà orfano. Come un nobile dei tempi andati, a pensione avvenuta Isotta si ritira nella sua Napoli a scrivere memorie, non senza aver scritto un articolo dove racconta che il suo autista, con l’auto aziendale, andava a spacciare droga di notte senza che lui lo sapesse, affidandosi a San Gennaro per rimettere posto le cose. E non senza attaccare la ex sovrintendente del Teatro San Carlo, Rossana Purchia, e sparando a zero sul n.1 del Ministero per gli Spettacoli dal vivo, Salvatore Nastasi. Escono così alcuni libri divertenti (ne ha scritti molti anche di seri), come “La virtù dell'elefante”, dove ha l’occasione per risparare a zero anche su altre mitologie del “Corriere”: prima tra tutte la celebrazione continua dello scrittore Claudio Magris. È tra i pochi pensionati che il “Corriere” allontana immediatamente dalle sue fila: dire che non si prendesse con Luciano Fontana, già caporedattore all’Unità, è un eufemismo. Così finisce con lo scrivere per due quotidiani di “opposta” tendenza, ma uniti dall’essere al di fuori del mainstream progressista, lgbt, politically correct, neofemminista… tutti argomenti a lui in odio estremo: “Libero” e “Il Fatto quotidiano”. Come faccia non si sa; soprattutto come faccia a pubblicare anche gli stessi pezzi su entrambi i giornali. Ora affidiamolo a San Gennaro, che se lo prenda lui, in grembo, questo insopportabile, fazioso, ma anche indimenticabile, personaggio.

Pietrangelo Buttafuoco. Da Il Foglio del 14 dicembre 2013 il 12 febbraio 2021. Può capitare, certo, può capitare di pensare che ne scriva male della “Traviata” in scena perché lui, al Teatro alla Scala di Milano, è solo un asterisco indesiderato. E' “persona non grata” nientemeno, come ha sottoscritto Stéphane Lissner, il sovrintendente, notificandolo – come lo notificò, a suo tempo, il 7 aprile 2013 – a Ferruccio de Bortoli. Ma il lettore del Corriere della Sera, scorrendo già le righe della prima nota redatta nella sera di Sant'Ambrogio, a sipario appena chiuso, sa che Paolo Isotta, fosse pure con levità irragionevole, ha ragione. Ancora qualche giorno fa Alberto Arbasino, sulla Repubblica, il giornale che pure ha cercato di porre fine al secolare gemellaggio tra Via Solferino e Via de’ Filodrammatici, ha inesorabilmente stroncato l’allestimento firmato da Dmitri Tcherniakov e la bacchetta di Daniele Gatti e quindi ha ragione Isotta che così scrive: “Da Daniele Gatti sul podio ci aspettavamo almeno correttezza. Non ce la dà come direttore, ancor meno ce la dà come concertatore, concedendo cose inenarrabili, risatine aggiunte, pause, corone, "puntature". La sua orchestra ha un suono bandistico, pur se la banda vera sia discreta. Fa tempi inspiegabili: in "Ah non udrai rimproveri" il povero baritono Zeljko Lucic, che aveva fatto un buon duetto con Violetta, è costretto a un tempo per cui la sua Cabaletta sembra un’Aria dal "Mikado" di Gilbert e Sullivan, una delle più belle Operette della Storia. Il tenore Piotr Beczala si concede un’incredibile cadenza prima di ‘O mio rimorso, infamia’, e il rigoroso direttore milanese gliele consente. Per il resto dell’atto singhiozza, bela, raglia”. Può capitare, certo, capita sempre di non sapersi capacitare rispetto alla conoscenza che Isotta ha della materia di cui scrive e se dunque metto da parte tutti i mi bemolle di cui lui ragiona per inchiodare gli asini musicanti e su cui io non ho competenza, sempre in tema di “Traviata”, non posso che dargli ancora una volta ragione: “La ‘signora delle camelie’ porta, come tutti sanno, una camelia bianca al petto tutto il mese tranne quattro giorni, nei quali ne mette una rossa a segnalare il divieto di accesso. Qui Violetta ne porta una rossa nei capelli nel primo atto, e una rossa nei capelli al secondo”. Può capitare, forse può capitare che sia sempre impedita la poveretta e Paolo Isotta che non è dentro una misura – smisurato com’è in genio, sempre fuori modo e fuori moda – coglie il dettaglio dove si sfascia l’adorata cretineria dello spirito pop così tanto in voga al punto di dover registrare nelle cronache una dichiarazione di Pietro Grasso, presidente del Senato: “Non capisco le polemiche verso chi cerca di attualizzare le opere”. Chissà. Forse un monito in difesa delle mestruazioni perpetue? Può capitare e capita che si attualizzi, non capita altro, ma la forma è sempre sostanza. Nella mia condizione di amico non sono il più abilitato a riferire riguardo a Paolino, faccio conto di segnarmi con la mano mancina e pregare che non si scateni adesso la sua ira per tutti gli errori di ortografia, sintassi e perfino di ontologia che qui farò ma lui è senza alcun dubbio il capitolo più clamoroso della vita culturale di questa Italia. Paolo Isotta, storico della musica e critico musicale, è considerato al contempo un sublime scugnizzo (così lo definì Stenio Solinas) e un appestato. Infetto lo considerarono i vertici della Cultura con il segno di C in maiuscolo quando nel 1978, lasciando il Giornale di Indro Montanelli, Paolino mio approdò in Via Solferino per essere però insolentito da manifesti, manifestazioni, assemblee, raccolta di firme, comunicati e ordini del giorno attraverso i quali i salotti altolocati vollero allora esprimere indignazione fino a reclamare per Isotta l’ostracismo perpetuo. Non capitano queste cose. A lui capitò. E la vicenda è ben nota. Fino a diventare nel tempo crosta e lo sa bene Paolo Mieli che quando arrivò alla direzione del Corriere, nel settembre del 1992 – felice di avere in organico Isotta, considerato un genio assoluto da Massimo Mila – non seppe spiegarsi il perché, poi, al netto delle pavloviane asprezze del cdr, di trovare una singolarità contrattuale escogitata apposta per il Reietto. Nell’articolo 1 di dipendente di Via Solferino, Isotta (che di sé dice: “Sono un impiegatuccio che dipende dal buon volere de’ superiori”) aveva una clausola che lo relegava a scrivere solo da Roma in giù. Capitano queste cose e non senza fatica, tra le complicazioni più assurde nel suo lavoro di direttore, muovendosi tra mille cautele, Mieli riuscì a liberare Paolo per ricavarne un grazie asciutto ed elegante, giammai sporcato da untuosità tipiche nel mondo dei giornali e ricevere infine – nel significare un legame indissolubile – una cartolina raffigurante l’Ampolla del Sangue Sacrissimo di san Gennaro. “Una delle pochissime cose”, racconta Paolo Mieli, “che non mi hanno mai abbandonato. E’ uno scatto realizzato nel momento in cui il sangue del Santo si liquefa. Questa cartolina, quasi uno scambio alla pari, la porto sempre con me: mi è stata d’aiuto nei miei momenti difficili”. Capita tutto sotto questo cielo ma non di essere abbandonati dai santi e san Gennaro, parlandone a proposito, ha in Paolo Isotta, che lo inonda di preghiere, qualcosa di più di un figlio devoto, oso dire un aiutante, al punto che Isotta, più dei degnissimi prelati, ne intuisce le intenzioni, coglie i segni e perfino le ire e sa condividerle quando poi il Santo trova insopportabili due personaggi presenti in città: Luigi De Magistris, il sindaco, e il cardinal Sepe. Tanto invisi a san Gennaro, i due, da rifiutarsi il Santo – come è effettivamente accaduto – di ripetere davanti a loro il miracolo della liquefazione nelle sante ampolle. Casa Isotta è come dire casa di san Gennaro. Il 27 ottobre del 1991, a Bari, prende fuoco il Teatro Petruzzelli. Passano gli anni e nel frattempo, in città, viene eletto sindaco Simeone di Cagno Abbrescia. Il regista di tutto però è Pinuccio Tatarella. E’ assessore alla Cultura e pensa bene di convocare Paolo Isotta a Bari per avere dei consigli non potendo averlo come sovrintendente. Per far sì che il Maestro arrivi senza l’incomodo di viaggi in pullman o in treno, Pinuccio chiede a Gennaro Sangiuliano, l’attuale vice-direttore del Tg1, di andarlo a prendere con la propria automobile e quando arriva davanti al portone di Isotta, Sangiuliano si sente dire: “Non sono solo”. “Nessun problema”, risponde Sangiuliano, “c’è posto in macchina”. Isotta rientra a casa per uscirne, subito, tenendo in braccio una statua a mezzobusto: “Il Santo viene con noi”. Sangiuliano non fa mostra di meraviglia quando Isotta colloca il mezzobusto sul divano posteriore, azzarda un’ipotesi: “Maestro, lo portate da un restauratore?”. Isotta trattiene un rimprovero: “Viaggiamo sempre insieme”. Sangiuliano annuisce e poi, chiamandosi Gennaro, trova un argomento. Gli racconta come ogni anno, per il compleanno, riceveva da nonno suo un piccolo busto del Santo. Strada facendo, all’altezza di Avellino, quando si fa ora di colazione, Sangiuliano svolta verso un rinomato ristorante, spegne il motore, fa per scendere e si sente dire: “Il Santo mangia con noi”. Gennaro pensa che Isotta si preoccupi dei ladri e perciò propone di parcheggiare a vista. Isotta lo fulmina: “Ma sei scemo, o sei cretino? Il Santo siede a tavola con noi”. Entrano dunque, si accomodano. E i coperti sono tre. I santi – forse per gareggiare di fronte a tanta devozione – hanno un debole per Paolo Isotta. E certamente il Poverello, “il più italiano dei santi, il più santo degli italiani”, per dirla con Benito Mussolini, apre il suo cuore alle preghiere di Isotta. E così tanti bravi cappuccini, come san Padre Pio di cui i fotografi, ancora adesso, ricordano la cautela con cui Isotta, intervistando Renata Tebaldi che del monaco di Pietrelcina era discepola fervente, fece staccare il vetro dal ritratto che la cantante teneva sul pianoforte affinché il flash, frangendosi con quel filtro, nello scatto non annullasse la presenza. Stravedono per lui, i santi. E lui che non frequenta certi cristianesimi da circo equestre ricambia senza lesinare omaggi. Come quando alla Basilica del Santo, a Padova, ogni offerta, a ogni angolo, sono pezzi di cinquanta e cento euro. Con grande meraviglia di Baldo Licata che si fece spiegare, un giorno, tutto quel faticare dei santi, sempre su e giù dal Paradiso alla terra, mentre tutti, tutti noi, stiamo sempre ai piedi di Pilato. Santi laboriosissimi, tutti, e non come questi sacerdoti alla moda che chiamano utenza e non gregge, la comunità dei fedeli; come nell’originaria tabe dell’ancora più grande circo equestre americano dove tutto è clientela. L’appestato e lo scugnizzo, dunque. Come nel 1978 al Corriere, così oggi. Luigi Brioschi, alla Longanesi, gli ha rifiutato un libro (ne parlerò più avanti) dicendogli: “Non è che non lo posso pubblicare, no. Non lo voglio pubblicare. Qui si offende la cultura, qui si sporcano i valori”. Ancora peggio è andata in Mondadori dove il no tonante è stato accompagnato da un’altra precisazione: “Non si pubblicano libri di chi si proclama amico di Marcello Dell’Utri!”. In Rizzoli, invece, come nella tradizione nobile dei Dino Campana (e ho detto tutto!), Paolo Isotta c’è andato ma senza portare con sé il libro, deliziando tutti nella casa editrice con cui pubblicò il suo bellissimo “Il ventriloquo di Dio”, con un aneddoto: le vicissitudini di Serenella. Del libro, che uscirà per Marsilio, ne dirò tra poco, intanto la storia di Serenella. E’ la moglie di Gaetanino, un musicista allievo di Paolo Isotta, che si presenta affranta al maestro portando una notizia tutta di dolore: “Gaetanino se n’è andato”. “Oh Gesù, è morto?”, risponde Isotta come preso di soprassalto. “No, ma che dite. S’è innamorato”. Isotta cerca un argomento di conforto: “Ma quello torna, Serenella mia. Sarà stata una sbandata per una zoccola…”. “Ma qua’ zoccola, Maestro… se n’è scappato… col gommista”. “Un articolo determinativo di gommista maschio?” domanda Isotta. La risposta è affranta: “Maschio, maschio… e quella non sarà una sbandata. Se ne resta col gommista. Pensate, Maestro mio, che pure io avevo necessità di farmi gonfiare le ruote, per fare una cosa civile ne volli parlare con lui, tenere la clientela dentro la parentela ma quello, niente! Mi ha detto: tu il gommista mio non l’avrai!”. C’è poi un’altra storia, anzi, un bozzetto. E’ il racconto di una brava cristiana addetta alla sorveglianza dei locali igienici allocati presso il cinema porno vicino alla Galleria Vittorio Emanuele. I frequentatori vi arrivavano per fare delle porcheriole e la buona donna, attenta affinché non ci fosse sovraffollamento, nel dare il via libera sgranava la coroncina del Rosario. Ma questa è una vicenda raccontata nel libro (di cui parlerò dopo). “Grazie per avermi rifiutato!”. Così, sorridendo, Paolo Isotta dice salutando gli amici suoi alla Rizzoli e siccome la forma è sostanza, lo scugnizzo prevale sempre su quella sua speciale malia che lo rende unico, di un’unicità che lui stesso sfida fino a toccare, dal grottesco all’odium humani generis, tutti i registri che gli derivano – io lo so – dall’uomo che lo ha marchiato per sempre: Luigi Pirandello. Firma nobile qual è del Corriere della Sera ha apposto a sé, a modo di medaglia, l’asterisco di persona non grata che gli accende addosso i riflettori della bestemmia inaudita: non avere niente a che spartire con questo tempo, figurarsi cosa possa avere da condividere poi con questa Italia essendo lui – coi suoi miliardi di difetti – il più complicato fiore di libertà nella palude fetida del nostro conformismo. Non ha paura di niente, l’asterisco. E’ uno che non si compra. Alla Scala non ne possono più perché magari suggerisce usi alternativi delle bacchette, perché trova periziabili le natiche di Roberto Bolle, perché quando scende nei cessi, “resi unisex”, intrattiene le signore in fila sulla praticità delle ritirate a parete, adatte ad affluenze rapide e igieniche, più di quanto possano esserlo i vasi. Per non dire di cosa dice a quelle che passano avanti adducendo la sola necessità di “bere”. Non si può dire. E non ne possono più perché Paolo Isotta dice tutto, soprattutto l’indicibile, come quando al momento di silenzio totale, quando il pubblico è appeso alla bacchetta del maestro, lui urla: “Evviva Tareq Aziz!”. E meno male che lo dice perché con la scusa che Papa Francesco è buono, ogni giorno, in Vaticano, cestinano le lettere di aiuto che il vicepresidente dell’ultimo Iraq legittimo, il cristiano Aziz, invia nella speranza che qualcuno lo vada a liberare. Non ne possono più – è una scienza particolare quella di amare Paolo – perché poi lui sa che ogni Croce è ben più pesante di quelle precedenti. E quel fatto di spiegare, come ha fatto nei suoi libri, nei suoi articoli, che la forma è sostanza, spesso lo induce a dichiarazioni come questa: “Non mi piacevo, è certo”. Io che forse lo conosco vi posso dire che Paolo Isotta è come un mondo. E’ tutto un mondo abitato da una persona sola nella cui testa – dove spesso urla Fana, la fantesca del “Berretto a sonagli” – abita ancora un altro mondo, sazio di cuore e bruciato d’amore, che è una distesa di sconfinata solitudine. E io lo conosco Paolino. Ricordo quando mi chiese: “Ma tu come stai di casa?”. Non capii ma poi capii, m’indicò il cavallo dei pantaloni, e feci una risata per nascondere l’imbarazzo su certe discussioni. Io lo conosco, dunque, e ogni volta che c’incontriamo mi trova sempre un poco punk e mi controlla le unghie per trovarmele sempre sporche e lunghe. E mi dice ciò che gli diceva sua madre: “Se la natura non ti ha fatto caruccio devi aiutarti a essere almeno sempre a posto”. Ecco. Non lo sopportano questo meraviglioso asterisco che è Paolo Isotta, sgradito a tutti, perché ognuno, innanzi a lui, si guarda le unghie e non può che dire: “Non mi piaccio, è certo”. Anni fa, proprio sul Foglio, nella rubrica delle lettere, a proposito di questioni di mi bemolle, dunque questioni complicate assai, venne insolentito da un musicologo che si rivolse al Maestro chiamandolo “la napoletana Isotta” per parlare infine di “mutande medianiche”. E’ sempre così con Paolo Isotta. Ognuno di noi, davanti a lui, singhiozza, bela e raglia.

Ciao Paolo Isotta, eri il principe della critica: l'amore per la Valle d'Itria. Musicista colto e raffinato, scrittore dallo stile brillante d'altri tempi. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Febbraio 2021. Da Napoli a Milano, da Bayreuth a Salisburgo, fino a Bari e alla adorata Valle d’Itria: Paolo Isotta, artista a tutto tondo e scrittore dalla prosa raffinata, era la punta di diamante della critica musicale europea, espressione di una cultura originaria e anticonformista. Sembrava sbarcato nell’Italia del Novecento da un mondo classico senza tempo. È morto all’improvviso ieri nella sua amata Napoli, nella casa del Corso Vittorio Emanuele, luogo in cui accoglieva gli amici più cari per cenacoli che spaziavano dalla mitologia alla politica, passando per cinema, costume e tradizioni. Aveva settant’anni.

Era figlio di un Sud che custodiva nella sua borghesia un lignaggio antico: Paolo, Paolino per i più intimi, era il figlio diletto di un avvocato civilista, studente modello del liceo classico Umberto di Napoli, e poi delle facoltà di Giurisprudenza e Lettere dell’Università Federico II. Allievo di Vincenzo Vitale per il pianoforte e di Renato Parodi e Renato Dionisi per la composizione, iniziò a insegnare giovanissimo al Conservatorio Francesco Cilea di Reggio Calabria, per poi diventare ordinario a Torino e a Napoli. Il Conservatorio «San Pietro a Majella» di Napoli lo aveva insignito del titolo di «professore emerito». Nel 1974 fu assunto da Indro Montanelli come critico musicale de Il Giornale e nel 1980 passò al Corriere della Sera: l’arrivo in via Solferino fu segnato dalla ignominiosa ostilità dei colleghi obnubilati da una ideologia partigiana, come raccontato con stile e distanza dal maestro Napoletano nel volume collettaneo C’eravamo tanto a(r)mati (Settecolori). Al Corriere ricoprì l’incarico di critico fino al 2015. Accanto al giornalismo non ha mai trascurato la scrittura, curando, insieme all’intellettuale Piero Buscaroli le collane Musica e Storia per Mondadori e La Musica per Rusconi. È stato anche presentatore su RaiTre della serie Grandi interpreti, dedicate al direttore d’orchestra rumeno Sergiu Celibidache. Con i sovrintendenti dei teatri aveva rapporti caratterizzati da franchezza e lealtà estrema, al punto da esprimere giudizi anche ruvidi su rappresentazioni e opere, ma non prima di averne ascoltato per ore prove ed esecuzioni. Politicamente era un fascista libertario, iscritto al Partito radicale. Dopo il Corsera, firmava articoli musicali e recensioni per Libero e per il Fatto quotidiano, riproponendo i suoi scritti sulla rivista digitale Barbadillo. Negli ultimi anni aveva dato alle stampe, con Marsilio, in nome di una affinità elettiva che lo legava a Cesare De Michelis, saggi profondi come La virtù dell’elefante, Altri canti di Marte, Il canto degli animali, La dotta lira. Ovidio e la musica, Verdi a Parigi (2020) e l’ultimo San Totò (in uscita in questi giorni). Nel 2017 gli è stato attribuito il Premio Isaiah Berlin alla carriera, mentre la Puglia lo aveva insignito nello stesso anno con il Premio Paisiello a Taranto. Amava la nostra regione, immancabile testimone dell’affermazione internazionale del Festival della Valle d’Itria, che viveva intensamente insieme ai luoghi della Puglia murgiana e adriatica, con una predilezione per Martina Franca e Ostuni. Ne tratteggia con queste parole la dimensione artistica Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e suo sodale nel Cattiverio: «Paolino? Va ricordato come Salvador Dalì o Carmelo Bene. Non abita in nessun album di figurine, ma solo nel pantheon di meravigliosi pazzi. Era un artista, ha incarnato l’arte viva, vissuta solo con se stesso». «L’Italia ufficiale non è in grado di capire uno come lui», chiosa con malinconia. Lo ricorda così Massimo Biscardi, sovrintendente del Teatro Petruzzelli di Bari: «Era il critico musicale più severo ma anche una guida dal punto di vista musicologico. Le scelte artistiche del teatro italiano devono a lui molto. È stato essenziale per la conoscenza in Italia di Richard Wagner, connessa al mondo ottocentesco italico. Quando ricercavo opere rare, neglette o mai messe in scena o dimenticate, gli inviavo la partitura per un suo giudizio. Come per l’Oediph di Enescu: solo dalla partitura riuscì a spiegarmi tutto il significato profondo di un’opera che venne in scena al Lirico di Cagliari». Il maestro salentino Francesco Libetta ne delinea la dimensione culturale: «L’Italia perde una preziosa coscienza della tradizione musicale. Un uomo di cultura classica (esattamente dannunziana: la cultura del Liceo Classico) che ha vissuto con bruciante coinvolgimento, tra disagio e generose illuminazioni, le trasformazioni della vita musicale nazionale alla fine del Novecento». Franco Chieco, decano dei giornalisti e dei critici musicali pugliesi, chiosa così: «Napoletano colto. È stato un punto di riferimento per la critica musicale italiana, uomo di cultura formidabile».

·        È morto Chick Corea, leggenda del jazz.

È morto Chick Corea, leggenda del jazz. Gianni Santoro su La Repubblica l'11 febbraio 2021. Tra i più grandi jazzisti del mondo, il pianista statunitense di origine italiana aveva 79 anni. Durante sessant'anni di carriera aveva suonato con fuoriclasse come Miles Davis e Herbie Hancock e aveva vinto 23 Grammy Award. È morto all'età di 79 anni Chick Corea, pianista statunitense leggenda del jazz. Vincitore di 23 Grammy, ha suonato con i più grandi jazzisti del mondo, da Miles Davis a Stanley Clarke. Origini italiane - all'anagrafe si chiamava Armando Antonio Corea -, l'artista è morto a causa di una rara forma di tumore che solo da poco tempo aveva scoperto di avere. La notizia della morte del grande artista è stata pubblicata sul suo profilo Facebook con un post che contiene anche il suo commiato, il ringraziamento a "tutti coloro che lungo il mio viaggio hanno contribuito a mantenere vivo il fuoco della musica" e un pensiero a chi gli è stato vicino. Corea aveva iniziato negli anni Sessanta accanto a esponenti della musica latinoamericana come Mongo Santamaria e Willie Bobo, prima ancora c'era stata la collaborazione con il trombettista Blue Mitchell mentre il primo album è del 1966, si intitola Tones For Joan's Bones e lo realizza in quintetto con Woody Shaw alla tromba e Steve Swallow al contrabbasso. Due anni dopo, si apre una prima porta d'ingresso tra i grandi del jazz, è l'album Now He Sings, Now He Sobs, Roy Haynes alla batteria e Miroslav Vitous al contrabbasso. La passione per la musica era nata durante l'infanzia, grazie al padre Armando J., da Albi, Catanzaro, che suonava la tromba in una formazione Dixieland negli anni Quaranta e che iniziò il figlio al pianoforte alla tenera età di quattro anni. Dal Massachusetts si spostò a New York per studiare musica in varie istituzioni accademiche che però mollò ben presto. In sessant'anni circa di carriera Corea avrebbe abbracciato numerosi generi musicali, non solamente nell'ampio spettro del jazz, ma coltivando parallelamente la passione per la musica classica e sviluppando così uno stile unico e insieme completo, con il pianoforte ma anche con tastiera elettrica, a proprio agio accanto a Herbie Hancock, Gary Burton e Michael Brecker ma anche con Bobby McFerrin o Pat Metheny.

Verso la fine degli anni Sessanta, poco prima di avvicinarsi per la prima volta alle letture di Ron Hubbard e quindi a Scientology, l'incontro che cambierà definitivamente la carriera: entra a far parte del gruppo di Miles Davis e partecipa alla realizzazione di album storici come In a Silent Way e Bitches Brew. "Con lui c'è stato l'apprendistato definitivo", dichiarò Corea, "ero un apprendista accanto a Miles. Lo eravamo tutti, l'intera band. Quando sono entrato nel gruppo, nel 1968, tutti quelli che suonavano con Miles non facevano altro che imparare da lui. Uno dei suoi primi pianisti era stato Horace Silver, che è stato un mentore per me. Ho avuto gli insegnanti migliori e sono stato fortunatissimo di avere avuto la possibilità di fare queste esperienze. Miles era il miglior insegnante silenzioso, solo poche parole e una dimostrazione alla tromba di quello che voleva". Il primo Grammy Award lo vinse nel 1976 per l'album No Mystery della sua band Return to forever, considerata tra le più importanti del genere jazz-fusion e nata dall'incontro di Corea e Clarke con Airto Moreira e Flora Purim e poi soggetta a numerosi cambi di formazione. L'ultimo se lo è aggiudicato un anno fa, nel 2020, nella categoria dedicata ai migliori album di musica jazz latina, con Antidote, registrato insieme alla Spanish Heart Band. Nel 2001 anche un riconoscimento per la versione per sestetto e orchestra della sua Spain, tra le composizioni più note, risalente al 1971 e contenuta poi nell'album dei Return to forever Light as a Feather, tra i più apprezzati della sua lunga discografia. Già nella storia per il maggior numero di Grammy vinti in ambito jazz, potrebbe aggiudicarsene anche due postumi perché è candidato nell'edizione 2021 dei premi in due categorie: miglior solo jazz improvvisato per All Blues e miglior album strumentale per Trilogy 2. Nel 1993 Corea fu omaggiato anche da Pino Daniele che lo volle al suo fianco per una nuova versione di Sicily, brano inciso negli anni Ottanta da Corea che il cantautore partenopeo volle inserire nel suo album Che Dio ti benedica e che poi vinse una Targa Tenco. Pino Daniele e Corea avevano già diviso il palco anche in occasione del concertone del Primo Maggio nel 1992. Nel 2016, in occasione di un concerto a Napoli, Corea si rivolse al pubblico con queste parole: "C'era un grande musicista con cui tanti anni fa ho registrato una canzone speciale. E allora stasera, suonandola, la dedico a lui. Dedico a Pino Daniele la nostra Sicily". In Italia aveva collaborato anche con Stefano Bollani, con il quale aveva inciso l'album Orvieto nel 2011, registrazione di un'esibizione in coppia a Umbria Jazz Winter Festival del 2010, ma già nel 2009 avevano suonato insieme in giro per l'Italia. E proprio a Umbria Jazz era prevista una nuova data insieme, fissata per il 10 luglio 2021. E Corea era ancora sul palcoscenico anche lo scorso ottobre, quando si era esibito a Clearwater, in Florida, dove abitava da anni, per un programma di piano solo che andava "da Mozart a Monk" ispirato al suo album più recente, Plays, in cui spaziava da Scarlatti e Gershwin a Stevie Wonder, senza preoccuparsi di categorie ed etichette come aveva fatto in tutta la sua incredibile carriera. "La mia missione è sempre stata quella di portare la gioia di creare ovunque potessi", si legge nel messaggio affidato alla famiglia e diffuso dopo la sua scomparsa, "e averlo fatto con tutti gli artisti che ammiro tanto, questa è stata la ricchezza della mia vita".

Marco Molendini per Dagospia il 12 febbraio 2021. Il tocco per un pianista è come la voce per un cantante. E' l'identità, il segno del rapporto con il proprio strumento. Questione impercettibile di tempo, energia e misura sui tasti. I grandi pianisti hanno un tocco sublime e sublime era il tocco di Armando Chick Corea, talento superbo che se ne è andato all'improvviso, bruciato da un cancro fulminante a 79 anni dopo un anno passato chiuso in casa nell'isolamento della pandemia, isolamento rotto solo dai suoi regolari e avvincenti appuntamenti su Facebook. Se ne è andato con un messaggio postumo, pubblicato sul suo sito: «La mia missione è stata sempre quella di portare dovunque ho potuto la gioia di creare. Averlo potuto fare con i musicisti che ammiro è stata la ricchezza della mia vita». Addio Chick, per fortuna restano i suoi tantissimi dischi e resta il segno profondo che ha lasciato nella memoria. Dal primo disco in trio, Tones for Joan bones, già prepotente dimostrazione di personalità e talento, alle tante avventure della sua vita musicale: con Miles Davis, con Mozart, con le sue travolgenti rumbe, con le scorribande latine (la famosa Spain), con le avventure solitarie (è stato il primo, prima ancora di Jarrett e del suo Koln concert, a lanciare le cavalcate per solo piano), con il gruppo fusion Return to forever, con i mille incroci. I Corea sono stati tanti: dottor Chick e mister Armando, l’americano e l’italiano (di famiglia calabrese), il pianista che amava le atmosfere acustiche e il tastierista elettrico, il solista raffinato e il narciso incontinente. Il musicista concreto e sognatore e il seguace fedele di Scientology («che mi ha dato forza e vigore fin dagli anni 60»). Non a caso, nella sua carriera è uno dei jazzisti che più hanno praticato il terreno del duetto: con Herbie Hancock, con Stefano Bollani che non sapeva neppure chi fosse quando lo ha incrociato a Umbria jazz winter per poi restarne incantato, con il vibrafonista Gary Burton, con il giocoliere della voce Bobby McFerrin, con il pianista classico Fredrich Gulda, con la vulcanica giapponesina Hiromi, con il cantautore americano John Mayer, per dirne qualcuno. Ma il primo incontro lo ha fatto a 15 anni, con Cab Calloway, l’esuberante performer che animava il celebre Cotton Club con il suo hit He de ho. «Andavo ancora al liceo – mi aveva raccontato Chick in una intervista fatta anni fa-, e mi chiamarono per suonare con lui al Mayfair hotel di Boston. Cab era divertente». La vera svolta è alla fine degli anni 60, un disco formidabile, Now he sings now he sobs, che lo ha imposto all’attenzione generale per originalità e personalità, poi l’incontro folgorante con Miles Davis. «È stato il mio mentore. Fino ad allora ero un purista. Amavo il jazz, ascoltavo classica, ma non rock o pop. E’ stato lui a chiedermi di suonare il piano elettrico nelle session di Filles de Kilimanjaro nel 1968 e poi In a Silent Way nel 1969. All’inizio non mi piaceva, sentivo un brutto suono. Poi ho cominciato a divertirmi» La sua vita con Miles è cambiata: «Ho scoperto l’energia del rock e come i giovani della mia generazione venivano catturati da quella comunicazione così viscerale». Da allora è diventato uno dei riferimenti del jazz rock, con band come i Return to forever e poi l’Elektrik band che hanno contribuito enormemente alla sua popolarità (il medagliere conta 23 premi grammy). Corea lo ho sempre amato e spesso mi ha fatto arrabbiare, come quando indulgeva dimenticando il suo superbo talento in un piacionismo di scena. Ma il suo splendido tocco poi riusciva a smorzare l'indignazione. Mi ha fatto anche preoccupare, era un giorno degli anni '80 nella mia unica avventura di organizzatore di concerti assieme ai miei colleghi e amici Paolo Zaccagnini e Fabrizio Zampa. Un altro amico, Isio Saba, fotografo, acc0mpagnatore di jazzisti e di giocatori di pallavolo, mi telefonò: «Marco, ho Chick Corea, è un'occasione, ma non so dove farlo suonare. Dammi una mano e lo facciamo assieme». Chick era al massimo della popolarità. Coinvolgo Paolo e Fabrizio, troviamo il teatro, l'Olimpico, convinti di fare un gran concerto e poi di guadagnare anche qualcosa. Affittiamo il piano, un gran coda Steinway, l'amplificazione, facciamo un po' di pubblicità. Siamo già sotto di parecchio, ma il pubblico si prenota a frotte. Tutto esaurito e decidiamo di fare un secondo concerto di pomeriggio, altrimenti non si rientra con le spese. Altro esaurito. Gran concerto, gran successo: facciamo i conti, andiamo pari. Ma che fatica. Non ho mai più pensato a organizzare un concerto e così Paolo e Fabrizio.

·        E’ morto il re del porno Larry Flynt.

Larry Flynt è morto a 78 anni, era stato il re delle riviste porno. Fra i suoi giornali di successo l’Hustler Magazine. Fu protagonista di numerose battaglie legali negli Usa per la libertà di espressione, viveva su una sedia a rotelle dopo un attentato subìto nel 1978. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera l'11/2/2021. Larry Flynt, editore della rivista pornografica Hustler Magazine, è morto a Los Angeles all’età di 78anni per un arresto cardiaco . La notizia è stata data dal fratello al Washington Post. Viveva su una sedia a rotelle in seguito alle ferite riportate in un attentato che lo ha reso paraplegico nel 1978. Il serial killer neonazista Joseph Paul Franklin confessò anni dopo di essere l’autore dell’attacco. La vita di Larry Flynt è stata raccontata nel film «Larry Flynt oltre lo scandalo», diretto da Miloš Forman e co-prodotto da Oliver Stone. Nato da una famiglia indigente in Kentucky il primo novembre del 1942, ebbe un’infanzia e un’adolescenza complicata, anche a causa della separazione dei genitori. A 15 anni si arruolò come volontario nell’esercito utilizzando documenti contraffatti e dopo il congedo si arrangiò con vari lavoretti e per un periodo si guadagnò da vivere come contrabbandiere. Nel 1965 rilevò il bar della madre a Dayton, in Ohio, poi ne acquistò altri due e aprì poco dopo il primo “Hustler club”, bar che offriva spettacoli di ballerine nude, a cui ne seguirono altri, sempre con la stessa formula, in altre città americane. Era il preludio alla carriera di editore . Nel 1972 infatti fondò la Hustler Newsletter, una rivista di quattro pagine in bianco e nero col programma e i servizi dei suoi club, presto ampliata prima a 16 e poi a 32 pagine e pubblicata a colori. Il giornale aveva infatti un grande successo. Quando i locali entrarono in difficoltà economica per la crisi del 1973, Larry Flynt decise di trasformare l’Hustler in una rivista per adulti, con foto esplicite di donne nude. Il grande successo arrivò nel 1975, quando pubblicò le foto acquistate da un paparazzo (per meno di 20 mila dollari) di Jaqueline Kennedy Onassis che prendeva il sole nuda in una vacanza del 1971. Osteggiato da una parte dell’opinione pubblica, Larry Flynt fu citato varie volte in tribunale. Il 6 marzo del 1978 subì l’attentato che gli cambiò la vita. Si trovava nei pressi dell’aula giudiziaria di Lanceville, Georgia, dove era sotto processo per oscenità, quando fu colpito da alcuni colpi di arma da fuoco calibro 44 riportando gravi ferite all’addome e alla spina dorsale, che gli causarono una paralisi parziale negli anni complicata dagli effetti di un ictus. Il serial killer neonazista e suprematista bianco Joseph Paul Franklin, ex membro del Ku Klux Klan, anni dopo si attribuì la paternità del tentato omicidio, sostenendo di essersi sentito oltraggiato da alcune foto “interrazziali” pubblicate su Hustler. Franklin fu giustiziato il 20 novembre 2013 per alcuni omicidi a sfondo razziale ma non fu mai processato per l’attentato a Flynt. Sposato 5 volte, Flynt aveva cinque figli. Nella vita imprenditoriale, che lo aveva portato ad accumulare un patrimonio personale di oltre 400 milioni di dollari, ha diviso le avventure insieme al fratello e socio Jimmy, con attività che hanno spazio dall’editoria al gioco d’azzardo (con gli Hustler Casino), dall’intrattenimento ad alcuni investimenti immobiliari. Elettore democratico, si candidò alle primarie per le presidenziali senza successo nel 1984. Ha partecipato spesso al dibattito politico minacciando di svelare scandali sessuali di esponenti della scena pubblica. E’ stato varie volte citato in tribunale per il contenuto delle pubblicazioni e spesso criticato dai movimenti femministi e di difesa dei minori. Strenuo oppositore di Donald Trump, aveva offerto 10 milioni di chi avesse prodotto le prove per l’impeachment dell’ormai ex presidente americano.

Usa: morto Larry Flynt, il re del porno nemico di Trump. Il fondatore di "Hustler" è deceduto a Los Angeles in seguito a una crisi cardiaca, aveva 78 anni. La Repubblica il 10 febbraio 2021. Larry Flynt, fondatore ed editore della famosa rivista a luci rosse "Hustler", è morto a Los Angeles a 78 anni. Lo riporta il sito Tmz. Paralizzato dalla vita in giù a causa di un tentato omicidio nel 1978, Flynt è morto per problemi cardiaci. Il "re del porno" si era fatto conoscere per una serie di battaglie legali ispirate alla difesa della libertà di espressione, intendendo per questo anche la pornografia. Era stato spesso ai ferri corti con la destra religiosa e una volta aveva fatto causa al televangelista Jerry Falwell in un caso arrivato fino alla Corte Suprema. Quattro anni fa, dopo l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, aveva lanciato la sua ultima sfida: aveva offerto 10 milioni di dollari "in contanti" a chi avesse fornito prove sufficienti per avviare la procedura di impeachment e cacciare il presidente dallo Studio Ovale. Su Trump aveva prodotto anche un film pornografico-parodia "The Donald". La vita del più celebre editore di riviste pornografiche è stata raccontata nel 1996 nel film "Larry Flynt - Oltre lo scandalo", diretto da Milos Forman, in cui l'editore è interpretato da Woody Harrelson mentre lo stesso Flynt si concedeva un cameo autoironico nei panni di un giudice impegnato a censurare le sue attività. Convinto sostenitore e finanziatore dei democratici, il miliardario editore non era nuovo ad iniziative clamorose. Come quando nel 1998 scese in campo in difesa di Bill Clinton, travolto dallo scandalo di Monica Lewinsky, e offrì soldi a chi avesse svelato storie di tradimenti dei leader repubblicani. Ne fece le spese un senatore. Poi nel 2011 prese le parti di Anthony Weiner, il marito dell'assistente personale di Hillary Clinton costretto a dimettersi dal Congresso per le foto hard inviate a minorenni. Flynt gli offrì un posto di lavoro nel suo impero a luci rosse con un salario più alto di quello di parlamentare.

Da "la Stampa" l'11 febbraio 2021. Larry Flynt, fondatore ed editore della rivista a luci rosse "Hustler", è morto a Los Angeles a 78 anni per problemi cardiaci. La notizia è stata data dal fratello al Washington Post. Viveva su una sedia a rotelle in seguito alle ferite riportate in un attentato che lo ha reso paraplegico nel 1978. Il serial killer neonazista Joseph Paul Franklin confessò anni dopo di essere l' autore dell' attacco. Il "re del porno" si era fatto conoscere per una serie di battaglie legali ispirate alla difesa della libertà di espressione, intendendo per questo anche la pornografia. Era stato spesso ai ferri corti con le femministe e la destra religiosa e una volta aveva fatto causa al televangelista Jerry Falwell in un caso arrivato fino alla Corte Suprema. Quattro anni fa, dopo l' elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, aveva lanciato la sua ultima sfida: aveva offerto 10 milioni di dollari "in contanti" a chi avesse fornito prove sufficienti per avviare la procedura di impeachment e cacciare il presidente dallo Studio Ovale. Nato da una famiglia indigente in Kentucky il primo novembre del 1942, ebbe un' infanzia e un' adolescenza complicata. A 15 anni si arruolò come volontario nell' esercito usando documenti contraffatti e dopo il congedo si arrangiò con vari lavoretti, tra cui il contrabbandiere. Nel 1965 rilevò il bar della madre a Dayton, in Ohio, poi ne acquistò altri due e aprì poco dopo il primo "Hustler club", bar che offriva spettacoli di ballerine nude, a cui ne seguirono altri, sempre con la stessa formula, in altre città americane. Era il preludio alla carriera di editore che iniziò nel 1972. Flynt è stato sposato cinque volte. Il suo matrimonio più duraturo è stato con la quarta moglie, Althea (dal 1976 fino alla sua morte nel 1987). Ha sposato Elizabeth Berrios, nel 1998 e ha cinque figli. La vita di Larry Flynt è stata raccontata nel film «Larry Flynt oltre lo scandalo», diretto da Milo Forman e co-prodotto dal regista Oliver Stone.

Lutto negli Usa. Chi era Larry Flynt, l’imprenditore dell’hard morto a 78 anni che aveva messo una “taglia” su Trump. Massimiliano Cassano su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. È morto a Los Angeles all’età di 78 anni Larry Flint, fondatore ed editore della rivista a luci rosse Hustler, grazie alla quale aveva ottenuto enorme notorietà che aveva deciso di incanalare in battaglie a favore della libertà di espressione negli Stati Uniti e contro Donald Trump. Aveva costruito la sua ricchezza anche attraverso diversi strip club e sex shop, e grazie ai canali televisivi Hustler TV e Hustler Casino. Si è spento per “complicazioni cardiache”, ma dal 1978 era paralizzato dalla vita in giù dopo essere stato vittima di un tentato omicidio durante un processo a suo carico in Georgia. Convinto sostenitore dei Democratici, Flynt fece spesso parlare di sé per iniziative particolarmente schierate in ambito politico. Nel 1998, ad esempio, difese l’allora presidente Bill Clinton travolto dallo scandalo di Monica Lewinsky, e offrì un milione di dollari in cambio di prove o testimonianze contro politici repubblicani da pubblicare su The Hustler Report. Più recentemente ha fatto scalpore la sua iniziativa del 2017 contro Donald Trump: una “taglia” da 10 milioni di dollari come ricompensa a chiunque avesse offerto elementi in grado di portare all’impeachment dell’ormai ex presidente degli Stati Uniti. Il suo fiore all’occhiello, la rivista Hustler, ebbe molto successo sin dalle sue prime pubblicazioni nel 1974. I suoi contenuti erano parodici e satirici, ma spesso erano ritenuti controversi, oppure esplicitamente volgari e violenti. Per questa ragione, durante tutta la sua carriera da editore Flynt ha dovuto affrontare numerose cause per oscenità e accuse di diffamazione, sia da parte dei sostenitori dei diritti civili, sia da parte dei movimenti religiosi e femministi. Si è sempre difeso invocando la libertà di espressione e di stampa, riuscendo a vincere anche alcune grosse cause. È stato anche il produttore di “The Donald”, un film-parodia in chiave pornografica sul presidente Usa. La sua vita ispirò a sua volta il film del 1996 “Larry Flynt – Oltre lo scandalo” diretto da Milos Forman e con protagonista Woody Harrelson. Flynt lascia la moglie Elizabeth Berrios, il suo quinto matrimonio, e 6 figli.

Barbara Costa per Dagospia l'11 febbraio 2021. Larry Flynt, non t’ho mai detestato come in questo momento, che mi fai scrivere 'ste righe del cazzo in cui dovrei trovare il modo di dire chi tu sei, anzi, chi tu sei stato. Ti odio, Larry, perché m’hai fatto la più grossa bastardata che ti potesse riuscire, quella di morire. Tu che sei resistito a tutto, alla guerra mondiale, alla corte marziale, alla giustizia americana, ai suoi tanti processi, di più, a quell’attentato, a quelle pallottole che ti hanno mandato in coma, reso paraplegico, impotente, (quasi) finito. 43 anni su una sedia a rotelle, dolori allucinanti, e fino a quella operazione miracolosa che ti ha tolto ogni vita dalla vita in giù, compreso il vigore sessuale. A te, Larry, tra i più grandi pornografi che Dio ha fatto la grazia di mandare sulla Terra, tu, Larry, che non eri solo pornografia, eri un sistema di vita, tu che eri contro tutti, tu sempre in prima linea, tu, da solo, tu e su quel piatto ogni volta a ogni sfida a puntare tutto, e tutto il resto al diavolo. Oh Larry, vaffanculo, morire così, all’improvviso, per un infarto, come uno stronzo qualsiasi, tu, Larry, che dovevi morire da eroe, tu che non dovevi morire, per me, stupida, a pensarti eterno, indistruttibile. E tu, lettore, vaffanculo pure tu, che non ci stai capendo nulla di quello che ti sto dicendo, e c’hai ragione: come cavolo faccio a raccontarti di Larry, io che di Larry ho sempre parlato ore (sto usando il passato, cristo, Larry, ti rendi conto!?), logorroica, mai stanca di narrare le sue mille porno imprese, io, che se devo qualcosa a qualcuno, la devo a Larry Flynt? Senti, lettore, dimmelo subito: hai mai visto il film di Miloš Forman "The people vs. Larry Flynt"? No!? Ma che cazzo aspetti!? Dì un po’: hai mai sentito parlare, magari sfogliato, intravisto in rete, pagine della porno rivista "Hustler"? No!? Vabbè, senti, 'sto troppo fuori per incazzarmi con te, facciamo così, ti dico così, ti dico che Larry una volta si è scopato un pollo. Sì, ti giuro, un pollo vivo, un pollo non consenziente, è un reato gravissimo, lui era un ragazzino, stava ancora in un buco sperso nel nulla del natio Kentucky. Non ci credi, eh? Chi lo sa se è vero, o se è una delle buffonate che Larry diceva, io ti dico questo, che lui, nella sua magione, conserva una riproduzione in oro del… "misfatto". Sai, non è facile far conoscere Larry a chi è di Larry digiuno. Lui ha fatto anche alcuni porno-guai, e però tutti – tutti! – dobbiamo riconoscergli questo: ci ha reso più liberi. Con le sue battaglie sociali, processuali, contro la bigotteria della sua America e di tutto l’Occidente, ci ha reso migliori. Pare assurdo, ma è così, e questa è la più grande, preziosa eredità che Larry ci lascia. Lui si batteva affinché non ci fosse limite a ciò che si pubblica. Perché non ci deve esser limite a ciò che ogni adulto consapevole vuole leggere, scrivere, ascoltare, filmare, guardare. Perché non ci deve esser divieto in ciò che ognuno – uomo, donna, o qualsiasi genere si senta di appartenere, anche a nessuno – è. E tutto nel rispetto della legge, nel rispetto di quel Primo Emendamento che ci rende socialmente liberi e responsabili di quello che facciamo. Perdio, Larry, ma quante volte m’hai sbattuto al muro? Quante volte m’hai messo di fronte ai miei limiti, spaccato i miei tabù, quante volte m’hai messo alla prova? Quanto m’hai svegliato? Quanto cazzo ti devo, quanto sono in debito con te? A te bastava niente a buttare all’aria ogni mia illusoria certezza. Larry, tu hai reso migliori tutti i bigotti che in vita ti hanno avversato, e che oggi ballano all’idea che tu stia all’Inferno. Larry, a te, per averla vinta, su di me, sugli altri, su chiunque, bastava una foto. Te la ricordi, la prima? Quando ti eri messo in testa di dare del filo da torcere a Hefner e al suo "Playboy", fotografando una vagina spalancata. Volevi quel clitoride, volevi che chi guardasse quella foto provasse la voglia insana di vederlo, davvero, e di leccarlo, davvero, di sentirsi sozzo a toccare quelle pagine. Era il 1974. E il fotografo che non scattava, che aveva paura di finire in galera, e allora quelle foto le hai scattate tu. Quel sesso aperto, esibito, su "Hustler", fruttò "solo" la prima retata, la prima denuncia, la prima condanna. Larry, com’è che hai gridato, in quell’aula di tribunale, all’ennesima condanna per oscenità? “'Fanculo questa Corte, non siete nient’altro che 8 stronzi, e una fica a gettoni!!!”. Così ti condannarono pure per oltraggio, e tu ti presentasti all’udienza con una bandiera americana a mo’ di pannolone. Larry, come faccio a far capire a 'sti parrucconi moralisti rinati ultimamente, a 'sti morti viventi, buoni solo a belare ovvietà, che non c’è limite alla libertà d’espressione? Che ci devi avere due palle così per metterti contro la società per un ideale, e solo per quello, e non per pubblicità, soldi (quelli Larry, non ti sono mai mancati, e tutti grazie al porno), i social che negli anni '70 manco esistevano? Mettersi contro tutti, per riceverne insulti e fango, e poi, quando vinci, rifiutare orgoglioso gli elogi falsi, ipocriti, di chi fino al giorno prima ti considerava feccia? Per te, Larry, che essere feccia era il massimo complimento. Tu, Larry, che ogni dollaro te lo sei guadagnato. Aiutami, Larry, a dire che non c’è limite, all’arte della pornografia, e che se si mette in copertina la foto del corpo di una donna infilato in un tritacarne, non è contro le donne, tutto il contrario, è contro quello che la società impone alle donne, maciullandole nella loro insita libera identità? E che se è contro qualcuno è contro ogni forma di femminismo che le donne le ingabbia in una diversa, impalpabile, catena? Larry, ma quanto ce l’avevano, le femministe, con te! Ti volevano sbranare! È spiegabile la provocazione? O solo a tentare di farlo le si toglie valenza, e la si depotenzia? Parliamo di politica, Larry? Donald Trump è stato il tuo ultimo chiodo fisso, volevi cacciarlo dalla Casa Bianca col tuo usuale metodo: un milione di dollari, puliti, non esentasse, a chiunque abbia stra-provate informazioni che danneggino il Presidente. Con Trump non ti riuscì, Larry, ma con politici minori per anni sì: nessuno è vergine in politica, tutti hanno unti scheletri nell’armadio, e di più i politici che sfoggiano rettitudine. Alcuni – coi tuoi sesso-scoop – li hai smutandati e portati alle dimissioni. Ti ricordi, Larry, quando hai abbonato a tue spese l’intero Congresso americano a "Hustler", e così ogni senatore, ogni deputato, ogni mese riceveva il tuo giornale porno, e ti portarono in tribunale niente meno che contro il ministero delle Poste? E come ci rimasero di merda alla tua vittoria, non mi ricordo per quale cavillo, per cui era lecito che tu, da cittadino e da elettore, mostrassi a chi in politica ti rappresenta, l’onesto tuo lavoro su cui paghi le tasse che lo stipendio di quei politici ingrassa? Ma quanto eri pazzo, Larry, e quanto il più adorabile? Ti ho visto l’ultima volta mesi fa, in piena pandemia, sulla tua carrozzina d’oro, che inauguravi un tuo nuovo porno-store, e a una giornalista sprovveduta che ti ha chiesto se avessi remore “a vendere roba sporca”… hai risposto con una piazzata delle tue, urlando contro il sindaco e i suoi amministratori, loro sì davvero colpevoli di sporcizia “basta guardare allo stato pietoso in cui tengono i marciapiedi!” E quella giornalista, coda tra le gambe e pive nel sacco… Oh, Larry, quanto mi piacerebbe, vederci così giornalisti italiani campioni di leccaculaggine! Capezzoli seviziati. Le piaghe di un paralitico (le tue). La figurazione di un (finto) stupro. Donne al guinzaglio. Portate a fare la pipì dagli uomini. Un busto sottoposto a mastectomia. I genitali appena recisi a una trans. Sul tuo "Hustler", Larry, hai fatto vedere tanto, e pure questo. Anche deridendolo, anche offendendolo. Ce ne vorrà, per riconoscertene merito. Un nemico, puoi combatterlo senza guerre, morti ammazzati, sangue. Basta una immagine. Ma che sia porno. Il più basico, il più crudo. Che sporchi gli assi della società. Sfidare il perbenismo. Dissanguare il puritanesimo. Mandare in vacca ogni pio valore. Si può fare. Pagandone il prezzo. Tu lo hai fatto, Larry Flynt. Con tutta l’intelligenza, il sano cinismo, lo sfizio di disturbare, spudorato, che c’era nella tua mente. Larry, siamo circondati da codardi. Tu gliel’hai messa nel culo. L’ipocrisia non può sempre vincere. 

·        E’ morto il politico George Shultz.

Massimo Gaggi per corriere.it l'8 febbraio 2021. Quello di George Shultz, scomparso all’età di 100 anni, è un nome che sicuramente non dice nulla non solo ai giovani ma anche alla gente di mezza età, del quale anche gli anziani faticheranno a ricordarsi, visto che la sua attività di governo si concluse nel 1989. Eppure Shultz è stato per almeno vent’anni un pilastro della politica americana sul piano economico (ministro del Lavoro, del Bilancio e poi del Tesoro nell’amministrazione Nixon) e della politica estera (il segretario di Stato di Ronald Reagan che pilotò il riavvicinamento delle relazioni tra gli Stati Uniti e un’Unione Sovietica avviata verso la dissoluzione). Ma è stato anche — cosa allora assai poco notata ma essenziale per quello che abbiamo visto accadere nel crepuscolo dell’era Trump — un ferreo difensore della tenuta delle istituzioni democratiche durante la crisi del Watergate. Se Nixon, messo davanti alle sue gravi responsabilità in quello scandalo politico, fu costretto a rassegnare le dimissioni senza tentare forzature, lo si dovette a vari fattori: la forza e il coraggio di una stampa allora molto autorevole, la tenuta dei parlamentari repubblicani in Congresso decisi a difendere il loro presidente ma non fino al punto di chiudere gli occhi davanti alla prova di suoi comportamenti criminali, ma anche l’equilibrio e la dirittura morale di un uomo, Shultz, che impose a Nixon di dire tutta la verità sull’attività clandestina condotta contro il partito democratico. Anche al fianco di Reagan, Shultz ebbe la forza di far prevalere il suo senso morale rispetto alla convenienza politica quando affrontò il presidente chiedendogli, a differenza di quanto gli suggerivano altri consiglieri, di non nascondere più le nefandezze dell’affare Iran-Contras. In economia, negli anni Settanta, Shultz contribuì al piano Nixon che portò al superamento del sistema monetario che era stato creato a Bretton Woods alla fine della Seconda Guerra mondiale, con lo sganciamento del dollaro dall’oro. Da ministro del Lavoro, poi, varò le prime, timide, tutele assistenziali e garanzie sui minimi salariali. Negli anni Ottanta, da capo della diplomazia Usa, fu il primo a capire che Gorbaciov era diverso dai leader sovietici che l’avevano preceduto e a convincere Reagan ad adottare una linea di dialogo più flessibile con Mosca. Ma anche dopo il suo ritiro dalla politica attiva, da studioso che viveva nell’università di Stanford, George Shultz ha svolto un ruolo attivo di «saggio». Fu lui ad esempio, nel 1998, a far conoscere a George Bush personaggi dello spessore intellettuale di Condoleeza Rice che sarebbero poi diventati elementi chiave della sua amministrazione, una volta divenuto presidente nel 1990. Gli anni recenti sono, invece, stati segnati da uno scivolone: insieme a Kissinger e ad altri grandi personaggi, offrì la sua credibilità a sostegno della Theranos, una società che sembrava aver scoperto un modo rivoluzionario di testare il sangue e che, invece, si rivelò un’impresa truffaldina.

·        E’ morto lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière.

Marco Giusti per Dagospia il 9 febbraio 2021. Il Novecento e il cinema perdono una delle loro voci maggiori. Jean-Claude Carrière, che si è spento a Parigi a 89 anni, non è stato solo uno dei più grandi sceneggiatori e scrittori del Novecento, l’unico in grado di passare da Luis Buñuel a Milos Forman, da Louis Malle a Volken Schlöndorff, da Jean-Luc Godard a Philippe Garrel, da Nagisa Oshima a Marco Ferreri, da Andrzej Wajda a Hector Babenco, da Peter Brook a Patrice Chéreau, da Julian Schnabel a Shirin Neshat, ma anche uno dei pochissimi in grado di poter far parlare i grandi personaggi di Rostand, Flaubert, Darien, Mirabeau, Kundera, Apollinaire, Schnitzler. Ma anche Van Gogh, Goya o Danton. Chiunque altro, penso, si sarebbe sentito in soggezione. Vinse un Oscar per un cortometraggio girato assieme a Pierre Etaix nel 1962, “Heureux anniversaire”, uno alla carriera nel 2015, e ebbe tre nomination per i capolavori di Buñuel “Il fascino discreto della borghesia”, “Quell’oscuro oggetto del desiderio” e il bel film di hilip Kaufman “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Vinse quattro Bafta per la sceneggiatura di “Cyrano” di Jean-Paul Rappenau, “Taking Off” di Milos Forman, “Il fascino disecreto” e “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. “Vorrei dire qualcosa sul fatto che questo Oscar va a uno sceneggiatore”, disse quando venne premiato con l’Oscar alla carriera. “Sono molto felice di questo, perché molto spesso gli sceneggiatori vengono dimenticati, o ignorati. Sono come ombre che attraversano la storia del cinema. I loro nomi non compaiono nelle recensioni. Molto triste. Ma ancora, sono registi. Ecco perché stasera vorrei condividere questa statuetta inestimabile con tutti i miei colleghi, quelli che conosco, quelli che non conosco, da tutto il mondo. Quindi vi ringrazia tutti”. Nato a Colombières-sur-Orb, Hérault, nel 1931, voleva scrivere fumetti, adorava il cinema muto di Buster Keaton. Scrive delle gag per Jacques Tati che gli apre la porta per il cinema e si lega a Pierre Etaix, comico e regista che sogna un ritorno alla comica muta. Con lui filma piccoli capolavori, come “Io e le donne”, “Yo Yo”, il corto che gli fa vincere l’Oscar. Poco dopo incontra Luis Buñuel per la sceneggiatura di “Diario di una cameriera”, e diventa l’autore di tutti i film francesi di Don Luis, da “Belle de jour” a “La via lattea”, da “Il fascino discreto della borghesia” a “Quell’oscuro oggetto del desiderio”. Da parte sua presenta la sua amica Delphine Seyrig al maestro e lui ne fa una delle sue muse. Del suo lavoro con il sordissimo Buñuel diceva: “Ha detto che lavorava con me perché capiva la mia voce. Tutto quello che ho detto era una sciocchezza, ma almeno ha capito”. Ma Don Luis era sordo solo quando voleva, si sa. Soprattutto per non sentire sciocchezze. Inutile dire che la collaborazione con Buñuel e con Etaix lo portano al grande cinema europeo degli anni ’60 e ’70. Collabora con Louis Malle per “Viva Maria!”, il bellissimo “Il ladro di Parigi” con Belmondo. Collabora con Jacques Deray per “La piscina”, “Borsalino”, “Funerale a Los Angeles”. In Francia lavora un po’ per tutti, da Alain Corneau per “France Societé Anonyme” a Daniel Vigne per “Le retour de Martin Guerre”, che gli farà vincere un César, da Jean-Paul Rappenau per una grande riduzione del “Cyrano” di Rostand con Depardiéu protagonista a “L’ussaro sul tetto” al Jean-Luc Godard di “Passion” e “Si salvi chi può (la vita)”. E se lavori con Godard puoi lavorare anche con Nagisa Oshima per “Max, mon amour”, il suo unico film francese con Charlotte Rampling innamorato di un gorilla, e l’idea del film è tutta sua. Ma non si ferma alla Francia. Con Milos Forman viaggia, da “Taking Off” in avanti, in tutto il mondo. Con Volker Schlondorff scrive film premiatissimi come “Il tamburo di latta” da Gunther Grass, “L’inganno” e “Un amore di Swann”, che i due rubano a Visconti. “Il modo migliore per diventare sceneggiatore”, diceva “è partecipare umilmente alla realizzazione di un film. Quindi, ovviamente, è necessario avere idee. Il lavoro di uno sceneggiatore non è solo scrivere un film e conoscere tutto il lato tecnico delle cose: il suono, le immagini, il montaggio. Il suo lavoro, la sua funzione, è cercare nuove idee. Questo è molto importante. Per poter offrire un bouquet di idee diverse”. Ma la cosa più incredibile del suo lavoro è che è in grado di passare dalle produzioni più classiche, pensiamo a “Il tamburo di latta”, a quelle più stravaganti, dove il suo lato più estroso e da fumettaro viene fuori. Così lo troviamo dietro la love story tra un uomo e una donna di gomma in “Life Size” di luis Berlanga, dietro alcuni notevoli film dell’amico Jesus Franco, come l’eccessivo e splatter “Jack the Ripper” con Klaus Kinski, dietro il James Hadley Chase in salsa Patrice Cherau di “Il profumo dell’orchidea”, che mi ricordo bellissimo. O “la dolcissima Dorotea” di Peter Fleischmann, altro film eccessivo. Ma è pronto a partire per il Brasile da Hector Babenco per un’operazione internazionale come “Giocando nei prati del Signore”. O a associarsi a Peter Brook per la grande rilettura del “Mabaharata”. Come i grandi sceneggiatori del Novecento, penso a Ennio De Concini, è davvero un’ombra dietro a tante operazioni diverse. Aiuta attori che vogliono passare alla regia, come Jean-Claude Brialy o Isabella Rossellini, aiuta un critico come Robert Benayoun in una folle impresa di erotico-favolistico con Jane Birkin in versione Biancaneve, “Primavera carnale”. Ma alla fine funziona davvero bene alle prese con grandi film storico-letterari, come “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Philip Kaufman o il “Danton” di Wajda o “Valmont” di Forman, tutte opere dove il suo lavoro fa davvero la differenza. Lo troviamo anche in Italia, con Ferreri per “la cagna”, tratto dal racconto di Ennio Flaiano o per “L’iniziazione” di Gianfranco Mingozzi tratto da Apollinaire. E è pronto a rinnovarsi per i recenti film diretti da Louis Garrell o dell’artista Shirin Neshat, per quello che dovrebbe essere la sua ultima sceneggiatura. Ma vai a sapere quante cose ha scritto in questi ultimi anni. Ha avuto tre mogli, Augusta Bouy, Nicole Jamin e Nahal Tajadod.

·        E’ morta la cantante Mary Wilson.

Da repubblica.it il 9 febbraio 2021. Mary Wilson, che assieme a Diana Ross e a Florence Ballard fondò il trio al femminile The Supremes quando aveva appena 15 anni, è deceduta nella sua casa di Las Vegas improvvisamente. I funerali saranno privati a causa dell'epidemia da Covid. Aveva 76 anni. "Sono rimasto estremamente scioccato e rattristato nell'apprendere della morte di Mary Wison, un membro importante della famiglia Motown'', ha dichiarato a Variety il fondatore della casa discografica Berry Gordyche, che produsse le Supremes all'inizio degli anni Sessanta. "Sono sempre stato orgoglioso di Mary - ha aggiunto - era una star a pieno titolo e nel corso degli anni ha continuato a lavorare sodo per rafforzare l'eredità delle Supremes. Mary Wilson è stata speciale per me. Era una pioniera, una diva e ci mancherà profondamente". Wilson rimase con il suo trio fino al 1977, anno dello scioglimento della band, ma con le compagne fu una delle indiscusse protagoniste della scena degli anni Sessanta e Settanta, infilando una lunga serie di hit, da quelle soul fino alle canzoni legate alle sonorità disco. Finita l'esperienza con le compagne, debuttò da solista con un disco che portava il suo nome di battesimo, nel 1976: non ebbe i risultati sperati e la Motown la abbandonò. A metà degli anni Ottanta, ha scritto la sua autobiografia, Dreamgirl: My Life as a Supreme, dalla quale venne tratto il film sulle Supremes, Dreamgirls, del 2006, con il supercast formato da Beyoncé, Jamie Foxx ed Eddie Murphy. Solamente due giorni prima della morte, Wilson aveva caricato sul suo canale YouTube un video-annuncio in cui annunciava di essere al lavoro sulla diffusione di materiale inedito solista proveniente dal catalogo Universal, incluso l'album mai pubblicato Red Hot, registrato negli anni Settanta: "Spero di pubblicarne parte per il mio compleanno, il 6 marzo", diceva nella clip.

·        E’ morto l’ex presidente del Senato Franco Marini.

Da corriere.it il 9 febbraio 2021. È morto Franco Marini, già presidente Senato, ministro del Lavoro, segretario generale Cisl e Segretario nazionale Ppi. Aveva 87 anni. Marini era stato ricoverato per Covid lo scorso gennaio: le sue condizioni, inizialmente, non sembravano destare preoccupazioni, anche se i medici erano dovuti ricorrere alla respirazione assistita. Abruzzese di San Pio delle Camere, laureato in giurisprudenza, con un passato in cui sindacato e politica sono sempre andati di pari passo — prima la Cisl e la Democrazia Cristiana, poi il Partito Popolare, quindi la Margherita e da ultimo il Partito democratico — era spesso soprannominato «il lupo marsicano», anche in ricordo del suo periodo di leva, svolto come ufficiale negli Alpini. Tra i suoi «vezzi» c’era proprio quello di indossare, quando possibile, il cappello con la penna nera — e quello di tenere spesso in mano una pipa spenta. «La politica come passione e organizzazione, il mondo del lavoro la sua bussola, il calore nei rapporti umani. Ci mancherà Franco Marini. Ha accompagnato i cattolici democratici nel nuovo secolo» ha scritto Paolo Gentiloni su Twitter.

Elisa Messina per corriere.it il 9 febbraio 2021. Nel ricordare la vita, non solo politica, dell’ex presidente del Senato Franco Marini , scomparso a 87 anni, non possiamo non ricordare anche il lungo sodalizio con la moglie Luisa D’Orazi: un legame iniziato nel 1960, quando lui era già sindacalista alla Cisl, lei studiava medicina, e finito solo con la morte di lei nel 2012. Lo racconta bene, attraverso le testimonianze di entrambi, Bruno Vespa nel suo libro del 2007 «L’amore e il Potere. Da Rachele a Veronica, un secolo di storia italiana» a partire da una certa affinità tra i due che saltava agli occhi: Luisa. «Ha molte cose in comune con il marito: un carattere solido, idee chiarissime e poche parole per arrivare al punto». Dalla loro unione è nato Davide, 40 anni, ingegnere delle telecomunicazioni. «Ci vedemmo per la prima volta» ricorda Luisa D’Orazi a Vespa «quando eravamo molto giovani: io entravo al ginnasio, lui usciva dal liceo. Era un bel ragazzo, si dava da fare come tutti i suoi coetanei, aveva fama di gran conquistatore.» «Fesserie» la corregge lui. «Ero soltanto simpatico». Durante la prima passeggiata insieme per le vie di Roma, lui indossava la divisa degli Alpini. Anche nel raccontare quel primo appuntamento a Vespa i due si punzecchiarono un po’: «“Un giorno andai a prenderlo alla stazione Termini” prosegue lei “e io avevo un po’ di disagio a girare con uno che aveva il cappello con la piuma in testa. Così gli chiesi di toglierselo e lo misi nella borsa”. Il marito rettifica: “Non fu Luisa a dirmi di togliermi il cappello. Capii dalla sua espressione che era imbarazzata, allora me lo tolsi e lo portai in mano, pronto a indossarlo di nuovo se avessi visto da lontano qualche ufficiale che avrebbe potuto punirmi”». Franco Marini e Luisa D’Orazi si fidanzarono nel 1960. Ma nonostante la comune origine abruzzese i mondi politici di appartenenza erano molto distanti, soprattutto in quegli anni, come racconta Vespa: «Lui era democristiano fin nel midollo, lei figlia fieramente laica di genitori comunisti: due laureati in chimica diventati militanti del Pci durante la guerra, quando erano stati attratti dall’ideale partigiano. La partecipazione dei genitori di Luisa alla vita di partito era attiva. Il padre è stato vicesindaco di Rieti, e in casa loro capitavano Terracini, Napolitano e altri importanti dirigenti. Come fu accolto un fidanzato politicamente così lontano?». Marini fu accolto bene perché, come raccontò Luisa a Vespa: «Loro guardavano alla moralità». Ma anche lei, prima di decidersi al gran passo, aveva posto le sue condizioni al fidanzato: «“Sì, d’accordo, tra noi c’era feeling. Ma allora si era convinti che il matrimonio dovesse durare tutta la vita, e non bastava che Franco fosse un bel ragazzetto. Poi vidi che aveva princìpi sani, si comportava molto seriamente con la sua famiglia, e mi convinsi”. Fu forse per rassicurare in qualche modo i genitori che, per sposarsi, Luisa impose a Franco di completare l’università. “Gli mancavano due esami per laurearsi in legge, lui protestava che doveva lavorare, e io gli rispondevo: vuoi sposarti? Allora laureati”». Il primo incontro “formale” con la famiglia di Luisa era rimasto molto impresso a Marini e così lo raccontò a Vespa: «La prima volta che andai da loro fu al Terminillo, dove avevano una villetta. Era inverno, c’era un metro e mezzo di neve. Trovai mio suocero sull’uscio: mi lanciò una pala e mi chiese di aiutarlo a togliere la neve. Il mio imbarazzo sparì di colpo. Lui era professore, lei farmacista, Luisa studiava medicina. Nonostante fossero comunisti, forse qualche riserva sul mestiere di sindacalista l’avevano». Si sposarono nel 1965. Luisa, specializzata in Igiene e Scienze dell’alimentazione, organizzò lavoro e carriera in modo che fossero compatibili con la vita matrimoniale: «Otto anni al San Filippo Neri, diciotto al San Giacomo. Poche urgenze, un ménage più ordinato e compatibile con la famiglia». Nonostante le differenze, i due non hanno mai litigato per la politica e Luisa raccontò a Vespa di aver appoggiato da subito il passaggio del marito dal sindacato alla politica: «A me la politica piace, ci sono vissuta in mezzo fin da bambina. Lui in casa ne parla poco, e io non ho mai interferito nelle sue decisioni». Il marito confermò: «Ne parliamo poco, e quando ne parliamo, Luisa mi dice quel che pensa, ma non interferisce certo nelle mie scelte». Ma per chi votava Luisa D’Orazi, figlia di comunisti doc ma moglie di un democristiano doc come Marini? Lo racconta lui a Vespa: «Lei mi dice di aver votato sempre repubblicano, mai comunista, nonostante i genitori, perché si sapeva bene come si stava nel mondo sovietico. Non le ho mai chiesto per chi votasse prima di entrare nel seggio, ma glielo chiedevo all’uscita. Ha cominciato a votare Dc soltanto a partire dal 1992, quando io mi presentai alla Camera e presi più preferenze di Vittorio Sbardella». In un’altra delle rarissime interviste (a Paola Severini, per il libro «Le Mogli della Repubblica») la signora D’Orazi dette una curiosa definizione politica del suo matrimonio con Marini: «Sa come è il mio matrimonio? Un centrosinistra anticipato. In politica non siamo mai andati molto d’accordo, io e Franco: lui faceva il sindacalista e io avevo idee un pochino di sinistra. Sul sociale invece la pensavamo allo stesso modo». Il confronto politico dei coniugi Marini, comunque, è sempre rimasto tra le mura di casa. Racconta infatti Vespa: «Nonostante la dichiarata passione per la politica, Luisa Marini non ha mai seguito il marito in un comizio, un congresso, una manifestazione qualsiasi. Fece un’eccezione il giorno dell’apertura del Senato, dopo le elezioni del 2006».

È morto Franco Marini, l'ex presidente del Senato stroncato dal Covid. La politica in lutto: "Combattente appassionato, difensore della democrazia". Aveva 87 anni. La notizia data su Twitter dall'amico Castagnetti: "Uomo integro e forte". Tanti i messaggi di cordoglio sui social. Mattarella: "Esempio di impegno politico onesto". Zingaretti: "Siamo tutti più soli", Franceschini: "Perdo un maestro, padre, amico". Tajani: "Non la pensavamo sempre alla stessa maniera, ma era una gran persona". La Repubblica il 9 febbraio 2021. È morto a causa del Covid Franco Marini, politico e sindacalista. Aveva 87 anni. Fu segretario generale della Cisl, poi presidente del Senato e ministro del Lavoro, segretario del Partito popolare italiano ed europarlamentare.

IL RITRATTO. A inizio gennaio era risultato positivo al coronavirus ed era stato ricoverato all'ospedale San Camillo de Lellis di Rieti. La notizia della scomparsa è stata data con un tweet da Pierluigi Castagnetti che ha ricordato l'amico come "uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera". Tanti i messaggi di cordoglio dal mondo della politica. A partire da quello del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: "La morte di Franco Marini mi addolora profondamente. Rivolgo un pensiero di grande vicinanza ai familiari e a quanti hanno condiviso con lui percorsi di vita e ideali. È stato un eminente esponente della Repubblica. Espressione del mondo del lavoro portò le istanze dei lavoratori italiani sino alla più alta carica alla quale venne eletto, quella di presidente del Senato. Apparteneva alla schiera di quanti hanno saputo trasfondere nelle istituzioni la passione e il valore di aspirazioni autentiche maturate fra la gente". "Non dimenticò mai - sono le parole di Mattarella - le battaglie sociali che hanno costantemente caratterizzato la sua vita. In essa possiamo leggere l'ansia di riscatto delle popolazioni delle periferie del Paese, il contributo alla modernizzazione dell'Italia nel segno del progresso, la rigorosa testimonianza di chi poneva i principi del cattolicesimo democratico al servizio della crescita, della coesione e della giustizia sociale. Dalla Cisl alle istituzioni, da ministro del Lavoro poi nel Parlamento, poi nella responsabilità di segretario del Partito popolare italiano: il suo contributo, in una fase di transizione della società italiana, è sempre stato connotato dalla intransigente difesa delle ragioni dei più deboli e della libertà dei corpi sociali nel quadro della Costituzione: credeva fermamente nella loro funzione. È stato esempio di un impegno politico onesto e autentico". "Oggi piangiamo la scomparsa di Franco Marini, politico e sindacalista di spessore, uomo di indiscussa integrità morale - osserva la presidente del Senato Elisabetta Casellati - Presidente del Senato e Ministro, è stato un importante protagonista della nostra storia repubblicana. L'Italia ricorderà il suo prezioso contributo, nei ruoli politici e istituzionali, sui temi del lavoro e sul rafforzamento della democrazia parlamentare. Ai familiari giunga il mio cordoglio e quello del Senato della Repubblica". Il presidente della Camera Roberto Fico commenta: "Il mio cordoglio per la scomparsa di Franco Marini, un uomo delle istituzioni. Grande protagonista nella politica e nel sindacato. Ai suoi cari va la vicinanza mia e di Montecitorio". "Ci ha lasciato Franco Marini. Un grande Italiano. Instancabile combattente a difesa del futuro e dei diritti dei lavoratori. Protagonista e guida dei cattolici democratici, è stato, davvero per tutti, un esempio e un punto di riferimento per il suo pensiero e per la sua voce libera e autorevole. Tra i fondatori del Partito democratico, ha combattuto per rafforzare la democrazia e per una Italia più giusta. Siamo tutti più soli", il triste saluto del segretario del Pd Nicola Zingaretti su Facebook. "Ci ha lasciato uno dei grandi protagonisti del sindacato e della politica degli ultimi 40 anni. Uno degli artefici della nascita dell'Ulivo e del centrosinistra, quando con coraggio impedì che il PPI scivolasse a destra. Io perdo un Maestro, un Padre, un Amico", è il ricordo dell'esponente del Pd, Dario Franceschini. "Ho sempre ammirato Franco Marini come politico e ho avuto anche la fortuna di incrociarlo tante volte nel corso della mia vita. Sono, così, divenuto suo amico e ho potuto conoscere anche le sue qualità umane, caratteriali e intellettuali  - racconta Goffredo Bettini, membro della direzione nazionale del Partito democratico - È stato un sincero democratico, antifascista, popolare. Ha servito le istituzioni, oltre che la Cisl, il suo amato sindacato". "La politica come passione e organizzazione, il mondo del lavoro la sua bussola, il calore nei rapporti umani. Ci mancherà Franco Marini. Ha accompagnato i cattolici democratici nel nuovo secolo", scrive Paolo Gentiloni in un post. Profonda tristezza per la notizia della scomparsa di Franco Marini, anche per Enrico Letta. "Tanti pensieri, tanti ricordi. Un grande protagonista. Un grande amico", scrive sui social. E il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, osserva: "Confronto e dialogo. Guardare al minimo comun denominatore piuttosto che al massimo comun divisore. Grazie Franco Marini per quella grande lezione di saggezza, di apertura, di moderazione, di lucidità di visione che è stata la tua vita. La terra ti sia lieve". "Mi mancherà Franco Marini, combattente e appassionato. Sempre a difesa della democrazia e dei diritti dei lavoratori", il saluto su Twitter del ministro della Salute, Roberto Speranza. Da Italia viva, i messaggi di Teresa Bellanova: "Se n'è andato stanotte Franco Marini, sindacalista e politico di spessore, già presidente del Senato e Ministro del lavoro. Una notizia che lascia davvero una grande tristezza. Un abbraccio forte alla sua famiglia e ai suoi cari". E di Maria Elena Boschi: "Da segretario della Cisl, del Partito Popolare, come da ministro della Repubblica e da Presidente del Senato, Marini è stato in grado di coniugare la forte passione che investiva nei suoi mandati con un altrettanto saldo rispetto dell'avversario, anche negli scontri più aspri. Se ne è andato l'uomo, ma il segno del suo agire resterà nella mondo del lavoro, della politica e nelle istituzioni".  Solo "Ciao Franco", scrive Matteo Renzi sui social, che posta il tweet di Castagnetti. Per Stefano Fassina, deputato Leu, "è un intenso dolore la morte di Franco Marini. È stato uno storico leader del movimento cattolico dei lavoratori, un grande dirigente politico e un integerrimo uomo delle istituzioni. Dal primo incontro con lui al Pd, è stato per me un maestro, una delle figure che ha dato senso culturale e politico al Partito democratico. Mi mancherei Franco, ci mancherai. Un grande abbraccio alla sua famiglia, ai suoi amici e amiche di vita e di sindacato". Dal centrodestra, è arrivato il messaggio di cordoglio di Silvio Berlusconi, appena atterrato a Roma per partecipare alle consultazioni con Mario Draghi. "Con Franco Marini scompare un protagonista della vita democratica, delle istituzioni, del mondo del lavoro. Ne ho sempre ammirato la determinazione, la tempra ma anche il buon senso e l'equilibrio manifestato in ogni circostanza. Pur militando in un campo diverso dal nostro non l'ho mai considerato davvero un avversario, quanto piuttosto un interlocutore con il quale ragionare in modo costruttivo nell'interesse generale del Paese. Mentre l'Italia attraversa un momento così difficile, proprio a causa della tragica malattia della quale lo stesso Marini è stato vittima, un momento che richiede l'unità della Nazione e il concorso delle migliori energie del Paese, mancheranno il suo equilibrio, il suo senso delle istituzioni, la sua passione politica lucida e priva di faziosità". Profondo dispiacere per la scomparsa di Franco Marini, per il senatore di Forza Italia, Renato Schifani, consigliere di Silvio Berlusconi ed ex presidente del Senato, "uomo colto e saggio, forte nel fisico e nell'animo. Mio equilibrato ed autorevole predecessore alla presidenza del Senato. Marini non ha mai mancato di incarnare saggezza e rispetto delle Istituzioni, valori che oggi più che mai sono un esempio da seguire", conclude. Mentre su Twitter il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani sottolinea "il suo impegno da parlamentare europeo nella comune casa del Ppe e le lunghe chiacchierate sulla politica italiana. Non la pensavamo sempre alla stessa maniera, ma era una gran persona". In un tweet Renato Brunetta, deputato di Forza Italia, parla di Marini di un "politico saggio, uomo del sindacato e delle istituzioni. Una vita intera spesa al servizio del Paese". Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia, lo ricorda come "un politico appassionato, un avversario fiero ma sempre corretto nel suo ruolo istituzionale, gentile e disponibile nei rapporti personali. Sono vicina alla famiglia in questo momento di dolore". Per il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, "Franco Marini, come sindacalista prima, come politico poi e come uomo delle istituzioni, ha sempre anteposto i rapporti umani e il rispetto di ciascuno indipendentemente dalle appartenenze. Lo ricordo con rimpianto e voglio onorarne la memoria sottolineando questo suo tratto umano che ne ha fatto uno dei protagonisti della vita politica, sociale ed istituzionale del nostro tempo". "L'Abruzzo dice addio a una figura che ha segnato profondamente la sua storia. Legatissimo alla sua terra, Franco Marini è stato un esempio di determinazione, lealtà, rispetto delle istituzioni - dice il coordinatore della Lega, il deputato aquilano Luigi D'Eramo - Ho appreso della sua morte con dolore, di certo la regione e il Paese perdono un uomo forte, fedele all'ideale di democrazia e giustizia sociale che ha declinato nella sua sconfinata esperienza politica e sindacale. Un vero esempio. Alla famiglia giungano i miei sentimenti di vicinanza e cordoglio". Il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida, commenta: "Seppur da un fronte diverso, ho sempre guardato con interesse e rispetto al suo impegno per le istituzioni, il lavoro e i valori cristiani. Partecipo con l'intero nostro gruppo al cordoglio dei suoi familiari". "La scomparsa di Franco Marini è una notizia che ci addolora profondamente. Marini è stato uno dei padri fondatori della Cisl, per tanti anni segretario generale della nostra organizzazione in tempi difficili per il nostro paese, caratterizzati dall'attacco del terrorismo alle istituzioni - è il saluto della segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan - Franco Marini con il suo pragmatismo, la sua storia e cultura di cattolico popolare è stato un baluardo di democrazia, un riformista convinto, un sindacalista autorevole e saggio, sempre vicino ai lavoratori ed ai più deboli. E successivamente - prosegue Furlan - ha trasferito queste sue grandi doti umane e la sua sensibilità sociale alla politica e nei ruoli istituzionali come presidente del Senato. È stato sempre per la Cisl un punto di riferimento costante, oltre che un amico sincero ed affettuoso che ci è sempre stato vicino con la sua grande umanità e la sua grande personalità. Per questo non lo dimenticheremo mai. La sua scomparsa siamo convinti addolori non solo tutti gli iscritti della Cisl ma tutti gli italiani. Lascia una grande eredità morale, sociale e culturale. In questo momento di profondo dolore, siamo vicini al figlio, alla sua famiglia ed a quanti lo hanno amato ed accompagnato nel corso della sua lunga prestigiosa carriera sindacale e politica". E Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, ricorda Marini come "un grande sindacalista, politico e uomo delle istituzioni. Un uomo, che anche negli anni più difficili della nostra Repubblica, con il suo impegno, la sua saggezza e il suo pragmatismo, è stato per tutti un esempio e un punto di riferimento. Protagonista di una fase storica caratterizzata da grandi cambiamenti e da grandi conquiste sociali, frutto delle battaglie unitarie del sindacato. Marini ha sempre combattuto per rafforzare la democrazia e i diritti dei lavoratori e dei più deboli. A nome mio personale e di tutta la Cgil - conclude Landini - esprimo profondo cordoglio per la sua scomparsa, vicinanza alla famiglia e a tutti coloro che hanno condiviso e l'hanno accompagnato nelle sue battaglie". Anche l'Anpi nazionale lo ricorda: "Salutiamo Franco Marini, già parlamentare, Segretario generale della Cisl, Ministro, Presidente del Senato. Un protagonista della vita democratica italiana, un uomo di grande sensibilità antifascista. Tutta l'ANPI è vicina alla famiglia in questo momento di profondo dolore".

Addio a Franco Marini, il sindacalista democristiano. Lavinia Rivara su La Repubblica il 9 febbraio 2021. Dalla Cisl alla seconda carica dello Stato, la parabola del "Lupo marsicano" con fama da duro e cuore da mediatore. "Io il mare l'ho visto per la prima volta durante una gita dell'Azione cattolica a Silvi Marina. Il primo calcio a un pallone di cuoio l'ho dato nell'oratorio. I primi corteggiamenti li ho fatti nella mia parrocchia. Come potevo non essere democristiano?". E lo è stato per tutta la vita Franco Marini, uno degli ultimi cavalli di razza dello Scudocrociato, scomparso stanotte all'età di 87 anni stroncato dal Covid. Lui stesso si raccontava così su Repubblica a Sebastiano Messina alla vigilia di una delle sue più importanti battaglie, l'elezione alla presidenza del Senato. Che fu anche una vittoria, ottenuta non senza patemi. Ma nella vita del "Lupo Marsicano", (il soprannome che gli piaceva di più, forse perché legato ai suoi monti abruzzesi), ci sono state anche pesanti sconfitte. Nel 2008 per poco non divenne premier, ma la disfatta peggiore fu senz'altro quella che impedì all'alpino Marini di scalare l'ultima vetta, quella del Quirinale. Perché a sbarrare il passo prima a lui e poi a Romano Prodi, non furono gli avversari ma il fuoco amico. Sarebbe stato, il Colle, il suggello di una vita spesa tutta dentro le istituzioni, la lunga carriera nei palazzi del potere di un uomo del popolo.

Le origini. Primo dei sette figli di Loreto, un operaio della Snia Viscosa, Marini nasce a San Pio Delle Camere, paesino di poche anime in provincia dell'Aquila, nel 1933. Sembra che sia stata la sua professoressa di lettere delle medie, a Rieti, a caldeggiare per lui liceo classico, un tempo riservato solo alle classi più agiate. A 17 anni prende la tessera della Dc, milita nelle Acli e nell'azione cattolica. Poi legge all'università e l'ingresso in Cisl. Il sindacato è la sua prima vera passione, in cui si getta anima e corpo appena finita la leva negli Alpini.

L'ingresso in Cisl. "Nella mia vita più di ogni altra cosa ho voluto diventare leader della Cisl" confidava spesso. Non fu semplice, perché ci mise 20 anni prima di sedersi su quella poltrona. Un'ambizione nata fin da quando approda a Roma come funzionario dell'ufficio organizzativo: "Ero un giovane arrembante, mi davo da fare fino all'inverosimile, non mi perdevo neanche un'iniziativa, comprese quelle di congiura contro Storti" ammise in seguito. Tanto che l'allora segretario generale, scoperte le manovre, lo licenzia. L'estromissione però dura poco: Marini rientra nella Cisl nel 1965 grazie a uno dei suoi fondatori, Giulio Pastore. Vent'anni all'opposizione, due congressi persi, il Lupo Marsicano già in quegli anni dà prova di tenacia e capacità di mediazione. Stringe con Pierre Carniti un patto per la successione. E così nel 1985 conquista per la Dc il vertice dell'organizzazione. "In quegli anni  - spiegò in una intervista a Gianni Pennacchi - non era facile fare il moderato e il democristiano nel sindacato". Si spende per ricucire l'unità sindacale con la Cgil dopo la rottura sul taglio della scala mobile, ma è un anticomunista viscerale: "Noi eravamo l'ala più a sinistra della Dc, la più vicina al mondo operaio, ma proprio per questo avevamo un rapporto molto competitivo con i comunisti". Non ha mai temuto il conflitto. Alle assise Dc del 1984 in un epica rissa sfidò l'allora leader Ciriaco De Mita. Ma in realtà il Lupo Marsicano si teneva lontano dai clamori, preferiva agire dietro le quinte senza dare neanche il tempo all'avversario di accorgersi che gli aveva dato scacco matto. "Franco è uno che ti uccide col silenziatore" diceva di lui Donat Cattin. 

La pipa e le cravatte colorate. Amava andare al sodo, senza tanti giri di parole, mentre non gli piacevano i salotti, da cui si è tenuto sempre alla larga. Con i giornalisti era sbrigativo, minimizzava: "E mo' vediamo..." rispondeva alle domande più incalzanti. Le sue vacanze frugali per molti anni sono state sempre le stesse: l'isola del Giglio, nella casa comprata con la moglie Luisa, scomparsa nel 2012, dove andava a  trovarli il figlio. O le montagne abruzzesi della sua infanzia. Unici vizi la pipa e il toscano. Unico vezzo, negli anni del sindacato, le giacche e le cravatte colorate che gli valsero un altro soprannome, quello di "Scintillone".

Dalla Dc al Pd, passando per la Margherita. Il suo esordio in politica fu un successo. Legato alla corrente Forze Nuove, quella che nella Dc era più vicina al mondo del lavoro, Marini ne eredita la guida alla morte di Donat Cattin nel 1991 e diventa ministro del Lavoro dell'ultimo governo Andreotti. Nel 1992 si candida alla Camera e fa il pieno di voti: è il primo degli eletti con oltre 100 mila preferenze. Dopo Tangentopoli e il crollo del partito si schiera con Buttiglione per la guida del Ppi. Ma quando il politico filosofo stringe il patto con Berlusconi, Marini lo silura per affidare il partito a Gerardo Bianco. Qualche  anno dopo toccata lui  guidare i Popolari e ingaggia un braccio di ferro con Romano Prodi resistendo al progetto dell'Ulivo, ma negò sempre l'esistenza di un complotto per far cadere il Professore. Con la stessa tenacia, una volta entrato nella Margherita, osteggia inizialmente la nascita del partito democratico, di cui poi invece divenne uno dei fondatori.

La presidenza del Senato nel 2006. Nel 2006, dopo una votazione notturna al cardiopalma, viene eletto presidente del Senato. È una sfida tra due ex grandi della Dc, perché a perdere per un pugno di voti è Giulio Andreotti, sostenuto dalla Casa delle Libertà. Durante quei venti mesi di governo dell'Unione al Senato se ne vedono di tutti i colori. La maggioranza ha solo due voti di vantaggio sul centrodestra, che in aula si scatena. Una volta Marini schiva per un pelo il libro del regolamento lanciatogli da qualche pasdaran della Cdl, spesso deve censurare gli insulti, con tanto di esibizione di pannoloni, contro la senatrice a vita Rita Levi Montalcini. Poi arriva la caduta di Prodi e il centrodestra festeggia in aula con champagne e mortadella. "Colleghi - grida - questa non è una osteria".

L'incarico esplorativo dopo il crollo di Prodi. Tocca proprio a lui poi provare a cercare una soluzione per il dopo Prodi. Alla fine del gennaio 2008 Giorgio Napolitano gli affida un incarico esplorativo per formare un nuovo governo finalizzato alla riforma elettorale. Ma il tentativo naufraga e si va ad elezioni.

La corsa al Quirinale. E arriva l'ultima battaglia. Nell'aprile 2013 Marini entra nella rosa di candidati che Bersani propone a Berlusconi per la presidenza della Repubblica. Il favore del Cavaliere ricade proprio su di lui, che diventa così il candidato di Pd, Pdl e Scelta civica. Ma le cose si mettono male da subito: all'assemblea dei grandi elettori del Pd la corsa del Lupo Marsicano passa con 220 sì, ma si contano ben 90 no e 21 astenuti. Renzi, che lo aveva già inserito tra i big da rottamare, lo ostacola apertamente: "Non lo votiamo, è un uomo del secolo scorso, ve lo immaginate con Obama?". E così alla prima votazione è fumata è nera: oltre 200 franchi tiratori fermano Marini a quota 521, molto al di sotto della soglia dei 672 voti necessari. Ma più che sufficienti per essere eletti al quarto scrutinio. Al quale però non arrivò, nonostante la sua ostinazione. Il ruolo di nuova vittima sacrificale del centrosinistra toccò a Prodi, impallinato dai famosi 101. La ferita lasciò un segno profondo. Marini si sfogò contro quella  operazione "volgare e ingiusta". A Renzi non gliele mandò a dire: "Ha una ambizione smodata".  

Ma nonostante la disfatta si può dire che insieme a Bertinotti è stato uno dei pochissimi sindacalisti ad avere una carriera politica di primo piano. Marini era a suo agio sia quando doveva placare gli animi in una assemblea in fabbrica che quando doveva cimentarsi in un congresso di partito: "Ero capace di duellare  al microfono, dare la caccia ai delegati e tenere le fila dell'organizzazione contemporaneamente. Poi - confidò - quando si cominciava a votare, io avevo già fatto quello che dovevo fare e andavo a dormire".

Addio Franco Marini, protagonista del sindacato e della politica. Quando ci raccontava il suo «Incontro con la morte». L’ex presidente del Senato è scomparso per Covid a 87 anni.  Stefania Rossini su L'Espresso il 9 febbraio 2021. È morto Franco Marini. Politico e sindacalista, aveva 87 anni. Segretario generale della Cisl, poi presidente del Senato e poi ministro del Lavoro, segretario del Partito popolare italiano ed europarlamentare. Marini è morto per complicazioni legate al Covid. A inizio gennaio era risultato positivo al coronavirus e ricoverato all'ospedale San Camillo de Lellis di Rieti. La notizia della scomparsa è stata data con un tweet da un altro esponente di lungo corso dei Popolari, Pierluigi Castagnetti che ha ricordato l'amico come "uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera". Per ricordarlo ripubblichiamo questa lunga intervista del 2006 quando, da presidente del Senato in carica, si confessava a tutto campo: gli scherzi da bullo in gioventù, la durezza nelle trattative, l'incontro con la morte.

Io il Franco mediatore di Stefania Rossini su L'Espresso (30 agosto 2006). Franco Marini rispetta anche da presidente del Senato la sua fama di uomo ruvido e di politico risoluto. Non solo ha concesso poco alla solennità della seconda carica dello Stato, continuando nelle abitudini semplici e indossando abiti esageratamente stazzonati, ma ha riattivato il suo celebrato talento di mediatore guidando un'aula turbolenta e lanciando proposte di dialogo con l'opposizione. Le due anime di ex sindacalista e di ex democristiano che abitano nel corpo ancora giovanile di questo politico di lungo corso, vivono oggi un momento di felice fusione. Sono le anime che corrono anche lungo questa intervista sentimentale, accettata di buon grado e condotta da Marini con linguaggi diversi. Rotondo e paziente nella descrizione del momento politico, ritroso e scabro sulla vita intima e famigliare, improvvisamente tribunizio quando si sfiorano temi sociali. Allora la voce si alza e i toni si fanno accesi come se davanti non avesse più una persona, ma una piazza in attesa del brivido del persuasore. A dominare resta però la lingua pacata della politica, specie quando si tratta di smentire le voci che lo indicano come il tessitore di future alleanze, il seduttore di senatori del centrodestra o addirittura l'uomo del dopo Prodi.

È così, presidente? Si dice che lei sia diventato il personaggio chiave.

«In questo caso butto subito la chiave. Non voglio stare dietro a fantasie e manipolazioni. E poi sono troppo vecchio per cominciare nuove avventure».

Eppure sta dimostrando grande vitalità. Non c'è giorno che non si discuta una sua proposta.

«Se è per questo mi devo addirittura frenare. La verità è che a me piace la politica, e credo anche di capirla. Faccio il presidente del Senato nella situazione forse più difficile della sua storia, con una maggioranza che ha appena due voti in più, e ne traggo le conseguenze. In fondo cosa ho detto di strano?».

Per esempio che si può collaborare con Berlusconi e i suoi.

«Vale a dire: una soluzione seria da bipolarismo serio. Non ho parlato di larghe intese, difficilissime dopo lo scontro che c'è stato nel Paese, ma che cosa vieta di discutere con l'opposizione obiettivi di interesse generale come la riforma elettorale, l'ammodernamento del paese e la politica internazionale? Mi sbaglio o l'interesse di un governo è quello di governare?»

E in questo caso quale sarebbe l'interesse dell'opposizione?

«Quello di legittimarsi. E magari smetterla con i richiami antistorici al pericolo comunista. Del resto anche loro si faranno qualche conto e vedranno che, nonostante la tensione, finora al Senato il centro sinistra non ha perso una sola partita».

Sarà uno stress continuo anche per lei. Come lo combatte?

«Le sembrerà strano ma io non conosco lo stress. Non me ne vanto perché è una cosa innata. Fin da ragazzo, se c'era uno scoppio tutti sobbalzavano e io rimanevo tranquillo. Deve dipendere da un sistema nervoso robusto ereditato dai miei avi abruzzesi».

È questa imperturbabilità che le ha dato fama di uomo di trattativa? Quello che lascia il tavolo per ultimo?

«Se mi passa l'immodestia, le dico che per un periodo sono stato il miglior contrattualista non della Cisl, ma di tutto il sindacato italiano».

Tanto da far dire che uccideva col silenziatore?

«Questa è una battuta di Donat Cattin. Credo che fosse l'unico ad aver capito una cosa: cerco sempre un'intesa però quando arriva il momento della decisione, non c'è nessuno più determinato di me».

È così bravo anche a superare le frustrazioni?

«Beh, reagisco bene. A cosa si riferisce?».

Alla sua mancata elezione alla presidenza della Repubblica nel 1999. Ci contava.

«Ci contavo, è vero, ma non per me, per la Iervolino. C'era stato un impegno con D'Alema...»

Prima o dopo la caduta del governo Prodi?

«Assolutamente dopo, quando D'Alema era già presidente del Consiglio. Guardi, lo so che una volta ho detto: "Sostenete che ci fu complotto? Bene, ci fu». È che purtroppo non mi tengo. Mia moglie mi dice spesso: "Tu eri bullo da giovane, e passi. Ma essere bullo da vecchio è imperdonabile"».

Che tipo di bullo è stato da ragazzo?

«Innocuo. Qualche scherzo anche spinto, come quando mi travestii da bella di giorno infilandomi a stento un vestito di mia sorella e aspettai un compagno di liceo, il più timido, in una casa di campagna. Ma il più delle volte ero io la prima vittima delle mie vivacità».

Ne racconti una.

«Una notte, per esempio, fui beccato a cavalcioni del cancello del centro studi Cisl di Fiesole da Bruno Storti, allora segretario. Rientravo in piena notte da una festa da ballo con addosso il vestito buono di Carniti, a quadrettini marroni. Non mi cacciarono per un pelo».

Lei nei panni di Carniti? Sembra impossibile, eravate così diversi!

«Però amici, e anche adesso ci vediamo. La nostra rivalità era reale, ma in fondo eravamo complementari. Carniti era di sinistra e veniva dall'esperienza elitaria dei metalmeccanici. Io, democristiano, mi ero fatto le ossa nelle zone agricole della Marsica. Il primo contratto l'ho firmato nel '58 per rendere stabile il lavoro di 2.000 braccianti. Ancora adesso qualche vecchio che mi incontra ad Avezzano mi offre da bere».

Presidente, sembra che lei lo faccia apposta ad apparire sempre un po' rustico: il vino, le bocce, le carte, gli alpini, l'Abruzzo...

«Sta parlando del mio mondo, quello dove sono nato e dove torno appena posso. Sa qual è il mio svago più ambito, il mio vero riposo?».

Quale?

«Prendere la macchina il sabato sera e andarmene da solo a San Pio, il mio paese di 450 abitanti sotto il Gran Sasso. D'inverno è una delle zone più fredde d'Italia. Ci arrivo verso le 10 di sera, quando si vedono solo poche lucette delle case. Cammino per ore per quelle stradine, ascolto il suono dei miei passi, ritrovo i rumori e le impressioni di quando ero bambino».

Com'è stata la sua infanzia?

«Non certo agiata. La mia è una famiglia di emigranti, come quasi tutte in Abruzzo. Mio nonno era andato in America cinque volte. Lavorava un paio d'anni e riportava un po' di soldi per comprare un pezzo di terra. Quando parliamo degli extracomunitari e dei loro diritti, non dovremmo mai dimenticare che appena due generazioni fa eravamo noi gli albanesi!».

Poi lei è cresciuto a Rieti.

«Ma ogni estate tornavo a passare quattro mesi al paese. Mio padre aveva trovato lavoro come operaio alla Snia di Rieti e riusciva a mantenerci tutti. Che uomo mio padre! Una forte personalità. Devo a lui anche la scelta del mio futuro, che stava per essere quello, comunque bello, di maestro elementare».

Come andò?

«Lui era deciso a farmi studiare ma il massimo orizzonte erano le magistrali. Un giorno la professoressa di lettere delle medie si presentò a casa e disse: "No, questo ragazzo deve andare al liceo". Mio padre ebbe l'intelligenza di darle retta. Se n'è andato da poco, a 91 anni, e mi manca».

Lei parla sempre del suo grande padre, mentre non si sa niente di sua madre. Come mai?

«Perché mia madre è morta che io avevo 11 anni».

Mi dispiace averla riportata a una perdita così grande. Ne è stato molto segnato?

«Certo, sono cose drammatiche. Forse il grande legame con mio padre dipende da questo».

Ma poi nella sua vita è arrivata un'altra donna. E non se n'è andata più.

«Sì, mia moglie Luisa. Vuole che le racconti come ci siamo conosciuti?».

Certo.

«L'avevo già notata quando lei era al ginnasio e io al liceo, ma era una ragazzina. Poi, qualche anno più tardi, in una di quelle festicciole che si facevano in provincia, i ragazzi di qua e le ragazze di là, mi sono interessato a lei. Ero in licenza. Facevo l'alpino a Bressanone».

Già, i suoi famosi alpini. Mi sono ripromessa di non chiederle niente su di loro.

«E fa male, perché è stata l'esperienza fondamentale della mia giovinezza. Sa che chi è stato alpino lo resta per tutta la vita? Tornando a mia moglie, fu lei che decise di venirmi ad aspettare alla stazione durante un'altra licenza: era imbarazzata e io ero buffo con il cappello in testa. Stiamo insieme da quasi cinquant'anni».

Qual è il segreto per far durare così tanto un matrimonio?

«Ci sarebbe da approfondire, ma non posso farlo in un'intervista. Comunque, credo che abbia contato molto il fatto che mia moglie è una donna straordinaria. È facile amarla».

E se fosse, come per tutti, il contrario? Poiché l'ama, la vede straordinaria.

«È possibile, ma il risultato non cambia. E poi ci unisce la diversità. Io cattolico, lei laica, io democristiano, lei figlia di comunisti. Credo che fu per lei un grande gesto d'amore votare Dc, quando mi presentai a Roma nel 1992, nelle elezioni in cui riuscii a battere un leader come Sbardella».

Avete anche un figlio oggi trentenne. Guardandosi indietro, che padre ritiene di essere stato?

«Assolutamente presente. E non dico fisicamente perché spesso non c'ero, ma sono stato capace di fargli sentire che ero lì, vicino a lui appena ne avesse avuto bisogno».

Lei ha 73 anni. Come vive il tempo che passa e il pensiero del termine?

«Ci penso, ma senza paure. Le devo confessare una cosa, che forse andrebbe taciuta per scaramanzia: io faccio esattamente la vita che facevo trent'anni fa. Nei viaggi, nel lavoro, negli orari, il mio ritmo non è cambiato per nulla. E poi so come è fatta la morte. L' ho guardata bene in faccia una volta».

Quando?

«Più di quarant'anni fa su uno strapiombo del Terminillo, appeso per 10 minuti nel vuoto con la possibilità di precipitare da un secondo all'altro. Ero scivolato ed ero rimasto agganciato ai miei compagni soltanto con la corda in vita. C'era ghiaccio sulla parete e non riuscivo a fare presa con le mani. Alla fine di 10 interminabili minuti, mi tirarono su».

Si pensa qualcosa in momenti così?

«Soltanto a farcela. C'è una sospensione di tutto il resto. La morte è lì, ma tu lotti per la vita».

Naturalmente lei è credente. Che tipo di rapporto ha con la religione?

«Di profonda convinzione. Su alcuni temi di fondo, come quello del rapporto con la scienza e i confini della vita, accetto la prudenza della Chiesa. Ma sono soprattutto convinto del suo insegnamento sociale. Le idee della fine dell'Ottocento sono valide ancora oggi».

Presidente, ora che l'ho conosciuta meglio, mi toglie una curiosità?

«Dica pure».

Come fece a fidarsi di Buttiglione? Spaccò un partito per farlo segretario e lo rispaccò per liberarsene. Non sembrano mosse da grande contrattualista.

«Le racconto come andò. Non amavo la sinistra democristiana basista, che aveva candidato Mancino alla segreteria. Non volevo che vincessero loro. Buttiglione senza di me non sarebbe mai stato della partita. Feci tutto io. Però non vivevo sulla luna e gli dissi "Guardami negli occhi: centrosinistra?". E lui :"Ma come, me lo chiedi pure?". Poi finì come finì».

Come?

«Andò a cena da Berlusconi e se ne incantò. Organizzai io stesso la sfiducia e siccome mi sentivo colpevole, non accettai la richiesta unanime di fare il segretario. Proposi Gerardo Bianco».

Si guarda mai indietro? Rimpiange quella grande Dc che vi conteneva tutti?

«Quella Dc era un mostro positivo che realizzava una sintesi tra tante anime diverse. Ma era una sintesi che poteva darsi soltanto in quel periodo storico, con il mondo diviso in due e il pericolo reale del comunismo. Quel periodo è finito e poi io sono uno che preferisce guardare avanti. Non mi dica che non si vede»

Da L'Espresso del  30 del 03-08-2006 

È morto l’ex presidente del Senato Franco Marini, aveva 87 anni. Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. È morto all’età di 87 anni l’ex presidente del Senato e sindacalista Franco Marini. Franco Marini è stato segretario generale della Cisl, presidente del Senato, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, segretario del Partito Popolare Italiano e parlamentare europeo. Eletto senatore alle elezioni politiche del 2006, fu scelto come candidato alla presidenza del Senato, sfidante dell’altro candidato espresso dalla Casa delle Libertà, il senatore a vita Giulio Andreotti. Il 29 aprile 2006, con 165 voti, Marini divenne presidente del Senato della Repubblica Italiana, e nel suo discorso di insediamento Franco Marini volle richiamare i suoi colleghi all’unità dichiarando: «Sarò il presidente di tutti voi con grande attenzione e rispetto per le prerogative della maggioranza e per quelle dell’opposizione come deve essere in una vera democrazia bipolare, che io credo di aver modestamente contribuito, anche con il mio apporto, a realizzare nel nostro Paese». Il 21 febbraio del 2007, dopo le dimissioni del governo guidato da Romano Prodi, era stato indicato come possibile nuovo Presidente del Consiglio di un eventuale governo tecnico. Tuttavia, pochi giorni dopo il governo Prodi si ripresentò alle camere incassando nuovamente la fiducia. Il 30 gennaio 2008 dopo la caduta del governo Prodi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli conferì un mandato esplorativo per formare un governo, Marini accettò ma dopo quattro giorni rimise l’incarico nelle mani del Capo dello Stato.  Molte le reazioni alla notizia della scomparsa di Marini.

«La politica come passione e organizzazione, il mondo del lavoro la sua bussola, il calore nei rapporti umani. Ci mancherà Franco Marini – scrive in un tweet il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni – Ha accompagnato i cattolici democratici nel nuovo secolo».

«Uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera», scrive in un tweet Pierluigi Castagnetti.

«Ci ha lasciato uno dei grandi protagonisti del sindacato e della politica degli ultimi 40 anni. Uno degli artefici della nascita dell’Ulivo e del centrosinistra, quando con coraggio impedì che il PPI scivolasse a destra. Io perdo un Maestro, un Padre, un Amico». Così in una nota il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini.

«Una preghiera accompagni Franco Marini. Ricordo il suo impegno da parlamentare europeo nella comune casa del Ppe e le lunghe chiacchierate sulla politica italiana. Non la pensavamo sempre alla stessa maniera, ma era una gran persona». È quanto scrive su Twitter il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani.

Franco Marini, morto a 87 anni l'ex leader del Ppi e presidente del Senato. Candidato al Quirinale, affossato da Renzi. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. Lutto nel mondo della politica italiana: è morto Franco Marini, aveva 87 anni. Protagonista tra Prima e Seconda Repubblica, nella sua lunga carriera è stato tra l’altro segretario generale della Cisl, leader del Ppi e presidente del Senato. "Ci ha lasciato Franco Marini. Già Presidente Senato, Ministro del Lavoro, Segretario generale CISL e Segretario nazionale PPI. Uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera”, scrive su Twitter Pierluigi Castagnetti, suo ex compagno di partito. “Ci ha lasciato uno dei grandi protagonisti del sindacato e della politica degli ultimi 40 anni. Uno degli artefici della nascita dell’Ulivo e del centrosinistra, quando con coraggio impedì che il PPI scivolasse a destra. Io perdo un Maestro, un Padre, un Amico", è il commosso ricordo del ministro per i Beni e le Attività Culturali, Dario Franceschini, che nel Pd incarna l'ala ex popolare e margheritina. Anche il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni gli ha dedicato un pensiero: "La politica come passione e organizzazione, il mondo del lavoro la sua bussola, il calore nei rapporti umani. Ci mancherà Franco Marini. Ha accompagnato i cattolici democratici nel nuovo secolo". Nel 2013, l'ultima grande occasione da protagonista quando il Pd lo candidò al Quirinale come successore di Giorgio Napolitano nell'ottica di una grande intesa con Pdl e Scelta Civica, ma fu Matteo Renzi ad affossarlo, opponendosi. 

Morto Franco Marini, l’ex presidente del Senato è stato stroncato dal Covid. Il Dubbio il 9 febbraio 2021. Stroncato dal Covid, Franco Marini è stato segretario generale della CISL, presidente del Senato, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, segretario del Partito Popolare Italiano e parlamentare europeo. E’ morto Franco Marini, sindacalista ed ex ministro del Lavoro. Lo rende noto in un Tweet Castagnetti. “Uomo integro, forte e fedele a un grande ideale: la libertà come presupposto della democrazia e della giustizia. Quella vera”. Franco Marini è stato segretario generale della CISL, presidente del Senato, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, segretario del Partito Popolare Italiano e parlamentare europeo. Eletto senatore alle elezioni politiche del 2006, fu scelto come candidato alla presidenza del Senato, sfidante dell’altro candidato espresso dalla Casa delle Libertà, il senatore a vita Giulio Andreotti. Il 29 aprile 2006, con 165 voti, Marini divenne presidente del Senato della Repubblica Italiana, e Nel suo discorso di insediamento Franco Marini volle richiamare i suoi colleghi all’unità dichiarando: “sarò il presidente di tutti voi con grande attenzione e rispetto per le prerogative della maggioranza e per quelle dell’opposizione come deve essere in una vera democrazia bipolare, che io credo di aver modestamente contribuito, anche con il mio apporto, a realizzare nel nostro Paese.” Il 21 febbraio del 2007, dopo le dimissioni del governo guidato da Romano Prodi, era stato indicato come possibile nuovo Presidente del Consiglio di un eventuale governo tecnico. Tuttavia, pochi giorni dopo il governo Prodi si ripresentò alle camere incassando nuovamente la fiducia. Il 30 gennaio 2008 dopo la caduta del governo Prodi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli conferì un mandato esplorativo per formare un governo, Marini accettò ma dopo quattro giorni rimise l’incarico nelle mani del Capo dello Stato.

Il politico e sindacalista abruzzese. Com’è morto Franco Marini: l’ex presidente del Senato scomparso a 87 anni. Vito Califano su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Lutto nella politica e nel mondo dei sindacati: si è spento Franco Marini. Aveva 87 anni l’ex Presidente del Senato, segretario generale della CISL e segretario del Partito Popolare italiano. “Ha accompagnato i cattolici democratici nel nuovo secolo”, ha scritto su twitter l’ex Presidente del Consiglio e Commissario europeo Paolo Gentiloni. Il primo a dare la notizia Pierluigi Castagnetti, esponente di lungo corso dei Popolari: “Una vita spesa in difesa dei valori della libertà, della democrazia, della giustizia sociale, dell’Europa. Sempre dalla parte dei più deboli. Uomo integro, forte e combattente. L’ultima battaglia contro l’inattesa malattia l’ha visto soccombere. Il Signore aveva già deciso di accoglierlo tra le sue braccia”. Marini era stato ricoverato dopo essere risultato positivo al coronavirus lo scorso gennaio. Inizialmente le sue condizioni non sembravano essere particolarmente preoccupanti. Necessaria comunque la respirazione assistita. Era stato ricoverato nel reparto covid dell’ospedale San Camillo de Lellis di Rieti. Lo aveva scritto il Corriere dell’Umbria. Marini era abruzzese di San Pio delle Camere. Si era laureato in Giurisprudenza. Lo avevano soprannominato, per un periodo, “il lupo marsicano”. Era stato un alpino. Iscritto alla Democrazia Cristiana, era diventato ministro del Lavoro e della Previdenza sociale del VII governo Andreotti. Divenne segretario del Partito Popolare Italiano. Divenne presidente del Senato nel 2006. Sfiorò il Quirinale nel 2013. Cordoglio espresso dal mondo della politica e in particolare dalla sinistra per la scomparsa di Marini. “Ciao Franco”, ha twittato il leader di Italia Viva Matteo Renzi. “Profonda tristezza per la notizia della scomparsa di Franco Marini. Tanti pensieri, tanti ricordi. Un grande protagonista. Un grande amico”, ha scritto Enrico Letta. “Ci ha lasciato uno dei grandi protagonisti del sindacato e della politica degli ultimi 40 anni. Uno degli artefici della nascita dell’Ulivo e del centrosinistra, quando con coraggio impedì che il PPI scivolasse a destra. Io perdo un Maestro, un Padre, un Amico”, il cordoglio del ministro della Cultura Dario Franceschini.

Morto a 87 anni Franco Marini, il "lupo marsicano" del sindacalismo cattolico. Segretario della Cisl, ministro e presidente del Senato. Franco Marini, il "lupo marsicano" del sindacalismo cattolico e della politica della Seconda Repubblica. Francesco Curridori, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale.  Segretario della Cisl, ministro e presidente del Senato. Franco Marini verrà ricordato come il "lupo marsicano" del sindacalismo cattolico e della Democrazia Cristiana che si rifaceva alla corrente di Carlo Donat-Cattin. A inizio 2021 era stato ricoverato in condizioni serie per Covid, ma era stato dimesso il 27 gennaio "con completa guarigione del quadro respiratorio e discrete condizioni generali".

Franco Marini, dall'Abruzzo alla segreteria della Cisl. Franco nasce in Abruzzo, a San Pio delle Camere nel ’33, in una famiglia di umili origini che ben presto si trasferisce a Rieti dove il padre lavora come operaio tessile. La madre, una sarta, muore quando lui ha appena 11 anni. Lui è il primo di 4 figli ma la famiglia si allarga a 7 quando il padre si risposa. I soldi sono pochi e la possibilità di studiare pure ma “un giorno la professoressa di lettere delle medie si presentò a casa e disse: ‘No, questo ragazzo deve andare al liceo’. Mio padre ebbe l’intelligenza di darle retta”, racconterà, poi, Marini che finisce col laurearsi in giurisprudenza. Iscritto alla Dc sin dal 1950, lavora fin da subito dentro la Cisl e nel ’64 lavora per il suo mentore, Giulio Pastore, fondatore della Cisl e all’epoca ministro per il Mezzogiorno. L’anno successivo sposa il medico Luisa D’Orazi con cui era fidanzato da 4 anni e da cui avrà un figlio. “L’avevo già notata quando lei era al ginnasio e io al liceo, ma era una ragazzina. Poi, qualche anno più tardi,- rivelerà - in una di quelle festicciole che si facevano in provincia, i ragazzi di qua e le ragazze di là, mi sono interessato a lei. Ero in licenza. Facevo l’alpino a Bressanone”. Marini, negli anni ’70, diventa vicesegretario del sindacato fino a prenderne la guida nel 1985. In questi anni la Cisl assume un ruolo sempre più importante nel panorama politico-sindacale, rappresentando soprattutto la categoria del pubblico impiego. Nel corso del Congresso del 1984, l’allora segretario Ciriaco De Mita attacca duramente Marini: “Devo dirti che se continui così, caro Marini, non interesserai più nemmeno i democratici cristiani”, e subito dopo “seguono nove minuti di botte selvagge, gente che grida, gente che piange, un operatore tivù malmenato (…)”, ricorda Marco Da Milano nel suo libro Democristiani immaginari.

Gli anni'90, Marini dal sindacato alla guida del Ppi. Le linee guida seguite sono sempre quelle espresse dalla corrente della Dc più vicina al sindacalismo cattolico, chiamata Forze Nuove. Corrente fondata da Carlo Donat-Cattin che, nel ’91, la affida proprio a Marini, da lui soprannominato come “l’uomo che uccide col silenziatore” per il suo essere schivo ma spietato. In quello stesso anno il sindacalista abruzzese diventa ministro del lavoro e della previdenza sociale del VII Governo Andreotti, mentre nel ’92 viene candidato per la prima volta per le Politiche e alla Camera ottiene più di 100mila preferenze. Risultato più che discreto per un ‘debuttante’ e, così, Mino Martinazzoli, all'epoca segretario del Ppi, lo sceglie quale responsabile organizzativo del partito che, nel frattempo, viene travolto dall’inchiesta Tangentopoli. Nel 1997, invece, Marini arriva alla guida del Ppi, partito sorto dalle ceneri della Dc e collocato nel centrosinistra. “Marini? Chi è Marini? Io conosco Martini, il cardinale di Milano, Marini non so chi sia…”, dirà in quel periodo l’allora Papa Wojtyla, a dimostrazione del fatto che il partito erede della Dc non contava nulla e, di conseguenza, anche il suo segretario. In realtà, il Ppi, contribuirà alla vittoria di Romano Prodi alle Politiche del ’96. Nel 1998 Marini è ritenuto responsabile della caduta del primo governo Prodi. È noto che i rapporti tra l’ex segretario della Cisl e il ‘Professore’ siano sempre stati tesi e che Massimo D’Alema avesse promesso a Marini il Quirinale pur di far cadere l’esecutivo. Poi, però, Carlo Azeglio Ciampi viene preferito a Marini il quale, nel ’99, abbandona la segreteria del Ppi e viene eletto come eurodeputato. “Non sono arrabbiato con D’Alema sono furibondo. Io mi sono fidato di lui, e lui mi ha fregato”, dirà Marini del “lìder Maximo” della sinistra italiana.

Dalla presidenza del Senato alla mancata elezione al Colle. Il Ppi sparisce con la nascita della Margherita che darà vita, insieme ai Ds, al Partito Democratico tra le cui file Marini si candiderà nel 2006 per un posto a Palazzo Madama. Una volta eletto, l’ex segretario della Cisl viene eletto Presidente del Senato, al terzo scrutinio, dopo una votazione al cardiopalma. Con 165 voti Marini batte il senatore a vita Giulio Andreotti che poteva contare sull’appoggio del centrodestra. Dopo le dimissioni di Romano Prodi, nel 2008, il presidente Giorgio Napolitano gli affida un incarico esplorativo per verificare la possibilità che nasca un governo che modifichi la legge elettorale ma il tentativo di Marini fallisce e si torna alle urne. Nel 2013 Marini si trova di nuovo in corsa per il ruolo di presidente della Repubblica. Bersani, poco dopo le Politiche, si accorda con Berlusconi per eleggerlo fin dal primo scrutinio. Ma qualcosa va storto. Matteo Renzi, all’epoca ancora semplice sindaco di Firenze uscito sconfitto dalle primarie per la leadership dell’anno precedente, si mette di traverso considerando Marini emblema di quella “kasta” tanto vituperata. Nel libro di Mario Giordano, Tutti a casa, uscito sempre nel 2013, si scopre che Marini e sua moglie erano proprietari di un loft di circa 300mq ai Parioli che, secondo l’Espresso, sarebbe stato pagato poco meno di un milione di euro. Marini, quindi, non riesce ad essere eletto, sebbene abbia ottenuto 521 su 672. Nei giorni precedenti il voto, a far discutere, è soprattutto una lettera di Matteo Renzi, pubblicata su Repubblica, in cui il primo cittadino di Firenze aveva ricordato che Marini era stato candidato in deroga alle regole del suo partito ma non era stato eletto e, quindi, era ingiustificabile questa sorta di “ripescaggio di lusso”. Non solo. Renzi ricorda anche che Marini era già stato ‘trombato’ 15 anni prima e smonta persino il ‘teorema’ secondo cui occorreva eleggere un ‘presidente cattolico’. “Mi sembra invece gravissimo e strumentale il desiderio di poggiare sulla fede religiosa le ragioni di una candidatura a custode della Costituzione e rappresentante del Paese”, scrive il sindaco di Firenze. “Con la sua lettera invece è proprio Renzi che ha commesso il grave errore che mi addebita: usare la religione a fini politici. Cosa assolutamente inaccettabile”, sarà l’immediata e piccata replica di Marini. Qualche giorno dopo, invece,  dirà: “Il dramma non è nato quando io ho avuto 521 voti, ma quando Bersani, per questo “non governo” del partito, ha deciso di cambiare strategia e ha chiamato Prodi dall’Africa e lui è stato bruciato”. Concluderà la sua vita pubblica come presidente del comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale.

Fabrizio Nicotra per "il Messaggero" il 10 febbraio 2021. «Non mi parlò mai di tradimento, mi raccontò però dell' amarezza nei confronti di chi gli aveva fatto delle promesse che non sono state mantenute. Se fossero stati sinceri non avrei accettato quella candidatura, mi disse». Così Pierluigi Castagnetti, ex segretario del Ppi ed ex capogruppo della Margherita alla Camera, racconta la grande delusione dell' amico Franco Marini, che nel 2013, candidato dal Pd al Quirinale, fu impallinato proprio da una parte del suo partito.

Quando vi siete sentiti l' ultima volta?

«A inizio gennaio, per gli auguri. Prima che fosse ricoverato. Ancora non aveva nessun sintomo, abbiamo parlato di tante cose e anche del Coronavirus, tra anziani è un argomento molto sentito. Ma, come sempre, abbiamo discusso soprattutto di politica: ormai ci consideravamo degli osservatori di un mondo e di un tempo che ci sono estranei».

Cosa pensava Marini dell' ultima fase politica?

«Era smarrito, anche lui, come tanti della nostra generazione. Era preoccupato per l' indebolimento della democrazia».

Racconti.

«Marini aveva una sorta di culto per la forma partito. Riteneva che il cuore della democrazia fosse la rappresentanza, ovviamente mediata dai partiti. Se invece non ci sono più gli strumenti che veicolano la volontà popolare tutti i giorni, dentro le istituzioni, la democrazia ne soffre. Le forme partitiche sono scomparse, è sopravvissuto, ma soltanto un po', il Partito democratico. Tutte le altre sono strutture più o meno liquide, più o meno movimentiste, non sono forme organizzate della rappresentanza. Ecco, era questo il suo cruccio ricorrente».

Lei è stato il suo successore alla guida del Ppi? Marini credeva nell' Ulivo o all' inizio aveva qualche perplessità?

«Era ancora oggi una di quelle persone che, benché anziane, sono capaci di immaginare il futuro. Nel passaggio dalla Dc al Ppi, poi dal Ppi alla Margherita, e infine dalla Margherita al Pd, era sempre responsabile organizzativo del partito di origine e le garantisco che non ha mai ostacolato questi passaggi. Semplicemente perché li riteneva ineludibili. Le dico però che si è battuto per dare struttura, solidità e radici al soggetto nascente. Era convinto che i valori della tradizione popolare dovessero essere conservati, a partire dall' idea di Europa e da quella dell' economia sociale di mercato. Tutto questo patrimonio va salvaguardato mi diceva. Lui credeva nell' alleanza dell' Ulivo e nel Pd, ma non credeva alle forme politiche tendenti alla liquidità...».

Nel 2006 la presidenza del Senato e nel 2013 la doccia fredda dell' arrivo mancato al Quirinale. Fu una grande delusione, la presa d' atto del fuoco amico in azione. Come gliela raccontò?

«Ci fu fuoco amico e in gran parte anche esplicito: penso ad alcune posizioni dei renziani e a parte dei prodiani. Visse quel momento con amarezza, soprattutto perché aveva avuto delle rassicurazioni che lo convinsero ad accettare la candidatura. Pensava che la sua figura potesse unire tutto il partito. Ma questi affidamenti non si sono rivelati veri. Non mi ha mai parlato di tradimento, mi ha solo detto: Se fossero stati sinceri, non avrei neanche accettato di candidarmi. Poi gli passò, sosteneva che in politica queste cose accadono. Gli avevano fatto delle promesse che non furono mantenute».

Vi siete conosciuti giovanissimi nella Dc. Di Franco Marini si è detto scorbutico, tenace, duro. Donat-Cattin diceva Franco ti uccide con il silenziatore. Cosa c' è di vero in tutto questo?

«Era molto solido e anche duro, gli piacevano le sfide, si eccitava quando doveva affrontare imprese impossibili. Amava le battaglie e i suoi interventi ai congressi della Dc erano accompagnati da ovazioni, ma anche da forti dissensi. Inevitabile per una persona che ama la chiarezza. Sotto la scorza della quercia c' era un' umanità che rivelava tenerezza. Ma scoprirla era un privilegio riservato a chi lo frequentava da vicino».

Doti da mediatore e spirito battagliero: così Franco Marini difese dignità del lavoro e unità del Paese. L’ex leader della Cisl fu ministro del Lavoro e presidente del Senato, ma a chi gli domandò che mestiere facesse rispose: «Sono e resterò sempre un sindacalista». Anna Maria Furlan, Segretaria generale Cisl, su Il Quotidiano del Sud il 10 febbraio 2021. Franco Marini con la sua storia limpida, la sua anima sociale, frutto delle radici profonde nel cattolicesimo popolare, il suo noto pragmatismo da vecchio alpino abruzzese, è stato certamente uno dei “padri nobili” del nostro Paese. Nella Cisl, il nostro sindacato dove ha trascorso gran parte della sua vita, ha rappresentato un esempio di specchiata moralità, un baluardo dei valori democratici ed un fiero sostenitore del ruolo autonomo e riformista del sindacato e della sua necessaria unità, per guidare le trasformazioni della società. Ha dato un contributo importantissimo alla vita del movimento dei lavoratori ed all’unità del Paese, in anni difficili, come quelli dell’attacco del terrorismo alle istituzioni e successivamente come “servitore” dello Stato, prima come ministro del Lavoro e poi come presidente del Senato. La democrazia, l’antifascismo, il valore della dignità del lavoro, la centralità della persona, la riduzione del divario tra Nord e Sud: sono stati questi i principi ideali interpretati, vissuti e difesi sempre da Franco Marini con grande determinazione e coerenza nel corso della sua lunga esperienza sindacale e politica. Valori ideali che gli aveva trasmesso Giulio Pastore, il fondatore della Cisl, del cui pensiero Marini è stato uno dei più fedeli interpreti, fin dalla sua primissima esperienza alla Cassa del Mezzogiorno. Sono tanti gli accordi, le conquiste sociali e sindacali a cui Marini ha contribuito con le sue abili doti di mediatore e la sua indole popolare. Uno fra tutti, l’accordo sindacale importante del gennaio del 1989 con il governo De Mita per la restituzione del “fiscal drug” nelle buste paga che segnò anche la ricomposizione con la Cgil dopo lo strappo della storica intesa sulla scala mobile di San Valentino del 1984 a cui anche Marini aveva contributo accanto a Pierre Carniti. Un ruolo di mediazione alta, di dialogo unitario che Marini ha sempre praticato nella sua carriera sindacale che non cancellava le differenze storiche ed identitarie tra la Cisl e gli altri sindacati. Ma fu lo stesso Marini battagliero che alcuni mesi dopo proclamò lo sciopero generale contro il governo De Mita e l’introduzione dei ticket sanitari. Una lezione di grande autonomia del sindacato. Un seme importante anche per la stagione successiva che condusse tutto il sindacato ai grandi accordi di concertazione. Marini credeva nella formazione, ha aiutato a crescere tanti sindacalisti e sindacaliste, con la sua grande capacità inclusiva. Fu l’artefice della ripresa dei corsi lunghi al Centro Studi di Fiesole ed aprì la Cisl ai nuovi strumenti di comunicazione come il passaggio a quotidiano di Conquiste del Lavoro, fino ad allora settimanale. Ma soprattutto Franco si batté nella Cisl per un nuovo modello organizzativo ed una nuova strategia sindacale per tutelare i redditi da lavoro e per affrontare le sfide del cambiamento, con la caduta del comunismo e l’arrivo dell’Europa di Maastricht. Aveva scelto con convinzione di aderire alla corrente sociale di Carlo Donat Cattin, di cui fu il successore al ministero del Lavoro, per trasferire in politica e nelle istituzioni l’esigenza di giustizia sociale, di equità, di solidarietà. Quando è diventato presidente del Senato, un’altissima carica dello Stato, gli fu chiesto quale professione avesse svolto nella vita e lui rispose: “Sindacalista, La democrazia, l’antifascismo, il valore della dignità del lavoro, la centralità della persona, la riduzione del divario tra Nord e Sud: sono stati questi i principi ideali interpretati, vissuti e difesi sempre da Franco Marini per stare in mezzo alla gente, per la gente, per i lavoratori e per le lavoratrici, per i nostri giovani. Questo è il ricordo che noi conserveremo di lui, ringraziandolo per quello che ci ha insegnato. È stato per me un Maestro di vita ancor prima che un grande Leader sindacale, con la sua autorevolezza, la sua grande umanità, la sua saggezza, sempre vicino ai lavoratori ed ai bisogni più deboli. Ecco perché Franco è stato sempre e resterà sempre per la Cisl un punto di riferimento costante. Lascia una grande eredità morale, sociale e culturale, che noi cercheremo di non disperdere e di trasmettere soprattutto ai giovani. Quei giovani che Marini ha sempre amato e valorizzato nella sua azione coerente al servizio del sindacato, delle istituzioni, del Paese.

·        E’ morto Giuseppe Rotunno.

Marco Giusti per Dagospia il 7 febbraio 2021. Se ne va nella sua Roma dove era nato e che tanto aveva illuminato per il cinema di Fellini e Visconti, Giuseppe Rotunno, 98 anni, uno dei più grandi direttori della fotografia di ogni tempo. Un gigante, che si era diviso non solo tra gli amici/nemici Visconti e Fellini, passando dai set di “Rocco e i suoi fratelli” e “Il gattopardo” a quelli di “Satyricon” e di “Roma”, o tra Mario Monicelli, “La grande guerra”, e Valerio Zurlini, “Cronaca familiare”, ma poteva vantarsi di aver lavorato da subito anche con i più grandi registi americani degli anni ’60 e ’70, un percorso che va da “La bibbia” di John Huston, “Jovanka e le altre” di Martin Ritt, “L’ultima spiaggia” di Stanley Kramer a “Conoscenza carnale” di Mike Nichols, “All That Jazz” di Bob Fosse, “Popeye” di Robert Altman, “Le avventure del barone di Munchausen” di Terry Gilliam. Grande esperto del colore, che iniziò a lavorare come operatore alla macchina nei film operistici di Carmine Gallone e come assistente di G.R.Aldo in “Senso”, perfeziona la propria ricerca con film anche molto diversi come “Cronaca familiare” di Zurlini e “Fantasmi a Roma” di Antonio Pietrangeli, ma è con “Il gattopardo” di Visconti e con i capolavori di Fellini, “Toby Dammit”, “Satyricon”, “Casamova”, che lascia un segno indelebile nel cinema mondiale. Nato a Roma nel 1923 a vent’anni è già sul set di “L’uomo dalla croce” di Roberto Rossellini, assistente alla macchina per Guglielmo Lombardi. Resterà assistente una decina d’anni, lavorando con direttori della fotografia come Gabor Pogany, Claude Renoir, e soprattutto Marco Scarpelli e G.R.Aldo, che possono dirsi i suoi maestri, legato il primo a Carmine Gallone e al suo cinema operistico a colori, “Casa Ricordi”, “Casta diva” e il secondo al Visconti di Senso”. Nei primi anni ’50 diventa direttore della fotografia per grandi film spettacolari a colori come “Attila” di Pietro Francisci e “Tosca” di Carmine Gallone, ma il legame maggiore è con Luchino Visconti, che eredita da G.R.Aldo, morto improvvisamente sul set di “Senso”, e per il quale riprende tutti i grandi film del dopoguerra a cominciare da “Le notti bianche” e “Rocco e i suoi fratelli”. Grande professionista, si divide con Tonino Delli Colli la scena maggiore del nostro cinema, anche se tocca solo marginalmente Pier Paolo Pasolini con l'episodio “La terra vista dalla luna” in “Le streghe” e il western, con il bellissimo “Amore, piombo e furore” diretto in Italia da Monte Hellman. Lavora moltissimo però nelle produzioni americane, sperimentando soluzione del tutto originali come in “Conoscenza carnale” di Mike Nichols o portando il suo sguardo nel musical di Bob Fosse “All That Jazz”. Ma negli anni lavorerà con registi molto diversi, come Fred Zinnemann, “Cinque giorni una estate”, Sidney Pollack, “Sabrina”, “il Munchausen” di Terry Gilliam, lo sfortunato “Popeye”. Lavorerà con Vittorio De Sica, “Ieri, oggi, domani” e “I girasoli”, ma anche per Lina Wertmuller, il complesso “Film d’amore e d’anarchia”, per Sergio Corbucci, “Ecco noi per esempio”, per Marco Vicario, “L’erotomane”, per Salvatore Samperi, “Sturmtruppen” e per il buffo “Non ci resta che piangere” di Troisi e Benigni. Fotografò e diresse, e penso siano le sue uniche prove di regia, due celebri serie di Caroselli per i biscotti Plasmon nel 1966 e nel 1970. Dopo aver vinto sette Nastri d’Argento, due David, due Bafta e aver avuto una nomination all’Oscar, per “All That Jazz”, negli ultimi vent’anni aveva soprattutto insegnato, al Centro Sperimentale di Cinematografia, aveva lavorato sui restauri dei capolavori di Visconti e Fellini, sempre molto attento e molto gentile. 

Giuseppe Rotunno, se ne va a 97 anni il direttore della fotografia di Federico Fellini e Luchino Visconti. Libero Quotidiano il 07 febbraio 2021. Addio a Giuseppe Rotunno, detto Peppino, uno dei più importanti e premiati direttori della fotografia del cinema italiano e internazionale. Rotunno è morto oggi all'età di 97 anni a Roma. Ha collaborato con grandi registi come Fellini e Visconti ed era stato candidato all'Oscar nel 1980 per All that jazz di Bob Fosse. Tra i tanti premi vinti, anche sette Nastri d'argento, due David di Donatello più quello speciale del Cinquantenario. Per Fellini e Visconti ha illuminato capolavori come Amarcord, Satyricon, E la nave va, Il gattopardo, Le notti bianche, Senso e Rocco e i suoi fratelli. Artista di livello internazionale è stato spesso chiamato a lavorare ad Hollywood. è stata anche la sua attività all'estero, soprattutto negli Stati Uniti. Nel 1966 è stato il primo direttore della fotografia non americano ad essere ammesso nell'American Society of Cinematographers. Rotunno è stato responsabile del corso di Fotografia presso il Centro Sperimentale fino al 2013 e ha supervisionato in prima persona moltissimi lavori di restauro dei suoi film tra cui quello di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, di Amarcord di Fellini. In Italia ha lavorato con Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini, Mario Monicelli, Valerio Zurlini, Mario Soldati, Antonio Pietrangeli, Lina Wertmuller, Massimo Troisi e Roberto Benigni, Roberto Faenza, Dario Argento. Negli Stati Uniti ha lavorato con Stanley Kramer, Martin Ritt, John Huston, Mike Nichols, Monte Hellman, Bob Fosse, Robert Altman, Alan J. Pakula, Fred Zinnemann, Terry Gilliam e Sydney Pollack.

·        E’ morto Leon Spinks.

Pugilato: è morto Leon Spinks, nel 1978 strappò titolo a Muhammad Ali. La Repubblica il 7/2/2021. L'ex campione di pugilato Leon Spinks, celebre per aver strappato il titolo dei pesi massimi a Muhammad Ali nel 1978, è morto a Las Vegas all'età di 67 anni. Da tempo combatteva con un tumore. Spinks, ai vertici di una carriera dilettanti ai massimi livelli, vinse una medaglia d'oro alle Olimpiadi di Montreal nel 1976 nella categoria dei mediomassimi. Un anno dopo entrò nei professionisti e il 15 febbraio del '78 arrivò l'impresa, quando a 24 anni strappò il titolo di campione del mondo dei pesi massimi al trentaseienne Ali, vincendo ai punti in 15 round. Ma solo pochi mesi dopo, nel settembre '78, la rivincita di Ali, che batté Spinks e riconquistò per l'ultima volta il titolo.

·        E’ morta l’attrice Haya Harareet.

Marco Giusti per Dagospia il 5 febbraio 2021. “Meglio di Grace”, dicevano gli esperti di Hollywood lanciandola nel 1959. “Ha la stessa bellezza, ma più verve”. Possibile costruire un’intera carriera al cinema con un solo film? Sì, se è un kolossal MGM come “Ben –Hur”, e se sei stata scelta fra centinaia e centinaia di attrici come pura bellezza israeliana da imporre di fronte agli occhi del mondo. E’ un po’ quello che è capitato a Haya Harareet, scomparsa a 89 anni a Marlow, nel Buckinghamshire, due giorni fa. Anche se non ha girato solo “Ben-Hur” e aveva una sua precisa personalità che le fece fare delle scelte non abituali per una star della Metro Goldwym Mayer, certo a quel film deve tutta la sua carriera. Nata a Haifa, in Palestina, nel 1931, figlia di due ebrei polacchi che si chiamavano Neuberg, soldatessa dell’esercito israeliano, dopo aver vinto un concorso di bellezza, e già con un marito, un ingegnere idrico di nome Nachman Zerwantzer, sposato e divorziato non si sa bene quando, gira un film importante nel 1955, “Collina 24 non risponde”, perché è il primo film in assoluto prodotto da Israele, anche se con un regista inglese , Thorold Dickinson, su un tema importante come la guerra d’indipendenza del 1947. Presentato a Cannes e molto piaciuto a tutti, impose la sua bellissima protagonista, Haya Harareet all’attenzione generale. Una specie di Belinda Lee. I produttori italiani non se la fecero scappare. Affiancò così Virna Lisi nel film di Francesco Maselli “La donna del giorno”, dove è la moglie di Serge Reggiani. Ma soprattutto venne messa sotto contratto dalla Metro Goldwyn Mayer e dal produttore Sol C.  Siegel come protagonista femminile di “Ben-Hur”, il kolossal diretto da William Wyler da girare a Roma che avrebbe dovuto raccontare a tutto il mondo, attraverso una storia biblica, il sacrificio del popolo ebreo durante la Seconda Guerra Mondiale. Per questo, nel ruolo della donna da Charlton Heston Ben-Hur, al posto della solita bellona, in un primo tempo doveva essere Ava Gardner poi l’italiana Anna Maria Pier Angeli, imposero una vera bellezza israeliana, più casta e virtuosa, come quella di Haya Harereet. Con un ruolo così ingombrante, Haya Harareet si trovò  non poco in difficoltà a andare avanti nel mondo del cinema. La troviamo a fianco di Stewart Granger e Bernard Lee nel giallo inglese “Il complice segreto” di Basil Dearden nel 1961. Ma, soprattutto, diventa protagonista del peplum girato a Roma “Antinea, l’amante della città sepolta”, tratto dal romanzo di Pierre Benoit, che avrebbe dovuto consolidare il suo status di star grazie anche a “scollaturi abissali” che le impone la produzione. Sarà la mitica regina Antinea, in grado di far perdere la testa a chissà quanti uomini. Iniziato dal vecchio Frank Borzage, il film venne girato quasi interamente da Edgar G. Ulmer. Nei ricordi dell’aiuto regista del tempo, Mario Caiano, Ulmer era stato chiamato dal produttore e suo amico Nat Waschberger, ufficialmente per curare le scenografie e le miniature, ma immediatamente cercò di far fuori Borzage ritenendo che “fosse un uomo finito e che il film dovesse farlo lui. Violento, aggressivo, affabulatore affascinante, Ulmer convinse in men che non si dica il produttore che Borzage con quella storia non c’entrava per nulla, mentre lui, Ulmer, ne avrebbe fatto un capolavoro. Cosa che non avvenne, ma non tanto per colpa del regista, quanto per la piattezza della sceneggiatura e le non eccelse qualità della protagonista che era un’avvenente israeliana di nome Haya Harareet”. Accanto a lei troviamo Amedeo Nazzari come consigliere e innamorato della regina, Gian Maria Volonté come suo servitore, e un giovanissimo Jean-Louis Trintignant degli anni de Il sorpasso. Tutti innamorati di Haya nel film. Sul set, sempre dai ricordi di Caiano, Ulmer “dava indicazioni vaghe su quello che intendeva fare, limitandosi a spiegare agli attori il contesto psicologico ed emotivo della scena e lasciando al mio mestiere la realizzazione pratica delle singole inquadrature. Raccontava gustosi aneddoti su Chaplin, con il quale aveva lavorato e il resto del tempo sul set lo impiegava per inveire contro il direttore di produzione. Era questi un certo Nannerini, detto il marchese Nannerini sebbene di nobile non avesse nemmeno il portamento che era piuttosto da gerarca fascista. Anima nera di Wachsberger, era un uomo di un’ignoranza totale, mai più eguagliata da un qualsiasi collega”. Ulmer fa costruire così una miniera sul terreno della Titanus Farnesina e la riempie dei minatori schiavi della regina Antinea. Caiano ricorda anche una situazione incresciosa con un leopardo, imbottita di tranquillanti, sempre a fianco della regina che un giorno si sveglia e semina il panico sul set. Apparteneva a un napoletano, leggo, ma al posto di Haya se la vedeva con una domatrice esperta, tale Wanda Brizio. Sui flani del tempo si segnala per la sua protagonista, Il film fu un disastro e la carriera di Haya Harareet, presentata come “la bella interprete di Ben Hur”, compromessa. La sostituiranno con Fay Spain per il ruolo della regina in “Ercole alla conquista di Atlantide” di Vittorio Cottafavi col forzuto Reg Park, ahimé. Girerà ancora il dramma ospedaliero americano “La pelle che scotta” di David Swift con Cliff Robertson, e ben due film avventurosi in Italia diretti da Leopoldo Savona con Tony Russell protagonista che non lasciarono alcun segno, “La leggenda di Fra Diavolo” e “L’ultima carica”. Quando incontra il grande regista inglese Jack Clayton a metà degli anni ’60, lascia il cinema come attrice. Va a vivere con lui in Inghilterra, lo sposa e scrive per lui da sceneggiatrice nel 1966 un piccolo horror familiare giustamente celebre, “Tutte le sere alle nove” con un immenso Dirk Bogarde che se la vede brutta con sette orfanelli. Visconti ne rimase così impressionato, sembra, da chiamare Bogarde sia per “La caduta degli Dei” che per “Morte a Venezia”. Haya Harareet rimarrà sposata con Clayton fino alla morte del regista nel 1995, ma non si occuperà mai più di cinema.

·        Addio all’artista Felice Botta.

Addio all’artista Botta, dalla prima mostra a 8 anni all’ultimo ritratto alla dottoressa in ospedale. È morto a 90 anni, una vita dedicata all’arte: dall’Oltrarno fino a New York e Tokyo. Ivana Zuliani su Il Corriere della Sera il 6/2/2021. La prima mostra l’ha organizzata a 8 anni. L’ultimo ritratto, a una dottoressa, lo ha fatto da un letto di ospedale, pochi giorni prima di spegnersi, a 90 anni. Quella di Felice Botta è stata una vita dedicata all’arte, dall’inizio fino alla fine, arrivata giovedì. Classe 1931, formatosi all’Istituto d’Arte di Firenze sotto la guida del grande xilografo Pietro Parigi, Botta è stato un artigiano-artista alla ricerca della «verità del semplice». Nel suo lavoro e nella vita si faceva guidare dall’amore per la natura e dalla forte passione per i materiali di recupero, per primo il legno, poi la carta povera e riciclata. «In estate non si andava al mare, ma in inverno sì, a raccogliere i legni portati dalle onde» racconta Cristina Botta, la più giovane dei cinque figli (Annamaria, Gianna, Andrea, Simone e appunto Cristina). Per quei tesori naturali nutriva rispetto, li cercava, li trovava, li archiviava, li sceglieva accuratamente per trasformarli in un’opera della creatività, mantenendo però sempre intatto il loro «carattere», senza nulla togliere o aggiungere. Nelle sue mani è diventata un’icona la sagoma in legno della basilica di Santo Spirito, la chiesa che ha fatto da sfondo ai suoi giochi di bambino: era nato in Oltrarno («Mi sento fiorentino» ripeteva), qui aveva ancora gli amici d’infanzia con i quali si rivedeva ogni 8 dicembre, qui da ragazzo aveva conosciuto anche la moglie, Margherita e qui aveva vissuto prima di trasferirsi a Strada in Chianti e aprire il suo atelier, Interno 9, a Bagno a Ripoli. Con le sue originali creazioni ha partecipato a numerose esposizioni in varie città italiane e straniere, tra le quali Tokyo, Napoli e New York, alla Triennale di Milano, alla Mostra dell’Artigianato di Firenze. Ha ottenuto, per una serie di oggetti per la didattica, 11 assegnazioni del prestigioso marchio europeo per il buon giocare, «Spielgut», ed è stato selezionato per il Compasso d’Oro nel 1970. Ha vissuto la guerra, l’Alluvione gli ha portato via tutto, e ogni volta è stato capace di reinventarsi. «Si svegliava di notte per disegnare e fermare su un foglio un’idea. Ha lavorato fino a 87 anni, caricava il furgone e partiva da solo per le fiere. A 70 anni si è inventato un nuovo lavoro, ideando i Timbri d’Artista» racconta Cristina. Oltre ai timbri, da utilizzare come chiudilettera o come logo personale, Botta realizzava anche t-shirt, borse, grembiuli, agende, album foto, libri in carta riciclata o con carte stampate a mano con la tecnica del torchio a stella. «È un lutto che colpisce pesantemente il mondo dell’artigianato portando via uno dei suoi storici rappresentanti» commenta il presidente di Confartigianato Imprese Firenze, Alessandro Sorani. «Felice Botta è stato non solo il rappresentante dell’eccellenza dell’artigianato fiorentino nel mondo» ricorda il sindaco Dario Nardella «ma anche un vero e proprio artista che ha lavorato incessantemente con la cura, la passione, l’amore che sono propri dei migliori maestri».

·        E’ morto l’attore Christopher Plummer.

(ANSA il 5 febbraio 2021.) Addio a Christopher Plummer: l'attore canadese di "Tutti Assieme Appassionatamente" e "All The Money of the World", è morto nella sua casa del Connecticut a 91 anni. Plummer aveva vinto un Oscar nel 2011 per "Beginners".

Morto Christopher Plummer, attore premio Oscar. Chiara Ugolini su La Repubblica il 5 febbraio 2021. Aveva 91 anni. Accanto a Julie Andrews nel musical cult 'Tutti insieme appassionatamente'. L'Academy Award nel 2012 con “Beginners”, nel 2017 aveva recitato in 'Tutti i soldi del mondo' al posto di Kevin Spacey. Detiene il record dell'attore più anziano sia come premiato dall'Academy (82 anni) che come come candidato (88). È morto Christopher Plummer, il grande attore canadese - un Oscar nel 2012 per Beginners - aveva 91 anni. Accanto a lui aveva la moglie, l'attrice Elaine Taylor, al suo fianco da 53 anni. L'annuncio della scomparsa è stata data dalla sua agenzia Icm Partners. Lascia anche la figlia, l'attrice Amanda Plummer. Tra gli ultimi ruoli quello del miliardario Jean Paul Getty in Tutti i soldi del mondo che raccontava il rapimento del nipote in Italia, l'attore aveva sostituito Kevin Spacey, travolto dallo scandalo molestie, nel film di Ridley Scott. Nella sua lunga carriera ha conquistato tre Emmy Award, due Tony Award, un Golden Globe, uno Screen Actors Guild Award e un BAFTA Award. Tra i ruoli che lo hanno reso popolare c'è certamente quello accanto a Julie Andrews nel musical cult Tutti insieme appassionatamente dove interpretava il padre, vedovo e un po' burbero di sette bambini, il capitano Von Trapp. Nato in Canada il 13 dicembre 1929, in un primo tempo credeva che sarebbe diventato pianista ma la recitazione lo portò a teatro, dopo una lunga esperienza teatrale a Ottawa arrivò a Broadway. Grande attore shakespeariano, approdò al musical grazie al regista Elia Kazan che lo scelse per il Cyrano con cui conquistò il primo dei due Tony. Il debutto al cinema per Plummer arrivò nel 1958 accanto a Henry Fonda e Susan Strasberg in Fascino del palcoscenico, diretto da Sidney Lumet, ma è grazie al musical con Julie Andrews che Plummer conquista popolarità. L'attrice a Venezia qualche anno fa aveva raccontato la bellissima esperienza del film insieme: "Avevo visto la produzione teatrale e condividevo con il regista, Robert Wise, la preoccupazione che il film fosse troppo sentimentale: sette bambini, le montagne, le suore... per cui abbiamo cercato di fare l’adattamento più rigoroso possibile e Christopher Plummer fu la colla che ci ha permesso di ottenere tutto quello, era così bravo come Capitano Von Trapp". (reuters)In più di sessant'anni di carriera, l'attore canadese ha partecipato in quasi 200 film tra cinema e teatro interpretando i ruoli più differenti, da Rudyard Kipling in L'uomo che volle farsi re (1975), di John Huston, al detective John Mackey in L'ultima eclissi (1995), tratto dal romanzo di Stephen King Dolores Claiborne. Sempre molto attivo in teatro e in televisione, nel 1999 Plummer è stato a fianco di Al Pacino e Russell Crowe nel film di Michael Mann Insider Dietro la verità, e nel 2000 ha impersonato Van Helsing in Dracula's Legacy - Il fascino del male. È nell'ultima parte della sua carriera che ha affondato nuovi colpi però. Nel 2012 ha vinto l'Oscar come miglior attore non protagonista per il ruolo del padre gay nel film Beginners diventando così l'attore più anziano a agguantare quella statuetta. Nuovo record poi a 88 anni quando proprio con il ruolo del miliardario Getty ha ottenuto la candidatura all'Oscar (e pure ai Golden Globe, ai BAFTA), il più anziano ad essere nominato. Quel ruolo è arrivato dopo la scelta di Ridley Scott di girare ex novo tutte le scene che avevano Kevin Spacey. Tra gli ultimi film in cui ha lavorato c'è lo spassoso giallo firmato da Rian Johnson, Cena con delitto - Knives out, in cui interpreta un celebre romanziere di gialli che viene trovato morto nella sua villa dopo aver compiuto 85 anni. Sulla sua morte si ritrova a indagare Daniel Craig.

·        È morta Tiana Tola, campionessa italiana di Judo.

È morta Tiana Tola, campionessa italiana di Judo. Riccardo Castrichini su Notizie.it il 03/02/2021. È morta Tiana Tola, campionessa italiana di Judo. Morta Tiana Tola, campionessa di judo italiana che vinse sette titoli assoluti. Aveva 61 anni. È morta Tiana Tola, campionessa italiana di judo classe 1960 che ha vinto durante la sua carriera ben sette titoli italiani assoluti. Da circa 12 anni l’atleta azzurra combatteva con una malattia autoimmune, una miastenia di forma grave, e le sue condizioni erano peggiorate nelle scorse settimane tanto che era stato necessario il ricovero in ospedale lo scorso 23 gennaio. Il ricordo della campionessa dalla grande tenacia, nello sport così come nella vita, è arrivato da suo fratello, Roberto, con queste parole: “12 anni di dolori, lotte, dimostrando ancora una volta la propria tenacia. Purtroppo questa volta, si è dovuta inchinare ad un avversario tremendo”. “Una volta – continua Roberto Tola – è riuscita a imporsi pur avendo una spalla fuori posto. Malgrado il dolore, malgrado la difficoltà nei movimenti. Tiana riuscì a vincere e portare il trofeo in Sardegna”. La Sardegna, terra natia della Tola, ha sempre rappresentato per lei un valore aggiunto, tant’è che non l’ha mai abbandonata. A Sassari, dopo aver concluso la carriera sportiva, ha avuto delle esperienze televisive in alcune emittenti locali per poi diventare un imprenditrice nel campo della cura e del benessere del corpo. Negli ultimi anni la malattia l’aveva costretta a stare in sedia a rotelle, ma stando al racconto di chi la conosceva non aveva perso la sua proverbiale forza combattiva.

Riccardo Castrichini. Nato a Latina nel 1991, è laureato in Economia e Marketing. Dopo un Master al Sole24Ore ha collaborato con TGcom24, IlGiornaleOff e Radio Rock.

·        E’ morta Nori Corbucci, moglie del grande regista Sergio.

Da corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 3 febbraio 2021. «Totò era già anziano e ci vedeva poco, ma restava un vero principe, frequentava solo aristocratici, solo grandi signori, quando andavo sul set si alzava per il baciamano». Nori Corbucci, moglie del grande regista Sergio, intervistata dal Fatto quotidiano, parla dell’artista napoletano (di cui ricorre quest’anno il cinquantenario della morte) che col marito girò sette film. «Con Sergio però non ha girato i suoi lavori migliori. Era un tipo generoso, da lui arrivavano dei regali enormi. Amava scegliere le parole, e parlava di Totò in terza persona, diceva di non amarlo ma di rispettarlo perché gli dava da mangiare, gli consentiva la bella vita. Diventava Totò da mezzogiorno, prima non si alzava, fino alle cinque del pomeriggio quando emetteva un fischio tipo da usignolo, era il segnale dello “stop alle riprese”, nessuno diceva niente, ma da qual momento tornava il principe. Sergio girò sette film con lui. Li finiva in un mese, le sceneggiature erano dei canovacci, poi Totò improvvisava».

Bud Spencer e i chili di pasta. Lavorò tanto anche con Bud Spencer. «Durante le pause sul set - ricorda Nori - si chiudevano in roulotte e mi dicevano: “Scusa, dobbiamo leggere la sceneggiatura”. Ma quale sceneggiatura! Si preparavano chilate di pasta, mangiavano in continuazione, due goderecci, dalla roulotte vedevo uscire il fumo degli spaghetti scolati. E io fuori, terrorizzata che si potesse sentire male». Nori era preoccupata per la voracità del consorte. «Paolo Villaggio mi spediva delle lettere anonime con su scritto: “Cara signora, ho incontrato suo marito in una rosticceria, aveva un panzerotto in mano, una crocchetta nelle tasche e stava ordinando una pizza. Io le do un consiglio: stia attenta. Firmato: un amico”».

«La mazzetta» tratto dal giallo di Veraldi. Le pellicole più importanti? «Sono tre: Il grande silenzio, Giallo napoletano e La mazzetta (tratta dal romanzo di Veraldi, ndr). Per quest’ultimo ci ha scritto anche Giulio Andreotti, evidentemente Sergio aveva raccontato la verità».

Dal "Fatto quotidiano" il 7 marzo 2021. Quello di Paolo Isotta – il grande e “irregolare” critico musicale prima del “Giornale” e del “Corriere della Sera” e poi collaboratore del “Fatto Quotidiano” scomparso lo scorso 12 febbraio – per Totò è stato un innamoramento. E questo suo ultimo “San Totò” – in libreria per Marsilio da oggi – ne è la dimostrazione. Qui ne anticipiamo un brano. Il 15 aprile 1967, verso le tre del pomeriggio, scendevo a via Roma dal Corso Vittorio Emanuele attraversando i vicoli dei "Quartieri". Avevo sedici anni. Dai "bassi" uscivano donne in lacrime. Singhiozzavano. "È mmuorto Totò!". E s' abbracciavano per condoglianza, come quando un congiunto entra nel regno donde non si torna. Di quel pianto l' aria vibrava, come d' una nota musicale. In pochi minuti Napoli ne fu pervasa. Si estendeva dal Vesuvio a Posillipo ai Campi Flegrei. Appresi così che il mio idolo non c' era più. Come l' avevano saputo, quelle donne? Nei "bassi", sul comò, accanto al San Giuseppe o alla Madonna sotto la campana di vetro, c' era la radiolina a transistors dalla quale gli uomini, la domenica, seguivano la partita di calcio. Avvenne forse così. Di bocca in bocca si trasmisero il lutto. Era scomparso più che un congiunto. Era morto un Santo. Federico Fellini, restato col rimpianto di non aver mai girato un film con lui (ma la prima colpa era sua), l' aveva ribattezzato "San Totò" per la felicità da lui donata a tutti con la risata che imperiosamente suscitava. E anche quelli che si recano a venerarlo alla tomba di Santa Maria del Pianto a Napoli lo chiamano Santo Totò, gli rivolgono preghiere, gli chiedono grazie. Un' altra particolare testimonianza di devozione viene da un sommo artista, il direttore d' orchestra Giuseppe (Pippo) Patanè: il quale, una volta, in anni non sospetti, mi disse: "I più grandi italiani del Novecento sono stati Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello e Totò" Due giorni dopo, il carro contenente la bara giunse da Roma prima delle cinque. I funerali si svolsero al Carmine. Dall' uscita dell' autostrada, per diversi chilometri, due ali di folla lo salutavano, gl' inviavano baci e fiori. Un tempo la basilica confinava colla spiaggia, l' acqua la lambiva. Posseggo un olio di Silvestr Scedrin, morto a Sorrento nel 1830, che la ritrae così. La facciata dà sulla piazza del Mercato. Lì, il 29 ottobre 1268, Corradino di Svevia e Federico d' Austria vennero decapitati per ordine di Carlo d' Angiò. Attendevano l' esecuzione giuocando a scacchi. Quindi, oltre ch' esser intrepidi, avranno avuto la capacità di ridere. Colla sapienza dei morti, oggi sanno la natura anche tragica, oltre che sommamente comica, dell' arte di Totò; e hanno provato piacere che venisse loro unito per esequie. Dico natura tragica: ma non quando i registi gl' impongono parti apparentemente tragiche. La natura tragica è della maschera. L' orazione funebre pronunciata da Nino Taranto all' interno della basilica del Carmine può ascoltarsi "in rete". Lapidaria, commovente. Il grande Nino, del quale riuscii anche a esser amico, era in compagnia di Dolores Palumbo: una straordinaria attrice di prosa che Totò faceva lavorare soprattutto nella Rivista ed è poi immortalata in un ingrato, difficillimo ruolo di Miseria e nobiltà, oltre a esser stata fra le migliori scarpettiste del Novecento: vedere 'O scarfalietto per averne un' idea. Con un compagno di scuola, Fabrizio Perrone Capano, mi ci recai. In chiesa c' erano tremila persone, in piazza centoventimila. Fu il primo spontaneo convegno di massa del dopoguerra. Prima, c' erano le "adunate oceaniche". Esequie siffatte avevano ottenuto solo, avanti la Guerra, Enrico Caruso e Eduardo Scarpetta: quanto a partecipazione in percentuale, non forse quanto a numero di presenti. Dopo il 1945, i comizi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Ma quel giorno il popolo convenne da sé. La folla, che ondeggiava, si serrava e ci serrava, ci spaventò. Ci sentivamo soffocare e travolgere. Ebbi l' idea di entrare in uno dei moderni palazzi prospicienti il sagrato. Il portone era aperto. Bussai a un secondo piano e chiesi ospitalità. La padrona ci accolse con un sorriso della cortesia napoletana di un tempo. Il balcone era gremito: ci offrirono anche la sedia e il caffè. Dall'alto la folla pareva il mare quando soffia il libeccio. A un certo momento la cassa esce, portata a spalla, sormontata dalla sua bombetta, che Franca aveva già posta sul feretro per la camera ardente, ai Parioli. La infilano nel carro. Riescono a chiudere lo sportello: con molta fatica, ché tutti volevano baciare o toccare 'o tabuto, il feretro. Il carro è assalito. Prende la fuga. La folla lo insegue. Il finale di Totò a colori si ripetette da sé. Colla sua ultima recita Totò volle anche ribadire una verità estetica affermata, tra l' altro, da due eccelsi poeti, pur essi napoletani, Tasso e Marino: che la Natura imita l' Arte. Non possiamo che chiudere queste parole con una sentenza delle Metamorfosi ( III , 158-9) di Ovidio, origine di quelle barocche: la natura col suo ingegno aveva simulato l' arte. Ch' è una delle insegne del Barocco, stile al quale Totò, come Bernini, appartiene, e stile che incarna. Un Barocco funebre e inquietante, surrealista e marionettistico, come sovente è, col suo ossessivo culto della Morte e della Vita fra le quali non sempre distingui i confini.

 Stenio Solinas per “il Giornale” il 14 marzo 2021. È un' allegria malinconica quella che accompagna la lettura di San Totò (Marsilio, pagg. 302, euro 19), l' ultimo libro di Paolo Isotta, rivisto e corretto per il «si stampi» un mese prima della sua improvvisa scomparsa, il 12 febbraio scorso, a settant' anni da poco compiuti. Parlo per chi lo ha conosciuto e gli è stato amico, ché per il comune lettore il piacere sarà totale, pieno com'è il testo di annotazioni spiritose, aneddoti e sottolineature ironiche, divagazioni simpaticamente erudite fatte con l'uso di mondo di chi si muoveva fra arte, musica, cinema e letteratura come se fosse a casa sua. E forse fa parte dei segni del destino che Isotta se ne sia andato sottobraccio a Totò, perché, come sottolineava il primo, «la grande arte è sempre tragica», e come sottolineava il secondo «non c'è niente che provochi singulti di ilarità, assai maltrattenuti di fourire quanto un funerale, che è lo spettacolo della morte». Erano entrambi consapevoli che «la vita non si sceglie, si accetta», ovvero che «la felicità è un fatto di dimenticanza» e ciascuno a suo modo nel corso della loro esistenza le hanno stoicamente fatto fronte. Nel titolo c' è la chiave di lettura di un libro tanto singolare, nell' essere cucito addosso al suo autore, quanto universale nel rifarsi a un principe della risata. «Io son un uomo all' antica - scrive Isotta -, e credo solo nei Santi: e nemmeno in tutti... Per me Totò è un Santo: per l' altezza della sua arte, per la gioia da lui per decenni donata a milioni di persone: gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti. Per essere riuscito, con la risata che suscitava, a far per un attimo dimenticare a tutti, non solo ai reietti, le loro tragedie... La comicità aiuta la gente a prendere la vita come viene e gliela rende più accettabile. Che altro fanno i Santi?». Deriva da qui l' altro elemento religioso, di una religiosità arcaica e pagana, della comicità di Totò che è, al suo massimo, di natura eversiva, nel suo contestare non solo la società borghese e le sue convenzioni, ma, come spiega Isotta, lo stesso «principio d' identità personale, che la realtà sia percepibile, forse anche che la realtà esista». È quello di Totò un portato che attraversa i secoli, dai Saturnali ai lazzi dei jongleurs sul sagrato delle chiese medievali alla Festa di Piedigrotta, «erede cattolicizzata di settembrini riti dionisiaci e priapei» e che altro non è se non l' incanalamento e lo sfogo di un' energia eversiva la cui repressione sarebbe non solo impossibile, ma altresì dannosa. Ne deriva che «l' arcaicissima essenza rivoluzionaria di Totò si trasforma in una forza di coesione sociale: e solo proveniendovi sillogisticamente possiamo comprendere una verità non piacevole da ammettere. Anche perché l' avrebbe compresa un senatore del primo secolo avanti l' era volgare, non un cretino odierno». E infatti, «Totò è stato uno degli artisti più perseguitati dalla Censura: ma dopo, non prima, del Regime». Il libro si divide in due parti: della seconda diremo dopo, ma la prima, «Tentiamo un ritratto», qui ci interessa perché oltre a essere «una flânerie in quell' universo che si chiama Totò», è anche una flânerie nell' universo Isotta. Si prenda la puntuale analisi intorno al costume tipico di Totò, un tight surreale e comicamente deformato, con la bombetta al posto del cilindro, le stringhe delle scarpe annodate a mo' di papillon, buono semmai per il «dinner jacket, vulgo detto smoking», al posto della classica cravatta lunga argentata, nera solo se la indossi un maggiordomo. Ecco come Isotta ci flaneggia intorno: «I parvenus (o pezziente sagliute) definiscono così, convinti di essere nel giusto, il loro semplice cameriere, sovente shrilankese... Il dinner jacket non è un abito da cerimonia (i cretini e i parvenus lo mettono alla prima della Scala), ma, come dice il nome stesso, un abito sottotono, che andrebbe indossato per le cene in famiglia senza pretese E non dico che camicie questi parvenus indossano al Sant'Ambrogio!». Di fronte alla prevedibile critica che si sta parlando di etichette di un secolo fa, quando c'era ancora il frack, quando il tight non era fuori moda, Isotta non demorde: «Non nego. Il punto è che i coglioni che mettono lo smoking a Sant' Ambrogio credono di stare in alta etichetta. In così alta etichetta che se si mettessero la giacca a quadrillets, le scarpe bianche e la paglietta non farebbero differenza». Isotta, «nei protratti e non rimpianti Sant'Ambrogio» di quando era il critico musicale del Corsera, «indossava sempre un fumo di Londra o un abito blu scuro». Ahimè, niente frack: «Sarei stato preso per un orchestrale; e sarei stato solo e quindi ridicolo».

Notazione finale: «Tutte queste cose me le ha spiegate in sogno il principe de Curtis». Si prenda poi l' analisi intorno a Peppino de Filippo, deuteragonista più che spalla di Totò, ovvero «il miracolo di un adattamento reciproco che nasce dall' intelligenza, dalla pratica, dal genio». Peppino creava alla pari con Totò, non gli porgeva le battute. «Quando in Totò, Peppino e la... malafemmina Peppino cancella col fazzoletto i suoi errori di scrittura e poi, sudando copiosamente, si asciuga collo stesso fazzoletto e si copre la faccia d' inchiostro, ci si può solo inchinare reverenti come di fronte al Padre e allo Spirito Santo». Peppino, dunque, non Eduardo, «un Pirandello dei miserrimi. Mi pare che nel 1981 un retore che ricopriva la più alta carica dello Stato nominasse De Filippo Senatore a vita. E infatti Pertini è stato il più retore (Scalfaro il più surrettizio; Cossiga andava rinchiuso tra pareti piumate) fra i nostri Presidenti. Pertini, a sentire la parola arte avrebbe messo mano al suo moschetto di partigiano. Eduardo De Filippo lo conosceva in quanto comunista: e per lui era ragione sufficientissima». Infine, la lingua isottiana, che non sfigura rispetto alla fantasia verbale e neologistica di Totò: «la teterrima via Santa Maria Antesaecula», «l'ineunda autostrada», «sorge un'osservazione», «ogni regola soffre eccezione», «siccome documentato», «similla», «accorsato», «allocato», «il gag», sempre al maschile, i «films» sempre con la esse finale, come d'altronde gli sketches...La seconda parte del libro, la più lunga, 200 pagine, è una minuziosa schedatura di tutte le pellicole, dal 1937 al 1966, che ebbero Totò come protagonista o ne videro la partecipazione. A leggerla, si capisce quanto Isotta abbia preso gusto nello scriverla, visto che gli riservava lunghe ore notturne dove, soffrendo d'insonnia, poteva se non altro dimenticarla ridendoci intorno e, si capisce da come alcuni testi comici di Totò siano stati riportati per intero, ridendoci sopra a crepapelle, come del resto è capitato al sottoscritto, per quanto li avesse visti, rivisti, stravisti al cinema o in televisione. Perché poi, come egli spiega benissimo, e come a lungo non capirono i critici, molti dei quali continuano ancora a non capirlo, Totò non è tanto un attore, ovvero un interprete, bravo e financo bravissimo, ma è una maschera a sé, con tutta la poliedricità e il genio che le sta dietro, e noi nei films è proprio questa che andiamo cercando, pellicola dopo pellicola, indipendentemente dai soggetti, dalle trame, dalle situazioni. Una maschera, ennesimo paradosso, che è poi la sua stessa faccia... Come osserva Isotta, «il patetismo dà sempre fastidio, ma quando si tratta di Totò è un vero errore di grammatica». Sotto questo profilo, l'adorazione isottiana per Che fine ha fatto Totò Baby?, di converso alla scarsa considerazione per Uccellacci e uccellini, rientra in quella comicità metafisica che fa tutt'uno con il teatro della crudeltà, dove il concetto di maschera eccede la misura stessa del bene e del male, è tanto radicale quanto assoluta. In una scena, nemmeno fra le più sadiche, Totò rompe a martellate la gamba rimasta sana di Pietro De Vico perché il risarcimento prevede la rottura di entrambi gli arti inferiori; in un'altra strozza una ragazza con una calza, parodiando d' Annunzio: «La calza è bella! La calza è buona! Tutta di calza ti voglio vestire!». A Totò e alla sua filmografia, Isotta si accosta con la stessa attenzione filologica riservata alle partiture musicali. Si prenda i due fratelli Caponi di Totò, Peppino e la... malafemmina. In realtà, ma pochi se ne sono accorti, i due all' anagrafe fanno Capone, «ma per via delle continue violenze da loro fatte all'ortografia, alla grammatica, alla sintassi, essendo loro due pronunciano il cognome al plurale, Caponi». «Che siamo noi», appunto. Continueremmo all' infinito, ma non si può. San Totò è il bellissimo libro sul principe della risata scritto dal principe della critica musicale, e non solo. E, come avrebbe chiosato il primo, «ho detto tutto».

Francesca Bianchi per ftnews.it del 05 gennaio 2017. Sabato 7 gennaio uscirà nelle librerie Marta Marzotto. Un'amica veramente speciale, omaggio della scrittrice Nori Corbucci alla sua celebre amica Marta Marzotto, scomparsa il 29 luglio scorso. Nori e Marta, due donne che hanno affrontato insieme gioie e dolori della vita, unite fino all'ultimo dal gusto di sdrammatizzare e di non prendersi troppo sul serio. FtNews ha incontrato la signora Corbucci, moglie del regista Sergio, che in anteprima ci ha rivelato qualche indiscrezione su questo libro, raccontandoci del legame fraterno che l'ha unita per una vita a Marta Marzotto, dall'amicizia nata a Cortina, quando entrambe erano giovanissime, all'ingresso nel mondo dorato del jet set internazionale. Nel corso della nostra bella conversazione, Nori ha ricordato i ricevimenti e le feste organizzate dalla Contessa, soffermandosi sulle tante estati felici a Porto Rotondo e sulle numerose scorribande fatte insieme in giro per il mondo. Dalle parole commosse di Nori trapela la nostalgia di tempi felici che non torneranno più, vissuti quasi sempre in compagnia di Marta Marzotto, una donna che non si è mai lasciata vivere, ma ha attraversato da protagonista oltre mezzo secolo di cultura e storia italiana, conoscendo i grandi del mondo, senza mai rinnegare le umili origini.

Come è nata l'idea di scrivere questo libro dedicato alla Sua amicizia con Marta Marzotto?

«Nella prefazione del libro In viaggio con Marta, uscito nel 2009, lei stessa mi chiede di essere mia e sua biografa per gli oltre cinquant'anni che ci hanno viste protagoniste e testimoni della storia d'Italia. Ho ritenuto mio dovere e piacere omaggiarla con questo secondo libro, che ho iniziato a scrivere nell'autunno del 2015. Lo scorso maggio è arrivata la notizia terribile della sua malattia e, dopo appena due mesi, Marta, che per me è stata più di una sorella maggiore, è venuta a mancare, lasciandomi un grande vuoto e tanti bei ricordi dei momenti spensierati vissuti insieme. In ottobre ho ripreso a scrivere il libro, parlando di lei al presente, come se fosse ancora tra noi. Questo mio lavoro vuole essere un omaggio a lei, alla donna meravigliosa che è stata, alla sua insaziabile voglia di vivere e di partecipare a tutti gli avvenimenti della nostra epoca».

Come ha affrontato la malattia?

«Con serenità alternata ad incredulità, come se per lei la morte fosse un affronto inaspettato. Spesso amava ripetere di essere immortale e io mi ero illusa che lo fosse veramente. Pensi che quando Marta mi informò telefonicamente della sua malattia incurabile, io scoppiai in un pianto irrefrenabile, tanto che lei, con il solito tono scanzonato, esclamò: "Guarda, Nori, che sono io che ho il tumore. E ti pare possibile che debba consolare te?"».

Lei è stata una delle migliori amiche di Marta Marzotto per oltre 50 anni. Come è nata la Vostra lunga amicizia?

«Ci siamo conosciute a Cortina nel 1952, quando lei aveva 21 anni e io 16. Eravamo all'ora dell'aperitivo all'Hotel Posta, dove all'epoca si riuniva la jeunesse dorée. Qualcuno me la presentò e da allora non ci siamo più lasciate. Ricordo ancora la sua gradevolissima voce, intercalata dalla sua risata speciale, il suo modo elegante di camminare. Io andavo a Cortina con la mia famiglia, lei con il suo fidanzato, poi marito, Umberto Marzotto. Trascorrevamo le nostre mattinate sciando; la sera, invece, andavamo a ballare al "Capriccio" o al "Sanin Dapò". Tornavo a Cortina tutti gli anni a febbraio e la nostra amicizia riprendeva come se il tempo non fosse passato».

Le parlava del conte Umberto Marzotto?

«Una volta mi confidò che il conte la corteggiava e le chiese di sposarlo. Ricordo che mi chiese cosa ne pensassi. Io le risposi: Meglio contessa Marzotto che Marta Vacondio!. Questa mia frase fu profetica!»

Dopo il matrimonio con Umberto Marzotto Vi siete perse di vista per qualche anno. Come e quando Vi siete ritrovate?

«Si sposò e non la vidi più per circa un decennio. Nel frattempo mi ero sposata anch'io con il regista Sergio Corbucci. Dopo anni, la incontrai per caso al Caffè Greco, a Roma, e ci abbracciammo con grande stupore, come se ci fossimo lasciate il giorno prima. Era raggiante di felicità: mi raccontò orgogliosa dei cinque figli e della perfetta integrazione nella vita agiata della famiglia Marzotto. Mi invitò nella sua casa di Piazza di Spagna. Io accettai subito l'invito e tre o quattro sere dopo mio marito ed io eravamo già a cena nel suo famoso attico».

Chi erano gli ospiti del celebre salotto romano della Contessa?

«Gli ospiti erano piuttosto variegati: alcuni principi delle più grandi casate romane, mescolati ad artisti, poeti, gente di cinema. Quando, invece, si trasferì nel villino di Viale D'Annunzio, nel centro di Villa Borghese, frequentatori assidui erano il presidente Sandro Pertini, Alberto Moravia, lo storico Lucio Villari, Vittorio Gassman, Corrado Cagli, Goffredo Parise. Queste serate erano molto ambite dalla "Roma che conta" e Marta dovette selezionare gli ospiti».

Frequentando il salotto della Contessa, ebbe modo di conoscere Guttuso. Come lo ricorda?

«Guttuso aveva per Marta un'autentica adorazione e le aveva affibbiato i nomignoli più gratificati e poetici: "nuvola bionda", "tu c'hai sempre il miele addosso... gli altri non possono fare a meno di starti attaccati", "Martina mia adorata". L'ha dipinta centinaia di volte, soprattutto mezza nuda o con le calze a rete, e anche sulle due porte della camera da letto di Marta».

Marta Marzotto diceva spesso che tre sono stati gli uomini della sua vita: il conte Umberto Marzotto, il pittore Renato Guttuso e l'intellettuale comunista Lucio Magri. Quale dei tre ha amato di più?

«Negli anni Ottanta, quando aveva tre uomini da gestire, mi venne spontaneo chiederle quale dei tre amasse veramente. Senza esitazione mi rispose: "Ma Umberto! Umberto è mio marito, ho avuto cinque figli da lui, mi ha dato tutto quello che ho e devo a lui quello che sono diventata"».

Chi ha conosciuto bene la Contessa ne racconta sempre la profonda e spontanea generosità...

«Diceva sempre: "Le cose appartengono a chi le desidera". Se qualcuno avesse espresso un apprezzamento o manifestato il desiderio di procurarsi un vestito o un accessorio che lei indossava, era capace di toglierselo e donarlo al diretto interessato. Sia che si trattasse di un gioiello, anche di valore, sia che si trattasse di una sciarpa o altro. Una volta regalò un costosissimo zibellino a un'amica in difficoltà. Se non donava qualcosa ogni giorno, non andava a dormire serena. Adorava fare regali e leggere la felicità sul volto delle persone a cui voleva bene. La sua generosità non si fermava alle amiche: faceva del bene, quello serio, vero, senza mai vantarsene».

Sembrava davvero indistruttibile...

«Aveva la capacità di fare cinque o sei cose nella stessa giornata: andare a una colazione la mattina, a un vernissage nel pomeriggio, a un cocktail, a una festa o a un ballo la sera. Quest'anno ha festeggiato il suo ultimo compleanno a Cortina il 24 febbraio, il 2 marzo è partita per Hong Kong e dopo nemmeno una settimana era a Marrakech. Aveva 85 anni, ma aveva la curiosità e l'entusiasmo di una ragazzina. Ha divorato la vita fino all'ultimo respiro».

Ci racconta qualche aneddoto sulla Sua amica?

«E' stata una grande intenditrice d'arte. Riconosceva a colpo d'occhio quasi tutti i pittori dal Rinascimento fino alla Pop Art. Molte informazioni, acquisite dal suocero Gaetano, non le ha più dimenticate: aveva una memoria portentosa. E' stata una grande conoscitrice di gioielli e pietre preziose, che amava indossare in maniera vistosa, basti pensare ai suoi bracciali lunghi dal polso fino al gomito, di maglia d'oro o di platino tempestati di pietre preziose, o agli anelli che coprivano almeno due falangi. Sapeva cucinare benissimo: i suoi risotti, il gelato di caffè e la cheese cake sono diventati famosi. Inoltre era innamorata della musica lirica: nelle sue case aleggiava spesso la voce della Callas o di Pavarotti».

E' vero che amava cantare?

«Sì, è verissimo! Era intonata e conosceva le parole di quasi tutte le canzoni, belle e brutte. Amava cantare in compagnia, sopratutto nei lunghi viaggi in macchina. Ricordo che una volta a Punta del Este, in Uruguay, con Lella Bertinotti iniziarono con "Abat-jour" e finirono con "Bella ciao". Entrambe conoscevano a menadito dalla prima all'ultima parola della famosa canzone rossa».

Chi non la conosceva ed era abituato a vederla in tv restava ammaliato dai suoi preziosi caftani, rigorosamente colorati, dai vistosi gioielli, dallo sfarzo e dal lusso che caratterizzavano la sua vita. Nella realtà chi era veramente Marta Marzotto?

«Marta era tutto e il contrario di tutto. Ogni volta era una sorpresa, un'apparizione diversa dall'altra, era animata da una grande voglia di stupire e di stupirsi. Amava prendere la vita con leggerezza, ma chi la conosceva bene ha sempre saputo che questa era solo la cornice: il quadro era molto complesso e niente affatto superficiale. La veste che ha scelto di indossare serviva a coprire sofferenze mai del tutto sepolte: l'infanzia vissuta in estrema povertà; la perdita dei suoi tre uomini, insieme allo status, che poi è riuscita a riconquistare con la sua sola forza; la morte dell'amata figlia Annalisa, cui seguì una lunga depressione. Se ne stava chiusa nel suo dolore a disperarsi come una bestia ferita, finché decise che o moriva o viveva e la vita fu più forte. E se vita doveva essere, che fosse alla grandissima: via alle feste, ai viaggi, agli inviti e io con lei, trascinata dalla sua contagiosa vitalità, che probabilmente mi ha salvato da una vita monotona».

Anni fa ha scritto il libro "In viaggio con Marta", dove racconta curiosità ed aneddoti sui Vostri numerosi viaggi in giro per il mondo. Che ricordo ha di quelle esperienze?

«Ho in mente tutti i viaggi fatti con la mia straordinaria amica: Tailandia, Birmania, Mosca, New York, India, Egitto, Uruguay, San Pietroburgo, dove, visitando l'Hermitage, ci ritrovammo in una sala dedicata a Guttuso, in cui campeggiavano in primo piano le lunghe gambe coperte a metà da calze a rete e l'inconfondibile sedere di Marta. Lei fu orgogliosissima di essere immortalata in uno dei musei più importanti del mondo. In India, invece, siamo state tre volte. L’India di Marta era tutta case di maharaja, residenze di ambasciatori, sedi di gioiellieri. In sua compagnia tutto prendeva colore e vivacità. Al suo fianco vivevo al di sopra delle mie possibilità sia fisiche che psichiche. Quando eravamo in viaggio assieme, la mia preghiera al Cielo era sempre: "Fai che Marta si stanchi e voglia ogni tanto riposarsi!". Le esperienze più belle della mia vita le ho vissute con lei, che attirava a sé solo il bello, ignorando tutto ciò che la distraeva dalla piacevolezza della vita».

Insieme avete superato il periodo più brutto della Vostra esistenza: nell'estate del 1989 Marta perse la figlia Annalisa, malata di fibrosi cistica, a dicembre del '90 venne a mancare Suo marito, il regista Sergio Corbucci. Come avete superato quel periodo di grande dolore?

Abbiamo pianto tutte le nostre lacrime e abbiamo continuato a piangerle fino all'ultimo, senza darlo a vedere, simulando forza ed allegria: era l'unico modo per sopravvivere. Da quell'anno Marta mi prese sotto le sue braccia protettive, dicendomi: "Nori, noi due abbiamo volato. Ora non possiamo strisciare!". Intendeva dirmi che noi, che eravamo la quintessenza della gioia di vivere, dovevamo cercare di condurre lo stesso stile di vita di prima, senza far pesare il nostro dolore. Come primo rimedio, mi invitò a trascorrere l'estate nella sua villa a Porto Rotondo, circondata dal suo affetto e da quello dei figli prima e dei nipoti poi, che mi hanno sempre fatto sentire una di casa».

Insieme a Cortina, Porto Rotondo è stato uno dei grandi amori della Contessa. Come trascorrevano le Vostre estati in Costa Smeralda?

«Ogni estate passata con Marta in Sardegna è stata una favola. Fin dagli anni Settanta era solita trascorrere le vacanze estive nella sua splendida villa di Porto Rotondo, decorata da Guttuso. Nel giardino in riva al mare c'era l'abitudine di tenere la tavola apparecchiata per una ventina di persone. Tutti gli amici di Marta che passavano di là venivano ad omaggiarla e spesso si fermavano a colazione. Erano tutti personaggi famosi che, pur di trascorrere un'oretta con lei, arrivavano da lidi lontani: principi, imprenditori, playboy, intellettuali, modelle. Aveva un'attitudine particolare ad organizzare balli diurni a tema. Si cantava, si cucinava in spiaggia. Era sempre entusiasta e creativa ed era famosa ovunque per l'alta qualità delle sue feste. La sera si cenava da lei o nella villa di Giorgio Nocella, tombeur de femme e fantastico ballerino. Giorgio riceveva sempre dopo le dieci. Si cenava a buffet, con cibi rigorosamente sardi. Non mancava mai l'orchestra che suonava fino alle tre o alle quattro del mattino, permettendoci di ballare fino alle ore piccole. Quando andavamo a queste cene, sembrava di andare a una prima alla Scala: eravamo tutti elegantissimi. Marta e Giorgio hanno portato il lusso e lo sfarzo a Porto Rotondo».

Chi partecipava a queste feste?

«Tutti i nostri amici che avevano casa lì, come Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Luciano Salce, Francesco Rosi con sua Moglie Giancarla, Renato Salvatori, Corrado Pani, Paolo Villaggio, Mario Ceroli, Rudy e Consuelo Crespi, i marchesi Verusio, Gianni e Marella Marzi, i conti Donà dalle Rose con le mogli, Lina Wertmüller e il marito Enrico Job, Krizia, Ivana Trump, Niki Lauda, Naomi Campbell, il cantante Raffaello, che ci intratteneva con il suo repertorio di musica anni Sessanta».

La morte della figlia Annalisa, uccisa dalla fibrosi cistica a soli 32 anni, fu la vera, grande tragedia della vita della Contessa...

«Sì, dopo la morte di Annalisa visse un periodo di profonda depressione. Quel dolore atroce l'ha portato dentro per tutta la vita. Un giorno, mentre nuotavamo nel mare cristallino di Barbuda, l'isola di Krizia, un gabbiano sorvolò la testa di Marta, che subito mi confidò di aver avvertito un forte brivido lungo la schiena. In lacrime mi disse: "In quel gabbiano c'era la mia Annalisa che mi voleva salutare"».

Nel ricordo imperituro della figlia ha fatto restaurare per il Museo Poldi Pezzoli di Milano una Madonna con il Bambino del Botticelli.

«Approfitto dell'occasione per dire che i proventi di questo mio libro saranno dedicati proprio ad Annalisa e devoluti alla Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica. Marta avrebbe desiderato questo».

Secondo Lei, come vorrebbe essere ricordata?

«Con il sorriso, con l'ottimismo, con l'allegria, con la gioia di vivere con cui lei ha saputo affrontare la vita, nella gioia e nel dolore. In una delle nostre ultime telefonate mi disse di organizzare una festa in suo onore ogni anno».

·        E’ morto l’investigatore privato Jack Palladino.

DAGONEWS il 2 febbraio 2021. Jack Palladino, investigatore privato, diventato famoso per le sue tattiche non proprio ortodosse e per aver lavorato con Bill Clinton e Harvey Weinstein, è morto il 1 febbraio in un ospedale di San Francisco. Aveva 76 anni. Il suo avvocato, Mel Honowitz, ha confermato la morte. Palladino era attaccato alle macchine che lo tenevano in vita dopo aver subito un trauma cranico giovedì, a seguito di un tentativo di rapina fuori dalla sua casa a San Francisco, dove un uomo è saltato fuori da un'auto e ha cercato di rubargli la macchina fotografica. Le immagini della telecamera hanno portato all'arresto di due sospetti, secondo il San Francisco Chronicle. Palladino ha lavorato per più di quattro decenni con sua moglie Sandra Sutherland, formando un'elegante coppia investigativa che i giornalisti hanno regolarmente paragonato a Nick e Nora Charles, i sofisticati investigatori del romanzo giallo di Dashiell Hammett "The Thin Man". Mentre Sutherland lavorava spesso sotto copertura, Palladino trovava più difficile cambiare identità. Alto 177 centimetri, pesava 90 chili, era calvo e con gli occhiali, appassionato di cravatte Balenciaga, camicie di seta e mocassini con nappine rosse. Ha indagato su omicidi e traffico di droga, ma non ha mai portato un'arma da fuoco, spiegando che «le pistole ti rendono pigro, quindi non cerchi modi più creativi per uscire da una situazione». I clienti di Palladino hanno spaziato dai trafficanti internazionali di marijuana ai predatori sessuali fino alle organizzazioni per i diritti umani e alle star di Hollywood. Ha lavorato al caso di rapimento di Patty Hearst, ha indagato sul suicidio di massa nel complesso di Jonestown in Guyana e ha contribuito a difendere Jeffrey Wigand, l'informatore dell'industria del tabacco interpretato nel film di Michael Mann del 1999 "The Insider". Palladino ha interpretato se stesso in un cameo. Ha anche lavorato con gli attori Kevin Costner e Robin Williams; con i rapper MC Hammer e Snoop Dogg; con Suge Knight e il magnate automobilistico John Z. DeLorean; con il leader degli Hells Angels Sonny Barger e con il cofondatore delle Black Panthers Huey Newton; con il cantante R&B R. Kelly, che è stato assolto in un processo per pornografia infantile nel 2008. «Sono qualcuno che chiami quando la casa è in fiamme, non quando c'è fumo in cucina - disse Palladino al San Francisco Examiner nel 1999 - Mi chiedi di occuparmi di quell'incendio, di salvarti, di fare di tutto, mi chiedi da dove viene, dove sta andando, succederà mai di nuovo? La gente mi chiama perché sono in guai molto grossi». Palladino era conosciuto per il suo lavoro con Clinton, iniziato subito dopo che Gennifer Flowers si fece avanti durante la campagna presidenziale del governatore dell'Arkansas del 1992, sostenendo che avevano una relazione da 12 anni. Mentre Clinton in seguito ammise di aver fatto sesso con Flowers - un dipendente dello stato dell'Arkansas e cantante di lounge - Palladino lavorava per minare la sua reputazione. A tal fine, ha viaggiato per il paese intervistando conoscenti di Flowers, alcuni dei quali l'hanno chiamata per chiedere informazioni su un uomo "molto strano" che chiedeva loro se fosse sessualmente attiva o  fosse "il tipo da suicidarsi". All'epoca, Betsey Wright, assistente senior di Clinton, difese le azioni di Palladino, che veniva pagato 2mila dollari al giorno, parlando di "autodifesa", dicendo al Washington Post che tabloid e talk show avevano offerto più di $ 100.000 alle donne che condividevano storie imbarazzanti sul candidato. Larry Sabato, politologo dell'Università della Virginia, in seguito disse al New Yorker che Palladino aveva supervisionato "una campagna molto aggressiva per sopprimere le informazioni". Ha affrontato critiche costanti come quelle dell'ex consigliere di Clinton Dick Morris, che ha definito Palladino un membro della "polizia segreta" del presidente, e dell'editorialista del New York Times William Safire, che ha etichettato Palladino come uno dei "malviventi assunti dagli avvocati di Clinton". Palladino ha detto che stava semplicemente perseguendo la verità, sebbene abbia ammesso di aver mentito a volte sulla sua identità nel corso di un'indagine. Secondo quanto riferito, le sue tattiche includevano la realizzazione di registrazioni segrete, l'uso di donne attraenti per ottenere informazioni dagli uomini e l’intimidazione delle persone che finivano sotto le sue grinfie. Palladino venne criticato nuovamente dopo che il New Yorker riferì che aveva lavorato per Weinstein, il produttore cinematografico e co-fondatore di Miramax che è stato condannato lo scorso anno con l'accusa di violenza sessuale. Secondo un rapporto del 2017 del giornalista Ronan Farrow, Palladino e un altro investigatore avevano prodotto dossier sulle accusatrici di Weinstein, nonché sui giornalisti coinvolti , "che includevano informazioni che potevano essere utilizzate per minare la loro credibilità". «La credibilità dei testimoni e la verificabilità delle accuse sono sempre in discussione nei contenziosi – disse Palladino all’epoca -  Questa non è una tattica della nostra azienda come investigatori, ma il nostro obbligo legale ed etico nella rappresentanza dei nostri clienti».

Anna Guaita per "Il Messaggero" il 4 febbraio 2021. L'investigatore privato che aveva aiutato Bill Clinton nei suoi scandali sessuali, nonché attori e altre personalità famose, è morto a San Francisco per un'aggressione. Jack Palladino era andato in pensione da appena un anno e con la moglie stava facendo piani per lunghi viaggi intorno al mondo. Dopo decenni passati sulla breccia, come la più famosa coppia di investigatori privati degli Stati Uniti, Jack e Sandra erano a casa la sera di cinque giorni fa, quando lui ha visto per strada degli individui sospetti e si è precipitato fuori per fotografarli. Il coraggio e il fiuto questa volta gli sono però stati fatali. C'è stata una colluttazione, i due sospetti hanno cercato di rubargli la macchina fotografica, ma Jack non ha ceduto. Malmenato e preso a pugni, l'investigatore è caduto per terra e ha battuto la testa, ma è rimasto cosciente abbastanza da mettere in mano alla moglie la macchina fotografica con le immagini dei due uomini che stavano fuggendo in automobile, e che sono stati catturati due giorni dopo. Sandra ha poi detto: «Jack ha puntato il dito sui propri assassini, ha risolto lui il caso». Ricoverato, Jack è rimasto in coma quattro giorni, ed è spirato due giorni fa senza riprendere conoscenza. Jack Palladino apparteneva alla famosa scuola di investigatori moderni lanciata negli anni Settanta dal leggendario Hal Lipset, che aveva introdotto la tecnologia più avanzata nelle indagini private. Jack aveva una laurea in scienze politiche e una in legge, e aveva superato l'esame per diventare avvocato. Eppure, il primo lavoro che accettò fu di fingersi un ladro di pellicce, per aiutare a debellare un circuito di corruzione fra prigionieri e guardie carcerarie in una prigione di New York. Nel 1977 insieme alla moglie Sandra, lasciò Lipset e aprì la sua agenzia di investigazioni a San Francisco. E la coppia si fece presto un nome, paragonata spesso alla coppia Nick e Nora Charles, creata dallo scrittore Dashiell Hammett. Lei era minuta, delicata, fine, australiana, lui era grande e grosso e atletico con dei baffoni neri, e un carattere irruente, con un accento bostoniano appena colorito di un pizzico di siciliano che gli veniva dai genitori. Insieme, i due hanno lavorato in casi famosi e spesso di posizioni opposte, come la difesa degli Hell's Angels e poi delle Pantere Nere, due gruppi che non possono essere più all'opposto uno dell'altro. Hanno anche lavorato per proteggere il buon nome di Jeffrey Stephen Wigand, la talpa che denunciò le società del tabacco per le loro manipolazioni delle sigarette al fine di renderle i fumatori più dipendenti. Hanno prestato servizi di investigazione per attori come Kevin Costner e Don Johnson, i rapper MC Hammer e Snoop Dogg, nonché Bill Clinton e il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein. Proprio per questi due ultimi vip, Palladino si è guadagnato critiche per le maniere pesanti nel tentativo di screditare le testimonianze di donne che denunciavano sia Clinton che Weinstein. Nel caso dell'ex presidente, Jack fu assunto per indagare su Gennifer Flowers, la cantante di night che sosteneva di aver avuto un rapporto con Bill. L'investigatore sguinzagliò i suoi uomini nell'Arkansas riuscendo a racimolare informazioni dannose per il buon nome della donna. Quando anni dopo Clinton finalmente ammise che la relazione c'era stata, Gennifer era oramai diventata nota come una donna con un passato promiscuo e bugiarda. La stessa tattica Palladino l'ha provata con le attrici che accusavano Weinstein, ma i tempi erano già cambiati e le sue indagini hanno semmai avuto effetto contrario.

·        E' morto l’attore Dustin Diamond.

E' morto Dustin Diamond, lo Screech di "Bayside School". L'attore, 44 anni, era malato da tempo. La Repubblica l'1 febbraio 2021. Per gli amanti delle serie tv degli anni 90 era il prototipo dello sfigato. L'attore Dustin Diamond, divenuto celebre grazie a Bayside School, è morto a 44 anni dopo una lunga malattia. Era stato ricoverato all'inizio dell'anno in California per un cancro ai polmoni. Diamond era divenuto per il personaggio di Screech Powers, uno dei più amati della fortunata serie. L'attore impersonava un ragazzo esperto di biologia e di scienza, molto impacciato e migliore amico di Zack, il protagonista. Nato a San Jose, aveva iniziato a recitare da giovane, ottenendo subito successo grazie a Bayside School. La sua carriera non era però decollata: aveva partecipato a un'edizione del Grande Fratello Celebrity americano ma senza particolare successo. Non aveva nemmeno preso parte al reboot della serie tramesso recentemente dalla NBC.

·        E’ morta l’attrice Cicely Tyson.

Marco Giusti per Dagospia il 29 gennaio 2021. L’America è in lutto per la morte di Cicely Tyson, 96 anni, attrice, attivista, modella, ma anche una delle primissime icone del cinema nero. “Il mio cuore è spezzato”, scrive Viola Davis. “Mi hai fatto sentire amata, vista e valorizzata in un mondo in cui c'era ancora un mantello di invisibilità per noi ragazze color cioccolato fondente. Mi hai dato il permesso di sognare." E Zendaya: “Oggi onoriamo e celebriamo la vita di una delle più grandi”. “La sua bellezza iconica può averla fatta notare in gioventù, ma è il suo talento che l'ha resa la leggenda vivente che è”, scrive Oprah Winfrey. E Michelle Obama: “Ciò che mi ha colpito ogni volta che ho trascorso del tempo con Cicely Tyson non era necessariamente il suo potere di star - anche se era abbastanza evidente - era la sua umanità”. Bellissima, fu la prima attrice nera a vincere un Emmy con “L’autobiografia di Miss Jane Pittman” nel 1974. Candidata all’Oscar da protagonista nel 1972 con “Sounder” di Martin Ritt assieme a Diana Ross per “La signora del blues”, erano le prime ragazze nere a essere candidate da protagoniste dopo Dorothy Dandridge in “Carmen Jones”, le venne preferita Liza Minnelli per “Cabaret”. Ma per tutto il cinema afro-americano che verrà dopo fu un esempio difficile da superare. E ancora oggi rimane una delle (solo) undici ragazze nere a essere stata nominata da protagonista agli Oscar. Nata ad Harlem nel 1924, viene scoperta da un fashion designer che la rende una star sulle pagine della rivista “Ebony”. E’ l’inizio di una carriera che la porterà sulle copertine di tutti i giornali del mondo. Attiva a teatro nell’off Broadway passa presto alla tv e al cinema. La troviamo in una particina nel 1959 in “Strategia di una rapina” di robert Wise con Harry belafonte e Robert Ryan, ma ha un buon ruolo solo con “La pelle brucia” nel 1966 diretto da Leo Penn con Sammy Davis Jr e Louis Armstrong. Prosegue poi con “I commedianti” di Peter Glenville con Richard Burton e Elizabeth Taylor. Ma è stupenda anche in “L’urlo del silenzio” di Robert Ellis Miller con Alan Arkin. Diventa vera e propria protagonista con “Sounder” di Martin Ritt, mai arrivato in Italia, che la impone come star di prima grandezza, presto seguito da “L’autobiografia di Miss Jane Pittman” di John Korty, che le frutterà il primo Emmy. George Cukor la vuole a fianco di Elizabeth Taylor e Jane Fonda in “Il giardino della felicità” nel 1976, ma ottiene un altro grande successo con “Radici”, prima storica serie che tratta lo schiavismo in America. Nella tv e nel cinema farà di tutto, da “Airoport 80” a “Pomodori verdi fritti fermi alla fermata del treno” di Jon Avnet. Nel 1981 sposa Miles Davis, diventando una delle più celebri coppie nere americane di ogni tempo. Il matrimonio non funziona troppo, visto che divorziano nel 1988. Negli anni ha modo di incontrare le nuove grandi attrici nere di oggi, come Viola Davis e Octavia Spence in “The Help” di Tate Taylor. Ma rimane un modello incredibile per più generazioni di ragazze nere. Vincerà un oscar alla carriera nel 2019 che la ricompensa di molti premi non vinti. "Voglio essere ricordata, ha detto, “come una che ha tenuto la schiena dritta a servizio delle donne nere, come una che ci ha fatto camminare più in alto e avere una visione più grande per tutte noi".

·        E’ morta l’attrice Cloris Leachman.

Marco Giusti per Dagospia il 28 gennaio 2021.  “Una leggenda. La più divertente di ogni tempo”, scrive Adam Sandler. “Un’attrice incredibile. Da Un bacio e una pistola a Frankenstein Junior. Ci mancherà”, scrive John Carpenter. “Amavo il tuo lavoro!!! Sono cresciuta guardando Phyllis e The Last Picture Show. La tua costante eccellenza, la capacità di trasformarti e il tuo coraggio ci mancheranno moltissimo”, scrive Viola Davis. E Mel Brooks, che la diresse come la terribile Frau Blucher in “Frankenstein Junior” e la Nurse Diesel in “Alta tensione”: “Cloris aveva un talento folle. Avrebbe potuto farti ridere o piangere facendo cadere un cappello ... Ogni volta che sentirò un cavallo nitrire penserò per sempre all'indimenticabile Frau Blücher di Cloris”. Il 2021 si porta via una delle più grandi e eccentriche attrici, anzi comiche di Hollywood, Cloris Leachman, 94 anni. Dura, con un viso tagliente, ironica e antidiva al punto di imbruttirsi per farci ridere, avrebbe potuto sostenere qualsiasi ruolo. Ebbe un Oscar per “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich per un ruolo drammatico, quello di Ruth Popper, 8 Emmy, quasi tutti legati al suo personaggio di Phyllis Lindstron nel “Mary Tyler Moore Show”, 4 Emmy. E una lunga e gloriosa carriera interamente dedicata allo spettacolo, che inizia nel 1948 e termina adesso, con apparizioni al “Ballando sotto le stelle” americane e con ruoli su ruoli anche da novantenne per film e serie, guardate “Americam Gods”. Certo. Il grosso pubblico si è innamorato di lei col personaggio di Frau Blücher in “Frankenstein Junior”, ma non solo avrebbe potuto fare qualsiasi ruolo, serio o comico che fosse, ma era pure bella, al punto da diventare Miss Chicago nel 1946 o da farsi fotografare nuda solo per parodiare la copertina di Demi Moore nuda col pancione. Nata nell’Iowa, a Des Moines, nel 1926, studia recitazione con future attrici di valore come Patricia Neal e Martha Hyer, e fa il suo esordio in tv poco dopo essere stata notata come Miss Chicago. Nel 1953 sposa il produttore e regista George Englund, col quale farà ben cinque figli, quasi tutti attori, e dal quale divorzia nel 1977. Nel 1955 fa il suo esordio al cinema, a dir poco esplosivo, in un capolavoro noir di Robert Aldrich, “Un bacio e una pistola”/”Kiss Me Deadly”, presto seguito da “Supplizio” di Rod Serling con Paul Newman, che le sarà per sempre amico, Lee Marvin, Anne Francis. Ma negli anni ’50 si scatena in tv, con serie su serie, da “Lassie” a “Ai confini della realtà”, da “Gli intoccabili” a “Alfred Hitchcock Presents” al “Dottor Kildare”. Torna al cinema solo per buoni film, come “Sessualità” di George Cukor con Jane Fonda, o “Butch Cassidy” di George Roy Hill con Robert redford e Paul Newman. La troviamo in “Amanti e altri estranei”, buona commedia diretta da Cy Howard, mentre Paul Newman la vuola in “Un uomo, oggi” diretto da Stuart Rosenberg e interpretato da lui e da sua moglie Joanne Woodward. Peter Bogdanovich la sceglie per un ruolo fondamentale in “The Last Picture Show”/”L’ultimo spettacolo”, che farà vincere l’Oscar per il miglior non protagonista sia a lei che a Ben Johnson, vecchio caratterista fordiano. Alla fine dei ciak, a lei che chiedeva di ripetere la scena, Bogdanovich disse “Hai già vinto l’Oscar, che vuoi?”. Sempre Bogdanovich la chiama in Italia per un film sfortunato e oggi piuttosto raro da trovare, “Daisy Miller”. Ma nello stesso tempo partecipa come Frau Blucher a “Frankenstein Junior”, l’horror comico che farà impazzire il pubblico di tutto il mondo. Malgrado l’incredibile successo del suo personaggio e i grandi tempi comici, seguiterà a dividersi tra ruoli drammatici e ruoli di commedia. Lo troviamo così come protagonista in “Crazy Mama” di Jonathan Demme e in “Dillinger” di John Milius, ma anche in “Alta tensione” e “La pazza storia del mondo” di Mel Brooks. Con il “Mary Tyler Moore Show” dominerà la scena comica televisiva degli anni ’70, riuscendo anche a avere un suo show, “Phyllis”. Seguiterà a lavorare in tv, come comica, ma anche come voce per tanti cartoni animati. La troviamo perfino in “Babbo bastardo”, mentre Tarantino la omaggio di una scena in “Bastardi senza gloria” che, nella versione finale, è stata tagliata. Poco importava. Ha continuato a lavorare, più o meno, fino all’ultimo giorno della sua vita.

·        Morto Francesco Cavallari.

Morto a Santo Domingo Francesco Cavallari: aveva 84 anni il re delle cliniche di Bari. La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Gennaio 2021. Negli anni Novanta era finito al centro della prima vera inchiesta sulla gestione della sanità pugliese. È morto a Santo Domingo dove da tempo si era trasferito, Francesco Cavallaro, l’ex re Mida della sanità privata finito al centro alla metà degli anni Novanta della prima vera inchiesta sulla gestione della sanità pugliese denominata «Speranza» che ipotizzò la triangolazione mafia, politica, affari nella gestione delle Case di cura riunite e non solo. Aveva 84 anni «Cicci», come era noto, e da da anni si era trasferito nella Repubblica Dominicana. 

·        E’ morto Michele Fusco.

Il cordoglio dei colleghi. Lutto nel giornalismo, è morto di covid Michele Fusco: “Addio, ci lasci soli con i ruffiani e gli arrivisti”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Gennaio 2021. È morto a causa delle complicanze legate al covid Michele Fusco, giornalista, aveva 66 anni, riconosciuto come persona e penna elegante, intelligente, ironica. Aveva scritto di sport e di calcio per tanti anni. Numerosi gli attestati di stima e di cordoglio in queste ore, rivolti soprattutto alla moglie Eugenia Nante, giornalista di Fuori Tg. Fusco era nato a Milano nel 1954, ma viveva da anni tra il capoluogo della Lombardia e Roma, dove si è spento. Una lunga militanza per Il Giorno. “Prima quindici anni di giornalismo sportivo, poi altrettanti come cronista parlamentare, questi ultimi decisamente sufficienti a rimpiangere i primi”, come si raccontava con ironia sul suo blog per Il Fatto Quotidiano. Era stato negli anni ’80 ufficio stampa del Milan, la squadra per cui tifava. Dal 2001 la direzione di Metro a Milano, il primo free-press sbarcato in Italia. Si era occupato anche di televisione e ancora di più di radio. I colleghi lo ricordano come un giornalista poliedrico e coraggioso. Era stato anche tra i fondatori de Linkiesta. Su Gli Stati Generali, quotidiano online con il quale collaborava, il ricordo della redazione. “Intendeva il giornalismo per come va inteso: come un esercizio permanente di libertà, di sguardo lucido sul presente e il passato, di critica profonda che riconosce il valore dei fatti e delle dinamiche che li generano, un valore più grande delle relazioni di amicizia tra giornalisti. E peraltro, e proprio per questo – si legge ancora – tra i giornalisti che punzecchiava e rimproverava amorevolmente, moltissimi gli erano amici e riconoscenti: perché mai si riusciva a derubricare la sua critica a sciocchezza, anzi. E poi aveva una curiosità e una cultura per i colori della vita che lo manteneva ragazzino, anche ai suoi 66 anni, stroncati dal Covid: lo appassionava l’arte, lo intrigava la fotografia, lo estasiavano i sapori del cibo e del vino, lo emozionavano i romanzi e il cinema. Di tutto era schermito ma profondo conoscitore: esigente e generoso, com’era lui”. Sui social network molti colleghi hanno espresso cordoglio e stima in queste ore. “Ciao Michele Fusco, grazie per la tua intelligenza. E la tua ironia. E il tuo stile. Che tristezza”, ha scritto su Twitter Paolo Condò. Mario Calabresi lo ricorda con un lungo post su facebook: “Arrivavo al bar e Michele era sempre nella stessa posizione: davanti alla vetrina con un giornale aperto sulla bicicletta. Girava solo leggermente la testa, mi guardava di traverso e diceva: "Ehi Marietto…", poi completava la frase con un elemento di attualità. Stamattina avrebbe detto qualcosa come ‘… mi spiace dirti che Conte ce lo siamo giocato, succede sempre quando si scambia la matematica con la politica’. Con una frase dava sempre il senso della giornata”. Lo scrittore Fulvio Abbate sui social lo ricorda commosso: “Ciao, Michele. Ti voglio bene. Non avremmo mai voluto che se ne andasse, mai. Ci lascia soli con i ruffiani, con gli arrivisti, con chi ignori il dono della parola pura, perfetta, in grado di esistere oltre il guadagno e la perdita. Michele era libertà, era eleganza”.

Pino Corrias per Dagospia il 27 gennaio 2021. Michele Fusco era il più socievole tra i solitari, il più irruento tra i timidi, il più colorato d’abiti tra tutti noi, insofferente al grigio del conformismo e della diplomazia. Aveva scritto per la vecchia carta stampata, cominciando dal Giorno, che è stata la sua scuola di velocità, caffè, Milan e chiusure notturne in tipografia, lavorando in una Milano macinata dalla finanza, dalla malavita, dagli scandali. Fino all’apoteosi di Mani Pulite, quando finanza, malavita e scandali sono finiti nelle identiche colonne del giornale che lui maneggiava senza mai infierire nei toni, specie con i perdenti. Poi aveva diretto “Metro”, il primo giornale free press. Infine si era traferito a Roma, dove ha perlustrato tutti i transatlantici della politica malamente varati dalla Seconda Repubblica, scrivendo per vari giornali online, ultimo “Gli Stati Generali”. Girare in biciletta per Roma, alla mattina presto, era la sua vacanza quotidiana e insieme il suo lavoro. Passava da Roscioli, da piazza del Popolo, dal bar Ciampini in San Lorenzo in Lucina. Incontrava, litigava, abbracciava. Amava le notizie e le polemiche. Conosceva tutti. Dava del tu a metà dei parlamentari, capacissimo di fermarne uno per strada, puntargli il dito e dirgli: “Scusa, ma mi spieghi la cazzata che hai dichiarato ieri al Corriere?”, per poi ridergli in faccia e offrire da bere. Postava foto, notizie, complimenti e insulti agli amici. Commentava articoli, scovava bufale. Faceva lunghe telefonate esilaranti. Trovava trattorie in periferie improbabili e obbligava gli amici a seguirlo oltre le nebbie. Indossava giacche altrettanto improbabili. Portava regali al figlio Giovanni e trovava quadri, disegni, sculture di artisti al momento sconosciuti da regalare a Eugenia, la moglie. Perché Giovanni e Eugenia erano la sua luce. Se n’è andato senza spegnere nulla del suo ricordo, portato via dal Covid. Aveva 66 anni.

·        E’ morto il produttore Alberto Grimaldi.

Da corriere.it il 25 gennaio 2021. Era nato a Napoli il 28 marzo 1925 ma si era trasferito armi e bagagli negli Usa nel ’77 dopo aver subìto una rapina con sequestro in Italia: è morto ieri a Miami in Florida a 95 anni Alberto Grimaldi, il produttore più coraggioso e più perseguitato del cinema italiano, quello che ha finanziato «Ultimo tango a Parigi» e «Salò». Nel carnet Fellini, Bertolucci, Pontecorvo, Pasolini, Leone e lo Scorsese di «Gangs of New York», girato a Cinecittà ma non senza battibecchi legali. Laureato in Legge, dopo l’apprendistato nelle agenzie delle major americane Grimaldi, sulla scia di uomini coraggiosi come Ponti, De Laurentiis, Lombardo, Cristaldi, Bini, nel ’62 fonda la PEA, debuttando in sordina: due anni dopo sfonda il box office con «Per un pugno di dollari» con la stratosferica cifra di un miliardo e 890 milioni (terzo assoluto per spettatori, 14 milioni 797.275). Inevitabile che insista con Leone e gli spaghetti western («Per qualche dollaro in più», «Il buono, il brutto e il cattivo») ed è con il cinema nazional popolare che finanzia le opere di autori come Fellini (i travagliati «Satyricon» e «Casanova», poi «Ginger e Fred»), Petri, Pontecorvo, Rosi. Ma è con la scossa tellurica di «Ultimo tango» che nel ‘72 totalizza in egual misura incassi e processi. Il discusso capolavoro di Bertolucci è nella storia il più perseguitato e l’unico condannato metaforicamente al rogo, oltre ad aver fatto perdere al regista i diritti civili, prima di essere dopo anni assolto. Rimane una tappa del cinema e del costume, un grande assolo sulla solitudine, con un Marlon Brando che passa alla storia e alcune scene tra le più chiacchierate del comune senso del pudore: incasso di quasi 6 miliardi solo in Italia, secondo in assoluto per spettatori, 15 milioni 623.773. Grande epopea sarà «Novecento», il Bertolucci padano, anch’esso con problemi di censura e sequestro nella prima parte (ma il caso fu risolto in 5 giorni). Era un periodo in cui la magistratura teneva d’occhio il miglior cinema italiano, partendo da Visconti e Antonioni, quello che saltava gli ostacoli della retorica perbenista e ogni residuo di ipocrisia. Fu con Pasolini che nei primi anni 70 Grimaldi dovette difendere la battaglie legali più accese, dal «Decameron» ai «Racconti di Canterbury» a «Il fiore delle Mille e una notte», la trilogia della vita. L’ultimo titolo del grande cineasta poeta, il «Salò» che uscì postumo dopo il suo assassinio, sarà uno di quei film «maledetti» che producono fascicoli legali e rovelli di coscienza, apparendo chiaro il dolore biografico del regista che rilegge Sade ai tempi di Salò (premio per il restauro alla Mostra di Venezia 2015). Certo Grimaldi era un rabdomante, seppe intuire i tesori delle ispirazioni, rischiando di persona sui salti mortali che alcuni autori a volte fanno in anticipo sui tempi. Carriera esemplare nel senso delle turbolenze non del mare piatto, narrata nel libro di Paola Savino (2009, Centro Sperimentale). Un produttore che non temeva terreni minati ma si fidava dei suoi registi e li proteggeva fino all’ultimo cavillo. Se il western all’italiana da un lato e lo scandalo di alcuni titoli dall’altro l’hanno reso potente, Grimaldi lancia sempre oltre: ama il film a episodi da Poe «Tre passi nel delirio», adotta le «Storie scellerate »di Citti dopo la morte di Pasolini e finanzia opere scomode, le più estreme ma capaci di fondare le basi di un pubblico europeo lottando per la libertà di espressione. «Di sicuro — dice uno dei suoi storici avvocati, Luigi Di Majo — fu battagliero contro le incompetenze di una magistratura che usava il cinema per pubblicità o con abusi o incriminazioni false come quando Bertolucci fu accusato di aver torturato rane in "Novecento"». Ma alla fine restano i film e Grimaldi lascia un bottino incalcolabile.

Morto Grimaldi, il produttore di film "difficili" da Pasolini a Bertolucci e Fellini. C'era lui dietro alle pellicole-scandalo rifiutate da tutti. E non solo a quelle. Cinzia Romani, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Il cinema muore, non soltanto nelle sale chiuse ormai da troppo tempo, ma anche con la fine di persone fisiche di un'epoca non ripetibile. Si è spento per cause naturali a Miami, dove abitava, Alberto Grimaldi, audace produttore del Decameron di Pasolini e del bertolucciano Ultimo tango a Parigi, per difendere il quale egli affrontò estenuanti battaglie giudiziarie e una magistratura bigotta, lesta al rogo delle pellicole indecenti. Uguale accanimento delle toghe, nel caso di Salò o le 100 giornate di Sodoma, uscito dopo la morte violenta di PPP, assassinato all'Idroscalo di Ostia dal suo amante. Quel film pasoliniano venne processato per oscenità e corruzione di minori, ma nessuno ha mai avuto nulla da eccepire sull'intitolazione d'una strada, a Roma, allo scrittore friulano. Di origini napoletane, Grimaldi, che il 28 marzo avrebbe compiuto 95 anni, nel 1961 aveva fondato la Pea (Produzioni Europee Associate), con l'intento di finanziare film di autori quali Federico Fellini (Satyricon, Casanova e Ginger e Fred), Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Mario Monicelli, Francesco Rosi, Gillo Pontecorvo, Billy Wilder, Claude Lelouch e Martin Scorsese (Gangs of New York e una nomination all'Oscar e un cast formato da Daniel Day-Lewis, Leonardo DiCaprio, Cameron Diaz e Liam Neeson). Votato a una dimensione internazionale, Grimaldi ha operato nel momento d'oro del nostro cinema, quando produttori del calibro di Carlo Ponti, Dino De Laurentiis, Goffredo Lombardo e Franco Cristaldi, s'impegnavano personalmente, con capitali propri, a diffondere, nel mondo, una certa idea di cinema italiano. Compresa la cognizione d'una libertà espressiva inaudita ai tempi di Ultimo tango a Parigi (1976), pellicola letteralmente bruciata per motivi censori (si ricorderà la cosiddetta scena del burro, con Marlon Brando a sodomizzare l'ignara Maria Schneider), quindi riabilitata nel 1987 e tornata brevemente in sala un paio d'anni fa. Grimaldi fu il primo a credere nel western all'italiana, essendo, tra l'altro, amico personale di Clint Eastwood, beniamino di Sergio Leone. Pur essendo centrale nelle produzioni più importanti, egli preferì sempre una certa discrezione, appresa negli studi legali da lui frequentati, prima di darsi anima e corpo al cinema. L'avvocato Grimaldi, noto per aver vinto alcune cause in nome della Columbia Pictures, divenne produttore per caso. Cominciando, nel 1962, con il western spagnolo L'ombra di Zorro e proseguendo con titoli celeberrimi: Per qualche dollaro in più, Il buono,il brutto e il cattivo, che incassò 25 milioni di dollari al box-office; Queimada, I racconti di Canterbury. Noto per i suoi film d'azione girati a basso budget in co-produzione con la Spagna e la Germania occidentale (ai tempi del Muro di Berlino), era rimasto in attività fino agli anni Ottanta. Lavorando per quattro decadi tra l'Europa e l'America, nei Settanta di piombo si trasferì con la famiglia negli States, dopo il tentato rapimento dei suoi tre figli Massimo, Maurizio e Marcello.

Marco Giusti per Dagospia il 25 gennaio 2021. “Fare un film con l’avvocato Grimaldi”, sosteneva Bernardo Bertolucci che fece con lui “Ultimo tango a Parigi” e “Novecento”, “significava godere di un rapporto privilegiato con il mercato americano, prepararsi all’incontro con un grande pubblico internazionale, e al tempo stesso avere un rapporto col produttore di Il buono, il brutto, il cattivo, Il Decameron e Fellini-Satyricon. Mi piaceva molto la sua timidezza sul set, bilanciata dalla sua sicurezza nel suo ufficio  o al Polo Lounge del Beverly Hills Hotel”. Alberto Grimaldi, scomparso ieri a 95 anni a Miami, era un gigante del nostro cinema. Forse non aveva la grinta dei grandi produttori degli anni ’50 usciti dalla Lux di Gualino, cioè Carlo Ponti e Dino De Laurentiis, ma oltre a produrre i più grandi successi economici di tutta la nostra industria, “Decameron” di Pasolini e “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, che erano oltre che popolari proprio dei grandi e difficili film innovativi, oltre a produrre colossi come il “Satyricon” e il “Casanova” di Fellini, “Novecento” di Bertolucci, “Queimada” di Pontecorvo, “Gangs of New York” di Scorsese, fu il primo a credere nel western all’italiana e a realizzare il grande sogno di Sergio Leone, ma anche di Sergio Sollima e Sergio Corbucci producendo alcuni dei più grandi film del genere, “Per qualche dollaro in più”, “Il buono, il brutto, il cattivo”, “La resa dei conti”, “Faccia a faccia”, “Il mercenario”. Seppe come far uscire Leone dal complicato inghippo che lo legava a “Per un pugno di dollari”, prodotto da Papi e Colombo della Jolly Film, ma sotto schiaffo della Toho perché remake non dichiarato di “La guardia del corpo” di Akira Kurosawa. Grimaldi si prese Leone, i suoi due prossimi film, e, coi soldi della United Artists, che aveva i diritti sui film di Leone in tutto il mondo, seppe come imporlo sul mercato internazionale. Come seppe come liberare Federico Fellini dal disastro de “Il viaggio di G Mastorna”, il film che non voleva più fare, per paura di morire, dopo averne parlato con Gustavo Rol, con le scenografie già pronte negli studi di De Laurentiis. Da buon avvocato napoletano si ricomprò il progetto da De Laurentiis, che non fece, ma spostò Fellini su due due film, l’episodio meraviglioso di “Toby Dammit” in “Tre passi nel delirio” e il “Fellini-Satyricon” che fu il primo vero film pensato per il mercato internazionale di Fellini. Girato in inglese. Allo stesso modo trasformò il grande progetto di western politico che avrebbe dovuto fare Gillo Pontecorvo con la sceneggiatura di Franco Solinas in due film, uno “Il mercenario”, che diventerà il primo tortilla western di Sergio Corbucci, e l’altro, “Queimada”, che diventerà l’unico film epico e internazionale di Pontecorvo con Marlon Brando. E quando Brando ruppe con Pontecorvo, andandosene dal set per mai più ritornare, lo portò sul piccolo film batailliano che stava per girare Bernardo Bertolucci, trasformandolo in un successo mondiale, “Ultimo tango a Parigi” con Brando al posto di Jean-Louis Trintignant. Una scelta che portò alla rottura di Bertolucci con gran parte della Nouvelle Vague, ma impose Bertolucci sul mercato internazionale, al punto che riuscirà a fare “Novecento”, e fece rinascere il mito di Brando. Un film che incassò anche più di “Lo chiamavano Trinità” di E. B. Clucher alias Enzo Barboni, grande successo del tempo, anche se Barboni glielo disse a Grimaldi “E poi con quegli elementi che c’hai messo, Brando, il culo di quella, l’insederata, e tutte ’ste cose, per forza dovevi vincere”. Nato a Napoli nel 1925, Grimaldi fu prima avvocato delle agenzie di distribuzione cinematografica a Napoli, poi avvocato italiano della Fox e della Columbia a Roma. Vedendo il successo dei primissimi western europei girati in Spagna, come “Il segno di Zorro” di Joaquim Romero Marchent, decide di buttarsi nella produzione oltre che nella distribuzione. Marchent ricordava che Grimaldi allora era poco più di un modesto avvocato, “non faceva altro che doppiare i film in italiano e in inglese e rivenderli all’estero”. Ma era rimasto molto impressionato da “Il segno di Zorro” al punto che decise che sarebbe entrato in produzione col sequel, che diventa appunto il primo film prodotto dalla PEA. Assieme alla moglie Maria Rosa Bongiorno, fonda così nel 1961 la PEA. Produzione Europee Associate, a Roma, intuendo che la strada più giusta per il cinema europeo era appunto quello della coproduzione, che allora sfruttava una serie di meccanismi e di facilitazioni per cui conveniva muoversi a metà fra Spagna, Italia, Germania e Francia. “Commissionai un’indagine di mercato alla Demoscopea e scoprii che il western era di gradimento per l’80 per cento del pubblico,” aveva dichiarato in “Capitani coraggiosi – Produttori italiani 1947-1975”. “In quel periodo”, prosegue Grimaldi, “gli americani producevano al massimo una-due pellicole western l’anno, così pensai, in considerazione della legge della domanda e dell’offerta: Se io faccio un film commercialmente discreto, dovrà essere un successo. Così iniziai a coprodurre con la Spagna”. Entra quindi in società con Manzanos e la Copercines e assieme producono sia il nuovo Zorro di Marchent, appunto L’ombra di Zorro, sia Il segno del Coyote (El vengador de California, 1962), terzo film della serie ideata da Mallorqui, ma con la regia di Mario Caiano. Proprio per L’ombra di Zorro, che incasserà da noi ben 336 milioni, arrivano dall’Italia, spinti dal braccio destro di Grimaldi, Salvatore Alabiso, i nostri primi attori, come Robert Hundar alias il siciliano Claudio Undari, e il calabrese Raf Baldassarre, pronti a stabilizzarsi in Spagna come elementi fissi del genere nonché pilastri dei primi anni d’oro della PEA. Il passo successivo è  I tre implacabili (Tres hombres buenos, 1962), sempre diretto da Marchent, che è il primo vero western italo-spagnolo, prodotto dalla PEA e dalla Copercines. I tre protagonisti sono Geoffrey Horne, fresco di Bonjour Tristesse, lo svizzero Paul Piaget e il nostro Robert Hundar. Anche se è difficile stabilire quale sia il primo vero western italo-spagnolo, certo questo ha tutte le caratteristiche. Fece anche un ottimo incasso, ben 562 milioni, superando di gran lunga i vari Zorro del tempo. Grimaldi, ma anche Carlo Caiano e Papi e Colombo, oltre a Emo Bistolfi, saranno i primi a puntare decisamente sul genere. Nel 1963 la PEA produrrà altri due western diretti da Marchent, che si era staccato dalla Copercines e si era associato alla Centauro Film, una società spagnola che gestiva i cavalli del cinema. I tre spietati (El sabor de la venganza) e I sette del Texas (Antes llega la muerte) di Marchent sono veri e propri capolavori del genere, assolutamente originali, e mostrano che il regista stava percorrendo una sua personale strada prima che l’arrivo di Sergio Leone sconvolgesse per sempre il western europeo. Sono anche i primi film che si girano in Almeria dopo il western anglo-spagnolo di Michael Carreras, I fuorilegge della Valle Solitaria. “La Centauro di solito partecipava per il 25-30 per cento del budget mantenendo i diritti di distribuzione sul suo territorio. La PEA aveva l’Italia e le vendite all’estero per una quota del 70 per cento”, ha detto Grimaldi. E’ grazie agli incassi strepitosi di questi piccoli western coprodotti con gli spagnoli, che Grimaldi riesce a assicurarsi Sergio Leone e il suo secondo film, “Per qualche dollaro in più”, che farà uscire in tempi immediati. E’ il primo a chiamare Leone appena vede “Per un pugno di dollari” e a proporgli subito un contratto. Sosteneva anche che non fece il primo film di Leone perché il suo braccio destro, Salvatore Alabiso, che avrebbe dovuto chiedergli di farlo con loro, aveva dei problemi personali col regista. “La PEA”, diceva Grimaldi a proposito di “Per qualche dollaro in più”, “partecipava per il 60 per cento del budget. Per quell’occasione la United Artists mi diede un anticipo sulla distribuzione.” La United Artists, società che deve distribuire il film in tutto il mondo, già in data 5 marzo 1966, secondo “Il Giornale dello Spettacolo”, ha portato 900.000 dollari veri al film. La fame, insomma, è finita, almeno per Leone. Con Alberto Grimaldi, il regista chiude un contratto al 50 per cento sugli incassi, per non avere i problemi che ha avuto con Papi e Colombo, più 50 milioni come regista. Riesce anche a scongiurare che Clint Eastwood si allei con Papi e Colombo e faccia il suo secondo western con loro. Lo va a trovare a Los Angeles e lo convince a fare il suo film. Che sarà poi seguito da “Il buono, il brutto, il cattivo”. Così facendo, però, lascerà per strada i suoi primi compagni di viaggi, come Joaquim Romero Marchent, per puntare su nomi più forti, come Sergio Sollima, che gli ha presentato proprio Leone, e che dirigerà due grandi successi per la PEA come “La resa dei conti” e “Faccia a faccia”. Che funzionarono anche da prototipo produttivo per Grimaldi e andarono benissimo non solo in Italia. “Il contratto”, spiegava Grimaldi, “funzionava sempre allo stesso modo: la major copriva l’80 per cento del preventivo di costo iniziale e io trovavo i finanziamenti per l’altro 20 per cento, mettendo i soldi di tasca mia o chiedendo prestiti alla Banca d’America e d’Italia. Distribuivo il film sul territorio nazionale, mantenendo una percentuale di sfruttamento nel resto del mondo per il 50 per cento. Ho prodotto ventidue film con questa formula, da “La resa dei conti” di Sergio Sollima in poi. Per il principio di cross collateralization gli incassi mondiali venivano unificati a gruppi di due-tre film cosicché nel caso una pellicola andasse male al botteghino l’altra ricopriva il danno economico.” Con gli incassi dei suoi western maggiori, punterà così a assicurarsi le opere maggiori di Fellini e Pontecorvo. O a puntare su opere più intellettuali, come “Un tranquillo posto di campagna” di Elio Petri, ad esempio. Se Marchent se ne andrà via indignato dal tradimento di Leone, più che comprensibile, e molto ci resteranno male le sue prime fedelissime star, come il cowboy siciliano Robert Hundar, Grimaldi punterà sui piccoli western aiutando il suo braccio destro, Salvatore Alabiso, che sta per mettersi in proprio con la sua Tritone Filmindustria, a produrre in Spagna per la PEA due western girati da Umberto Lenzi, Tutto per tutto e Una pistola per cento croci, che non funzionarono bene. Il maggior western della PEA del tempo è il divertente Ehi amico... c’è Sabata, hai chiuso! (1969) con Lee Van Cleef protagonista girato da Gianfranco Parolini dopo il successo del suo primo Sartana. Che ci sia una specie di involuzione nel genere è ormai chiaro. Il western paroliano è evidentemente una specie di parodia di quello di Leone e di Sollima, anche se ha sua linea personale. Ma Parolini e Grimaldi sono pronti prima a un rapido sequel di Sabata e a un molto simile Indio Black sai che ti dico: sei un gran figlio di... (1970) che vede protagonista addirittura Yul Brynner, cioè il protagonista di I magnifici sette. Tutto questo, ovviamente, a Leone non piaceva per niente. Quando Leone per “C’era una volta il West”, lascia Grimaldi pensando di farlo con Carlo Ponti, il produttore è già passato a Fellini in fuga da De Laurentiis. Va detto che Grimaldi in quegli anni non sbagliò un colpo. E gli incassi incredibili di “Ultimo tango a Parigi” e di “Decameron” gli dettero uno status che pochissimi altri potevano vantare. Non funzionò molto, invece, il film che fece con Barboni e col solo Terence Hill, “E poi lo chiamarono il magnifico”, che era pensato proprio per un grande incasso, ma senza Bud non c’era la coppia. Ma oltre ai grandi successi, produsse anche film difficili, come “Salò” di Pasolini, “Non toccate la donna bianca” di Marco Ferreri, stravaganza western con Marcello Mastroianni Custer e Michel Piccoli Buffalo Bill, produsse “Trastevere” di Fausto Tozzi, “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi e il kolossal di Bertolucci “Novecento”, che venne massacrato in America. “Grimaldi era capace di materializzare sogni produttivi molto ambiziosi e apparentemente impossibili”, diceva Bertolucci, “Gli è riuscito, cosa che non era mai successa prima e non è più successa dopo, di legare insieme, per Novecento, la Fox, la United Artists e la Paramount.” Il che non impedirà la rottura più completa fra i due quando il film verrà rimontato non dal regista per la versione americana. E allora parlarono solo tramite avvocati. Ma Grimaldi avrà tempo per produrre ancora film, come “Viaggio con Anita” e “Temporale Rosy” di Mario Monicelli o “Ginger e Fred” di Fellini o “Gangs di New York” di Scorsese, che segna davvero la fine di un percorso nato tanti anni prima.

·        E’ morto Rémy Julienne. il più grande cascatore del mondo.

Marco Giusti per Dagospia il 24 gennaio 2021. Vabbé. Il Covid si porta via anche Rémy Julienne, 90 anni, forse il più grande cascatore del mondo, sicuramente il più grande stunt driver che si sia mai visto al cinema, in un percorso incredibile di qualcosa come 1400 produzioni, tra spot, serie e film.  Riuscì a far volare le Mini Cooper a Torino in “The Italian Job” di Peter Collinson, il film che lo impose all’attenzione mondiale, ma anche a muoversi per i vicoli di Napoli in “Operazione San Gennaro” di Dino Risi, a scatenarsi in folli inseguimenti doppiando il suo amici Jean-Paul Belmondo, Bébel, con cui farà 14 film, Yves Montand, Alain Delon. Per non parlare dei sei film di James Bond del periodo d’oro di Roger Moore che rimasero celebri, “Goldeneye”, “Solo per i tuoi occhi”, “Octopussy”, “A View to a Kill”. Ma sono sue tutte le corse in auto che vedete nei polizieschi francesi e italiani diretti da maestri del genere come Georges Oury, Georges Lautner, Robert Enrico, Claude Lelouch, Claude Pinoteau, Henri Verneuil, senza scordare Fernando Di Leo (“Il poliziotto è marcio”), Enzo G. Castellari, Michele Lupo, Sergio Sollima (“Città violenta”), Lucio Fulci, perfino Sergio Leone in “C’era una volta in America”. Ha lavorato in tutti i film d’azione girati dagli americani in Europa, “Contratto marsigliese” di Robert Parrish, “French Connecion II” di John Franknheimer, “Il giorno dello sciacallo” di Fred Zinneman, “Bobby Deerfield” di Sidney Pollack, “Target” di Arthur Penn, “Frantic” di Roman Polanski. Non c’era nessuno del calibro di Rémy Julienne. Un paio d’anni fa venne a Stracult già piuttosto acciaccato, con ben due infarti superati malamente, ma ancora in forma per raccontare i suoi numeri più spettacolari, sia nel nostro cinema che nella nostra pubblicità. Ricordo uno spot dove riusciva a posarsi in auto su un treno o sbaglio? Nato a Cepoy, nella Loira, nel 1930, figlio del gestore di un caffè, fa il trasportatore, diventa campione di motocross, e scopre il cinema nel 1964 quando Gil Delamare, grande stuntman francese, cerca un doppio per Jean Marais nel primo film di “Fantomas”. Vince facilmente il ruolo e da lì prosegue per tutti i film di Louis De Funés, la serie del Gendarme di Saint-Tropez, ad esempio, o un successo come “Tre uomini in fuga” sempre di Oury. Ma è con le auto in corsa, con i grandi inseguimenti dei polizieschi degli anni ’60-’70 che diventa davvero una star. E con “The Italian Job” di Peter Collinson stupisce tutto il mondo del cinema. “Far saltare delle Mini fra i tetti fu una sfida. Pochi credevano che fosse possibile. Fu quello, il vero punto di svolta della mia carriera”. Fa di tutto. I film in Italia, compresi quelli di Bud e Terence come “Altrimenti ci arrabbiamo” e “Io sto con gli ippopotami” o con Celentano come “Joan Lui”, e quelli di gangster in Francia. A volte lo vedete in qualche piccolo ruolo, come in “Una 44 magnum per Tony Saitta” di Alberto De Martino. Quando nel 1999 muore un operatore, Alain Dutartre sul set di una scena pericolosa su “Taxi 2” viene ritenuto responsabile dell’incidente e gli danno 18 mesi di carcere. La sua carriera si ferma, anche se la pena verrà poi commutata. Riesce a fare pochi film, compreso “Il codice Da Vinci” di Ron Howard nel 2006. L’età e i due infarti faranno il resto. Muore in ospedale, vicino al paese dove era nato, nella Loira. Ha scritto due libri di memorie, “Silence… on casse” nel 1978 con prefazione di Jean-Louis Trintignant e “Ma vie en cascade” nel 2009, con prefazione di Claude Pinoteau e Georges Lautner. 

·        E’ morto Walter Bernstein, leggendario sceneggiatore americano.

Marco Giusti per Dagospia il 24 gennaio 2021. Se ne va a 101 anni Walter Bernstein, leggendario sceneggiatore americano, attivissimo con registi del calibro di Sidney Lumet, Martin Ritt, John Frankenheimer per film come “Il treno”, “Paris Blues”, “A prova di errore”, “ I magnifici sette”, ma soprattutto uno degli ultimi rimasti degli autori blacklisted massacrati dal Maccartismo. Raccontò parte della sua storia parte quella dei suoi amici e colleghi Abraham Polonsky e Arnold Manoff nel film diretto da Martin Ritt nel 1976 “Il prestanome” con Woody Allen e Zero Mostel, che venne candidato all’Oscar. Nato a New York City nel 1921, nel 1941, da militare diventa corrispondente di guerra per il giornale militare “Yanks” seguendo l’esercito alleato in Palestina, Egitto, Nord Africa, Sicilia e Yugoslavia. Quando tornò iniziò a scrivere per il “New Yorker” e presto venne chiamato da Robert Rossen a Hollywood per diventare sceneggiatore. Con Ben Maddow scrisse nel 1948 il noir diretto da Norman Foster “Per te ho ucciso” con Burt Lancaster e Robert Newton, per poi tornare a New York e lavorare in tv. Colpito dal maccartismo, lavorò anonimamente per serie tv celebri degli anni ’50 senza scappare, come altri registi, in Europa. E’ da questa esperienza di lavoro firmato da altri che nacque appunto “Il prestanome”. Torna al cinema, tra sceneggiatore non firmate e firmate con uno dei primi film americani di Sophie Loren, “Quel tipo di donna”, diretto da Sidney Lumet, al quale seguirono altri due film con Sophia, “Il diavolo in calzoncini rosa” diretto da George Cukor e “Olimpia” diretto da Michael Curtiz. Ma collabora anche al bel western di Robert Parris con Robert Mitchum “Il meraviglioso paese” e al fondamenale film di John Sturges “I magnifici sette”, remake del capolavoro di Akira Kurosawa “I magnifici sette”. Si lega a Martin Ritt scrivendo per lui “Paris Blues”, presto seguito da “A prova di errore” sui pericolo dell’atomica, “Il treno” di John Frankhneimer. E’ l’autore del film mai completato diretto da George Cukor con Marilyn Monroe, “Somethings Got To Give”. Scrive per Burt Kennedy il thriller “La trappola mortale”. Assieme a Martin Ritt , ormai completamente riconosciuto da Hollywood, lo troviamo nel durissimo “I cospiratori” con Sean Connery e Richard Harris, presto seguito da “Il prestanome” con Woody Allen, che lo vorrà come attore in un particina in “Io e Annie”. Collabora ai migliori film di Michael Ritchie, “Un gioco da duri” con Burt Reynolds e Kris Kristofferson, legato al mondo del rugby, e soprattutto “Un amore perfetto o quasi”, che riunisce Keith Carradine, Monica Vitti, Raf Vallone e Christian De Sica, un film sul cinema ambientato a Cannes, dove ritroviamo come se stessi anche Sergio Leone e Marco Ferreri. Non è il successo sperato “Betsy” di Daniel Petrie, mentre è molto riuscito “Yanks” diretto da John Schlesinger con Richard Gere. Dirige anche un film, molto divertente, tratto da un racconto di Damon Runyon, “E io mi gioco la bambina”, con Walter Matthau, Julie Andrews e Tony Curtis. Per Walter Matthau scrive anche “Lo strizzacervelli”, diretto da Michael Ritchie. Lavora a qualche tvmovie e a una serie tv, ma soprattutto insegna sceneggiatura e supervisione corsi di scrittura nella sua New York. Più o meno fino alla morte, per polmonite, a Manhattan.

·        È scomparso il re dei cristalli, Gernot Langes-Swarovski.

Giuliana Matarrese per "Il Messaggero" il 24 gennaio 2021. È scomparso a 77 anni il re dei cristalli, Gernot Langes-Swarovski, per lungo tempo alla guida della maison produttrice di sogni dai riflessi arcobaleno, come quelli dei suoi gioielli. Arresosi dopo una lunga lotta con la malattia, si è spento a Vienna alla presenza degli affetti più cari, anche se si era già ritirato dalle scene nel 2002, quando cedette le sue funzioni nel gruppo al figlio Markus, frutto del primo matrimonio con Maya-Langes Swarovski. Pronipote del fondatore, il geniale Daniel, intagliatore svizzero dalle origini boeme, Gernot entra nel cda dell'azienda giovanissimo, a 24 anni, in qualità di socio accomandante, a metà degli Anni 60, per divenire poi amministratore delegato.

LE IMPRESE. Tirolese, tra le sue imprese di maggior successo c'è di certo lo sbarco dell'azienda sul mercato americano: rileva la catena di gioielli statunitense Zale, proprietaria di migliaia di negozi, aprendo il primo punto vendita a New York. Un risultato notevole, soprattutto considerando che il suo ingresso negli affari familiari avviene in anni difficilissimi: assume infatti la gestione dell'azienda (insieme ai fratelli Helmut e Gerhard) nel 1974, un anno dopo la crisi energetica e l'innalzamento dei prezzi del petrolio che avevano causato un drastico crollo delle vendite. Sua anche l'idea di espandere la collezione del brand, non solo gioielleria ma anche piccola oggettistica, nello stesso materiale prezioso: nel 1979, lancia infatti le figure in cristallo che poi diverranno un classico per celebrare le occasioni importanti, con limited edition molto ricercate dai collezionisti.

IL CARATTERE.Personaggio riservato, lascia che a parlare, o meglio, a brillare, siano i suoi gioielli, che prima del suo arrivo erano già apparsi in pellicole divenute classici della cinematografia, da Gli uomini preferiscono le bionde, (1953) indosso a Marilyn Monroe, o addirittura ad adornare la tiara di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1961). Co-protagonisti di successi al botteghino come Titanic di James Cameron (1997) o Moulin Rouge di Baz Lurhman (2001), in La morte può attendere, ultimo capitolo della saga dell'agente segreto interpretato da Pierce Brosnan, lo 007 e l'agente dell'NSA Jinx (Halle Berry) giacciono su un pavimento cosparso di diamanti, che, in realtà, altro non sono che cristalli Swarovski. E oltre che al cinema, quelle creazioni si adatteranno a vestiti e accessori: uno su tutti, il celebre guanto di Michael Jackson, che poi verrà rivenduto all'asta per 192 mila dollari nel 2010. A creare collezioni dedicate, nel corso degli anni, ci sono stati nomi simbolo dell'architettura e della moda, da Zaha Hadid a Karl Lagerfeld passando per Viktor & Rolf e Jean-Paul Gaultier. Non solo i gioielli, però, tra le passioni di Gernot: insieme a Christian Schwemberger-Swarovski acquisterà Aircraft Innsbruck, poi divenuta Tyrolean Airways e inglobata infine nell'Australian Airlines Group. Si lancerà anche nel mondo del pallone divenendo presidente del WSG Tirol, che ad oggi milita nella Fußball-Bundesliga, la massima serie del campionato austriaco di calcio.

I RICONOSCIMENTI. Una carriera poliedrica, che sarà poi premiata dal governo austriaco, che gli conferisce diverse onorificenze, dalla Croce al merito austriaca all'Anello del Tirolo, massimo privilegio concesso dallo stato federato, a sottolineare l'impegno di Gernot nel promuovere il suo paese nel mondo. E proprio nella sua città natale, a Wattens, inaugurerà nel 1995 il Museum Kristallwellten conosciuto come Swarovski Crystal Worlds parco esperienziale pensato dall'artista multimediale André Heller, che trasporta i visitatori nel mondo della maison. Tra le passioni, coltivate sempre al loro massimo grado, Gernot annovera anche quella per l'enologia, con diversi vigneti di sua proprietà in Cina e Argentina, gestiti da tempo dal figlio Michael. Una vita piena e di successo, sulla quale, oggi, passano i titoli di coda.

·        E' morto Larry King.

Rita Celi per "repubblica.it" il 23 gennaio 2021. E' morto a 87 anni Larry King, celebre giornalista, conduttore televisivo e radiofonico, volto storico della Cnn. Contagiato dal Covid a fine dicembre, era ricoverato presso il Cedars Sinai Medical Center di Los Angeles. Nel 2010, dopo settemila puntate e una collezione infinita di interviste, aveva chiuso il suo storico talk show Larry King Live ma non aveva rinunciato ai suoi incontri ed era tornato poco dopo con una versione online del suo programma. In 87 anni ha affrontato otto matrimoni, diversi attacchi di cuore, il diabete, un cancro ai polmoni e, l'estate scorsa, la perdita di due figli, Andy e Chaia. Nato a New York il 19 novembre 1933, Lawrence Harvey Zeiger ha cambiato il nome in Larry King all'inizio della sua carriera come conduttore radiofonico in Florida alla fine degli anni Cinquanta. Nel corso degli anni ha intervistato oltre 50 mila personaggi famosi in ogni ambito, dalla politica, al cinema, alla musica. Con le sue maniche di camicia arrotolate, cravatte multicolori, bretelle e grandi occhiali, ha condotto il Larry King Live sulla Cnn dal 1985 al 2010. In 25 anni ha parlato con tutti i presidenti degli Stati Uniti da Nixon in poi, leader mondiali come Yasser Arafat e Vladimir Putin, celebrità del calibro di Frank Sinatra, Marlon Brando che lo salutò con un bacio in bocca e Barbra Streisand. Nel 2007 riuscì ad avere insieme gli ultimi due Beatles, Ringo e Paul, tra i suoi ultimi ospiti ci sono stati Barack Obama, Nancy Reagan e Lady Gaga che si presentò con bretelle e cravatta per rendere omaggio all'inconfondibile look del giornalista. “Non ci potrà mai più essere uno come lui perché la tv che lo ha aveva fatto, e che lui aveva contribuito a fare, è un mondo finito" aveva scritto Vittorio Zucconi raccontando sulle pagine di Repubblica l'ultima puntata dello show nel dicembre 2010. "Perché con questo signore dal tono amichevole nella voce incatramata da milioni di sigarette lasciate a malincuore dopo un quintuplo by-pass coronarico e dalle robuste bretelle imitate in tutto il mondo, è finita un' era geologica della comunicazione televisiva. Quella della televisione per bene". "Non ci potrà mai più essere uno come lui" aveva aggiunto, "perché la tv che lo ha aveva fatto, e che lui aveva contribuito a fare, è un mondo finito". L'uscita di scena del re degli intervistatori americani era stata annunciata l'estate del 2010, all'indomani delle celebrazioni per i 25 anni del suo show. La causa era sicuramente il brusco calo di ascolti, ma la decisione di ritirarsi a vita privata era anche legata al tentativo di suicidio della sua settima moglie, Shawn Southwick, vent'anni più giovane di lui, ricoverata per overdose di sonniferi. La coppia aveva annunciato la separazione pochi mesi prima ma la crisi è stata subito superata. Dopo l'addio alla Cnn dopo 25 anni di carriera e più di settemila puntate del suo Larry King Live, il popolare giornalista e conduttore televisivo era tornato alla sua antica passione con un Larry King Now, un talk show online e gli utenti potevano intervenire con le loro domande su Twitter. Ultimamente conduceva anche il domenicale Politicking with Larry King su Hulu e Rt America. Il 2020 è stato per lui un anno terribile: dopo aver superato un ictus a maggio, ha divorziato dopo 22 anni di matrimonio dalla moglie Shawn e ha perso due figli nel giro di poche settimane. "È con grande tristezza e il cuore spezzato di un padre che confermo la recente perdita di due dei miei figli, Andy e Chaia King" aveva scritto su Facebook. "Erano anime buone e gentili, e ci mancheranno moltissimo. Andy è morto all'improvviso per un attacco cardiaco il 28 luglio e Chaia è morta il 20 agosto, dopo che le era stato diagnosticato un tumore ai polmoni. Perderli è così sbagliato. Nessun genitore dovrebbe mai seppellire un figlio". King si era spostato otto volte con sette donne diverse: la prima moglie fu la compagna al liceo Freda Miller (dal 1952 al 1953), la seconda Annette Kaye (1960-1961), la terza Mickey Sutphin (solo tre mesi nel 1963), la quarta Alene Akins (1963-1967 e 1967-1972), la quinta l'insegnante Sharon Lepore (1976 - 1984), la sesta la donna d'affari Julie Alexander (1989 - 1992) e la settima Shawn Southwick che aveva sposato nel 1997. Aveva avuto Chaia (nata nel 1969) dalla quarta moglie Alene Akins, e aveva adottato Andy (1962), nato da un precedente matrimonio di Alene. Aveva altri tre figli, Larry Jr. (1962) dalla seconda moglie Annette Kaye, Chance (1999) e Cannon (2000) dall'ultima moglie Shawn.

Morto Larry King, storico volto della Cnn. Aveva contratto il Covid. Lo storico volto della Cnn aveva 87 anni e per 25 anni aveva condotto il "Larry King Live" intervistando migliaia di personaggi famosi. Nel 2020 aveva perso due figli e si era ammalato gravemente. Novella Toloni, Sabato 23/01/2021 su Il Giornale. Non ce l'ha fatta Larry King. Il popolare volto televisivo d'America è morto nelle scorse ore al Cedars Sinai Medical Center di Los Angeles, dove era ricoverato dagli inizi di gennaio. Il giornalista, anchorman della CNN, si è spento a 87 anni a causa di complicanze dovute al contagio da Covid-19. Larry King aveva contratto il coronavirus a metà dicembre ed era stato ricoverato in gravi condizioni in ospedale a Los Angeles a fine anno. La notizia delle sue condizioni erano trapelate, però, solo il 3 gennaio quando Roger Friedman, critico cinematografico e amico di King, attraverso il sito Showbiz411 ne aveva annunciato il ricovero. Il suo fisico, seppur provato da altre patologie pregresse, ha resistito oltre due settimane lottando con tutte le sue forze, ma alla fine Larry King si è spento. Gli ultimi due anni erano stati molto difficili per il popolare volto televisivo americano. Prima il tumore alla prostata e l'ictus che lo aveva colpito nel 2019 e poi la morte di due figli. Nell'estate del 2020 Larry King, infatti, era stato colpito dal devastante lutto per la morte di due dei suoi cinque figli, morti a 51 e 65 anni l'uno a pochi mesi di distanza dall'altra. Nato a New York nel novembre del 1933, Lawrence Harvey Zeiger aveva scelto Larry King come nome d'arte per intraprendere la sua carriera come conduttore radiofonico negli anni '50. Il suo estro e la sua professionalità lo fecero approdare ben presto in televisione, dove ottenne la conduzione del suo primo show "Larry King Live" nel 1985. Un programma durato venticinque anni, con oltre 50 mila personaggi famosi intervistati e passati dalla sua poltrona e ascolti record, che lo hanno reso uno dei volti più amati degli Stati Uniti. Da Marlon Brando a Barbra Streisand, da Frank Sinatra a Barack Obama e Lady Gaga sono migliaia i volti noti che hanno affrontato le domande insidiose di Larry King, l'uomo che con le sue immancabili bretelle e gli occhiali grandi teneva incollati agli schermi milioni di americani. Nel 2010 aveva chiuso il suo storico talk show sulla Cnn ma non aveva rinunciato ai suoi incontri ed era tornato poco dopo con una versione online del suo programma "Larry King Now".

Federico Rampini per "La Repubblica" il 24 gennaio 2021. Le bretelle più famose nella storia del giornalismo ci hanno lasciato. Larry King è morto ieri a Los Angeles all'età di 87 anni. Era stato ricoverato per coronavirus, era un soggetto a rischio dopo un ictus e problemi polmonari che lo avevano colpito nel 2019. King è stato per decenni un'icona della tv mondiale e l'inventore di un "genere" d'intervista così popolare che nessun americano era una vera celebrity finché non veniva consacrato da un invito nel suo studio. Il giorno del suo addio alla Cnn, nell'ultimo show a lui dedicato il 16 dicembre 2010, fra tante star anche Barack Obama aveva registrato un cameo in suo omaggio. King era diventato talmente famoso da essere chiamato a recitare la parte di se stesso in decine di film e serie televisive. Ma l'ascesa verso la notorietà e la gloria non era stata facile. Larry nasce a Brooklyn in una famiglia povera, i genitori sono ebrei ortodossi immigrati dall'Austria e dalla Bielorussia. Il padre muore quando lui ha nove anni e la famiglia sopravvive grazie ai sussidi del welfare. L'esordio nel giornalismo è la gavetta all'antica: cronista sportivo per una radio locale; poi conduttore di una classica "notte radiofonica" animata dalle telefonate degli ascoltatori. Quest' ultima formula gli riesce così bene che segna la sua consacrazione nazionale. Tante disavventure personali e una vita a dir poco disordinata - otto matrimoni, due bancarotte provocate dal vizio del gioco, un arresto per frode - non gli impediscono di essere arruolato da Ted Turner agli albori della Cnn nel 1985. La sua prima intervista è con il governatore di New York Mario Cuomo, il padre dell'attuale, Andrew. Per più di un decennio il suo Larry King Live fu il programma più popolare della Cnn, un network che ebbe il suo battesimo di fuoco come "vetrina globale" delle breaking news 24 ore su 24 con il massacro di Piazza Tienanmen nel 1989 e la prima guerra del Golfo nel 1981. Ma a differenza dei suoi colleghi King non si considerava un vero giornalista. I critici - tanti - lo accusavano di evitare le domande scomode, di non mettere mai a disagio i suoi interlocutori e proprio questo atteggiamento amichevole contribuiva ad allungare la fila delle celebrity che lo corteggiavano per ottenere un invito nel suo studio. Lui non negava lo stile leggero, talvolta frivolo, sempre compiacente: battezzava il proprio programma come "infotainment", a metà strada fra informazione e spettacolo. Il suo declino però non è dovuto alla concorrenza di un giornalismo migliore. La caduta negli indici d'ascolto negli ultimi suoi anni alla Cnn coincise con l'ascesa di talkshow urlati, militanti e faziosi: da Bill O' Reilly a destra (Fox), a Anderson Cooper (Cnn) e Rachel Maddow (Msnbc) a sinistra. A posteriori si rivaluta proprio quel "salotto della nazione" dove King accoglieva democratici e repubblicani, progressisti e conservatori, senza avere la missione di esaltare o demolire l'ospite di turno. Ma le nuove regole feroci del business televisivo negli ultimi anni hanno privilegiato un giornalismo tribale e King è stato disertato: il suo tentativo di rinascere nell'universo digitale con le tv in streaming (Ora Tv, Hulu) producendo lo show Larry King Now , è stato un fiasco. Nel declino ha perfino rischiato di compromettersi con il principale canale della propaganda russa, collaborando con Russia Today . King è stato anche un "influencer" ante litteram nell'abbigliamento: le camicie a strisce larghe e soprattutto le bretelle colorate con le fibbie di cuoio hanno inventato un look, imitato da molti soprattutto nel mondo dei media. Non era proprio un precursore. La storia delle bretelle come status symbol culturale in America risale allo scrittore Mark Twain, poi come indumento trasgressivo da hooligan rimbalza in Inghilterra con Arancia meccanica per tornare negli Stati Uniti dove Diane Keaton ne fa un accessorio femminile-femminista. Ma se le vedete indosso a tanti giornalisti, è tutto merito del grande Larry. Al quale vanno riconosciuti degli "scoop per caso" entrati nella storia: ad esempio l'annuncio in diretta della candidatura indipendente del miliardario protezionista Ross Perot, nel 1992, un precursore di Donald Trump. Giornalista Larry King, scomparso ieri a Los Angeles a 87 anni dopo una lunga carriera televisiva.

Morto Larry King, leggendario giornalista della tv americana. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Gennaio 2021. Larry King, iconico commentatore radiofonico e tv americano, è morto oggi all’età di 87 anni.  Il giornalista era stato ricoverato in ospedale per il Covid tre settimane fa. Il leggendario conduttore del Larry King Live sulla Cnn, programma cult andato in onda per 25 anni fino al 2010, aveva una lunga storia di problemi medici e soffriva di diabete di tipo 2. In passato King aveva avuto a che fare anche con più attacchi di cuore e un cancro ai polmoni. All’anagrafe Lawrence Harvey Zeiger, era nato a New York il 19 novembre 1933: tra i suoi ospiti al Larry King Live personaggi del calibro di Frank Sinatra, Marlon Brando e Barbra Streisand, ma King in carriera aveva intervistato tutti i presidenti degli Stati Uniti dal 1974. Larry King era diventato una icona anche per il suo stile unico, con le maniche di camicia arrotolate e le onnipresenti bretelle. King fece il suo esordio nei media nel lontano 1957 come disc-jockey presso una stazione radio di Miami Beach, in Florida. Dietro il consiglio del suo manager in quel periodo cambiò il suo cognome in King, per poi diventare nel 1979 commentatore di partite di football americano. Il gran successo arriverà nel 1985 con la nascita del Larry King Live, dove in 25 anni realizzerà 50mila interviste. Secondo il comunicato che ne ha annunciato la scomparsa, i dettagli dei funerali del celebre giornalista, che aveva alle spalle una carriera lunga 63 anni, verranno annunciati in seguito. King lascia tre figli, Larry Jr, Chance e Cannon: il giornalista si era sposato ben otto volte. King è anche comparso, interpretando sé stesso, nei film Ghostbusters – Acchiappafantasmi, La donna perfetta, Faccia a faccia e I perfetti innamorati.

·        Morto l’attore Roberto Brivio dei “Gufi”.

Il Covid decima lo spettacolo italiano: morto anche Roberto Brivio, coi "Gufi" padre della comicità. Libero Quotidiano il 23 gennaio 2021. Il Covid colpisce ancora il mondo dello spettacolo italiano. Uccide anche Roberto Brivio, 82 anni. Ai più giovani forse il suo nome dirà (colpevolmente) poco o nulla, ma è uno dei fondatori, di fatto, della moderna comicità italiana. Nei Gufi, la storia del cabaret in musica, era chiamato il «Cantamacabro». Era lui a scrivere le canzoni del quartetto milanese dedicate alla morte, come Cipressi e bitume, sul cimitero. Dagli anni Sessanta ha ispirato e condizionato almeno tre generazioni di comici, non solo milanesi. Dopo Gianni Magni e Nanni Svampa, con Brivio se ne va il terzo "Gufo": resta in vita solo Lino Patruno.

Covid, si è spento Roberto Brivio, storico membro dei Gufi. Notizie.it il 22/01/2021. Lutto nel mondo dello spettacolo. Si è spento all’età di 82 anni Roberto Brivio storico membro del gruppo de “I Gufi”. Il mondo dello spettacolo ha perso una delle personalità più note del cabaret anni ‘60. A 82 anni si è spento a causa del Coronavirus Roberto Brivio artista tra i più attivi nel cabaret anni ‘60 e storico membro del quartetto musical-cabarettistico “I Gufi”, un gruppo di artisti che, sebbene è stato attivo per solo 5 anni ha saputo scioccare l’Italia per via di discorsi per l’epoca ancora “troppo audaci” da affrontare quali il sesso, satira politica o ancora religione. Il gruppo che seppe comunque lasciare la sua impronta nel mondo del teatro si è sciolto con la partenza di Gianni Magni, uno dei solisti. Eppure a dispetto di ciò Roberto Brivio proseguì la sua lunga carriera di ben 62 anni. Un percorso importante durante il quale si reinventò proponendosi in vesti sempre nuove e diverse. Fu non solo un bravo cabarettista, ma anche attore, direttore artistico o ancora scrittore. Negli ultimi tempi Roberto Brivio stava lavorando alla reunion dei Gufi, un progetto che non potrà mai vedere la luce a causa della morte di Brivio, fermato solo dal Coronavirus. Si è spento all’età di 82 anni a causa del Coronavirus Roberto Brivio, storico membro del quartetto “I Gufi”. Per cho non conosce questo gruppo basti sapere che fu proprio Brivio a distinguersi grazie ai suoi brani che trattavano temi forti come la morte. Una sua caratteristica la sua che gli permise di ottenere il soprannome “Cantamacabro”. Dopo lo scioglimento del gruppo dopo 5 anni di attività (1964-1969), Roberto Brivio proseguì con una lunga carriera durata 62 anni, una carriera nel quale si propose come artista versatile e a tutto tondo. Di lui Brivio diceva: Troppa roba? “Qualcuno mi rimprovera di non aver scelto una strada precisa, di aver disorientato il pubblico. Ma io mi sono divertito e mi diverto così, se sto fermo più di tre giorni mi annoio”.

·        E’ morta Francine Canovas, ossia: Nathalie Delon.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 22 gennaio 2021. È stata la prima e unica moglie di Alain Delon che per lei negli Anni Sessanta lasciò l' amore della sua vita, Romy Schneider: Nathalie Delon, vero nome Francine Canovas, attrice e regista, è morta ieri a Parigi all' età di 79 anni, stroncata da un cancro. «Se n' è andata circondata dai suoi affetti», ha annunciato sui social il figlio Anthony, 56, primogenito del divo francese, «la malattia è stata rapida. Riposa in pace, mamma». SPAGNOLA Di origine spagnola, bellissima ed emancipata, stessa infanzia difficile, identico carattere indomabile e uguale sguardo magnetico di Alain con cui è stata sposata dal 1964 al 1969, Nathalie recitò al fianco del celebre marito nei film Frank Costello - faccia d' angelo (Le Samouraï, 1967) di Jean-Pierre Melville e L' uomo di Saint-Michel di Jacques Deray (1971). Nella filmografia dell' attrice figurano anche Una romantica donna inglese di Jospeh Losey e alcuni lungometraggi italiani: Un sussurro nel buio di Marcello Aliprandi, I gabbiani volano basso di Giorgio Cristallini e Occhi dalle stelle di Mario Gariazzo. L' ultima interpretazione è del 2009 in Mensch di Steve Suissa. Nel 1982 l' attrice passò dietro la cinepresa dirigendo il film Ils appellent ça un accident, 5 anni dopo fece il bis con Dolci bugie. Nel 2006 scrisse l' autobiografia: Pleure pas, c' est pas grave (Non piangere, non è grave). E confessò che la sua storia d' amore con Delon era stata dominata dal fantasma della Schneider: «Alain non mi parlava mai di lei ma nel suo sguardo coglievo un velo di tristezza». Quando il divo conosce la futura moglie, nel 1963, il suo legame con Romy è in crisi. Alain e Nathalie si incrociano da Régine, la discoteca più in di Parigi, e tra i due scoppia la passione, destinata a rimanere clandestina finché lui non lascia l' attrice austriaca per intraprendere con Nathalie una storia ultra-passionale e burrascosa. Belli, giovani, affamati di vita e di successo, i due attori si sposano nel 1964. Lei, nata in Marocco a Oujda il 1° agosto 1941 e sbarcata a Parigi nel 1962, ha già avuto un marito ed è madre di una bambina che è stata affidata al padre. La nuova coppia, inseguita dai paparazzi del mondo intero, si trasferisce a Los Angeles e nel settembre del 1964 nasce Anthony, attore, che con il padre avrà sempre dei rapporti difficili.

I RAPPORTI. Durante le riprese di Frank Costello - Faccia d' angelo Nathalie e Alain sono già ai ferri corti e sul set si respira la tensione. Il divorzio arriva nel 1969, l' attrice abbandona la casa coniugale («Ho lasciato tutto dietro di me, sono andata via con mio figlio e la tata», racconterà) e Alain inizia la sua lunga storia d' amore con Mireille Darc (scomparsa nel 2017). Ma, fedele al proposito formulato al momento del divorzio, non si sposerà più. Tuttavia i rapporti con l' ex moglie sono rimasti distesi, caratterizzati da affetto e complicità.

Marco Giusti per Dagospia il 22 gennaio 2021. La morte di Nathalie Delon, 79 anni, a Parigi, bellissima moglie tra il 1964 e il 1969 di Alain Delon, attrice di una trentina di film, anche molto buoni come “Le samourai” di Jean-Pierre Melville, il primo, e “Nuit de chien” di Werner Schroeter, l’ultimo, ci riporta anche intatto il lungo, complesso, pericoloso e mai davvero chiarito “Affare Markovic”. Me ne ricordavo vagamente, ma fu davvero un caso importante che fece tremare la Francia di De Gaulle e di Georges Pompidou dalla fine del 1968 ai primi anni ’70, alla fine del quale il maggior indiziato, il gangster corso François Marcantoni detto “Marc Anthony”, dirà “La verità la sappiamo in tre. Delon, io e Dio, ma quest’ultimo non si sbilancia mai”. Il 1° ottobre 1968 un malavitoso serbo, Stevan Markovic, entrato clandestinamente in Francia nel 1958, precedenti per furti e rapine, segretario, controfigura e amico di Alain Delon, che lo ha pure sistemato in un suo appartamento, e di sua moglie Nathalie, viene trovato morto ammazzato, chiuso in un sacco nell’immondezzaio pubblico di Elancourt, a 40 km da parigi. Corpo in stato di decomposizione, due botte in testa, una pallottola calibro 9 (quella della mala) nel cranio. Dapprima non si sa chi sia. Cinque giorni dopo lo riconoscono il cantante Johnny Halliday e sua moglie Sylvie Vartan. E’ amico dei Delon, dicono. Ma è anche amico loro. Dalle lettere che ha scritto al fratello, Alexander, vengono subito tirati in ballo Delon e Marc Anthony. “Qualunque cosa avvenga, e per tutte le noie che potrebbero esserni procurate, rivolgetevi ad Alain Delon, a sua moglie e al suo socio François Marcantoni, un corso, un autentico gangster che abita al 42 di Boulevard des Gobelains”. Alain, al momento, sta girando a Cannes “La piscina” di Jacques Deray con la sua celebre ex, Romy Schneider, che ha lasciato pochi anni prima per sposare la ventunenne Nathalie, già incinta, nel 1964. Nathalie, invece, che sta per esordire al cinema a fianco del marito nel bellissimo film di gangster che non parlano troppo “Le samourai” o “Frank Costello faccia d’angelo” di Melville appunto, e aver seguitato con l’erotico romantico “Una lezione particolare” di Michel Boisrond con Rednaud Verley, è ora impegnata a Roma sul set di un torbido film erotico di sorelle lesbiche, “Le sorelle” di Roberto Malenotti, scritto da Carlo Maietto e Brunello Rondi, e interpretato da lei in coppia con Susan Strasberg. Quanto al terzo personaggio che viene tirato in ballo dalla lettera di Markovic, François Marcantoni detto Marc Anthony, è un pericoloso gangster corso, grande amico dei Delon, già ospite a più riprese delle prigioni francesi, gestore di un bar-ristorante molto frequentato, “La Passée”, a Parigi. Quando Delon è stato espulso dall’Indocina, nel 1958, è stato Marc Anthony a salvarlo a Tolone, a rimetterlo a posto. Lo sanno tutti. E’ anche molto amico della cantante e attrice Marie Laforet, bellissima. La sera che è morto Markovic, la Laforet stava assieme al ministro degli interni marocchino, Mohammed Oufkir, il mandante del delitto Ben Barka. E’ amico della cantante Nicoletta, di Guy Bejart. Sta venendo fuori un casino. Soprattutto le feste allegre che Markovic prepara assieme a una signora più esperta nelle campagne parigine. A un certo punto viene fuori un altro slavo, Uros Milievic, che è stato l’ultimo a vedere vivo Markovic. Racconta che l’amico gli aveva detto che stava per fare un colpo grosso che lo avrebbe fatto ricco. Quando entra nel taxi e lo saluta per l’ultima volta, dentro c’è guarda caso Marc Anthony, il corso. E’ per questo che verrà incriminato come complice del delitto proprio lui. Lo mettono dentro. Ma dove sono le prove? Delon viene interrogato la prima volta a Cannes, mentre gira il film, mentre Nathalie, pur invitata a presentarsi a Parigi, non si presenta, chiudendosi a Roma per più di due mesi. I Delon sono molto legati sia a Marc Anthony che a Markovic, che è stato presentato alla coppia da un altro serbo molto chiacchierato, Milos Milosevic, precedente segretario di Alain. Ma, guarda un po’, è stato proprio Milos a presentare a Delon la bambola bionda, Francine Canovas, sua fidanzata, che passerà direttamente dalle braccia della guardia del corpo a quelle della star. In luna di miele in America, dopo il matrimonio del 1964, sono andati in tre, Alain, Nathalie e Milos, che deciderà di rimanere a Hollywood. Ma, prima, ha presentato ai Delon il suo sostituto, Markovic. Nel frattempo, a Hollyowood, Milos è stato scoperto cadavere nel letto di Carolyn Mitchell, freddata anche lui, moglie poco fedele dell’attore americano un po’ in disgrazia Mickey Rooney. Si parla di omicidio/suicidio. Mah! Delon lo farà imbalsamare. Con Milosevic, Markovic divide non solo il fatto di essere morto malamente, ma una carriera di playboy, di mitomane, di belle donne e di ricche signore borghesi, di conquiste che ha forse troppo sbandierato. E sicuramente ha fotografato nelle serate allegre, con la Polaroid. Al punto che Markovic, assieme a un altro tipaccio, finito in carcere, certo Akov, ha ricattato le signore in questione. Tra le sue amanti brilla certo per importanza la bella Nathalie, già da qualche mese segnalata come pronta al divorzio, che ha fatto la terribile sciocchezza di scordare in camera del defunto la sua agendina telefonica e di vederlo poco prima di partire per Roma. Ma non è ahimé la sola, visto che presto verrà fuori il nome di una serie di ricche signore borghesi e tra queste anche la moglie del Primo Ministro gollista Georges Pompideau. L’affare si ingrossa, insomma. Mal gestito dai servizi segreti, complicati dai traffici di droga dei simpatici amici serbi del clan Delon. Questo porta a una serie di continui attacchi giornalistici al potere gollista. A un certo punto, risentito dal giudice Patard, Alain Delon dirà quello che in fondo già si sapeva, che sua moglie aveva una storia con il suo amico e segretario Stevan Markovic. Che non era però così amico, visto che guarda un po’, aveva perso il posto ultimamente. Poi, con 65 giorni di ritardo dalla richiesta che le aveva mandato a Roma il giudice Patard, arriva a Parigi anche Nathalie Delon con la sua Jaguar grigia, tutta fasciata di nero, elegantissima. Delon ha detto che per lui, marito quasi divorziato, che arriverà nello stesso anno, il tradimento non è un problema, visto che sua moglie è una donna libera, che può fare cosa vuole. E viene fuori che Markovic si vantava di avere rapporti sessuali non solo con Nathalie, ma anche con Alain Delon, che ha sempre dichiarato che in amore tutto è permesso. Il problema, però, è che Markovic stava scrivendo un libro intero dedicato ai Delon e alle loro stravaganze sessuale, che inizia così: “Mi accingo a raccontare la storia di una coppia la cui ascesa è stata spettacolosa, ma la cui dissolutezza…”. C’è chi accusa Delon di essere il mandante dell’omicidio. E, certo, tutto questo giro di malavitosi, serbi o corsi che siano, frequentati dal clan Delon, con una serie di ricche signore borghesi legate a potenti politici gollisti francese, è pericoloso. Delon cambia strategia e chiede protezione. Visto che ha saputo di un sicario partito dalla Jugoslavia per ucciderlo, teme attentati a lui, alla moglie (“Vogliono uccidere mia moglie!”, titolano i giornali) e al loro bambino, Anthony, nato nel 1964, poco dopo il loro matrimonio riparatore. In realtà, benché giovanissima, Nathalie, che si chiama in realtà Francine Canovas, nata in Marocco e di origine spagnola, mai visto o quasi il padre, madre risposata cinque volte. Ha anche un’altra figlia, che si chiama proprio Nathalie, nata dal suo precedente matrimonio con Guy Berthelemy. Con Alain si erano conosciuti già nel 1961 e avevano avuto una storia segreta di qualche anno prima che uscissero allo scoperto e che lui si lasciasse con Romy Schneider dopo sei anni d’amore. Lei non faceva un lavoro particolare, un po’ modella, un fotografa, ma anche scrpt girl sul set di “Il tulipano nero”, celebre film di Alain. Prendendo il nome di “Nathalie Delon”, Francine inizia una carriera nel cinema e nel bel mondo internazionale. Col clan Delon a Parigi, col clan Gigi Rizzi, non troppo dissimile, sulla Costa Azzurra. Anche se ora preferisce rimanere in Italia. I due, che si sono fatti vedere assieme alla prima del film di Melville nel pieno dello scandalo Markovic, in fondo è un film di gangster, stanno andando benissimo al cinema. Lui sta per girare con Jean Gabin “Il clan dei siciliani”, un altro bel filmone di malavitosi. Lei ha ricevuto varie proposte. Melville la vuole prima come protagonista di un film che non si farà, “La chienne”, “La cagna”, tratto dal romanzo di La Fouchardiére già portato al cinema da Jean Renoir, poi del bellissimo “L’armata degli eroi” a fianco di Lino Ventura. Ma presto girerà con Jacques Deray “L’uomo di Saint Michel”, con Ado Kyrou “Il monaco”, già progetto di Luis Bunuel, poi “Barbablù” di Edward Dmytryk con Richard Burton protagonista. Lo scandalo, l’Affare Markovic, coi suoi alti e bassi andrà avanti fino a metà degli anni ’70. Senza vere prove, Marc Anthony verrà scarcerato. Non si saprà mai come sono andate le cose. Intanto Nathalie Delon gira molti film. “Colinot l’alzasottane” di Nina Companez con Brigitte Bardot, “Una romantica donna inglese” di Joseph Losey con Glenda Jackson, Michael Caine e Helmut Berger, “Una femmine infedele” del suo amico Roger Vadom con Sylva Krystel e Jon Finch, “La petroliera fantasma” di Christian-Jacque con John Phillip Law, Lucretia Love, ma preferisce starsene in Italia lontano dal clan Delon. Si sono separati ormai da qualche anno per “mutua angoscia mentale”. Quando riparla di loro e dei loro eccessi ai giornali italiani, dice che “Dieci anni fa io e lui avevamo fatto impazzire tutte le brave borghesi francesi, quelle che oggi sospirano per un tricot venuto bene”. Ha avuto altre storie nel frattempo, con Marc Porel, con Franco Nero. Ma niente di definitivo. Al cinema la troviamo nei ruoli da donna ambigua e pericolosa, “Hold Up per una rapina” di german Lorente, in un horror come “Un sussurro nel buio” di Marcello Aliprandi, un giallo come “I gabbiani volano basso” di Giorgio Cristallini con Maurizio Merli, un fantascientifico come “Occhi dalle stelle” di Mario Gariazzo con Robert Hoffman. Negli anni ’80 smette col cinema, farà un film da regista nel 1988, “Dolci bugie”, per poi apparire nel tardo e bellissimo film di Werner Schroeter “Nuit de chien”, che abbiamo visto a Venezia, dove è la proprietaria del bar.

·        E’ morto l’alpinista Cesare Maestri.

Alpinismo, è morto Cesare Maestri, il ragno delle Dolomiti. Leonardo Bizzaro su La Repubblica il 19 gennaio 2021. Grande scalatore e pioniere del "sesto grado", aveva 91 anni. È morto a oltre 91 anni Cesare Maestri, alpinista, grande arrampicatore, interprete della stagione del "sesto grado", soprannominato "il ragno delle Dolomiti". Lo ha comunicato il figlio Gian con un post su Facebook. "Questa volta Cesare ha firmato il libro di vetta della scalata sulla sua vita. Un abbraccio forte a chi gli ha voluto bene". La sua montagna è sempre stata il palcoscenico di un teatro e d'altronde l'intera famiglia si è sempre mossa sulle scene: i genitori erano attori girovaghi, la sorella Anna ha recitato accanto a Totò, Gino Cervi, Valentina Cortese. Anche lui sembrava destinato alla stessa carriera dopo aver combattuto nelle file della Resistenza, come il padre, ma resistette a Roma solo un paio d'anni, frequentando più le sezioni del Partito comunista che l'Università. Tornato fra le montagne, si stabilì a Madonna di Campiglio e da allora il centro della sua attività alpinistica furono le Dolomiti di Brenta, ma non solo. Dal 1950 comincia la sua carriera di scalatore, affrontando in solitaria vie di grande difficoltà come la Preuss al Campanil Basso, la Detassis-Giordani al Croz dell'Altissimo, la Soldà alla Marmolada. Durante una delle sue salite, arrivato in cima lanciò la corda e ridiscese arrampicando lungo la stessa parete. Il piacere della recita non lo abbandonò mai e, diventato un personaggio, si esibì spesso in televisione, ad esempio nel 1977 sulle cascate del Nardis gelate dall'inverno, assieme ad Ezio Alimonta. La sua notorietà arrivò però a livello mondiale - e finì per perseguitarlo - con la salita del 1959 sulla parete nord del Cerro Torre, in Patagonia. Il suo compagno, Toni Egger, venne travolto in discesa da una valanga, lui stesso vagò incosciente alla base della montagna e fu ritrovato dal terzo membro della spedizione, Cesarino Fava. Dichiarò di essere arrivato in cima, ma di non avere prove della salita, essendo la macchina fotografica nello zaino di Egger. Le polemiche non si placarono e furono da lui ravvivate quando, nel 1970, tornò al "grido di pietra" - come lo definì Werner Herzog in un film tratto da un soggetto di Reinhold Messner - armato di compressore. La via, disegnata con i chiodi a pressione ma ripetuta più volte con ammirazione da chi lo seguì, si arrestava ai piedi del celebre fungo di ghiaccio che incorona il Cerro Torre, che lui comunque sostenne fino alla fine di aver salito già nel 1959. Non conta adesso seguire le dispute, mai placate, sulle due salite patagoniche. Maestri rimase comunque un grande alpinista, uno dei più grandi degli anni Sessanta, ma non smise di muoversi in montagna fino ad età avanzata. A 74 anni, nel 2002, assieme a due specialisti come Sergio Martini e Fausto De Stefani tentò un ottomila, lo Shisha Pangma, ma dovette fermarsi per il mal di montagna. Alla carriera alpinistica affiancò una non meno importante attività letteraria, con almeno tre titoli entrati nella storia della narrativa di montagna: "Lo spigolo dell'infinito" nel 1956, "Arrampicare è il mio mestiere" nel 1964 e nel 1973, con la moglie Fernanda, "2000 metri della nostra vita". E assieme a lei, nel centro di Madonna di Campiglio, aprì La Bottega di Cesare Maestri, negozio di abbigliamento sportivo e boutique che fu un polo di attrazione nella stazione turistica. Il Trento Film Festival, di cui Maestri era socio onorario, ricorda le sue parole del 29 aprile 2019, quando ricevette la Genziana alla carriera della rassegna cinematografica: "L'alpinista più bravo è quello che diventa vecchio". Oggi il presidente Mauro Leveghi lo commemora così: “Cesare Maestri era un bravo alpinista, uno dei migliori della storia, ed è riuscito nella sua impresa, quella di invecchiare tra le sue montagne senza perdere la vita sopra di esse.

·        Morto Emanuele Macaluso.

Maurizio Caprara per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2021. Sono stati numerosi i comunisti arrestati in Italia negli anni Quaranta. Trascorsi meno di venti giorni dalla Liberazione di Roma, il partigiano gappista Rosario Bentivegna fu portato in carcere per aver ucciso un ufficiale della Guardia di Finanza in uno scontro a fuoco. Nella seconda metà del decennio, arrivarono ad acquistare un rilievo statistico le catture di militanti ai quali venivano addebitati adunata sediziosa o resistenza a pubblico ufficiale, blocco stradale, reati legati a manifestazioni non autorizzate. Emanuele Macaluso, che comunista lo era diventato dopo aver avuto più tempo per leggere libri a causa di una tubercolosi a 16 anni di età, organizzava in Sicilia proteste di disoccupati. Per questo motivo fu denunciato agli Alleati da notabili che lo descrissero come nemico degli angloamericani. Ma in prigione il giovane Emanuele, nato a Caltanissetta nel 1924, finì per altro: adulterio. Quando la dittatura fascista era al potere, Macaluso si era innamorato, ricambiato, di una donna sposata. Lei, Lina, in precedenza aveva preso marito a meno di quattordici anni e aveva avuto a quindici la prima figlia. «Caduto il fascismo, e avendo un lavoro, pensai che potesse finire anche la clandestinità del mio rapporto amoroso», ha raccontato Emanuele nel libro 50 anni nel Pci , Rubbettino editore. «Dovevo affrontare le ire dei miei genitori, ed erano notevoli, ma non sapevo che questo era il meno», ha aggiunto. Per poi osservare: «Si trattava, ecco il punto, di una unione illegale, scandalosa, intollerabile per lo Stato, per la mia famiglia, per il mio partito e soprattutto per i miei nemici politici». Furono questi ultimi, «i gestori delle miniere, le "autorità" alle quali con la mia attività sindacale cominciavo a rompere i coglioni», secondo Macaluso, a premere sul marito di Lina, guardia comunale, affinché denunciasse la relazione. I due amanti furono rinchiusi nel carcere Malaspina. Il ragazzo rimase in cella settimane, poi ricevette sia una condanna a sei mesi e quindici giorni dalla magistratura sia una sorta di processo nel Partito comunista. Sebbene concluso da un'assoluzione, il secondo non fu leggero. Macaluso fu ritenuto inadatto per un incarico di responsabile del Fronte della Gioventù che si era profilato. È anche per quello che la sua militanza in difesa degli sfruttati rimase allora nell'ambito del sindacato, la Cgil, rinviando a più tardi le cariche nel Pci. Risoluto nel difendere la linea del partito, ma originale nel coltivare convinzioni proprie. Rispettoso delle tradizioni. Almeno dagli anni Ottanta, tuttavia, di rado «in linea» rispetto ai segretari di Botteghe Oscure, dai quali lo distanziava l'idea, condivisa con Giorgio Napolitano, che per cambiare e governare l'Italia occorressero politiche del tutto riformiste e una collocazione occidentale. Aveva una personalità difficile da incasellare nelle principali categorie dell'antropologia comunista, Macaluso. Colto, allo stesso tempo privo di vezzi diffusi tra gli intellettuali. Duro, perfino aspro, nella polemica all'interno e all'esterno del Pci, però non privo di tatto inatteso. Quando abitava vicino alla sede del «Manifesto» in piazza del Grillo, a Roma, non rinunciò mai all'amicizia con dirigenti del gruppo, pur essendo tra quanti li avevano radiati dal partito. Prima che terminasse la sua esistenza terrena, Macaluso aveva fornito due delle chiavi più utili per analizzare uno dei fenomeni politici importanti nell'Italia del Novecento. Una si trova in alcune sue frasi pronunciate nel 2017 ai funerali di Valentino Parlato: «Penso che chi vuole capire meglio che cosa è stato il comunismo italiano - ripeto: italiano - lo può fare solo attraverso la biografia delle persone. Le persone che hanno popolato questo grande alveo che è stato il comunismo italiano. E sono biografie molto, ma molto diverse». Macaluso indicò come esempi le storie personali di Antonio Gramsci, del sindacalista di popolo Giuseppe Di Vittorio, del suo successore Bruno Trentin, figlio di un intellettuale del Partito d'Azione, di un'operaia come Teresa Noce e dell'universitaria cattolica Nilde Iotti. Anche se non lo specificò, la seconda chiave interpretativa si attagliava perfettamente alla propria, di persona: «Perché è avvenuto? La ribellione è stata la molla del comunismo italiano. Il fatto di non accettare l'esistente, di pensare che l'esistente poteva essere cambiato e che per cambiarlo bisognava organizzarsi, che per organizzarsi si doveva stare insieme e che per ribellarsi non bastava la ribellione dove vivevano, ma che bisognava ricollegarsi non solo nazionalmente. Nel mondo». Se non fosse stato uno dei dirigenti che presero le distanze con chiarezza, seppure tardivamente, dall'Unione Sovietica, potrebbero apparire affermazioni monche. Non lo sono. A parlare era uno che i sovietici, durante e dopo la segreteria di Enrico Berlinguer, tenevano d'occhio, come avveniva a Napolitano e a Carlo Galluzzi. «Macaluso aveva avuto una relazione duratura con una signora. Egli la incontrava in una villa e ha veleggiato con lei nel Mediterraneo», riferiva a ufficiali del Kgb con stile guardonesco uno dei rapporti Impedian trasmessi ai servizi segreti britannici dall'archivista sovietico Vasilij Mitrokhin. Un frammento quasi da rotocalco in mezzo a bassezze denigratorie. Verso un dirigente politico razionale, e molto, ma un ribelle per il quale sentimenti e ideali erano tutt' altro che accessori.

Emanuele Macaluso, il comunista che  non beveva (l’acqua). Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 21/1/2021.

Caro Aldo, chi era Emanuele Macaluso, grande siciliano, scomparso a 96 anni? Rino Grassi, Palermo

Caro Rino, Emanuele Macaluso — capo della Cgil siciliana con Di Vittorio, nel comitato centrale del Pci con Togliatti, capo dell’organizzazione con Longo, direttore dell’Unità con Berlinguer — era diventato un po’ la coscienza critica del partito, e non solo per la veneranda età. Lo intervistai quando compì novant’anni. Gli chiesi ovviamente quale fosse il segreto della sua longevità. Rispose: camminare. «Mai cenare dove si dorme, mai prendere il caffè dove si cena». Amava molto le donne, ricambiato. Era figlio di un fuochista che spalava carbone nelle locomotive: «Papà tornava a casa dal lavoro, mangiava mezzo chilo di maccheroni, beveva un litro di vino rosso di Vittoria, ed era magro come un chiodo. Aveva fatto la Grande Guerra e iniziato a lavorare come muratore a otto anni. Sempre meglio che scendere in miniera». Entrambi i nonni di Emanuele Macaluso erano minatori. «Rivedo la corsa delle donne scarmigliate, dopo che si era saputo dell’esplosione di grisù, per vedere se tra i morti c’era il marito o un figlio. Io stesso sono perito industriale minerario. I figli degli operai non potevano fare il liceo». Il suo primo ricordo era Matteotti: fu ucciso che aveva un anno, ma il padre gliene parlava sempre. «Una notte cominciai a vomitare sangue. Mi portarono in sanatorio. Tubercolosi. Mi facevano dolorose punture di aria per immobilizzare i polmoni, nella speranza che la ferita guarisse. Quasi tutti i ragazzi che erano con me morirono. Io sognavo di arrivare a trent’anni. Il sanatorio era in fondo al paese, da lontano si vedevano i passanti intimoriti, con il fazzoletto premuto sulla bocca. L’unico amico che mi veniva a trovare, Gino Giandone, era comunista». Grazie a lui, il giovane Emanuele prese la tessera del Pci clandestino nel 1941. «Fu un gesto di ribellione contro un mondo di una miseria e di un’ingiustizia medievali. Un giorno in miniera morirono quattro “carusi”. Nella cattedrale di Caltanissetta c’erano tre bare. La quarta rimase sul sagrato. Era morto “in peccato” perché non era sposato in chiesa. Lo rifiutarono anche cadavere!». Macaluso allora picchiò il pugno sul tavolo della trattoria del Testaccio, il quartiere romano dove viveva. Sul tavolo fave, pecorino, sarde, e un solo bicchiere, per il vino. «Non bevo mai acqua — diceva —. Rovina i sapori».

Addio a Emanuele Macaluso, storico dirigente comunista. Concetto Vecchio su La Repubblica il 19 gennaio 2021. L'ex senatore si è spento a 96 anni. Fino all'ultimo Emanuele Macaluso, morto stanotte a 96 anni, ha mantenuto uno sguardo curioso sul mondo. Era sorprendentemente sul pezzo. Ancora la settimana scorsa, dal letto d'ospedale, chiedeva della crisi di governo. La politica è stata la sua dannazione. "E al giornale, che si dice?", domandò, con un filo di voce. A Natale aveva avuto un problema al cuore, che sembrava risolto, ma la notte prima di lasciare la clinica era caduto. Lo incoraggiai a tenere duro. "Ma cosa vuoi, ho quasi cent'anni", rispose lapidario. Che tutto stesse per finire lo indispettiva. Aveva amato moltissimo la vita, affrontata con lo stesso gusto con cui si addenta una mela. "Voglio andarmene nel sonno", aggiunse. Ogni mattina si svegliava alle sei, leggeva il pacco di quotidiani comprati all'edicola della piazza di Testaccio, quindi, dopo la passeggiata sul Lungotevere, dettava all'ex giornalista dell'Unità Sergio Sergi il commento scritto a mano sul tavolo della cucina. Sergi lo postava materialmente sulla pagina Facebook Em.Ma in corsivo. Una rubrica di successo. A Macaluso però non importavano i riscontri. Non aveva nemmeno un computer. "Se non scrivo i miei pensieri mi sento morire", mi raccontò una volta, seduto nel salotto del piccolo appartamento ingombro di libri. "Togliatti una volta mi spiegò: un uomo politico che non scrive è un politico dimezzato".  Il primo pezzo uscì nel 1942 sull'Unità allora clandestina: una denuncia delle condizioni di lavoro degli zolfatari nisseni. Macaluso aveva 18 anni. Eppure, nel finale di stagione, avrebbe potuto soprattutto voltarsi indietro. Parlare solo del passato. Aveva attraversato il Novecento come dentro a un romanzo. Grandi responsabilità pubbliche sin da giovanissimo: capo della Cgil siciliana a 23 anni, leader  dei deputati regionali del Pci  a 28, con cui ideò la controversa operazione Milazzo, parlamentare per sette legislature, direttore dell'Unità, amico personale di Napolitano, Berlinguer, Guttuso, Sciascia, Di Vittorio. A sedici anni scampò per miracolo alla tubercolosi. Negli anni Quaranta finì in carcere per adulterio. Nel 1960 fu latitante per otto mesi in un casolare del Modenese perché per la legge di allora i figli avuti da Lina, "donna già sposata", non potevano essere i suoi, dopo una denuncia della Dc, che pensava così di metterlo fuorigioco. Grandi amori, ma anche dolori terribili. Una sua compagna, nel 1966, si uccise buttandosi da una finestra dopo che lui l'aveva lasciata. "Fu Alessandro Natta a darmi la notizia mentre ero a Firenze a preparare un congresso. Passai mesi d'inferno". Un figlio, Pompeo, storico bravissimo, se ne è andato a 65 anni per un ictus, cinque anni fa. In quei mesi Emanuele smise di scrivere. Era espressione di una generazione fatta col filo e col ferro, forgiata nelle lotte sociali sul campo. Ha mai avuto paura di morire? "Qualche volta. Con Girolamo Li Causi nel settembre 1944 andammo a Villalba, uno dei feudi della mafia, a sfidare il boss Calogero Vizzini e ci spararono addosso". Ci voleva un gran fegato, negli anni di Portella della Ginestra e del separatismo banditesco, a fare opposizione in Sicilia, avendo come avversari gli agrari legati a Cosa Nostra. Macaluso, da capo del sindacato, batté l'isola palmo a palmo, occupò le terre nella zona d'influenza di Genco Russo, guidò i contadini nell'occupazione dei feudi, aprì sezioni del partito ovunque. "Non c'è paese in cui non abbia fatto un comizio, una volta con Calogero Boccadutri, il capo del Pci clandestino a Caltanissetta, andammo a Riesi percorrendo cinquanta chilometri a piedi. Con trentasei sindacalisti uccisi, la lotta alla mafia allora non si faceva a chiacchiere". Queste esperienze, talvolta estreme, questo suo stare sempre nel cuore della battaglia civile e sociale, hanno rappresentato un deposito di conoscenze che hanno fatto di lui, in questi anni di crisi della politica, un vegliardo da interpellare spesso. Uno strepitoso impasto di ruvida umanità e lucidità analitica. Più invecchiava e più il suo sguardo si faceva acuminato, specie sul presente. Leggeva in continuazione. Perito minerario aveva avuto sempre un complesso d'inferiorità verso la cultura, un gap che aveva cercato di colmare divorando letteralmente tutti i classici. Per quelli della sua generazione la politica andava nutrita di studi, di libri. Fino all'ultimo ha girato per casa con un classico in mano. All'immediato Dopoguerra risale la sua conoscenza con Palmiro Togliatti: "Passava per uomo freddo, ma era soprattutto timido". Fece con lui un viaggio in treno fino a Mosca. Quindi Togliatti lo chiamò nella sua segreteria nel 1963. Macaluso era già qualcuno.  A Roma, anni dopo, divise la stanza di Botteghe Oscure, la sede del Pci, con Enrico Berlinguer. "Era capace di non pronunciare una sola parola per ore: io fui l'unico cui confidò che l'incidente stradale del '73 in Bulgaria era un attentato". Pur avendo criticato, con Giorgio Napolitano, il compromesso storico con la Dc, nell'aprile 1982 Berlinguer gli affidò il risanamento dell'Unità: il giornale vendeva ancora 150mila copie, ma era pieno di debiti. Macaluso lo svecchiò: introdusse i listini di borsa, scoprì Staino e la satira, aumento la dose di polemica, continuando a siglare i suoi corsivi con l'acronimo Emma, un'invenzione che si deve a Giorgio Frasca Polara. Quando, nel giugno 1984, Berlinguer morì toccò a Macaluso fare i titoli cubitali della prima pagina: quel "Tutti", uscito all'indomani dei funerali, è storia. L'impegno antimafia, ma da posizioni garantiste, il primato della politica come stella polare, ma venato da posizioni eretiche: Macaluso è stato allo stesso tempo disciplinato e libertario, fuori e dentro la grande chiesa comunista. Era sferzante, aspro, difficile da maneggiare, ricordava più le vicende pubbliche di quelle private. E' stato un rompiscatole intelligente e libero, perché gli si potevano fare tutte le domande. Pur sentendosi estraneo a questo tempo, ha continuato a indagarne le contraddizioni. La crisi della sinistra, a cui aveva dedicato la vita, lo crucciava. I suoi corsivi mattutini, anche nella stagione sbrigativa del tweet, sono stati lampi di intelligenza. Poi il Covid lo aveva immalinconito, reso prigioniero. Non se ne faceva una ragione. Soffriva per i vecchi compagni che se ne andavano, credo che all'ultimo si sia sentito anche molto solo. Se si voleva chiacchierare con lui sul suo divano rosso bisognava mettere in conto continue interruzioni per le telefonate che riceveva. Poi riprendeva il filo delle sue analisi esattamente dal punto laddove lo aveva lasciato e ogni suo ragionare aveva sempre il taglio del racconto. Lo ricordo adesso serrato nel cappotto una sera di novembre, mentre tornava a casa, nel vento sferzante di Testaccio. Parlò di Di Vittorio, e delle lotte per i braccianti nell'Italia del dopoguerra. "Che tempi", sospirò, all'improvviso, come folgorato da quell'antica memoria. L'Italia povera di cui la sinistra si prese letteralmente cura. "N'è valsa la pena", disse Macaluso e scomparve nel buio. 

Ciao giovane, carissimo compagno Macaluso. Marco Damilano su L'Espresso il 19 gennaio 2021. Era nato il primo giorno di primavera del 1924, quasi un manifesto.  La sua vita ha coinciso con la storia della sinistra italiana. E se n’è andato quasi lo stesso giorno del centenario della fondazione del Pci. «Ciao giovane». Ti accoglieva così, nella sua casa al Testaccio piena di libri. Le pile dei giornali. Il simbolo della Trinacria. La foto con Yasser Arafat. Il disegno di Renato Guttuso alla parete, la colomba della pace schizzata per il primo maggio 1982, una festa dei lavoratori drammatica. Il giorno prima la mafia aveva massacrato il suo amico Pio La Torre, segretario siciliano del Pci, con Rosario Di Salvo. La mafia di Salvatore Giuliano aveva sparato sui lavoratori anche il primo maggio 1947, erano morti in undici, la prima strage politico-mafiosa della storia repubblicana. Era toccato a lui parlare nel primo comizio dopo l'eccidio, a 23 anni, appena scelto come segretario regionale della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Il compagno Macaluso c’era, c'è sempre stato, nella storia del sindacato e del partito. La sua vita coincideva con la storia della sinistra italiana e se n’è andato quasi lo stesso giorno del centenario della fondazione del Pci. Era nato il primo giorno di primavera del 1924, quasi un manifesto. La politica, la sinistra come rinascita, la possibilità di riscatto. Che per lui non era cosa astratta. Era nato da famiglia operaia, aveva aderito al Pci nel 1941, a Caltanissetta, perché un ragazzo più grande, Gino Giannone, lo era andato a trovare nel sanatorio dove era ricoverato per la tubercolosi e gli aveva detto: «Se vuoi fare una battaglia vera, l'unica organizzazione è il Partito comunista». Era diventato comunista per una istintiva rivolta, non per ideologia. «Non conoscevo né Gramsci né Togliatti, divenni comunista per ribellione contro l'ingiustizia sociale e la mancanza di libertà». Bisogna ripercorrere la sua vita per capire cosa è stato il Partito comunista italiano nella nostra storia, più di tanti saggi in uscita in questi giorni. Di questo partito Macaluso è stato un dirigente ortodosso e insieme anti-conformista. Componente della segreteria che elencava a memoria, come uno squadrone, guidato da Palmiro Togliatti, Longo, Berlinguer, Amendola, Pajetta, Alicata, Natta e Ingrao. «E poi c'ero io, il più giovane della compagnia». Un impasto unico di disciplina e di autonomia intellettuale, politica, esistenziale. Impensabile questa idea di politica oggi, nella giornata che stiamo vivendo nelle aule di Camera e Senato, di identità mutevoli, di scambi di maggioranza, di tradizioni culturali indossate come abiti di circostanza. Era divorato dalla passione per la politica e per quella dimensione particolare che ne è la lotta politica. La politica che ti inquieta, la politica cui appartieni come a un amore che ti ha travolto, la politica che ti dà senso, la politica che ti consuma. E la lotta politica. Della lotta politica, anche la più spietata, Macaluso ha conosciuto ogni aspetto, praticando manovre, cambi di linea, scomuniche. Qualcosa di diverso, però, dalla battaglia politica, che invece vedeva tramontata. La vita nel Pci, le prime esperienze politiche, la politica e i suoi protagonisti che cambiano. L'intervista di Marco Damilano a Emanuele Macaluso, storico senatore e dirigente del Pci, realizzata a settembre 2020 in occasione della "Maratona per il No" organizzata dall'Espresso prima del referendum sul taglio dei Parlamentari. Degli eredi ripeteva di non rassegnarsi all'idea che un partito potesse dismettere completamente la battaglia per cambiare gli equilibri nella società prima che nel Palazzo. «La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all'opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più nessun progetto. Togliatti voleva andare democraticamente e gradualmente verso il socialismo, sarà stato sbagliato, ma ora l'obiettivo di stare al governo è scisso totalmente da un'idea di società. Si sta al governo senza un progetto, senza un orizzonte politico». Aveva infatti dedicato gli ultimi mesi a ripetere che la sinistra non può avere paura delle elezioni, del popolo. «Ai dirigenti del Pd dico: cercate di ragionare e mettere mano con serietà alla vita del vostro partito, oggi quasi solo sulla scena. Fatene, se ne siete capaci, con una ricca, reale e articolata vita democratica, un partito del popolo» (2015). Un progetto dentro la storia, immerso nella realtà: era la lezione del comunismo italiano. Un riformista, certo, ma non un riformista generico. «Quel che è possibile fare, bisogna farlo. È poco? Bisogna farlo. È molto? Bisogna farlo», aveva sintetizzato il suo credo con Diego Bianchi un anno fa, in una lunga intervista per “Propaganda Live”, qualche giorno prima che il covid venisse a cambiare le nostre vite. Aveva conosciuto l'oppressione e la liberazione, anche sul piano personale, come aveva raccontato. Era stato condannato a sei mesi e mezzo per adulterio con la compagna Lina che era già sposata e da cui aveva avuto i miei due figli. Molti anni dopo i servizi indagarono sulla sua famiglia, volevano processarlo per alterazione dello stato civile perché aveva registrato i bambini all'anagrafe come “figli di Emanuele Macaluso e di donna che non vuole essere riconosciuta”, all'epoca non c'era il divorzio. «Nella Prima Repubblica la guerra politica si faceva con armi proprie e armi improprie», commentava. Nella sua autobiografia “50 anni nel Pci” (Rubbettino) aveva poi avuto il coraggio di raccontare un'altra delicata vicenda privata: la sua relazione amorosa con Eugenia Peggio finita in tragedia, con il suicidio della donna. «A darmi la notizia fu Natta: mi telefonò a Firenze dove avevo tenuto una riunione in preparazione dell'XI Congresso. Mi parve che mi cadesse il mondo addosso. Non credo di avere mai sentito un'emozione e un dolore così lancinanti. Mi hanno segnato per tutta la vita». Altri dirigenti erano come di cera, lui era di carne e di sangue. Fortissimo nella sua appartenenza rivendicata fino all'ultimo momento («Sono comunista, cazzo!») e umanissimo nella confessione delle contraddizioni, «chi ritiene di essere sempre stato coerente con la sua vita e i suoi principi lo considero un ipocrita, io mi sono contraddetto più volte», nei sentimenti non più trattenuti. È stato anche un grande giornalista, un direttore, uno straordinario corsivista con la firma Em.Ma, sull'Unità, e poi sul Riformista e anche sulla rete, su facebook, dove non mancava mai all'appuntamento quotidiano. Una penna feroce, dissacrante. Ho pensato che per lui, amico di Leonardo Sciascia, la scrittura e la polemica giornalistica fossero una seconda pelle, l'altro mestiere. Il mio ultimo incontro con lui è stato nei giorni della campagna referendaria per il taglio dei parlamentari, quattro mesi fa. Aveva votato No, si era detto contrario a unire la riforma della Costituzione alla tenuta della maggioranza. Raccontò del suo primo intervento da deputato nell'aula della Camera nel 1963, per la fiducia al governo Moro. Parlò con la solita lucidità, la curiosità di vedere cosa sarebbe successo. Disse tante cose e molte altre ne chiese. Era il 7 settembre, l'estate stava per finire, indossava pantaloni jeans e una camicia blu, un ragazzo di novantasei anni ancora desideroso di capire. Lo osservai in quel scorcio di luce con una precoce malinconia, la nostalgia di quel momento che stavo vivendo, il privilegio di ascoltarlo ancora. Alla fine, di nuovo quel saluto alla porta: Ciao giovane. Sì, ti vogliamo bene, come in quel titolo semplice che hai fatto nel giugno 1984 da direttore dell'Unità, quando morì Berlinguer. Ciao giovane, carissimo compagno Macaluso.

"Il mio Pci era una famiglia con un progetto politico. Oggi la sinistra va verso il niente". Marco Damilano su L'Espresso il 13 marzo 2014. Lo storico dirigente del Pci e giornalista racconta i vertici della sinistra, da Togliatti in poi. E sul presidente del Consiglio Matteo Renzi dice: "È il prevalere dell'immagine mediatica. E finirà per fare il botto". Il primo giorno di primavera, il 21 marzo, saranno novanta, Emanuele Macaluso li festeggerà al Senato con l’amico di sempre, Giorgio Napolitano. Dirigente del Pci, capo della destra interna (i miglioristi), disciplinato ma libertario, fedele al partito ma con il gusto dell’anti-conformismo e dell’autonomia di pensiero, polemista fulminante, nella casa romana di Testaccio Em.Ma. ripercorre decenni di vita politica. Memoria di ferro, giudizi sferzanti: «Matteo Renzi? Vuole dare il cioccolatino a tutti, ma farà il botto». E previsioni: «Napolitano se ne andrà e questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio». L’infanzia a Caltanissetta, la famiglia operaia, l’Istituto minerario, il ricovero per tubercolosi, l’amicizia con Leonardo Sciascia, l’adesione al Pci nel 1941 («a convincermi fu un ragazzo più grande di me, Gino Giannone, mi venne a trovare nel sanatorio, tranne i miei genitori nessuno lo faceva, e mi disse: se vuoi fare una battaglia vera l’unica organizzazione è il Pci. Non conoscevo né Gramsci né Togliatti, divenni comunista per ribellione»), la Cgil («Con trentasei sindacalisti uccisi, la lotta alla mafia allora non si faceva a chiacchiere, dopo la strage di Portella della Ginestra del 1947 toccò a me il primo comizio, avevo 23 anni»). Infine, l’arrivo a Botteghe Oscure: «Nel 1956, in mezzo ai fatti di Ungheria, passai dalla Cgil al Pci. Mi trovai tra due fuochi, tra Giuseppe Di Vittorio e Palmiro Togliatti. Leggendo anni dopo i verbali della direzione in cui ci fu il loro durissimo scontro sull’invasione sovietica ho scoperto che nella stessa riunione Di Vittorio protestò perché ero stato spostato dal sindacato al partito. Nel ’62 entrai nella segreteria».

Da chi era composta?

«Togliatti, Longo, Berlinguer, Amendola, Pajetta, Alicata, Natta e Ingrao. E poi c’ero io, il più giovane della compagnia».

Uno squadrone. Tipo l’Inter di Herrera.

«Longo era il numero due, Berlinguer era il responsabile dell’ufficio di segreteria, la gestione interna toccava a lui. Nasce lì il mio rapporto forte con Enrico, per quattro anni non c’è stato giorno in cui non siamo stati insieme, il nostro rapporto di amicizia e di fiducia andava oltre la politica. Raccontò solo a me e alla famiglia di aver subito un attentato in Bulgaria nel 1973. E anche quando fui in dissenso con lui mi chiese di fare il direttore dell’“Unità”. Napolitano era il presidente dei deputati, Gerardo Chiaromonte il capogruppo del Senato, anche loro avevano contrastato la sua ultima svolta. C’era un modo di concepire la lotta politica interna al partito che non è paragonabile a oggi».

Il Pci è stato un partito o una religione?

«Anni fa ebbi un bellissimo scambio con Montanelli. Il Pci è stato una Chiesa, mi scrisse, e anche tu sei stato un chierico. In parte era vero, più che una chiesa la consideravo una comunità, una mezza chiesa, in cui si facevano i conti sul piano politico e sui comportamenti privati».

Aveva trasgredito qualche precetto?

«Da giovane ero stato in carcere, condannato a sei mesi e mezzo per adulterio con la mia compagna Lina che era già sposata e con cui ho avuto i miei due figli. Una storia che non finì li. Anni dopo, ero deputato regionale, ebbi uno scontro violentissimo con la Dc sulla giunta Milazzo. I carabinieri dei servizi fecero un’inchiesta sulla mia famiglia, scoprirono che avevo registrato i miei bambini all’anagrafe come “figli di Emanuele Macaluso e di donna che non vuole essere riconosciuta”, allora non c’era il divorzio. Mi volevano condannare per alterazione dello stato civile, da otto a dodici anni di carcere, un giovane magistrato, Emanuele Curti Giardina, mi mise in guardia. Mi salvai perché la Cassazione con una sentenza che fece epoca annullò il reato. La Dc voleva liquidarmi con questi metodi. Quando sento parlare con nostalgia della Prima Repubblica ricordo che c’era una guerra politica che si svolgeva con armi proprie e armi improprie».

Nel Pci come fu presa la sua irregolarità?

«Nel primo caso fui accusato di avere una condotta non confacente, mi vietarono di partecipare al primo corso politico di formazione nazionale del Pci. Nel secondo, invece, fui difeso. Andai latitante a Modena, in Emilia, a casa di un contadino, Giorgio Amendola mi portò dall’avvocato Battaglia».

Nel Pci erano tutti con le carte in regola?

«Macchè! Togliatti fu costretto a chiedere al partito una commissione per decidere sulla sua convivenza con Nilde Jotti, Longo aveva lasciato Teresa Noce, quasi tutti i dirigenti erano nella stessa situazione, tranne Amendola che era molto intransigente. E il mio maestro Girolamo Li Causi: lui era stato mollato dalla moglie che si era messa con Riccardo Lombardi. Pertini s’indignava con me: “Come fai a essere amico di Lombardi che si è messo con la moglie di Li Causi mentre lui era in carcere?”. Io replicavo che Li Causi riteneva la cosa chiusa e aveva trovato al suo posto una ragazza bellissima... Ma nessuno nel gruppo dirigente faceva una battaglia aperta contro questo moralismo. Era lo specchio di un partito che era una comunità, una famiglia».

Cinquant’anni fa fu lei a organizzare i grandiosi funerali di Togliatti. Il Pd di Renzi dovrebbe celebrare il capo del Pci?

«Dovrebbero celebrarlo tutti quelli che difendono la Costituzione. Dovrebbe saperlo il professor Gustavo Zagrebelsky: non si può alzare quella bandiera e poi sputare su Togliatti. Senza Togliatti quella Costituzione non ci sarebbe stata».

Ci sarebbe stato il Pci?

«Sì, ci sarebbe stato un partito comunista in Italia, come in tutti i Paesi europei, ma che comunismo sarebbe stato? Con la svolta di Salerno Togliatti salvò l’Italia. Cambiò tutto: dalle occupazioni delle terre contro la legge alla lotta per l’applicazione della legge, dal ribellismo alla politica. Togliatti ha costruito una sinistra che pensa al governo».

I suoi eredi lo hanno esaudito...

«Eh, già... tranne il povero Occhetto sono tutti andati al governo, tutti ministri: D’Alema, Veltroni, Fassino, Livia Turco, Bassolino, Bersani, Mussi... ma senza un progetto, senza un orizzonte politico. La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all’opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più un progetto, una direzione. Togliatti voleva andare democraticamente e gradualmente verso il socialismo, sarà stato sbagliato, ma ora verso cosa si va? Verso niente! L’obiettivo di stare al governo è scisso totalmente da un’idea di società».

Quando è finito il Pci?

«Nel 1984, dopo la morte di Berlinguer, il Pci alle elezioni europee diventò il primo partito, io ero in tv a commentare, allora la Rai faceva sedere gli ospiti politici in ordine di grandezza, spostai la sedia e mi misi prima del dc Giovanni Galloni, feci io il sorpasso... Però è vero che in quel momento il Pci cominciò a declinare. Cambiò il gruppo dirigente, Natta promosse gli elementi più anti-socialisti della nuova generazione, i riformisti furono esclusi. Anche se fummo Napolitano, io e altri, nell’86, a inserire nelle tesi del congresso di Firenze la frase sul Pci “parte integrante della sinistra europea”».

Che effetto le fa vedere che il processo di adesione al Pse è stato concluso da Renzi?

«Alcuni amici mi dicono che Occhetto è incazzatissimo perché rivendica di essere lui tra i fondatori del Pse. Forse avete ragione, ho risposto, ma se non me ne sono accorto io, figuriamoci gli altri!».

Chi è Renzi nella storia della sinistra? Un intruso? Un invasore? O il risultato più compiuto della svolta dell’89, la Bolognina?

«Quando nel 2007 è nato il Pd con la Margherita dissi che eravamo al capolinea. Il Pd è stata un’operazione rovesciata rispetto alla storia complessa della sinistra europea. E ora Renzi è l’espressione più radicale dei tratti distintivi della Seconda Repubblica: il prevalere dell’immagine mediatica e della comunicazione sul progetto. Mi sono stropicciato gli occhi quando ho visto Renzi baciarsi e abbracciarsi con Landini dopo averlo fatto con i finanzieri della City. Mi è venuto in mente Alcide De Gasperi che governava con il sindacato e con la Confindustria, l’interclassismo...».

Gli fa un complimento enorme!

«Ma no! Quello di Renzi è una caricatura, è l’interclassismo del cioccolatino: uno a Landini e uno a Squinzi. Arrivato a novant’anni, confesso, ho un’angoscia: se fallisce Renzi dopo di lui cosa c’è?».

Angoscia condivisa. Cosa si risponde?

«Che non c’è niente. La mia preoccupazione è che Renzi andrà a fare il botto, come si dice in Sicilia. Fa un grande gioco, sta con Landini e con Squinzi, con Berlusconi e con Alfano e con la sinistra del Pd. Ritiene che il suo carisma gli consentirà una manovra a maglie così larghe da portargli rapidamente i risultati. Perché appena dovesse mostrarsi una difficoltà lui andrà alle elezioni. Dirà: non mi fanno fare le cose, con questi non posso lavorare, andiamo al voto. Per questo ha cominciato con la legge elettorale».

Su cui si sono già aperte le prime crepe...

«Renzi si sta già accorgendo che le cose sono più complicate. Il voto sulle quote rosa sull’Italicum è stato un segnale. Ma il punto nodale della legge elettorale è la preferenza. La preferenza è la rivoluzione che rompe il berlusconismo, il grillismo. E anche il renzismo».

Rino Formica scrive che è in corso un golpe della coppia Br (Berlusconi-Renzi) per stravolgere la Costituzione e sostituire Napolitano al Quirinale. Fantapolitica?

«Formica non dice mai fantasie. Quando denuncia l’abolizione di organi costituzionali con l’articolo 138 fa una critica intelligente, ha ragione. Vogliono abolire il Senato? E allora perché non anche la Camera? E perché non sottrarre, almeno in linea teorica, la sovranità popolare?».

Lei è uno dei più cari amici di Napolitano: firmerà questa legge elettorale?

«Come ha detto lui, la valuterà con attenzione».

Cosa è cambiato per Napolitano con Renzi al governo?

«Dopo la crisi del berlusconismo il presidente ha puntato su Mario Monti per ristabilire il rapporto con l’Europa. Ma con le elezioni Monti ha fatto la coglionata più colossale che la storia politica repubblicana ricordi, invece di fare l’uomo delle istituzioni è andato a fare un partitino con alcuni residuati bellici. Poi c’è stata la rielezione, con Bersani e Berlusconi che andarono a chiedere in ginocchio al presidente di restare. Lui aveva già organizzato il suo ufficio in Senato, la sua casa nel quartiere Monti, aveva perfino scelto i suoi collaboratori. E invece è stato costretto a restare e ha scelto Enrico Letta per la guida del governo. Letta si è dimostrato un po’ lento, ma è una delle poche personalità che ha il senso della complessità del governo. E dopo le primarie è scattata l’opposizione vera, non era quella di Berlusconi ma di Renzi. La crisi è stata decisa dalla guerriglia nel Pd. Napolitano ha preso atto delle dimissioni obbligate di Letta, non poteva fare altro. Con Monti e Letta c’erano governi originati da una crisi in cui il presidente era stato obbligato ad avere un ruolo. Con Renzi non è più così. Cambia la ragione sociale per cui rimane al suo posto».

Fino a quando resterà?

«Resta al Quirinale perché vuole che si faccia la riforma elettorale. Ma ritengo che manterrà fede a quello che ha detto in Parlamento al momento della rielezione. Approvata la legge elettorale Napolitano farà un ragionamento, ricorderà che a tutto pensava tranne che a un secondo mandato, che ha cercato di sanare una situazione di crisi e di paralisi istituzionale, che c’era un tempo di diciotto mesi per fare le riforme. Se ne andrà prima. E questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio».

Di Amendola, citando Sciascia, lei ha scritto: «Contraddisse, e si contraddì». Si può dire anche di lei?

«La contraddizione è nella persona. Chi ritiene di essere sempre stato coerente lo considero un ipocrita. E io mi sono contraddetto più volte».

Mirella Serri per "La Stampa" – venerdì 5 giugno 2020 il 19 gennaio 2021. Lo ricordo come un gigante, voglio dire come un grande italiano, uno dei padri della Repubblica. Ma quante volte si è contraddetto! E quante volte siamo entrati in conflitto!»: Emanuele Macaluso, classe 1924, più giovane di 17 anni di Giorgio Amendola, di cui il 5 giugno ricorrono i 40 anni dalla scomparsa, era assai più minuto e meno imponente del leader «gigante». Amendola era connotato da una robusta corporatura e da una voce tonante, tanto che i compagni di partito dicevano che fosse un tipo da prendere con le molle, così «brusco e duro». Nato a Roma nel 1907, era chiamato il «democratico prepotente» e aveva fama di incutere un gran timore a chi lo contrastava. Ma non mise mai soggezione a Macaluso, autorevole maître à penser della sinistra italiana, uno dei più importanti protagonisti della nostra vita politica, nel Pci, nel Pds, nei Ds e nel Pd: quello tra il futuro direttore dell’Unità e poi de il Riformista e Giorgione (era il soprannome di Amendola) fu un intenso e appassionato incontro-scontro, destinato a durare tutta la vita. Il dirigente del Pci fu il mentore di Macaluso nella corrente riformista o migliorista del partito, nata per orientare il partito verso una stretta collaborazione con i socialisti e nelle cui file militò anche Giorgio Napolitano, destinato a diventare presidente della Repubblica .

Convinti meridionalisti entrambi, all’inizio della vostra conoscenza marciavate in sintonia?

«Quando ci siamo conosciuti, negli anni Cinquanta nel Comitato nazionale per la rinascita del Mezzogiorno, Amendola ‘`imponeva con un eccezionale pedigree: era figlio di un ministro liberale, Giovanni, massacrato di botte dai fascisti, aveva patito il confino e l’esilio, era stato uno dei protagonisti della Resistenza e di discussi attentati, come quello di via Rasella. Nonostante la sua autorità, molte sue prese di posizione non mi convincevano. Non ho mai avuto timore di fronteggiarlo e così ci capitava di incrociare vivacemente le lame proprio sui destini del Sud: vedeva il Mezzogiorno come qualcosa di omogeneo e non capiva la peculiarità e le necessità di autonomia della Sicilia».

I grandi meriti politici di Amendola, quali furono?

«A lui dobbiamo l’approdo europeista della sinistra italiana. Fu uno dei primi convinti sostenitori dell’Europa comunitaria. Sapeva superare asprezze e polemiche. Nel 1970 supportò con convinzione la candidatura di Altiero Spinelli, fondatore del Movimento federalista europeo, alla Commissione di Bruxelles, prima, e al Parlamento europeo, più tardi, nonostante fossero su lidi opposti: Spinelli, antistalinista, era sempre stato molto critico nei confronti dei comunisti italiani. Giorgio aveva un rapporto privilegiato con Ugo La Malfa e con il partito repubblicano, avamposto in Italia dell’europeismo. La sinistra, grazie ai suoi sforzi e alle sue relazioni, capì l’importanza di un'Europa unita».

Vi siete confrontati entrambi con le difficoltà della ricostruzione del dopoguerra, con la durezza delle lotte operaie e contadine, con i tentativi di imporre governi reazionari. Avete condiviso un passato di problemi che ogni volta sembravano insuperabili: oggi quale insegnamento possiamo trarre dalla figura di Amendola?

«Si annunciano mesi bui e un autunno impervio. Alla pandemia si è aggiunta la crisi economica e sono nere le previsioni di crescita. Però le differenze tra i politici di ieri e di oggi sono notevoli. Amendola non si tirava indietro di fronte ai suoi errori. Quando approvò l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica aveva dalla sua l’intero partito. Quando invece fu favorevole all’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa ebbe contro gran parte del Pci. Non si preoccupava di andare d’accordo con tutti e riteneva che in un partito politico l’omologazione delle opinioni divergenti non fosse necessaria. Nella tradizione della sinistra ha sempre prevalso il dibattito accanito e poi la votazione... Una volta presa la decisione, però, si mettevano da parte le divergenze e si lavorava, lealmente, allo stesso pro- getto. Oggi i politici non smettono mai di litigare. E lo stallo è assicurato».

Cosa manca, rispetto agli esempi del passato, a chi siede in Parlamento o sugli scranni del governo?

«E' assente la capacità di visione d’insieme e di sintesi politica che era propria di personaggi come Amendola. Il premier Giuseppe Conte è molto responsabile e abile ma non ha alle spalle né un partito né l’apprendistato politico. Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, è un tecnico di altissimo livello come lo è Giuseppe Provenzano che occupa il dicastero per il Sud. Ma dietro di loro non ci sono i partiti che, invece, ancora oggi sono il nerbo della politica in Inghilterra, Spagna, Germania. La Francia con il movimento politico di Macron ha una situazione più incerta e debole. Da noi l’unica forza strutturata è il Pd governato da Nicola Zingaretti che però spesso si barcamena come una navicella in un mare in tempesta. Zingaretti è un buon amministratore ma non esprime una forte leadership. Il Movimento 5 Stelle è allo sbando. I grillini sono spappolati, manca la testa Vito Crimi non può essere considerato un capo - ma ha perso anche la coda. Non hanno una base politica e culturale, sono un po` di destra, come Luigi Di Maio, e un po` di sinistra come Roberto Fico, mentre Alessandro Di Battista è un battitore libero, un viaggiatore sputasentenze. La destra invece è tutta in mano a Matteo Salvini che, andando a far propaganda per lidi e per spiagge, non mostra certo di avere la tempra di uomo di governo, capace di coprire responsabilità istituzionali».

Per il futuro dobbiamo aspettarci la rivolta sociale di ceti impauriti e impoveriti?

«Il premier Conte, il ministro Gualtieri e altri saranno in grado di mettere delle toppe alle falle aperte dalla depressione economica. Anche se, quando si tratta di prendere una decisione, i 5 Stelle sono ondivaghi, incerti e alla fine si adeguano ai diktat di chi alza la voce. Persino quando si tratta di applicare la loro ricetta neostatalista, in una situazione come questa di grande emergenza, sono esitanti. "Chi ha più filo tesserà", era solito dire Amendola a conclusione di una riunione particolarmente dura e contrastata. I politici più accorti sapevano tenere il bandolo della matassa. Oggi la nostra è una repubblica senza partiti che rischia di collassare».

Addio Emanuele Macaluso, il migliorista che insegnò il garantismo ai comunisti. Aldo Varano su Il Dubbio il 19 gennaio 2021. Quella feroce polemica di Macaluso col giustizialismo dell’antimafia palermitana che aveva attaccato frontalmente Leonardo Sciascia accusandolo di aver dato man forte alla mafia delegittimando i giudici. Con Macaluso, classe 1924, scompare l’ultimo comunista che fece parte di una segreteria del Pci con Palmiro Togliatti. Per intenderci: c’erano Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao, Alicata, Berlinguer e Bufalini. Un parterre di passione, politica, disinteresse e cultura oggi inimmaginabile. Paragonando Pd e Pci Macaluso, che è stato anche un grande giornalista e direttore di giornali, una volta spiegò: «Lì hanno una direzione nazionale di 150 persone. Iniziano le riunioni la mattina tardi e finiscono prima del telegiornale della sera per fare in tempo ad andare in onda. Con Togliatti in direzione eravamo 19. Si cominciava la mattina presto e la sera tardi, certe volte, si rinviava al mattino successivo perché non avevamo finito». Spiegazione impietosa e lucida tra la politica della sua generazione e la politica spettacolo sempre più condizionata dai mezzi di comunicazione anziché dai cittadini o, come allora si preferiva dire “dalle masse popolari”. Macaluso non era arrivato alla segreteria nazionale del Pci, il più ristretto nucleo di direzione, nonostante la discussa operazione Milazzo (prima e sola vera spaccatura di massa della storia della Dc) ma, forse, grazie ad essa. Una rottura della Dc allontanata dal governo dell’isola e costretta all’opposizione. Togliatti era convinto che parte del popolo Dc dovesse “liberarsi” dalla gabbia in cui si era ficcato per contribuire a un rinnovamento profondo di cui il Pci si sentiva portatore principale. La spaccatura di una delle Dc più forti d’Italia (quella siciliana di Don Sturzo e Scelba, dei Mattarella e di Restivo) a cui Macaluso aveva lavorato nel 1958, non poteva che essere valutata preziosa dal “Migliore”, al di là delle contraddizioni anche stridenti che quell’operazione conteneva e che furono rinfacciate a lungo al Pci e a Macaluso. Lui era personaggio diverso da tutti gli altri “quadri”, come venivano allora chiamati i dirigenti comunisti messi insieme da Togliatti, in gran parte grandi intellettuali con studi ed esperienze culturali molto robuste. Emanuele ragazzo era stato costretto per condizione familiare a studi modesti. Era cresciuto a Caltanissetta assieme ai fratelli Sciascia di cui era coetaneo e amico: uno di loro si sarebbe suicidato l’altro sarebbe diventato un grande scrittore. Ragazzi della nidiata delle zolfare, dove si svolgeva la fatica terribile degli supersfruttati minatori, su cui “Sciascia (Leonardo, ndr) ha scritto pagine bellissime che restituiscono quell’universo dove sia lui sia io diventammo uomini”, avrebbe poi scritto Macaluso in un saggio sul suo vecchio amico. Il 16 settembre 1944 ancora ventenne assieme ad altri suoi compagni accompagnò Momo Li Causi per un comizio a Villalba, regno incontrastato di Calogero Vizzini, il più potente capo mafioso dell’epoca. Il boss non gradì l’intrusione e fece scatenare contro i manifestanti una tempesta di piombo. Il bilancio fu di 14 feriti tra cui quello gravissimo di Li Causi, che perse l’agibilità di una gamba. E appena diventato uomo Macaluso, segretario della Cgil, era finito in galera per un reato anomalo rispetto a quelli che allora piovevano sui sindacalisti. Aveva sfidato la morale codina della sua città vivendo alla luce del sole il suo rapporto d’amore con una donna sposata che sarebbe diventata madre dei suoi figli, Antonio e Pompeo. La polizia piombò a casa della coppia e portò via in manette Macaluso arrestandolo per un reato gravissimo punibile fino a 2 anni di carcere: adulterio. Esperienza che spiega le posizioni sempre coraggiose di Macaluso in tutte le battaglie di emancipazione civile. E’ stato profondamente laico Macaluso. E componente fondamentale della sua laicità è stato il suo impegno garantista decisamente contrapposto a ogni forma, larvata o esplicita, di giustizialismo. Macaluso ha sofferto, anche rispetto al Pci e ai suoi dirigenti più prestigiosi, per dover vivere in un paese «dove vige una legge sul pentitismo che di fatto garantisce a chi confessa e accusa altri di non scontare la pena». Né è un caso che alle accuse lanciate contro Sciascia da parte del giustizialismo soprattutto palermitano, accuse che trovarono comprensione e/o esplicito accordo fino ai vertici del Pci non soltanto siciliano, si sia sempre pubblicamente e coerentemente contrapposto. In un suo libro ha ricostruito passi drammatici sul suo impegno contro il giustizialismo. Ha rivelato pubblicamente che da direttore dell’Unità «in occasione del pentimento e la scarcerazione del terrorista Marco Barbone, che aveva partecipato all’assassinio di Walter Tobaci» pubblicò un proprio corsivo criticando la procura di Milano che reagì privatamente rivolgendosi per vie traverse (la federazione del Pci milanese) ad Alessandro Natta allora segretario del Pci. Natta disse a Macaluso che aveva sbagliato. Ma Macaluso gli rispose che aveva ragione e che l’intero Pci, per non sbagliare, avrebbe dovuto avere quella posizione anziché restare zitto. «Ma né lui né tantomeno quelli che vennero dopo, cambiarono idea», annota Macaluso. E aggiunge: «Del resto anche sul processo Tortora le cose si erano svolte come per Barbone. Ai miei dubbi sui propositi dei magistrati napoletani si oppose da parte dei dirigenti del partito – c’era ancora Berlinguer – l’esigenza di non delegittimare i magistrati». Feroce la polemica di Macaluso col giustizialismo dell’antimafia palermitana che aveva attaccato frontalmente Leonardo Sciascia accusandolo di aver dato man forte alla mafia delegittimando i giudici. Sciascia era intervenuto sul clima che si era creato a Palermo con un articolo sul Corsera che qualcuno (non Sciascia, che lo precisò immediatamente, del resto tutti i giornalisti sanno che titoli e articoli sono di mano diversa) aveva titolato “I professionisti dell’antimafia”. In polemica si erano mobilitati molti i giornali e i leader del movimento palermitano antimafia con alla testa Repubblica che con un editoriale di Scalfari avevano accusato Sciascia di avere sferrato all’antimafia un attacco provocandone il “ripiegamento” e il “riflusso” nella lotta contro i boss. Il direttore di Repubblica, forse anche mosso da interessi di concorrenza tra il suo giornale e il Corsera, aveva concluso con durezza: “Del resto Leonardo Sciascia non è nuovo a questo genere di sortite, nella quali la vanità personale fa spesso premio sulla responsabilità civile”. Da lì si formò la diceria secondo cui tutto era iniziato con e per colpa di Sciascia che nell’inverno del 1987 col suo articolo aveva indebolito l’antimafia. Rovente la ricostruzione di Macaluso: «Pensare che tutto iniziò con Sciascia nel 1987, quando erano già stati assassinati Boris Giuliano, Terranova, Mattarella, Costa, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici e tanti altri è semplicemente assurdo. Se si insiste nell’asserire, come fa Scalfari, che nell’opera di demolizione del pool antimafia e del lavoro di magistrati come Falcone e Borsellino, tutto cominciò con Sciascia, si dice cosa contraria alla verità e si sottovalutano le forze necessarie a colpire uomini decisi a rovesciare una storia di connivenze, complicità, viltà». E più avanti, allargando ancor di più la polemica contro gli avversari di Sciascia, la conclusione: «Io, invece, che lo conoscevo (Sciascia, ndr) meglio di Pansa (Giampaolo, anche lui entrato nella polemica, ndr) e non avevo una partita aperta per sostenere quel coacervo giustizialista che si ritrovava nel Comitato antimafia, pubblicai sull’Unità che la mafia può essere battuta solo con la legge, con il garantismo, con la democrazia». Con Napolitano Macaluso fu leader riconosciuto dei “Miglioristi”. Termine, un po’ dispregiativo, nato negli ambienti della sinistra del Pci soprattutto ingraiana e vicina al gruppo degli intellettuali del Manifesto, per indicare quanti avevano ormai rinunciato alla Rivoluzione e al rovesciamento della società capitalista accontentandosi di migliorarla per attutirne le contraddizioni. In realtà, il “Migliorismo”, che ufficialmente non fu mai un’area organizzata, su cui Macaluso nei suoi scritti e nella sua battaglia politica e culturale s’impegnerà in modo energico fino a poche decine di ore prima di morire, progettava nella sua visione il massimo recupero possibile dalla tradizione positiva del Pci, via via che diventava sempre più evidente il fallimento del comunismo.

Il lutto. Morto Emanuele Macaluso, ex direttore del Riformista e storico dirigente comunista. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. E’ morto a 96 anni lo storico dirigente del Partito Comunista Italiano Emanuele Macaluso. Nato Caltanissetta il 21 marzo del 1924, Macaluso è stato parlamentare dal 1963 al 1992, per sette legislature. Fu direttore de L’Unità dal 1982 al 1986 e de Il Riformista dal dal 2011 al 2012. Macaluso si iscrisse al Partito Comunista d’Italia prima della caduta del Regime fascista. Iniziò la sua carriera politica nel 1951 come deputato regionale siciliano del Partito Comunista Italiano. Membro della corrente riformista (o, come egli preferiva, migliorista) del partito, di cui faceva parte anche Giorgio Napolitano, nel 1960 entrò nella Direzione del partito. “Si è spento il faro. Resto la scintilla. Per quel poco di luce che ha fatto o che farà, nella mia vita, la luce è sua”. Così Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la Coesione territoriale, ha ricordato lo storico dirigente comunista.

Il ricordo. Emanuele Macaluso, un gigante della Repubblica. Angela Azzaro su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. Oggi scriveranno che Emanuele Macaluso era un riformista ed effettivamente lo eri. Ma se paragonato a chi oggi parla di riformismo senza neanche sapere che dice eri e resti un rivoluzionario. Antifascista, sindacalista, dirigente di quel Pci che ha costruito la democrazia in Italia. Direttore dell’Unità e del Riformista. Sansonetti che era all’Unità con te racconta di quando chiedevi in prima pagina un “catino“. Nessuno hai mai capito cosa fosse ma il catino appariva comunque in prima pagina. Era la magia della tua sicilianità, di una lingua impregnata delle lotte dei braccianti. Di una persona che non ha mai smesso di ragionare di voler analizzare di capire. Da giornalista ho avuto l’onore di passare i tuoi pezzi. Si dice così quando si rilegge e si titola. Ma ho avuto il dispiacere di vedere un rappresentante degli avvocati scrivere: ma chi cavolo è questo Macaluso? Chiedendo che non scrivessi più sul suo giornale. Sansonetti ha continuato a pubblicare i tuoi articoli e a chiedere catini in prima pagina per i tuoi pezzi fino a che non è stato cacciato. Macaluso aveva osato criticare Bonafede, il peggiore ministro della Giustizia che l’Italia abbia avuto. Abbiamo scoperto che guai a criticare il cerchio magico che governa il Paese, chi li tocca è perduto. Ma loro sono i nuovi barbari che non sanno chi tu fossi. Tu sei un gigante della Repubblica.

Dalle lotte in Sicilia a Botteghe Oscure. Il mio ricordo di Emanuele Macaluso e la rabbia di non averlo più sentito dopo la sua sfuriata. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Mi dispiace non averlo più sentito. Mi dispiace molto. Mi telefonò pochi giorni prima dell’apertura del Riformista. Era arrabbiato. Disse che aveva visto l’elenco dei collaboratori e che lui non voleva scrivere sul Riformista perché aveva capito che avevo scelto Renzi. Poi in realtà, nei mesi successivi, ci concesse parecchie interviste. Non era vero che noi avevamo scelto Renzi ma Emanuele era testardo. Se aveva un’idea in testa era quella. Lo avevo conosciuto personalmente giusto 40 anni fa, quando arrivò all’Unità in un momento molto difficile per il giornale. Poi vi dirò perché era un momento difficile. Gli ho voluto molto bene. Forse anche lui a me. Però i rapporti tra noi sono sempre stati, o quasi sempre, di conflitto. Nel senso migliore, credo, di questa parola. Macaluso era una delle poche persone che sapeva litigare con te senza nessun rancore e senza che il dissenso modificasse il suo giudizio sulle persone. È stato uno di quei vecchi dirigenti togliattiani del Pci che credeva molto agli ideali. La politica, anche la politica “politicienne”, era nelle sue corde, ma sempre ancorata a un’idea, a un orizzonte. Emanuele viveva per le idee. Sicuramente ha creduto nel comunismo, nel socialismo. Sicuramente ha subìto, di Togliatti, sia la grande apertura mentale sia i residui di stalinismo. Però Emanuele ha avuto un pregio che non tutti gli allievi di Togliatti hanno avuto: lui non ha mai smesso di pensare. Dico pensare con il cervello suo. E quando è diventato un po’ anziano ha scoperto che lo stalinismo era una palla al piede per il socialismo e che la libertà era un ideale, un ideale forte e universale, non una chimera borghese. Socialismo e libertà è il titolo che abbiamo messo in prima pagina. Forse, addirittura, potevamo scrivere: comunismo e libertà. Sono un ossimoro queste due parole? Emanuele non aveva paura degli ossimori. Li impersonava. E poi non aveva paura né della battaglia né dell’isolamento. Credo che Macaluso non avesse paura proprio di niente. L’ho visto triste, allegro, indignato, indifferente, arrabbiato, depresso, contento: impaurito mai. Si è gettato nella battaglia, credo, a 16 anni e si è fermato solo ieri mattina, quando se l’è portato via la morte. Dalla politica non ha avuto incarichi, prebende, doni, vantaggi, ricompense. Non gli interessavano. Per lui la politica era lotta. Non sottovalutava il potere, lo conosceva, lo studiava, lo analizzava. Non ne aveva né soggezione né brama né disprezzo. Non crediate che siano molti i politici capaci di avere un atteggiamento laico e serio verso il potere. Sono pochissimi. In genere i politici, specie quelli di sinistra, o lo considerano satana o lo considero Dio. Penso che tra i politici della sua generazione Emanuele sia stato uno dei più dotati. Era acuto nelle analisi. Mai banale. Chiaro nell’esposizione. Ricco, ricco, ricco di storia. Capace di andare controcorrente. Aveva quasi 97 anni, quando è morto. Gli mancavano 60 giorni per compierli, era nato il 21 marzo del 1924. Qualche mese prima dell’uccisione di Matteotti. Il triennio 24-26 è un triennio d’oro per i futuri dirigenti del Pci. Sono nati in quegli anni Chiaromonte, Napolitano, Lama, Reichlin, Jotti, Tortorella, Rossanda, Pintor, Trentin, Di Giulio. Tutti ragazzi di Togliatti e poi spina dorsale del partito di Berlinguer. Di una decina d’anni appena più giovani dei colonnelli del Migliore: Amendola, Ingrao, Alicata, Bufalini e Pajetta. Emanuele era figlio di un operaio e di una casalinga. Era povero. Da ragazzino giocava a pallone ed era bravo. Almeno, lui raccontava di essere stato bravo e di avere pensato anche di poter fare il professionista. Tifava Inter. Era piccolino, giocava all’ala destra. Poi si ammalò gravemente, mi pare di ricordare che si ammalò di tubercolosi, una malattia che in quell’epoca stroncava. Si curò, si salvò, si gettò nella politica da ragazzino. Per capire cosa volesse dire la politica per un ragazzo di 16 anni nel 1940 basta sapere che se eri di sinistra dovevi guardati le spalle dai fascisti e dalla mafia. I fascisti e la mafia usavano le armi, sparavano alla schiena. Iscriversi al Pci nel 1941, in Sicilia, era una scelta dura. Dovevi avere una personalità forte. Convinzioni vere. Ti giocavi la vita. Corse in fretta Emanuele, alla scuola di Momo Li Causi. Non sapete chi era Li Causi? Malissimo. La storia italiana è importante e anche la storia del Pci. Momo era un gran combattente, uno dei fondatori del Pci, e uno di quelli che i mafiosi li prendeva per la collottola a mani nude. Non faceva l’antimafia di adesso. Faceva l’antimafia. Anche lui uscì vivo per miracolo dalla caccia che gli davano le cosche e i fascisti. Gli spararono, restò zoppo. Macaluso diventa sindacalista a 17 anni, combatte contro agrari e boss, nel 1951, a 27 anni, diventa deputato regionale e poi segretario regionale del Pci. È lui ad inventare la spericolatissima operazione Milazzo, insieme al papà del procuratore Pignatone, che era un democristiano. Siamo nel 1958, nella Dc comanda Fanfani. i milazzisti spaccano la Dc, imbarcano il Msi (cioè i neofascisti di Almirante e Michelini) e conquistano la giunta regionale con la coalizione più pazza del mondo: Pci, Psi, Msi e liberali, più i dissidenti democristiani. Il presidente della giunta, appunto, è questo Milazzo, ex Dc, un personaggio, in Sicilia, figlio di una nobilissima famiglia palermitana (quella di sua madre). La Dc ufficiale è estromessa dal potere. Ed è furiosa. Macaluso è il regista di questa operazione ma non entra in giunta. Non gli interessa. Resta in trincea. Da Roma lo attaccano. “Coi fascisti?”. Lo difende Togliatti. Emanuele già a trent’anni era un togliattiano ribelle.Poi approda a Roma. Scala le gerarchie del Pci. È sempre lenta la scalata nel Pci, per Emanuele è rapida. Nel 1963, prima dei 40 anni, entra nel tempio, cioè nella segreteria nazionale, con Ingrao, Amendola, Pajetta e Natta. Togliatti si fida di lui. Togliatti però dura poco. Muore l’anno dopo. E dopo la morte di Togliatti nel Pci nascono le correnti. A destra i “miglioristi” (che saranno battezzati così solo parecchi anni dopo), Ingrao a sinistra e Luigi Longo, cioè il segretario, al centro. Macaluso è amendoliano, amico del cuore di Giorgio Napolitano, però pende al centro. Quando nel ‘66 nel Pci si apre lo scontro furioso tra Amendola e Ingrao, Macaluso è in segreteria, insieme a Berlinguer. Certo, è dalla parte di Amendola, però mantiene una posizione un po’ neutra, per rispettare il suo ruolo di membro della segreteria. Amendola stravince il congresso, l’undicesimo, con l’appoggio di Longo, gli ingraiani vengono emarginati, ma anche Berlinguer e Macaluso sono messi in disparte, perché non hanno partecipato allo scontro. Li accusano di opportunismo. Pajetta non era un tipo che scherzava. La quarantena dura poco. Nel ‘69 Berlinguer viene preferito a Napolitano e nominato vicesegretario del Pci, e tre anni dopo diventa segretario. Macaluso torna in pista. Ai vertici. Ci rimarrà per molti anni. Era legato a Berlinguer. È a lui, nel 1973, che Berlinguer confida di essere scampato a un attentato in Bulgaria. Berlinguer aveva già compiuto i primi strappi da Mosca, e durante la visita, i bulgari, su ordine di Mosca, cercarono di eliminarlo simulando un incidente stradale. Muore l’autista bulgaro di Berlinguer, lui resta gravemente ferito ma si salva. Tenne per sé il segreto per tutta la vita. Macaluso lo ha svelato molti anni più tardi, dopo la morte del segretario. Nel 1981 Macaluso viene nominato direttore dell’Unità. L’ho conosciuto allora di persona. L’Unità era allo sbando perché era caduta in un gravissimo errore (allora i giornali se scrivevano fesserie o cose non provate la pagavano cara: oggi si beccano anche un premio …). L’Unità aveva scritto che il ministro Scotti era stato in carcere a trattare con Raffaele Cutolo, il capo della camorra, la liberazione di un assessore Dc rapito dalle brigate rosse. E disse di avere un documento in mano che lo provava. Il documento c’era, ma era falso. L’Unità fu decapitata, via il direttore, il condirettore, i redattori capo. Anche nel Pci successe il finimondo. Si dimise Alessandro Natta, vicesegretario di fatto. Napolitano si alzò alla Camera per chiedere scusa. Macaluso fu mandato all’Unità per riprendere in mano il giornale che era allo sbando. Lo fece molto bene. Creava polemiche continuamente. Si scontrò tante volte con Scalfari. Inventò questa sigla “em.ma” con la quale firmava corsivi al vetriolo. Io ero un ragazzo, però lui aveva in mente di rinnovare il giornale, di dare spazio alla generazione nuova. Aveva iniziato Reichlin il rinnovamento, lui lo completò. Molte volte entrai in contrasto con lui, perché io ero un ingraiano, e a lui non stavano simpatiche le idee di Ingrao. Ci fu un congresso del Pci, nell’86, in cui le correnti si sfidarono all’arma bianca. Io ritenni (a ragione) che il giornale penalizzasse Ingrao. Protestai apertamente e in modo abbastanza clamoroso. Dopo il congresso ci fu una assemblea di redazione, io feci un intervento di rottura, lo accusai di essere stato fazioso, lui nella replica picchiò come faceva lui, fu durissimo con me. Avevo trentaquattro anni ed ero convinto che la mia carriera all’Unità fosse finita. Un mese Emanuele dopo mi chiamò nel suo ufficio – stava lasciando il giornale e passando le consegne a Chiaromonte, un altro migliorista – mi disse che voleva che io diventassi il caporedattore centrale. Cioè il capo della redazione, quello che faceva il giornale. Non capivo, mi imbarazzai un po’. Mi disse: “Guarda che il giornale è di tutti, non è mio, non è tuo, e lo fa chi lo sa fare. Tu lo sai fare? Credo di sì. Allora fallo….”

Beh, che lezione. Del resto lui il dissenso lo conosceva bene. Tra tutti i dirigenti del Pci è stato l’unico a pensare che Craxi fosse un “compagno”. Che si dovesse lavorare con lui. E di ciò che è rimasto del vecchio Pci è stato l’unico, insieme a Chiaromonte, a scegliere la linea garantista di fronte a un partito che stava sottomettendosi ai magistrati. La lotta contro il giustizialismo la iniziò negli anni ottanta, quando il Pci era schierato su posizioni quasi poliziesche contro la lotta armata. Emanuele combatteva a viso aperto, voleva difendere lo stato di diritto. E credo che il mio garantismo di oggi, in gran parte, nasca da quelle sue battaglie. Che poi proseguì dopo la fine del Pci. Anche con la sua partecipazione proprio a questo giornale, al Riformista, prima all’epoca della direzione Polito, e poi alla direzione Franchi e successivamente quando diventò lui il direttore. Era troppo solo, non ce la fece.

Doveva riprendere con noi. Non ci capimmo. Troppe volte, forse, non lo ho capito. Ora mi resta la rabbia per non averlo sentito più, dopo la sua sfuriata.

Sergio Staino: Vi racconto chi è Emanuele Macaluso, compagno puro che non ha mai avuto nostalgia del passato. Redazione su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Ho conosciuto Macaluso negli anni Sessanta quando ero studente di architettura a Venezia. Venni a fare un incontro sulla politica internazionale del Pci. Mi fece una pessima impressione. Mi sembrò un burocrate senza fantasia, senza cognizione di causa, senza una passione forte dentro. Il mio sguardo era rivolto verso esponenti comunisti più vicini a noi giovani ribelli, a quelli vicini al ‘68, che poi diedero vita al manifesto: Pintor, Rossanda. Questo compagno bravo, meridionale, di origini umili, a me sembrava figlio di un riformismo misero. Naturalmente questa cosa l’ho mantenuta dentro di me per molti anni, inseguendo la chimera terribile della rivoluzione proletaria, quella cinese, maoista, o addirittura albanese. Io ho vissuto dieci anni di follia in questo cunicolo fanatico nel quale ero finito cercando sempre il comunista più comunista fra tutti i comunisti. Avevo un gran disdegno per quelli che poi furono chiamati “i miglioristi”: Macaluso, Chiaromonte, Napolitano, Bufalini. Se proprio dovevo salvare qualcuno, nel Pci, al massimo salvavo Ingrao. Già Reichlin per me era troppo di destra. Tra le tantissime cose su cui ho dovuto ricredermi, nella vita, un posto importante ce l’ha questa: cioè tutto quello che ho dovuto riscrivere e rileggere accanto a Macaluso. Fu lui a cercarmi, all’inizio degli anni Ottanta, perché da neo direttore dell’Unità aveva pensato che le mie strisce, quelle con Bobo, sarebbero state bene nel suo giornale. Io mi dissi: se piaccio a Macaluso ho sbagliato qualcosa. Comunque risposi no: categorico. Poi le cose andarono avanti, la richiesta tornava. Il portavoce di Macaluso fu Carlo Ricchini – che allora era il caporedattore dell’Unità, altra persona meravigliosa, e Ricchini, con tanta dolcezza e fervore, riuscì a mettermi abbastanza in crisi. Alla fine accettai e cominciai a fare le mie vignette sacrileghe sulla politica italiana, compresa la situazione del Pci. Fu la mia fortuna, sicuramente. E le cosa mi gratificava molto perché le mie strisce piacevano, facevano discutere. Ci volle molto tempo perché capissi che l’operazione per cui Macaluso mi utilizzava era molto più grande di me e del mio lavoro. Macaluso voleva distruggere l’apparato ecclesiastico della chiesa comunista, gli aspetti fondamentalisti del partito, i dogmi, i rituali vuoti di riferimenti con la realtà. Lui voleva che il giornale che lui dirigeva, l’organo del Pci, finisse di essere un giornale che insegnava alle masse le giusta lezione del comitato centrale, e diventasse invece un giornale di discussione, di proposta, di ricerca, di costruzione collettiva delle nuove strade e delle nuove impostazioni che servivano a un partito che volesse incidere veramente nello sviluppo del nostro paese. Senza saperlo lo aiutavo in questo suo sforzo. Perché le vignette che facevo – piacessero o no – erano molto sincere. Non inventate cercando castelli in aria. Le disegnavo raccogliendo gli umori dei militanti, nelle sezioni. Allora l’apparato del partito tendeva sempre a mostrarsi monolitico nelle sue scelte. Ma la realtà interna del Pci era ben diversa. Le mie vignette facevano semplicemente questo: prendevano gli umori, le insoddisfazioni che si manifestavano nelle sezioni, e li mettevano nero su bianco nelle pagine del nostro giornale. Sorridendo, cercando di non offendere nessuno, però attraverso questo mio sorriso inoculavo il dubbio nell’animo dei miei compagni. E Macaluso questo voleva: il dubbio. È stato un grande. E lo è stato fino all’ultimo giorno. Non ha mai avuto un attimo di nostalgia verso il passato. Ha sempre valutato con serenità le cose buone e quelle brutte del passato. E ha sempre cercato nuovi modi per capire la realtà, salvaguardando tutto il patrimonio di valori che ci venivano dalla nostra storia anarchica, o comunista, e socialista, e tutti i valori che ci venivano dalla democrazia borghese: la libertà. Uguaglianza sociale e libertà, erano queste le sue stelle polari: per questo lo amato. Lo ho amato moltissimo. E credo di essere stato ampiamente ricambiato. I rapporti con lui non sono mai cessati e anche negli ultimi tempi leggevo ogni giorno il suo corsivo, quello firmato ”emma”, e trovavo sempre qualcosa di nuovo da imparare. E poi lo chiamavo al telefono e ci scambiavamo le idee. È difficile dirlo senza voler offendere, ma devo dire che nessuno aveva un equilibrio di valori così armonico e così proficuo come quello del compagno Macaluso. Mi vengono da scrivere le parole che Garcia Lorca usava per il suo amore Ignazio Sanchez Mejias, ucciso dal toro nell’arena: “Tarderà molto a nascere, se nascerà, un compagno così puro, così pieno di avventura”.

Macaluso: “Battersi per i più deboli è una vita ben spesa”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 29 Aprile 2020. «Una sinistra che è ancora tale non deve avere paura, vergogna, della sua storia, delle sue battaglie, dei principi di giustizia sociale e di progresso che ne hanno ispirato l’azione. Battersi per l’uguaglianza, per il lavoro, per difendere e ampliare i diritti sociali e di cittadinanza, ecco tutto questo lo racchiudo in una parola, nobile, alta: socialismo». Novantasei primavere di lucidità e coraggio. Emanuele Macaluso, grande vecchio della sinistra, mantiene intatte energia, lucidità, passione politica che l’hanno guidato in tutta la sua lunghissima esperienza politica. Una esperienza che ha attraversato il secolo scorso e si proietta, con articoli e riflessioni che lasciano ancora oggi il segno, ai giorni nostri: la Sicilia dei braccianti, (fu lui a parlare a Portella della Ginestra il Primo Maggio del 1948, l’anno dopo la strage mafiosa, e l’anno scorso, a 95 anni è voluto tornare a parlare nel luogo dove la banda di Salvatore Giuliano sparò contro la folla uccidendo 11 persone), Togliatti che lo chiamò a Roma, la Guerra Fredda, la direzione dell’Unità ai tempi di Enrico Berlinguer, una vita assieme a Giorgio Napolitano nella corrente migliorista. Il Riformista, di cui è stato anche direttore lo ha intervistato e, per chi scrive, è stata una esperienza emozionante.

Biagio De Giovanni ha sostenuto sulle colonne di questo giornale che la sinistra potrà avere un futuro solo se saprà inventare nuove vie all’uguaglianza, lontane dal socialismo. Massimo Salvadori, sempre su “Il Riformista”, ha sostenuto, invece, che fuori dalle socialdemocrazie, non c’è spazio per l’uguaglianza. Lei pensa che nel Terzo Millennio, socialismo sia un concetto, una parola, un orizzonte ideale e politico da archiviare per una sinistra che vuole rilanciarsi?

«Io penso di no. Penso che la battaglia di una sinistra che è sinistra, è l’uguaglianza. Una battaglia per i diritti, per il lavoro. Tutte battaglie che il socialismo ha espresso, portato avanti, non solo nel secolo scorso, ma anche nell’800. Si tratta di un patrimonio incancellabile, e dico questo non perché nostalgico del tempo che fu, ma perché la società di oggi, se non ci fosse stata questa forza, sarebbe stata diversa, e non certo migliore. Guai a dimenticarlo. Le prime battaglie laburiste per un sistema sociale più equo, più solidale, più attento e attivo verso le fasce più deboli della popolazione, sono battaglie che iniziarono con Turati e sono tutte cose che non possono, che non devono essere dimenticate. I grandi leader della sinistra sono stati tali perché hanno sempre pensato e agito tenendo in conto gli interessi nazionali e delle classi lavoratrici. Una sinistra degna di sé non ammaina bandiere gloriose e attuali come sono quelle della Resistenza e della Liberazione. Da questo seme sono nate poi nel ‘900 le grandi battaglie della sinistra, e in Italia anche con il Pci che, a mio avviso, esercitò una funzione socialdemocratica. Basti pensare cosa siano stati i Comuni amministrati dalla sinistra, cosa è stata l’Emilia Romagna dove il Pci ha rappresentato una forza fondamentale con una funzione socialdemocratica, con la costruzione di un sistema sociale straordinario. Pensiamo agli asili per i bambini, all’assistenza per gli anziani, al servizio sanitario pubblico… Pensiamo anche al ruolo progressista che a Milano ha svolto l’amministrazione socialista. Ritengo che questa forza è stata essenziale, e che ha contribuito fortemente alla modernizzazione e al progresso dell’Italia».

Cosa rappresenta il “nuovismo” a sinistra e per la sinistra?

«Il nuovismo a sinistra è stato una grande deviazione. Il nuovismo non ha nulla a che fare con la sinistra. Il nuovismo non è sinonimo di progresso, ci sono forme di nuovismo reazionario».

In questo tempo segnato da una crisi pandemica globale, da più parti si è detto e ripetuto che dopo il flagello del Coronavirus, niente sarà più come prima. Cosa significa questo per lei?

«Guardi, a certi slogan io ci credo poco. Nulla sarà più come prima se ci saranno forze politiche e sociali che faranno sì che davvero nulla sarà più come prima. Non sarà la pandemia in sé a determinarlo. Se guarisci dalla malattia non è detto che per questo diventi una persona migliore. Una sinistra degna di questo nome non deve aver paura o incertezza nell’affermare che non siamo tutti uguali davanti al virus. Il miglioramento può avvenire solo da un attivismo sociale di forze che si muovono in un orizzonte di progresso. Ma che ciò accada, specie in Italia, è tutt’altro che scontato. In questo sfortunato Paese possono vincere anche forze di destra, e una destra reazionaria, della peggior specie. Sottovalutare questo pericolo sarebbe esiziale».

Guardando non solo al nostro Paese ma all’Europa, c’è il rischio che ad affermarsi sia un sovranismo ultranazionalista?

«Questo pericolo c’è, ma c’è anche una consapevolezza nelle forze più mature, non solo progressiste, che l’affermarsi di una economia che regga in questo mondo globalizzato, non può essere garantito dal sovranismo ma dall’Europa. Noi parlavamo dell’attualità del socialismo. Ebbene, io sono fermamente convinto che il socialismo del Terzo Millennio o è europeista o non ha futuro. Se tra gli Stati Uniti e la Cina, i grandi competitori mondiali, ci saranno solo Paesi europei disuniti, ciascuno di essi sarà solo una pedina nello scacchiere dominato da Washington e Pechino. Se vuoi contare davvero c’è bisogno di una Europa più unita, che non sia solo una moneta ma che abbia più poteri statuali, altrimenti con l’America e la Cina non ci sarà partita. Se l’Europa non va verso una federazione, con un esercizio unico del potere, a cominciare da campi cruciali come quelli fiscale, economico, sociale, con una economia sempre più integrata, se non si muoverà, con decisione, rapidità e condivisione d’intenti, in questa direzione, l’Europa si autocondannerà a un inesorabile declino. Nessuno si salva da solo».

In questa ottica e dentro questo orizzonte deve dunque muoversi il socialismo del Terzo Millennio e la sinistra?

«Assolutamente sì, ma per farlo la sinistra deve ripensarsi. Di certo non può più vivere di rendita, perché questa rendita non esiste praticamente più. Guardiamo alla Francia, e a cosa si è ridotto quello che con Francois Mitterrand è stato un grande partito: il partito socialista. In Italia c’è il Pd e null’altro, ma non mi pare che sia una forza sufficiente per esercitare un ruolo incisivo in Europa. In Grecia, è tornata a governare la destra, c’è la Spagna, con un premier socialista, e il Portogallo, con un governo socialista… Sono cose importanti, certo, ma non sufficienti per poter sostenere che nel Vecchio continente spiri un vento socialista…»

Lei ha attraversato la storia della sinistra per una vita. E ancora oggi, i suoi scritti vengono letti da tanti giovani. Ecco, se oggi dovesse dire in poche parole a un “millennial” italiano cosa è il socialismo e perché vale ancora la pena di battersi per quei principi che l’hanno ispirato, che parole sceglierebbe?

«Gli direi: guarda cosa è questo Paese, il tuo Paese oggi, quello in cui stanno crescendo sempre più le diseguaglianze, guarda come crescono le povertà. Noi abbiamo un processo gravissimo di impoverimento, e ritengo che questo sia dovuto anche alla scarsa forza della sinistra. E quando mi riferisco alla sinistra non penso solo ai partiti, alle forze politiche, ma anche a fondamentali corpi intermedi sociali, come il sindacato. Il sindacato, la Cgil, che pure ha un bravo segretario come Landini, deve fare di più per estendere e radicare la propria rappresentanza. Pensiamo ai migranti, un nuovo proletariato, persone, lavoratori che vengono sfruttati nella raccolta dei pomodori, costretti a vivere in condizioni disumane, alla mercé di caporalati e di padroni senza scrupoli. A costoro, e a chi continua ancora a chiudere gli occhi di fronte a questa tragica realtà, io vorrei gridare loro: miserabili, che avete fatto! Ai migranti che lavorano nei campi, o che badano alle persone anziane, devono essere garantiti dignità, diritti, cittadinanza. Devono essere regolarizzati, perché sono persone inserite e inseribili nel mondo sociale e civile di questo Paese. A un giovane d’oggi direi questo: battersi per i più deboli è una vita ben spesa».

In ricordo di Emanuele Macaluso, togliattiano oltre la vita di Togliatti. Calogero Mannino su I Nuovi Vespri il 20 gennaio 2021.

Emanuele Macaluso, straordinario dirigente politico. Molti, oggi, avranno possibilità di ricordare Emanuele Macaluso per la sua attività politica e sindacale. Avranno modo di riconoscere che egli è stato una grande figura del Partito comunista, un suo straordinario dirigente. Appartiene alla Storia di quel partito che ha attraversato tutta la vicenda politica italiana dal 1943 fino ad oggi. Certamente fino ad oggi. Perché, pur non essendo impegnato direttamente nel PD, Macaluso è rimasto sempre sulla breccia della battaglia politica come battaglia di pensiero, innanzitutto. E quindi di esplicitazione di valori ideali.

L’utopismo rapportato alla concretezza. Emanuele Macaluso è rimasto "togliattiano". Non soltanto nel legame alla persona anche oltre la vita di Togliatti. Ma è rimasto incardinato nella metodologia politica di Togliatti e nel complesso delle concezioni politiche, nelle quali la profonda riflessione di Gramsci era commisurata alla realtà, al principio di realtà. L’utopismo rapportato alla concretezza a volte brutale delle circostanze e delle situazioni, ma sempre coerente alla prospettiva. Emanuele Macaluso ha avuto nella storia della Sicilia un grande ruolo. Innanzitutto nella costruzione del partito, legandolo sempre alle grandi battaglie sindacali, sociali, nelle miniere e nel feudo per la riforma agraria, e poi ancora nelle lotte per lo sviluppo economico ed il rinnovamento della vita della Sicilia.

L’amicizia nata a Palma di Montechiaro ad un convegno di Danilo Dolci. Ho conosciuto Emanuele Macaluso a Palma di Montechiaro in occasione del convegno di Danilo Dolci in quel tempo impegnato nelle battaglie di denuncia del ritardo dello sviluppo economico e civile della Sicilia. Palma di Montechiaro in quel tempo era un Comune privo di rete fognante e di acquedotto. A quel convegno aderivano alcuni giovani Democristiani che attorno al giovane leader Lello Rubino portavano avanti la battaglia di “Assalto alla Miseria”. Incontrarsi non era la celebrazione di una protoforma di compromesso storico. Era un trovarsi sul terreno dei concreti problemi e delle stesse battaglie. Cammini paralleli anche se diversi. Da quella circostanza è nata la nostra amicizia consolidata nel tempo. Amicizia che ha manifestato con atti concreti di presenza e testimonianza aperta nella fase più difficile della mia vita.

Lezione di politica da un comunista a un democristiano. Ma devo anche ricordare che proprio da lui ho avuto una lezione politica "per antonomasia". Durante il dibattito sulla fiducia al Governo Andreotti mentre eravamo in Transatlantico veniva annunciato l’intervento di Almirante. Immediatamente interrompe la conversazione e mi dice: “Entriamo in Aula perché Almirante va ascoltato”. Un avversario prima lo si ascolta, poi lo si contesta. Lezione di metodo democratico. Da un Comunista ad un democristiano.

Diritti della persona, onore a Macaluso non alla sinistra. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 16 Gennaio 2020. L’unico che ha avuto il coraggio e l’onestà di riconoscerlo è stato Emanuele Macaluso, ormai tanti anni fa: i diritti della persona davanti alla giustizia, l’affermazione dello Stato di diritto, la protezione delle libertà dell’individuo esposto alla prepotenza del potere punitivo, sono tutte faccende tradizionalmente estranee alla cultura comunista di questo Paese. È la prevalenza di quella cultura – che persiste nonostante il cambio di nome, che si è insinuata sino a farsi genetica nelle fibre intime della società italiana, che si ripropone puntualmente quando si tratta di svolte notevoli in campo di giustizia -che ha prodotto lo scadimento civile cui oggi assistiamo e il prorompere impunito, ormai veramente irresistibile, dell’istanza autoritaria di certa magistratura. Il bravo Caiazza, ieri, proprio su queste pagine, faceva appello a una improbabile dimostrazione di resipiscenza del partito che da quella cultura proviene, il Partito democratico, che il presidente dell’Unione delle Camere Penali chiama “ad una scelta netta” contro la riforma della prescrizione. Ma solo il fatto che si renda necessario un ravvedimento spiega assai bene come i rappresentanti di quella cultura spontaneamente si orientino, e spiega bene come essi naturalmente, meccanicamente, si determinino quando in gioco sono quelle faccende pressoché ininfluenti, immeritevoli di troppa cura e dopotutto transigibili: i diritti della persona a fronte dell’arbitrio pubblico. Non che si tratti di responsabilità esclusive, attenzione. È vero infatti che gli italiani sono autonomamente e direi originariamente indisposti a reclamare la manutenzione dello Stato di diritto, e assistono inerti, quando non soddisfatti, a ogni esperimento rivolto a frantumarlo. Così come è vero che questo atteggiamento, e non da oggi, è condiviso senza troppe eccezioni dal resto di una classe politica imperdonabilmente dedicata a lasciar correre. Ma il disinteresse connaturato per i diritti del singolo a petto della violenza di Stato è una specialità di quella sinistra, la quale non a caso rigetta quelli che, come Macaluso, ad essa hanno appartenuto con il coraggio di denunciarne le colpe.

Macaluso fu garantista fino al midollo, come chi sa cos’è la galera. Giuseppe Provenzano su Il Dubbio il 22 gennaio 2021. L’addio a Emanuele Macaluso nel ricordo di Giuseppe Provenzano, un allievo che oggi è ministro della Repubblica. Era come andare a prendere l’acqua al pozzo. Lo capii quando tirò fuori quel proverbio cinese, che vale per la politica non meno che per la vita di ogni giorno: “chi prende l’acqua da un pozzo, non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato”. Emanuele Macaluso non dimenticava nulla, non dimenticava mai. Non si può dimenticare. Ma per chi l’ha conosciuto il problema non è questo. Il problema è come andare ancora al pozzo, ancora all’acqua. La prima volta l’incontrai per il suo libro più bello, l’autobiografia sui Cinquant’anni nel Pci. Era l’inizio del 2004, a Livorno. Una sera d’inverno, c’era un forte vento. Io arrivavo da Pisa, dove studiavo da un paio d’anni. Eravamo un gruppo di amici e compagni, intellettuali e militanti. A parlarne invitarono me, siciliano, della provincia di Caltanissetta, la sua. Quel libro mi svelò un mondo, un certo modo di stare al mondo. Alla fine della discussione mi chiamò. “Di dove sei”? Di Milena, risposi. “Milocca, vuoi dire!”, disse richiamando il nome antico, che pochi conoscono, del mio paesello, poco conosciuto di suo. “Ci ho fatto il mio primo comizio. Per la Repubblica. Su un balcone, di fronte la chiesa madre. Ricordo una piazza piena di donne, col fazzoletto rosso. Ero giovane. Feci un discorso molto acceso contro la Monarchia. Quando finii si avvicinò il Maresciallo dei Carabinieri. Dalla prima all’ultima parola, disse, ho avuto la tentazione di spararle in fronte. La ringrazio per non averlo fatto, dissi. E me ne andai”. Rise, Emanuele. Come rideva lui. Il giorno dopo, ne scrisse. Ma dopo quell’incontro, dopo un incontro così, giurai di non lasciarlo più. È stato un maestro, per me che appartengo a una generazione senza maestri. E presto sarebbe diventato qualcosa di più e di diverso. Un riferimento vitale. Lui mi chiedeva dell’oggi, io della Caltanissetta del fascismo e della guerra. In quel mondo di miseria e sfruttamento maturarono i suoi sentimenti, le sue domande, la sua vocazione politica. (…). Le letture arrivarono dopo, “I miserabili”, “La madre” di Gorkij, Tolstoj. E quel travaglio confidato a un compagno più grande, che andò a trovarlo in sanatorio, un atto di coraggio che gli parve più grande persino di quei discorsi antifascisti e socialisteggianti che andavano facendo. C’era la sua indole – da rompicoglioni, avrebbe detto lui – che l’ha accompagnato per tutta la vita. Quel non accontentarsi mai di quello che passa il convento, anche quando il convento era il suo Partito. Aveva un innato spirito di contraddizione, per ciò che gli pareva ingiusto o, peggio, insensato. Così fu per il fascismo, la provincia feudale, la fede: ebbe un periodo valdese, Emanuele, per contestare meglio la chiesa cattolica dove pure aveva incontrato un padre nobile della Dc siciliana, l’avvocato Giuseppe Alessi, di cui ascoltava le prediche in cattedrale perché “parlando di religione, parlava di libertà”. La ricerca della libertà, in quella Sicilia dei primi anni quaranta, era una cosa sola con la giustizia e l’uguaglianza. Fu così che divenne comunista, senza sapere nulla di Gramsci e Togliatti, di Lenin e Marx. I comunisti erano quelli più coerenti, uomini esemplari come Calogero Boccadutri, Pompeo Colajanni, Girolamo Li Causi. Boccadutri era il mitico capocellula, volle bene a lui e ai suoi figli, Nicola e Franco, come ai propri figli, Antonio e Pompeo. Ma era stato proprio lui il primo a contrastarlo quando s’innamorò di Lina, già sposata con due figli. Macaluso era intelligentissimo, lo sanno tutti. Era anche elegantissimo, nelle foto di allora. I signorotti non sopportavano l’affronto di quel giovane comunista. Convinsero quel marito disgraziato a denunciarli. Finirono in galera, per adulterio. Quell’amore avrebbe messo sempre in difficoltà il partito, e perciò il partito dei Boccadutri sarebbe sempre stato contro. Fu così che Macaluso andò al sindacato dove “c’era allora più libertà… E io, la mia, l’ho sempre difesa”. A 23 anni divenne il primo segretario della Cgil siciliana, la Cgil unitaria, scelto da Giuseppe Di Vittorio in persona, a Caltanissetta… «A pensare oggi a quegli anni mi pare che mai più avrò nella mia vita sentimenti così intensi, così puri. Mai più ritroverò così tersa misura di amore e di odio; né l’amicizia la sincerità la fiducia avranno così viva luce nel mio cuore». È la frase di Leonardo Sciascia, che Emanuele ripeteva ripensando all’epopea di quegli anni. (…) Nel ‘ 56, proprio nei giorni drammatici dell’Ungheria, lasciò la Cgil di Di Vittorio, cui era molto legato e che se ne lamentò, per passare al partito, per volere di Togliatti. Dalla Sicilia, divenne un protagonista nazionale con l’operazione Milazzo, che in un solo colpo ruppe il monopolio di governo della Dc, gli equilibri internazionali e l’unità dei cattolici. La reazione di apparati e Vaticano fu dura. In quegli anni, crebbe il suo rapporto con il Migliore, che lo chiamò nella segreteria nazionale. Per nessun altro uomo politico, Emanuele, proverà la stessa ammirazione. (…) La politica è stata per lui un “bisogno di vita” e alla vita è tornato sempre per nutrirla, senza dottrinarismi, lottando anche in un corpo rigido, cercando la contaminazione e a volte la dissacrazione: tutte cose che rendono la cultura e la politica veramente popolare, non un privilegio di classe o di ceto. La caduta del Muro e la fine del Pci coincisero con l’interruzione dell’impegno istituzionale di Macaluso. Fuori dal Parlamento e dalle Botteghe oscure inizia una stagione nuova della sua vita attiva. Fu una specie di liberazione per la sua indole polemica, che pure aveva esercitato sempre, anche da dirigente, nei corsivi a cui Giorgio Frasca Polara diede la firma em. ma. Sono gli anni della scrittura più acuminata, degli editoriali, della direzione di riviste e giornali. Quel passaggio fu segnato anche dalla morte di Leonardo Sciascia. Sciascia, dopo la morte di Pasolini, come investito di una eredità speciale, scrisse: “Dicevamo quasi le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c’è lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte”. Qualcosa di simile, a mio avviso, è accaduto a Macaluso con Sciascia. Dopo la morte dello scrittore di Racalmuto, Macaluso sente il dovere di far vivere le idee sulla giustizia, un «cordone ombelicale» che li ha legati per oltre sessent’anni, tra fatti pubblici e privati di ingiustizia patita, ma “parlando più forte”. Fuori dalle stanze della massima responsabilità politica, si sente libero di dire sempre la verità, anche quando è scomoda, anche quando non è rivoluzionaria. Per questa via, anche Emanuele è diventato un po’ «eretico», a sinistra. Fino alla scomunica, come nella polemica sul processo Andreotti. Perché, si sa, “gli eretici sono sempre più colpiti che gli infedeli”. Allora lui combatteva più forte. Perché sui diritti e la giustizia parlava con la franchezza che può permettersi soltanto un campione dell’antimafia. E lui lo era. Di quella vera, non quella parolaia dei professionisti o dei dilettanti. Quella che è stata lotta politica e sociale, fino allo scontro fisico nei feudi coi gabelloti, alle bombe e alle schioppettate di Villalba. Fu garantista fino al midollo, come chi ha conosciuto la galera, le troppe storie di ingiustizia dentro la storia della giustizia italiana. “Né mafia né Mori”, per sempre. Fu nemico del giustizialismo, soprattutto a sinistra, perché vi vedeva non solo un cedimento culturale rispetto ai valori fondanti, ma anche il venir meno dell’ancoraggio alla giustizia sociale che è la vera sostanza della giustizia. Di più, vi vedeva il riaffiorare di quelle scorciatoie massimaliste che aveva sempre combattuto nella vita, ma peggio: un massimalismo non di campi e officine ma di manette e aule di tribunale; un massimalismo senza popolo, senza sinistra. Cominciai a frequentarlo, a collaborare con lui, negli anni in cui cercava nuove Ragioni del Socialismo. Alla Rivista, a Torre Argentina. Lo seguii al Riformista, un’ironia quella sede dov’era Rinascita, a Botteghe Oscure. Negli ultimi anni, l’appuntamento fisso era una convocazione: “Venerdì, alla Torricella”. Mi chiedeva del Mezzogiorno, e anche delle cose più minute della politica. È rimasto sempre un dirigente politico. Ascoltavo le sue opinioni e anche le sue freddure sulle cose, gli uomini e i mezz’uomini della politica, e della sinistra. (…) Ha avuto una gran vita, vittorie e sconfitte, grandi amori e grandissimi dolori. È stato generoso nel raccontarli. Alcuni, li ha solo confidati. Molte volte mi ha chiesto di accompagnarlo. Alla presentazione di un libro, a un convegno, per un viaggio. L’ultimo fu in Sicilia, un anno e mezzo fa. Per un ultimo comizio a Portella della Ginestra, dove aveva tenuto il primo dopo la Strage. Sapeva che non sarebbe più tornato. Parlò a braccio, come sempre. Ma un po’ più a lungo. Ricordò braccianti, operai dei cantieri navali e zolfatari senza paga per i giorni e i mesi delle lotte, degli scioperi. Ricordò le notti senza pace e senza sonno, “Come credete che potessi dormire?”, le sere di quelle famiglie affamate, il povero cibo recuperato a credito nei paesi. Ricordò i compagni uccisi, “Non vi abbiamo dimenticato”, gridò. Lo commuoveva la frase di uno scrittore che amava, Joseph Roth. “La gente della mia terra ha una buona memoria perché ricorda con il cuore”. Macaluso, così duro, così pungente, così intelligente, aveva buona memoria perché ricordava con il cuore. E non ha mai smesso.

Il virus lo ha risparmiato, ma la pandemia lo ha colpito al cuore. Ha patito su di sé la sorte del Paese. I mesi del primo lockdown sono stati atroci. Si affacciava sulla Piazza, a Testaccio, non vedeva i bambini che giocavano. Per me, diceva, è come essere morto. Vivo una condizione di premorte. Ho l’affanno. Lo aveva salvato la montagna questa estate, come sempre. Lo raggiungevamo. L’anno scorso ci aveva regalato un piccolo miracolo domestico, coi primi passi di Caterina – “che nome da zarina”, si lamentò quando nacque. Lo abbiamo raggiunto anche quest’anno. Giovanni lo chiamava Yoda, come il maestro Jedi. Oppure, “il tuo allenatore”, con una specie di malizia. Gli mancava l’amico Giorgio, quest’anno. Era triste. Si era ripreso, però. Era stato bene. (…) Sotto gli alberi di quella grande piazza, a Testaccio, tra le urla dei bambini e i sorrisi degli abitanti del quartiere, il grande vecchio mi prendeva sotto braccio, mi insegnava che bisogna sempre guardare non solo ai bisogni delle persone, ma anche ai loro desideri. Non solo alle sofferenze, ma alle loro gioie. Per me è stato come un padre. Un padre, in una Patria sempre più povera di padri. Ma non si resta orfani di padri come lui. Noi non siamo orfani. Una storia così, dallo zolfo alle stelle, è una storia che non muore. Si spegne il faro. Resta la scintilla. Per quel poco o tanto di lume, che ha fatto o che farà, in questa vita, la luce è sua.

·        E’ morto lo storico produttore musicale Phil Spector.

Phil Spector, morto lo storico produttore musicale condannato per l’omicidio di Lana Clarkson. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 17/1/2021. Il più influente (e controverso) produttore discografico del secolo scorso, il geniale architetto che con il suo «Wall of Sound» ha trasformato il pop, che ha legato il suo nome a grandi hit dei Beatles, Cher, Ramones, Ike e Tina Turner, è morto mentre scontava una pena a 19 anni per omicidio. «Philip Spector, detenuto del California Health Care Facility, , in un ospedale esterno alla struttura carceraria. Le cause ufficiali della morte saranno oggetto d’indagine del medico legale dell’ufficio dello sceriffo della contea di San Joaquin, San Francisco, California». Per il sito americano Tmz, Spector, che aveva 81 anni, è morto per complicanze legate al Covid. Ma negli ultimi anni le sue condizioni di salute erano andate progressivamente aggravandosi: nel 2013 aveva perso la capacità di parlare, a causa della papillomatosi laringea. Dieci anni prima, il 3 febbraio 2003, era stato arrestato nella sua favolosa residenza ad Alhambra, il Pyrenees Castle, sulle luminose colline di Los Angeles. Qui, come affermato nei verbali della polizia, allarmata da una chiamata di emergenza al 9-1-1 effettuata dall’autista di Spector, Adriano De Souza, l’agente Beatrice Rodriquez aveva trovato il corpo senza vita dell’attrice e modella Lana Clarkson, accasciata su una sedia nell’atrio. Le avevano sparato in bocca. Un revolver Colt .38 in acciaio blu con una canna da due pollici era sul pavimento, insieme a frammenti di denti sparsi sul tappeto. «Non volevo spararle. È stato un incidente» disse Spector a Rodriquez, salvo poi dichiarare al magazine «Esquire» che si era trattato di «suicidio accidentale»: Clarkson, starlette di film di serie B e serie tv, aveva «baciato la pistola». Nella sua dichiarazione giurata De Souza riferì che Spector aveva detto: «Penso di aver appena ucciso qualcuno». Aggiunse di aver visto il produttore uscire dalla porta del retro con una pistola in mano. Tuttavia, gli esami balistici non rintracciarono alcunaimpronta sull’arma. Secondo l’accusa, Spector aveva già puntato in precedenza la pistola contro quattro donne. Il giorno dell’omicidio aveva bevuto, Clarkson lo aveva respinto. Aveva fatto per andarsene e lui, per impedirle di uscire, le aveva puntato contro la pistola. Il 13 aprile 2009, la giuria emise il verdetto: colpevole. La condanna a 19 anni di prigione, pronunciata il 29 maggio, chiuse la gloriosa carriera dell’inventore del «Wall of Sound» (detto anche «Spector Sound»), una tecnica di incisione in studio che aggiungeva agli strumenti classici del rock, basso, batteria e chitarra, il contributo dell’orchestra: archi, ottoni, timpani e percussioni. «Un approccio wagneriano al rock & roll» amava definirlo Spector. Nato a New York il 26 dicembre 1939, si era legato prestissimo al mondo della musica. La sua prima hit, «To Know Him Is To Love Him» (1958), risaliva ai tempi del liceo: venne registrata dal suo primo gruppo, i Teddy Bears. Decine le cover, in mezzo a cui spiccano le versioni dei Beatles, di John Lennon da solista, di Marc Bolan & Gloria Jones, di Nancy Sinatra e di Dolly Parton, Amy Winehouse, Linda Ronstadt & Emmylou Harris. «To Know Him Is to Love Him» diede il via a una pressoché infinita serie di successi, da «You’ve Lost That Lovin’ Feeling’» (1965), «Unchained Melody» (1965) e «(You’re My) Soul And Inspiration» (1966) portate al successo dai The Righteous Brothers a «Be My Baby» (1963) del terzetto femminile The Ronettes, «He’s a Rebel» (1962) delle Blossoms, «Let It Be» dei Fab Four, «River Deep, Mountain High» di Ike e Tina Turner. È entrato a far parte della Rock and Roll Hall of Fame nel 1989. Al Pacino lo ha interpretato nel biopic «Phil Spector» (2013), scritto e diretto da David Mamet. Solo un drammaturgo del suo calibro poteva scrivere una vita come quella di Spector.

DAGONEWS il 19 gennaio 2021. Chi metterà le mani sulla fortuna del produttore Phil Spector? Il patrimonio netto da 50 milioni di dollari frutto dei diritti d’autore di grandi successi come “You've Lost That Loving Feeling” finirà nelle tasche dei quattro figli, di cui tre adottivi, Donte, i gemelli Gary e Lewis, accolti in famiglia quando era stato sposato con Ronnie Spector. Mentre Donte è stato adottato nel 1970, Ronnie ha raccontato che Phil ha adottato Gary e Lewis a sua insaputa e glieli ha portati a casa come una sorta di "regalo di Natale". I gemelli, ora sulla cinquantina, da allora hanno accusato il leggendario produttore di abusare di loro, e Donte ha raccontato le volte in cui li rinchiudeva nelle loro stanze come "animali in gabbia da far uscire per il divertimento di papà". Dopo la fine del matrimonio con Ronnie, Spector ha avuto due gemelli con Janis Zavala: il figlio Phillip Spector Jr è morto di leucemia nel 1991 mentre la figlia Nicole è una scrittrice e giornalista freelance di 34 anni. L’ex moglie Ronnie sui social ha ricordato come Phil fosse un produttore brillante e un marito schifoso dopo aver subìto anni di abusi durante il matrimonio durato dal 1968 al 1974: in precedenza ha raccontato di come l'ha tenuta prigioniera nella sua stessa casa - una villa di Beverly Hills circondata da filo spinato e cani da guardia - e ha persino nascosto le sue scarpe per impedirle di scappare. Sui social ha scritto: «È un giorno triste per la musica e un giorno triste per me. Quando lavoravo con Phil Spector, guardandolo creare in studio di registrazione, sapevo che stavo lavorando con i migliori. Come ho detto molte volte mentre era in vita, era un produttore brillante, ma un marito schifoso. Molte vite sono state danneggiate. Sorrido ancora ogni volta che ascolto la musica che abbiamo fatto insieme, e lo farò sempre. La musica sarà per sempre». Sebbene il patrimonio netto di Spector al momento della sua morte sia stato stimato in circa 50 milioni di dollari, gli esperti dicono che questa cifra sarà destinata ad aumentare visto che Spector possedeva "uno dei cataloghi di royalty più preziosi al mondo".

Marinella Venegoni per “La Stampa” il 18 gennaio 2021. Nessuno nel rock' n'roll ha avuto una vita tanto spericolata quanto Phil Spector, l' inventore dei produttori musicali superstar, il creatore della «Wall of Sound», il primo fra tutti quei carismatici personaggi senza i quali oggi ogni cantante al mondo non si toglie nemmeno il pigiama. Una vita tanto spericolata, che dopo decenni di invenzioni, gloria e incassi milionari il vecchio Phil ha terminato i suoi giorni a 81 anni in una prigione della California, da dove l'avevano portato in ospedale per Covid: qui dopo un mese di degenza, egli ha cessato di vivere nella giornata di sabato scorso. Spector stava scontando 19 anni di detenzione per l' omicidio avvenuto nel 2003 di Lana Clarkson, attrice e hostess che aveva conosciuto in un club in una notte di bevute selvagge, e aveva poi invitato a casa sua. La donna fu trovata morta con un solo colpo di pistola alla testa, accasciata su una sedia: Phil parlò di suicidio accidentale, ma al processo che seguì egli fu condannato per omicidio di secondo grado, e al minimo della pena prevista per il reato, di 19 anni. Gli resta comunque un posto di tutto rispetto nella storia della musica rock. Phil Spector si rivelò una formidabile macchina da hit, fin da quando andava al liceo negli Anni Cinquanta, con i Teddy Bears suoi compagni di scuola: To Know Him is To Love Him che proprio lui aveva scritto, finì prima nella hit parade, segnando subito il suo decollo. Arrivarono poi pezzi ancora oggi notissimi come Unchained Melody con i Righteous Brothers, ripresa da Elvis. Tom Wolfe lo definì «Il tycoon dei teenagers». Quante primogeniture, ma non era che l' inizio: la sua medaglia sul petto fu la collaborazione con i Beatles per i quali produsse l' album finale Let it Be, dove la tecnica della «Wall of Sound»non piacque in verità troppo a Paul McCartney, come lo stesso Beatle raccontò. Produsse anche l' intero lavoro solista di John Lennon, compresa Imagine, e di George Harrison The Concert for Bangladesh. Prima e dopo, aveva prodotto tutti i numeri uno del rock: da River Deep, Mountain High di Ike&Tina Turner fino ai Ramones e a Leonard Cohen, che cacciò dallo studio puntandogli una pistola carica. Da solo, Spector aveva creato l' immagine del produttore di dischi come figura creativa uguale e forse superiore agli stessi artisti e autori, con un marchio immediatamente riconoscibile come fu appunto la creazione della «Wall of Sound»: come una autentica parete sonora che aveva perfezionato agli studios Gold Star di Los Angeles con il tecnico Larry Levine, l' arrangiatore Jack Nitzsche e un team di musicisti e coristi che avevano riempito lo spazio. Il produttore sovrappose il suono di varie chitarre, bassi e tastiere e aggiunse una ulteriore barriera di clamorosi archi, non appartenenti al mondo del rock storicamente. Lo studio aggiunse copiosi effetti di eco e l' effetto fu detonante, tanto che da allora e per un bel po' nessuno ne volle mai più fare a meno. Lo imitarono i Beach Boys, e Springsteen stesso confessò di essersi ispirato al suo stile per Born to Run. Ma negli Anni 80 quel suono così riconoscibile di un' epoca divenne, perciò stesso, alquanto obsoleto, e carico di ricordi e di soldi Phil Spector fu introdotto nella Hall of Fame soltanto nel 1989, quando già si era ritirato nella sua immensa villa californiana: la stessa che si trasformò, nel 2003, nello scenario del delitto della povera Lara. Dopo un lunghissimo e travagliato processo, Ronnie prese la via della prigione dove ha trascorso gli ultimi undici anni della sua vita romanzesca e maledetta.

·        E’ morto il ballerino di tango Juan Carlos Copes.

Dagonews il 16 gennaio 2021. Il leggendario ballerino di tango Juan Carlos Copes è morto all'età di 80 anni mentre era ricoverato in ospedale dopo aver contratto il coronavirus. La figlia Johana, anche lei ballerina, su facebook ha scritto: "È stato tutto molto veloce. Mio padre è morto. La sua luce splenderà intatta tra le stelle e nella storia del Tango. Balla per sempre, papà". L'artista, nato nel 1931 a Mataderos, è stato il principale promotore del tango-danza nello stile coreografico, dopo che la musica del tango si era diffusa a livello internazionale. È cresciuto a Villa Pueyrredón dove ha iniziato a frequentare le milonghe e a plasmare il suo stile, che ha incantato il mondo in coppia con María Nieves Rego. I due, insieme da 1951, divennero noti dopo la vittoria di un concorso arrivando primi davanti ad altre 300 coppie. Nel 1955 fondò la compagnia "Juan Carlos Copes y su ballet de tango" e accompagnò Astor Piazzolla nel suo tour negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta. Con lui il tango-danza ha raggiunto luoghi come la Julliard School di New York, la Stanford University, Chicago, la Sorbona di Parigi. Ha avuto allievi celebri come Liza Minelli, Julio Bocca, Eleonora Cassano, Robert Duvall e Mijhail Barishnikov e persino insegnanti della Fred Astaire School. La coppia Copes-Nieves è rimasta nella storia anche dopo la fine della loro storia d’amore e del loro sodalizio artistico. Dopo l’addio a Maria Nieves, Copes ha iniziato a ballare con sua figlia Johana e ha partecipato all'inaugurazione della Coppa del mondo di calcio degli Stati Uniti nel 1994. Ha partecipato anche al film “Tango” del regista spagnolo Carlos Saura. È stato attivo per decenni, raccogliendo applausi e premi per la sua carriera fino al suo ritiro nel 2015.

·        E’ morto il pianista/raider Adriano Urso.

Massimo Gramellini per corriere.it il 14 gennaio 2021. Si chiamava Adriano Urso. Aveva un talento, suonare il piano, e un sogno: vivere del suo talento. La sera lo trovavi nei locali di Roma, specie al Cotton Club, a creare jazz. Aveva un fratello famoso nell’ambiente - Emanuele, detto the King of Swing -, ma anche lui era una piccola celebrità. Un personaggio, non solo sul palco. Guidava un’auto d’epoca, vestiva abiti di un altro secolo e usava parole forbite che nessuno conosce più. Aveva 41 anni, ma apparteneva a un tempo tutto suo. La pandemia è passata sopra a quel mondo e ha calpestato il sipario. Allora si è visto di che pasta sono fatti, certi poeti. Privato brutalmente del suo piano, Adriano Urso avrebbe potuto buttarsi via. Invece ha deciso di suonare la vita nell’unico modo ancora possibile: mettendosi a consegnare cibo a domicilio. Di solito si comincia fattorini per diventare artisti. Lui ha intrapreso il percorso inverso, a un’età in cui la forbice tra il sogno e la realtà appare quasi insostenibile. Domenica scorsa, una sera freddissima anche a Roma, il pianista Adriano Urso guidava impavido la sua automobilina d’epoca verso la prossima consegna (ogni tanto qualche appassionato credeva di riconoscerlo, dietro le pizze). La macchina si è fermata, forse per il gelo. Adriano è sceso a spingere, aiutato da due passanti, ma quando si è riacceso il motore, si è spento lui. Il suo cuore è uscito di scena, lasciandoci qui ad applaudirlo, in bilico tra la rabbia e la tenerezza.

Da tgcom24.mediaset.it il 14 gennaio 2021. Addio ad Adriano Urso, uno dei pianisti jazz più apprezzati della scena romana, conosciuto anche a livello nazionale. Il musicista è morto il 10 gennaio colpito da un infarto mentre stava spingendo la sua auto in panne durante il lavoro. A causa dell'annullamento di tutti gli eventi live musicali a causa del Covid, da qualche tempo si era reinventato come fattorino di cibo a domicilio. Una tragedia indiretta del Covid, una tragica rappresentazione di quello che la pandemia ha fatto al settore musicale. Non tanto quelle delle star, ma di chi con la musica ha vissuto e portato a casa la pagnotta sera dopo sera, con concerti e spettacoli in piccoli locali. Tutto questo è stato spazzato via dalla pandemia che ha fatto chiudere locali e annullare eventi. E così migliaia di persone, tecnici come artisti, si sono trovati in gravissima difficoltà. Quella su cui da mesi le voci che contano del mondo dello spettacolo provano a richiamare l'attenzione delle istituzioni senza alcun risultato. Urso, fratello di Emanuele, clarinettista e batterista noto come "The King of Swing", era uno degli esponenti più raffinati della scena musicale "retrò". Gli amici del Cotton Club, locale romano in cui era solito esibirsi, lo ricordano al volante di un'auto d'epoca, vestito elegante, con il suo tabacco da fiuto e la ventiquattrore. E proprio spingendo quell'auto d'epoca, una Fiat 750 Special, ha perso la vita. L'auto a cui era legatissimo e che voleva usare anche per il nuovo lavoro che doveva essere il salvagente per questi tempi difficili in attesa di poter tornare a suonare il suo amato pianoforte di fronte a un pubblico.

Il pianista morto mentre faceva il fattorino è il culmine dello stato di abbandono degli artisti. Giulio Cavalli su Notizie,it il 15/01/2021. Lo spettacolo dal vivo si è fermato all’inizio della pandemia e non è mai più ripartito: dovranno passare quintali di vaccini prima di rimettersi in moto. Prendete un musicista jazz, sapete quei musicisti jazz che negli abiti, nei portamenti, nell’eleganza antica e nel suo fare musicale riporta alle fumose atmosfere come le vediamo nei film, uno di quelli che nelle sale da ballo, nei club è riconosciuto per il suo talento e la sua passione, uno di quelli che profuma di tempi andati, di un incanto che sembra provenire da un’altra epoca ed è qui ancora tutto intatto. Adriano Urso era un pianista jazz molto conosciuto negli ambienti romani e nazionali. Con suo fratello Emanuele, clarinettista e batterista soprannominato “King of Swing”, si esibivano in duetti memorabili che continuavano fino a notte fonda. Ora prendete quel musicista e sbattetelo dentro l’incubo di questa pandemia che ha sgretolato i modi, che ha schiacciato le prospettive e Adriano Urso lo ritroverete in una freddissima nottata romana, di domenica, con la sua Fiat 750 d’epoca. Adriano Urso consegnava cibo a domicilio per l’azienda danese Just Eat. Li chiamano “rider” per dargli una pennellata di modernità ma sono fattorini schiavi di un algoritmo da sfamare per riuscire a racimolare qualche euro ogni consegna. La Fiat 750 non riparte, passano due passanti che provano a dare una mano a spingere e Adriano Urso si accascia a terra. Forse lo sforzo. Forse il freddo. Adriano Urso muore e il mondo della musica piange questa storia che dai tasti di un pianoforte suonati con il sigaro in bocca si conclude nell’imbuto di una strada romana. L’estate scorsa era a Villa Celimontana con il suo «Swing Quartet» a suonare George Gershwin e Duke Ellington, anni fa era stato sul palco con un mito come il sassofonista e compositore Lee Konitz. Ora è arrivato l’ultimo accordo, stonato, con la faccia per terra. Gli amici di Urso raccontano che anche lui vedeva nero: senza musica era perso, pensava che non sarebbe più tornato a suonare per gli altri. La disperanza è un sentimento sottile che si intacca tra le vene. Sono migliaia gli operatori dello spettacolo dal vivo che sono passati dall’adrenalina del pubblico, degli applausi e dei palchi al silenzio rumoroso di giornate che scorrono senza prospettive, in attesa di qualche ristoro dalle istituzioni che è sempre troppo poco e con la difficoltà di imbucarsi in un mondo del lavoro che in questi mesi ha il nodo in gola. Attori, registi, musicisti, cantanti, ballerini, scenografi ma anche tutta la galassia che ruota intorno a quel mondo, i contabili, i tecnici, gli attrezzisti, tutto l’indotto. Lo spettacolo dal vivo si è fermato all’inizio della pandemia e non è mai più ripartito. Qualche sparuta data estiva, per avere la sensazione almeno di esserne ancora capaci, ma il futuro è nero, nerissimo. Non si sa quando e come si potrebbe ripartire, una cosa è certa: il mondo dell’arte e della cultura non è certo ritenuto un’attività essenziale e dovranno passare quintali di vaccini prima di rimettersi in moto. In Italia, con un calo medio dell’occupazione che si attesta al 2,9% nei settori dei servizi, la cultura ha perso il 10,5% delle posizioni lavorative. Le ore lavorate sono diminuite del 14,9%. Si tratta del peggior calo registrato dopo il settore turistico. E questi sono i numeri solo dei lavoratori dipendenti, per gli autonomi (che tra autori e artisti sono il 45%) la situazione è drammatica visto che non esistono nemmeno le giuste tutele. La relazione del 2019 in commissione Cultura alla Camera parlava di redditi annuali in media di 2.836 per oliatori, di 5.988 euro per gli orchestrali, di 10.696 euro per i cantanti: non stupisce che un settore già in crisi stia sprofondando sotto i colpi del virus. Poi, al di là dei numeri, c’è l’enorme patrimonio umano e culturale che ha costruito la propria professionalità nel tempo e che ora si sta disperdendo. Qualcosa che non ha a che vedere solo con le statistiche ma che interessa l’identità culturale di un Paese. Identificare i lavoratori che hanno diritto a un sostegno risulta molto difficile sia per questioni statistiche sia per l’elevata quota di sommerso. Fino al “pianista” morto consegnando cibo a domicilio.

·        È morto il senatore Romano Misserville.

È morto il senatore Romano Misserville, avvocato e uomo di destra fuori dagli schemi. Redazione giovedì 14 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. È morto nella notte Romano Misserville, avvocato, senatore, tra i fondatori di An, militante fin da giovanissimo del Msi, del quale fu poi sindaco, a Filettino, negli anni dell’ostracismo verso la destra. Il 20 aprile avrebbe compiuto 87 anni. Secondo quanto riportato dalle cronache locali, Misserville un paio di settimane fa era risultato positivo al coronavirus.

L’impegno nel Msi fin da giovanissimo. Avvocato penalista, riconosciuto da tutti come un “principe del foro”, Misserville, classe 1934, aveva iniziato il suo impegno politico nel Msi da giovanissimo: aveva 15 anni quando si iscrisse. Formatosi nella militanza e negli enti locali, fu consigliere comunale in diversi centri della Ciociaria. Nel 1983 venne eletto sindaco a Filettino. Apprezzato dai suoi concittadini per il coraggio e la cultura istituzionale, non ebbe mai paura di mettersi in gioco, anche con scelte fuori dagli schemi. Agli annali della politica resta, per esempio, quella volta in cui, eletto senatore da un anno, nel 1987, si presentò in aula con una maschera antigas, per denunciare il degrado della Valle del Sacco e i rischi per la popolazione. Era la seduta di presentazione del presidente del Consiglio Giovanni Goria, i lavori andavano in diretta Rai.

Tra i fondatori di Alleanza nazionale. Ricoprì quattro mandati a Palazzo Madama, divenendo anche vicepresidente del Senato. Aderì alla svolta di Fiuggi e contribuì a fondare Alleanza nazionale. Ne uscì nel 1998, di fatto facendosi espellere, dopo aver dato vita al movimento “Destra e popolo” a seguito di uno scontro col partito sul tema del finanziamento pubblico. Passò quindi all’Udr di Cossiga e, nel 1999, venne nominato sottosegretario alla Difesa nel governo D’Alema. Ma l’incarico durò una manciata di giorni: Misserville non aveva mai rinnegato le sue origini politiche e le sue idee e, anche in quel frangente, in un’intervista a Repubblica, confermò di essere “uomo di destra” e di “essere stato” fascista. Ne scaturì un putiferio.

Romano Misserville, “un grande uomo”. Misserville decise poi di dedicarsi interamente alla professione, senza mai recidere il suo legame con la destra: nel 2014 non volle mancare, per esempio, alle celebrazioni per il centenario di Giorgio Almirante. Da avvocato affrontò casi complessi, come quello dell’omicidio di Serena Mollicone, ma si dedicò con passione anche a diversi casi pro bono. “Ha assistito gratuitamente molti clienti che non aveva possibilità economiche”, ha ricordato su Frosinoneweb il genero Biagio Cacciola, marito della figlia di Misserville, Fiammetta, scomparsa nel 2008 a causa di un tumore. Ora il senatore “è andato ad abbracciare Fiammetta”, ha aggiunto Cacciola, parlando del suocero come di “un uomo di grande sensibilità. Era vicino a tutti coloro che stavano attraversando momenti difficili”. “Lui – ha aggiunto – aveva la capacità di individuare le caratteristiche di una persona dopo pochi minuti che l’aveva conosciuta. Se ne è andato un grande uomo e un egregio rappresentante della nostra terra”.

·        E’ morto l’attore Antonio Sabato.

Marco Giusti per Dagospia il 9 gennaio 2021. Non se la passava benissimo Antonio Sabato, star del nostro cinema stracult anni ’60 e ’70, scomparso il 6 gennaio per Covid a Los Angeles, dove viveva ormai da tanti anni, ancora molto legato al figlio, Antonio Sabato jr, che aveva fatto una certa fortuna a Hollywood come attore e produttore, ma che aveva rotto ogni rapporto con lui. E’ stato proprio il figlio, in questi ultimi anni salito alla ribalta come fedelissimo trumpiano, cosa rara nel mondo del cinema e paladino del no-mask, a chiedere il 4 gennaio “una preghiera per il padre” in cura intensiva in ospedale e poi a dare la notizia della sua morte su Twitter con un laconico “ciao, papà”. Contemporaneamente però twitta cose del tipo, “Trump Won Again” e in molti gli rinfacciano la sua posizione contro le mascherine: “Perché non ti chiedi come pensi a proposito del Covid adesso che TUO PADRE è un cura intensiva?”. Rispetto al povero Antonio Sabato Senior, diciamo che il suo era un carattere difficile se non proprio impossibile, come raccontavano tutti i registi che lo incontrarono, da Umberto Lenzi a Enzo G. Castellari, da Mario Caiano a Alberto Ded Martino, Sabato doveva proprio alla sua cocciutaggine il fatto di non essere davvero esploso come star internazionale alla fine degli anni ’60 e non aver raccolto un po’ di gloria quando a Hollywood quando il figlio divenne una star televisiva negli anni ’90. Quando lo intervistai per Stracult lo trovai proprio a Los Angeles, sul barcone dove viveva e mi sembrò che, al di là delle cose che mi diceva, i sogni di gloria erano da tempo svaniti. E con questi anche i rapporti col figlio, che pure lo aveva sostenuto negli ultimi anni con qualche partecipazione a film, “High Voltage” nel 1997, e serie, “Beautiful” nella stagione 2006.  Eppure Antonio Sabato era partito benissimo nel nostro cinema maggiore e nelle grandi produzioni internazionali. Nato a Montelepre, vicino Palermo, nel 1943, arriva a Roma e ottiene un piccolo ruolo battezzato dalla regia di Vittorio de Sica in un sogno di Clint Eastwood a fianco di Silvano Mangano in un episodio de “Le streghe”. Nello stesso anno lo troviamo a fianco di Anouk Aimée in “Lo scandalo” di Anna Gobbi. Bello, giovane, pieno di vitalità, viene scelto fra altri duemila attori da John Frankheneimer per il ruolo del pilota italiano Nino Barlini in “Grand Prix”. Ruolo che era stato pensato per Jean-Paul Belmondo. Sabato si troverà così catapultato tra le grandi star del film della MGM, che vincerà ben tre Oscar, a fianco di Yves Montand, James Garner, Toshiro Mifune e Françoise Hardy. Per il suo cattivo carattere, mi confessò, perse il ruolo di coprotagonista di Jane Fonda in “Barbarella” di Roger Vadim. Su imdb leggo che invece la sua recitazione venne ritenuta troppo seriosa e così nel ruolo di Dildano venne rimpiazzato dalla star emergente inglese David Hemmings. Ma se vedete bene lo trovate nel film. Caduto da “Barbarella”, ma ancora forte protagonista giovane, venne spedito nel mondo dei nostri spaghetti western. Lo troviamo così in “Odio per odio” di Domenico Paolella dove è un peone buono a fianco di John Irelend. Il film incassò molto bene e venne subito distribuito in America. Eccolo poi in “Al di là della legge” di Giorgio Syegani assieme a Lee Van Cleef e a un ancora caratterista Bud Spencer, poi è uno dei tre pistoleri di “I tre che sconvolsero il West” o “Vado, vedo, spara” diretto da Enzo G. Castellari. Ma forse il suo western migliore è lo stranissimo “Due volte Giuda” di Nando Cicero, dove si ritrova come antagonista Klaus Kinski come al solito fuori di testa. Sul set, raccontava, Kinski ruppe un boccione di vino da due litri e cercava di spaventarlo agitandogli il vetro sulla faccia. “Colpiscimi”, gli disse, “mi fai un favore. Così stasera ti uccido”. Recita in inglese, addirittura indirizzato nella recitazione dal fratello di Leslie Howard, in “La monaca di Monza” di Prandino Visconti con Anne Heywood. Dopo la commedia di Marcello Fondato “Certo, certissimo, anzi probabile” lo troviamo nel davvero interessante “Love Maker – L’uomo per fare l’amore” di Ugo Liberatore, dove è un ingegnere italiano playboy in una Monaco di Baviera alquanto razzista. Un film che fece scandalo allora e non venne mai distribuito in Germania, malgrado il ricco cast tedesco, Doris Kunstmann, Christiane Kruger. Negli anni ’70 si dedica quasi integralmente al poliziesco e al thriller, “E venne il giorno dei limoni neri”, “Il racket dei violenti”, “I familiari delle vittime saranno avvisati”, Milano rovente” di Umberto Lenzi, “Milano: Il clan dei calabresi” di Giorgio Stegani, “A tutte le auto della polizia” di Mario Caiano, “Poliziotti violenti” di Michele Massimo Tarantini, “Canne mozze” di Mario Imperoli, quasi sempre nel ruolo del protagonista, il poliziotto meridionale coi baffi. Ma venne chiamato anche per ruoli e generi diversi, penso all’interessante “L’uomo dagli occhi di ghiaccio” di Alberto De Martino, l’horror “L’occhio del ragno” di Roberto Bianchi Montero, il giallo “Sette orchidee macchiate di sangue” di Umberto Lenzi. Non riuscì a diventare una icona del poliziottesco all’italiana come Maurizio Merli o Luc Merenda, ma fu un buon protagonista ben riconoscibile e apprezzato dal pubblico, anche se ormai non era più la star che la MGM pensava di lanciare ai tempi di “Grand Prix”. Nel 1972, dopo essersi sposato con l’attrice cecoslovacca Yvonne Kabouchy, gli nascerà il primo figlio, Antonio Sabato junior. A quel tempo, oltre ai polizieschi, fa un po’ di tutto. Alfonso Brescia lo chiama per il fantascientifico “Il mondo dei robot”, ma anche per i Merola movie, come “I contrabbandieri di Santa Lucia”, “Napoli… la camorra sfida”, “La tua vita per mio figlio”, polizieschi-sceneggiati con Mario Merola protagonista che ottennero grandi successi di pubblico. Lo troviamo anche nel postatomico “Fuga dal Bronx” e “Tuareg” di Castellari, che sapeva come farlo funzionare, in “Thunder” di Fabrizio De Angelis. Ciro Ippolito lo chiama per “Zampognaro innamorato” con Mario Merola. Quando il figlio Antonio Sabato jujnior iniziò a lavorare, il primo film da protagonista fu “Il ragazzo dalle mani d’acciaio” di Fabrizio De Angelis nel 1990, e si stabilì a Los Angeles, diventando cittadino americano nel 1996, il padre lo seguì, sperando di avere quel successo che non gli era stato concesso tanti anni prima. Ma le cose non andarono così. E la presenza di Antonio Sabato Senior sui set del figlio non fu sempre così gradevole. Mentre Sabato Junior fece un suo percorso, anche fortunato, una novantina di film e tvmovie, due mogli, una serie di figli, supporter di Donald Trump nel 2016, poi candidato al Congresso per la California nel 2017, fortunatamente perse, il padre si emarginò sempre di più. E non credo fosse una cosa facile da digerire per una personalità forte come quella di Antonio Sabato che si sentiva davvero una star negli anni’60. Anche se, a leggere i commenti su Twitter, non è che Antonio Sabato Junior con tutti i suoi recenti deliri trumpiani, l’idea di fare “cinema patriottico” con il Conservative Film Company, e lottare fino alla fine per il riconteggio elettorale sia molto amato in California. “Ciao, sono Antonio Sabato Jr e credo che la luna sia fatta di formaggio”.

·        E’ morto il giornalista Giuseppe Turani.

Piero Colaprico per repubblica.it il 7 gennaio 2021. Se n’è andato “Peppino”, e cioè Giuseppe Turani, uno dei più informati giornalisti economici d’Italia. Ha attraversato numerosi quotidiani e settimanali e scritto, con Eugenio Scalfari, un libro che fece epoca: “Razza Padrona”. Non aveva compiuto ancora gli ottant’anni, aveva subito alcune operazioni al cuore e viveva spesso a Tassara, sui colli piacentini. Spirito polemico, grande narratore – era capace di tenere tavolate intere spiegando la nascita dell’Eni, le visioni di Enrico Mattei, le intuizioni e gli spifferi che portavano a operazioni di Borsa clamorose – recentemente aveva “perso” una rubrica giornalistica che, a dispetto dell’età, teneva con grande entusiasmo. Ieri s’è sentito male, è stata chiamata l’ambulanza che ha arrancato lungo le strade cariche di neve. Quando è arrivato all’ospedale di Broni c’era molto poco da fare e il cognato ha confermato ai numerosi amici di “Peppino” la morte dell’editorialista economico. Uno che non “mollava” mai, che aveva superato la crisi, anche personale, della stagione di Tangentopoli, vissuto da vicino le storie della “teste Omega”, e cioè Stefania Ariosto, che aprì con le sue testimonianze le inchieste sulle corruzioni dei giudici della cassazione messe in atto da Cesare Previti, avvocato di Silvio Berlusconi. Un giornalista che dava del tu a capitani d’impresa e finanzieri, figlio di un’epoca – quella della crescita del Paese – in cui pochi giornalisti sapevano spiegare esattamente i movimenti del “capitale”: lui era tra questi.

·        E’ morto il sensitivo Paolo Bucinelli, in arte Solange.

(ANSA il 7 gennaio 2021) Il sensitivo e noto volto televisivo livornese Paolo Bucinelli, 69 anni, conosciuto con il nome d'arte Solange, è stato ritrovato morto nel pomeriggio di oggi nella sua abitazione di Collesalvetti (Livorno). A trovare il corpo i vigili del fuoco, avvisati da alcuni amici di Bucinelli che si erano preoccupati perché non rispondeva da giorni al telefono. Una volta arrivati a casa gli amici hanno provato a chiamarlo e hanno sentito suonare il cellulare da fuori la porta, a quel punto hanno chiesto aiuto ai vigili del fuoco che una volta entrati nell'abitazione hanno trovato il cadavere sul divano. Il medico del 118 intervenuto sul posto con i carabinieri ha confermato il decesso che sarebbe avvenuto per cause naturali. Secondo quanto raccolto dai militari Bucinelli era andato al pronto soccorso domenica scorsa per un problema glicemico e poi era stato dimesso. 

Da Corriere.it il 7 gennaio 2021. Solange, ospite il il 27 aprile del 2018 nella trasmissione di Enrico Lucci su Raidue: «Faccio il sensitivo, non prendo soldi, mia nonna mi ha lasciato il suo potere. Non credete ai fantasmi, sono cose stupide. Ho letto la mano a tantissimi vip, ma la gente che preferisco è quella semplice». Solange ha raccontato la propria esperienza con Margherita Hack, atea e razionalista.

Morto Solange, il sensitivo dei vip trovato senza vita in casa. Domenica scorsa il popolare sensitivo toscano si era recato al pronto soccorso di Livorno ma era stato dimesso. Novella Toloni, Giovedì 07/01/2021 su Il Giornale. Paolo Bucinelli, 69 anni, conosciuto con il nome d'arte Solange, è stato ritrovato morto nel pomeriggio del 7 gennaio nella sua abitazione di Collesalvetti, in provincia di Livorno. Il sensitivo, popolare volto televisivo di Rai e Mediaset, è deceduto all'improvviso e secondo le prime indiscrezioni la morte sarebbe dovuta a cause naturali. Solo due giorni fa aveva condiviso su Instagram una foto con la quale salutava i suoi fan e non aveva accennato ad alcun problema di salute. La notizia della morte prematura di Solange è arrivata come un fulmine a ciel sereno e ha turbato il mondo dello spettacolo. Il sensitivo toscano, che aveva conquistato la popolarità sul piccolo schermo, è stato trovato privo di vita nella sua casa a Collesalvetti. A trovare il corpo esanime sono stati i vigili del fuoco di Livorno, allertati da alcuni amici di Solange che da alcuni giorni non avevano sue notizie. Preoccupandosi perché da oltre 48 ore Bucinelli non rispondeva al telefono gli amici si sono recati fuori dalla sua abitazione, provando nuovamente a contattarlo telefonicamente. È in quel momento che hanno capito la gravità della situazione: il cellulare squillava, ma da Solange nessuna risposta. Gli amici del sensitivo, temendo il peggio, hanno così allertato le forze dell'ordine, che hanno richiesto l'intervento immediato dei vigili del fuoco. Giunti sul posto i pompieri hanno prima sfondato la porta dell'abitazione di Paolo Bucinelli e poi trovato il suo corpo senza vita sul divano. È stato il medico di turno del 118 a confermare il decesso del popolare sensitivo toscano che, secondo i primi accertamenti sul posto, sarebbero avvenuto per cause naturali. La sua ultima apparizione in televisione risale a pochi giorni fa. Solange era stato ospite nel programma mattutino di Rai Uno, Mattino in Famiglia, sabato scorso e aveva parlato del nuovo anno e degli astri per il 2021. Poi un post sui social network per salutare i suoi follower, pubblicando la foto di una ricetta appena realizzata. Il giorno seguente, domenica, però si era recato al pronto soccorso di Livorno per un lieve malore. A svelarlo sono stati alcuni parenti di Solange che, interpellati dalle forze dell'ordine, hanno spiegato che all'ospedale livornese il sensitivo si era recato per un problema legato alla glicemia, ma che l'uomo, 69 anni, era stato dimesso in giornata.

Da gazzetta.it il 9 gennaio 2021. La morte di Solange, nome d'arte del sensitivo Paolo Bucinelli, trovato senza vita ieri nella sua casa di Collesalvetti (Livorno), ha scosso molte persone. Tra queste c'è senza dubbio l'azzurra della pallavolo Valentina Diouf, che questa mattina ha postato su Instagram un messaggio pieno di affetto. "Tantissimi ricordi della mia infanzia sono legati a te, Paolo - ha scritto -. Sì perché per me non sei mai stato Solange ma solo Paolo, la zia Paolo precisamente. Perché tu eri arcobaleno quando ancora non c’era questo termine". Nelle sue parole anche tanta gratitudine: "Hai sempre vissuto liberamente la tua sessualità e il tuo essere magnificamente stravagante. Vestivi in maniera eccentrica ed io che ero una bambina che si vergognava anche della sua ombra ti ammiravo. Mi ricordo quando mi hai presentato un fidanzato del momento e io non ho pensato al fatto che tu avessi un fidanzato maschio e non femmina, perché per me è sempre stata una cosa normalissima la libertà di scelta anche a 5 anni forse proprio grazie a te, ma ho notato che aveva tutti i brillantini sul telefono e li volevo anche io. Mi ricordo quando mi hai regalato quel toppino fucsia con le piume, avrò avuto 6-7 anni forse, e mi hai detto di sfoggiarlo con fierezza di sentirmi libera di essere chi volevo. In pubblico non l’ho mai indossato perché era presto, non avevo capito il messaggio che volevi darmi, ma poi quel toppino con le piume è diventato metaforico e io lo porto con me tuttora, mi dà la forza di non perdere mai di vista chi sono. Mi ricordo quando tutte le sere tu e la mamma vi telefonavate perché eravate tutt'e due soli e tu ci rallegravi le serate inventando storie e imitando la voce dei personaggi come la Rita Levi Montalcini, la mia preferita, oppure una bambina che voleva giocare con me. Abbiamo riso tanto, abbiamo fatto mille esperienze insieme. Mi ricordo la dolcezza della tua mamma, la Signora Corolla. Eravamo una famiglia diversa ma pur sempre una famiglia. Poi abbiamo preso strade diverse, ma comunque quello che c’è stato ha contribuito a formare la persona che sono oggi. Quindi grazie Paolo dietro quel personaggio frivolo c’è sempre stato molto di più e io lo so perché ho avuto la fortuna di conoscerti. Sarai sempre con me".

Dagospia l'8 gennaio 2021. Lite tra Rocco Casalino e Solange a "Buona Domenica" 2004-2005.

Solange: come meno male?

Casalino: No, dico, meno male

Solange: Cioè tu non sei, veramente, né pesce né uccello. Anzi un po’ uccello sei, con le scarpe che c’hai. (…) Sei finto, falso e ipocrita. Lo sei, perché quando eravamo in camerino prima tu hai detto “mi vesto da maschietto, oggi voglio fare lo chic …”

Casalino: ma che ne sai tu del camerino che  passi la maggior parte del tempo nei bagni per farti accarezzare dai camionisti. (…) vorrei che si notasse la differenza tra me e lui: lui è donna al 98 per cento. Io sono donna al 20%. Poi io posso ancora procreare. Tu non potrai mai procreare…

Marco Gasperetti per corriere.it l'8 gennaio 2021. È morto in solitudine Paolo Bucinelli, in arte Solange. Si è addormentato per sempre sul divano del salotto del piccolo appartamento di Mortaiolo, campagne di Collesalvetti, comune dell’hinterland di Livorno. Proprio lui, il sensitivo che amava le luci della ribalta, la gente, le tv e tutto quello che profumava di spettacolo. Livornese nell’accento, nella sfrontatezza e nella generosità. «Ci avevo parlato due giorni fa – racconta Dario Ballantini, il celebre imitatore, artista e pittore che condivideva con Solange amicizia e città natale -. Mi aveva detto che lo avevano invitato a Uno Mattina, la trasmissione della Rai, e mi chiedeva se gli ero piaciuto. Era una persona buona, di rara intelligenza, Paolo, e aveva una sensibilità assoluta, che gli consentiva di guardare nell’animo della gente. Ci scherzava. “Non indovino il futuro”, mi diceva ma a volte le sue rivelazioni erano impressionanti».

«Non aveva problemi di lavoro». La morte di Solange ha sorpreso tutti. E ha commosso gente comune, vip e potenti. Tra questi anche il leader della Lega Matteo Salvini che in un tweet lo ha ricordato commosso con grande simpatia. E ancora Vladimir Luxuria, Caterina Balivo e moltissimi uomini e donne di spettacolo. «Da qualche anno, dopo la morte della mamma si era isolato, – racconta Massimiliano Simoni, responsabile nazionale Teatro e Spettacolo di Fratelli d’Italia e già presidente del festival della Versiliana - ma non credo avesse problemi economici. Andava in tv, aveva rubriche su alcuni giornali e continuava ad amare il suo lavoro».

«Mi ricordo quando nel 2000 osò presentarsi con il suo look da Romano Battaglia alla Versiliana per chiedergli di invitarlo al suo famoso Caffè – racconta ancora Simoni -. Io lo avevo conosciuto qualche anno prima. Lo salutai e convinsi Romano ad averlo come ospite. Fu quasi uno choc per il nostro pubblico. Un mese prima avevamo sul palco Indro Montanelli, ma la sua presenza fu divertente e spiritosa e lo invitammo tante altre volte».

Il dibattito con Margherita Hack. Una volta Solange partecipò a un dibattito con Margherita Hack, scienziata e donna straordinaria. E subito in molti si chiesero che cosa ci facesse un «paragnosta» accanto a un’astrofisica famosa in tutto il mondo. La Hack smentì tutti e alla domanda se lei, atea dichiarata, non fosse irritata da chi leggeva la mano rispose che forse Solange aveva avuto un dono chissà da quale parte misteriosa dell’universo. Il pubblico rimase a bocca aperta, poi sorrise e applaudì. Margherita aveva capito che quel ragazzo stravagante era una persona intelligente. Solange (nome che si era imposto dopo la partecipazione al film thriller del 1971 «Che cosa avete fatto a Solange?») era orgogliosamente gay e voleva essere declinato al maschile. Una volta, prima di uno spettacolo, qualcuno lo chiamò cara Solange e lui rispose secco: «Cara lo dici a tua sorella».

Gli esordi a teatro e la poesia. Paolo Bucinelli era nato il 25 aprile del 1952, aveva studiato Pedagogia all’Università di Firenze, aveva pubblicato diversi libri, scriveva e recitava poesie. «Non soffriva di alcuna patologia e per tutti è stata una morte non solo dolorosissima ma inattesa. – racconta ancora Ballantini – Un’amica mi ha detto che qualche giorno prima era andato a farsi visitare all’ospedale perché aveva avuto uno svenimento. Ma gli avevano detto che era stato un calo glicemico e lo avevano rimandato a casa». Ballantini ricorda di aver iniziato la sua carriera con lui, a Livorno, nel mitico teatro La Gran Guardia oggi purtroppo trasformato in un negozio, quando incantava tutti con le sue poesie e le sue trovate e una volta riuscì persino ad apparire sul palco con una moto. Le ultime parole che Dario ricorda di Solange sono quelle televisive. Aveva salutato il pubblico dicendo che nonostante pandemia e problemi vari «la cosa più importante è voler bene a se stessi» e così facendo si vuole bene anche agli altri. Il futuro lo leggeva così.

Morte Solange: aveva rifiutato il ricovero. Deceduto poche ore dopo. Il sensitivo avrebbe rifiutato il ricovero all'ospedale di Pisa, dove si era recato in seguito a un malore dovuto alla glicemia, morendo poche ore dopo il rientro nella sua abitazione, Novella Toloni, Venerdì 08/01/2021 su Il Giornale. Emergono nuovi inquietanti dettagli sulla morte di Solange. Il corpo senza vita del sensitivo, originario di Livorno, è stato ritrovato nella tarda mattinata del 7 gennaio, ma le cause sono ancora tutte da accertare. Il pubblico ministero che si occupa del caso vuole determinare le reali cause del decesso e per farlo ha disposto l'autopsia sul corpo di Solange. Paolo Bucinelli, vero nome di Solange, è stato trovato morto disteso sul divano del suo piccolo appartamento a Mortaiolo, nella campagna di Collesalvetti. A fare la macabra scoperta sono stati i vigili del fuoco allertati da alcuni amici del sensitivo che, non sentendolo da giorni, temevano il peggio. Il medico del 118 giunto sul posto ha refertato il decesso per cause naturali, ma sulle ultime ore del popolare volto televisivo insistono molte ombre. Secondo il racconto fatto da alcune persone vicine a Paolo Bucinelli, l'uomo si sarebbe recato all'ospedale pisano di Cisanello domenica 3 gennaio. Al pronto soccorso si era presentato per un malore dovuto alla glicemia. Una situazione clinica sospetta per la quale i medici di turno avrebbero optato per il ricovero. Nonostante il parere contrario dei medici, Solange avrebbe rifiutato di ricoverarsi in ospedale, firmando le dimissioni. Poi il rientro nella sua casa di Collesalvetti e la morte sopraggiunta poche ore dopo. Per fare chiarezza sulle reali cause del decesso il pubblico ministero - che si occupa del caso - ha disposto l'esame autoptico sul corpo del sensitivo. L'autopsia si terrà nei prossimi giorni ma intanto gli amici più stretti raccontano dei suoi ultimi giorni in vita. A Fanpage Valdimir Luxuria ha raccontato di aver sentito Solange sotto tono negli ultimi tempi: "All'inizio avevo pensato al peggio, avendolo sentito un po' giù avevo temuto si fosse tolto la vita. Invece, anche se il dolore resta, mi ha confortato sapere che si è trattato di un malore. Conoscendolo avrebbe lasciato un biglietto. Il mio sospetto è che abbia avuto un malore ma che non abbia voluto chiedere soccorso e si sia lasciato andare. Ultimamente, nelle nostre telefonate, usava frasi un po' preoccupanti". Secondo Massimiliano Simoni, responsabile nazionale Teatro e Spettacolo di Fratelli d’Italia, rintracciato dal Corriere della Sera, Solange non avrebbe avuto problemi di tipo lavorativo anche se, dopo la morte della madre, si era isolato nella campagna livornese: "Da qualche anno, dopo la morte della mamma si era isolato ma non credo avesse problemi economici. Andava in tv, aveva rubriche su alcuni giornali e continuava ad amare il suo lavoro". Intanto, subito dopo la conferma della sua morte, sulle pagine social di Solange è comparso un ultimo messaggio (scritto dal suo staff): "La morte è una Sorpresa che rende Inconcepibile il Concepibile , io sono sempre stato così e anche in questo vi ho voluto sorprendere !! Tranquilli continuerò a portarvi Fortuna anche da lassù dalla mia Stella.. vi voglio Bene ....S".

"Sono stato io a portarlo in ospedale". Gli ultimi istanti di vita di Solange. Dal malore al ricovero in ospedale fino al ritorno a casa, il racconto degli ultimi giorni di vita del sensitivo toscano fatto dal direttore di 50 Canale l'ultimo ad aver visto in vita Solange. Novella Toloni, Sabato 09/01/2021 su Il Giornale. "Paolo era sul divano ormai privo di vita. È stato doloroso vederlo così", comincia dalla fine il racconto di Nicola Rossi, direttore di 50 Canale, sulla tragica morte di Solange. L'amministratore delegato dell'emittente televisiva toscana - dove lavorava da anni il sensitivo - è stato l'ultimo, insieme a una collega, a vedere vivo Paolo Bucinelli. Intervistato da La Nazione Rossi ha raccontato gli ultimi istanti di vita di Solange. Le ultime ore tra la visita in ospedale e il ritrovamento del cadavere. Il corpo senza vita di Paolo Bucinelli, vero nome di Solange, è stato ritrovato dai vigili del fuoco nel primo pomeriggio del 7 gennaio nella sua casa di Mortaiolo, nelle campagne di Collesalvetti, dove viveva solo. Insieme ai pompieri c'era anche Nicola Rossi, il direttore di 50 Canale. È stato lui, insieme a Francesca Vallini amica di lunga data del sensitivo, a dare l'allarme e a sospettare che qualcosa di brutto fosse accaduto a Solange. "Ci sentivamo tante volte al giorno – ha raccontato alla Nazione Francesca Vallini – ma dalla mattina dell'Epifania il telefono è rimasto muto e abbiamo pensato al peggio. Penso che sia deceduto in quella notte. Sono sconvolta perché era una persona speciale per me. Mi mancherà". La morte, avvenuta per cause naturali, sarebbe sopraggiunta per un malore dovuto al diabete, patologia che Solange aveva tenuto nascosta a molti. Il sensitivo si era sentito male il 2 gennaio e Nicola Rossi ha raccontato a La Nazione di aver accompagnato lui stesso l'artista all'ospedale Cisanello di Pisa: "Si era sentito male sabato notte, l'ho portato al pronto soccorso, è stato curata e stava molto meglio tanto è vero che domenica ha partecipato da 50 Canale il collegamento col programma di Rai1 intervistato da Tiberio Timperi. Poi sia nella giornata di domenica che in quelle di lunedì al telefono mi ha confermato che era tutto ok". Invece Solange è morto poche ore dopo sul divano della sua abitazione, dove i vigili e Rossi lo hanno trovato: "Siamo sconvolti, nessuno poteva prevedere un epilogo così drammatico". La chiave del ritrovamento del corpo senza vita di Solange è stata una mancata telefonata a Francesca. La ragazza - dopo numerose chiamate senza risposta - ha chiesto aiuto a Rossi, chiedendogli di passare dall'abitazione di Solange a pochi passi dalla redazione di 50 Canale per controllare. Una volta fuori, però, Rossi ha provato a far squillare il cellulare del sensitivo e sentendo la suoneria a pochi passi da lui ha allertato la polizia e i vigili, che di lì a poco avrebbero fatto la triste scoperta. Intanto dalla Procura fanno sapere che l'esame autoptico disposto sul corpo di Solange avverrà, presumibilmente, nel corso della prossima settimana. Il funerale, che era previsto per il primo pomeriggio di sabato 9 gennaio, è stato rinviato in attesa dell'autopsia. Il pubblico ministero Sabrina Carmassi ha disposto accertamenti sul cadavere per chiarire le cause del decesso, che rimangono comunque naturali, come confermato dal medico del 118 subito dopo il ritrovamento del corpo. La magistratura vuole chiarire se Solange abbia davvero rifiutato il ricovero in ospedale, come affermato da persone vicine al sensitivo, o se ci siano state negligenze.

Solange "aveva previsto anche la sua morte". Pochi giorni prima della tragedia...Roberto Alessi su Libero Quotidiano il 10 gennaio 2021. Da giorni non rispondeva al telefono, si era chiuso in casa per paura del Covid. Gli amici, preoccupati, sono andati a casa sua, hanno chiamato i pompieri, che hanno forzato la porta, poi la scoperta: il corpo senza vita di Solange era sul divano. Volto tv (Maurizio Costanzo lo invitava costantemente), che aveva conquistato la notorietà negli anni Novanta come sensitivo, partecipando a programmi di successo, film e reality. Solange, nome d'arte di Paolo Bucinelli, è stato trovato morto nella sua abitazione di Collesalvetti, provincia di Livorno. Prima che i pompieri buttassero giù la porta, e lo trovassero steso sul divano, il suo telefono continuava a squillare a vuoto, lasciando immaginare il peggio alla sua amica e ufficio stampa Francesca Vallino, che mi ha raccontato i particolari. «Si pensa, sia morto per un infarto. La settimana scorsa era andato all'ospedale di Pisa per accertamenti clinici. Aveva accusato dolori allo stomaco, rientrati però, a suo dire, poco dopo». Poco prima delle feste natalizie (anche Novella 2000 lo aveva segnalato) il sensitivo aveva lanciato via social un liquore col suo nome per propiziare l'arrivo del nuovo anno. I politici lo amavano. L'anno scorso lesse la mano a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. La sua morte ha colto di sorpresa non solo i tanti amici che hanno provato ad affrettare i soccorsi, ma anche tutta Forte dei marmi, cui Solange era legato da anni. Francesca Vallino ha riportato quello che secondo lei avrebbe potuto dire Solange attraverso i suoi social: «La morte è una sorpresa che rende inconcepibile il concepibile. Io sono sempre stato così, e anche in questo vi ho voluto sorprendere! Tranquilli, continuerò a portarvi fortuna anche da lassù, dalla mia stella. Vi voglio bene».

Solange, la testimonianza dell'amico e collega Nicola Rossi: "L'abbiamo trovato sul divano". Libero Quotidiano il 09 gennaio 2021. "Paolo era sul divano ormai privo di vita. È stato doloroso vederlo così": a parlare è Nicola Rossi, direttore di 50 Canale e amico di Solange. L'amministratore delegato dell'emittente televisiva toscana - dove lavorava da anni il sensitivo - è stato l'ultimo, insieme alla collega Francesca Vallini, a vedere vivo Paolo Bucinelli. Solange è stato ritrovato dai vigli del fuoco nel primo pomeriggio del 7 gennaio nella sua casa di Mortaiolo, dove viveva da solo. E insieme ai pompieri c’era anche Rossi. “Ci sentivamo tante volte al giorno ma dalla mattina dell'Epifania il telefono è rimasto muto e abbiamo pensato al peggio. Penso che sia deceduto in quella notte. Sono sconvolta perché era una persona speciale per me. Mi mancherà", ha raccontato alla Nazione la Vallini. La morte sarebbe avvenuta per un malore dovuto al diabete, patologia che Solange aveva tenuto nascosta a molti. L’artista si era sentito male già prima della morte, il 2 gennaio. In quell’occasione fu Nicola Rossi a prendersi cura di lui e a portarlo all’ospedale Cisanello di Pisa: "Si era sentito male sabato notte, l'ho portato al pronto soccorso, è stato curato e stava molto meglio, tanto è vero che domenica ha partecipato al collegamento col programma di Rai1, intervistato da Tiberio Timperi”. Poi nei giorni seguenti lo stesso Solange gli aveva confermato al telefono che andava tutto bene. E invece è morto poco dopo sul divano della sua abitazione. "Siamo sconvolti, nessuno poteva prevedere un epilogo così drammatico", ha spiegato Rossi intervistato da La Nazione. Intanto è stata disposta l’autopsia sul corpo del sensitivo: la magistratura vuole chiarire se Solange abbia davvero rifiutato il ricovero in ospedale, come affermato da persone a lui vicine, o se ci siano state negligenze.

Lo strazio della Diouf per la morte di Solange: "Dietro a te c'è di più". La pallavolista ha affidato ai social network un lungo ricordo del sensitivo toscano trovato morto nella sua casa dopo un malore. Novella Toloni, Domenica 10/01/2021 su Il Giornale. La notizia della morte di Solange, deceduto il 7 gennaio nella sua abitazione a Collesalvetti, ha travolto il mondo dello spettacolo. Il sensitivo toscano non era un presenzialista delle televisione, ma ha lasciato comunque un segno profondo. In molti infatti, nelle ultime ore, lo hanno ricordato con parole di stima e affetto. Le ultime sono state quelle toccanti della nipote Valentina Diouf, pallavolista italiana che oggi gioca in Corea del Sud. La campionessa ha pubblicato un lungo post dedicato a Solange sulla sua pagina Instagram. Uno straziante messaggio rivolto all'uomo più che al personaggio, che per lei era semplicemente "Zia Paolo". Tanti i ricordi legati a lui che con la sua eccentricità e libertà ha riempito la sua infanzia di bambina: "Tu eri arcobaleno quando ancora non c'era questo termine. Hai sempre vissuto liberamente la tua sessualità e il tuo essere magnificamente stravagante. Vestivi in maniera eccentrica ed io che ero una bambina che si vergognava anche della sua ombra ti ammiravo". Sui social Valentina Diouf ha ricordato con affetto i momenti più significativi al fianco di Solange: "Mi ricordo quando mi hai presentato un fidanzato del momento e io non ho pensato al fatto che tu avessi un fidanzato maschio e non femmina, perché per me è sempre stata una cosa normalissima la libertà di scelta. E quando mi hai regalato quel toppino fucsia con le piume, avrò avuto 6-7 anni forse, e mi hai detto di sfoggiarlo con fierezza di sentirmi libera di essere chi volevo. In pubblico non l'ho mai indossato ma è diventato metaforico e io lo porto con me tutt'ora, mi da la forza di non perdere mai di vista chi sono". Il dolore e lo strazio ora però lasciano spazio alla burocrazia. La Procura sta indagando per capire se ci siano state negligenze da parte dell'ospedale pisano o se sia stata una fatalità a causare la morte di Paolo Bucinelli. In settimana sono attesi i risultati dell'esame autoptico e forse i funerali, intanto la nipote Valentina lo ricorda ancora con parole toccanti. Le lunghe telefonate con la madre, le imitazioni e le risate e quel senso di famiglia che non l'ha mai abbandonata: "Eravamo una famiglia diversa ma pur sempre una famiglia. Poi abbiamo preso strade diverse, ma comunque quello che c’è stato ha contribuito a formare la persona che sono oggi. Quindi grazie Paolo dietro quel personaggio frivolo c'è sempre stato molto di più e io lo so perché ho avuto la fortuna di conoscerti. Sarai sempre con me".

Solange morto, "annullato il funerale": la Procura sequestra la salma, dubbi sulla corsa in ospedale nascosta. Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'08 gennaio 2021. Annullato il funerale di Paolo Bucinelli, conosciuto da tutti con il nome di Solange. Non ci sarà alcun rito domani, sabato 9 gennaio, alle 15. La Procura ha infatti chiesto il sequestro della salma per effettuare l’autopsia. La morte del sensitivo 69enne è avvenuta per circostanze ancora poco chiare: è stato trovato morto nella sua abitazione dai vigili del fuoco dopo che non rispondeva al telefono da diverso tempo. Intanto, giunge voce che pochi giorni fa sarebbe stato al Pronto soccorso, ma avrebbe firmato per non essere ricoverato. Mistero sulle sue condizioni di salute al momento dell’arrivo in ospedale. La procura chiarirà cosa è accaduto.

·        E' morta l’attrice Tanya Roberts?

Da "leggo.it" il 4 gennaio 2021. Lutto a Hollywood. E' morta.Tanya Roberts, attrice statunitense nota al pubblico per il ruolo di Julie Rogers nella quinta stagione della serie televisiva Charlie's Angels, per essere stata una Bond Girl accanto a Roger Moore in 007 - Bersaglio mobile nel 1985, e per Sheena, regina della giungla. Aveva 65 anni. Secondo quanto riportano i media americani, tra cui l'Hollywood Reporter, l'attrice aveva avuto un malore ed era svenuta mentre portava a spasso i suoi cani, il 24 dicembre, venendo ricoverata al Cedar-Sinar Hospital di Los Angeles dove poi è morta domenica. Secondo i media Usa il decesso non sarebbe correlato al Covid-19. Non è stata fornita alcuna causa di morte. Nata come Victoria Leigh Blum (New York, 15 ottobre 1955), Tanya è stata una modella prima di esordire al cinema nel 1975 con Un'ombra nel buio.

Marco Giusti per Dagospia il 4 gennaio 2021. Primo morto del 2021 è la bellissima Tanya Roberts, 65 anni, che fu sia Bond-Girl in “007 – Bersaglio mobile” di John Glen con Roger Moore, sia una delle protagoniste dell’ultima stagione delle “Charlie’s Angels”, ma anche Tarzan in gonnella in “Sheena regina della giungla” di John Guillermin e voluttuosa e un po’ troppo americana Angelica nel film di Giacomo Battiato “I paladini” accanto a star come Zeudy Araya, Ron Moss e Barbara De Rossi. Non si può certo dire che Tanya Roberts fosse una grande attrice, ma con un gran fisico e i capelli rosso fuoco fece grande colpo sia come Bond-Girl che sulle copertine di “Playboy” per il lancio di Sheena. Nata nel Bronx come Victoria Leigh Blum nel 1955 da madre inglese di Manchester e da padre di origini austro-ungariche-ebree che si erano conosciuti e sposati alla fine della guerra, scappò presto di casa lasciando scuola e famiglia a quindici anni. A New York incontrò un giovane studente, Barry Roberts e lo sposò. Iniziò quindi a studiare recitazione con Lee Strasberg e Uta Hagen, ma non rimediò che qualche particina a teatro nell’off-Broadway. Funzionò meglio come modella, vista la bellezza esplosiva, e come attrice nelle pubblicità di dentifrici e saponi, Ultra Brait, Clairol, anche occhiali da sole Cool Ray. A metà degli anni ’70 si sposta col marito, diventato sceneggiatore, a Hollywood. Il suo esordio da protagonista è nel 1976 in “Un’ombra nel buio” di Jim Sotos, ma la troviamo anche in “The Yum Yum Girls”, nel curioso “The Privates Files of J. Edgar Hoover” di Larry Cohen, nel bellissimo “Rapsodia per un killer” di James Toback, dove ha una particina, in “Horror Puppet” di David Schmoeller. Arriva al successo solo nei primi anni ’80 ottenendo il ruolo di Julie Rogers nell’ultima stagione delle “Charlie’s Angels”, che la porterà a quello di Tarzan in gonnella in “Sheena regina della giungla” e a quello di Stacey Sutton in “007- Bersaglio mobile” di John Glen con Roger Moore, dove viene però in gran parte oscurata dalla presenza di Grace Jones. La troviamo anche nello stracult di Don Coscarelli “Kaan principe guerriero” a fianco di Marc Singer. E’ la tipica bellona americana da copertina patinata, rafforzata dalla qualifica di Bond Girl. Così viene impacchettata per l’Italia dove sarà Angelica nel curioso “I paladini” diretto da Giacomo Battiato e prodotto da Franco Cristaldi con cast di bellezze del tempo, da Ron Moss a Zeudy Araya. Purtroppo già negli anni ’90 la sua carriera non procede benissimo, a qualche ruolo in film di secondo piano. Anche sua sorella, Barbara Chase, moglie per quindici anni del guru dell’LSD Timothy Leary, aveva avuto una breve e meno fortunata carriera cinematografica.

Tanya Roberts, viva l’ex Bond Girl È in ospedale in condizioni critiche.  Il Corriere della Sera il 5/1/2021. È giallo su Tanya Roberts. Contrariamente a quanto dichiarato dal suo agente, informato a sua volta dal marito dell’attrice, l’ex Bond Girl negli anni Ottanta e Charlie’s Angel in pensione è viva. Roberts, 65 anni, è stata ricoverata il 24 dicembre dopo essersi sentita male mentre passeggiava con il suo cane. Nelle ultime ore il suo agente Mike Pingel ha inviato un comunicato annunciandone la morte. La nota forniva anche dettagli e una dichiarazione del marito, Lance O’Brien: «Mentre le tenevo la mano nei suoi ultimi attimi ha aperto gli occhi». Ora invece la retromarcia, con Pingel costretto a precisare che l’informazione diffusa non era corretta. Non è chiaro cosa abbia indotto in errore il marito e di conseguenza l’agente. L’attrice è nota per aver interpretato il ruolo di Julie Rogers nella quinta serie tv «Charlie’s Angels» e la Bond Girl Stacey Sutton in «007 - Bersaglio mobile» (1985) con Roger Moore nei panni dell’agente segreto. Ha inoltre interpretato il ruolo della protagonista del film-cult «Sheena, regina della giungla». Tanya Roberts, pseudonimo di Victoria Leigh Blum, è nata a New York il 15 ottobre 1955. Secondogenita di un modesto venditore irlandese di penne stilografiche di Manhattan, Victoria-Tanya ha alle sue spalle due matrimoni. Ma il primo durò poco: sposò a soli 15 anni (1971) un ragazzo bohémien, con cui visse facendo l’autostop sulle strade americane. Matrimonio che finì con l’annullamento chiesto dalla madre di Tanya. Subito dopo, Tanya provò a fare la modella, ma il suo vero sogno fin da bambina era fare l’attrice. Nel frattempo conobbe lo studente di psicologia Barry Roberts, che sposò nel 1974. Mentre Roberts avrebbe intrapreso la carriera di sceneggiatore, Victoria pensò di iscriversi all’Actors Studio assieme a Lee Strasberg e Uta Hagen, sotto lo pseudonimo di Tanya Roberts, prendendo il cognome da suo marito. Al suo attivo come attrice, oltre ai già citati ruoli di Julie Rogers nella serie tv «Charlie’s Angels», a quello di Sheena nel film «Sheena, regina della giungla», e alla Bond girl Stacey Sutton in «007 - Bersaglio mobile», Tanya ha avuto un ruolo anche in un film italiano, «Storia d’armi e d’amori» (1983), regia di Giacomo Battiato. Lontana dal 2001 dalle luci della ribalta, nel 2006 era rimasta vedova del secondo marito, morto sessantenne a Los Angeles, e si era successivamente risposata.

Da ansa.it il 5 gennaio 2021. Tanya Roberts è ancora viva. Lo rivela TMZ. L'ex Bond Girl e Charlie's Angel era stata data per morta dopo essersi sentita male la vigilia di Natale. Il decesso era stato confermato dal suo stesso portavoce. Poche ore fa invece la smentita arrivata dall'ospedale di Los Angeles dove era stata ricoverata.  Ex Bond Girl negli anni Ottanta e Charlie's Angel in pensione, l'attrice californiana Tanya Roberts ha 65 anni. Era stata data per morta a causa di un malore improvviso mentre passeggiava con i suoi cani alla vigilia di Natale. L'attrice è nota per aver interpretato il ruolo di Julie Rogers nella quinta serie tv 'Charlie's Angels' e la Bond girl Stacey Sutton in '007 - Bersaglio mobile' (1985) con Roger Moore nei panni dell'agente segreto. Ha  inoltre interpretato il ruolo della protagonista del film "Sheena, regina della giungla".

Addio a Tanya Roberts: in bilico tra la vita e la morte, annunciata prematuramente, si è spenta a 65 anni. La Repubblica il 5 gennaio 2021. L'attrice, diventata molto popolare in tv nel ruolo di una delle Charlie's Angel e come Bond Girl al fianco di Roger Moore, era ricoverata in un ospedale di Los Angeles. Il decesso era stato precipitosamente annunciato mentre era ancora viva. Tanya Roberts, nelle scorse ore data per morta dal suo portavoce, Mike Pingel, che sconvolto dalle situazioni critiche dell'attrice aveva diffuso prematuramente la notizia poi smentita da fonti del nosocomio riportate dal sito TMZ, è ora deceduta. L'attrice, 65 anni, era stata colta da un malore alla vigilia di Natale ed era ricoverata in un ospedale di Los Angeles. Pingel, in un comunicato, aveva fornito dichiarazioni dettagliate del compagno di Roberts riferite a domenica sera, la sua ultima visita al Cedars-Sinai Medical Center di L.A.: "Mentre le tenevo la mano nei suoi ultimi istanti ha aperto gli occhi", raccontava Lance O'Brien, che ha però poi ricevuto una chiamata ieri dall'ospedale in cui gli veniva comunicato che la moglie era ancora viva, secondo quanto riferito dal portavoce. "Sono così felice", ha dichiarato il marito dopo aver ricevuto la telefonata della clinica, mentre stava rilasciando un'intervista alla CNN. Roberts, diventata nota negli anni Ottanta grazie a ruoli iconici come Julie Rogers nella quinta serie di Charlie's Angels e la Bond Girl, Stacey Sutton, in 007 - Bersaglio mobile (1985) insieme a Roger Moore, ha interpretato  anche Sheena, regina della giungla (1984), film tratto dall'omonima serie a fumetti.

(ANSA il 6 gennaio 2021) Tanya Roberts è morta per un'infezione del tratto urinario. Lo ha confermato il suo portavoce Mike Pingel. L'infezione si è poi estesa a reni, cistifellea, fegato e al flusso sanguigno. L'attrice, ex Charlie's Angels e Bond Girl, si era sentita male la scorsa vigilia di Natale mentre portava a spasso i suoi cani. Era stata ricoverata a Los Angeles e dopo essere stata data per morta prematuramente lunedì mattina, a causa di alcune dichiarazioni del compagno Lance O'Brien fraintese dal portavoce, è morta la sera dello stesso giorno. Aveva 65 anni.

DIETRO-DIETRO FRONT: TANYA ROBERTS È MORTA! DAGONEWS il 5 gennaio 2021. La bond girl Tanya Roberts è morta 24 ore dopo che il suo partner e il suo agente avevano dato l’annuncio prematuro del decesso mentre la donna era ancora viva in un reparto di terapia intensiva. Il caos è scattato lunedì quando l’agente dell’ex “Charlie’s Angels” ha dato l’annuncio della sua morte a 65 anni al Cedars-Sinai Hospital di Los Angeles. Ma in un'intervista il pomeriggio seguente il suo partner Lance O'Brien è scoppiato in lacrime dopo aver ricevuto in diretta una telefonata dall’ospedale: «Mi state dicendo che è viva?» ha detto singhiozzando O'Brien. Poi rivolgendosi all’intervistatore ha continuato: «L'ospedale mi sta dicendo che è viva. Mi stanno chiamando dal team ICU». Ma dopo quella chiamata TMZ ha confermato che Roberts è morta lunedì subito dopo le 21. Ma cosa ha generato il caos? O'Brien ha detto di essere andato in ospedale domenica dopo che i medici gli hanno detto che l'attrice stava peggiorando e che sarebbe morta. Ha raccontato che la donna ha aperto gli occhi, ha cercato di afferrarlo, ma poi li ha chiusi dopo quelle che ha creduto essere le sue ultime parole. Dopo quella scena O'Brien è uscito dall’ospedale senza parlare con i medici, convinto di aver assistito agli "ultimi momenti" di Roberts. «Era completamente svenuta. Pensavo fosse il suo ultimo momento, che non si sarebbe ripresa». Poco dopo ha chiamato il suo agente Mike Pingel, dicendogli che aveva appena salutato Tanya. Pingel in seguito ha rilasciato un comunicato stampa dicendo che Roberts era morta. «Lance credeva veramente che Tanya fosse morta» ha commentato Pingel dopo aver saputo che la donna stava ancora lottando in un letto di ospedale. Poche ore dopo la chiamata dell'ospedale che aveva riacceso la speranza. Un lumicino che si è spento poche ore dopo quando Tanya se n'è andata per sempre. Alla domanda sulla comunicazione errata, un portavoce di Cedars Sinai si è limitato a dire: «A causa della riservatezza del paziente non possiamo confermare o negare che qualcuno sia un paziente al Cedars Sinai».

·        E’ morto Ernesto Gismondi.

 ADDIO A GISMONDI L'IMPRENDITORE DELLA LUCE. Silvia Nani per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2021. Un anno fa esatto aveva festeggiato il sessantesimo compleanno della sua Artemide, il marchio di illuminazione che aveva fondato a Milano non ancora trentenne. Ernesto Gismondi ci ha lasciato l' altro ieri, 89 anni compiuti il giorno di Natale. Una vita spesa in nome della luce, con il punto fermo dell' innovazione, ma innestata in una creatività al centro della quale c' è l' uomo e i suoi bisogni. Accanto a lui, fino all' ultimo, la moglie Carlotta de Bevilacqua, architetta, designer, amministratrice delegata e vicepresidente di Artemide, ma soprattutto compagna di vita. Nato a Sanremo, studi classici da buona borghesia e poi l' arrivo a Milano, a studiare ingegneria aeronautica al Politecnico. Un uomo di scienza, pieno di curiosità e di voglia di esplorare che, dopo una seconda laurea questa volta in ingegneria missilistica, decise che il suo futuro sarebbe stato essere imprenditore. Il resto è entrato nella storia del design: il sodalizio con l' amico Sergio Mazza, architetto, con il quale in un interno di un palazzo di via Moscova dà vita ad Artemide. Un piccolo ufficio con un magazzino sul retro dove i furgoni potevano arrivare per caricare le lampade che producevano loro stessi «con le mani». Con un talento tecnico, da ingegnere, applicato alla costruzione della struttura e la visionarietà di aggiungere al progetto l'«aria del tempo». Quell'«aria» era il design. Lui stesso lo volle sperimentare, come sfida personale (agli inizi usando uno pseudonimo, e raccontava con un pizzico di civetteria delle acrobazie a cui era costretto quando qualcuno gli chiedeva chi fosse) per imparare a giudicare un progetto e a capire come lo giudica il mercato. Al design Gismondi attinse sempre a piene mani. Nomi come Vico Magistretti, Ettore Sottsass, Franco Albini, Gae Aulenti, Richard Sapper, Michele De Lucchi, solo per citarne alcuni, fino al recente sodalizio con Bjarke Ingels. Aveva solo 28 anni quando bussò coraggiosamente alla porta di Gio Ponti e nacque la lampada Fato. Negli stessi anni con Vico Magistretti creò la Eclisse, che valse nel 1967 ad Artemide il primo Compasso d' Oro e già mostra nella sua semplicità progettuale quell' attenzione all' utilizzatore (si può modificare a piacere l' effetto della luce solo facendo scorrere la calotta interna) che l' avrebbe guidato per tutta la vita. Dietro ogni oggetto si nasconde il valore che lui dava alle persone: chi avrebbe usato le sue lampade; i designer, di cui ricercava il talento con la consapevolezza che con lui avrebbero potuto esprimerlo; le persone della sua azienda, che sapeva unire, magari discutendo, ponendosi in modo a volte duro, esigente, ma in nome del fare squadra. Ogni giorno presente là dove dal 1971 nascevano le sue lampade, quella fabbrica a Pregnana Milanese sobria, quasi austera, rimasta sempre uguale a sé stessa. Nessuna archistar chiamata a trasformarla, per una precisa scelta di rigore: a parlare dovevano essere i prodotti, non l' architettura del luogo. Le «sue» lampade sempre nel cuore. Eppure uno spazio, e ampio, Ernesto Gismondi per il mare lo trovava sempre. La barca a vela, sua grande passione. Stare al timone, sentire la brezza, cogliere l' onda, soprattutto quando era in regata a bordo «Edimetra», nome che ha sempre dato a ogni sua imbarcazione e (guarda caso) nasconde «Artemide» scritto al contrario. Come logo, una «E.»: la stessa iniziale di Ernesto. I due grandi intrecci della sua vita: le competizioni velistiche dove - ha sempre dichiarato - gareggiava per vincere sfoggiando una scaramantica bandana rossa, e le sfide dell' innovazione della luce. L' ultima è stata nel 2018, con il sistema di lampade Discovery disegnato proprio da lui, che gli ha valso un Compasso d' Oro. Nella foto ufficiale la tiene in mano, un sorriso appena accennato, tra ironico e soddisfatto. Come per dire: a presto, al prossimo successo.

Silvia Nani per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2021. Carlotta de Bevilacqua, compagna di vita e alla guida di Artemide, è stata da oltre 30 anni sempre accanto a Ernesto Gismondi.

Una personalità sfaccettata, la sua: può sintetizzarcela?

«Un uomo di scienza, come nella tradizione della migliore cultura italiana. Un umanista che ha saputo parlare a tutti. Un uomo poliedrico e generosissimo, curioso, appassionato, pieno di energia».

Aveva quasi 90 anni ma ha saputo rimanere contemporaneo. A cosa si doveva questa capacità?

«Non aveva paura di portare il futuro nel presente, di innovare, in nome dell'uomo e delle sue esigenze. La scienza e la ricerca applicata unite alla bellezza. È stato tra i primi a intuire le innovazioni nella tecnologia della luce, a volere un'azienda sostenibile. Aveva un'intelligenza pragmatica, fortemente intuitiva e visionaria».

Ci racconta una sua caratteristica «privata»?

«Il suo senso di protezione e la capacità di saper accogliere: come ha sempre dimostrato con i figli, la famiglia e tutti i numerosi collaboratori in azienda».

Lei lo conobbe giovanissima, cosa la colpì?

«I suoi occhi. Nessuno dei due sapeva chi fosse l'altro. Mi colpì il suo sguardo. La luce che emanava».